Foglio associato al sito internet www.teradesanmarc.altervista.org Numero 3 20 gennaio 2016 Tera de San Marc Munere clamoris fit Marcos imaga leonis Foglio di divulgazione storica, linguistica e culturale sulla Lombardia Orientale ex Veneta e la Repubblica di Venezia. Versione dei testi in koinè italiana (italiano) La Guerra della Lega di Cambrai – I parte Introduzione La guerra combattuta tra la Lega di Cambrai e Venezia durò all’incirca vent’anni dal 15 aprile 1509 al 13 agosto 1516 quando fu firmata la Pace di Noyon. Il teatro degli avvenimenti fu principalmente il territorio padano e anche se le alleanze mutarono nel 1511 per la costituzione della Lega Santa, gli intenti politici rimasero sostanzialmente quelli espressi inizialmente nel 1509. La Lega di Cambrai si formò il 10 dicembre 1508 a Cambrai (Francia) con l’alleanza tra lo Stato della Chiesa retto da Papa Giulio II, il Regno di Francia con Re Luigi XII, il Regno di Spagna con Ferdinando II d’Aragona, il Sacro Romano Impero germanico con Massimiliano I d’Asburgo, il Regno d’Ungheria, i Ducati di Savoia e Ferrara e il Marchesato di Mantova. L’ampia alleanza si era formata per contrastare lo strapotere, le mire espansionistiche e il dominio marittimo e commerciale della Serenissima che nei primi decenni del secolo precedente si era vista acquisire, per spontanee dedizioni e fortunate guerre, uno stato di terraferma che andava dal territorio bergamasco a quello friulano. Gli accordi stipulati durante le trattative della Lega di Cambrai avrebbero sancito, in caso di vittoria, la spartizione dei territori veneziani tra gli alleati. La guerra si sviluppò attraverso fasi alterne di vittorie e sconfitte per ambo le parti ma l’obiettivo della Lega non fu raggiunto e Venezia riuscì a mantenere il proprio dominio di terra pur subendo un forte contraccolpo economico e di prestigio. Infatti nei secoli successivi la sua capacità di espansione sulla terraferma fu definitivamente bloccata anche perché dovette impegnare le proprie forze (e finanze!) nella difesa dei domini costieri dell’Adriatico e del Mediterraneo minacciati costantemente dall’impero turco. Il Ducato di Milano, raggiunto il periodo di massimo splendore con il governo di Giangaleazzo Visconti verso la metà del XIV secolo, iniziò, nel secolo successivo e sotto gli Sforza, un rapido declino con la perdita di alcuni territori extralombardi e dell’autonomia politica. Infatti nell’aprile del 1500 Luigi XII, rivendicando diritti sul ducato per via della sua discendenza viscontea, passò le Alpi e a Novara sconfisse i milanesi sotto la guida del reggente Ludovico Sforza detto “il Moro”. In questo quadro politico, a partire dal marzo del 1509, i francesi, ormai ben saldamente insediati a Milano con il governatore Carlo d’Amboise, cominciarono ad effettuare incursioni nel territorio bergamasco (Isola e Geradadda) con il supporto delle milizie ducali assaltando paesi e contrade. Il 15 aprile 1509 un esercito della lega sotto la guida del d’Amboise passò l’Adda a Cassano e assaltò Treviglio mentre contemporaneamente nella zona dell’Isola scorrerie di guarnigioni seminavano panico e violenza tra la popolazione civile incapace di opporsi se non in modo disorganizzato. Questi fatti fecero fare al conflitto un salto di qualità. Infatti il grosso dell’esercito veneziano (circa 40.000 uomini provenienti da tutto il dominio veneto) si La bergamasca e la Geradadda nel XVI secolo raccolse sull’Oglio presso Pontevico il 28 aprile sotto la guida dei cugini Orsini (il conte Niccolò di Pitigliano e Bartolomeo d’Alviano) per tenere consiglio di guerra alla presenza dei due provveditori veneziani Andrea Gritti e Giorgio Corner. Il 2 maggio l’esercito veneziano levò così le tende dirigendosi verso la Gera d’Adda. La Battaglia di Agnadello La Battaglia di Agnadello (paese della Geradadda) fu una delle più significative battaglie della Guerra