NU 174 impaginato - Città Nuova Editrice

Nuova Umanità
XXIX (2007/6) 174, pp. 613-620
LA FILOSOFIA E DIO
Se dunque la felicità è un’attività conforme a virtù,
logicamente essa sarà conforme alla virtù superiore;
e questa sarà la virtù della parte migliore dell’anima.
Sia dunque essa l’intelletto oppure qualcosa d’altro,
che per natura appaia capace di comandare e guidare
e aver nozione delle cose belle e divine o perché esso stesso divino
o perché è la parte più divina di ciò che è in noi,
comunque la felicità perfetta sarà l’attività di questa parte,
conforme alla virtù che le è propria.
Che essa sia l’attività contemplativa è stato detto.
E ciò apparirà concordare
sia con ciò che s’è detto prima sia con la verità.
Quest’attività è infatti la più alta;
infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore,
e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle
a cui si riferisce il pensiero.
Ed è anche l’attività più continua, noi infatti
possiamo contemplare più di continuo
di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa.
Pensiamo poi che alla felicità debba essere congiunto il piacere
e si conviene che la migliore delle attività
conformi a virtù è quella relativa alla sapienza;
sembra invero che la filosofia apporti piaceri meravigliosi
per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita
sia più piacevole per chi conosce
che non per chi ancora ricerca il vero.
E l’autosufficienza di cui abbiam parlato
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si troverà soprattutto nell’attività contemplativa.
Infatti è pur vero che dei mezzi necessari al vivere
hanno bisogno sia il sapiente, sia il giusto, sia gli altri uomini;
tuttavia, una volta che sian stati provvisti sufficientemente di essi,
il giusto ha ancor bisogno di persone ch’egli possa trattare
giustamente e con le quali esser giusto,
similmente anche l’uomo moderato e il coraggioso
e ciascuno degli altri uomini virtuosi;
l’uomo sapiente, invece,
anche da se stesso potrà contemplare,
e ciò tanto più, quanto più è sapiente;
forse è meglio se ha dei collaboratori,
ma tuttavia egli è del tutto autosufficiente 1.
Dopo quanto abbiamo visto nei precedenti articoli 2, nasce
spontaneo domandarsi: quale può essere la strada per arrivare alla conoscenza naturale dell’esistenza di Dio?
Mi sembra che si potrebbero trarre le seguenti conclusioni. All’esistenza di Dio posso arrivare per molte vie e in molte maniere.
Vi può essere la dimostrazione razionale aristotelica ripresa e sviluppata poi da Tommaso d’Aquino, la quale parte dall’essere contingente e dall’effetto per giungere alla causa. Questa dimostrazione era vitale e sentita e convincente in secoli nei quali la ragione
con la sua astrazione dalle cose e i suoi giudizi e i suoi ragionamenti
parlava realmente all’anima dell’umanità. Si può dire che l’uomo
medievale viveva di quei pensieri, quei pensieri erano per lui vita. E
quindi egli ne coglieva la ricchezza, la profondità metafisica. Il suo
ragionare coincideva con il suo percepire, e per questo, alla fine dei
lunghi ragionamenti e dei vari sillogismi, l’anima dell’uomo medie1
Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1-4, Bari 1957, pp. 300-301.
Cf. P. Foresi, È possibile conoscere l’esistenza di Dio? È possibile una metafisica?, in «Nuova Umanità» XXIX (2007/1), n. 169, pp. 9-18; Id., La conoscenza, in «Nuova Umanità» XXIX (2007/2), n. 170, pp. 155-168; Id., Creaturalità ed
esistenzialismo, in «Nuova Umanità» XXIX (2007/3), n. 171, pp. 333-341; Id.,
Linguaggio e creaturalità, in «Nuova Umanità» XXIX (2007/4-5), n. 172-173, pp.
463-475.
