rent to buy - leggi d`italia pa

Immobili
& proprietà
La rivista IMMOBILI E PROPRIETÀ organizza la
Tavola rotonda
RIFORMA DEL CONDOMINIO: LUCI E OMBRE
AD UN ANNO DALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE 220/2012
Prime applicazioni nella prassi e nella giurisprudenza
Milano, 20 giugno 2014 - Ore 14.30 - 18.30
Palazzo di Giustizia - Aula Magna
La tavola rotonda consente un confronto tra i relatori che, per la loro specifica competenza
ed esperienza forniranno concrete risposte ai numerosi dubbi interpretativi,
con particolare riguardo alle nuove prassi adottate in concreto per il funzionamento dell’assemblea
e per la gestione dei beni comuni. Il confronto affronterà anche temi processuali
ed il dialogo tra i relatori consentirà un più vivace approccio.
Saluti
Paolo Giuggioli, Presidente Ordine Avvocati Milano
Mariagrazia Monegat e Federico Magliulo, Direttori scientifici della rivista “Immobili e Proprietà”
Temi dell’incontro
•
•
•
•
L’assemblea: ruolo, funzione ed esercizio dei poteri. Il supercondominio
Legittimazione dell’amministratore, poteri processuali, rapporti con l’assemblea
La mediazione e le cause condominiali
Le spese condominiali, il conto corrente e il fondo per le opere straordinarie
Se ne parla con:
Augusto Cirla , Avvocato del foro di Milano
Domenico Piombo, Magistrato - Presidente sezione 7 civile Tribunale di Milano
Debora Ravenna, Avvocato, Mediatore, Giudice di Pace
Giacomo Rota, Magistrato sezione 13 civile Tribunale di Milano
Antonio Scarpa, Magistrato presso il Massimario della Corte di Cassazione
LA PARTECIPAZIONE È GRATUITA
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Y56EL LE
L’evento ha il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano.
La richiesta è stata inoltrata all’Ordine degli Avvocati di Milano
per il riconoscimento di n. 4 crediti formativi.
Iscrizione on line sul sito formazione.ipsoa.it/convegni
16/05/14 11:05
Immobili & proprietà
Sommario
SCADENZARIO
MEMORANDUM
a cura di Paola Aglietta
345
OPINIONI
Regolamento
Deliberazioni
COMPRAVENDITE IMMOBILIARI TRA REGOLAMENTI ‘‘BLINDATI’’ DAL COSTRUTTORE E PRESCRIZIONI DEL CODICE DEL CONSUMO
di Alberto Celeste
348
FORMA DELL’ATTO D’IMPUGNAZIONE DELLE DELIBERE CONDOMINIALI
di Alessandro Gallucci
355
Famiglia
‘‘di fatto’’
IL PROBLEMA DELL’ESTENSIONE DELLA TUTELA POSSESSORIA AI CONVIVENTI MORE UXORIO
di Giovanna Di Benedetto
359
Catasto
CONDIZIONI DI LEGITTIMITÀ DELLA REVISIONE DELLE RENDITE CATASTALI
di Paola Aglietta
364
SEPARAZIONE TRA CONIUGI E BENEFICI ‘‘PRIMA CASA’’
di Salvatore Servidio
367
IRAP, STUDI ASSOCIATI E AMMINISTRATORI DI CONDOMINIO
di Francesca Picardi
373
Prima casa
IRAP
Risoluzione
del contratto
Rent to buy
Uso abitativo
LA TASSAZIONE DEL C.D. MUTUO DISSENSO: IL REVIREMENT DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
di Paolo Frugiuele
377
IL RENT TO BUY: LA TIPIZZAZIONE SOCIALE DI UN CONTRATTO ATIPICO
di Antonio Testa
384
LE LOCAZIONI ABITATIVE TRANSITORIE
di Giuseppe Bordolli
390
GIURISPRUDENZA
LA SENTENZA DEL MESE - Spese accessorie della compravendita a carico del compratore e incarico
professionale
Cassazione civile, sez. II, 16 aprile 2014, n. 8886
a cura di Mariagrazia Monegat
394
IN PRIMO PIANO
a cura di Roberto Triola
396
RASSEGNA DI MERITO
a cura di Alessandro Re, Luana Tagliolini
398
PRATICA
PROBLEMI PRATICI - Aria di novità sulle strade
a cura di Vincenza Albertini
401
QUESITI CASA & QUESTIONI
a cura di Augusto Cirla
403
INDICE
INDICE AUTORI, INDICE CRONOLOGICO, INDICE ANALITICO
Immobili & proprietà 6/2014
405
343
Immobili & proprietà
Sommario
Mensile sull’amministrazione
e la gestione degli immobili
EDITRICE
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del 23 ottobre 1993
344
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Immobili & proprietà 6/2014
Scadenze
Memorandum
Memorandum
a cura di Paola Aglietta - Dottore Commercialista e Revisore Legale in Torino
LUNEDÌ 16 GIUGNO 2014
Versamento delle imposte sulla base del
Modello Unico 2014
È fissato al 16 giugno 2014 il termine per il versamento delle imposte a saldo per l’anno 2013, risultanti dalla dichiarazione, unitamente al primo acconto per il 2014.
In alternativa, i contribuenti possono scegliere di effettuare
i versamenti entro il 16 luglio 2014, con la maggiorazione
dello 0,4% a titolo di interessi.
Unitamente ai versamenti delle imposte sui redditi, alle
stesse scadenze, si versano le imposte sugli immobili e le
attività finanziare detenute all’estero (Ivie e Ivafe).
Prima rata in acconto IMU anno 2014
Entro il 16 giugno i contribuenti tenuti al versamento dell’IMU (“Imposta Municipale Propria”) devono versare la prima rata per l’anno 2014.
Prima rata in acconto TASI anno 2014
Entro il 16 giugno 2014 è previsto il versamento del primo
acconto ai fini della Tasi per il 2014.
Per gli immobili diversi dalle abitazioni principali si deve
versare l'acconto in base all’aliquota standard entro il 16
giugno; in caso l’imposta dovuta, una volta adottata la delibera comunale, sia inferiore o addirittura nulla, si rende necessario attivare la richiesta di rimborso.
Per gli immobili adibiti ad abitazione principale, il versamento della Tasi è invece effettuato in un'unica rata, entro
il 16 dicembre 2014, se non ci sono delibere comunali entro il 31 maggio 2014; è effettuato secondo le scadenze e
le regole stabilite nella delibera comunale, se assunta entro
il 31 maggio 2014.
Dichiarazioni d’intento
Termine entro il quale i contribuenti Iva che hanno ricevuto, nel corso del mese precedente (maggio), dichiarazioni
d’intento rilasciate da esportatori abituali devono inviare
apposita comunicazione all’Agenzia delle Entrate, in via telematica, direttamente o tramite intermediari abilitati, utilizzando il modello reperibile sul sito internet dell'Agenzia delle Entrate.
Sostituti d'imposta
Termine per il versamento delle ritenute alla fonte su redditi
di lavoro dipendente ed assimilati e su redditi di lavoro
autonomo, corrisposti nel mese precedente.
Versamenti Iva
Termine per il versamento dell’Iva risultante:
- dalla liquidazione del mese di maggio per i contribuenti
con periodicità Iva mensile;
- dalla liquidazione del mese di maggio, effettuata sulla base delle operazioni registrate e dell’imposta divenuta esigibile in aprile, per i contribuenti con periodicità mensile che
hanno affidato a terzi la tenuta della contabilità optando
per il regime previsto dall'art. 1, comma 3, D.P.R. n.
100/98.
Immobili & proprietà 6/2014
Consolidato fiscale
Il consolidato nazionale è un istituto che consente alle società facenti parte di un gruppo e che manifestano apposita opzione di determinare un unico reddito complessivo
Ires, rappresentato dalla somma algebrica delle singole base imponibili che risultano dalle rispettive dichiarazioni dei
redditi.
Le società che intendono adottare la tassazione consolidata di gruppo devono esercitare la specifica opzione che dura per un triennio ed è irrevocabile.
La comunicazione dell’opzione deve essere presentata entro il sedicesimo giorno del sesto mese successivo alla
chiusura del periodo d’imposta precedente al primo esercizio del triennio.
Il 16 giugno 2014 scade pertanto il termine, per le società
con esercizio coincidente con l’anno solare, per esercitare:
- opzione per la prima applicazione del regime, da comunicare con apposito modello a cura della società controllante; l’opzione è valida il triennio 2014-2016;
- rinnovo dell’opzione per il triennio 2014-2016.
MERCOLEDÌ 25 GIUGNO 2014
Elenchi Intrastat
Gli operatori intracomunitari con obbligo mensile devono
presentare gli elenchi riepilogativi (INTRASTAT) delle cessioni e degli acquisti intracomunitari di beni nonché delle
prestazioni di servizio in ambito comunitario, effettuati nel
mese precedente (maggio).
La periodicità di presentazione è mensile nelle ipotesi di
cessioni/acquisti di beni e servizi resi/ricevuti superiori a
euro 50.000,00 nel trimestre di riferimento e/o in uno dei 4
trimestri precedenti.
LUNEDÌ 30 GIUGNO 2014
Presentazione del Modello Unico 2014 in forma
cartacea
Le persone fisiche per le quali ricorrono i presupposti possono presentare il Modello Unico 2014 in forma cartacea
per il tramite di un ufficio postale.
In generale, tutti i contribuenti sono obbligati a presentare
la dichiarazione Modello Unico 2014 esclusivamente per
via telematica, direttamente o tramite intermediario abilitato; sono esclusi da tale obbligo e pertanto possono presentare il modello Unico 2014 cartaceo i contribuenti che:
- pur possedendo redditi che possono essere dichiarati con
il mod. 730, non possono utilizzare tale modello e devono
ricorrere al modello Unico perché privi di datore di lavoro o
non titolari di pensione;
- pur potendo presentare il mod. 730, devono dichiarare alcuni redditi o comunicare dati utilizzando i relativi quadri
del modello UNICO (RM, RT, RW, AC);
- devono presentare la dichiarazione per conto di contribuenti deceduti;
345
Scadenze
Memorandum
- sono privi di un sostituto d’imposta al momento della presentazione della dichiarazione perché il rapporto di lavoro è
cessato.
Operatori finanziari
Invio della Comunicazione dei dati all'Anagrafe Tributaria
da parte degli operatori finanziari, contenente i dati relativi
ai rapporti intrattenuti con i clienti nel mese di maggio.
Black list
I soggetti passivi Iva che abbiano effettuato operazioni nei
confronti di operatori economici aventi sede, residenza o
domicilio negli Stati o nei territori individuati dalla lista di
cui al D.M. 4 maggio 1999 ed al D.M. 21 novembre 2001
(cosiddetti black list) sono tenuti ad effettuare la prevista
comunicazione mensile, mediante invio telematico del modello di comunicazione delle operazioni effettuate nel corso
del mese precedente (maggio).
L’obbligo di comunicazione è previsto per le sole operazioni attive e passive di importo superiore a euro 500.
Contratti di locazione
Versamento dell’imposta di registro sui contratti di locazione nuovi o rinnovati tacitamente con decorrenza 1° giugno
2014, per i quali non si è scelto il regime della “cedolare
secca”.
Adempimenti 5 per mille
Entro tale termine, gli enti che hanno inviato nei termini (7
maggio) la domanda per essere ammessi all’elenco dei destinatari del 5 per mille 2014, devono inviare, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno alla Direzione Regionale
dell'Agenzia delle Entrate, una dichiarazione sostitutiva di
atto di notorietà attestante la persistenza dei requisiti che
danno diritto all'iscrizione, allegando la copia di un documento di identità del legale rappresentante.
Tale comunicazione è obbligatoria a pena di decadenza
dell’iscrizione dell’ente nell’elenco.
I soggetti destinatati del 5 per mille, entro un anno dalla ricezione degli importi, sono tenuti a redigere apposito rendiconto, nonché una relazione illustrativa.
Dichiarazione IMU
Il D.L. n. 102/2013 ha introdotto disposizioni di favore, per
le quali è prevista la presentazione della dichiarazione IMU
a pena di decadenza.
In particolare, in relazione alle fattispecie che danno diritto
alle agevolazioni per l’anno 2013, la dichiarazione IMU deve essere presentata entro il 30 giugno 2014.
Si tratta delle seguenti fattispecie:
- fabbricati costruiti e destinati dall’impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati (c.d. “immobili merce” invenduti) per
i quali è prevista la soppressione della seconda rata IMU
dell’anno 2013 e l’esenzione dall’imposta a decorrere dal
1° gennaio 2014;
- immobili degli enti non commerciali che sono destinati
esclusivamente allo svolgimento, con modalità non commerciali, di attività di ricerca scientifica per i quali è prevista l’esenzione, a decorrere dal 1° gennaio 2014;
- alloggi appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà
indivisa per i quali è prevista l’assimilazione alle abitazioni
principali, a decorrere dal 1° luglio 2013;
- fabbricati abitativi destinati agli alloggi sociali per i quali è
prevista l’assimilazione all’abitazione principale, a decorrere dal 2014;
346
- immobili posseduti dal personale delle Forze armate, di
Polizia, dei Vigili del fuoco o dal personale appartenente alla carriera prefettizia, per i quali non sono richieste le condizioni della dimora abituale e della residenza anagrafica ai
fini dell’applicazione della disciplina IMU concernente l’abitazione principale e le relative pertinenze per i quali è prevista l’ assimilazione all’abitazione principale, a decorrere dal
1° luglio 2013.
Rivalutazione di terreni e delle partecipazioni in
capo alle persone fisiche
In base alle disposizioni contenute nella Legge di Stabilità
2014, è possibile rideterminare il costo o valore fiscale di
acquisto delle partecipazioni non quotate e dei terreni posseduti, al di fuori del regime d’impresa, alla data del 1°
gennaio 2014, affrancando in tutto o in parte le plusvalenze
conseguite, ex art. 67 comma 1 lett. a) - c-bis) del TUIR, allorché le partecipazioni o i terreni vengano ceduti a titolo
oneroso.
Entro il termine del 30 giugno 2014 occorre:
- la redazione e asseverazione di perizia di stima da parte
di un professionista abilitato;
- il versamento dell’imposta sostitutiva pari al 2% (partecipazioni non qualificate) o al 4% (partecipazioni qualificate o
terreni); il versamento può avvenire per l’intero importo in
unica soluzione oppure in tre rate annuali.
I soggetti che hanno già effettuato una precedente rideterminazione del valore delle partecipazioni e dei terreni possono detrarre dall’imposta sostitutiva dovuta per la nuova
rivalutazione l’importo relativo all’imposta sostitutiva già
versata o, in alternativa, chiedere il rimborso dell’imposta
sostitutiva già pagata.
IN EVIDENZA
RIVALUTAZIONE DEI BENI D'IMPRESA E DELLE
PARTECIPAZIONI RISERVATA ALLE SOCIETÀ DI CAPITALI ED
ENTI COMMERCIALI CHE NON ADOTTANO I PRINCIPI
CONTABILI INTERNAZIONALI
Con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate
del 12 maggio, sono state aggiornate le istruzioni al modello Unico 2014, per tenere conto delle modifiche portate dal
D.L. n. 66/2014 ai fini del pagamento dell’imposta sostituta
sulla rivalutazione, da effettuare intermente nel 2014 anziché in rate su più anni.
Si tratta della rivalutazione dei beni d'impresa e delle partecipazioni riservata alle società di capitali ed enti commerciali che non adottano i principi contabili internazionali, riproposta dalla Legge di Stabilità 2014 (legge n. 147/2013,
commi da 140 a 146). La rivalutazione va effettuata nel bilancio 2013 e deve riguardare tutti i beni risultanti dal bilancio al 31 dicembre 2012 appartenenti alla stessa categoria
omogenea.
Secondo la Legge di Stabilità, le imposte sostitutive dovute
per il riconoscimento della rivalutazione e per l'eventuale
affrancamento della riserva andavano versate in 3 rate annuali, senza interessi, entro il termine previsto per il saldo
delle imposte sui redditi.
Ora, per effetto della modifica apportata con D.L. n.
66/2014, le imposte sostitutive devono essere versate in
unica soluzione entro il termine di versamento del saldo
delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta in
Immobili & proprietà 6/2014
Scadenze
Memorandum
corso al 31 dicembre 2013, pertanto entro il 16 giugno
2014. Si attende peraltro ulteriore modifica in sede di conversione del D.L. n. 66/2014, con previsione di pagamento
entro il 2014 ma in tre rate (16 giugno, 16 settembre e 16
dicembre).
DICHIARAZIONE DEI REDDITI E QUADRO RW
Le persone fisiche residenti in Italia che detengono, titolo
di proprietà o di altro diritto reale, investimenti all’estero
(es. immobili) e/o attività estere di natura finanziaria (es.
conti correnti e depositi), devono compilare il quadro RW
nel Modello Unico per la dichiarazione dei redditi.
Il quadro RW deve essere compilato:
- ai fini del cosiddetto “monitoraggio fiscale” (obbligo di indicare il valore di beni e attività finanziarie collocate all’estero, suscettibili di produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia);
- ai fini del calcolo dell’imposta sul valore degli immobili all’estero (Ivie);
- ai fini del calcolo dell’imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero (Ivafe).
L’Ivie è dovuta, dal 2012, sui beni patrimoniali collocati all’estero:
- immobili o diritti reali immobiliari (ad esempio, usufrutto
o nuda proprietà) o quote di essi (comproprietà, multiproprietà …);
Immobili & proprietà 6/2014
- oggetti preziosi e opere d’arte;
- imbarcazioni o navi da diporto o altri beni mobili detenuti
e/o iscritti nei pubblici registri esteri;
attività patrimoniali detenute all’estero immesse in cassette
di sicurezza.
La misura dell’Ivie è:
- 7,6 per mille sul costo di acquisto dell’immobile o altra attività patrimoniale; in mancanza del costo di acquisto, l’aliquota si applica al valore di mercato (o al valore catastale,
se i beni sono situati in Paesi UE);
- 4 per mille in caso di immobile all’estero adibito ad abitazione principale.
È possibile dedurre l’eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui è situato l’immobile.
L’ Ivafe è invece dovuta, sempre dal 2012, in relazione alle
attività finanziarie all’estero.
La misura dell’Ivafe è:
- in misura fissa di euro 34,20, per ciascun conto corrente
o libretto di risparmio detenuto all’estero, con valore medio
di giacenza annuo superiore a euro 5.000,00;
- zero, se il valore medio di giacenza è inferiore a euro
5.000,00
- in misura proporzionale con aliquota 1,5 per mille, sul valore al 31 dicembre 2013 delle altre attività finanziarie (es.
depositi titoli).
È possibile dedurre le eventuali imposte patrimoniali versate all’estero.
347
Opinioni
Condominio
Regolamento
Compravendite immobiliari tra
regolamenti “blindati” dal
costruttore e prescrizioni del
codice del consumo
di Alberto Celeste- Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione
L’applicazione delle prescrizioni enucleabili dal Codice del consumo – manifestamente volto a perseguire
obiettivi di (ri)equilibrio e trasparenza nella prassi contrattuale – alla materia condominiale in generale ed
ai regolamenti in particolare, non risulta affatto scontata, ma anche il riferimento allo schema causale (di
matrice codicistica) delle clausole vessatorie, per quanto concerne le disposizioni del medesimo regolamento, registra numerose criticità operative; invero, nell’ottica della funzione economica unitaria che il
contratto tra venditore ed acquirente è destinato a realizzare, occorre considerare, da un lato, la prestazione di dare, per fini di lucro, assunta dal costruttore-imprenditore e, dall’altro, il soddisfacimento dei bisogni abitativi del condomino-consumatore che acquista l’appartamento.
Le clausole vessatorie nei regolamenti
contrattuali
Prima di addentrarsi nell’analisi della tematica, occorre, però, operare dei necessari distinguo, in
quanto non tutte le tipologie di regolamento di
condominio sono interessate dal controllo sulla
vessatorietà delle relative clausole.
Invero, una corretta indagine sulle clausole vessatorie è estranea ai regolamenti di origine “interna”,
ossia approvati dall’assemblea con il quorum di cui
all’art. 1138, comma 3, cod. civ., poiché gli stessi
traggono proprio dall’approvazione assembleare il
fondamento della loro obbligatorietà; invero, deve
negarsi la natura contrattuale dei regolamenti costituiti mediante una deliberazione collegiale dell’organo condominiale, con cui si intende munire
la compagine condominiale di un complesso di regole giuridiche per la gestione del condominio
piuttosto che comporre un contrasto tra una pluralità di parti.
