L`apporto fornito dagli immigrati viene ormai giudicato da più parti

GLI AGENTI DELL'INTERAZIONE SOCIALE E CULTURALE
di Danilo Broggi
Presidente ApiMilano
Per gli immigrati l'iniziativa autonoma e imprenditoriale non costituisce un semplice sbocco lavorativo ma
una risorsa per le politiche di integrazione sociale ed economica nel nostro Paese
L’apporto fornito dagli immigrati viene ormai giudicato da più parti una necessità per la sopravvivenza del
sistema produttivo italiano in generale e lombardo in particolare. Tuttavia, allo stesso tempo, i cittadini italiani
continuano a guardare gli stranieri, soprattutto extracomunitari, con timore, a percepirli come potenziale fonte di
pericolo, secondo la ormai diffusa equazione immigrazione uguale criminalità.
La preoccupazione che, a livello sociale, circonda il tema deriva dalla massiccia presenza nel nostro Paese di
immigrati regolari ed irregolari. I dati più recenti, riferiti alla fine del 2000, parlano di oltre un milione e 700 mila
soggiornanti stranieri.
Le cifre dell’immigrazione in Italia e a Milano
I numeri dimostrano che ormai l’Italia – al pari della Germania, del Regno Unito e della Francia – è diventata una
terra di immigrazione stabile, anche se quanto a numero di immigrati siamo lontani dai 7 milioni e 300 mila della
Germania, dai circa 4 milioni della Francia ma non così tanto dalla Gran Bretagna, che ha una popolazione
immigrata di 2 milioni e 207 mila unità. In questi grandi Paesi l’incidenza sulla popolazione residente è più alta
rispetto a quella rilevata per l’Italia, ma quanto ai tassi di crescita annuale sembra che l’Italia abbia superato la
Francia e non sia così lontana dalla Gran Bretagna (più di 200.000 nuovi ingressi l’anno), mentre resta distanziata
dalla Germania (più di 600.000 l’anno, in buona misura anche per lavoro temporaneo).
Il nord sta sempre più diventando l’epicentro dell’immigrazione: il 55% degli immigrati in Italia si trova nelle
regioni settentrionali, con una forte prevalenza della Lombardia (308.408 stranieri) e, al suo interno, di Milano
che da sola accoglie oltre 174.000 immigrati.
Il capoluogo lombardo si conferma così, insieme a Roma, capitale italiana dell’immigrazione. In Lombardia, però,
i soggiorni per ragioni di lavoro sono il 72% del totale, nel Lazio poco più della metà. In particolare, i permessi
per lavoro dipendente scendono dal 58,9% nell’area lombarda al 45,7% in quella laziale. Particolarmente
significativa è la rilevanza del lavoro autonomo: nel 1998 sono stati rilasciati a Milano, a questo titolo, 11.739
permessi di soggiorno (l’8,6% del totale, a fronte del 3,9% in Italia), che costituiscono ben il 28,6% della richiesta
totale registrata sul territorio nazionale.
La forza di lavoro immigrata supera, nel nostro Paese, il milione di unità, oscillando intorno al 4% della forza
lavoro italiana totale. L’impatto sul mondo del lavoro è quindi molto più significativo dell’impatto sulla
popolazione residente (2,9%) e dimostra come la presenza immigrata sia innanzi tutto legata alla questione
lavorativa.
Secondo una recente ricerca Apimilano sull’inserimento lavorativo degli immigrati nelle imprese associate, il
numero di lavoratori extraeuropei impiegati dalle Pmi milanesi sfiora il 7%. In totale nelle nostre aziende sono
rappresentati 5 continenti su 6 (non sono segnalati cittadini dell’Oceania), con immigrati provenienti da 52 Paesi
di tutto il mondo. Una vera Babilonia di lingue, culture e religioni, che collaborano nel nome del lavoro. L’area
geografica maggiormente rappresentata è l’Africa (46,3%), seguita a distanza da Est europeo (26,3%), Sud
America (8,2%), Asia e Medio Oriente (entrambi al 6,7%), Europa Occidentale (5,1%) e Nord America (0,8%).
Le comunità più numerose sono quella marocchina (15,2%), quella albanese (12,7%), seguita da quelle egiziana
(11,2%), senegalese e tunisina (6,5%), rumena (6,2%).
Si tratta perciò, come i numeri dimostrano, di un fenomeno di tutto rispetto, e che è opportuno saper governare,
per uscire da un’ottica dell’emergenza non più appropriata. La migrazione dai Paesi poveri a quelli ricchi
costituisce, infatti, un fenomeno di lunga durata che, se nel breve periodo può subire qualche frenata, è destinata
in realtà a durare nel tempo, indipendentemente dagli avvenimenti e dalla volontà espressa dai Paesi ospitanti
attraverso una legislazione più o meno rigida. È un fenomeno duraturo, diventato ormai strutturale, congenito alla
nostra società, e che, senza alcun dubbio, crescerà nel tempo.
Nonostante questo, la diffidenza verso lo straniero rimane alta. Da una parte si cerca l’immigrato, necessario come
lavoratore; dall’altra, si teme il fenomeno migratorio per le implicazioni sociali che esso può generare.
