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anno C
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supplemento a
Tempo di Natale
Natale del Signore
Santa Famiglia
Madre di Dio
Epifania
Battesimo di Gesù
n. 45 del 9/12/2012
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Famiglia a tutto tondo
ricca compagine dell’arte cristiana
N ella
medievale e moderna, le rappresentazioni della Sacra Famiglia pongono la necessità di riflettere su una palese discordanza:
ciò che la tradizione ha tradotto in opera
d’arte, quello che noi vediamo nei dipinti con
questo tema, non coincide con quanto è descritto dal testo evangelico. L’impressione,
d’acchito, è che gli artisti si siano mossi del
tutto autonomamente, quasi a prescindere
dalla lettura dei Vangeli canonici. Perché, infatti, nei loro quadri, Giuseppe e Maria non
sono alla ricerca angosciata del figlio scomparso da giorni, così come Luca racconta? Perché Gesù è ancora un infante tra le braccia
dei suoi genitori e non il dodicenne che rivendica per sé, come tutti gli adolescenti, spirito
d’iniziativa e libertà d’azione? Le età dell’arte
precedenti alla nostra sapevano bene che, in
tema di sacre rappresentazioni, le uniche variazioni consentite dovevano interessare la
“forma” (i particolari del paesaggio di fondo,
i tratti di una figura o gli orpelli di un abito),
con apporti personali degli artisti che, lungi
dal discutere la verità della Parola, potevano
ugualmente distinguersi dettagliando la trasposizione dell’evento sacro secondo gradi differenti di profondità estetica e teologica.
A discolpa degli ignari trasgressori, occorre
precisare che la festa della Sacra Famiglia
non si lega a un particolare evento dell’infanzia di Gesù, cui essi avrebbero dovuto attenersi con scrupolo, bensì a un’idea “istituzionalizzata” dalla Chiesa solo nel 1895. Papa
Leone XIII, allora, aveva colto i fervori di un
sentimento antico che vedeva nella famiglia
il fulcro della vita cristiana, il modello di riferimento di ogni sistema sociale, il tempo dell’incontro costante con Dio in un sodalizio
d’amore imprescindibile. Per secoli, quel sentimento di fede ha sentito di ritrarre la Sacra
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ascolto e annuncio
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Famiglia negli amorevoli sguardi che una giovane fanciulla rivolge al suo bambino mentre,
insieme al marito, ella gli si stringe attorno
nell’intimità di una piccola Chiesa domestica.
Sono gli stessi sguardi colmi di attenzioni che
leggiamo nel Tondo Doni della Galleria degli
Uffizi di Firenze, realizzato dal Buonarroti fra
il 1503 e il 1507, per celebrare le nozze del
mercante Agnolo Doni con Maddalena Strozzi
o, come “desco da parto”, per ben augurare
loro la nascita di un figlio. Si tratta di un dipinto, forse l’unico di Michelangelo che ci sia
pervenuto su tavola e integro, fuori dai canoni
conclamati di quei maestri (Luca Signorelli,
ad esempio) che avevano pure fatto ricorso
alla forma circolare del supporto pittorico.
L’idea, infatti, di includere le figure in un cerchio – segno di perfetto equilibrio e di suprema armonia – era già nella mentalità del
Rinascimento, ma Michelangelo supera qualsiasi avanzo della tradizione annullando la
superficie piatta della tavola e tramutandola
in una trasparente sfera di cristallo nella
quale le immagini sono davvero esseri dotati
di un corpo, uomini che si sono affrancati
dalla mera rappresentazione per calarsi totalmente nella verità del “mondo” cui anche
noi apparteniamo. In questo spazio condiviso,
il muro da cui sporge il piccolo Battista e che
corre orizzontalmente lungo tutto il dipinto
come una sorta di diametro equatoriale, distingue la Sacra Famiglia dalle figure alle sue
spalle. Chi sono quei nudi? Angeli senz’ali o
profeti? Fauni di un’orgia dionisiaca o efebi
pagani simbolo dell’umanità ante Legem?
Monoliti ancora legati all’aspra roccia che li
ha generati, recano testimonianza di un’età
del frazionamento, dell’indifferenza, dell’errata convinzione che si possa fare comunità
pur rimanendo distanti dagli altri, senza, cioè,
essere vicini veramente, non col solo contatto
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dei corpi, ma con lo spirito. Non si curano del
pudore, della sensibilità di chi li osservi né, soprattutto, dell’evento che sta compiendosi fra
loro e noi. Il muro che contiene quelle figure
non solo le rigetta indietro, relegandole sullo
sfondo, ma le colloca a un livello più basso
della coscienza, al punto che, se provassimo a
raggiungerle, rischieremmo di inciampare e
di perderci, alla fine, la bellezza di
quanto sta compiendosi proprio
davanti ai nostri occhi.
È, dunque, a coloro che vogliono porsi sullo stesso
nostro piano che dobbiamo rivolgere la
più benevola attenzione. Giuseppe è
un saggio virilissimo che sovrintende la scena con
ferma presenza; il
Bambino è ritratto
nella torsione di un
piccolo Ercole, preso
dalla “fatica” dei suoi
primi giochi; la Vergine, che siede sul prato
come una Madonna dell’Umiltà, anticipa, con le sue braccia scoperte, le sibille dalla mascolina
bellezza che Michelangelo ritrarrà nella volta
della cappella Sistina. In virtù dello schema
compositivo a linea elicoidale o “serpentinata”, il gruppo della Sacra Famiglia è così
armoniosamente annodato che il nostro occhio non può non notare il legame di gesti e di
sguardi che unisce i suoi membri. Il viso della
Madre riluce di una dolcezza intensa, della
«meravigliosa contentezza» di chi tiene gli
occhi «fissi nella somma bellezza del Figliolo».
Questi, da parte sua, le dona il faccino limpidamente tornito a icona di amore filiale,
corpo e spirito. Giuseppe, contrariamente a
quanto capiti di vedere in altri dipinti, non ricopre un ruolo vicario, non è in disparte, chino
sul suo bastone. Egli, anzi, è il monumentale
blocco nel quale la Madonna e Gesù sono ricavati di perfetta misura. Michelangelo immagina la famiglia santa non già nella stereotipia della “posa da santino”, bensì nel-
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l’atto di compiersi in unità, prima, cioè, che i
personaggi si raggelino, così come purtroppo
capita di constatare nelle nostre famiglie, in
un’aria dai valori rarefatti, nella formalità di
atteggiamenti costruiti, nella parata di un’esistenza che ha perso l’amore e, con esso, il suo
baricentro. Il dipinto ferma, semmai, un autentico istante di sana vita coniugale, in cui
Giuseppe, senza distrarsi, segue il Bambino mentre scivola tra le braccia
della Vergine. La critica si è
spesa diffusamente nel cercare di capire se non avvenisse il contrario: se
non fosse Maria a
porgere Gesù a Giuseppe.
La scena è costruita con maestria dall’artista,
pensata per insinuare il dubbio
senza che vi si possa
trovare una definitiva
soluzione. Del resto,
perché tentare di darne
una? Nella famiglia di Nazaret, paradigma meraviglioso di ogni “famiglia” cristiana,
non ci sono personalismi, pretese di assolutizzare i bisogni dell’uno a scapito dell’altro. È un donarsi totale e insieme: solo da questo derivano l’orgoglio e la forza necessaria
per lasciar cadere le incomprensioni e le difficoltà che pure dovettero superare Giuseppe
e Maria (dalla fuga in Egitto al mistero delle
parole di Gesù: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del
Padre mio?»). Eppure, lo sguardo di Giuseppe
è attentissimo e severo, è fiero come quello di
chi ha accolto nel suo cuore il Figlio di Dio venuto nella carne e si è responsabilmente caricato del grave peso dell’amore paterno. La
Madonna chiude sulle sue gambe il libro delle
preghiere: non è più la Vergine leggente delle
Annunciazioni. Adesso è Madre e lascia che il
figlio giochi con lei, col nastro fra i suoi capelli.
Tonino Nuccio
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nota introduttiva
Natale
del Signore
stupefacente frammento di questa
N ello
esaltazione isaiana l’oggetto della meraviglia, cantata con squillante gaiezza e partecipe emozione, sono a ben guardare due piedi,
dettaglio anatomico di cui viene esaltata la
bellezza prima che da essi le parole corrano a
scolpire il ritratto del messaggero a cui appartengono. Si dice naturalmente in questi
casi della forza retorica della metonimia, di
una parte di qualcosa che viene presa per
esprimere il tutto a cui appartiene, ma scelta
quasi per produrre un bagliore più circoscritto
e più scintillante. Saranno piene l’Odissea e
l’Iliade. Ma questi piedi fatti oggetto protagonista di un’acclamazione di felicità così ardente stanno soprattutto sulla strada di quella
tradizione che ha imparato a prendere la
carne umana come tracciato geografico per la
ricerca di quanto nella storia porta i segni del
Dio dell’alleanza. Testimonianze di questa attitudine stanno ovunque nel racconto biblico.
Nascono dalla scoperta – biblica per eccellenza – che il vero crocevia delle grandi
umane interrogazioni, tese e trepidanti, sembra essere il corpo dell’uomo, luogo dei bisogni elementari come dei desideri definitivi, organo sensitivo delle differenze qualitative che
abitano l’esperienza, ma anche catalogo delle
ferite che il tempo incide nella carne della
vita. È appunto attorno alla sorte del corpo che
le potenti metafore della fede biblica fanno
ruotare tutte le loro speranze. È il corpo a nutrire per noi l’irragionevole pretesa di durare,
non l’anima.
Sicché il Dio dell’alleanza si fa trovare proprio
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Anno C
25 dicembre 2012
Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14
sul quel crocevia ogni volta che la sua passione
per l’uomo matura l’intenzione di compiersi
come incontro. L’autore della Lettera agli ebrei,
in questa specie di elogio a Cristo dalle tonalità scopertamente escatologiche, lo lascia trapelare tra le cortine d’incenso della sua lingua
sacerdotale: Dio ha per molto tempo lasciato
campo ai suoi profeti, eroiche controfigure
della sua parola viva, ombre umane dell’invisibile luce divina ma, nel tempo maturo dell’alleanza nuova, l’Altissimo decide che la sua
ultima definitiva parola sia la carne del suo Figlio, Dio in persona. Questo Figlio, di carne e di
sangue, viene accreditato come «irradiazione
della sua gloria» e «impronta della sua sostanza».
Di questa intronizzazione della carne umana
al centro delle divine strategie di alleanza Giovanni espone, nello stesso tempo, la lirica e la
teoria, la grazia poetica di un inno intriso di
una densità teologica senza precedenti. Il linguaggio è ancora quello gnostico che, parlando
di luce e di tenebre, sembra risolvere tutto in
un semplice itinerario della conoscenza. Ma la
sostanza è inequivocabile: quando Dio si decide per la relazione storica, egli scende nella
carne umana. L’irragionevole pretesa di durare, che sale per noi dalla nostra carne mortale, incontra sulla propria strada questo discendere di Dio. Il Figlio sta proprio al centro
di questo reciproco imbattersi. Interprete e riflesso della spassionata eleganza divina. Signori si nasce.