Peraltro, anche se approvato all’unanimità di tutti
i proprietari, in tale regolamento assembleare, difetterebbe pur sempre l’imprescindibile riferimento
alle contrapposte posizioni soggettive del “consumatore” e del “professionista”, che è la ratio della
disciplina speciale; qualora tale regolamento contempli clausole “vessatorie” ex artt. 33 ss. del
348
D.Lgs. n. 206/2003 (o addirittura più stringenti),
l’inoperatività della tutela di protezione del consumatore consegue al fatto che, in questa ipotesi,
non si rinviene alcuna imposizione da parte di un
terzo (soggetto forte), ma la volontaria autosoggezione da parte della stessa compagine condominiale
in via assolutamente paritetica (c.d. autoregolamentazione non eterologa).
La nuova normativa di matrice comunitaria trova,
invece, la sua piena operatività nei regolamenti di
origine “esterna”, ossia predisposti dall’originario
unico proprietario dell’edificio o dal costruttore, ed
accettati o comunque richiamati dai singoli acquirenti delle unità immobiliari che compongono lo
stabile condominiale, in quanto, da un lato, tali regolamenti risultano oggettivamente ricollegabili all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale svolta dal proprietario-costruttore, e, dall’altro, il condomino (persona fisica), acquirente dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva, riveste
lo status di consumatore, perché intende soddisfare,
con il suddetto acquisto, esigenze di natura personale, non legate allo svolgimento di attività, a sua
volta eventualmente, imprenditoriale o professionale.
Ci si riferisce soprattutto a quelle clausole del regolamento definite “contrattuali”, le quali, proprio
Immobili & proprietà 6/2014
Opinioni
Condominio
perché traggono la loro fonte nel predetto titolo di
natura convenzionale, possono restringere o comprimere l’esercizio dei poteri di disposizione o/e di
godimento dei condomini in ordine sia alle cose
comuni sia a quelle di proprietà esclusiva, imponendo vincoli di inalienabilità, circoscrivendo la
libertà di godimento, vietando alcune destinazioni
di uso, ecc.; minori preoccupazioni destano, invece, le clausole c.d. regolamentari, volte alla mera
disciplina d’uso o di godimento delle cose comuni,
le quali - secondo l’orientamento giurisprudenziale
prevalente - possono essere modificate con i quorum di cui all’art. 1136, comma 2, cod. civ., anche
se inserite in un regolamento contrattuale, essendo
rilevante il contenuto concreto della clausola, e
non le modalità con cui il regolamento viene formato.
A questo punto, occorre verificare se, ai sensi dell'art. 1341, comma 2, cod. civ., alcune clausole
contenute nel regolamento contrattuale, poiché ritenute vessatorie, debbano essere oggetto di specifica approvazione per iscritto (1).
La tematica della c.d. doppia sottoscrizione era stata analizzata soprattutto in ordine alla possibilità di
compromettere la controversia ex art. 1137 cod.
civ. in arbitri, tuttavia, l'intesa negoziale rimaneva
fuori dalla predetta previsione legislativa, trattandosi di una relatio perfetta, poiché il richiamo era
opera di entrambe le parti contraenti: invero, il regolamento contrattuale, anche quando non fosse
materialmente inserito nel testo del contratto di
compravendita dei singoli appartamenti dell'edificio, “faceva corpo con esso, perché espressamente
richiamato e approvato, di guisa che le sue clausole
rientravano, almeno per relationem, nel tessuto dei
singoli contratti di acquisto” (2).
In pratica - secondo i giudici di Piazza Cavour nella formazione del regolamento convenzionale di
condominio, considerato appunto come “contratto
a relazione perfetta”, ossia quello il cui contenuto
sia determinato in relazione ad un atto, esterno al
contratto che si stipula, del quale però le parti
hanno effettiva conoscenza, può ritenersi realizzato
l’accordo delle parti sul contenuto dello stesso; tale
contratto è, infatti, caratterizzato da una cooperazione delle parti nella scelta delle clausole di riferimento e nell'approvazione di quella che disponeva
il richiamo, la quale importava l'espressione di una
manifestazione di volontà di entrambe le parti.
Il regolamento condominiale, in altre parole, quando era recepito nel contesto dell'atto di trasferimento dell'appartamento, non doveva considerarsi
come qualcosa di estraneo al consenso manifestato
in quella sede e non presupponeva un'ulteriore manifestazione di volontà, ma contribuiva a definire
la prestazione quando specificava gli strumenti per
l'utilizzazione delle cose comuni e prefigurava gli
schemi per l'operatività dei servizi (3).
Anche il prezzo concordato, in fondo, viene usualmente rapportato alle previste modalità di uso della proprietà comune connesse all'acquisto della singola unità immobiliare.
In realtà, nella prassi delle negoziazioni nel settore
immobiliare, succede che un terzo, originario e
unico proprietario dell’immobile (il costruttore o
l’unico acquirente dell’intero edificio) predisponga
unilateralmente (e di fatto imponga) un testo regolamentare (il c.d. regolamento esterno o contrattuale) che viene successivamente “accettato”, via
via, dagli acquirenti delle singole unità immobiliari; tale atto, che sovente contempla condizioni ingiustificatamente gravose e discriminatorie per gli
acquirenti (e futuri condomini), viene allegato ai
singoli atti di acquisto stipulati dai diversi condomini, rimane trascritto presso la Conservatoria dei
registri immobiliari (ora Agenzia per il territorio)
ed è menzionato come parte integrante dell’atto di
compravendita che l’acquirente dichiara di conoscere ed accettare, oppure, anche se non materialmente inserito nel contratto di compravendita, fa
corpo con esso allorché sia espressamente richiamato ed approvato, sicché le sue clausole rientrano
per relationem nel contenuto dei singoli contratti di
acquisto, vincolando i singoli acquirenti indipendentemente dalla trascrizione.
La dottrina più attenta (4) ha, però, evidenziato
l’anomalia di tale regolamento, perché indirizzato a
disciplinare - non solo i rapporti tra i singoli proprietari in ordine all’uso dei beni comuni, bensì
anche - i rapporti tra condomini e costruttore/venditore, e che, in sede assembleare, difficilmente potrebbero essere deliberati (salvo manifestazioni
“masochistiche”) proprio perché implicanti limita-
(1) Si consenta il rinvio a Celeste, Regolamento contrattuale
e tutela del consumatore-condomino, in Immob. & diritto, 2011,
10, 24.
(2) Così Cass. 10 gennaio 1986, n. 73, in Vita notar., 1986,
251.
(3) V., tra le pronunce di legittimità, Cass. 14 gennaio 1993,
n. 395, in Arch. loc. e cond., 1993, 531; Cass. 7 gennaio 1992,
n. 49, in Giur. it., 1992, I, 1, 1465; sul versante della giurisprudenza di merito, si segnala Trib. Milano 6 febbraio 1992, in
Arch. loc. e cond., 1992, 619.
(4) Belli, Le clausole vessatorie nel regolamento “contrattuale” di condominio, in i Contratti, 2012, 3, 181.
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Opinioni
Condominio
zioni cospicue ai diritti di proprietà dei singoli e
della collettività condominiale.
Tale regolamento - a differenza di quello assembleare - non viene discusso ed approvato collegialmente e diventa vincolante ed obbligatorio, per
ogni condomino, soltanto in forza di un negozio
giuridico, distinto ed autonomo, con il quale quest’ultimo si impegna ad osservarlo integralmente
secondo la logica del “prendere o lasciare”: in buona sostanza, un negozio che non deriva dalla volontà dell’assemblea ma da un fatto del terzo (costruttore/venditore dell’edificio) che esercita pienamente la propria supremazia negoziale ed economica.
A fronte delle clausole più “invasive” dei diritti dei
proprietari, si è posta, dunque, la questione della
possibilità della loro rimozione dal testo regolamentare “contrattuale” o attraverso una declaratoria di illegittimità delle stesse da parte del magistrato, oppure per mezzo di una deliberazione assembleare adottata a maggioranza piuttosto che
con il consenso unanime di tutti i partecipanti al
condomìnio.
Si tenta così di superare l’orientamento dominante, secondo cui tali previsioni sarebbero immodificabili senza l’unanimità dei contraenti, sul presupposto che il regolamento in esame, configurando
un vero e proprio “contratto condominiale”
(avente, in quanto tale, forza di legge tra le parti),
non possa consentire la modifica o la soppressione
delle clausole negoziali “aggiunte” se non in forza
di un nuovo accordo tra contraenti adottato all’unanimità (5); é, infatti, intuitivo che, richiedendosi il consenso unanime, il costruttore potrebbe
scegliere di rimanere “a vita” proprietario anche
di una piccola unità immobiliare dello stabile da
lui stesso costruito, comportando così l’impossibilità, di fatto, che le clausole regolamentari predisposte in suo favore vengano in futuro modificate
(si pensi alla riserva della proprietà della facciata
dell’edificio per permettergli di utilizzarla a scopi
pubblicitari).
L’intervento della normativa
consumeristica
(5) Per un accenno dottrinario alla problematica, anche se
prima dell’avvento della speciale legislazione consumeristica,
Marmocchi, Condizioni generali e condominio, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, Milano, 1986; Bessone, Condizioni generali di contratto, contratti in materia immobiliare e tutela degli operatori non “professionali”, in Giur. it.,
1980, IV, 177 ss.
(6) Sul versante dottrinale, Belli, Condominio “consumatore”: nullità di protezione delle clausole vessatorie nei contratti di
assicurazione e intervento integrativo del giudice, in Giur. merito,
2013, 282; Tortorici, Il condominio-consumatore e i diversi rapporti contrattuali, in Immob. & diritto, 2008, 10, 6; Dona - Savasta, Il condominio inteso come consumatore: nuovi scenari di
tutela e difficoltà applicative, in Merito, 2005, 6, 20; Terzago,
Regolamento contrattuale di condominio c.d. esterno, clausole
vessatorie e verifica in base alle norme del D.Lgs. n. 206/2005,
in Immob. & diritto, 2006, 9, 7; Id, Condominio e tutela del consumatore, in Riv. giur. edil., 2001, I, 866.
350
Nel nuovo panorama contraddistinto dalla vigenza
della legge 6 febbraio 1996, n. 52 e del D.Lgs. 6
settembre 2005, n. 206, si è tentato di inquadrare
le clausole del regolamento di condominio predisposto dall’originario proprietario dell’edificio o dal
costruttore, astrattamente idonee a menomare i diritti dei singoli acquirenti sulle parti comuni dello
stabile o/e sugli appartamenti di proprietà esclusiva (6).
Nello specifico, in primo momento, la legge n.
52/1996, recependo in Italia la direttiva
1993/13/CEE, aveva aggiunto, al titolo II del libro
IV del codice civile, il capo IV-bis, rubricato “dei
contratti del consumatore”, provocando l’inserimento, nel tessuto dello stesso codice, di cinque articoli, dal 1469-bis al 1469-sexies, disciplinanti le
clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
Erano considerate “vessatorie” le clausole che, malgrado la buona fede, determinassero a carico del
consumatore un significativo squilibrio dei diritti e
degli obblighi derivanti dal contratto stipulato tra
questi ed un professionista che, nell’àmbito della
sua attività imprenditoriale, utilizzava il contratto
avente ad oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, salvo il rilievo che assumesse, nel giudizio sulla vessatorietà, lo svolgimento di una trattativa individuale (purché consapevole, seria ed effettiva).
Si stilava, poi, un elenco, meramente esemplificativo, delle suddette clausole vessatorie - che, però,
costituendo una presunzione “relativa”, ammetteva, in sede giudiziale, la possibilità di provare il
contrario - stabilendo che erano “inefficaci” (ora
nulle), mentre il contratto in cui le stesse erano inserite continuava a mantenere la sua validità, e
consentendo al singolo consumatore di invocare
dal giudice competente l’inibitoria dell’uso di quelle clausole di cui venisse accertata l’abusività.
Successivamente, al fine di dare attuazione alla direttiva CE in materia di consumatori e di armonizzare la nostra legislazione a quella dei Paesi mem-
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bri, si è approvato il D.Lgs. n. 206/2005, sicché i
summenzionati cinque articoli dal 1469-bis al
1469-sexies sono confluiti, senza sostanziali modifiche, negli articoli, rispettivamente, dal 33 al 37 del
c.d. Codice del consumo.
In buona sostanza, per applicare la tutela “antivessatoria”, occorrono due requisiti: a) oggettivo, perché il contratto deve essere riconducibile nell’alveo dei negozi aventi ad oggetto “la cessione dei
beni o la prestazione dei servizi”; b) soggettivo,
perché il contratto deve essere riferibile alle due
parti, definibili come “consumatore”, da intendersi
come la persona fisica, il quale agisce per scopi
estranei all’attività imprenditoriale, commerciale,
artigianale o professionale eventualmente svolta, e
come “professionista”, da individuarsi nella persona
fisica o giuridica, pubblica o privata, il quale, nel
quadro della propria attività imprenditoriale et similia, utilizza il contratto concluso con il suddetto
consumatore.
Pertanto, si è dato atto che, nella vita quotidiana,
il condominio può identificarsi come un’aggregazione di “persone fisiche” - che abitano, vivono, lavorano, ecc. nell’edificio in regime di condominio
- le quali devono necessariamente interfacciarsi
con vari “professionisti”, soprattutto per la gestione
degli impianti comuni, ma anche per la prestazione
dei servizi di acqua, luce e gas (7).
Per quel che rileva in questa sede, atteso che, nella
suddetta ipotesi del regolamento contrattuale, ci
troviamo in presenza di un vero e proprio “contratto condominiale di cessione di beni a scopo di
consumo”, all’interno del quale si possono considerare “vessatorie” le clausole tese a determinare, a
carico dei singoli condomini, acquirenti delle unità
immobiliari dello stabile in condominio, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi di derivazione contrattuale, dovendo, però, l’accertamento dello squilibrio tra diritti ed obblighi del consumatore correlarsi alla valutazione dell’intero assetto
negoziale.
Ne consegue che si dovranno porre a confronto, da
un lato, l’interesse del venditore-predisponente a
conseguire un notevole pregio dell’edificio e così il
gradimento dei successivi condomini (e, quindi, un
maggiore valore di mercato dell’immobile), e, dall’altro, il contrapposto interesse dei singoli alla pie-
na espansione della proprietà comune ed individuale, sia pure calcolando i benefici che le restrizioni convenzionali ai poteri assoluti sul relativo
alloggio assicurano riguardo alle sottese esigenze
abitative.
Tuttavia, al fine di delineare il carattere della vessatorietà della clausola del regolamento contrattuale e, quindi, definire l’onerosità delle posizioni riservate al condomino acquirente dalle disposizioni
predisposte dal costruttore, va considerato che il
mercato immobiliare assicura, di regola, all’imprenditore-costruttore una condizione dominante di
forza contrattuale, rappresentando ciò un ostacolo
insormontabile per l’effettività della contrattazione: il regolamento c.d. di origine esterna, infatti,
preesiste rispetto al momento della stipula del singolo atto di acquisto, essendo difficile pensare che
il condomino-acquirente possa concretamente contribuire a determinarne il contenuto, influendo sulle clausole preformulate per rivelare i propri interessi (8).
Una certa “negoziazione” del contenuto del regolamento può immaginarsi solo nel momento in cui il
venditore-predisponente aliena la prima unità immobiliare, che peraltro costituisce il momento in
cui sorge il condominio, ma, dopo, i successivi acquirenti delle altre unità immobiliari si pongono
come soggetti ai quali “estendere” gli effetti del regolamento già adottato, il cui testo si rivela oramai, per così dire, blindato; considerazioni queste
che avranno un ruolo decisivo nell’accertamento
giudiziale dell’abusività delle clausole regolamentari, specie per quel che concerne l’assenza di trattativa individuale intesa come fattore discriminante
della natura vessatoria della singola clausola in esame (ai sensi dell’art. 1469-ter, comma 4, cod. civ.,
ora art. 34, ultimo comma, del Codice del consumo).
(7) In ordine alla generale applicabilità della normativa speciale consumeristica alla materia condominiale, può richiamarsi, tra le pronunce di legittimità, la fondamentale Cass. 24 luglio 2001, n. 10086, in Corr. giur., 2001, 1436, mentre, tra le
pronunce di merito: Trib. Milano 8 settembre 2008, in Arch.
loc. e cond., 2009, 382, Trib. Modena 20 ottobre 2004, in Meri-
to, 2005, 6, 19, Trib. Pescara 28 febbraio 2003, in PQM, 2003,
2, 85.
(8) Né un ruolo di “garanzia” può conferirsi al notaio rogante, il quale, di solito, si limita a rendere edotte le parti, inserendo la clausola di stile per cui il “regolamento si ha per letto e
conosciuto”.
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Le criticità della prassi immobiliare
Al contempo, non si può disconoscere che, talvolta, il costruttore-venditore possa rendersi, per così
dire, interprete privilegiato delle esigenze abitative
dei proprietari delle unità immobiliari che compongono lo stabile condominiale, inserendo, nel
testo del regolamento da lui predisposto, limiti alle
facoltà dominicali relative alle parti comuni dello
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Condominio
stabile ed alle porzioni di proprietà esclusiva, destinati ad integrare gli atti di cessione dei rispettivi
alloggi (9).
Parimenti, va dato che tutta la normativa speciale
presuppone, pur sempre, l’approvazione di clausole
che stabiliscano particolari vantaggi esclusivamente a favore di chi le ha predisposte, laddove il regolamento contrattuale approntato dall’originario
unico proprietario dell’edificio vincola anche quest’ultimo, almeno inizialmente, ossia fin tanto non
abbia alienato l’ultima unità immobiliare dello stabile da lui costruito, allo stesso modo degli altri acquirenti in ordine alla gestione ed amministrazione
del condominio.
In realtà, la soluzione della questione non è agevole, e va trovata caso per caso, in quanto il legislatore speciale, nel configurare le clausole vessatorie,
prende le mosse da una prospettiva di “contrapposizione di interessi” tra le parti del contratto, da un
lato, assicurando a quello più debole di poter concretamente valutare la convenienza di stringere o
meno l'obbligo contrattuale, e, dall'altro, impedendo a quello più forte, che ha unilateralmente fissato il contenuto del futuro accordo, di introdurre in
modo surrettizio clausole eccessivamente impegnative per la parte cui spetta solo aderirvi.
Talvolta, l’idea di antagonismo non si ravvisa nel
regolamento condominiale, poiché si pensa, di regola, alla parità, al parallelismo e alla coincidenza
di interessi nella medesima finalità, tanto che non
è agevole sempre ravvisare in concreto abusi o soperchierie, a favore di uno ed a danno di un altro.
Diverso è il discorso qualora le clausole regolamentari predisposte dal costruttore non abbiano per oggetto interessi “generali” della collettività condominiale, ma rivelino la disparità di forza negoziale,
che connota il momento dell’acquisto delle unità
immobiliari da parte dei condomini, consentendo
ad un terzo, originario costruttore dell’edificio ma
non più proprietario di alcuna unità immobiliare
in esso, di allestire vincoli alle proprietà - di solito,
tesi ad incrementare il pregio dell’edificio e il valore capitale del bene da alienare - mentre i singoli,
pur di far parte di quella compagine condominiale,
“subiscono” passivamente questa imposizione dall’esterno (finendo, poi, per accettare obtorto collo, clausole insidiose, pur di non perdere la caparra
versata al venditore o/e la provvigione corrisposta
al mediatore immobiliare).
Non si può disconoscere che gli acquirenti delle
unità immobiliari poste nell’edificio in condominio
sono pur sempre estranei all’atto di riferimento,
che è predisposto unilateralmente dal costruttore,
né è ragionevolmente pensabile una trattativa o
una discussione precedente che consenta ai singoli
di dare al contratto nel suo complesso un contenuto più adeguato ai propri interessi.
A ben vedere, l’applicazione della normativa consumeristica (di matrice comunitaria) al regolamento contrattuale di condominio presenta numerose
criticità operative.
Va, innanzitutto, premesso che le disposizioni di
cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ., introdotte dalla
legge n. 52/1996, e gli artt. 33 ss. del Codice del
consumo, introdotte dal D.Lgs. n. 206/2005, non si
applicano ai contratti stipulati prima della loro entrata in vigore - salvo quelle che contengono regole di carattere processuale, in forza del principio
tempus regit actum - in virtù del principio generale
di irretroattività della legge (10), sicché l’àmbito di
operatività della tematica si riduce notevolmente,
ossia ai soli regolamenti contrattuali di condominio redatti soltanto negli ultimi tempi.