della Lega di Cambrai e una delle maggiori battaglie delle cosiddette ‘Guerre d’Italia’. Il 2 maggio 1509 l’esercito veneziano mosse da Pontevico in direzione di Milano con l’ordine del senato di evitare lo scontro diretto ma di creare una linea difensiva di contenimento militare sul fiume Adda e sul ponte di Cassano. Quando giunse in prossimità di Treviglio iniziò la riconquista della città nella quale era stata lasciata una guarnigione di soldati francesi a scopo di presidio ma che dovette soccombere. Il grosso dell’esercito francese, 30.000 soldati effettivi comprensivi di 6.000 fanti svizzeri comandati dal maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, si era infatti ritirato di nuovo in territorio milanese e alla notizia della reazione veneziana si mosse subito, sotto la guida di Luigi XII, di nuovo verso Cassano oltrepassando l’Adda nella notte del 9 maggio. I due eserciti si trovarono così uno di fronte all’altro molestandosi con l’artiglieria per tre giorni. All’alba del 12 maggio i francesi levarono il campo e marciando lungo il fiume raggiunsero Rivolta d’Adda mettendola a ferro e fuoco, attaccando in seguito anche Casirate. Tera de San Marc Numero 3 – 20 gennaio 2016 Pur con gli eserciti molto vicini tra loro, i due capitani, il Pitigliano (capitano generale) e l’Alviano, si attennero alle direttive del senato veneziano e non azzardarono il contrattacco ma, il 13 maggio, volsero con i loro due eserciti da Treviglio verso sud per portarsi in difesa di Vailate, Pandino e Crema con la strategia di costringere i francesi a seguirli facendoli allontanare da Treviglio e tenendoli sul fiume a guardia di Milano. In questo modo inoltre avrebbero potuto affrontare un attacco garantendosi il vettovagliamento dai paesi alle loro spalle. Durante il trasferimento il grande esercito veneziano aveva formato una colonna lunga oltre cinque chilometri e il 14 maggio la retroguardia condotta dall’Alviano fu attaccata a Cascina Mirabello, presso Agnadello, dalla cavalleria francese dello Chaumont. Inizialmente i veneziani riuscirono a sostenere l’attacco godendo il favore di alcuni fattori di campo. Infatti l’Alviano, forte di ben 8.000 soldati, si dispose sul crinale di un naturale pendio della campagna circostante il cui terreno era inzuppato di acqua per le continue piogge del periodo, e respinse gli attacchi della cavalleria francese e della fanteria svizzera del Trivulzio incapaci di un’azione efficace. Nel frattempo l’Alviano inviò la richiesta d’intervento al Pitigliano che si trovava in marcia diverse miglia più a sud. Il Pitigliano però negò l’aiuto e s’impuntò a seguire gli ordini del senato continuando la propria marcia verso Crema. Il gesto fu determinante e infausto: benché l’esercito veneziano fosse in posizione favorevole, da Rivolta d’Adda arrivò di spron battuto Luigi XII per dirigere di persona le operazioni militari con il resto dell’esercito. I francosvizzeri circondarono i veneti su tre fronti e in tre ore di cruenta battaglia sbaragliarono l’esercito veneziano facendone fuggire la cavalleria e catturando l’Alviano già ferito in battaglia. Sul luogo persero la vita più di 14.000 soldati. Il Pitigliano ricevette notizia dell’accaduto nella sera dello stesso giorno e le sue truppe, formate prevalentemente da mercenari, disertarono entro il mattino successivo cosicché dovette ritirarsi dalla Lombardia con quelle rimastegli. Venezia perse in un colpo solo quasi tutto il suo esercito e il dominio di terra orientale. Oltretutto, negli stessi mesi, le armate germaniche di Massimiliano I calarono da nord lungo la Val Lagarina e senza colpo ferire occuparono Verona, Vicenza e Padova, e contemporaneamente il Duca di Ferrara invadeva il Polesine. Intanto a Bergamo si discuteva aspramente se difendere La mappa con gli eserciti schierati, tratta da un rapporto veneziano la città o arrendersi ai francesi che la stavano