Giuliano Zanchi
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messaggio biblico
Un Dio tutto per noi
Per molti questa notte ha un sapore “agrodolce”: “dolce”, perché si fa memoria della
nascita di un bambino del tutto speciale: il
«Salvatore del mondo»; “agro”, perché –
come diceva mio padre, scienziato positivista ateo – si tratta di «una delle più belle favole che siano mai state raccontate» e che,
in quanto tale, suscita nell’animo una
grande nostalgia. In realtà, se si leggono attentamente i testi del Nuovo Testamento,
gli autori insistono molto sulla veridicità e
sulla storicità degli eventi da loro narrati.
Nella seconda lettera attribuita a Pietro si
legge: «Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù
Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché
siamo stati testimoni oculari della sua grandezza» (2Pt 1,16).
Dio mantiene le promesse
Nel prologo del suo Vangelo, Luca fa sapere
al destinatario del suo scritto, che egli
chiama Teofilo (che vuol dire “colui che
ama Dio”), di aver fatto «ricerche accurate
su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato» per il suo illustre lettore, in modo che egli possa rendersi conto «della solidità degli insegnamenti» ricevuti (Lc 1,3-4).
L’evento della nascita di Gesù è inquadrato
da Luca entro precise coordinate storicogeografiche: al tempo in cui «Quirinio era
governatore della Siria» (Lc 2,2) fu emanato
un decreto di Cesare Augusto, che ordinava
di fare il censimento del suo impero. Tutti
andavano dunque a farsi censire nella propria città. Anche Giuseppe, che era della
casa di Davide, dalla Galilea scese a Betlemme per farsi censire «insieme a Maria,
sua sposa, che era incinta».
In questi pochi versetti in realtà si condensa tutta una storia di secoli: le promesse
divine fatte alla casa di Davide, che sembravano smentite dai fatti storici. La dinastia davidica infatti era decaduta e con essa
tutte le speranze di liberazione e di restaurazione del regno di Israele.
Ma nel sottofondo, come la brace che arde
ancora sotto la cenere, era rimasta viva l’attesa di un intervento divino in favore della
casa di Davide, come avevano preannunciato i profeti: «Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide» (Is
55,3); «Ecco, verranno giorni – oracolo del
Signore – nei quali susciterò a Davide un
germoglio giusto che regnerà da vero re e
sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra» (Ger 23,5); «Infatti così
dice il Signore: “Non mancherà a Davide un
discendente che sieda sul trono della casa
d’Israele”» (Ger 33,17); «In quel giorni rialzerò la capanna di Davide, che è cadente; ne
riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine»
(Am 9,11).
Sul trono di Davide, si erano seduti dei re
ingiusti e iniqui (tranne Ezechia e Giosia),
che avevano portato il suo casato alla rovina. Lo stesso Davide non è stato esente
dalla colpa, ma si è macchiato del duplice
peccato di adulterio e di omicidio (cf. 1Sam
11). Tuttavia, sia lui che i suoi discendenti
sono nominati nella lunga genealogia di
Gesù che Matteo pone all’inizio del suo
Vangelo.
In questa lista di nomi non si dice che Davide generò Salomone da Betsabea, ma «da
quella che era stata la moglie di Uria» (Mt
1,6). L’evangelista dunque non glissa e non
sorvola sul peccato di Davide, ma sembra
piuttosto che lo voglia richiamare alla memoria del suo lettore.
Ma il Signore non si arrende. Con la stessa
argilla di un vaso malriuscito, sa trarre ancora qualcosa di bello e di buono (cf. Ger
18,2-6). Un messaggio di speranza anche
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messagio biblico
per noi. Il monaco psicoterapeuta Anselm
Grün scrive: «La “spiritualità dal basso” affronta la domanda su che cosa dobbiamo
fare quando tutto va storto, su come trattiamo i cocci della nostra vita, a come da
essi traiamo qualcosa di nuovo (...). La spiritualità dal basso descrive, in primo luogo,
i passi terapeutici da fare per giungere al
nostro vero essere; in secondo luogo, essa è
la via religiosa che, attraverso l’esperienza
del fallimento, porta alla preghiera, al
“grido dal profondo” e a una relazione profonda con Dio» (Grün A. - Dufner M., Spiritualità dal basso, Brescia 2006).
L’“Agnello Pastore”
Il fatto che Giuseppe, «uomo giusto» (Mt
1,19), sia della «casa di Davide» suscita un
moto di speranza. Egli si reca con Maria,
sua sposa, che era incinta, alla città di Davide, chiamata Betlemme. Ma proprio
quando si trovano lì si compiono per lei i
giorni del parto. Il viaggio a Betlemme è
stato motivato apparentemente dal censimento, ma in realtà perché Gesù doveva nascere a Betlemme, la città di Davide, affinché si compisse la Parola data per mezzo
del profeta Michea: «E tu, Betlemme di
Efrata, così piccola per essere fra i villaggi
di Giuda, da te uscirà per me colui che deve
essere il dominatore in Israele, le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti» (Mi 5,1).
Alla lontananza da casa e alla scomodità del
viaggio, si aggiunge un altro disagio, dal
momento che «per loro non c’era posto nell’alloggio». Ma, ancora una volta, quella che
a noi può sembrare una mancanza di provvidenza da parte del Padre, in realtà si trasforma in messaggio eloquente che suo Figlio ci rivolge, prima ancora di poter parlare. Se, nel suo primo discorso indirizzato
alle folle, Gesù dichiara «beati i poveri», lui
stesso per primo, sin dalla sua nascita, è
stato solidale con i poveri.
In quella notte, oltre a Giuseppe e a Maria,
i pastori vegliano «facendo la guardia al
loro gregge».
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L’antico inno orientale Akathistos crea un
bellissimo gioco di parole tra i pastori e il
Bambino, che viene chiamato l’“Agnello Pastore”: «I pastori sentirono/ i concerti degli
angeli/ al Cristo disceso tra noi./ Correndo a
vedere il Pastore,/ lo mirano come agnellino
innocente/ nutrirsi alla Vergine in seno,/
cui innalzano il canto:/ Ave, o Madre, all’Agnello Pastore,/ Ave, o recinto di gregge
fedele./ Ave, difendi da fiere maligne (inno
Akathistos, 7).
Davanti all’angelo che appare loro, i pastori
sono scossi da un fremito di timore, ma egli
li rassicura dicendo: «Non temete: ecco, vi
annuncio una grande gioia, che sarà di tutto
il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato
per voi un Salvatore, che è Cristo Signore»
(Lc 2,10-11). La “gioia” è uno dei temi ricorrenti in Luca che fa da grande inclusione
al suo Vangelo. All’inizio infatti l’angelo
dice a Zaccaria riguardo al figlio che gli nascerà: «Avrai gioia ed esultanza, e molti si
rallegreranno della sua nascita» (Lc 1,14).
Maria è salutata dall’angelo che la invita a
gioire: «Rallegrati, piena di grazia...!» (Lc
1,28). Alla fine del Vangelo si dice che gli
apostoli «tornarono a Gerusalemme con
grande gioia» (Lc 24,52).
Gesù a Betlemme – che significa «Casa del
pane» – viene posto in una mangiatoia,
quasi a voler già preannunciare che egli si
farà pane per la vita del mondo. L’angelo
infatti parla ai pastori del Salvatore che è
nato «per voi». La stessa cosa dirà Gesù del
pane da lui spezzato: «Questo è il mio corpo
che è dato per voi» (Lc 22,19).
Gesù è interamente, senza risparmio e
senza condizioni, quel Dio che è tutto «per
noi». E come dice Paolo: «Se Dio è per noi,
chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni
cosa insieme a lui?» (Rm 8,31-32).
Certi di queste parole, gustiamo la dolcezza
di questa notte santa, che possa veramente
essere del tutto dolce per noi e per tutti quegli uomini «che Dio ama».
Cristina Caracciolo
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dal vangelo alla vita
La notizia più bella
Chi può rispondere alla sete di felicità che ci portiamo dentro? Di cosa
abbiamo bisogno davvero? Di un Bambino «deposto in una mangiatoia».
«Quanno nascette Ninno a Betlemme, era
notte e pareva miezojuorno...». Così recitano
i versi di un canto popolare attribuito a s.
Alfonso Maria de’ Liguori. Così è stata e
continua ad essere, per grazia di Dio, la
storia della nostra famiglia. La nascita di
Cristo ha squarciato la notte e ha dato
significato al nostro desiderio e alle nostre
domande.
Cosa cerchiamo? Chi può rispondere alla sete
di felicità che ci portiamo dentro? Di cosa
abbiamo bisogno, davvero? Il mistero lo sa e
conosce bene il nostro cuore, perché è suo.
Ecco allora che risponde in una maniera
inaspettata. Un bambino. Si fa uomo come
noi. Tutto il nostro desiderio di vita, di
pienezza, di significato ci è venuto incontro.
La nostra vita con la nascita di Cristo nei
nostri cuori è cambiata così: era notte e
subito dopo tutto è diventato più chiaro,
quindi più vero. La vita si è riempita di una
Bellezza che genera stupore e commuove. Si
colora di gratitudine. Ricordo ancora lo
sguardo fra me e mia moglie quando ci
capitò di leggere Ezechiele (36,26): «Vi darò
un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno
spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di
pietra e vi darò un cuore di carne». Ecco, il
Natale è questo cuore nuovo donato. Cristo,
entrando nella nostra storia, ci ha tolto il
cuore di pietra e ci ha dato un cuore di carne.
È stato un nuovo inizio. Anzi l’incontro con
Cristo ha generato e continua ogni giorno a
generare un inizio sempre nuovo.
Ma la cosa più sconvolgente è che non
abbiamo rinunciato a nulla e che tutto è
diventato più vero; non ci è stato chiesto
nulla e tutto acquista significato. Di fronte a
questo evento di grazia, dobbiamo solo
spalancare il nostro cuore e mettere in gioco
la nostra libertà come risposta alla richiesta
di amicizia di Cristo.
Certo, come i pastori furono presi da grande
timore quando l’angelo si presenta e la luce
del Signore li avvolge, anche noi spesso
proviamo la stessa esperienza. Come se
quella luce non sia riuscita ancora ad
illuminare tutta la nostra vita e a squarciare il
buio delle nostre resistenze.
C’è però una compagnia che ogni giorno ci
dice: «Non temete». È la Chiesa. È lei che
continua ad annunciare che Gesù è la vera
felicità, la pace, l’amore, la gioia, la vita, e lo
è per sempre.
Quante volte, la mattina prima di uscire o la
sera durante la cena, lavorando o studiando,
oppure guardando il tempo che scorre, ci
accorgiamo che, senza quella presenza che si
è fatta carne, tutto il nostro fare perde di
significato. Ma, al tempo stesso, quante
volte ci sentiamo riabbracciati dal «bambino
deposto in una mangiatoia»!
Nella nostra esistenza, come persone e come
famiglia, abbiamo sempre più bisogno «di
luci vicine – di persone che donano luce
traendola dalla Sua luce ed offrono così
orientamento per la nostra traversata».