Ciò premesso, la tutela del consumatore riguardo
alle clausole vessatorie del suddetto regolamento
non si rivela affatto scontata, se si considera che
tali clausole sono inserite in un atto, appunto, il
regolamento, che, di regola, non è inserito nel
contratto di compravendita: in altri termini, il regolamento di condominio rientra per relationem nel
contratto di compravendita, “fa corpo” con esso in
quanto ivi richiamato e approvato.
Pertanto, il condomino/consumatore può agire in
giudizio per far valere la “nullità” della clausola
vessatoria contenuta nel regolamento contrattuale
- mantenendo “valido per il resto” ex art. 36, comma 1, del Codice del consumo - nei confronti del
costruttore/professionista: in pratica, l’attore invoca la nullità parziale del contratto di compravendita limitatamente alla parte in cui richiama il regolamento di condominio - e solo quella, perché, per
il resto, gli preme conservare la casa dove abita - e,
quindi, il suddetto regolamento nella parte in cui
contiene la clausola ritenuta vessatoria (perché inibisce, vieta, discrimina, ecc.).
La stranezza è che il costruttore, una volta che,
realizzata la sua finalità imprenditoriale, ha venduto l’ultima unità immobiliare di cui è composto lo
stabile che ha edificato, è oramai fuoriuscito dalla
(9) Scarpa, Le clausole vessatorie nel regolamento di condominio, in Rass. loc. e cond., 1999, 481.
(10) V., ex multis, Cass. 6 luglio 2010, n. 15871, in Foro it.,
Rep. 2010, voce Contratto in genere, n. 387.
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compagine condominiale (potendo essere, nel frattempo, morto, trasferito, espatriato, ecc.), e sinceramente gli interessa poco se quella clausola - che
ha, a suo tempo, inserito nel regolamento di condominio, che ha fatto richiamare nei singoli atti di
acquisto - venga espunta dal medesimo regolamento (si pensi alla disposizione che vieta di adibire gli
appartamenti a studio medico).
A differenza dell’applicabilità della tutela del consumatore nei confronti di soggetti (quali banche,
assicurazioni, ecc.) in cui il rapporto giuridico permane nel tempo, è curioso che qui il regolamento
di condominio viene predisposto da un soggetto, il
costruttore/venditore, il quale, esaurita la sua attività, diventa un terzo estraneo, laddove lo stesso
regolamento coinvolge soltanto altri soggetti, i
condomini, che sono in una situazione di parità,
tutti soggetti “deboli” non più contrapposti ad un
soggetto “forte” a loro antagonista, facendo venir
meno la ratio che sta alla base della suddetta tutela
del consumatore.
Diverso, ovviamente, è se lo stesso costruttore ancora detiene un’unità immobiliare nello stabile ed
intende mantenere la posizione di privilegio contenuta nel regolamento, come, ad esempio, attribuendosi la nomina del portiere o/e dell’amministratore, riservandosi un’area altrimenti considerata
comune, esentando il suo appartamento da ogni
spesa di conservazione dell’edificio, ecc.
Ammessa, poi, l’azionabilità della domanda di nullità relativa di cui sopra, sorge la questione se il relativo giudizio debba o meno essere integrato nei
confronti di tutti i condomini, perché l’eventuale
caducazione di una clausola del regolamento contrattuale potrebbe configurare un’ipotesi di litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102 c.p.c.,
quantomeno per quelle disposizioni che non interessano il singolo (si pensi all’adibizione dell’appartamento a studio medico), ma coinvolgono l’intera
collettività (si pensi all’esenzione di spese di manutenzione del fabbricato o all’utilizzo del cortile comune).
Tuttavia, si potrebbe sostenere che già la norma
generale dell’art. 1322 cod. civ., dispone che “le
parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge”; per
il resto, non appare necessario “scomodare” il Codice del consumo per affermare che il regolamento
di condominio di natura contrattuale, in forza del
disposto del comma 4 dell’art. 1138 cod. civ. - secondo una parte della giurisprudenza applicabile
anche a quest’ultimo - non può “in alcun modo”
menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e
“in nessun caso” può derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131,
1132, 1136 e 1137 cod. civ., cui vanno aggiunti gli
artt. 63, 66, 67 e 69 disp. att. cod. civ. (11).
Al massimo, troverà applicazione l’art. 1341 cod.
civ. - trattandosi di un testo, il regolamento, precostituito unilateralmente da un terzo, ossia il costruttore, ed accettato dai singoli acquirenti delle
unità immobiliari dello stabile - secondo il quale le
“condizioni generali di contratto predisposte da
uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe potuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza” (comma 1),
prescrivendo la “specifica approvazione per iscritto”, a pena dell’inefficacia, di particolari condizioni
che determinano vantaggi per chi le ha unilateralmente proposte (comma 2).
Analizzando funditus la tematica, si registra che
quasi tutte le clausole indicate come “vessatorie”
nell’art. 33 del D.Lgs. n. 206/2005, riguardano atti,
fatti, condotte, ecc. del consumatore nei confronti
del professionista, laddove, per quel che concerne
più da vicino il regolamento contrattuale, interessano specificatamente, invece, comportamenti del
singolo nei confronti del condominio.
Si tenga presente, inoltre, che il Codice del consumo non trova applicazione: a) se il trasferimento
dell’appartamento avviene successivamente - non
più dal costruttore, bensì - da un privato ad un privato (perché non sussiste più lo status del professionista); b) se il costruttore ha venduto originariamente ad una società (perché, non essendo persona fisica, non può qualificarsi come consumatore);
c) se l’acquisto avviene da parte di una persona fisica ma non per soddisfare interessi strettamente
personali (ad esempio, per adibire l’unità immobiliare ad esercizio commerciale); d) se l’originario
venditore non era un imprenditore ma l’unico proprietario del fabbricato (avendolo costruito per la
propria famiglia e, poi, cresciuti i figli, l’ha frazionato in unità abitative autonome e alienato a ciascuno di essi).
(11) Esempi emblematici sono la clausola che riservi la nomina dell’amministratore al costruttore una volta che i condomini sono diventati più di otto, o che contempli quorum assem-
bleari diversi, oppure precluda l’impugnativa delle deliberazioni
viziate.
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Opinioni
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A ciò si aggiunga che quelle clausole che sembrano
la manifestazione di una sperequazione tra le parti
contraenti - si pensi alla riserva di proprietà di una
parte presunta comune ed all’esenzione di una determinata unità immobiliare dalle spese - in realtà,
sono espressamente previste dalla disciplina condominiale, che stabilisce, rispettivamente, all’art.
1117, comma 1, cod. civ., che “sono di proprietà
comune … se il contrario non risulta dal titolo” e,
all’art. 1123, comma 1, cod. civ., che “le spese …
sono sostenute dai condomini … salvo diversa
convenzione”, laddove il titolo o la convenzione
possono rinvenirsi in una disposizione del regolamento contrattuale o approvato all’unanimità dei
partecipanti.
In definitiva, l’acquirente, firmando il contratto di
compravendita, dichiara di “ben conoscere” il regolamento che si impegna a rispettare o, quantomeno, dovrebbe farsi parte diligente per procurarsi
tale atto e leggersi le disposizioni che contiene (la
consueta trascrizione dovrebbe garantire la conoscibilità dello stesso); se tali regole non gli stanno
bene, nessuno lo obbliga a comprare quell’appartamento sito in quello stabile, per cui appare irrealistico che possa pretendere, in sede di stipula, di discutere o negoziare il contenuto del regolamento
condominiale, con la possibilità di modificarne le
clausole.
In fondo, il costruttore, predisponendo il regolamento quando ancora il condominio non era ancora costituito, ha fissato alcuni precetti (generali ed
354
astratti) di convivenza valevoli per tutti coloro che
entrassero a far parte di quella compagine condominiale e, proprio al fine di conferire maggiori stabilità agli stessi, ha predisposto un testo non modificabile con maggioranze volubili: nell’ipotesi di
acquisto dell’appartamento, si accettano in toto tali
dettami, salva sempre la possibilità di cambiarli
qualora si raggiunga il consenso unanime di tutti i
partecipanti.
D’altronde, non sempre la clausola, imposta dal costruttore e subita dall’acquirente, porta necessariamente ad una posizione vantaggiosa per il primo e
penalizzante per il secondo, perché, ad esempio, il
vietare la destinazione degli appartamenti ad uso
commerciale, a studi professionali, o ad uffici pubblici, ecc. può far conseguire un aumento economico dell’edificio nel suo complesso e della singola
unità abitativa che, in caso di successiva vendita,
registrerebbe un’indubbia rivalutazione proficua
per l’originario acquirente, stante l’avvenuta “blindatura” dell’assetto proprietario esclusivamente in
una prospettiva residenziale; inoltre, per assicurare
il miglior godimento delle singole unità immobiliari e del complesso nonché per assicurare l’omogeneità nell’utilizzazione delle stesse ed evitare i danni reciproci, si può vincolare l’utilizzo degli appartamenti in conformità con la destinazione dell’edificio, come si possono impedire, a beneficio di tutti, quelle iniziative individuali che turbino l’armonia dell’insieme.
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Opinioni
Condominio
Deliberazioni
Forma dell’atto d’impugnazione
delle delibere condominiali
di Alessandro Gallucci - Avvocato in Lecce
Il diritto del condominio ad impugnare le delibere assembleari, le quali - a seconda della tipologia del vizio - possono essere considerate nulle o annullabili, per essere correttamente esercitato deve rispettare
determinati requisiti formali richiesti a pena dell’inammissibilità dell’azione. L’art. 1137 cod. civ., novellato
dalla legge n. 220/2012 (la così detta riforma del condominio), parrebbe imporre l’uso dell’atto di citazione per introdurre il giudizio d’impugnazione delle delibere, così chiudendo una querelle risolta pilatescamente dalle Sezioni Unite nel 2011.
Vizi delle delibere condominiali
Per impugnare un atto e chiederne l’invalidazione,
è evidente, devono esserci dei motivi tali da poter
far considerare quell’atto illegittimo. Nel caso delle
delibere assunte dalle assemblee condominiali, come per quelle societarie, i vizi possono essere ricondotti nell’ambito delle categorie della nullità e
dell’annullabilità.
Prima dell’ entrata in vigore della legge n.
220/2012, l’art. 1137 cod. civ. faceva generico riferimento al diritto del condomino d’impugnare le
deliberazioni contrarie alla legge e/o al regolamento di condominio prevedendo un breve termine di
decadenza (1). Il codice civile non faceva alcun riferimento alla tipologia di vizi da cui potevano essere afflitte le delibere condominiali; in questo
contesto, come spesso è accaduto e accade per la
materia condominiale, dottrina e giurisprudenza
hanno svolto uno ruolo fondamentale e determi-
nante. Fondamentale perché gli studiosi e di par
loro i giudici, nei rispettivi ambiti di competenza,
hanno tracciato un solco tra vizi che comportavano nullità e quelli da cui far discendere l’annullabilità del deliberato assembleare (2). Determinante
perché il diritto vivente che s’è venuto così a creare (suggellato in una pronuncia resa dalle Sezioni
Unite della Suprema Corte nel marzo del
2005 (3)) è divenuto l’addentellato normativo di
fatto dal quale far discendere i tempi d’impugnazione delle delibere (vedi infra) e quindi l’ammissibilità delle azioni giudiziali.
La modifica delle norme condominiali non ha prodotto sostanziali novità in tema di cause d’invalidità delle delibere. Non che non ci sia stato nessun
cambiamento, ma il Legislatore della riforma non
ha inteso introdurre nell’ordinamento né un’elencazione dei vizi comportanti la nullità o l’annullabilità – limitandosi a sporadiche e circostanziate
individuazioni di vizi (4) –, né tanto meno ha
(1) Art. 1137, secondo e terzo, comma vecchia formulazione: “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può fare
ricorso all'autorità giudiziaria , ma il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità stessa.
Il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza,
entro trenta giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti”.
(2) Cfr. G. Branca, Comunione, Condominio negli edifici, Bologna, 1982.
(3) Si legge nella sentenza n. 4806/05 che devono “qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere
con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico,
alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che
non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che
incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla
proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto”; devono, “invece,
qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare
costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza
inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di
convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto” (Cass., Sez. Un., 7
marzo 2005, n. 4806).
(4) La legge n. 220/2012, novellando il codice civile, ha previsto alcune specifiche ipotesi di vizi da cui discende la nullità
o l’annullabilità della delibera. In tema di modificazione della
destinazione d’uso delle parti comuni, l’art. 1117-ter cod. civ.
specifica che “la convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e
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Condominio
enunciato dei principi cui rifarsi per catalogare i
vizi medesimi. Ciò significa che, a parte le ipotesi
specificamente menzionate, l’impianto motivazionale e l’elencazione contenuta nella sentenza n.
4806/05 resta tutt’ora un punto di riferimento in
materia.
Tempistica d’impugnazione della delibera
invalida
La riconduzione di un vizio dal quale è affetta una
deliberazione assembleare nell’alveo della nullità o
dell’annullabilità non è questione meramente nominalistica. Come per la materia contrattuale, affermare che una delibera è nulla o annullabile incide profondamente sui tempi che l’interessato ad
impugnare ha per iniziare l’azione giudiziale (5).
D’altronde, è lo stesso art. 1137 cod. civ. a specificare che l’annullamento della delibera può essere
chiesto, entro trenta giorni dalla deliberazione, dai
condomini presenti, che siano dissenzienti ed astenuti, e dalla comunicazione del verbale per i condomini assenti (6). Sul punto è utile evidenziare
che la norma testé citata nella sua formulazione vigente prima dell’intervento novellatore della legge
n. 220/2012 non faceva riferimento all’annullamento, ma più semplicemente alla possibilità di
adire l’Autorità giudiziaria nel medesimo termine.
Ad ogni buon conto anche in passato non v’era
dubbio che l’art. 1137 cod. civ. fosse riferito alle
sole delibere annullabili e non anche a quelle nulle (7).
In questo contesto, pertanto, è pacifico che le deliberazioni annullabili debbano essere impugnate nei
termini di cui all’art. 1137 cod. civ. mentre quelle
nulle possano essere impugnate in ogni tempo, restando salvi solamente gli effetti dell'usucapione e
la nuova destinazione d'uso”. L’art. 1129, comma 14, cod. civ.
prevede la nullità della nomina per il caso in cui l’amministratore non dettagli analiticamente il compenso richiesto per la
propria attività. L’art. 66 disp. att. cod. civ. prevede l’annullamento della delibera per i vizi concernenti le modalità di convocazione.
(5) È fondamentale ricordare che ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 5, comma 1-bis, D.Lgs. n. 28/2010 e 71quater disp. att. cod. civ. l’impugnativa della delibera condominiale è sottoposto all’esperimento del tentativo obbligatorio di
conciliazione.
(6) Art. 1137, comma 2, cod. civ.: “Contro le deliberazioni
contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità
giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio
di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i
dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti”.
(7) In tal senso è stato affermato che “l’articolo (1137 cod.
civ. n.d.A.) ha un’ampia portata ma non si riferisce a quelle decisioni assembleari che sono senza effetto in forza dei principi
356
della prescrizione delle azioni di ripetizione (8).
Quanto alle modalità di conteggio dei termini s’è
detto che per i presenti, astenuti e dissenzienti, i
trenta giorni iniziano a decorrere dalla data di deliberazione mentre per gli assenti, il termine iniziale
è quello in cui hanno avuto conoscenza legale
(ex art. 1335 cod. civ.) del verbale; ciò vuol dire
che qualora eventualmente non vi sia stata consegna a mano, il termine perentorio decadenziale inizia a decorrere dal giorno in cui l’avviso di giacenza
della raccomandata è stato depositato nella cassetta postale e non da quello in cui il condomino ha
materialmente ritirato l’avviso dall’ufficio postale
ov’era in giacenza (9).
Modalità d’impugnazione, novità
legislative e prime pronunce
giurisprudenziali
Chiarito chi, perché e quando, può impugnare una
deliberazione assembleare, assume fondamentale
importanza comprendere in che modo la decisione
assembleare debba essere posta al vaglio dell’Autorità Giudiziaria. La questione non è assolutamente
di poco conto, in quanto sbagliare la forma dell’atto introduttivo vuol dire (anche se vedremo che in
passato non sempre era così) vedersi rigettata l’azione sul nascere perché inammissibile, con conseguente rischio, nel caso di deliberazioni qualificabili come annullabili, della decadenza dal diritto ad
impugnare per lo spirare del termine perentorio
previsto dalla legge.
Al riguardo la situazione è stata per lungo tempo
notevolmente incerta (10) a tal punto da rendere
necessario, nell’aprile del 2011, un intervento risolutore delle Sezioni Unite. La legge di riforma del
condominio, modificando l’art. 1137 cod. civ., è
generali indiscutibili: e perciò si possono attaccare in ogni
tempo da chiunque vi abbia interesse” (così Branca, op. cit.,
651).
(8) Artt. 1421-1422 cod. civ. dettati in materia di nullità dei
contratti ma aventi portata generale, cfr. in tal senso Cass. 19
marzo 2010, n. 6714.
(9) Sulla presunzione di conoscenza degli atti recettizi ex art.
1335 cod. civ. tra le tante si veda, da ultimo, Cass. 21 gennaio
2014, n. 1188, nella quale è affermato che “le lettere raccomandate si presumono conosciute, nel caso di mancata consegna per assenza del destinatario e di altra persona abilitata
a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l'ufficio postale (Cass. 24 aprile 2003, n. 6527;
Cass. 1° aprile 1997, n. 2847)”.
(10) Al riguardo in una pronuncia del Tribunale di Salerno
del 23 maggio 2009, la quale espone la situazione citando il
contrasto in atto in sede di legittimità si legge che “la questione della forma dell'atto di impugnazione delle delibere condominiali è in realtà tuttora massimamente controversa” (così
Trib. Salerno 23 giugno 2009).
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andata ad intervenire anche su questo argomento
rimettendo, come si suole dire, tutto in gioco. Vista la rilevanza pratica della situazione ante riforma (11) è utile rappresentare qui di seguito le ragioni del contrasto, la soluzione offerta dalle Sezioni Unite, l’intervento legislativo novellatore e le
prime pronunce in tema.
Oggetto del contrasto, per lunghissimo periodo, è
stato il significato da attribuire al termine ricorso
indicato nella formulazione originaria dell’art.
1137 cod. civ. (12). Come sempre accade quando
sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite,
l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza non
era univoca. Da un lato v’era un orientamento
(più datato), secondo il quale il termine ricorso stava ad indicare la specifica forma dell’atto introduttivo del giudizio d’impugnazione delle delibere
condominiali (13). Di contro, invece, si argomentava portando avanti la tesi della così detta “a-tecnicità” del termine ricorso; in sostanza si propendeva per l’utilizzazione dell’atto di citazione, quale
forma dell’atto introduttivo, ma si concludeva per
la validità dell’introduzione del giudizio a mezzo ricorso, in virtù del così detto principio generale di
conservazione degli atti (14). La scelta della citazione o del ricorso comportava una diversa valutazione del rispetto dei termini nel caso d’eccezione
di decadenza dal diritto ad impugnare. Per l’ipotesi
di giudizio introdotto con atto di citazione, infatti,
il rispetto del termine doveva essere valutato tenendo in considerazione la data di notificazione
dell’atto medesimo. Nel caso di ricorso, invece, il
termine si poteva dire rispettato se l’impugnante
aveva depositato l’atto in cancelleria entro i trenta
giorni di cui all’art. 1137 cod. civ. Sebbene l’ultimo orientamento citato avesse, di fatto, il pregio si
non precludere alcuna forma possibile all’atto introduttivo del giudizio, era altrettanto evidente
che la situazione d’incertezza, per di più su un tema
così delicato, non poteva non essere risolta. Come
spesso è accaduto in materia condominiale (15)
prima dell’approvazione della legge n. 220/2012, la
soluzione è stata fornita dalle Sezioni Unite della
Cassazione. La massima espressione della Corte nomofilattica ha propeso per la natura a-tecnica del
termine ricorso, avvalorando quindi quella tesi che
vedeva nell’atto di citazione, la forma d’atto utilizzabile in virtù della valenza generale dell’art. 163
c.p.c. Purtuttavia, gli ermellini hanno ritenuto ammissibile, in virtù del principio generale di conservazione degli atti, il ricorso quale forma introduttiva del giudizio d’impugnazione delle delibere condominiali (16). Fuori dal linguaggio giuridico si
può dire che la sentenza n. 8491 ha “salvato capre e
cavoli”.