2
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vale era sazia; non era stato ancora scoperto, come lo sarà poi, il significato soggettivo della conoscenza. Ancora la vita nella sua socialità era assai limitata e l’interdipendenza conoscitiva degli uomini non aveva ancora avuto quelle violente emozioni ed impressioni
che si sono verificate poi nei secoli XIX e XX. Per tali motivi, quella prova, oltre che vera com’è anche adesso, era anche convincente
per la maggior parte delle persone.
La vita cristiana, poi, nel Medioevo era così intensa che in un
certo senso porsi il problema dell’esistenza di Dio era più un fatto
accademico che non un problema reale. Nella Summa Theologica
di Tommaso d’Aquino, il posto dedicato alle prove dell’esistenza
di Dio è irrilevante rispetto a tutto il resto dell’opera. Sembra
quasi una necessaria ma inutile domanda che Tommaso d’Aquino
si pone solo per l’armonia dell’insieme degli argomenti trattati
più che per darne un’esauriente risposta. È per questo motivo che
le prove dell’esistenza di Dio furono prese dai concetti di Aristotele e inserite nel sistema tomista, e non come la base strutturale
della filosofia medievale, poiché in realtà nella mente di Tommaso
e di Scoto il problema di Dio era stato risolto dalla rivelazione.
E anche leggendo Aristotele, si ha l’impressione che il Dio
scoperto da lui è il presupposto, oltre che la conseguenza, di tutta la sua metafisica. È vero che Aristotele ci porterà avanti per
gradi, ma in realtà tutta la dimostrazione aristotelica è basata su
Dio, sul fatto che egli aveva avuto una percezione confusa dell’esistenza di Dio.
È da quella certezza dell’esistenza di Dio, che possiamo chiamare anche mistica, che Aristotele trae poi, svolgendo razionalmente il problema, la sua prova del motore immobile. Non era
quella, perciò, la prova dell’esistenza di Dio cui Aristotele arriverà
solo alla fine della Metafisica 3; era una prova razionale di quella
percezione naturale dell’esistenza dell’Essere sommo che egli ave3
Come è noto La Metafisica di Aristotele fu riunita nell’attuale presentazione non da Aristotele, ma mi sembra che giustamente la composizione fattane
rispecchi assai in questo tema il processo logico.
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va avuto già da prima. Ed è per questo che aveva diviso la scienza
teoretica in tre campi: la fisica, la matematica e la teologia 4. Per
Aristotele la metafisica era la teologia, anche se si occuperà di tutte quelle realtà naturali che vengono viste nel mondo e che sono
pensabili come separate dalla materia.
Di qui la grandezza di Aristotele. Di qui anche il limite della
sua prova dell’esistenza di Dio, la quale ci dirà solo una parte di
ciò che Aristotele aveva intuito e compreso di Lui.
Da qui anche l’errore che noi facciamo se vogliamo presentare
quelle prove come le uniche vere prove dell’esistenza di Dio. Non è
necessario essere aristotelici per arrivare a Dio. Non è necessario
accettare il tomismo per arrivare a Dio: quelle prove non dobbiamo
considerarle se non come dei mezzi, degli strumenti, a volte necessari a volte solo utili, a volte anche d’ostacolo per arrivare a Dio 5.
Facendo adesso un salto di vari secoli, andiamo a ripensare
un po’ alla filosofia di Hegel. Riconosciamo che egli ha aperto un
immenso campo alla meditazione del pensiero umano. Egli è il filosofo dell’«essere che diviene», come Aristotele era stato il filosofo dell’«essere che è». Per Aristotele negare il principio di non
contraddizione è un’assurdità; per Hegel affermare il principio di
identità sarà una sciocchezza, proprio perché Hegel ci dice che la
realtà sta divenendo.
In realtà, come ha scritto Croce 6, Hegel non ha negato mai
il principio d’identità, se non a parole: Hegel negava l’interpretazione statica del principio di identità, mentre lo affermava nell’ambito della sua filosofia dialettica. E non si può negare che anche Hegel sia stato all’origine di una filosofia che ha ancora un’influenza grande nella vita del mondo e che ci ha aperto uno spiraglio nel mistero dell’Essere.
4
Cf. Aristotele, La Metafisica, E, 1025b-1028a.