Questa frase di Benedetto XVI è diventata
per noi fonte di preghiera, perché Cristo ci
doni luci vicine capaci di farci stare tra le
vicende del mondo con lo sguardo rivolto
verso quella luce che, al tempo di Augusto,
«avvolse i pastori» e che ancora oggi avvolge
i nostri cuori e la nostra storia.
Ecco una piccola richiesta a Gesù, come
quando da piccoli scrivevamo la letterina di
Natale: «Caro Gesù bambino, per questo
Santo Natale fa’ che nelle omelie i nostri
sacerdoti ci parlino di te, e non del natale
consumistico. Fa’ che possiamo riascoltare la
notizia più bella di tutte: Dio è venuto ad
abitare in mezzo a noi. Fa’ che possiamo
insieme, in questo Natale, piangere di gioia,
perché tu, Cristo – attesa del nostro cuore,
pienezza dei nostri desideri –, ci sei venuto
incontro. Grazie, Gesù».
Carla e Franco Pietrosanti
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nota introduttiva
Domenica
della S. Famiglia
la storia della salvezza passa attraA nche
verso umane vicende di generazione, nelle
quali il mettere al mondo un uomo consegnandolo alla vita richiede la gestione sapiente di
inevitabili transiti di iniziazione. Nella vita non
si entra di punto in bianco senza affrontare soglie di progressiva approssimazione al suo mistero. Essa di fatto anticipa la nostra entrata
in scena con la trascendenza dei legami che ci
ospitano, delle memorie che ci precedono, delle
promesse che ci avvolgono fin dal primo raggio
di luce che abbiamo la grazia di vedere. Ci
deve essere anche il momento nel quale cominciamo a volere quello che abbiamo ricevuto, ad assumere come responsabilità personale quello che ci è stato consegnato come
dono di altri, a incidere il nome proprio della
nostra libertà sulle vicende che ci legano alla
storia di tutti. Significa diventare grandi. Prendere il proprio posto. Iniziare a essere in tutto
e per tutto uomini. Gli effetti critici della dissoluzione che, nella nostra cultura, hanno patito i grandi passaggi iniziatici, disciolti nel pedagogismo senza frontiere dell’eterno presente
dove nessuno ha più un’età precisa, si vedono
nelle disperate e irresponsabili invenzioni con
cui le nuove generazioni vanno procurandosi
da se stesse prove iniziatiche per emergere
dalla confusione della fanciullezza di massa.
Quelle di Samuele e di Gesù, pur intrise della
loro aura teologale, sono storie di iniziazione
umana. Anche il futuro Profeta, come il Figlio
di Dio, devono prima di tutto diventare uomini.
Il processo si manifesta sempre come una lotta.
Certamente, come racconta bene la vicenda di
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ascolto e annuncio
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30 dicembre 2012
1Sam 1,20-22.24-28
Sal 83
1Gv 3,1-2.21-24
Lc 2,41-52
Samuele, richiede una sapiente consapevolezza dei generatori, capace di prendere la giusta iniziativa. Se non si svezza il cucciolo non
nasce l’uomo. Ma, come ci mostra la vicenda
di Gesù, si tratta anche di attraversare inquietudini, accettare definitive recisioni, ritirarsi
verso un lato solo della realtà perché qualcuno
possa avere un posto da prendere. Quando non
succede – come si sa –, il cucciolo resta intrappolato per sempre in una cintura affettiva
che è solo una forma più piacevole della morte.
Mettere al mondo significa perdere. Non è solo
una questione di competenza psicologica. È
anche la radice teologale di tutti i legami che
intrecciano la vicenda umana con le intenzioni
di Dio. La stessa creazione nasce dallo spazio
lasciato libero da un Dio che accetta di ritirarsi
in un angolo perché qualcosa possa ospitare
altre libertà. La storia umana comincia solo
dopo una drammatica vicenda di iniziazione
fatta di serpenti che mentono e di uomini che
sospettano. Siamo diventati uomini lì. Nel bene
e nel male. Nell’attesa della vera grande iniziazione umana del Figlio, consumata come
prova ultima di libertà personale, imitazione
perfetta della paterna attitudine a fare spazio.
È lì che possiamo vedere «quale grande amore»
è stato necessario al Padre di Gesù per accettare – con ancora più profondo smarrimento
di Maria e Giuseppe – la grande soglia di signorile presenza umana attraversata dal Figlio. Perdendo lui, ci ha presi tutti per figli.
Giuliano Zanchi
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messaggio biblico
Il Gesù feriale
N ella messa del giorno di Natale siamo
stati trasportati dall’evangelista Giovanni in
quel “tempo senza tempo” prima che il
mondo fosse, quando il Logos era presso
Dio, il Figlio unigenito era tutto rivolto
verso il Padre. La liturgia di questa prima
domenica dopo Natale ci mostra Gesù dodicenne, che spiazza i suoi genitori, angosciati per averlo cercato per tre giorni e ritrovato infine nel tempio in mezzo ai dottori della Legge, e che risponde loro: «Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose
del Padre mio?» (Lc 2,49). Il Verbo, facendosi carne, ha svuotato se stesso della sua
divinità, «assumendo una condizione di
servo, diventando simile agli uomini» (Fil
2,7), ma in Gesù dodicenne comincia a farsi
strada l’idea di avere un rapporto privilegiato con Dio, che egli da subito chiama il
«Padre suo», dichiarando ai suoi genitori di
doversi occupare delle sue cose.
La centralità di Gerusalemme
Nel prologo del Vangelo di Giovanni si dice
che «la Legge fu data per mezzo di Mosè»,
mentre «la grazia e la verità vennero per
mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Ora, Gesù
che interroga e risponde ai dottori della
“Legge” (= i primi cinque libri della Sacra
Scrittura che, in un certo senso, la rappresentano tutta), ci fa capire che, prima di
portare l’annuncio inedito della sua “Buona
Notizia”, egli interroga e si confronta con le
Scritture ebraiche.
Nella narrazione lucana dell’episodio della
trasfigurazione l’evangelista annota che
Gesù discorreva con Mosè ed Elia, che rappresentano la sacra Scrittura (Mosè la
«Legge» ed Elia i «Profeti») e «parlavano
del suo esodo, che stava per compiersi in
Gerusalemme» (Lc 9,31). È alla luce della
categoria biblica dell’«esodo» che Gesù interpreta il suo mistero pasquale.
Al termine del Vangelo di Luca, il Risorto si
fa esegeta delle sacre Scritture dichiarando
che si dovevano compiere tutte le cose
scritte su di lui «nella Legge di Mosè, nei
Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44), che rappresentano la forma tripartita della Bibbia
ebraica: Legge, Profeti e Scritti. Questa è la
cornice più ampia del Vangelo di Luca (che
leggeremo in questo anno del ciclo B) in cui
inserire il brano di oggi.
La pericope odierna ci presenta i genitori di
Gesù che, come ogni anno, si recano a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Non è
però una Pasqua come le altre, perché Gesù
ha dodici anni. Questa informazione che ci
offre l’evangelista non sembra avere un significato particolare. In realtà, il testo allude a quella cerimonia che rende un fanciullo ebreo di circa dodici anni un «figlio
del precetto», perché da questo momento
in poi egli assume la responsabilità dell’osservanza dei «precetti» della Torah.
Quando è l’ora di riprendere la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimane a Gerusalemme. La menzione di Gerusalemme fa da
grande inclusione di tutto il Vangelo che
comincia nel tempio con l’annuncio dell’angelo Gabriele a Zaccaria (cf. Lc 1,5-23) e
si conclude ugualmente nel tempio dove gli
apostoli stavano sempre, lodando Dio (cf.
Lc 24,52-53). Gran parte del ministero di
Gesù poi si colloca all’interno del grande
viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51).
Anche l’inizio degli Atti degli apostoli è ambientato a Gerusalemme, dove si trovano
gli apostoli «perseveranti e concordi nella
preghiera insieme ad alcune donne e a
Maria, la madre di Gesù» (At 1,14).
Questa ambientazione gerosolimitana di
molti punti nevralgici della narrazione lucana non è un dato meramente geografico,
ma riveste un importante significato teologico: Dio è fedele alle sue promesse e non
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messagio biblico
smentisce la sua Parola data «per bocca dei
suoi santi profeti di un tempo», come canta
Zaccaria nel Benedictus (Lc 1,70). Il Signore
Gesù, parola eterna di Dio fatta carne, appena dodicenne, rimane nella città santa,
perché, come dice Is 2,3, è da Gerusalemme
che «uscirà la parola del Signore».
Al ritorno da Gerusalemme, dopo un
giorno di cammino, i genitori si accorgono
che Gesù non è con loro. Allora lo cercano
tra parenti e conoscenti, ma non lo trovano. Talvolta anche nella nostra vita sembra che il Signore si nasconda. Forse allora
è il momento per noi di uscire da tutti i luoghi comuni dove crediamo di poterlo trovare. Questo potrebbe essere per noi il significato simbolico di quei “parenti e conoscenti” tra i quali non si trova Gesù, che
sono anche tutti i tentativi di addomesticare il Vangelo e di ridurlo ai nostri piccoli
schemi mentali.
Custodire la Parola
Gesù viene trovato «nel tempio, seduto in
mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano
pieni di stupore per la sua intelligenza e le
sue risposte». Gesù ascolta e interroga i
maestri, ma anche lui viene da loro interrogato, perché si dice che essi rimasero stupiti per le sue risposte.
Anche sua madre e suo padre, al vederlo,
«restarono stupiti». A questo punto prende
la parola sua madre, che gli rivolge un dolce
rimprovero: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo». Penso che per tutte le mamme sia
facile riconoscersi nelle parole della madre
di Gesù. Ma qui Luca ci dipinge Maria come
colei che, pur essendo stata dichiarata da
Elisabetta «beata» perché ha creduto nell’adempimento di ciò che le ha detto l’angelo, deve ancora fare un cammino di fede
che la porterà a diventare da madre a discepola del suo stesso Figlio, come ci ricorda la Redemptoris mater secondo la
quale anche Maria «avanzò nella peregrinazione della fede» (n. 12).
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ascolto e annuncio
9 dicembre 2012 - n° 2
Quel bambino, che aveva stretto al suo seno
e aveva tenuto tra le braccia, ora che è dodicenne le ricorda che non le appartiene,
perché egli appartiene totalmente al Padre
e al suo disegno di salvezza per gli uomini.
Alle parole di Gesù però i suoi genitori «non
compresero ciò che aveva detto loro». Di
“sua madre”, prima che l’evangelista taccia
su di lei lungo tutto il suo Vangelo, si dice
che «custodiva tutte queste cose nel suo
cuore». È la seconda volta che Maria ci
viene presentata da Luca come colei che custodisce nel suo cuore tutto ciò che riguarda
il mistero del suo Figlio. La prima volta è
nella scena della natività, quando tutti si
stupiscono delle cose dette ai pastori dall’angelo riguardo al bambino. E l’evangelista annota: «Maria, da parte sua, custodiva
tutte queste cose, meditandole nel suo
cuore» (Lc 2,19).