minacciando. Il provveditore Marino Zorzi esortò la cittadinanza a resistere per fedeltà a Venezia ma le fazioni ghibelline (già fortemente antiveneziane) si espressero invece a favore di una resa pacifica che avrebbe salvato la città dalla guerra anche perché l’esercito veneziano si era sfaldato e non avrebbe potuto soccorrere in alcun modo i bergamaschi. Di fronte all’incertezza dell’intera cittadinanza un gruppo di ghibellini, con una mossa a sorpresa e a tradimento, si presentò a Caravaggio dal re Luigi XII e, in veste di ambasciatori, consegnarono un atto di dedizione della città di Bergamo ai francesi (17 maggio 1509). Il 18 maggio una guarnigione di francesi entrò in città con i ghibellini e il nuovo governatore, l’odiatissimo marchese Antonio Maria Palavicino. I capitani d’arme del periodo Il Cinquecento, oltre al Pitigliano e all’Alviano famosi in Italia come condottieri, gli eventi bellici che seguirono allo scoppio della guerra della Lega di Cambrai videro la partecipazione di uomini d’arme che divennero in seguito dei miti imperituri. Tra di essi si annovera Pierre du Terrail de Bayard detto “il Baiardo” – per antonomasia “il Cavaliere senza macchia e senza paura” al servizio del re di Francia. Il Baiardo incarnò la figura del cavaliere prode e valoroso e si narra che fu presente sia ad Agnadello, dove condusse l’attacco decisivo delle milizie sotto la regia di Luigi XII, che a Marignano sei anni più tardi in un’altra famosa, decisiva e vittoriosa battaglia. Altri capitani di ventura impavidi ed esperti nel mestiere delle armi diventati poi dei miti furono: Giovanni dalle Bande Nere che combatteva per le milizie papali e Gastone di Foix che difese strenuamente le conquiste francesi di Luigi XII seguite alla vittoria di Agnadello. Tutti si coprirono di gloria morendo in battaglia. Durante la guerra della lega di Cambrai persino il Papa Giulio II, chiamato in seguito “il papa guerriero”, cavalcava in testa alle sue truppe durante le battaglie. Trovò morte proprio in una di esse e precisamente nell’assedio di Mirandola (ora in provincia di Modena) il 21 febbraio 1513, dove lo si vide scalare valorosamente le mura della città tra i primi del suo esercito. La riscossa della Lombardia Veneta Dopo la sconfitta di Agnadello e con le truppe imperiali a Padova, per la Repubblica di San Marco sembrava arrivata la fine trovandosi a contrastare il mondo intero di allora, cioè quasi tutte le potenze europee. Ma proprio sul punto di crollare si destarono i sentimenti nazionalistici dei veneti, e la diplomazia veneziana, che non aveva mai comunque cessato di agire già dall’inizio del conflitto, fece il resto. Grazie alla riscossa dei contadini giunti a Padova da tutto il contado circostante e dalle truppe veneziane sotto il comando del provveditore di origine lombardo orientale Andrea Gritti, il 17 luglio 1509 Padova veniva fulmineamente ripresa. Massimiliano I però non si arrese e la mise sotto assedio per un mese e mezzo fino al 29 settembre 1509 ma senza esito. Il 24 febbraio 1510 Venezia concludeva una pace con il solo Papa Giulio II, pace che si tramutò poi nella Lega Santa contro francesi e germanici, rei di essersi addentrati troppo profondamente in Italia. Avrebbero infatti potuto minacciare anche i domini pontifici. Ridestati gli animi dei governanti veneziani le milizie della Serenissima si mossero subito alla riconquista dei territori 2 Tera de San Marc Numero 3 – 20 gennaio 2016 persi partendo dalle città venete. I paesi della Lombardia veneta e delle vallate orobiche, dopo aver subito soprusi, spogliazioni di beni e di effigi marciane già dall’inverno del 1509, fomentavano di ribellarsi ai francesi. Brescia, avvantaggiata dal fatto che il grosso le truppe dell’esercito francese era impegnato in quel momento nell’Emilia, insorgeva contro i suoi occupanti e il 2 febbraio 1512 apriva le porte al provveditore e al suo