La così detta riforma del condominio è intervenuta
sull’art. 1137 cod. civ. nella cui formulazione vigente è sparito il termine ricorso (17). Tale cesura
rispetto al passato non è stata accolta in modo univoco. In sostanza v’è stato chi ha sostenuto che
nulla sarebbe cambiato rispetto ai principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite nel 2011 e chi, in-
(11) In ragione del così detto principio tempus regit actum e
dell’enorme mole di contenzioso pendente e disciplinato dalla
“vecchia” normativa.
(12) Per il testo della norma nella sua vecchia formulazione
si veda nota 1.
(13) In una delle sentenza che meglio spiegano il perché di
questa presa di posizione, si legge che “è fermo in giurisprudenza (sent. 1716/75, 1662/88, 2981/88) che l'impugnazione
delle deliberazioni dell'assemblea dei condomini si propone
con ricorso perché questa parola, usata nel testo dell'art. 1137
cod. civ., non può ritenersi adoperata in senso improprio, come mera istanza giudiziale, invece che in senso tecnico. [...]
Secondo il significato letterale delle espressioni, reso esplicito
dall'articolo determinativo "il", non può dubitarsi che la parola
"ricorso" sta ad indicare non la mera possibilità per il condominio dissenziente di rivolgersi al giudice per l'accertamento della nullità o per l'annullamento della deliberazione contraria alla
legge o al regolamento di condominio, bensì la forma della domanda” (così Cass. 9 luglio 1997, n. 6205).
(14) In tal senso, “è stato convincentemente affermato che
in tema di condominio, pur volendo ritenere che l'impugnativa
delle delibere assembleari è vincolata al rito previsto per i procedimenti introdotti con ricorso per soddisfare l'esigenza di risolvere sollecitamente le questioni concernenti la gestione del
condominio, nondimeno, ove tali esigenze di celerità non risultino compromesse in relazione al mezzo usato (cioè l'atto di citazione), deve farsi applicazione del principio generale di conservazione degli atti in virtù dell'equipollenza e del consegui-
mento dello scopo” (così Cass. 28 maggio 2008, n. 14007, in
senso conf. Cass. 30 luglio 2004, n. 14560).
In dottrina sull’argomento si veda G. Branca, op. cit., Terzago, Il condominio, Milano, 1985, C. Costabile, L'impugnazione
delle delibere condominiali ex art. 1137 c.c.: i problemi processuali connessi alla scelta del ricorso, in Giur. merito, 2008, 10,
2459.
(15) Si pensi, per citarne alcune all’inapplicabilità in ambito
condominiale del principio dell’apparenza (Cass., Sez. Un., n.
5035/02), alla pronuncia sulle cause d’invalidità delle delibere
(Cass., Sez. Un., n. 4806/05), ecc.
(16) “L'art. 1137 cod. civ. non disciplina la forma delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, che vanno pertanto proposte con citazione, in applicazione della regola dettata
dall'art. 163 cod. proc. civ. L'adozione della forma del ricorso
non esclude l'idoneità al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale, a patto che l'atto sia presentato
al giudice, e non anche notificato, entro i trenta giorni previsti
dall'art. 1137 cod. civ., atteso che estendere alla notificazione
la necessità del rispetto del termine non risponde ad alcuno
specifico e concreto interesse del convenuto, mentre grava
l'attore di un incombente il cui inadempimento può non dipendere da una sua inerzia, ma dai tempi impiegati dall'ufficio giudiziario per la pronuncia del decreto di fissazione dell'udienza
di comparizione” (Cass., Sez. Un., 14 aprile 2011, n. 8491, in
Diritto & Giustizia, 2011, 21 aprile).
(17) Per l’art. 1137, comma 2, cod. civ. nella sua formulazione vigente si veda nota 6.
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vece, ha accolto la modificazione normativa come
la prova del fatto che il legislatore avesse espunto
dall’ordinamento la possibilità di impugnare la delibera tramite ricorso (18). Le prime impugnazioni
introdotte con ricorso a seguito dell’entrata in vigore della riforma del condominio stanno suffragando quest’ultima ipotesi. In particolare, ultimo
in ordine di tempo ad esprimersi in tal senso è stato il Tribunale di Cremona con la sentenza n. 37
depositata in cancelleria il 23 gennaio 2014. Il giudice lombardo, citando un altro precedente di merito (19), ha ritenuto condivisibile quella lettura
secondo la quale l’espunzione dall’art. 1137 cod.
civ. del termine ricorso altro non ha voluto significare che la certa riconduzione dell’impugnativa
delle delibere assembleari nell’ambito di quelle
azioni esperibili secondo i modi ordinari previsti
dalla legge, ossia con atto di citazione ex art. 163
cod. proc. civ.; né, secondo il magistrato cremonese può essere invocato in queste circostanze il così
detto principio di conservazione degli atti giudiziari
e il meccanismo sanante previsto per la nullità dell’atto di citazione dall’art. 164 del codice di rito (20). In effetti, l’utilizzazione del ricorso muta in
radice le prescrizioni che l’atto medesimo deve
contenere rispetto all’atto di citazione. Nel ricorso
non v’è traccia, ad esempio, dell’avvertimento di
cui all’art. 163, comma 3 n. 7, cod. civ. e non può
esservi poiché si tratta di indicazioni che saranno
contenute nel decreto di fissazione dell’udienza. In
buona sostanza, se questa sarà l’impostazione che
prenderà piede nel diritto vivente, verrà messa in
soffitta la procedura ibrida che prevedeva una sorta
di prima udienza cautelare (laddove il ricorrente
avesse chiesto la sospensione dell’efficacia della delibera) con prosecuzione della causa secondo le regole dell’ordinario giudizio civile.
Citazione, dunque, e non ricorso; attenzione, però,
a non cadere in conclusioni troppo affrettate con
riferimento alla possibilità per l’attore di utilizzare
strumenti processuali specificamente normati dal
codice di rito. Il riferimento è al così detto procedimento di cognizione sommaria di cui all’art. 702bis e ss. cod. proc. civ. Ad avviso di chi scrive, la
soluzione prospettata dalla sentenza n. 37 del Tribunale di Cremona non pregiudica la possibilità
per il condomino, ove ricorrano i presupposti di
legge, di fare uso di tale procedura, spesso utile nelle cause aventi ad oggetto semplici contestazioni
afferenti il procedimento di convocazione e/o deliberazione. In sostanza il fatto che per questa procedura l’atto introduttivo del giudizio prenda la forma del ricorso non è preclusivo della possibilità di
scelta. Non bisogna, infatti, fermarsi al mero dato
letterale, sia perché il ricorso, in questi casi, deve
contenere tutte le indicazioni previste per l’atto di
citazione (21), sia perché dev’essere considerato un
rito speciale di cognizione, predeterminato dalla
legge ed utilizzabile a ben precise condizioni (22).
In pratica, così come l’amministratore condominiale può decidere di recuperare il credito per mezzo
di un ricorso per decreto ingiuntivo ex art. 63 disp.
att. cod. civ. o con un atto di citazione ordinario o
con un ricorso ex art. 702-bis cod. proc. civ., allo
stesso modo il condomino, ove ne ricorrano i presupposti, può impugnare il deliberato assembleare
instaurando il giudizio con un atto di citazione oppure con un ricorso ex art. 702-bis c.p.c.
In conclusione l’effetto dell’espunzione dall’art.
1137 cod. civ. del termine ricorso dev’essere visto
come un effetto chiarificatore finalizzato ad eliminare incertezze e acrobazie processuali create dalla
prassi giurisprudenziale nella vigenza della vecchia
disciplina condominiale e non come una restrizione delle facoltà dell’attore nell’ambito delle scelte
processuali che l’ordinamento mette a sua disposizione.
(18) In relazione alla prima soluzione interpretativa si veda
in dottrina G. V. Tortorici (a cura di), L’assemblea, in AA.VV., La
riforma del Condominio, Milano, 2013, 95-96; contra R. Triola (a
cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2013, 721 e A. Gallucci,
Il condominio negli edifici, Milano, 2013, 424.
(19) Trib. Milano 21 ottobre 2013.
(20) Si legge in tal senso in sentenza che: «il principio di
conservazione degli atti processuali (poiché l'atto non può, comunque, raggiungere lo scopo cui è destinato, ex art. 156 ultimo comma, cod. proc. civ., pena la completa abdicazione dal
generalissimo principio di congruità delle forme allo scopo o
della strumentalità delle forme che costituisce la stessa ratio
della disciplina che il codice di rito dedica - per usare le stesse
parole usate dal legislatore nell'intitolare il capo I del titolo de-
dicato agli atti processuali - alle “forme degli atti e dei provvedimenti”), né può operare il meccanismo sanante di cui all'art.
164, comma 2, cod. proc. civ. (poiché esso è regolato espressamente nei soli casi di introduzione del giudizio con citazione
e poiché manca totalmente l'indicazione di una udienza di
comparizione, e non solo l'avvertimento previsto dal n. 7) dell'art. 163» Trib. Cremona 23 gennaio 2014, n. 37.
(21) Ad esclusione della data dell’udienza che verrà successivamente fissata per decreto dal giudice.
(22) Sul punto si veda art. 702-bis ss. cod. proc. civ., per
una disamina approfondita su questo particolare procedimento, si veda M. Cataldi, Il procedimento sommario di cognizione,
Milano, 2013.
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Famiglia
Famiglia “di fatto”
Il problema dell’estensione della
tutela possessoria ai conviventi
more uxorio
di Alessandra Di Benedetto - Dottore in giurisprudenza
La S.C. con la sentenza del 2 gennaio 2014, n. 7, involge la delicata tematica della tutela possessoria del
convivente more uxorio estromesso in maniera violenta o occulta dall’immobile adibito a casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune della famiglia non fondata sul matrimonio. Gli
Ermellini in linea con precedenti pronunce in materia, ribadiscono nuovamente che il convivente non è
un ospite, ma assume la qualifica di co-detentore con conseguente legittimazione ad attivare la tutela
possessoria.
La vicenda in esame ha ad oggetto il ricorso, proposto innanzi il Tribunale di Torino, per la reintegrazione nel possesso o comunque nella detenzione dell’immobile, un appartamento abitato dalla signora
R.Z. more uxorio con il signor R.M.C., il quale deteneva l’immobile in virtù di comodato gratuito concessogli da uno dei propri fratelli, M.C.
Il giudice di prime cure aveva accolto la domanda e
ritenuto avvenuto lo spoglio, avendo accertato che i
signori F.C. e M.C., entrambi germani della parte
comodataria, avevano cambiato la serratura nel periodo in cui il fratello R.M.C., a seguito di un grave
incidente, era stato lungamente degente in ospedale.
Contro la sentenza era stato proposto appello, innanzi la Corte di appello di Torino, che aveva riformato la sentenza di primo grado e rigettato la
domanda di reintegrazione ex art. 1168 cod. civ.
I Giudici della Corte di appello, pur ritenendo provato ed esistente il rapporto di convivenza more
uxorio tra la signora R.Z. ed il signor R.M.C., escludevano che in capo alla signora R.Z. potesse configurarsi una situazione di possesso. Poiché la relazione con l’immobile trovava fonte in un rapporto
contrattuale di comodato, intercorso tra R.M.C. ed
il fratello M.C., quest’ultimo proprietario e che la
signora R.Z. era consapevole di usufruire dell’alloggio messo a disposizione del convivente da un terzo.
La Corte di appello non ha ritenuto ipotizzabile a favore dell’attrice neppure una detenzione qualificata,
(1) In questa Rivista, 2014, 2, 121 con commento di M. Monegat.
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legittimante il ricorso all’azione di reintegrazione, in
virtù del fatto che l’alloggio doveva considerarsi messo a disposizione per ragioni di precaria ospitalità.
La vicenda è così giunta all’esame della S.C. e si è
conclusa con l’accoglimento del ricorso e la riforma della sentenza impugnata in ragione del potere
di fatto sulla casa di abitazione ove si concretizza il
programma di vita familiare, che la convivente
della parte comodataria può vantare (1).
Potere che appare essere, a giudizio dei giudici della S.C., diverso da quello derivante da ragioni di
mera ospitalità, al punto da assumere i connotati
tipici di una detenzione qualificata che ha ragione
di essere, appunto, in un negozio giuridico di tipo
familiare, anche in considerazione del rilievo sociale che ha assunto la convivenza more uxorio, la c.d.
famiglia di fatto.
La famiglia c.d. di fatto
Il fenomeno delle famiglie non fondate sul matrimonio, le c.d. famiglie di fatto, appare essere sempre più diffuso nel costume sociale. Sembra essere
tramontata l’epoca in cui il convivere come coniugi, non fondando, però, il rapporto nel matrimonio, era considerato come un disvalore.
La mutata coscienza sociale segna una nuova epoca
per le convivenze al di fuori del matrimonio (2) e
va registrato un sempre più attento interesse per la
(2) Bianca, La famiglia, le successioni, III ed., Milano, 2001,
25.
359
Opinioni
Famiglia
rilevanza socio giuridica di tale fenomeno e la possibile tutela dello stesso.
Non è rinvenibile, all’interno del nostro ordinamento, una nozione giuridica di “famiglia di fatto” (3), né essa è espressamente riconosciuta dall’ordinamento.
Sebbene non sembrino mancare numerose disposizioni giuridiche applicabili a svariati profili del concetto in esame (4); tuttavia, si tratta di norme dislocate disorganicamente nel nostro ordinamento e
prive di qualsivoglia coordinamento e che in nessun
caso provvedono a fornire una definizione formale
del concetto di “famiglia non fondata sul matrimonio” o “famiglia di fatto” o una significativa tutela.
Nonostante la progressiva attenzione prestata alla
famiglia non fondata sul matrimonio non si può allo stato attuale sostenere che vi sia stato un mutamento della concezione costituzionale di famiglia (5) intesa quale “società naturale fondata sul
matrimonio”, come si legge nell’art. 29 Cost.
(3) Sulla famiglia di fatto in generale, v. amplius: F. Gazzoni,
Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983; Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991; D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano 1989; Id., La famiglia di fatto al bivio: rilevanza di singole fattispecie o riconoscimento generalizzato del fenomeno, in Giust. civ., 1982, II, 25; Dogliotti, voce “Famiglia di fatto”, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1992, 188;
Roppo, La famiglia senza matrimonio. Diritto e non diritto nella
fenomenologia delle libere unioni, in Riv. trim., 1980, 742; Cubeddu, Il rapporto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm.,
1990, 323; Mazzocca, La famiglia di fatto (realtà attuali e prospettive), Milano, 1989; Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, Padova, 1992; Finocchiaro, Convivenza extra coniugale e convivenza more uxorio. Differenze (ai fini del diritto all’assegno di divorzio), in Giust. civ., 2002, 1001; Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Camerino - Napoli, 1980, 84
ss.; Perlingeri, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazione
per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, 136; Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in AA.VV., Napoli, 1988, 51 ss.; Busnelli, Santilli, La famiglia di fatto, in Comm. Cian, Oppo e Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993; Tommasini, La famiglia di fatto,
Padova, 2004; AA.VV., Convivenze e situazioni di fatto, in AA.
VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e
matrimonio, 1, I ed., Milano, 2002; Alagna, Famiglia di fatto e
famiglia di diritto a confronto: spunti in tema di rapporti bancari,
in Dir. Fam. Pers., 2001; Alagna, La famiglia di fatto al bivio: rilevanza di singole fattispecie o riconoscimento generalizzato del
fenomeno?, in Giust. civ., 1982; Annunziata, Iannone, Dal concubinato alla famiglia di fatto: evoluzione del fenomeno, in Fam.
Pers. Succ., 2010; Asprea, La famiglia di fatto in Italia ed in Europa, Milano, 2003; Asprea, La famiglia di fatto, Milano, 2009;
Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive,
in Dir. Fam. Pers., 1999; Balestra, La famiglia di fatto, Padova,
2004; Bernardini De Pace, Convivenza e famiglia di fatto. Ricognizione del tema nella dottrina e nella giurisprudenza, in
AA.VV., I Contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini;
Bile, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in Riv. dir. civ., 1996; Calderale, La famiglia di fatto tra
legge e autonomie private, Bari, 1990; Calò, Profili di interesse
notarile della famiglia di fatto, nel volume Studi e materiali, edito
a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Commissione
Studi, 2 (1986 - 1988), Milano, 1990; Cocuccio, Convivenze e
famiglia di fatto: problematiche e prospettive, in Dir. Fam. Pers.,
2009; Consiglio Nazionale del Notariato, La famiglia di fatto ed
i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del XXXIII Congresso
Nazionale del Notariato, Napoli, 29 settembre - 2 ottobre 1993,
Roma 1994; D’Ercole, voce “Famiglia di fatto”, in Dizionari del
diritto privato, a cura di Natalino Irti, I, Milano, 1980; Falletti,
Famiglia di fatto e convivenze, Padova, 2009; Falletti, La fine
della famiglia di fatto, gli aspetti patrimoniali, in AA.VV., Gli
aspetti patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, a
cura di Oberto, Padova, 2011; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto,
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di disciplina rispettosa dei principi etici e costituzionali, in Notariato, 2008; Lipari, Rapporti coniugali di fatto e rapporti di convivenza (Note a margine di un iter legislativo), in Riv. trim. dir.
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conviventi e attività notarile, Milano, 2009; Prosperi, La famiglia
di fatto: analisi e disciplina di un modello familiare attuale e diffuso, Torino, 2007; Pellarini, La famiglia di fatto, Milano, 2003;
Ceccherini e Francini, Famiglie in crisi e autonomia privata. I
contratti dei coniugi e dei conviventi tra principi normativi e regole della giurisprudenza, Milano, 2013; B. De Filippis, R. De Filippis, Di Marco, Lettieri, Starita, Zambrano, La separazione
nelle famiglie di fatto, II ed., Milano, 2014.
(4) In particolare, tra i diversi provvedimenti, si ricordano:
legge n. 356/1958, sull’assistenza in favore dei figli non riconosciuti dal padre caduto in guerra, quando i genitori abbiano
convissuto more uxorio nel periodo del concepimento; art. 42,
legge n. 313/1968 parificazione, ai fini pensionistici, alla della
donna che ha convissuto con un militare caduto in guerra; art.
1, legge n. 405/1975, in materia di istituzione di consultori familiari; art. 30, comma 1, legge n. 354/1975, in tema di permessi in favore dei condannati per la visita ai familiari; legge n.
194/1978, sull’interruzione volontaria della gravidanza; art. 6,
legge n. 392/1978, dichiarato incostituzionale (sent. Corte
cost. n. 404/1988) nella parte in cui non prevedeva, tra gli
aventi diritto alla prosecuzione del rapporto locativo dopo la
morte del titolare, anche il convivente more uxorio, nonché nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto al
conduttore che avesse cessato la convivenza, a favore del già
convivente quando sussiste la prole; art. 45. legge n.
184/1983, in materia di adozione ed affidamento dei minori;
art. 199, cod. pen., che estende la possibilità di astenersi dalla
deposizione anche a coloro che convivono o hanno convissuto
con l’imputato; art. 4, D.P.R. n. 223/1989, sulla rilevanza ai fini
anagrafici della famiglia non fondata sul matrimonio; legge n.
302/1990, norme in favore delle famiglie delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; legge n. 82/1991, sui collaboratori di giustizia; art. 17, legge n. 179/1992, con riferimento alle cooperative a proprietà indivisa; art. 572, cod. pen. In
materia di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli; art.
317-bis, cod. civ., sulla potestà parentale sui figli; art. 342-bis,
cod. civ., in tema di forme di protezione contro la violenza in
famiglia; art. 6, comma 4, legge n. 184/1993 (sostituito dall’art.
6, legge n. 149/2001) in ordine alle modalità di determinazione
dell’idoneità all’adozione; art. 417, cod. civ., sull’amministrazione di sostegno; art. 5, legge n. 40/2004, sulla procreazione
medicalmente assistita; art. 129, D.Lgs. n. 209/2005, codice
delle assicurazioni private.