Poi, l’evangelista, con poche parole, in
modo estremamente conciso, dipinge il
quadro dei lunghi anni della vita di Gesù a
Nazaret, dove sta sottomesso ai suoi genitori. Forse questo è uno dei misteri più
grandi della vita di Gesù, che non consiste
tanto in ciò che ha fatto, ma in ciò che non
ha fatto. Per circa trent’anni ha vissuto
nella sua piccola città come tutti gli uomini,
lavorando come carpentiere e frequentando
di sabato la sinagoga. Gli autori apocrifi si
sono sbizzarriti nel tentativo di colmare
questo vuoto. Gli evangelisti invece tacciono su questi anni nascosti e segreti vissuti umilmente da Gesù all’interno del proprio nucleo familiare nella ferialità e nella
quotidianità. Sarà proprio questo dato che
susciterà lo scandalo dei suoi concittadini
che diranno di lui: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Ioses,
di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non
stanno qui da noi?», e l’evangelista annota:
«Ed era per loro motivo di scandalo» (Mc
6,3).
Quella della Santa Famiglia di Nazaret sia la
nostra icona ispiratrice all’inizio di questo
nuovo anno liturgico.
Cristina Caracciolo
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dal vangelo alla vita
Essere genitori
Comprendere che perfino la famiglia di Nazareth ha attraversato le difficili
fasi dell’essere genitori, per noi credenti è un conforto importante.
Il vangelo di questa domenica propone una
riflessione sulla famiglia, sull’essere genitori e
sull’essere figli.
Durante la nostra vita di coppia, abbiamo letto
molte volte questo passo evangelico e
ascoltato tante riflessioni in merito ad esso,
ma mai, come in questo momento, ci siamo
sentiti così vicini a quella coppia di genitori in
ansia per aver perso di vista il loro figlio.
Siamo diventati mamma e papà da sei mesi e ci
siamo resi conto che l’arrivo di un figlio, da un
lato, presuppone una scelta consapevole,
ovvero l’essere pronti ad accogliere una nuova
vita di cui prendersi cura e da educare, ma che,
dall’altro, porta alla scoperta di una parte di se
stessi di cui prima non si aveva consapevolezza
e stimola a sviluppare modi di pensare, di
sentire e di percepire completamente nuovi.
Da questo punto di vista, i versi di Luca
acquistano un significato profondo da leggere
sotto l’aspetto emotivo ed affettivo. L’ansia,
l’angoscia e le aspettative disilluse contenute
nella frase «Figlio, perché ci hai fatto così?»
ora, da genitori, si comprendono appieno e
altrettanto profondamente si coglie l’idea che,
per quanto si possa essere un genitore
competente, i figli non saranno mai una copia
delle nostre aspettative, ma persone con una
propria identità, una propria personalità e un
proprio pensiero.
Oggi per noi è semplice pensare o progettare
le scelte di nostra figlia, ancora così piccola e
indifesa, e sarà facile, con l’andare del tempo,
fantasticare sull’immagine ideale che ci si
costruisce dei propri figli. È un investimento
affettivo importante essere genitori perché
inconsapevolmente proiettiamo sui figli i
nostri sogni, le nostre speranze e le
aspettative che a volte si rivelano molto più
elevate di quelle che abbiamo per noi stessi.
Tutto questo se, da una parte, ci porta ad
essere stimolo e sostegno per la crescita dei
figli, dall’altra, ci può far perdere di vista il fine
ultimo e il compito educativo principale che
spetta a noi genitori: rendere una persona
autonoma, capace di scelte mature e
testimone di quei valori che la nostra
educazione le ha trasmesso.
Non è affatto un compito semplice, ma
comprendere che perfino la famiglia di
Nazareth ha attraversato le difficili fasi
dell’essere genitori, per noi credenti è un
sostegno ed un conforto importante. Non
tanto perché ci mostra l’umanità di una coppia
di genitori come Maria e Giuseppe, quanto
perché ci permette di scoprire il loro stile
educativo offrendoci un modello cui ispirarci
nei momenti di difficoltà e di sconforto.
Chissà quante volte anche noi, come Maria,
dovremo «serbare tutte queste cose» nei
nostri cuori, soprattutto quando non
riusciremo a comprendere alcune scelte o
comportamenti di nostra figlia e
probabilmente ci sarà un momento in cui
affideremo lei e noi stessi allo sguardo vigile
e amorevole di Gesù perché supplisca alle
nostre debolezze e alle nostre incapacità!
Essere genitori non è semplicemente
l’acquisizione di uno status. È piuttosto
un’opportunità per una crescita reciproca e
permanente nel rapporto di coppia e con i
figli. Quegli stessi figli che Dio ci ha affidato
affinché ne avessimo cura e li aiutassimo a
realizzare il progetto che lui ha scelto per
loro.
Questo è quanto come genitori ci proponiamo
di realizzare con i nostri figli: educarli ad
essere persone in grado di esprimere al
meglio le loro potenzialità, di mettere a
frutto i loro talenti e di essere testimoni
credibili dei valori in cui credono. Questo,
tuttavia, presuppone un continuo lavoro di
revisione personale e di coppia e un
atteggiamento fiducioso verso Colui che ci ha
chiamati ad essere genitori. Un giorno, ci
verrà chiesto conto del nostro operato e della
nostra fedeltà alla chiamata vocazionale che
ci è stata rivolta divenendo genitori.
Chiara e Salvo Licciardello
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GIORDANO FROSINI
Pietro Scoppola
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Pietro Scoppola (1926-2007) era un uomo di
scienza, che ha lasciato ai posteri un metodo da non
dimenticare. L’autore individua i momenti salienti
dell’ampia e profonda produzione di uno dei principali esponenti del cattolicesimo democratico. Con
riconoscenza verso una figura a cui si è ispirato nella
giovinezza, egli intende sostenere, attraverso la sua
memoria, la comunità cristiana che non rinuncia a
riflettere nell’arduo frangente contemporaneo.
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nota introduttiva
Maria santissima
madre di Dio
fine, il grande carro della Storia, appeA llasantito
dalle masserizie dei potenti e accompagnato dai clangori della sua marcia,
viene pur sempre trascinato dal quotidiano invisibile sforzo delle miriadi di umani che continuano a fare cose semplici come incontrarsi,
amarsi, accudirsi, mettere al mondo dei figli, sognare per essi un futuro decente, prendersi cura
del loro presente, vegliare accanto ai propri
compiti, custodire le minuscole tenaci speranze
di tutti i giorni. Se non ci fossero questi qui, il
mondo sarebbe già finito. La Storia sarebbe uno
spettacolo già chiuso da tempo. Senza repliche.
Invece, grazie a Dio, dai secoli dei secoli, gli esseri umani persistono, con quell’inerzia animale
che non è semplicemente automatismo biologico, nella convinzione che il senso della vita e
la volontà divina si incontrano nell’incanto dell’amore e nella grazia della generazione. A questa ostinata linea di continuità, che è come la
scia profumata dell’originario gesto creativo, il
trambusto della geopolitica come l’affollato pollaio delle persone veramente importanti, non
portano un centimetro di ampiezza in più. Coprono semplicemente, col frastuono sterile delle
loro convulsioni, il leggero mormorio delle generazioni che continuano a trasformare in
carne, viva e personale, il soffio originario dello
spirito. Finché ci sarà anche un solo nuovo essere umano a cui dover dare un nome, la Storia
ha un vero futuro.
La rivelazione del Dio di Gesù, nel compimento della creazione e come primizia della
redenzione, entra in scena accettando di affiorare da uno di queste miriadi di gesti gene16
ascolto e annuncio
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Anno C
1° gennaio 2013
Nm 6,22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21
rativi, identica nell’unicità che resta propria
di ogni nascita umana, benché unica nell’identità di questo parto divino destinato a
rendere il tempo pieno, saturo, colmo fino all’orlo della grazia che l’Altissimo vuole da sempre per la sua creazione. Il racconto evangelico incornicia perfettamente questa divina ferialità che prende l’abito ordinario delle attese
umane. Ne fa una narrazione silenziosa, bucolica, traboccante di pudore, ridotta all’essenziale, in cui alla tenerezza di un padre e di
una madre per il proprio figlio corrisponde la
candida meraviglia di gente normale, distratta dal proprio lavoro solo dalla grazia irresistibile di un bambino appena nato. Nessun
miracolo. Succede sempre così. In tutte le case
umane.
La pienezza del tempo, alla fine, la misurano
tutti contando la lucentezza di questa immateriale moneta. I figli che siamo stati. I generatori che vorremmo essere. La grazia degli affetti che ci tiene nel perimetro di quello che è
umano. Nell’arbitrario conteggio del tempo,
nel quale approfittiamo per fare bilanci e tirare delle somme, siamo tutti più sensibili –
esultando di sorpresa – per quei legami che
hanno tenuto e siamo tutti più avviliti – con
costernato rimpianto – per quelli che abbiamo
perso per strada. La sensazione è precisa: la
volontà di Dio si compie quando riusciamo a
restare umani. Nella speranza che serve a
dare la vita, come nel coraggio necessario a
mantenere la pace.
Giuliano Zanchi
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messaggio biblico
Madre perché credente
L a notte di Natale abbiamo lasciato i pastori con gli occhi rapiti davanti alla visione dell’esercito celeste che lodava Dio e
diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e
sulla terra pace agli uomini che egli ama»
(Lc 2,14).
I cieli si congiungono con la terra nel
giorno in cui, giunta la «pienezza dei
tempi», il Figlio di Dio nasce «da donna»
(Gal 4,4). Colui che «i cieli e i cieli dei cieli»
non possono contenere (1Re 8,27), Maria
lo ha portato nel suo grembo e lo ha partorito nel silenzio umile e discreto della notte
santa. Colui che regge l’universo, giace piccolo, fragile e indifeso in una mangiatoia!
Quando gli angeli si allontanano dai pastori, questi si dicono l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo
questo avvenimento che il Signore ci ha
fatto conoscere» (Lc 2,15). C’è un “avvenimento” che il Signore non fa conoscere ai
sacerdoti del tempio, agli scribi e ai farisei,
ma ad una delle categorie più povere, ignoranti ed emarginate esistenti in Israele a
quel tempo: i pastori. Gesù stesso un giorno
gioirà ed esulterà nello Spirito Santo perché il Padre ha tenuto nascoste «queste
cose ai sapienti e ai dotti» e le ha «rivelate
ai piccoli» (Lc 10,21).
I pastori sono dunque spettatori privilegiati di uno dei misteri più grandi nella storia della divina rivelazione che essi chiamano “avvenimento”, in greco rèma, che significa sia fatto, avvenimento che parola,
come l’ebraico dabar che, a seconda dei
contesti in cui ricorre, si può tradurre con
fatto, o con parola. Si tratta di un termine
che, nel testo originale in lingua greca, ricorre per ben tre volte all’interno di questa
narrazione, cosa che invece si perde nella
traduzione italiana.