esercito giunto dal Veneto riconquistato. Molti abitanti di Martinengo e di Romano marciarono su Bergamo e vi entrarono con altri bergamaschi giunti in aiuto. Non mancò però la controffensiva dei ghibellini bergamaschi filofrancesi che confermò la dedizione della città al re di Francia. Tuttavia non fu abbastanza per fermare le sollevazioni: il presidio militare francese fu isolato e torme di valligiani inferociti invasero la città dando fuoco agli edifici di pubblico consiglio con totale distruzione di atti e registri ufficiali vendicandosi così dell’usurpazione autoritaria dei ghibellini (4 febbraio 1512). Un contingente del nuovo esercito veneziano rientrava così a Bergamo. Ma la vicenda non era del tutto conclusa e all’annuncio della ripresa di Brescia e Bergamo da parte di Venezia l’esercito francese, in quel momento impegnato a Bologna, ritornò in Lombardia a marce forzate sotto il comando di Gastone di Foix e con gran furore ne soffocò la ribellione ordinando saccheggi e devastazioni in tutti i paesi che passavano. Brescia subì un triste destino mentre Bergamo fu risparmiata per clemenza dello stesso Gastone e i ghibellini tornarono a spadroneggiare sotto l’egida del re di Francia sui guelfi filo-veneziani (19 febbraio 1512). Il 12 aprile 1512 Gastone di Foix perdeva la vita valorosamente in battaglia a Ravenna disfacendo l’esercito della Lega Santa e assoggettando tutta la Romagna ai francesi, ma proprio da quel giorno le sorti della guerra iniziarono a cambiare a favore delle potenze schierate nella santa lega nella quale erano confluiti anche l’imperatore Massimiliano I e il re di Spagna Ferdinando II. La Francia sentendosi isolata e minacciata anche dalla Spagna dovette richiamare tutto il suo esercito in Piemonte liberando tutto il Lombardo-Veneto, l’Emilia e la Romagna. Così Milano tornò sotto gli Sforza di Massimiliano figlio di Ludovico il Moro mentre Bergamo e Brescia sotto la Serenissima (9 giugno 1512). – (Fine della prima parte) Storia della I Guerra Mondiale sul fronte orientale I Parte – I dibattuti confini d’Italia Nel 1866, dopo le due sconfitte italiane nelle battaglie di Custoza e di Lissa (isola in Dalmazia ora Vis) e la vittoria franco-prussiana a Sadowa in Boemia, l’Italia vinse la guerra contro l’Austria-Ungheria e ottenne ciò che non era riuscita ad ottenere nel 1859, cioè gran parte del nord-est italiano tra Veneto e Friuli. Si concluse così nel bene e nel male la supposta ‘III Guerra d’Indipendenza’. Rispetto alla II del 1859 la vicenda degli eventi bellici e delle trattative di pace fu molto più complicata e per certi aspetti sconcertante e imbarazzante. Infatti la conquista dei territori veneti e friulani fu ottenuta per transazione dalla Francia per concessione del re Napoleone III e fu concretizzata dopo un formale plebiscito che vide 647.246 voti di consenso contro 69 voti contrari all’unificazione. Tuttavia i voti furono ottenuti sotto un clima di intimidazione e di occupazione militare che forzarono e decisero l’esito in modo irrispettoso delle reali volontà popolari e antiliberale. L’Italia era finalmente fatta ma per alcune frange di intellettuali non era completata: mancavano il Trentino, l’Alto-Adige e la Venezia Giulia (Gorizia, Trieste e l’Istria) ancora sotto il controllo austriaco e del Canton Ticino svizzero, senza considerare Roma che vi rientro quattro anni più tardi. Ma non solo: l’irredentismo italiano, che iniziò proprio in quel periodo a influenzare l’opinione pubblica e a inquinare le coscienze degli italiani, puntava all’annessione di tutti gli ex territori veneziani della Dalmazia. Nasceva così la questione del confine Vittorio Emanuele III, Re d’Italia nordorientale d’Italia che non ha mai trovato soluzione neppure dopo 150 anni di unificazione e 2 guerre mondiali. Soluzione che del resto non esisteva e non esiste se si considerano le composizioni etniche storiche