Vi sono, in effetti, molte altre prove; quella di Duns Scoto dell’effettuabile; quelle che Maritain chiama «le vie dell’intelletto pratico», cioè della testimonianza dei santi, dell’esperienza poetica, ecc. (cf. J. Maritain, Alla ricerca di Dio,
Roma 1963); e altre ancora (cf. Aa.Vv., L’existence de Dieu, Castermann 1965).
6
Cf. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, Bari
1907, p. 29.
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Anch’egli ci ha dato veramente qualcosa sulla realtà umana; e
anche in lui, se andiamo ad analizzare in profondità il motivo che
ha ispirato tutta la sua filosofia, scopriamo che il punto di partenza è stato Dio. Dio, questa volta, non intuito come una realtà lontana pur se intelligente e viva – come in Aristotele –, ma il Dio rivelato della religione cristiana. Hegel ha fondato le radici della
sua filosofia nella Trinità, nelle relazioni immanenti che sono nell’Essere divino. E partendo da questi presupposti ha cercato di
vederne i riflessi in una dialettica per antitesi e sintesi. E poiché
anch’egli era partito da Dio, non poteva non dirci qualcosa di
profondo e di grande, anche se identificando il piano della natura
con quello di Dio, è giunto poi ad una filosofia che avrebbe svuotato Dio del suo contenuto portandoci al materialismo dialettico
come conseguenza logica.
Ma non possiamo negare il contributo che Hegel ci ha dato
per comprendere la realtà umana. È ormai un fatto acquisito nella
storia del pensiero.
Come Hegel sia giunto a Dio, è più facile capirlo. Egli era
uno studente di teologia; e tale sarebbe voluto diventare: un teologo più che un filosofo. Abbiamo visto come la sua filosofia dialettica applicata alla storia non è estranea alla rivelazione cristiana, anzi in san Paolo ci viene presentata una filosofia dialettica
della storia ancora più completa e avvincente. Quel che Hegel
disse ci accorgiamo che non fu altro se non un po’ di verità di ciò
che era contenuto nel Nuovo Testamento. Ed è per questo che
quanto c’è di vero nella filosofia di Hegel, la sua anima più profonda, non è in contraddizione con la rivelazione cristiana. In
contraddizione sono solo quegli aspetti che la storia ha distrutto o
sta distruggendo. Anche dalla filosofia dialettica si può giungere a
Cristo; non occorre abbandonare il buono che s’è trovato in essa,
basta completarlo con una luce ancora più grande.
Anche la denuncia degli esistenzialisti ci ha aperto un varco
meraviglioso e nuovo per giungere a Dio. Essi ci dicono, sia pure
spesso con parole di non credenti: «Il Dio che noi vogliamo non è
quello delle astrazioni, non è quello né della filosofia dialettica né
della filosofia statica, è il Dio che ci dà oggi la vita».
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Per questo leggendo le pagine di Heidegger e Sartre non si
può che rimanere commossi; essi hanno scoperto che un’esistenza
senza Dio ci porta solo al nulla. E nel tempo stesso che questa
scoperta è la crisi della loro filosofia, essa è la grande esigenza che
ci pongono: dobbiamo riuscire a dare il Dio dei vivi e non il Dio
dei concetti.
Se noi già soltanto rileggiamo le pagine dell’Esodo, quando
per la prima volta nella storia dell’umanità Dio parlò di Se stesso,
troviamo la convergenza nelle sue parole di ogni filosofia e di
ogni aspirazione umana. Egli disse a Mosè, perché lo ripetesse all’umanità di tutti i secoli: «Sono Colui che sono» (Es 3, 3-14).
Per molto tempo queste sue parole sono state interpretate in
senso aristotelico, come se Egli avesse detto: «Sono l’Essere sommo, l’Essere immobile, l’Assoluto». E certamente le sue parole
avevano anche questo significato. Ma uno studio più approfondito della parola essere, in ebraico hayah 7, ci dice che non aveva il
senso greco: indicava operare, indicava una vita.