La seconda volta si riferisce alla “parola”
che è stata detta ai pastori circa il bambino
e la terza volta a «tutte queste cose» che
Maria custodisce meditandole nel suo
cuore. Dal verbo greco (symballô) – che traduciamo con “meditava” – deriva il termine italiano “simbolo”. Cosa fa il simbolo? “Mette insieme” (questo è il significato letterale del verbo) una data cosa con
alcuni significati cui essa rimanda. Maria
mette insieme tutti i fatti e le parole riguardanti suo Figlio, accostandoli l’uno all’altro e, probabilmente, anche agli eventi e
alle parole della storia del suo popolo. Potremmo dire che Maria è la prima “esegeta”
della nuova alleanza, il cui cuore, prima ancora di quello dei discepoli di Emmaus nell’udire l’esegesi delle Scritture fatta loro dal
Risorto, arde segretamente nel suo petto.
Così i pastori vanno, senza indugio, e trovano «Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia». Non c’è un quadro
più semplice di questo e, al contempo,
tanto sublime! Una donna, un uomo e, in
mezzo a loro, un bambino. Anche se il
bimbo non fosse il Figlio di Dio incarnato,
questa sarebbe già da sola una scena che
ha del “divino”. Ne facciamo tutti esperienza quando ci troviamo davanti a quell’alone di mistero che avvolge un bambino
appena nato!
Da notare che il narratore menziona Maria
prima di Giuseppe, quasi a voler mettere
in rilievo quel rapporto unico ed esclusivo
che lega questo bambino a sua madre.
Dare carne alla Parola
Se la Vergine Maria è “madre di Dio” in
modo del tutto unico e speciale, nondimeno tutti i discepoli del Figlio suo sono
in qualche modo chiamati ad essere “madri
di Dio”. Quando, un giorno – come ci racconta l’evangelista Marco –, «giunsero sua
madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo», Gesù risponde: «“Chi
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messagio biblico
è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Girando lo sguardo su quelli che erano seduti
attorno a lui, disse: “Ecco mia madre e i
miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio,
costui per me è fratello, sorella e madre”»
(3,31-35). Un’altra volta, in mezzo alla folla
che lo ascoltava, una donna esclamò:
«Beato il grembo che ti ha portato e il seno
che ti ha allattato!» (Lc 11,27). A queste parole Gesù dichiara: «Beati piuttosto coloro
che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».
Gesù non intende sminuire la grandezza di
sua madre, ma vuole spostare l’attenzione
dal privilegio unico di averlo portato fisicamente nel grembo e averlo allattato, alla
vera beatitudine di Maria che, sempre
nello stesso Vangelo di Luca, è dichiarata
“beata” da Elisabetta perché «ha creduto
nell’adempimento di ciò che il Signore le
ha detto» (Lc 1,45). Maria è beata perché
ha prestato un ascolto obbedienziale alla
parola di Dio a tal punto da rivestirla con la
sua stessa carne. Questo è ciò che il Signore
vuole da noi e che ci addita in questa solennità.
La Madre di Gesù è stata additata dai padri
della Chiesa quale terra vergine e feconda
nel solco della quale è stata seminata la divina Parola che è germogliata e fiorita dal
suo seno. Così si esprime Dante, mettendo
in bocca a Bernardo di Chiaravalle, le parole indirizzate alla Vergine Madre, «figlia
di suo Figlio»: «Nel ventre tuo si raccese
l’amore,/ per lo cui caldo ne l’etterna pace/
così è germinato questo fiore» (Paradiso,
XXXIII, 9).
Anche noi, come Maria, siamo una terra
nella quale il divino Seminatore sparge il
seme della sua Parola. Forse, confrontandoci con la madre di Dio, noi ci possiamo
scoprire terra sassosa, poco profonda e
sulla quale crescono rovi (cf. Mt 13,3-9; 1823), ma il Signore, che è un agricoltore paziente (cf. Lc 13,6-9), offre a ciascuno di noi
la possibilità di togliere i sassi, vangare la
terra ed estirpare tutti i rovi che potrebbero soffocare la Parola seminata in noi. A
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ascolto e annuncio
9 dicembre 2012 - n° 2
ciascuno di noi è data la possibilità di ripercorrere l’itinerario di fede della madre
di Dio, dando carne nella nostra vita, ciascuno secondo i suoi doni e le sue caratteristiche, a quella Parola che oggi il Signore
rivolge a noi.
Modello da imitare
In questo anno della fede Maria può essere
per noi un modello da imitare e una compagna nel cammino. Lei, che prima di essere “madre di Dio” è innanzitutto sorella
nostra, è una di noi.
Nella lettera apostolica Porta fidei ci viene
presentato l’itinerario percorso da Maria
dall’annunciazione fino al cenacolo: «Per
fede Maria accolse la parola dell’angelo e
credette all’annuncio che sarebbe divenuta
madre di Dio nell’obbedienza della sua dedizione (cf. Lc 1,38). Visitando Elisabetta,
innalzò il suo canto di lode all’Altissimo
per le meraviglie che compiva in quanti si
affidano a lui (cf. Lc 1,46-55). Con gioia e
trepidazione diede alla luce il suo unico Figlio, mantenendo intatta la verginità (cf. Lc
2,6-7). Confidando in Giuseppe suo sposo,
portò Gesù in Egitto per salvarlo dalla persecuzione di Erode (cf. Mt 2,13-15). Con la
stessa fede seguì il Signore nella sua predicazione e rimase con lui fin sul Golgota
(cf. Gv 19,25-27). Con fede Maria assaporò
i frutti della risurrezione di Gesù e, custodendo ogni ricordo nel suo cuore (cf. Lc
2,19.51), lo trasmise ai Dodici riuniti con
lei nel cenacolo per ricevere lo Spirito
Santo» (cf. At 1,14; 2,1-4) (n. 13).
Varchiamo dunque la soglia di questo
nuovo anno che oggi dischiude a noi le sue
porte, con fiducia e nella letizia evangelica,
anche se tutti noi avvertiamo la crisi che
sta attraversando il nostro paese e il
mondo intero. Lasciamoci illuminare dalla
luce limpida e semplice che emana il volto
della madre di Dio, luna che riverbera il
vero sole senza tramonto, Gesù Cristo, nostro Salvatore.
Cristina Caracciolo
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dal vangelo alla vita
Generare Cristo
Dobbiamo avere la consapevolezza che siamo resi partecipi in qualche modo
della stessa maternità di Maria. Dobbiamo generare ogni giorno Cristo.
Nel suo vangelo, Luca descrive la nascita di
Gesù in modo semplice, popolare. Gesù nasce
al termine di un lungo viaggio, in una stalla:
non c’è nessuno pronto ad accoglierlo. Ha
avuto bisogno di un po’ di paglia, forse del
calore di qualche animale.
In questo brano un ruolo da protagonisti lo
svolgono Maria, madre di Gesù, e i pastori. I
pastori sono i primi a ricevere l’annuncio che
è nato il Salvatore. Questa notizia li ha colti di
sorpresa, disorientati, spaventati, tuttavia
essi, dopo che l’angelo si allontana, decisero
di andare senz’indugio a vedere questo
avvenimento. Tutti i dubbi scompaiono di
fronte alla loro capacità di fidarsi di Dio.
Quando i pastori arrivano, si trovano davanti
una scena di estrema povertà e semplicità:
Maria e Giuseppe accanto al bambino
deposto in una mangiatoia, nient’altro.
Questa è la famiglia di Gesù, la famiglia di
Dio. Eppure, dice l’evangelista, furono pieni
di gioia. Si sono fidati delle parole
dell’angelo e, con la loro povera fede, hanno
visto un Dio povero, piccolo, non lontano ma
davanti a loro, come uno dei loro bambini,
nato nel loro ambiente.
Così sarà accaduto anche a Maria che deve
comprendere gradualmente una verità più
grande di lei: essere la madre di Dio. Così non
perde mai la fiducia, sa che il suo Signore non
la abbandonerà ed accetta con umiltà anche
una misera stalla per dare inizio al progetto di
salvezza che Dio aveva preparato per
l’umanità.
Sarà stato anche questo il motivo per cui
l’evangelista sottolinea che «Maria, da parte
sua, serbava tutte queste cose meditandole
nel suo cuore». Il cuore della Madre, infatti,
deve accogliere ed accettare due grandi
misteri: il mistero del Figlio di Dio che, per
arrivare agli uomini, sceglie una strada
imprevedibile, difficile da comprendere per la
mentalità degli uomini, perché si affida al “sì”
di lei, una semplice fanciulla, per entrare nella
storia; ed il mistero degli uomini che rifiutano
la luce, che non accolgono questo bambino
indifeso nel quale si realizzerà la salvezza.
Maria, che ha detto “sì” alla proposta di Dio,
che non ha esitato ad accettare Gesù nel suo
grembo, non riesce a capire le porte sbarrate,
i no che, insieme a Giuseppe, riceve nel suo
peregrinare alla ricerca di un posto dove dare
alla luce suo figlio. Non capisce il perché della
fragilità della sua famiglia, senza dimora,
debole. Forse non capisce neppure perché il
Signore si sia fatto piccolo tra i piccoli,
divenendo bambino debole, ma per nulla
impotente, perché è la forza che vince il
mondo. Maria capisce, sin dall’inizio, che la
scala di valori che Dio le propone capovolge
quella degli uomini: gli ultimi sono i primi, gli
esclusi sono i privilegiati.
Come Maria, anche noi dobbiamo rispondere
con fiducia all’annuncio della nascita di Gesù.
Noi che tanto spesso viviamo nella ricerca
affannosa di forza, di indipendenza e di
autosufficienza, dobbiamo essere capaci di
accogliere quel bambino che ha cambiato il
cuore e la vita di tanti uomini.
Anche noi, come Maria, non dobbiamo
lasciarci scoraggiare dalle prime difficoltà, ma
dobbiamo avere la consapevolezza che siamo
resi partecipi in qualche modo della stessa
maternità di Maria. Dobbiamo pertanto
generare ogni giorno Cristo, là dove si svolge
la nostra vita quotidiana: al lavoro, in
famiglia, nel vicinato, nella vita economica,
culturale, politica del paese. Possiamo quindi
guardare alla nostra realtà e al nostro futuro
con rinnovata speranza, con l’entusiasmo di
chi sa che sta partecipando alla realizzazione
di un mondo nuovo, per il quale Gesù chiede il
contributo di ciascuno di noi, ognuno con le
sue capacità.
Grazie, Gesù, per averci donato tua Madre
come modello della maternità a cui chiami la
Chiesa. Fa’ che, come lei, diveniamo
consapevoli di questa vocazione che ci affidi.
Francesca e Santo Alì
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CARLO CIATTINI
Missione della Chiesa
e Dottrina sociale
Presentazione di mons. Mario Toso
I
n questa epoca di crisi economica e finanziaria, il cristiano non può trascurare un’a-
deguata conoscenza della Dottrina sociale
della Chiesa. Assumendone i principi come
punto privilegiato di osservazione, il testo è un
aiuto a leggere il nostro tempo alla luce del
Vangelo e, insieme, un invito ad attualizzare la
Parola di Dio in vista di un ripensamento dei
modelli di sviluppo dell’intero pianeta.