(5) In questi termini cfr. Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8,
in Giur. it., 1996, I, 281 in cui la Corte, richiamando la propria
giurisprudenza, ha posto in luce la netta diversità della convivenza di fatto, fondata sull'affectio quotidiana, liberamente e in
ogni istante revocabile, di ciascuna delle parti rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio, affermando che soltanto quest'ultimo rap-
360
Immobili & proprietà 6/2014
Opinioni
Famiglia
L’indice normativo invocato per procedere al riconoscimento ed alla relativa tutela giuridica delle
famiglie non fondate sul matrimonio è stato, però,
rinvenuto nell’art. 2 Cost. poiché in esso si garantiscono e si promuovono i diritti inviolabili dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità e si esplica la
sua libertà (6).
È proprio nella categoria delle formazioni sociali
che la dottrina e la giurisprudenza (7) ascrivono le
famiglie non fondate sul matrimonio, al fine di riconoscere rilevanza giuridica e legittimare protezione,
altrimenti immotivata o difficilmente giustificabile.
Con le espressioni “famiglia di fatto” e “convivenza
more uxorio”, oggi utilizzate comunemente ed indistintamente, ci si intende riferire, in termini generali, a quella particolare formazione sociale che presuppone una convivenza caratterizzata dall’affectio
coniugalis tra due soggetti non uniti in matrimonio.
Formazione sociale tra individui che, se pur priva
di qualsiasi formalizzazione del rapporto di coppia,
appare essere in grado di dar vita ad una stabile comunione di vita spirituale e materiale.
La quale travalica l’esistenza di una mera relazione
affettiva, spingendosi più in là, al punto da configurare una vera e proprio unione, in cui i conviventi
si assistono reciprocamente, in maniera non dissimile a quanto accade in costanza di matrimonio.
In assenza di una normativa specifica, stante la notevole difficoltà di distinguere la famiglia di fatto
dal rapporto occasionale, dottrina e giurisprudenza
hanno elaborato indici identificativi e caratteri
propri, utili a cogliere le differenze, non sempre
macroscopiche, tra i due tipi di rapporti.
La relazione tra individui componenti la famiglia
non fondata sul matrimonio sembra caratterizzarsi,
secondo buona parte della dottrina, per due elementi distintivi: il primo, di carattere soggettivo,
da identificarsi nell’affectio (8), consistente nella
reciproca partecipazione alla vita del partner; il secondo, di carattere oggettivo, costituito dalla stabile convivenza (9).
Elementi identificativi sono, altresì, la presenza di
vincoli di fedeltà, assistenza e reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali (10), l’effettività della
convivenza (11) e la stabilità (12) del legame (13).
Un ruolo di fondamentale importanza nell’affermazione della rilevanza giuridica delle convivenze di
fatto hanno avuto i giudici della Consulta.
In diverse occasioni i giudici della Corte costituzionale hanno avuto modo di affrontare sia la questione del riconoscimento giuridico delle convivenze
more uxorio, sia della possibilità di estendere taluni
strumenti di tutela previsti esplicitamente per la famiglia legittima.
Appare di fondamentale importanza, in tal senso,
la sentenza della Consulta n. 404/1998 nella quale
i Giudici di legittimità delle leggi mettono in risalto la natura della c.d. famiglia di fatto intesa questa
come formazione sociale nella quale si estrinseca la
personalità dell’individuo favorendone lo sviluppo.
porto può ritenersi ricondotto all'ambito della protezione offerta dall'art. 29 Cost.
(6) Cass. 8 febbraio 1977, n. 556, in Dir. fam., 1977, 514,
con nota di Liotta, Sulla rilevanza formale della famiglia di fatto.
(7) Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237, in Foro It., 1987,
I, 2353, per la quale “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al
riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.)”.
(8) Tra chi pone l’accento sull’elemento soggettivo: Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit.
(9) Tra chi valorizza maggiormente l’elemento oggettivo:
Roppo, La famiglia senza matrimoni - Diritto e non diritto nella
fenomenologia delle unioni libere, cit.
(10) Rescigno, Manuale di diritto privato italiano, Napoli,
1992, 382.
(11) In assenza di strumenti di forme di pubblicità del rapporto, appare essenziale, perché si possa parlare di “famiglia
di fatto”, che i componenti di detto sodalizio convivano effettivamente e continuativamente nella medesima abitazione.
(12) Cass. 10 agosto 2007, n. 17643, in materia di separazione, a proposito dell’incidenza della convivenza more uxorio
sul diritto all’assegno di mantenimento e nello specifico in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dello
stesso: “deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e
famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità. Che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le
persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente”.
(13) È necessario che il rapporto che fonda la famiglia abbia avuto già una certa durata e lasci presumere che continuerà ad averla in futuro.
(14) V. Corte cost. sent. n. 237/1986 e n. 138/2010.
Immobili & proprietà 6/2014
Il problema dell’estensione della tutela
possessoria ai conviventi componenti
famiglie non fondate sul matrimonio
L’aspetto principale affrontato dai giudici di legittimità con la sentenza in esame riguarda il riconoscimento in capo al convivente more uxorio della legittimazione all’esercizio delle azioni possessorie in
relazione all’immobile in cui si svolge la vita comune.
Come già evidenziato tale questione è già stata affrontata dalla S.C. che in più occasioni ha riconosciuto pacificamente la famiglia di fatto quale formazione sociale rilevante e meritevole di riconoscimento e tutela giuridica (14).
361
Opinioni
Famiglia
Tuttavia, nonostante il riconoscimento costituzionale della famiglia di fatto, la questione non appare di facile risoluzione poiché una norma che
estenda specificamente la tutela possessoria ai componenti della famiglia non fondata sul matrimonio
all’interno del nostro ordinamento non è rinvenibile.
In assenza di un’organica disciplina relativa alla famiglia non fondata sul matrimonio, la giurisprudenza ha dovuto reinterpretare ed utilizzare alcuni
istituti di diritto comune, al fine di concedere tutela alla famiglia di fatto, i cui componenti, diversamente, sarebbe stati abbandonati ai meri rapporti
di forza degli individui.
La dottrina (15) e la giurisprudenza sul punto non
sono state sempre univoche, appaiono, anzi, essere
caratterizzate da orientamenti contrastanti.
In passato, in presenza di convivenze non fondate
sul matrimonio ci si limitava ad osservare che esse
costituivano situazioni di fatto (16), detti rapporti
non erano riconosciuti e non era giuridicamente
tutelabili, ma, al più, erano tollerati (17).
Pertanto, andavano considerati come situazioni
metagiuridiche del tutto irrilevanti per l’ordinamento.
Il convivente more uxorio di colui che deteneva
l’immobile in ragione di un titolo assumeva una
qualifica sostanzialmente assimilabile a quella dell’ospite, in ragione dell’assenza di un rapporto parentale e di una situazione di certezza dei rapporti
giuridici (18).
L’alloggio, in questa prospettiva, era messo a disposizione del convivente per ragioni di precaria ospitalità, ragione idonea ad escludere il presupposto
per ricevere la tutela di cui all’art. 1168 cod. civ.,
non ritenendosi sufficientemente meritevole di tutela quel fenomeno sociale che è la famiglia non
fondata sul matrimonio (19).
Secondo il citato orientamento il solo fatto della
convivenza non pone in essere nella persona del
convivente un potere sulla cosa che possa essere
considerato come un possesso autonomo o al limite
come un compossesso (20).
Tuttavia, in passato, non è mancato un indirizzo
dottrinario e giurisprudenziale di segno diverso e
contrario.
Si è ritenuto, infatti, non escludibile una tutela
possessoria in favore di coloro che fossero legati da
rapporti di parentela o affinità o conviventi con
colui che possiede l’immobile, ove prende forma la
vita comune familiare, poiché in capo a costoro sarebbe configurabile un rapporto di codentenzione
tutelabile con l’azione di spoglio (21).
Al convivente more uxorio che goda con il partner,
questo possessore iure proprietatis, dell’immobile
ove si svolge la vita familiare, va riconosciuta, secondo la Suprema Corte, una posizione riconducibile alla detenzione autonoma (22).
La Cassazione di recente ha aderito senza soluzione
di continuità all’orientamento giurisprudenziale appena citato, affermando espressamente che il convivente more uxorio è detentore qualificato (23).
La tesi secondo la quale la relazione di fatto tra i
conviventi all’interno della casa, dove si concretizza la vita familiare, sarebbe paragonabile alla situazione tra ospiti appare essere contraria alla rilevanza giuridica che la famiglia non fondata sul matrimonio ha progressivamente acquisito e sembra negare la dignità stessa dei componenti della coppia
di fatto.
Va, infatti, considerato che tra i conviventi more
uxorio esiste un reciproco rispettivo riconoscimento
di diritti che con passare del tempo si consolida e
si rafforza, al punto da configurare un vero e proprio consorzio di vita familiare meritevole di tutela
ai sensi dell’art. 2 della Costituzione (24).
Poiché la famiglia non fondata sul matrimonio è
senz’altro collocabile tra le formazioni sociali che
l’art. 2 Cost., considerato luogo di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della
(15) Per le diverse tesi si veda Carbone, Possesso e detenzione nella famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011,
37.
(16) Gangi, Il matrimonio, II ed., Milano, 1953, 1 e 6.
(17) Gangi, Il matrimonio, cit.
(18) Per la tesi dell’ospitalità reciproca Pret. Vigevano, 10
giugno 1996, in Foro it., 1997, I, C. 3686.
(19) Trib. Belluno, 31 ottobre 2008.
(20) Cass. 2 ottobre 1974, n. 2555 e Cass. 14 giugno 2001,
n. 8047.
(21) Cass. 7 ottobre 1971, n. 2753.
(22) Cass. 14 giugno 2012, n. 9786.
(23) Cass. 21 marzo 2013, n. 7214. In senso contrario Protetti, L’impresa familiare tra conviventi more uxorio, in Soc.,
1985, il quale nega che la persona convivente more uxorio sia
legittimata all’azione di reintegrazione relativamente all’abitazione in cui convive.
(24) È stata, dall’altra parte, la stessa giurisprudenza costituzionale a sottolineare, nella Corte cost. n. 237 del 1986, che
“un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.)”.
La stessa Consulta di recente, nella Corte cost. n. 138 del
2010, ha ribadito che “per formazione sociale deve intendersi
ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” .
362
Immobili & proprietà 6/2014
Opinioni
Famiglia
La S.C. con la sentenza in commento si inserisce
nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata
che riconosce al convivente more uxorio la legittimazione ad agire con l’azione possessoria a tutela
del proprio diritto di continuare ad abitare nell’immobile in cui si è svolta la vita comune.
Gli Ermellini evidenziano che, la convivenza continuativa con il comodatario dell’immobile, attribuisce la qualifica di codetentore dell’immobile
concesso in comodato al convivente.
Pertanto, la convivente che vive con il compagno
comodatario dell’immobile ha rispetto a detto bene
la medesima posizione del compagno.
Non si può, dunque, sostenere che il potere di fatto
esercitato dal convivente non proprietario sull’immobile usato quale abitazione della coppia sia riconducibile a ragioni di mera ospitalità.
La convivenza stabile e prolungata per un periodo
di tempo significativo nell’immobile oggetto di comodato assume i connotati tipici di una detenzione
qualificata con conseguente riconoscimento della
tutela possessoria.
Tuttavia, nonostante l’adesione all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la sentenza in esame presenta un aspetto di originalità rispetto alle precedenti pronunce intervenute sull’argomento.
Ed invero, a differenza delle fattispecie in precedenza sottoposte a giudizio della Corte, nel caso de
quo l’azione di turbativa del possesso non è commessa dal convivente bensì da un soggetto estraneo
alla coppia e più precisamente dal proprietario dell’immobile concesso in comodato al fratello che,
approfittando dell’assenza prolungata della coppia,
ha provveduto a sostituire la serratura dell’appartamento impedendo di fatto alla convivente di poter
accedere all’immobile.
Con ciò la S.C. ha sottolineato che “la convivenza
more uxorio, quale forma sociale che dà vita ad un
autentico consorzio familiare e ad un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente
ben diverso da quello derivante da ragioni di pura
ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di
una detenzione qualificata”.
Pertanto, l’estromissione violente o clandestina
dall’unità abitativa non è legittima.
Il fenomeno delle famiglie non fondate sul matrimonio ha assunto una indiscutibile rilevanza sociale nel contesto europeo, tanto da avere indotto numerosi paesi occidentali a provvedere alla sua regolamentazione
Nonostante i ripetuti, sempre più frequenti, interventi della giurisprudenza a tutela di determinate
situazioni tra conviventi more uxorio e nonostante
le numerose disposizioni legislative in tema di famiglia di fatto continua a mancare nell’ordinamento italiano una legge che dia organica disciplina al
fenomeno (25), ormai sempre più diffuso.
È in questo modo possibile riscontrare l’enorme ritardo giuridico e culturale dell’Italia rispetto ad altri Paesi europei (26).
Appare del tutto evidente, il caso in esame ne costituisce prova, che il fenomeno in questione sta
assumendo dimensioni significative ed ormai appare non più eludibile un provvedimento normativo
che miri a disciplinare organicamente la materia,
al fine di non pregiudicare i diritti e le libertà fondamentali degli individui.
(25) Pur tuttavia, Ferrando, Il diritto di famiglia oggi: c’è
qualcosa di nuovo, anzi di antico, in Politica del dir., 2008, 3., ritiene siano stati già garantiti, ai conviventi more uxorio, diritti
inviolabili e pertanto a questa non appare necessario attribuire
interiori strumenti di tutela. Al contrario, altri autori, tra tutti
Bonini, Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano, 2005, si dichiarano favorevoli ad una or-
ganizzazione organica della disciplina, al punto da estendere ai
conviventi more uxorio i medesimi benefici già spettanti ai coniugi.
(26) Sulla questione dell’armonizzazione a livello europeo
delle norme che regolamentano la famiglia: Ruscello, La famiglia tra diritto interno e normativa comunitaria, in Familia, 2001,
697
casa di abitazione familiare non già a titolo di mera
ospitalità (giuridicamente del tutto irrilevante),
ma per soddisfare un interesse proprio (oltre che
della coppia), sulla base di un titolo personale. Titolo personale la cui rilevanza e tutela sono garantiti dalla Costituzione, al punto da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata, legittimante il ricorso alle azioni possessorie.
Dall’altra parte un’unione caratterizzata da stabilità
e contribuzione reciproca, quale appare essere quella delle famiglie non fondate sul matrimonio, comporta che non si possa parlare di rapporti di mera
ospitalità o tolleranza per il convivente more uxorio
di colui che detiene l’immobile in ragione di un titolo.
Con l’evidente conseguenza che il convivente non
può vedersi violentemente o occultamente estromesso dall’abitazione, dove si attua il programma
di vita familiare, senza essere legittimato ad esperire le apposite azioni possessorie, quale quella di
reintegrazione di cui all’art. 1168 cod. civ.
Conclusione
Immobili & proprietà 6/2014
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Opinioni
Fisco
Catasto
Condizioni di legittimità della
revisione delle rendite catastali
di Paola Aglietta - Dottore Commercialista e Revisore Legale in Torino
Quando l’attribuzione di un nuovo classamento ad un’unità immobiliare deriva da una risistemazione dei
parametri relativi alla microzona, l’Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle Entrate) deve indicare l'atto
con il quale si è provveduto alla revisione di tali parametri, a pena di nullità. L’Agenzia delle Entrate, pur
se descrive dettagliatamente le mutate capacità reddituali degli immobili e le variazioni del contesto insediativo, non può omettere la puntuale indicazione dell'atto. Questo principio, già contenuto nella sentenza
9629 del 13 giugno 2012, viene ora ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2357/2014 depositata il 3 febbraio 2014.
L’ordinanza 3 febbraio 2014, n. 2357 interviene
nell’ambito di un contenzioso sorto a seguito del riclassamento di una unità immobiliare urbana, avvenuto in una microzona di Napoli in base alla
legge n. 662/96, art. 3, comma 58.
Nel 2009, il ricorso del contribuente veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli. Successivamente, nel 2011, la Commissione
regionale di Napoli dava ragione all'Agenzia del
Territorio e confermava l’avviso di classamento.
Secondo tale commissione, l’obbligo di motivazione deve ritenersi rispettato quando l’atto valga a
delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa ed a
consentire al contribuente l’esercizio del diritto alla difesa; pertanto, è necessario e sufficiente che
l’avviso indichi il maggior valore accertato, con riserva alla fase contenziosa di dell’onere di provare
gli elementi di fatto giustificativi della pretesa.
Contro questa pronuncia, il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione.
Secondo la Corte di Cassazione, che ha esaminato
le modalità con cui era stato operato il riclassamento, non è sufficiente a motivare la nuova rendita il fatto che l'Agenzia abbia tenuto conto dei
parametri costruttivi dell'immobile, delle sue caratteristiche edilizie e del fabbricato che la comprende, nonché del livello di capacità reddituale degli
immobili della zona e dei significativi e concreti
miglioramenti del contesto urbano.
Secondo l’orientamento richiamato dalla Cassazione, già espresso con precedente sentenza n. 9629
del 2012, l'Agenzia del Territorio deve innanzi tutto specificare se il mutato classamento è dovuto a
364
trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione oppure ad una risistemazione dei
parametri relativi alla microzona in cui si colloca
l'unità immobiliare.
Una volta effettuato tale inquadramento, l’Agenzia
deve poi:
- nel primo caso, indicare le trasformazioni edilizie
intervenute;
- nel secondo caso, indicare l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti, rendendo così possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente.
In mancanza dell’indicazione di tale atto, il riclassamento è nullo.
Il classamento
Il “classamento” delle unità immobiliari urbane
consiste nell’attribuzione della “categoria” e della
“classe” a ciascuna unità immobiliare.
Il classamento può essere oggetto di revisione generale, ove vi sia la necessità di mantenere la corrispondenza tra le risultanze catastali e le mutate condizioni dei fabbricati, legate allo sviluppo urbanistico e all’evolversi della tecnica e dei materiali edili.
La revisione del classamento consiste pertanto nell’assegnazione, alle unità immobiliari interessate, di
nuove categorie e classi. Dal riclassamento derivano nuove rendite catastali.
La “microzona”
La nozione di “microzona” è contenuta nell’art. 2
comma 1 del D.P.R. n. 138/98 (Regolamento re-
Immobili & proprietà 6/2014
Opinioni
Fisco
cante norme per la revisione generale delle zone
censuarie, delle tariffe d'estimo delle unità immobiliari urbane e dei relativi criteri […]).
La microzona rappresenta una porzione del territorio comunale che presenta omogeneità nei caratteri di posizione, urbanistici, storico-ambientali, socioeconomici, nonché nella dotazione dei servizi
ed infrastrutture urbane. In ciascuna microzona le
unità immobiliari sono uniformi per caratteristiche
tipologiche, epoca di costruzione e destinazione
prevalenti.
La microzona individua ambiti territoriali di mercato omogeneo sul piano dei redditi e dei valori.
L’articolazione in microzone del territorio comunale o della zona censuaria viene effettuata dal Comune, con deliberazione del Consiglio comunale,
oppure, in difetto, dall’Amministrazione del catasto.
Lo scostamento è significativo quando il rapporto
tra valore medio di mercato e valore medio catastale presenta una discrepanza superiore al 35%.
L'Agenzia del Territorio, esaminata la richiesta del
comune e verificata la sussistenza dei presupposti,
attiva il procedimento revisionale con provvedimento del direttore dell'Agenzia medesima.
Gli atti che attribuiscono le nuove rendite, derivanti dalla revisione del classamento delle microzone, sono notificati al soggetto interessato e devono contenere le indicazioni previste per gli atti impugnabili.
A tal fine, si ricorda, l’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 dispone che sono, tra gli altri, impugnabili gli atti relativi alle operazioni catastali e
concernenti la consistenza, il classamento delle
singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione
della rendita catastale.
La revisione del classamento
Aggiornamento del classamento
catastale per intervenute variazioni
edilizie
I Comuni hanno la facoltà di richiedere agli uffici
del Territorio la revisione del classamento delle
unità immobiliari di una determinata microzona
qualora i valori delle unità immobiliari in essa situate risultino non aggiornati o non congrui.
L’art. 3 comma 58 legge n. 662/96 (richiamato dall’Ufficio controricorrente), dispone che “il Comune chiede all'Ufficio tecnico erariale la classificazione di immobili il cui classamento risulti non aggiornato ovvero palesemente non congruo rispetto
a fabbricati similari e aventi medesime caratteristiche. L'Ufficio tecnico erariale procede prioritariamente alle operazioni di verifica degli immobili segnalati dal comune”.