Per questo ogni uomo, da qualunque filosofia provenga, può
ritrovarsi nel Dio rivelatoci nella Bibbia, purché ognuno comprenda di non dire tutta la verità e abbia l’umiltà di lasciarsi completare da Chi ha detto: «Io sono Colui che sono». Ma Dio disse
queste parole non per farci una lezione di filosofia ma per far sapere agli ebrei che era lì in mezzo a loro che operava: era esistenzialmente vitale, era la vera soluzione della vita di ogni uomo. E
per questo che anche ogni esistenzialista può con ugual diritto ritrovarsi in Dio, purché anch’egli si lasci completare da quella Verità che non è astrazione, che non è concetto, che è vita.
Al tempo stesso l’esistenzialismo ci ha posto in rilievo un elemento veramente essenziale per risolvere il problema dell’esistenza di Dio. Occorre che sia l’uomo esistente con la sua sensibilità e
con la sua intelligenza, ma anche con la sua volontà e con il suo
amore, a conoscere e a giungere a questa realtà. L’uomo non è fatto a sezioni, l’uomo non è una sovrapposizione di pezzi, l’uomo è
uno prima di ogni sua facoltà, prima di ogni sua attività esterna; e
7
Cf. Th. Boman, Das hebrdische Denken im Vergleich mit dem griechischen,
Göttingen 1965, pp. 18-57. C.H. Ratschow, Werden und Wirken, Berlin 1941.
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questa sua unitarietà intrinseca la si coglie soprattutto quando
questo uno deve affrontare il più grande pensiero del problema
umano, quello dell’esistenza di Dio, quell’esistenza che egli, se sa
ascoltare e guardare in se stesso, già trova in sé; e se sa vedere il
mondo e non solo guardare il mondo, la trova fuori di sé.
È questo atteggiamento conoscitivo che include la volontà e
l’essere tutto, che l’uomo di oggi sente particolarmente, proprio
perché in ciascuno di noi c’è qualcosa di ogni filosofo passato e di
ogni esperienza del pensiero umano. In ciascuno di noi si trovano
i pensieri dei più grandi geni, tutti raccolti e formanti l’anima del
mio pensare; ma non sono giustapposti, sono tra loro fusi e mescolati, formando un insieme armonioso e complesso, e misterioso a me stesso. Ritrovo in me quel tanto di verità che l’umanità finora ha capito e pensato.
Ogni uomo si ritrova così un piccolo universo contenente il
tutto, si ritrova un piccolo dio, appunto come l’aveva creato Dio
stesso quando lo plasmò a Sua immagine e somiglianza. E questo
piccolo dio ha da scoprire che deve riallacciare quella relazione
d’amore profonda e totale del suo essere uomo con Chi gli ha dato e gli sta dando la vita.
C’è una filosofia che riassume e contiene nel positivo le correnti di pensiero di tutta la storia dell’umanità, anche quelle di
oggi; si trova in un libretto di duemila anni fa. Ecco quello che v’è
scritto: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il
Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto
per mezzo di Lui, e senza di Lui neppure una delle cose create è
stata fatta. In Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la
luce risplende fra le tenebre» (Gv 1, 1-5).
PASQUALE FORESI
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La filosofia di Dio
CONTENTS
To the question what could be the road to reach natural knowledge of the existence of God, the Author responds by first recalling the Aristotelian rational demonstration taken up and developed by Thomas Aquinas, who begins from contingent being and
from effect so as to reach the cause; then he takes up Hegel’s answer
who roots his philosophy in the Trinity, in the immanent relationships which are in the divine Being. Finally the existentialist solution is proposed and this opens up a new avenue so as to reach not
the God of abstractions, nor the God of dialectic philosophy, but
the God who today gives us life. It is necessary that the existential
person with his sensibility and his intelligence, but also with his
will and with his love, comes to know and to attain this reality.
What is needed is to be able to communicate the God of the living
and not the God of concepts. That same God of whom John says:
«In the beginning was the Word, and the Word was with God, and
the Word was God».