Sicuramente, però, L’Italia e l’Europa non possono fare a meno degli immigrati e di una politica
dell’immigrazione. Il disagio strutturale dei Paesi d’origine degli immigrati continuerà a favorire i flussi
migratori. D’altra parte, all’interno dell’Unione perdurerà il bisogno strutturale di manodopera.
I lavoratori immigrati, dipendenti e/o autonomi, acquisteranno così sempre maggiori spazi e spetterà loro un ruolo
di complementarietà e non di concorrenzialità con i locali. Diventa allora indispensabile riuscire a meglio
inquadrare l’apporto dinamico dell’immigrazione e superare una visione puramente assistenziale di questi
lavoratori.
Il fenomeno del lavoro autonomo e imprenditoriale degli immigrati
La ricerca che la Camera ha commissionato all’Università Cattolica1 è interessante perché da conto di un
fenomeno emergente e che dimostra in maniera piuttosto chiara come l’Italia si stia avvicinando ai Paesi di più
lunga tradizione migratoria. Il fiorire di attività economiche fondate e gestite da immigrati è, infatti, uno degli
aspetti caratteristici del fenomeno migratorio, proprio quando questo giunge ad una fase più matura.
L’aspetto che, della ricerca, più pare interessante è relativo alla correlazione positiva tra il livello di istruzione e
l’inserimento nel lavoro autonomo e imprenditoriale. L’immigrato che avvia un’attività di lavoro autonomo si
colloca perciò tra i soggetti più forti, ovvero tra quelli che vantano titoli di studio e corsi di formazione
professionale in misura superiore agli altri. Soggetti che hanno spesso una minore disponibilità ad adattarsi a
lavori meno qualificati e mostrano una maggiore propensione alla ricerca di posizioni professionali più
confacenti. Le donne istruite, in particolare, sembrano quelle meno disponibili ad adattarsi a lavori inferiori alla
preparazione ricevuta e quindi più propense a tentare la via del mettersi in proprio.
Gli immigrati “qualificati” cercano perciò, in maggior numero, una strada per la propria riqualificazione, non solo
per quella lavorativa, ma anche e soprattutto sociale.
Le variabili importanti per facilitare tale processo sono certamente ricollegabili al possesso di un ampio “capitale
sociale” e all’inserimento in sistemi articolati di relazione sociale che travalicano la dimensione etnica; al
possesso di un buon livello di formazione professionale, di una buona determinazione nel perseguire un proprio
iter di integrazione grazie al lavoro, di una maggior propensione al cambiamento, di una più elevata capacità a
valorizzare le proprie competenze e capacità e di una particolare abilità a vivere in contesti multiculturali.
Nonostante queste caratteristiche aprano ai lavoratori autonomi immigrati la strada dell’integrazione lavorativa, la
ricerca mette in evidenza che l’integrazione sociale rimane ugualmente difficoltosa. Addirittura più complessa,
soprattutto perché si accentuano gli aspetti negativi dell’esperienza migratoria, con la conseguenza di produrre
una sofferenza tanto diffusa quanto inutile, legata soprattutto alla dimensione della dignità, più che alla privazione
di beni.
C’è quindi una certa divergenza tra il sistema di accoglienza e le istanze integrative degli immigrati che passano al
lavoro autonomo. In Italia, insomma, sarebbe più facile il processo di integrazione degli immigrati con poca o
nessuna qualificazione piuttosto che l’integrazione dei qualificati. Questo non succede in altri Paesi, dove è
sempre più evidente il nesso tra conoscenza e ascesa sociale e dove i lavoratori immigrati autonomi e qualificati
emergono come classe di lavoratori della conoscenza, a partire dalla quale si produce un rimescolamento della
stratificazione sociale. L’inserimento positivo di questo tipo di immigrati può e deve quindi anche essere
considerata una risorsa per le politiche di integrazione, purché tali politiche siano gestite con un approccio
strategico al tema.
È, infatti, un fatto inconfutabile che anche nella società milanese, tradizionalmente la più aperta all’integrazione,
molteplici meccanismi spingono gli immigrati ai margini della vita sociale ed economica. In tal modo essi
arrivano a costituire una presenza spesso quantitativamente imponente, che produce effetti tangibili, ma che resta
aliena e separata, posta al di fuori dei processi centrali di cambiamento delle società in cui vivono.
In questo gioco di spinte verso la globalizzazione e di tendenza alla marginalizzazione, gli imprenditori e i
lavoratori autonomi immigrati possono avere, di fatto, un peso decisivo. Essi, infatti, possono essere visti come
una sorta di enzima che moltiplica e diffonde nei punti nodali della società gli effetti dei processi di
globalizzazione e forme complesse di multiculturalismo, orientate alla gestione delle crescenti interazioni tra
sistemi, modelli di comportamento e valori, generando una complessiva convergenza dei modelli culturali, di
strutture della conoscenza, di intere forme di vita sociale e di importanti meccanismi di costruzione delle identità
collettive.
Gli immigrati autonomi non costituiscono perciò mere risorse umane alla ricerca di uno sbocco lavorativo, ma
anche importanti agenti della unificazione in grado di imprimere una accelerazione al processo di convergenza.
Note
1. Ricerca sul lavoro indipendente degli immigrati svolta nel 2001. Per maggiori approfondimenti si vedano i contributi, presenti in questo
numero, di E. Zucchetti, M. Martinelli e M. Bernasconi.