«OGGI E DOMANI»
pp. 88 - € 8,00
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
www.dehoniane.it
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BRUNO SECONDIN
Inquieti desideri
di spiritualità
Esperienze, linguaggi, stile
PREFAZIONE DEL CARD. GIANFRANCO RAVASI
C
apire il nostro tempo e le sue inquietudini
significa fare i conti con un mondo profon-
damente cambiato, in cui i segni dello spirito
non sono scomparsi ma vanno cercati con
occhi e intelligenza rinnovati. Si tratta di interpretare la crescente ricerca di Dio, che la nostra
contemporaneità manifesta in forme inedite e
a volte assai confuse. L’autore suggerisce
nuove categorie di teologia spirituale, indispensabili per accompagnare l’uomo di oggi.
«CAMMINI DELLO SPIRITO»
pp. 288 - € 25,00
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
www.dehoniane.it
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nota introduttiva
Epifania
del Signore
Scrittura biblica è anche il frutto di un
L aprocesso
creativo assai vicino all’esperienza delle arti. Il senso classico della parola
“invenzione” (inventio), che denota, nello
stesso tempo, l’evento di una scoperta e il talento dell’elaborazione, qualcosa che si trova e
qualcosa che si crea, spiega molto di questa
parentela. Questo fatto non scalfisce un centimetro della natura ispirata che i credenti attribuiscono alle Scritture. Semmai aggiunge a
quella natura la realtà e la sostanza proprie
di ogni comunicazione vera. In essa il dato storico si intreccia sempre con la forza della metafora. I fatti da soli non dicono niente. Hanno
bisogno di uno sguardo capace di discernere il
loro senso. Per esprimerlo, occorre l’arte della
metafora, capace di dare forma non a un
senso lato (dunque anche irreale, artificioso,
puramente immaginario) ma al senso ultimo
(dunque assai concreto, tangibile, gravido di
realismo esistenziale). Matteo, che riscrive la
nuova alleanza con l’alfabeto immaginifico di
quella antica, non fa mancare la sua creatività
in questa teologia dell’universalità applicata
alla rivelazione del Figlio.
Una delle metafore più potenti che il grande
laboratorio biblico abbia saputo produrre, attingendo all’atavico istinto narrativo dell’uomo, è quella di un viaggio in cui si mettono alla prova le forze, si svelano i cuori, si
chiariscono i destini. La Scrittura trabocca di
viaggi. Lungo le strade della terra come attraverso i meandri dell’anima. Nella narrazione dell’infanzia del Figlio le metafore di
viaggio sembrano però convergere verso una
sintesi, un punto di arrivo centripeto, il luogo
22
ascolto e annuncio
9 dicembre 2012 - n° 2
Anno C
6 gennaio 2013
Is 60,1-6
Sal 71
Ef 3,2-3.5-6
Mt 2,1-12
appunto della manifestazione definitiva di
ogni enigma e della rivelazione finale della
meta. La vicenda di uomini che dall’oriente
vengono attratti, come polvere di ferro dall’energia di un magnete, verso l’evento ordinario e insieme unico della nascita di un bambino, evoca l’antica profezia di un mondo intero sedotto dal fulgore di una città, condotto
a raccogliersi – dimenticata ogni contesa e
ogni inimicizia – nel centro di gravità permanente della presenza dell’Altissimo, compiaciuta di aver eletto la città degli uomini come
casa propria. Il viaggio dei magi è, insomma,
la marcia umana – ritorno e esodo nello stesso
tempo – verso una pienezza possibile. Mistero
della grazia di Dio.
Ai credenti di Efeso, Paolo lo spiega senza veli
e senza metafore: le genti – che per l’ebreo di
Tarso vuole dire tutti senza eccezioni – sono
chiamate a trovare il loro comune destino
nella vita del Figlio, a sperare della sua stessa
speranza, a diventare una sola umanità sulla
forma di lui.
La rivelazione – la manifestazione, lo svelamento, l’illuminazione – concerne precisamente questa destinazione universale della
cura divina per l’uomo, produce chiarezza definitiva su questa illimitata disponibilità del
Dio dell’Alleanza a fare di ogni essere umano
un figlio, di ogni straniero un ospite, di ogni
lontano un prossimo. Deposto in una culla o
innalzato da terra, il Figlio attira sempre tutti
a sé. Come un tempo Gerusalemme.
Giuliano Zanchi
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messaggio biblico
Polvere di stelle
In questo giorno intraprendiamo anche
noi, come i magi, il nostro viaggio alla ricerca del «re dei giudei», lasciandoci guidare, come loro, da una duplice luce: quella
del creato e quella sacra Scrittura.
I magi venuti dall’oriente sono stati identificati come sacerdoti dell’antica religione
persiana chiamata “zoroastrismo”, una religione monoteistica che ha esercitato il
suo fascino anche in epoca moderna nella
religiosità di tipo esoterico. Essi erano
anche astronomi e astrologi (nell’antichità
non c’era differenza). Dal racconto matteano risulta, infatti, che scrutavano la
volta stellata per scorgervi segni indicatori
di particolari eventi storici, nel caso specifico la nascita del «re dei giudei».
Questi personaggi si presentano a Gerusalemme, alla corte del re Erode, dicendo:
«Dov’è colui che è nato, il re dei giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo
venuti ad adorarlo» (Mt 2,2). Essi dunque
si sono lasciati guidare da una stella improvvisamente apparsa nel cielo. Alcuni
identificano questa stella con una triplice
congiunzione di Giove e Saturno verificatasi nel 7 a.C. nella costellazione dei Pesci.
Altri ritengono si tratti di una cometa,
come quella di Halley, che circola periodicamente all’interno del nostro sistema solare.
I due pannelli del dittico
Ma il racconto rimanda a un significato
che va al di là dei dati puramente storici e
astronomici e chiede di essere decodificato.
Vogliamo diventare anche noi, come i
magi, pellegrini in cammino verso Betlemme, lasciandoci guidare dalla duplice
luce, della stella e della Scrittura, perché è
in esse che Dio ci comunica la sua Parola.
Che la parola di Dio sia inscritta nel cosmo
e nella sacra Scrittura ce lo dice il Sal 19,
un dittico costituito da due pannelli: il
primo celebra la Parola divina inscritta nel
creato: «I cieli narrano la gloria di Dio,/
l’opera delle sue mani annuncia il firmamento./ Il giorno al giorno ne affida il racconto/ e la notte alla notte ne trasmette notizia./ Senza linguaggio, senza parole,/
senza che si oda la loro voce,/ per tutta la
terra si diffonde il loro annuncio/ e ai confini del mondo il loro messaggio./ Là pose
una tenda per il sole/ che esce come sposo
dalla stanza nuziale:/ esulta come prode
che percorre la via./ Sorge da un estremo
del cielo/ e la sua orbita raggiunge l’altro
estremo:/ nulla si sottrae al suo calore» (vv.
2-7).
I cieli e il firmamento narrano, annunciano
e raccontano la gloria di Dio senza parole,
ma con un messaggio comprensibile a tutti
gli uomini che, davanti alla volta stellata,
nella loro piccolezza si sentono sovrastati
da qualcosa di immenso, di meraviglioso,
che parla loro di un mistero che li avvolge
e li abbraccia. Il firmamento allora è veramente la “firma” di colui che lo ha creato,
un indizio della sua presenza.
Nel secondo pannello di questo dittico il
salmista passa a celebrare la «legge del Signore», la sua «testimonianza», i suoi «precetti» e il suo «comando», che rinfrancano
l’anima, rendono saggio il semplice e fanno
gioire il cuore, e che altro non sono se non
la sua Parola, presente questa volta nella
sacra Scrittura.
I magi, dunque, si fanno guidare inizialmente da una stella, che li conduce a Gerusalemme, luogo dove ascoltano la Parola
che offre loro le indicazioni del luogo dove
possono trovare il Bambino.
L’amara ironia che soggiace al testo sta nel
fatto che, mentre questi personaggi appartenenti a una religione pagana sono venuti
ad adorare il re dei giudei, Erode e gli abi23
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messagio biblico
tanti di Gerusalemme restano «turbati». Il
re Erode, attaccato alla sua posizione di potere e di prestigio, si sente minacciato da
questa notizia e convoca «tutti i capi dei sacerdoti e degli scribi del popolo» per informarsi circa il luogo dove doveva nascere
il Messia atteso.
Le guide spirituali del popolo a loro volta
interrogano la sacra Scrittura, che dà le coordinate geografiche precise circa il luogo
dove era nato il bambino e dicono: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per
mezzo del profeta: “E tu, Betlemme di
Efrata, così piccola per essere fra i villaggi
di Giuda, da te uscirà per me colui che deve
essere il dominatore in Israele”» (Mi 5,1-3).
Anche noi come i magi
Questa profezia è una minaccia a chi detiene il potere civile e religioso in Israele,
perché, accennando al “pastore” del popolo, implicitamente richiama un altro
testo profetico, che è molto duro contro i
falsi pastori che pascono se stessi invece
che prendersi cura del gregge del Signore.
Dice infatti una pungente profezia di Ezechiele: «Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il
gregge? (...) Eccomi contro i pastori: a loro
chiederò conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così non
pasceranno più se stessi (...) Io stesso cercherò le mie pecore...» (dal cap. 34). Questa
profezia fa tremare il trono di Erode.
Allora, «chiamati segretamente i magi»,
egli si fa dire loro «con esattezza il tempo
in cui era apparsa la stella» e li invia a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando
l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché
anch’io venga ad adorarlo».
Dopo aver imboccato la direzione indicata
loro dalla Scrittura, ecco che ai magi riappare la stella che avevano visto spuntare e
che li precedeva, «finché giunse e si fermò
sopra il luogo dove si trovava il bambino».
È interessante il fatto che l’evangelista an24
ascolto e annuncio
9 dicembre 2012 - n° 2
noti: «Al vedere la stella, provarono una
gioia grandissima».
Che messaggio possiamo trarre da questo
dato per noi oggi? Mi sia consentito fare
una lettura simbolica della stella a partire
dall’etimo latino della parola desiderio. Si
tratta infatti di un termine composto da de
e sideris, che si potrebbe tradurre con
l’espressione “dalle stelle”. Se la nostra
terra è un pianeta derivante dal sole, che è
la nostra stella, di ogni uomo si può dire
che sia in un certo senso “polvere di stelle”.
Nell’intimo di ogni uomo pulsa una stella,
ovvero un desiderio originario di bene, di
gioia, di pace e di vita eterna, un desiderio
che lo muove nella sua ricerca di Dio e che
è Dio stesso ad aver posto nel suo cuore.
I magi guidati dalla stella possiamo essere
tutti noi, quando ci lasciamo guidare dai
desideri più nobili, più belli, più veri. Questo desiderio ci mette in moto, ci fa cominciare un viaggio alla scoperta della presenza del Signore nelle sacre Scritture,
dove troviamo che – come dice sant’Agostino – noi ci siamo messi in cerca di colui
che per primo ci ha cercati. Lasciamoci guidare da questa parola, attraversando magari anche valli oscure nella notte profonda. Arriverà il momento in cui rivedremo la nostra stella, ovvero scopriremo
che la Parola ci ha condotto lì dove viene
soddisfatto ogni nostro desiderio. Al vedere questa stella anche noi possiamo sperimentare una grandissima gioia, quella
gioia evangelica che niente e nessuno al
mondo ci potrà togliere (cf. Gv 16,22).