dei suddetti territori e la loro morfologia. Lo slogan dell’«Italia irredenta» che bollava quei territori implicava qualcosa di sacro e di destinato: la patria era sacra perché formata sotto il dominio romano, evangelizzata dalla Chiesa Cattolica che aveva in Roma la sua sede, la ‘città eterna’, e centro della sua storica, giuridica e politica amministrazione. E fu addirittura Dante nella (neanche a farlo apposta) ‘Divina’ Commedia che fornì una concisa definizione del confine nordorientale. Ripresa da Mazzini e Garibaldi prima, e poi dal padre della dialettologia italiana (Graziadio Isaia Ascoli, l’inventore anche del termine ‘Venezia Giulia’), la questione si ingigantì fino a subire un duro colpo nel 1882 quando l’Italia firmò il trattato della Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria che durò fino al maggio del 1913. Come si sarebbe infatti potuto redimere quei territori, in maggioranza sotto il controllo dell’impero asburgico, senza far guerra e strappandoli addirittura a un alleato? La questione pareva quasi irrisolvibile e minava la stabilità dell’alleanza stessa. II Parte – Alla vigilia dell’entrata in guerra Negli ultimi decenni dell’Ottocento l’Italia, con i suoi 35 milioni di abitanti, era il sesto stato più popoloso d’Europa (la Russia ne aveva quasi 170 milioni, mentre la Germania ne aveva 68, l’Austria-Ungheria quasi 52, la Gran Bretagna 46 e la Francia 40). La classe media era molto ristretta: solo il 5 per cento della popolazione. Circa il 40 per cento della popolazione attiva lavorava la terra (c’erano 9 milioni di lavoratori agricoli con i loro dipendenti, che vivevano in condizioni di sussistenza), mentre il 18 per cento erano artigiani od operai. La società civile era praticamente formata da un esile strato di 3 Tera de San Marc Numero 3 – 20 gennaio 2016 intellettuali (avvocati, commercianti, professionisti, religiosi, funzionari, militari) e di capitalisti (industriali, proprietari terrieri) sotto cui languiva una ingente massa di operai, contadini e manovali, non emancipati, quasi tutti analfabeti, non parlanti italiano e solo sporadicamente forniti di una consapevolezza politica. Così il nuovo stato appariva molto arretrato negli indici economici e nella struttura sociale ma nonostante questo le ambizioni di prestigio e di potenza animavano le alte sfere dei politici e degli intellettuali, e tanto più se erano irredentisti. L’Italia voleva diventare uno stato politicamente forte in Europa e per farlo, invece di riformarsi e trasformarsi internamente, cercò di espandersi all’esterno prendendo parte alla folle e disumana corsa al colonialismo in nome del progresso e della civilizzazione dei popoli arretrati e, naturalmente, dell’usurpazione e della rapina di risorse e ricchezze naturali dei paesi assoggettati. Dopo le incoscienti e sciagurate imprese coloniali del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia) e della Libia, con Giovanni Giolitti al governo tra il 1892 e il 1914, l’Italia cominciò a entrare decisamente in una fase di crescita industriale e di modernizzazione infrastrutturale con oltretutto la riduzione del deficit commerciale. Purtroppo Giolitti era detestato dai nazionalisti (irredentisti), dai democratici e anche dai socialisti per la sua politica troppo ripiegata sui problemi interni, poco rivolta all’espansionismo e noncurante nel propagandare la grandeur della stirpe italica e del suo glorioso passato. Nel 1914 a Giolitti succedette Antonio Salandra che con il ministro degli esteri Sidney Sonnino furono i due principali protagonisti e responsabili dell’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del 1915 se non si considera il ruolo del re Vittorio Emanuele III che avvallò senza riserve l’operato dei due politici. Dopo l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno 1914, iniziò il duro braccio di ferro tra l’AustriaUngheria (fortemente fomentata