Le cause che possono rendere necessario un riclassamento sono individuate nella legge n. 311 del
2004, art. 1, commi 335 e 336.
Revisione del classamento delle unità
immobiliari private site in microzone
comunali
Il comma 335 individua la “revisione del classamento delle unità immobiliari private site in microzone comunali”. I Comuni possono chiedere
agli Uffici provinciali dell'Agenzia del Territorio
tale revisione quando il rapporto tra il valore medio di mercato (individuato ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 23 marzo 1998,n. 138) e il corrispondente valore medio catastale ai fini dell'applicazione dell'imposta comunale sugli immobili si discosta significativamente dall'analogo rapporto relativo all'insieme delle microzone comunali.
Immobili & proprietà 6/2014
Il successivo comma 336 individua invece l’“aggiornamento del classamento catastale per intervenute variazioni edilizie”.
Riguarda gli immobili di proprietà privata non dichiarati in catasto ovvero le situazioni di fatto non
più coerenti con i classamenti catastali, per intervenute variazioni edilizie.
In tal caso, i Comuni richiedono ai titolari di diritti reali sulle unità immobiliari interessate la presentazione degli atti di aggiornamento, notificando
ai soggetti interessati una richiesta contenente gli
elementi constatati, tra i quali, qualora accertata,
la data cui riferire la mancata presentazione della
denuncia catastale. La richiesta è notificata anche
agli uffici provinciali dell'Agenzia del Territorio.
La sentenza del 2012
La Corte di Cassazione si era già espressa sul tema,
con la sentenza n. 9629 del 13 giugno 2012.
In tale occasione, la Corte di Cassazione ricordava
innanzi tutto che le cause che possono rendere necessario un riclassamento sono riconducibili alle
due categorie individuate nella legge n. 311 del
2004, art. 1, commi 335 e 336. Tali disposizioni
hanno sviluppato e meglio disciplinato un potere
del Comune già stabilito nella legge n. 662 del
1996, art. 3, comma 58.
Alla luce di tali normative, la Corte di Cassazione
chiariva che l'Agenzia del Territorio, quando procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classa-
365
Opinioni
Fisco
mento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve prima di tutto specificare se tale mutato classamento è:
- dovuto ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare;
- oppure dovuto a trasformazioni specifiche subite
dall'unità immobiliare in questione.
È importante che l’Agenzia del Territorio (ora
Agenzia delle Entrate) effettui questo primo inquadramento, perché si tratta di due procedure con
presupposti diversi e perciò non del tutto omogenee.
La prima prevede un riclassamento dovuto ad
eventi di carattere generale o collettivo. La zona è
- ad esempio - divenuta di maggior pregio a seguito
della creazione di infrastrutture (strade e piazze, o
altro).
Nel secondo caso invece le innovazioni specifiche
riguardano direttamente un certo immobile. Ad
esempio, un immobile che è stato ristrutturato e
reso più signorile, o che - al contrario - è andato in
rovina.
Ebbene, nel primo caso, l'Agenzia deve indicare
l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti: solo in tal modo
rende possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente.
Non è sufficiente che l’Agenzia del Territorio effettui il nuovo classamento sulla base dei caratteri
tipologici e costruttivi specifici dell'immobile, delle
366
sue caratteristiche edilizie e del fabbricato che lo
comprende, richiamando - genericamente, secondo
la Cassazione - un dettagliato esame delle mutate
capacità reddituali degli immobili ricadenti nella
stessa zona aventi analoghe caratteristiche tipologiche, costruttive e funzionali, e richiamando una diversa qualità urbana ed ambientale del contesto insediativo a seguito dell'incremento delle infrastrutture urbane.
Intanto, il provvedimento di cui trattasi “non chiarisce neppure se ci si trovi di fronte a un riclassamento del tipo di cui al comma 335 o ad un riclassamento ai sensi del comma 336”. Un siffatto provvedimento è comunque da ritenersi “nullo, per difetto di motivazione, in quanto emesso in contrasto con il principio secondo cui l'accertamento tributario non può limitarsi ad enunciare un dispositivo, ma deve anche indicare il punto di riferimento giuridico o fattuale che giustifica e sorregge il dispositivo stesso, onde, così, delimitare l'oggetto del
possibile contenzioso, in cui all'Amministrazione è
inibito addurre ragioni diverse, rispetto a quelle
enunciate”.
Con tale sentenza n. 9629/2012 dunque la Corte
di Cassazione ha enunciato un’importante massima, ora richiamata con l’ordinanza n. 2357/2014
in commento.
L’orientamento espresso è particolarmente rilevante, soprattutto nel contesto delle operazioni di accertamento catastale recentemente avviate in misura imponente da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Immobili & proprietà 6/2014
Opinioni
Fisco
Prima casa
Separazione tra coniugi e
benefici “prima casa”
di Salvatore Servidio - Esperto tributario
La Corte di Cassazione, con le pronunce n. 3753 e 3931 del 2014, ha stabilito, rispettivamente, che l'assegnazione della ex casa coniugale non costituisce atto ad efficacia reale, con conseguente trasferimento dei
diritti reali, ma una mera regolamentazione dei rapporti fra i coniugi e nella maggior parte dei casi fra il coniuge non assegnatario e i figli minorenni, con conseguente diritto ai benefici fiscali; inoltre che la comproprietà di un immobile in capo ai coniugi legalmente separati, acquistata senza l’applicazione dell’agevolazione “prima casa”, non impedisce un nuovo acquisto agevolato da parte di uno dei due soggetti.
Premessa
Con ordinanza 18 febbraio 2014, n. 3753, la Corte
di Cassazione ha affermato che l’attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell’atto di separazione consensuale, non costituisce una forma
di alienazione dell’immobile rilevante ai fini della
decadenza dei benefici “prima casa”, bensì una forma di utilizzazione dello stesso ai fini della migliore
sistemazione dei rapporti fra i coniugi, sia pure al
venir meno della loro convivenza.
Con la successiva sentenza 19 febbraio 2014, n.
3931, la Corte ha poi stabilito che la comproprietà
di un immobile in capo ai coniugi legalmente separati, acquistata senza l’applicazione dell’agevolazione “prima casa”, non impedisce un nuovo acquisto
agevolato da parte di uno dei due soggetti. Secondo il giudice di legittimità, la titolarità di una quota è paragonabile alla situazione di chi ha un immobile non idoneo alle esigenza abitative.
La sentenza n. 3753/2014
Lo svolgimento dei fatti trattati dall’ordinanza n.
3753/2014, riguarda un lite fiscale in cui, con avviso di liquidazione della maggiore imposta di registro, l'Agenzia delle Entrate dichiarava la decadenza dalle agevolazioni “prima casa”, a causa della
cessione dell’immobile nel quinquennio dall’acquisto, il cui ricorso della contribuente venne respinto
sia in primo che in secondo grado.
Nel conseguente ricorso per Cassazione, la contribuente ribadisce che non si è trattato di una cessione nel quinquennio ma di una assegnazione del-
Immobili & proprietà 6/2014
l’immobile al coniuge per effetto di separazione
consensuale.
Comunione legale e convenzionale
Prima di esaminare l’esito del giudizio di Cassazione, occorre brevemente soffermarsi sulla considerazione delle peculiarità che caratterizzano e contraddistinguono rispetto alla comunione ordinaria, la
“comunione legale” prevista e disciplinata quale
“tipo” di regime patrimoniale tra i coniugi dagli
artt. 177 e ss. cod. civ., secondo la sistematica introdotta con la legge 19 maggio 1975, n. 151.
La comunione legale si qualifica per essere, appunto, un "regime", cioè non solo una situazione di
plurisoggettività nella titolarità di determinate posizioni giuridiche ma il complesso statuto speciale
di una contitolarità di massa relativa a una “universitas” che non si esaurisce nella regolamentazione
dell'esercizio del potere di godere e di disporre delle cose comuni ma si estende all'aspetto dinamico
dell'acquisizione di nuovi beni o diritti e dell'assunzione di nuove obbligazioni. Di tale configurazione rappresenta riflesso specifico la non coincidenza tra il momento dello scioglimento, al quale
si ricollega la cessazione del regime di comunione,
e quello della divisione, che determina concretamente il venir meno della contitolarità dei coniugi
nei diritti sui beni che ne formano oggetto.
Infatti, lo scioglimento della comunione legale,
correlato al verificarsi di una delle cause indicate
nel primo comma dell'art. 191 cod. civ., dà luogo a
due distinti ordini di effetti giuridici: a) per quanto
attiene ai rapporti giuridici successivi, esso si traduce nella caducazione dell'assoggettamento dei co-
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Opinioni
Fisco
niugi a quel regime che, altrimenti, sarebbe destinato a permanere e ad operare trovando espressione nel principio di cui all'art. 177, comma 1, lett.
a), cod. civ., il quale prevede la necessaria automatica caduta in comunione di ogni acquisto che non
possa considerarsi personale a norma dell'art. 179
cod. civ., e nella instaurazione, in luogo di tale regime, di quello di separazione; b) con riguardo ai
rapporti anteriori già ricadenti nella comunione, lo
scioglimento lascia in vita lo stato di contitolarità
indivisa dei diritti sui beni comuni, con la sostituzione, in ordine ai poteri di amministrazione e di
disposizione, alla disciplina della comunione legale
de qua della disciplina della comunione ordinaria,
e, quindi, con il venire in essere, in capo a ciascuno dei coniugi, di quel diritto potestativo alla divisione che, nella comunione ordinaria, spetta a ciascuno dei compartecipi.
Tutto ciò trova conferma nel tenore testuale del
dato normativo nel quale la vicenda giuridica dello
scioglimento e quella della divisione sono contemplate in due diverse disposizioni (art. 191 e art.
194 cod. civ.), e appare rispondente al sistema della tutela dei terzi quale delineato nell'art. 162 cod.
civ. E, di fronte a tale fenomeno giuridico, riveste
significato meramente nominalistico, sul piano lessicale definitorio, il rilievo dottrinale della improprietà della intitolazione e della formulazione dell'art. 191 cod. civ. in termini di scioglimento della
comunione con riguardo a una realtà giuridica che
non è identificabile in se stessa con lo scioglimento
di una comunione, inteso in senso tecnico, tale dovendosi considerare quello per effetto del quale
viene meno lo stato di indivisione e ciascuno dei
compartecipi diviene titolare esclusivo dei diritti
compresi nella quota di sua pertinenza.
Pertanto, nel contesto generale così delineato, la
convenzione tra i coniugi, esprimente l'opzione per
la cessazione della comunione legale e per il correlativo passaggio alla separazione dei beni, esaurisce
in se stessa quella incidenza sul regime dei rapporti
patrimoniali tra i coniugi stessi che la qualifica come convenzione matrimoniale modificativa ai sensi
e per gli effetti di cui all'art. 163 cod. civ. e la rende come tale soggetta ai requisiti di forma costitutiva di cui all'art. 162 cod. civ. Tale non è, invece,
la convenzione in virtù della quale avviene il passaggio della situazione potenziale di divisibilità
(conseguente al pregresso scioglimento) all'attualità (derivante dal compimento della divisione) dell'attribuzione a ciascuno dei coniugi della esclusiva
titolarità di uno o più diritti o cespiti precedentemente comuni: la divisione infatti non incide su
una situazione giuridica di comunione legale speciale alla quale soltanto è riferibile la disciplina degli artt. 162 e 163 cod. civ., situazione che più non
esiste nel momento in cui viene posta in essere la
divisione convenzionale, alla quale perciò torna
applicabile la disciplina di forma e di sostanza che
regola la divisione ordinaria in funzione della sua
natura e dei beni che ne formano oggetto.
Va ricordato, a questo proposito, che, con riferimento a qualsivoglia cespite, la sostituzione, nel
patrimonio dei condividenti, del diritto esclusivo
in luogo della situazione di contitolarità indivisa,
ben può avvenire, secondo i principi generali, mediante l'attribuzione a uno di essi dell'intero bene
e all'altro dell'equivalente pecuniario del valore
della quota, se non anche mediante liquidazione
del valore del cespite con alienazione a terzi, e
conseguente distribuzione del ricavato pro quota: le
quali ipotesi riguardano anche la divisione di un'azienda commerciale normalmente non suscettibile
di divisione in natura se non a prezzo di dispersione della competente economica rappresentata dall'avviamento (1).
La decisione n. 3753/2014
Sovvertendo l’esito dei giudicati di merito, con
l’ordinanza n. 3753/2014, la Suprema Corte accoglie il ricorso di parte, affermando che l’attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale
in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale, non costituisce una
forma di "alienazione" del bene rilevante ai fini
della decadenza dei benefici “prima casa”, ma una
forma di utilizzazione dello stesso ai fini della migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi, sia
pure al venir meno della loro convivenza (e proprio in vista della cessazione della convivenza medesima).
Nella fattispecie si trattava di chiarire se si verifica
la decadenza dall’agevolazione “prima casa”, fruita
in sede di acquisto dell’immobile, nel caso di trasferimento della casa coniugale, effettuato in
adempimento di accordi di separazione e divorzio,
da parte di uno o di entrambi i coniugi; più precisamente, se si verifica decadenza dall’agevolazione
nel caso in cui, nell’ambito dell’accordo omologato
dal Tribunale, venga previsto che uno dei coniugi
trasferisca all’altro, prima del decorso del termine
(1) Così Cass. 11 novembre 1996, n. 9846.
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Immobili & proprietà 6/2014
Opinioni
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di cinque anni dall’acquisto, la propria quota del
50 per cento della casa coniugale, acquistata con i
benefici “prima casa”.
A tal fine, mentre la legge di registro prevede che
in caso di vendita dell’immobile nel quinquennio,
la decadenza dall’agevolazione può essere evitata ai sensi del riferito art. 1, nota II-bis), comma 4,
della Tariffa, parte prima, allegata al TUR -, qualora, entro un anno dall’alienazione, si proceda all’acquisto di un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale, la contribuente sosteneva che
l’atto di trasferimento della quota del 50 per cento
della casa coniugale, da parte di uno dei due coniugi all’altro, era stato effettuato in adempimento di
un accordo di separazione o divorzio.
In relazione a tale trasferimento trova applicazione
il regime di esenzione previsto dall’art. 19 della
legge 6 marzo 1987, n. 74, in base al quale non sono soggetti all’imposta di bollo, di registro e ad
ogni altra tassa “Tutti gli atti, i documenti ed i
provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti
civili del matrimonio”.
Il regime di esenzione disposto dall’art. 19 - spiega
la Corte costituzionale nella sentenza 11 giugno
2003, n. 202 - risponde all’esigenza “… di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale che motiva e
giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti
del giudizio divorzile …” e “… di separazione, anche in considerazione dell’esigenza di agevolare e
promuovere, nel più breve tempo, una soluzione
idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio sul coniuge non affidatario della prole”. Di fatto, secondo la Consulta,
con la richiamata disposizione, il legislatore ha inteso escludere da imposizione gli atti del giudizio
divorzile (o di separazione), al fine di favorire una
rapida definizione dei rapporti patrimoniali tra le
parti.
Anche la giurisprudenza di legittimità (2) si è attestata nell’affermazione che nell’ipotesi di trasferimento di immobili in adempimento di obbligazioni
assunte in sede di separazione personale dei coniugi, l'art. 19 della legge n. 74 del 1987, (norma speciale rispetto a quella di cui all'art. 26 del D.P.R.
26 aprile 1986, n. 131), alla luce delle sentenze
della Corte costituzionale 10 maggio 1999, n. 154
e 15 aprile 1992, n. 176, deve essere interpretato
nel senso che l'esenzione “dall'imposta di bollo, di
registro e da ogni altra tassa” di “tutti gli atti, i do-
cumenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione
degli effetti civili del matrimonio”, si estende “a
tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi”, in modo da garantire l'adempimento delle
obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto
per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli
ai figli.
L’Amministrazione finanziaria si è pronunciata sull’argomento con risoluzione 21 giugno 2012, n.
27/E, affermando che in virtù del principio espresso dall'art. 19 della legge n. 74/1987, tale regime di
favore può trovare applicazione anche al fine di
escludere il verificarsi della decadenza dalle agevolazioni “prima casa” fruite in sede di acquisto, qualora in adempimento di un obbligo assunto in sede
di separazione o divorzio, uno dei coniugi ceda la
propria quota dell’immobile all’altro, prima del decorso del termine quinquennale. Il trasferimento al
coniuge concretizza, infatti, un atto relativo “al
procedimento di scioglimento del matrimonio o di
cessazione degli effetti civili del matrimonio”. La
decadenza dall’agevolazione è esclusa a prescindere
dalla circostanza che il coniuge cedente provveda
o meno all’acquisto di un nuovo immobile.
Ne deriva pertanto che, in applicazione di tali assunti, l’assegnazione dell’abitazione in sede di separazione non fa perdere i benefici fiscali sulla prima
casa. Tuttavia, il trattamento tributario di favore
non deve essere inteso in senso generalizzato, precisa la risoluzione n. 27/E/2012, ma deve ritenersi
limitato solo a quei trasferimenti in favore della
prole, contenuti negli accordi omologati dal Tribunale, purché costituiscano “elemento funzionale e
indispensabile ai fini della risoluzione della crisi
coniugale”.
Osservazioni
Occorre a questo punto rilevare che la posizione
del giudice di legittimità nell’ordinanza n.
3753/2014, si pone in netto contrasto con la precedente sentenza n. 2263 del 3 febbraio 2014, con la
quale la Suprema Corte ha invece affermato che
l'alienazione avvenuta in seguito all'omologazione
della separazione personale tra coniugi di un immobile acquistato usufruendo del beneficio delle
agevolazioni prima casa, provoca la decadenza dal-
(2) V. Cass. 17 febbraio 2001, n. 2347; 22 maggio 2002, n.
7493; 20 maggio 2005, n. 11458.
Immobili & proprietà 6/2014
369
Opinioni
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le stesse se avviene nel quinquennio. In particolare, la Corte, accogliendo il ricorso dell'Agenzia
delle Entrate che aveva revocato i benefici delle
agevolazioni alla moglie e figlia di un contribuente
a seguito del trasferimento infraquinquennale della
casa coniugale intervenuto in dipendenza della separazione, ha sostenuto che le convenzioni concluse dai coniugi in sede di separazione personale,
contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro relative a beni mobili
o immobili, non sono né legate alla presenza di un
corrispettivo né costituiscono propriamente donazioni, ma rispondono, di norma, al peculiare spirito
di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di “separazione consensuale”, in funzione della
complessiva sistemazione “solutorio-compensativa”
di tutta la serie di possibili rapporti aventi significati patrimoniali maturati nel corso della convivenza matrimoniale. Perciò, il regolamento concordato fra i coniugi, pur acquistando efficacia giuridica solo in seguito al provvedimento di omologazione, che svolge l'essenziale funzione di controllare
che i patti intervenuti siano conformi ai superiori
interessi della famiglia, trova la sua fonte nell'accordo delle parti. Il trasferimento di un immobile
in favore del coniuge per effetto degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale è comunque riconducibile alla volontà del cedente, e
non al provvedimento giudiziale di omologazione,
sicché, qualora, intervenga nei cinque anni successivi al suo acquisto, senza che il cedente stesso, abbia comprato, entro l'anno ulteriore, altro appartamento da adibire a propria abitazione principale, le
agevolazioni fiscali “prima casa” di cui egli abbia
beneficiato per l'acquisto di quell'immobile vanno
revocate, con conseguente legittimo recupero delle
ordinarie imposte di registro, ipotecarie e catastali
da parte dell'Amministrazione finanziaria.
Stessi assunti nella contestuale sentenza n. 2273,
nella quale il giudice di legittimità argomenta, tra
l’altro, che il tenore letterale della norma (art. 1
della Tariffa annessa al D.P.R. n. 131/1986, nota
II- bis), lett. b) e c)), che enuncia il diritto di abitazione, unitamente a proprietà, usufrutto ed uso, è
inequivoca nell'indicare che il titolo della disponibilità di un immobile, che preclude l'accesso all'agevolazione, deve avere carattere reale, e deve essere riferito, appunto, al contenuto del corrispondente diritto, in coerenza con la ratio della disposizione agevolatrice che persegue lo scopo d'incentivare l'investimento del risparmio nell'acquisto dei
predetti diritti su un'unità immobiliare da destinare
a “prima casa”.