Entriamo dunque oggi anche noi «nella
casa» e vediamo il bambino «con Maria
sua madre», la quale è il vero «trono regale», non come quello effimero di Erode,
ma trono fatto di carne di donna, creatura
totalmente recettiva che accoglie e dona al
mondo il Dio della vita. Prostriamoci anche
noi, adoriamo il Bambino e apriamo anche
noi lo scrigno del nostro cuore per presentargli quel dono unico e irripetibile che
ognuno può dare al suo Signore.
Cristina Caracciolo
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dal vangelo alla vita
Verso la Luce
Anche noi, oggi, adoriamo il Bambino, recando ciascuno la propria specifica
diversità che è la ricchezza da deporre dinanzi alla Luce della capanna.
«Era nato. Sua madre aveva avuto le
contrazioni proprio lì, i suoi muscoli espulsori
obbedirono ad un luogo predisposto e
prescritto: a Betlemme di Giuda è tenuto a
nascere il Messia, il più aspettato intruso del
mondo.(…) Scrive Matteo che tre stranieri
vennero da altro Oriente per registrare il
prodigio già annunciato dai loro calcoli,
portando offerte solenni degne di una nascita
di re. Il re in carica, Erode, se ne risentì, ebbe
timore di un’usurpazione» (Erri De Luca,
Nocciolo d’oliva, ed. Messaggero, Padova,
2002).
Meditando il brano del Vangelo di Matteo nel
giorno della solennità dell’Epifania, sia io che
Dario siamo colpiti dalla figura di Erode. Un
uomo tenacemente attaccato al suo potere,
spaventato al solo pensiero della nascita di un
bambino che potrebbe, in futuro, offuscare la
sua stella; un re pronto al raggiro, alla
menzogna, alla violenza pur di raggiungere i
suoi scopi e continuare a dominare
indisturbato; incapace di mettersi in cammino
per cercare di capire l’evento accaduto nel
suo regno. Uccidere l’usurpatore, trovare
l’atteso “intruso” non per conoscerlo ma per
impedire ogni sua possibile influenza nella
propria vita e nel proprio regno: solo questo
lo interessa. Cosa può cambiare con la venuta
al mondo del “re dei giudei”? dove porta la
luce della sua stella? Erode non vuole perdere
ciò che ha.
Istintivamente rifiutiamo ogni identificazione
con un simile uomo di potere che vorrebbe
impedire alla Luce di risplendere; eppure,
dobbiamo riconoscere che la tentazione di
stare dalla parte di Erode si può insinuare. Gli
interessi del mondo sono rivolti in altre
direzioni e anche quelli personali, a volte,
possono essere fortemente contrari e
percepire nell’accoglienza del Figlio fatto
uomo, una minaccia alle proprie sicurezze. Ci
è richiesto di vigilare, di sentire la
responsabilità di rendere testimonianza alla
Luce, di fare in modo che chi ha fatto tanta
strada per incontrare il Bambino lo possa
riconoscere e adorare.
Sono in tanti, ancora oggi, gli uomini che
cercano, che hanno intravisto una luce e si
sono messi in cammino. E noi con loro. Dario
ricorda la sua esperienza di lavoro, tre anni or
sono, in Bulgaria. Le domande di alcuni
colleghi bulgari sulla sua fede. Sei cattolico?
Praticante? E i racconti di Nicolay, della sua
infanzia trascorsa senza mai sentire parlare di
Dio; la gioia di Mila per il suo battesimo, a
ventisei anni, dopo avere finalmente
incontrato Gesù; e ancora il ricordo degli anni
della scuola superiore di Pavlina: a Natale e a
Pasqua una circolare del preside invitava gli
studenti, pena l’espulsione, a non tralasciare
le lezioni per partecipare alla messa celebrata
per loro. E l’incontro con padre Ilya della
chiesa ortodossa: la testimonianza della fede,
della vita della chiesa in tempi difficili ed, ora,
il cammino dei cristiani in un tempo
secolarizzato.
Vorremmo essere come i magi: saper leggere i
segni della presenza di Dio nel tempo, nel
creato, avere la saggezza di chi, da lontano,
ha raccolto un messaggio incontrato lungo il
proprio percorso (nello studio, nel lavoro,
nelle relazioni…) e lo ha seguito per
rispondere ad una necessità interiore, senza
conoscerne, forse, tutti i significati e le
implicazioni. I magi vanno incontro alla Verità
che hanno imparato a conoscere, credono
nella sua esistenza anche quando la stella che
li guida scompare; nei loro scrigni i doni per il
“pastore di Israele”: oro per la sua regalità,
incenso per la sua divinità, mirra per la sua
umanità; la ricchezza del loro sapere non
diventa potere ma dono, riconoscimento,
adorazione.
Anche noi, insieme ai popoli della terra, oggi,
adoriamo il Bambino, recando ciascuno la
propria specifica diversità che è la ricchezza
da deporre dinanzi alla Luce della capanna.
Maria Cristina e Dario Golfi
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BARBARA FIORENTINI
Accesso alla rete
in corso
Dalla tradizione orale a internet
2000 anni di storia della comunicazione della Chiesa
I
mpegnata da 2000 anni ad annunciare la
Buona Novella, la Chiesa non si sottrae ai
continui cambiamenti nella comunicazione
e accoglie la sfida tecnologica come necessaria e ineludibile via dell’evangelizzazione.
L’autrice ripercorre la storia della comunicazione della Chiesa cattolica, focalizzandosi poi
su mass media e nuove tecnologie, con le loro
criticità. Per abitare da credenti ogni spazio,
anche virtuale, in cui si incontra l’uomo di oggi.
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PATRIZIO RIGHERO
A partire
dai Testimoni
Schede per catechesi ai giovani
PRESENTAZIONE DI NICOLÒ ANSELMI
16
brevi ritratti di «testimoni» di vita
cristiana del secolo scorso. Ogni presentazione comprende una biografia essenziale e una scheda di attività da svolgere con
i ragazzi, contenente citazioni del protagonista, suggerimenti per l’attualizzazione e la
riflessione in gruppo, ipotesi per un possibile
gesto concreto da realizzare. Rivolto a quanti
si dedicano ai giovanissimi e ai giovani, il sussidio offre spunti attuali e proposte pratiche
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A VOI LA PAROLA. Itinerario per giovani su solidarietà e impegno.
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# #
&
& SETTIMANINO 45-2012:Layout 1
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
CONSULTA ECCLESIALE DEGLI ORGANISMI SOCIO-ASSISTENZIALI
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Opere
per il bene comune
Rilevazione dei servizi socio-assistenziali
e sanitari ecclesiali in Italia
I
l volume dà ragione della Rilevazione
nazionale dei servizi collegati alla Chiesa.
Il lavoro è volto ad avviare una riflessione
approfondita sul ruolo che le istituzioni ecclesiali socio-assistenziali e sanitarie del nostro
Paese possono ricoprire nel promuovere una
rete di assistenza più prossima ai bisogni delle
persone, e a porre le basi per un dialogo con
il servizio pubblico e con le pubbliche autorità,
nell’ottica della solidarietà e della sussidiarietà,
in un settore di fondamentale importanza.
«FEDE E ANNUNCIO»
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" "
%
% SETTIMANINO 45-2012:Layout 1
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nota introduttiva
Battesimo
del Signore
epifania, messa in scena lungo
Q uest’altra
un fiume che, agli osservanti dell’antica
legge, ricorda l’offerta di una nuova amicizia,
Luca la racconta a fior di labbra, contando le
parole come se fossero pagate, riducendo al
massimo i dettagli di una cronaca che sembra
in realtà un ragguaglio sintetico per ascoltatori cui basta solo un cenno: quasi ricordi comuni, perfettamente stipati nella sazia memoria di tutti, pronti ad essere rianimati con una
sola parola, spargendo nuovamente ovunque
l’emozione della prima volta.
Sappiamo che, a definire il ritratto del Battista, concorre tutto il miglior materiale pittorico
che l’antica parola ha potuto offrire. L’antica
icona della voce che grida nel deserto – come
ci è dato di sentire – è incastonata fra parole
di irraggiungibile tenerezza. Prima, il sollievo
di un Dio della misericordia determinato a
sgravare la vicenda umana del fardello di una
colpevolezza mortificante. Il Dio dell’alleanza
non compromette la sua amicizia nemmeno
per tanto. Poi, la metafora del pastore che appare con fulminante anticipo sui tempi a rappresentare l’animo autentico del Dio biblico,
intriso di robustezza paterna, miscela perfetta
di forza e di cura, di attenzione e di fiducia.
Proprio dentro questa parentesi evangelica già
palpitante nella lettera dell’antica alleanza si
chiarisce il tono della voce incaricata di livellare le strade che il Figlio sta per imboccare.
Nessuna inquietudine. Solo consolazione. Proprio come dice Isaia.
Devono essere stati in molti – oltre che attendere il momento tanto propizio – a pensare di
Anno C
13 gennaio 2013
Is 40,1-5.9-11
Sal 103
Tt 2,11-14; 3,4-7
Lc 3,15-16.21-22
poterlo interpretare. Giovanni appunto è preso
per uno di quelli. L’emozione dell’attesa spinge
gli occhi a scrutare in ogni direzione. Il racconto di Luca lascia che sia Giovanni in persona a confessare – con professione di indegnità e di asimmetria totali – la propria relatività di testimone in vista della comparsa del
protagonista. Quello che arriva sopravanza le
attese. Al di là di ogni immaginazione.
Il gesto inaugurale difatti ha di che lasciare a
bocca spalancata. Doveva essere quello che
battezzava col fuoco – non era questa la professione di umiltà di Giovanni il Battezzatore
di acqua? –, quello destinato a portare in dote
il sigillo dello spirito, quello incaricato di sigillare nel fuoco l’avvenuta riconciliazione generale. Invece, il battesimo lui decide di riceverlo.
Pazientemente in fila anche lui come tutti sulla
linea d’acqua di un’amicizia da rendere nuova
ancora una volta. La bellissima notizia della rivelazione cristiana di Dio sgorga anche da questa sorgente di fraternità nella quale il Figlio
per primo decide di immergersi. L’amicizia
non si ricostruisce girando il coltello nella ferita dei torti. Ma insistendo in quella umana
comunione che precede ogni inimicizia.
Quando arriva, il Figlio si mette lì. Con disarmante unilateralità. E il compiacimento di Dio
– ancorché rappresentato nell’equivoca veste
di un effetto soprannaturale – manifesta la sua
totale identificazione in questo gesto di sovrana fedeltà alla creazione. Anche Dio – se gli
capita – fa così.