dalla Germania) e la Serbia, per il rispetto di determinate condizioni imposte da Vienna a Belgrado sia come compensazione per i fatti accaduti ma anche per cercare un pretesto per accendere il conflitto. Il continuo rifiuto di Belgrado a subire ingerenze nella propria sovranità portò alla dichiarazione di guerra del 28 luglio 1914. Sapendo bene che l’Italia si sarebbe opposta a una guerra nei balcani, gli alleati tennero all’oscuro il governo italiano di ogni consultazione e di ogni comunicazione in corso. Allo scoppio della guerra cominciarono però le pressioni sull’Italia affinché entrasse in guerra come alleata della Triplice, ma oltre al fatto che l’alleanza era fortemente fondata sul principio della difensiva e non dell’attacco, il rifiuto italiano a entrare in guerra non era assolutamente condannabile sia dal punto di vista del diritto che per il fatto grave che era stata deliberatamente esclusa dalle consultazioni e non informata sulle trattative in atto con la Serbia. L’Italia annunciò così ufficialmente la sua neutralità il 3 agosto. La neutralità portò però a un conflitto d’opinione interno tra neutralisti (capeggiati da Giolitti) e interventisti (capeggiati da varie illustre personalità tra cui D’Annunzio, Marinetti e Mussolini) che eccitò il clima politico e sociale della nazione. L’On. Giovanni Giolitti Lentamente quindi l’iniziale passiva neutralità, benché inattaccabile e conveniente, si trasformò in una disponibilità a schierarsi a seguito di opportune compensazioni con l’intento di farsi una ragione superiore, o ‘di Stato’, per entrare in guerra. E le compensazioni non potevano che essere l’acquisizione immediata dei territori irredenti quasi interamente in mano all’impero asburgico. Iniziò quindi un’intensa trattativa con gli austriaci che non giunse però a un accordo finale. Nel contempo però anche i franco-inglesi alleati nell’Intesa con Russia e Serbia, tentarono di accaparrarsi il sostegno italiano. L’aspetto sconcertante era che i negoziati a doppio binario con Londra e Vienna erano condotti da Salandra e Sonnino con il parlamento tenuto all’oscuro di tutto. Il Patto di Londra con l’Intesa fu firmato il 26 aprile 1915 e il parlamento venne informato cinque giorni dopo ad accordi conclusi. Non solo: sotto la minaccia di una crisi di governo e con il re che appoggiava l’operato del primo ministro, il parlamento dovette addirittura ratificare l’entrata in guerra. Con il sostegno del re, Salandra e Sonnino avevano messo in atto quello che a tutti gli effetti fu un colpo di stato. L’Italia entrò così in guerra il 24 maggio 1915 in quella che fu definita come la III Guerra d’Indipendenza: una guerra che costò enormi sacrifici di uomini e mezzi ben oltre l’immaginabile. Tera de San Marc Foglio di divulgazione storica, linguistica e-culturale sulla Lombardia Orientale ex Veneta e la Repubblica di Venezia. A cura di Serğ Gigant www.teradesanmarc.altervista.org e-mail: [email protected] La grafia adottata per i testi in dialetto bergamasco, bresciano, cremasco e cremonese non è quella tradizionale dei corrispondenti dialetti ma è una grafia innovativa unitaria denominata ‘GLOVU’ (Grafia Lombardo Orientale-Veneta Unitaria). I dialetti bergamasco, bresciano, cremasco e cremonese usati, con alcune normalizzazioni grammaticali, sono indicativamente quelli delle corrispondenti città capoluogo di Bergamo, Brescia, Crema e Cremona. La lingua adottata per i testi in lingua veneta è invece il dialetto veneziano del Sette-Ottocento, normalizzato e assunto come koiné veneta in considerazione del prestigio letterario, economico e socio-politico che lo ha caratterizzato in quei secoli. La grafia adottata per la sua scrittura è sempre la GLOVU. Avvertenza per la lettura dei testi: le lettere sottolineate sono etimologiche e puramente grafiche e non vanno pronunciate. 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