370
La sentenza n. 3931/2014
Il caso trattato dalla sentenza n. 3931/2014, riguarda due coniugi, i quali, in sede di separazione personale, consensuale, concordavano che la casa coniugale in comunione legale (di proprietà del marito e “prima casa” dello stesso) venisse assegnata alla moglie la quale era titolare di altro immobile
nello stesso comune in regime di comunione ordinaria.
L’impugnazione era rigettata in primo grado e confermata dalla Commissione tributaria regionale,
nei confronti della quale la contribuente ha dedotto in Cassazione violazione dell'art. 1, nota II-bis),
della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n.
131/1986, e degli artt. 177, 191, 1100, 1102, 1103,
cod. civ., per avere la sentenza d’appello ritenuto
precluso l'accesso alle agevolazioni “prima casa”, in
ipotesi di comunione “ordinaria” tra coniugi (art.
159 cod. civ.). La ricorrente chiarisce altresì che,
successivamente all'acquisto dell’immobile in regime di comunione legale, erano intervenuti il mutamento convenzionale del regime patrimoniale della
famiglia, ed in seguito la separazione legale dal coniuge, e conclude domandando se la contitolarità a
titolo di comunione legale su una casa di abitazione rimanga tale anche a seguito di mutamento del
regime patrimoniale e di separazione dei coniugi,
oppure, se, a seguito di tali eventi, l’originaria comunione legale si trasformi - come essa ritiene - in
comunione ordinaria, ai sensi degli artt. 1100 e ss.
cod. civ.
Nel decidere la controversia, la Suprema Corte accoglie i rilievi esposti in ricorso in quanto la Commissione regionale ha affermato principi difformi
da quelli assunti dalla giurisprudenza di legittimità.
Presupposto della pronuncia è che l'attribuzione
della proprietà, stabilita dai coniugi, in adempimento di una condizione inserita all'interno dell'atto di separazione consensuale, non costituisce
una “alienazione” dell'immobile che possa rilevare
“ai fini della decadenza dei benefici prima casa,
bensì una forma di utilizzazione dello stesso ai fini
della migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi, sia pure al venir meno della loro convivenza (e
proprio in vista della cessazione della convivenza
stessa)”.
Al riguardo occorre richiamare la lettera b) della
nota II-bis) all'art. 1 della Tariffa annessa al
D.P.R. n. 131/1986, la quale prevede che per il godimento delle agevolazioni fiscali “prima casa” occorre che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari
“di non essere titolare esclusivo o in comunione
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con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto,
uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare”, e che, ove l'unità immobiliare da destinare a “prima casa” sia acquistata in comunione,
legale o convenzionale, tra coniugi, nessuno abbia
in precedenza fruito del beneficio, come previsto
dalla successiva lett. c) della stessa nota II-bis) della Tariffa.
Nell’intento di conformare la norma tributaria di
favore ai principi del diritto di famiglia, la giurisprudenza di legittimità ha positivamente considerato che, ove l'immobile acquistato sia, in concreto, adibito a “residenza della famiglia”, il diritto all'agevolazione non resta escluso dalla diversa residenza del coniuge che ha acquistato in regime di
comunione legale, in considerazione del dovere di
coabitazione al quale i coniugi sono tenuti (ex art.
143 cod. civ.) e che costituisce un elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza, ai fini
fiscali (3).
Un'interpretazione della legge tributaria conforme
ai principi che presidiano il momento patologico
della vita coniugale induce, quindi, a ritenere che
allorché cessa il dovere della coabitazione per effetto della separazione personale, viene di conseguenza meno la destinazione dell'immobile ad abitazione familiare, che è presunta dalla norma agevolatrice e ne costituisce la ratio.
In base alla considerazioni che precedono, il giudice di legittimità afferma quindi il principio secondo cui, al verificarsi della separazione legale, la comunione tra coniugi di un diritto reale su un immobile, ancorché originariamente acquistato in regime di comunione legale, deve essere equiparata
alla contitolarità indivisa dei diritti sui beni tra
soggetti tra loro estranei, che è compatibile con le
agevolazioni: la facoltà di usare il bene comune,
che non impedisca a ciascuno degli altri comunisti
“di farne parimenti uso” ex art. 1102 cod. civ., non
consente, infatti, di destinare la casa comune ad
abitazione di uno solo dei comproprietari, per cui
la titolarità di una quota è simile a quella di un im(3) Cfr. Cass. 28 ottobre 2000, n. 14237; 8 settembre 2003,
n. 13085; 28 gennaio 2009, n. 2109; 28 giugno 2013, n.
16355; la riferita giurisprudenza ha corretto il precedente
orientamento, più "restrittivo", espresso in particolare da Cass.
4 aprile 1996, n. 3159, in base al quale era stato affermato che
nei casi di specie il beneficio fiscale spetta pro quota. Tale interpretazione si basava sulla considerazione che l'acquisto in
comunione del diritto di proprietà su un bene da parte di più
soggetti, non implica il trasferimento della proprietà in capo ad
un unico e nuovo soggetto, ma pone ciascun compratore nella
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mobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative (4).
Perciò, l'eventuale assegnazione del bene da parte
del giudice della separazione o i patti in tal senso
contenuti nella separazione consensuale omologata
non hanno effetto ostativo al riconoscimento del
beneficio, tenuto conto che, nell'enunciare il diritto di proprietà, usufrutto, uso ed abitazione, la norma agevolativa è inequivoca nell'indicare che il titolo della disponibilità di un immobile, che preclude l'accesso al beneficio, deve avere carattere reale,
e deve essere riferito, appunto, al contenuto del
corrispondente diritto (si ricorda che l'accordo con
effetti reali è quello che produce immediatamente
l'effetto di trasferire da un soggetto ad un altro la
proprietà o altro diritto reale su immobili - superficie, servitù, usufrutto, ecc. -, mentre l'accordo con
effetti obbligatori, è quello in cui il diritto reale
sull'immobile non si trasferisce immediatamente,
ma le parti assumono l'obbligo di trasferirlo, e
quindi occorre un successivo atto affinché il diritto
sull'immobile si trasferisca da un soggetto all'altro,
nel rispetto dell'accordo obbligatorio).
Anche in questa fattispecie, la Suprema Corte
conclude avvertendo che l'utilizzo “strumentale”
dell'istituto della separazione a fini elusivi potrà essere fatto valere dall’ente impositore, in armonia
col divieto generale di abuso del diritto che si applica ad ogni pratica volta ad ottenere benefici fiscali indebiti (5).
Nuovo orientamento della Cassazione
Con la successiva sentenza n. 7069 del 26 marzo
2014, la Suprema Corte fa marcia indietro rispetto
alle determinazioni assunte dalla sentenza n.
3931/2014 in esame, nello stabilire nuovamente
che la proprietà di un immobile in comproprietà
col coniuge da cui, poi, ci si separa, fa comunque
venire meno il beneficio fiscale prima casa.
Il caso é quello di una contribuente cui veniva rigettato il ricorso e l’appello contro l’avviso di liquidazione con cui erano state recuperate le imposte
di registro, ipotecaria e catastale per l’acquisto di
un immobile con i benefici “prima casa”, sebbene
situazione di titolare di detta proprietà e che, conseguentemente, il beneficio fiscale accordato nel concorso di determinati requisiti soggettivi, non può essere globalmente riconosciuto o negato in ragione della sussistenza dei requisiti stessi
valutati con riferimento ad uno solo dei contitolari.
(4) Cfr. anche Cass. 10 settembre 1999, n. 9647; 14 maggio
2007, n. 10984.
(5) Cfr. Cass. 28 giugno 2012, n. 10807; 17 gennaio 2014,
n. 861.
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la contribuente fosse comproprietaria, insieme al
marito, di un’altra casa nello stesso comune. I giudice di merito ritenevano che la titolarità di beni
in comunione con il consorte, ostativa al beneficio, non era limitata ai beni acquisiti in comunione legale, “non rilevando il regime patrimoniale
della separazione dei beni adottato dai coniugi”.
Nel rigettare il ricorso della contribuente, la Cassazione argomenta che per usufruire delle agevolazioni fiscali prima casa occorre che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari “di non essere titolare
esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti
di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è
situato l'immobile da acquistare”. In costanza di
contitolarità di questi diritti reali su un immobile,
sito nel comune dove si trova quello da acquistare,
il beneficio fiscale è precluso, a prescindere dalla
scelta del regime patrimoniale dei coniugi. La disposizione di registro in argomento (in particolare,
art. 1, nota II-bis), lettera b), della Tariffa annessa
372
al D.P.R. n. 131/1986) persegue infatti lo scopo di
incentivare l'investimento del risparmio nell'acquisto di un'unità immobiliare da destinare a prima
casa. Quindi, nel caso in cui i coniugi siano già
contitolari, sia in comunione legale che convenzionale di una casa di abitazione, “opera la presunzione legislativa che la stessa sia destinata ad abitazione della famiglia, con conseguente esclusione dell'agevolazione per il successivo acquisto”.
Il giudice di legittimità ritiene anche infondati i
dubbi della ricorrente sulla costituzionalità della
norma applicata in sede di decadenza dell'agevolazione (in relazione agli artt. 3, 29 e 31 Cost.), considerato che la perdita dell'agevolazione non consegue alla celebrazione delle nozze, ma a un secondo acquisto immobiliare, di modo che la libertà di
contrarre matrimonio e il diritto alla formazione
della famiglia “non traggono alcun vulnus dalla disposizione censurata”.
Dunque, niente più benefici fiscali per la ricorrente
per l’immobile in comproprietà con l'ex coniuge.
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IRAP
IRAP, studi associati e
amministratori di condominio
di Francesca Picardi - Magistrato di Tribunale addetto all’Ufficio del Massimario e del Ruolo
Nella nota alla sentenza della Cass. 27 gennaio 2014, n. 1575, che ad oggetto la pretesa di rimborso
IRAP da parte di uno studio associato di amministratori di condominio, sono evidenziate alcune delle posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità relativamente sia al requisito impositivo di tale tributo,
costituito dall’autonoma struttura organizzativa, sia all’onere probatorio a carico del contribuente nel giudizio di rimborso. Viene, inoltre, sottolineato il collegamento esistente tra l’assoggettamento degli amministratori di condominio all’IRAP ed il carattere professionale della loro attività.
Il caso
La presente vicenda trae origine da un’istanza di
rimborso dell’IRAP formulata da uno studio associato di amministratori di condominio.
Con sentenza n. 161/12/2005 la Commissione Tributaria Provinciale di Brescia, ritenendo assente il
presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, vista l’esiguità del valore dei beni strumentali e
la mancanza di dipendenti e collaboratori, ha dichiarato illegittimo il silenzio rifiuto dell’amministrazione finanziaria.
In data 18 maggio 2009 tale decisione è stata confermata dalla Commissione Tributaria Regionale
della Lombardia - Sezione distaccata di Brescia,
salva la parziale riforma limitatamente agli anni
1998-2000, relativamente ai quali il contribuente
era decaduto dal diritto al rimborso.
Il fisco ha proposto ricorso per cassazione ex art.
360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., lamentando
l’omessa valutazione, da parte del giudice di merito, sia della presunzione dell’autonoma organizzazione insita nell’esercizio in forma associata di
un’attività professionale sia della riferibilità del
reddito allo studio associato e non ai singoli associati, nonostante l’assenza di dipendenti o collaboratori e l’esiguità dei beni strumentali. Con la sentenza in esame la Suprema Corte, in accoglimento
del ricorso, ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza, da un lato, ribadendo l’assoluta compatibilità dell’autonoma organizzazione, quale requisito
(1) Così, tra le altre, Cass., sez. V, 13 novembre 2009, n.
24058 e Cass., sez. V, 11 giugno 2007, n. 13570, la prima con-
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impositivo dell’IRAP, con l’irrisorietà dei beni
strumentali e con la mancanza di collaborazioni di
terzi e, dall’altro lato, richiamando l’orientamento
secondo cui l'esercizio in forma associata di una
professione liberale è circostanza di per sé idonea a
far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione, ancorché non di particolare onere economico, nonché dell'intento di avvalersi della reciproca collaborazione e delle rispettive competenze,
ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della
professionalità di ciascun componente dello studio
e, conseguentemente, debba essere assoggettato all'IRAP, a meno che il contribuente non dimostri
che tale reddito è derivato dalla sola attività dei
singoli associati (1). Tale ultima posizione, già
espressa relativamente agli studi associati di ingegneri civili e di dottori commercialisti, è stata assunta, nel caso di specie, riguardo ad uno studio associato di amministratori di condominio, precisandosi che la relativa attività è “ratione temporis estranea all’alveo delle professioni protette”.
L’IRAP e l’autonoma organizzazione
La sentenza in esame contribuisce a delineare l’ambito applicativo dell’IRAP, imposta generale di tipo reale che colpisce tutte le attività produttive
esercitate sul territorio regionale, a prescindere dall’esito produttivo e dal conseguente risultato, sulla
cernente uno studio associato di ingegneri civili e la seconda
di dottori commercialisti.
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base del valore aggiunto netto di produzione (2).
Come stabilisce l’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre
1997, n. 446, il presupposto di tale tributo è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata e diretta alla produzione o allo scambio di
beni ovvero alla prestazione di servizi (3), inteso
come un indice di capacità contributiva, distinto
dal reddito, dal patrimonio, dal consumo e dalle altre manifestazioni di potenzialità economica, già
poste a fondamento di diversi tributi vigenti nell'attuale sistema: attività che può essere sia di carattere imprenditoriale sia di lavoro autonomo ed,
in quest’ultimo caso, può consistere sia nell’esercizio di una professione protetta sia di una professione non organizzata (4).
Assume, pertanto, rilievo la struttura organizzativa,
visto che l’imposta grava sulla maggiore ricchezza
creata proprio dall'organizzazione, mentre restano
in secondo piano i soggetti organizzatori o coinvolti nel processo produttivo, i quali, ove percepiscano la ricchezza o una sua quota, una volta prodot-
ta, saranno colpiti successivamente, mediante le
imposte sui redditi, con l’evidente rischio, sovente
denunciato, di una doppia imposizione del medesimo reddito. Ad ogni modo l’imposta è stata reputata costituzionalmente legittima dalla Consulta (5)
e compatibile con il sistema comunitario dalla
Corte di giustizia CE (6).
L'identificazione della fattispecie imponibile nell'esercizio dell'attività produttiva “autonomamente
organizzata” implica anche un criterio di individuazione dei soggetti passivi, non espressamente enunciato nell’art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997, che si limita ad una classificazione dei possibili soggetti passivi secondo tipologie di attività svolte. Nell’elaborazione giurisprudenziale, pertanto, ove l’attività
non sia esercitata da società o da enti e l’imposta
non sia, perciò, automaticamente applicabile in base alla seconda parte dell’art. 2 del D.Lgs. n.
466/997, si è prestata particolare attenzione ai requisiti necessari ai fini della configurabilità di
un’autonoma organizzazione (7).
(2) La base imponibile si determina in virtù degli artt. 5, 5bis e 6 del D.Lgs. n. 446/1997, che si occupano rispettivamente di società di capitali ed enti commerciali, società di persone
ed imprese individuali, banche ed altri enti o società finanziarie. L’attuale testo delle disposizioni de quibus è il risultato di
una serie di interventi, di cui l’ultimo costituito dalla legge 24
dicembre 2007, n. 244. Più precisamente per le società di capitali ed enti commerciali (art. 5) la base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore ed i costi della produzione risultanti dal conto economico, mentre per le società di persone
e imprese individuali (art. 5-bis, salva la possibile opzione, per i
soggetti in contabilità ordinaria, dell’applicazione delle regole
di cui al precedente art. 5), dalla differenza tra l’ammontare
dei ricavi e delle variazioni delle rimanenze finali e l’ammontare
dei costi delle materie prime sussidiarie e di consumo, delle
merci, dei servizi, dell'ammortamento e dei canoni di locazione
anche finanziaria dei beni strumentali materiali e immateriali.
In entrambi i casi non possono includersi tra i componenti negativi in deduzione una serie di costi, specificamente elencati,
tra cui, a titolo esemplificativo, possono ricordarsi le spese per
il personale dipendente ed assimilato e per le collaborazioni
esterne e la quota interessi dei canoni di locazione finanziaria,
desunta dal contratto.
(3) Le parole “autonomamente organizzata” sono state introdotte dal D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137, che ha modificato
l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 446/1997. Per completezza va
ricordato che il citato art. 2 precisa che “l’attività esercita dalle
società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni
dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto d’imposta”,
per cui in tali ipotesi non è necessaria alcuna indagine relativamente alla sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione.
(4) Secondo la terminologia della legge 14 gennaio 2013, n.
4.
(5) La Corte cost., con la sentenza n. 156 del 21 maggio
2001, ha rigettato una serie di questioni di legittimità costituzionali: quella, con riferimento all’art. 3 Cost., relativa agli artt.
2, 4, 8 e 11 del D.Lgs. n. 446/1997, nella parte in cui fissano i
presupposti d'imposta e determinano la base imponibile dell'IRAP, ritenendo che non irrazionalmente il legislatore ha individuato quale nuovo indice di capacità contributiva, diverso da
quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto
prodotto dalle attività autonomamente organizzate; quella, con
riferimento all’art. 76 Cost., relativa all'art. 3, comma 1, lett. c),
del D.Lgs. n.446/1997, che ha assoggettato al pagamento dell'IRAP i lavoratori autonomi, in quanto espressamente previsto
dall'art. 3, comma 144, lett. b), delle legge delega 23 dicembre
1996, n. 662; quella, con riferimento all’art. 3 Cost., relativa all’art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997, nella parte in cui include tra i
soggetti passivi dell'imposta gli esercenti abituali di arti e professioni, e non anche gli esercenti occasionali, poiché tale differente trattamento fiscale trova fondamento in una non irragionevole presunzione circa la mancanza del requisito dell'autonoma organizzazione nelle diverse ipotesi di lavoro autonomo occasionale o non abituale; quella, con riferimento agli
artt. 3, 35 e 53 Cost., relativa agli artt. 2, 3, 4, 8 e 11 D.Lgs. n.
446/1997, nella parte in cui equiparano, ai fini dell'applicazione
dell'IRAP, i redditi di impresa a quelli di lavoro autonomo, perché l’IRAP è un'imposta che colpisce non i redditi personali,
ma il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente
organizzate.
La Consulta non si è, invece, mai pronunciata, stante il difetto di rilevanza o, comunque, l’inammissibilità della questione, né in questo giudizio né nei successivi, sulla diversa problematica della indeducibilità dell’IRAP, ai fini delle imposte
sui redditi: problematica attenuata grazie all’introduzione dell’art. 6 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in legge
28 gennaio 2009, n. 2, e successivamente modificato.
(6) V. la sentenza della Corte di giustizia CE n. 475 del 3 ottobre 2006, secondo cui l’art. 33 della sesta direttiva CE 17
maggio 1977, n. 388 (oggi sostituita dalla direttiva CE 28 novembre 2006, n. 112) in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, come modificata dalla direttiva 91/680, non osta al mantenimento di un prelievo fiscale avente caratteristiche come
quelle dell’imposta regionale italiana sulle attività produttive.
Infatti, un tale prelievo si distingue dall’imposta sul valore aggiunto in modo tale da non poter essere considerato un’imposta sulla cifra d’affari, ai sensi dell’art.33, n.1, della direttiva, in
quanto non deve essere considerato proporzionale al prezzo
dei beni o dei servizi forniti, e non è stato concepito per ripercuotersi sul consumatore finale nel modo tipico dell’imposta
sul valore aggiunto.
(7) Va, tuttavia, segnalato che non vi sono ancora pronunce
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Secondo l’orientamento consolidato della Suprema
Corte, in tema di IRAP, il requisito dell'autonoma
organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il
contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui
responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (8).
Per quanto concerne l’uso di prestazioni altrui, da
un lato, si è ritenuto che il ricorso al lavoro di terzi
per la fornitura di tutti i necessari servizi (dalla telefonia al segretariato) in forma rilevante e continuativa integra il presupposto impositivo di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997, non rilevando che
la struttura posta a sostegno e potenziamento dell'attività professionale del contribuente sia fornita
da personale dipendente o da un terzo in base ad
un contratto di fornitura (9), ma, dall’altro lato, si
è escluso che la presenza di un solo dipendente,
sebbene possa costituire indizio di “stabile organizzazione”, comporti automaticamente l’applicazione
dell’imposta, spettando al giudice di merito verificare quando il coinvolgimento nel proprio lavoro
di un altro soggetto si traduca effettivamente in un
elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della
produzione del reddito (10). Ad ogni modo, l’assenza di dipendenti o di collaboratori non occasionali costituisce sicuramente un indice della carenza
del requisito dell’autonoma organizzazione (11).