Giuliano Zanchi
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messaggio biblico
In fila con i peccatori
Con questa domenica si conclude il ciclo liturgico natalizio. Domenica scorsa abbiamo
celebrato l’Epifania del Signore, ovvero la
sua “manifestazione”. Si tratta di una prima
manifestazione, alla quale fanno seguito
altre due, come ci fa cantare l’inno dei vespri nel tempo di Natale, dalla solennità dell’Epifania fino al battesimo del Signore, che
evoca anche l’episodio del battesimo e del
primo segno alle nozze di Cana: «Il Figlio
dell’Altissimo/ s’immerge nel Giordano,/
l’Agnello senza macchia/ lava le nostre
colpe./ Nuovo prodigio, a Cana:/ versan
vino le anfore,/ si arrossano le acque,/ mutando la natura».
Nella solennità dell’Epifania abbiamo letto
l’episodio della manifestazione di Gesù ai
magi, nella domenica odierna leggiamo
quello del battesimo di Gesù presso il Giordano, dove egli si manifesta alla folla ivi
convenuta per farsi battezzare. Abbiamo
dunque due manifestazioni che già ci dicono implicitamente la portata rivoluzionaria del Vangelo di Gesù Cristo, che prima
di tutto si manifesta ai pagani e ai peccatori.
Il dono dello Spirito
Al popolo che è in attesa, interrogandosi se
è Giovanni il Messia atteso, egli stesso risponde che, mentre lui battezza con acqua,
viene colui che è più forte di lui, al quale
egli non è degno di slegare i lacci dei sandali. Egli battezzerà in Spirito Santo e
fuoco. Così, l’inizio del Vangelo, la prima
parte dell’opera lucana, rimanda all’inizio
della seconda parte: gli Atti degli apostoli e,
precisamente, all’evento della Pentecoste.
Degli apostoli non si dice che furono battezzati, ma che, nel giorno di Pentecoste,
mentre erano riuniti in preghiera «nello
stesso luogo» (...), apparvero loro lingue
come di fuoco, che si dividevano, e si posa30
ascolto e annuncio
9 dicembre 2012 - n° 2
vano su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,3-4). Questo è il
loro battesimo.
In forza dello Spirito Santo appena ricevuto, nello stesso giorno di Pentecoste, Pietro annuncia la Buona Notizia di fronte alla
quale gli ascoltatori si sentono trafiggere il
cuore e chiedono che cosa devono fare. Pietro risponde loro: «Convertitevi e ciascuno
di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù
Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e
riceverete il dono dello Spirito Santo» (At
2,38). In questo caso il dono dello Spirito
Santo è il frutto del battesimo. Quando Pietro poi annuncia il Vangelo in casa del pagano Cornelio, Luca dice che, mentre egli
stava ancora parlando, «lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la
Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui
pagani si fosse effuso il dono dello Spirito
Santo (...). Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito
Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel
nome di Gesù Cristo» (At 10,44-48). In quest’altra circostanza il dono dello Spirito
Santo è suscitato dall’ascolto della Parola e
precede il battesimo, che diventa il sigillo e
la conferma del dono ricevuto dall’alto.
Nella sua sovrana libertà Dio non si lascia
legare le mani dai sacramenti: egli effonde
il suo Santo Spirito anche su coloro che non
appartengono ufficialmente alla Chiesa, per
farli rinascere poi dal suo grembo battesimale.
Anche nell’episodio evangelico di questa
domenica c’è un legame inscindibile tra
battesimo e Spirito Santo. Su Gesù, in preghiera dopo aver ricevuto il battesimo come
«tutto il popolo», discende «lo Spirito Santo
in forma corporea, come una colomba».
Soffermiamoci innanzitutto su un partico-
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messagio biblico
lare che non si trova negli altri tre Vangeli
e che è proprio della narrazione lucana:
dopo essere stato battezzato Gesù «stava in
preghiera». Il motivo della «preghiera» occupa un posto di rilievo nell’opera lucana.
Ci limitiamo qui a menzionare soltanto alcuni passi evangelici in cui ricorre. Il Vangelo inizia con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria che si trova nel tempio per fare l’offerta dell’incenso mentre «fuori, tutta l’assemblea stava pregando» (Lc 1,9-10). Prima
di scegliere i Dodici, soltanto Luca narra che
Gesù «se ne andò sul monte a pregare e
passò tutta la notte pregando Dio» (Lc 6,12).
Anche nel racconto della trasfigurazione
soltanto Luca dice che Gesù «salì sul monte
a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida
e sfolgorante» (Lc 9,28-29). Nel Vangelo di
Luca nei momenti più importanti Gesù si
raccoglie in preghiera.
Una nuova creazione
C’è poi un altro elemento che si trova nel
racconto del battesimo di Gesù soltanto
nella versione lucana: la menzione della visibilità della presenza dello Spirito Santo in
forma di colomba. Questa immagine rimanda implicitamente al versetto che apre
l’intera sacra Scrittura: «In principio Dio
creò il cielo e la terra. La terra era informe
e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e
lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen
1,1).
All’alba della creazione lo spirito di Dio
aleggia «sulle acque» dell’abisso tenebroso,
prima che Dio pronunci la sua prima parola
che, con la luce, dà avvio alle opere della
creazione, quando il cosmos – che significa
un insieme ben ordinato e armonioso –
emerge dal caos, che è, al contrario, un ammasso informe dove regna la confusione.
Così, all’inizio del Vangelo di Luca, prima
che Gesù pronunzi le sue prime parole,
dando avvio alla sua missione, avviene
come una nuova creazione: lo Spirito Santo
“aleggia” sulle acque del Giordano e dal
cielo si ode una voce, così come la voce di
Dio aveva dato avvio alla creazione. La teologia paolina sviluppa l’idea che con Gesù
Cristo, nuovo Adamo, si inaugura la nuova
creazione e, in forza del battesimo, anche
noi nasciamo in lui come nuove creature e
diveniamo figli nel Figlio (cf. Rm 5,12-6,23).
Ciascuno di noi oggi può sentire rivolte a se
stesso le parole che la voce proveniente dal
cielo indirizza a Gesù: «Tu sei il figlio/a
mio/a amato/a: in te ho posto il mio compiacimento». E se ci sentiamo stanchi, se ci
rendiamo conto che ricadiamo sempre
negli stessi errori, se ci sentiamo demotivati
e inclini a cadere nello scoraggiamento, il
Signore Gesù ci invita oggi a immergerci
con lui nelle acque che ci lavano, ci rigenerano e ci rinnovano profondamente, dandoci l’energia per ricominciare ogni giorno
daccapo, con la forza dello Spirito, che è dynamis, come dice san Paolo (cf. Rm 1,4), ovvero una sorta di dinamo che avvia di
nuovo il motore della nostra vita, qualora
si fosse arrestato per un guasto o per mancanza di benzina.
Abbiamo appena celebrato il mistero dell’incarnazione e della nascita del Figlio di
Dio il quale è «nato da donna (...) perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). E
che noi siamo figli «lo prova il fatto che Dio
mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal
4,6). E, se è la preghiera la forza trainante e
la linfa vitale di colui che è innestato in Cristo, anche qualora non sappiamo «come
pregare in modo conveniente», sappiamo
che «lo Spirito stesso intercede con gemiti
inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa
che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio»
(Rm 8,26-27).
Riposiamo dunque tra le braccia dello Spirito Santo, soffio di vita che abita in noi in
forza del battesimo, e muoviamo ogni
giorno i nostri passi in una vita che si rinnova incessantemente, una vita mossa dalla
certezza di essere figli amati e prediletti nei
quali il Padre si compiace.
Cristina Caracciolo
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dal vangelo alla vita
Sentirsi amati
«Tu sei il mio figlio prediletto, l’amato». Queste parole dovremmo ripeterle
ogni girono perché possano toccare il nostro cuore e le nostre ferite.
«Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il
mio compiacimento». Sono le parole che
vengono pronunciate da “una voce” che viene
dal cielo subito dopo il battesimo di Gesù, ma
sono anche le parole che chiunque vorrebbe
sentirsi dire.
Essere amato, sentirsi accolto, è l’aspirazione
fondamentale di ogni uomo in ogni epoca e in
ogni momento della vita. In tutto ciò che
facciamo, nel nostro modo di essere, a casa, al
lavoro, nelle relazioni sociali, in tutto
cerchiamo l’amore e, per ottenerlo, spesso
finiamo per assumere atteggiamenti o fare
delle scelte solo per assecondare gli altri e
ricevere la loro approvazione e il loro amore.
Alla base di tutto c’è la convinzione che
l’amore va meritato; tante volte nella nostra
vita, soprattutto da piccoli, ce lo siamo sentito
ripetere: “se fai il bravo ti do un bacio, se fai il
bravo Gesù ti vorrà bene e sarà contento di te”,
e questo ci ha radicato nella convinzione che,
per essere amati, bisogna essere perfetti e
rispondere alle attese degli altri.
L’amore, invece, è essere accolti per quello che
siamo, non perché lo abbiamo meritato;
l’amore incondizionato è dono, il dono più
grande che possiamo ricevere ed abbiamo
effettivamente ricevuto il giorno del nostro
battesimo, quando anche per ognuno di noi è
risuonata la voce del Padre: «Tu sei il mio figlio
prediletto, l’amato». Queste parole dovremmo
ripetercele quotidianamente perché possano
toccare il nostro cuore, la nostra anima, le
nostre ferite, i nostri rancori, le nostre
insoddisfazioni. Questa verità dovrebbe
riempirci talmente di gioia da non farci restare
indifferenti: siamo figli e siamo amati!
Dio ci ama perché siamo suoi figli, non perché
facciamo o non facciamo delle cose. Allora
potremo vivere la nostra vita in maniera più
consapevole, anzi non potremo fare a meno di
cambiare radicalmente la nostra vita e
raccontare la “buona novella” a chiunque
incontreremo sul nostro cammino.
Siamo stati battezzati da piccoli, del tutto
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ascolto e annuncio
9 dicembre 2012 - n° 2
inconsapevoli; siamo stati educati alle pratiche
religiose, siamo stati preparati agli altri
sacramenti, ma abbiamo riscoperto il nostro
battesimo e le responsabilità che esso
comporta solo quando un nostro cugino è
partito come missionario alla volta del Brasile,
lasciando tutto quello che aveva e che era.
Condividere con lui la presa di coscienza dello
stato di bisogno di quelle popolazioni, del
divario profondo che vi era tra la nostra e
quella realtà, della necessità di una vita
cristiana vissuta più autenticamente,
rinvigorendo la preghiera e la meditazione
della Parola, dandoci da fare per dare aiuti
concreti a quella missione, ci ha fatto ritrovare
la forza di cambiare rotta nelle scelte della
nostra vita, di andare anche contro corrente
rispetto alle usanze e ai modelli di vita della
nostre famiglie, nelle quali comunque ci era
stata trasmessa la fede.
Oggi possiamo dire che quell’incontro e quella
esperienza ci hanno fatto scoprire il battesimo
“in Spirito Santo”, una scoperta che ha
cambiato la nostra vita e che ci ha spinto a
rispondere alla chiamata e al progetto che Dio
aveva per noi, consapevoli che, solo
immergendoci nella storia dell’uomo e fidando
nell’amore del Padre, siamo resi capaci di
testimonianza e di annuncio.
Nellina e Salvatore Oliveri
AT TUALITÀ PASTORALE
supplemento al n. 45 - 9/12/2012
settimanale - anno 47 (67)
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