Non è, invece, necessario che la struttura organizzata sia in grado di funzionare in assenza del titolare, il cui apporto può, quindi, risultare insostituibile, per ragioni giuridiche o semplicemente per le
sue particolari capacità, con prevalenza della sua
opera sugli altri fattori produttivi (12).
Costituisce, comunque, onere del contribuente che
chieda il rimborso dell'imposta asseritamente non
dovuta dare la prova dell'assenza dell’autonoma organizzazione (13).
In tale contesto risulta particolarmente rigorosa la
soluzione adottata dalla Suprema Corte nel caso di
relativamente all’impatto sulla problematica in esame dell’art.
1, comma 515, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha
previsto l’istituzione, a decorrere dal 2014, di un fondo finalizzato ad escludere dall’ambito applicativo dell’IRAP i contribuenti - persone fisiche, che non si avvalgono di lavoratori dipendenti e assimilati e che impiegano, anche in locazione, beni strumentali che non eccedono il valore massimo determinato con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze,
adottato previo parere conforme delle Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari. Cfr. sul punto G. Ferranti,
Esclusione dall’IRAP di professionisti e imprese: una disciplina
da rivedere, in Corr. trib., 2013, 117 ss.
(8) V., ad esempio, Cass., sez. V, 16 febbraio 2007, n. 3680,
edita in Boll. trib. d’informazione, 2007, n. 484, con nota di F.
Brighenti, La Cassazione sull'IRAP dei professionisti non organizzati: certezze e dubbi, e Cass., sez. V, 16 febbraio 2007, n.
3676, concernenti le attività di lavoro autonomo di presentatore televisivo e di consulente del lavoro.
Cfr. anche Cass., Sez. Un., 26 maggio 2009, n. 12108 e
Cass., Sez. Un., 26 maggio 2009, n. 12111, che riguardano l’esercizio dell’attività imprenditoriale di agente di commercio e
promotore finanziario e, quindi, superano la tesi secondo cui il
presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione sarebbe
implicito nell’impresa.
(9) Cass., sez. V, 28 aprile 2010, n. 10151.
(10) Cass., sez. VI, 25 settembre 2013, n. 22019. In proposito v. anche G. Ferranti, L’impiego di un collaboratore con funzioni esecutive non comporta l’assoggettamento ad IRAP, in
Corr. trib., 2013, 3299.
(11) Ad esempio, l’assenza di personale dipendente, unitamente all’esiguo valore di beni strumentali, ha indotto ad
escludere il requisito dell’autonoma organizzazione con riguardo all’esercizio in forma individuale dell’attività di medico convenzionato ed di dottore commercialista: v. Cass., sez. V, 28
aprile 2010, n. 10240, secondo cui in tema di IRAP, la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati
con il Servizio sanitario nazionale, di uno studio, avente le caratteristiche e dotato delle attrezzature indicate nell'art. 22 dell'accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i
medici di medicina generale, reso esecutivo con D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, rientrando nell'ambito del “minimo indispensabile” per l'esercizio dell'attività professionale, ed essendo obbligatoria ai fini dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sé, in assenza di personale dipendente, il requisito dell'autonoma organizzazione ai
fini del presupposto impositivo; Cass., sez, V, 16 febbraio
2007, n. 3672, secondo cui presupposto per l'assoggettamento ad imposizione è l'esistenza di un'autonoma organizzazione,
la quale ricorre quando l'attività abituale ed autonoma del contribuente dia luogo ad un'organizzazione dotata di un minimo
di autonomia che potenzi ed accresca la capacità produttiva
del contribuente stesso, di guisa che l'imposta non risulta applicabile ove in concreto i mezzi personali e materiali di cui si
sia avvalso il contribuente costituiscano un mero ausilio della
sua attività personale (In applicazione di tale principio, la S.C.
ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva accolto
la domanda di rimborso presentata da un dottore commercialista, in base all'affermazione - non contestata dall'Agenzia delle
Entrate sotto il profilo motivazionale - che l'attività professionale del contribuente era imperniata in modo esclusivo sulla sua
persona, essendo stato accertato che egli operava senza l'ausilio di dipendenti e con attrezzature minime, consistenti in
mobili di ufficio, telefono, automezzo e "personal computer");
Cass., sez. V, 16 febbraio 2007, n. 3677, che ha confermato la
sentenza impugnata, la quale aveva accolto l'istanza di rimborso proposta da un ragioniere commercialista, affermando l'inesistenza di una struttura produttiva, in virtù dell'accertamento,
non contestato in sede di legittimità, dell'assoluta inesistenza
di personale dipendente e di collaborazioni coordinate e continuative, e della presenza di beni strumentali di modesta portata, costituiti da un computer ed un'autovettura).
(12) Cass., sez. V, 6 dicembre 2011, n. 26157, che ha annullato la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza
del requisito dell'autonoma organizzazione per la prevalenza
del lavoro autonomo del professionista rispetto agli altri fattori
produttivi organizzati.
(13) In questo senso tutta la giurisprudenza citata, coerentemente con i principio generali elaborati in materia di rimbor-
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Assolutamente coerente con i presupposti impositivi dell’IRAP appare, invece, l’applicazione dell’imposta all’amministratore di condominio (o allo studio associato di amministratori di condominio),
che eserciti la sua attività professionale con un’autonoma struttura organizzativa.
Del resto, all’esito della recente riforma (15), non
sembra potersi dubitare, non solo ai fini del diritto
tributario, ma anche del diritto civile, della professionalità dell’attività dell’amministratore di condominio, il quale è, quindi, tenuto ad adempiere le
sue obbligazioni non con la diligenza del buon padre di famiglia, ma con quella di cui all’art.1176,
comma 2, cod. civ.: in questo senso depongono i
requisiti di professionalità oggi necessari ex art. 71bis disp. att. cod. civ. e l’espresso riferimento, nell’art. 1129, comma 4, cod. civ., ad una possibile
polizza dell’amministratore per la responsabilità civile professionale.
Sebbene l’inciso della sentenza in esame (“attività
di amministratore di condominio”, per quanto ratione temporis estranea all’alveo delle professioni
protette) possa indurre in equivoco, tale professione non sembra, tuttavia, riconducibile all’art. 2229
cod. civ., non rientrando tra quelle per le quali la
legge richiede la necessaria iscrizione in appositi albi o elenchi e per le quali esclude in caso contrario, ai sensi dell’art. 2231 cod. civ., qualsiasi azione
per il pagamento del compenso (16): va inclusa,
piuttosto, tra le professioni non organizzate, di cui
oggi si occupa la legge 14 gennaio 2013, n. 4 (17).
so di imposta, per cui si rinvia a Cass., sez. V, 29 dicembre
2011, n. 29613, secondo cui in tema di contenzioso tributario,
ove la controversia abbia ad oggetto l'impugnazione del rigetto
dell'istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente,
quest'ultimo riveste la qualità di attore in senso non solo formale - come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo
- ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava
su di lui l'onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge
ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e
che le argomentazioni con le quali l'Ufficio nega la sussistenza
di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad
alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o - dove in concreto ne ricorrono i presupposti l'applicazione del principio di non contestazione.
(14) In senso diverso appare orientata, invece, Cass., sez.
VI, 27 febbraio 2014, n. 4663, in cui si legge “la presuntio hominis secondo cui la sussistenza di uno studio associato costituisce indizio della esistenza di una stabile organizzazione ai fini IRAP è, appunto, una presunzione che può essere superata
con adeguata motivazione; così come accaduto nel caso di
specie in cui il giudice di merito ha evidenziato l’assenza di
spese per personale dipendente e la non sussistenza di una
autonoma organizzazione”: tale ordinanza si riferisce, però, all’ipotesi peculiare di uno studio associato tra familiari, nella
specie due coniugi.
(15) La legge 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 18
giugno 2013.
(16) V. Cass., sez. II, 11 giugno 2010, n. 14085, secondo
cui l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito
albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e
2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista
e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all'albo o che non
sia munito nemmeno della prescritta qualifica professionale
per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna
azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella
sussidiaria di arricchimento senza causa, sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che
sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria
professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione. Al
di fuori di tali attività vige, infatti, il principio generale di libertà
di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi, a seconda
del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione,
salvi gli oneri amministrativi o tributari.
(17) Così A. Scarpa voce Condominio (riforma del), in
AA.VV., Digesto civ. (aggiornamento), I, a cura di R. Sacco, Torino, 2013.
specie, in cui la presunzione dell’autonoma organizzazione, collegata all’esercizio in forma associata
dell’attività professionale, è ritenuta prevalente rispetto agli elementi indiziari in senso contrario desumibili dall’irrisorio valore dei beni utilizzati e
dall’assenza o inconsistenza numerica delle collaborazioni di terzi: prevalenza probatoria ricondotta alla astratta possibilità per gli associati di avvalersi
delle reciproche collaborazioni e competenze e di
farsi sostituire dagli altri professionisti nelle proprie
incombenze e, cioè, dall’astratta possibilità di sfruttare le sinergie positive dell’organizzazione dello
studio associato (14).
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Risoluzione del contratto
La tassazione del c.d. mutuo
dissenso: il revirement
dell’Agenzia delle Entrate
di Paolo Frugiuele - Notaio in Lamezia Terme
Con la recente risoluzione del 14 febbraio 2014 n. 20/E, l’Agenzia delle Entrate è ritornata sul tema della risoluzione del contratto, escludendo – sulla scia del più recente indirizzo di legittimità – che si abbia ritrasferimento immobiliare. Le conclusioni cui si giunge, ancorché riferite solo alla donazione, sembrano estensibili anche al di là di essa. Ciò che resta da valutare sono le eventuali ricadute fiscali della risoluzione.
Il contratto, pur avendo forza di legge tra le parti,
non è detto che non possa venir meno. Ai sensi
dell’art. 1372, comma 2, cod. civ., oltre che per le
cause ammesse dalla legge, esso può infatti esser
sciolto anche per mutuo consenso.
Le ragioni per le quali nella pratica si ricorre al
c.d. “mutuo dissenso” sono le più varie. Laddove
però il contratto da sciogliere sia una donazione, la
motivazione sottostante consiste di regola nell’offrire (o, almeno, nel tentare di offrire) una qualche
tutela all’acquirente dell’immobile di provenienza
donativa (e – soprattutto – al suo eventuale creditore ipotecario).
Tuttavia, posto che – come la pratica insegna – il
successo di un rimedio dipende normalmente dalla
sua convenienza economica, va da sé che il tema
da affrontare è proprio quello del trattamento fiscale da riservare al mutuo dissenso, con particolare
riguardo a quello relativo ad atti di disposizione
immobiliare, là dove cioè il carico tributario dell’operazione potrebbe essere anche talmente gravoso
da disincentivarla. Precondizione di tutto il ragionamento è, nondimeno, l’accoglimento di una ben
definita concezione giuridica dell’istituto, giacché,
come si vedrà, solo in tal modo si creano le premesse per una più favorevole tassazione (oltre che
per la stessa risoluzione dei problemi di tutela sopra
accennati per le donazioni).
La natura giuridica del contratto di mutuo
dissenso
(1) F. Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Commentario
al Codice Civile diretto da P. Schlesinger, artt. 2643-2645-bis,
Milano, 1998, 419; Id., Manuale di diritto privato, Napoli, 2006,
1032.
(2) B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1961, 519; L. Ferri, in Giur. it., 1970, IV, 25; D. Ru-
bino, La compravendita, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A.
Cicu e F. Messineo, XXIII, Milano, 1971, 1024; F. Carresi, Il
contratto, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, XXI, 2, Milano, 1987, 874; M. Ieva, Retroattività reale
dell’azione di riduzione e tutela dell’avente causa dal donatario
tra presente e futuro, in Riv. not., 1998, 1137.
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L’inquadramento giuridico del contratto di mutuo
dissenso è uno dei temi storicamente più tormentati del diritto civile.
Tuttavia, stante la necessità di adottare in questa
sede un approccio di tipo sintetico, ci si può soltanto limitare a dare atto per sommi capi delle tre
impostazioni che si contendono il campo.
Secondo una prima tesi, tanto recente ed autorevole, quanto attualmente isolata (1), il mutuo dissenso varrebbe a rimuovere il titolo dell’acquisto
in capo all’avente causa, ma non sarebbe di per sé
sufficiente a ripristinare la titolarità del bene in capo al suo dante causa. A tal fine, in adempimento
dell’obbligo di dare che – per effetto della risoluzione del titolo – verrebbe a generarsi a carico dell’acquirente, occorrerebbe porre in essere un ulteriore
atto di ri-trasferimento del bene in favore dell’originario alienante (c.d. pagamento traslativo).
Secondo altra teoria, molto più diffusa e antica
della precedente (2), la risoluzione di un contratto
traslativo in realtà altro non sarebbe che un contrarius actus. Le parti, cioè, potrebbero porre in essere
una mera retro-cessione del bene uguale e contraria a quella originaria, sicché il ri-acquisto da parte
dell’alienante avverrebbe a titolo talora di donazio-
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ne, talaltra di vendita, ecc. Una risoluzione con
operatività ex tunc non sarebbe invero ammissibile
non solo perché, una volta esauriti gli effetti del titolo, il contratto sarebbe un fatto storico oramai
intangibile; ma anche perché in ogni caso la retroattività sarebbe materia preclusa ai privati, i
quali potrebbero disporre soltanto per l’avvenire.
In caso contrario, infatti, si finirebbe per pregiudicare i diritti acquistati dai terzi in data anteriore.
Secondo l’ultima impostazione, prevalente in dottrina (3), il mutuo dissenso sarebbe invece l’atto
per mezzo del quale le parti di un contratto, ritrattando la loro originaria dichiarazione di volontà,
ne risolvono gli effetti a far tempo dall’origine. In
tal modo, pertanto, il dante causa non compie un
nuovo acquisto, ma torna ad essere proprietario del
bene in forza del suo primitivo titolo di provenienza. Il negozio, legittimato dall’art. 1372, comma 2,
cod. civ., ed in certa misura disciplinato sotto il
profilo pubblicitario dall’art. 2655, cod. civ., pur
operando ex tunc, non sarebbe poi in grado di travolgere i diritti acquistati medio tempore dai terzi,
perché in tale ipotesi si tratterebbe di retroattività
non reale ma solo obbligatoria, in analogia a quanto previsto dall’art. 1458, cod. civ.
Quest’ultimo orientamento ha di recente fatto
breccia anche nella giurisprudenza di legittimità.
La Corte di Cassazione in ben due pronunce, l’una
a distanza di un anno dall’altra (4), ha espressamente ammesso il mutuo dissenso come risoluzione, invece che come retrocessione. E proprio questi
arresti giurisprudenziali hanno posto le necessarie
premesse per il revirement dell’amministrazione finanziaria sul trattamento fiscale da riservare all’operazione.
(3) G. Capozzi, Il mutuo dissenso nella pratica notarile, in Vita
not., 1993, 1, 635 ss.; A. Luminoso, Il mutuo dissenso, Milano,
1980, 49 ss. e 234 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 735; M. Franzoni, Degli effetti del contratto, I,
in Commentario al cod. civ. diretto da P. Schlesinger, Milano,
1999, 56 ss.; S. Patti, Il mutuo dissenso, in Vita not., 1999,
1658; P. Sirena, Effetti e vincolo, in Trattato del contratto diretto
da V. Roppo, III, Milano 2006, 98 s.; F. Alcaro, Il mutuo dissenso, in Alcaro-Bandinelli-Palazzo, Effetti del contratto, in Trattato
di diritto civile, Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2011,
67.
(4) Il riferimento è, evidentemente, a Cass. 6 ottobre 2011,
n. 20445; e Cass. 31 ottobre 2012, n. 18844.
(5) V. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 329/E del 14
novembre 2007, laddove per l’appunto, escludendosi l’imposizione in misura fissa, si argomentava - senza solide fondamenta - ora per l’imposta di registro proporzionale, ora per l’imposta sulle donazioni a seconda che la risoluzione provenisse dalle parti originarie ovvero dai loro eredi. Vedi infatti F. Magliulo,
378
Il trattamento fiscale della risoluzione del
contratto traslativo
L’individuazione dell’esatta natura del negozio in
oggetto ha una diretta, seppur non decisiva, influenza sul regime fiscale dell’atto.
Ha influenza diretta, perché, in presenza di un trasferimento, non ci sarebbe spazio alcuno per l’imposizione in misura fissa (5) (eccezion fatta, ovviamente, per le vicende negoziali imponibili ad
IVA). In tal caso, il trattamento fiscale della operazione resterebbe peraltro non predeterminabile
in astratto, giacché in concreto variabile in ragione
di svariati indici. Più in particolare, se si aderisse
alla tesi della retrocessione solvendi causa, il trasferimento sarebbe soggetto all’imposta di registro in
misura proporzionale ovvero all’imposta di donazione, a seconda che se ne qualifichi il titolo come
oneroso ovvero come gratuito (6) (essendo, peraltro, questa un’operazione molto meno semplice di
quanto possa apparire a prima vista (7)). Se invece
si fosse innanzi ad un contrarius actus, la tassazione
sarebbe identica a quella originariamente applicata
in relazione all’atto risolto.
L’inquadramento giuridico del mutuo dissenso non
ha però un’influenza decisiva sul relativo profilo fiscale, perché l’applicazione dell’imposta in misura
fissa non si collega di necessità alla mera assenza di
un trasferimento in senso civilistico. A tal fine, occorre escludere che si abbia un trasferimento anche
sul piano fiscale.
L’art. 28, comma 2, D.P.R. 131/1986. La
risoluzione della donazione
Sul punto, occorre fare i conti con l’art. 28, comma 2, D.P.R. n. 131/1986, ai sensi del quale, fuori
dei casi ricompresi fra quelli previsti nel primo
comma (8), “l’imposta è dovuta per le prestazioni
La natura del mutuo dissenso nei contratti con effetti reali, in
Notariato, 2012, 19.
(6) V. art. 2, comma 47, legge n. 286/2006.
(7) Sulla questione finisce, invero, per incidere pure l’incerto
concetto di “atto neutro”. In particolare, secondo alcuni (L. Cariota-Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1966, 223 testo e nota 12, e 228 testo e nota 12), l’adempimento sarebbe un atto oneroso, poiché, da un lato, l’esistenza di una attribuzione escluderebbe la figura dell’atto neutro,
dall’altro, atteggiandosi la liberazione del debitore a corrispettivo della prestazione, si fuoriuscirebbe senz’altro dall’area della
gratuità. Secondo altri (G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, 209 ss.), invece, l’adempimento sarebbe più correttamente un atto neutro, perché esso, senz’altro non qualificabile come atto gratuito, non potrebbe nemmeno essere ricondotto agli atti onerosi, visto che la liberazione dall’obbligo
costituisce un effetto legale della solutio e non il suo corrispettivo.
(8) Il primo comma regola un’ipotesi differente da quella in
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Fisco
derivanti dalla risoluzione, considerando comunque,
ai fini della determinazione dell’imposta proporzionale, l’eventuale corrispettivo della risoluzione come
maggiorazione delle prestazioni stesse”.
Nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E
del 14 febbraio 2014, una volta preso atto del nuovo corso giurisprudenziale, si precisa innanzitutto
che la lettera dell’art. 28 porta a ritenere che la risoluzione sia sempre soggetta all’imposta di registro. La circostanza che non sia previsto un corrispettivo non trascina, dunque, l’operazione nel
campo applicativo dell’imposta sulle donazioni (9).
Ciò premesso, il vero nodo da sciogliere per individuare a questo punto l’esatta tassazione del contratto di mutuo dissenso attiene alla definizione
del concetto di “prestazioni derivanti dalla risoluzione”. Si tratta in particolare di stabilire se il riacquisto del diritto da parte dell’alienante ovvero la
riconsegna del bene da parte dell’acquirente siano
o meno da considerare tali e se quindi possano o
meno configurare un trasferimento in senso fiscale.
La questione, con riferimento al mutuo dissenso di
un atto di donazione immobiliare, è stata affrontata nella citata risoluzione e risolta in senso negativo (10). L’amministrazione finanziaria infatti, muovendo dai recenti arresti giurisprudenziali, afferma
espressamente che «Nel caso di risoluzione per
“mutuo consenso” di un precedente atto di donazione avente per oggetto un bene immobile, senza
previsione di un corrispettivo, le parti si obbligano,
in linea generale, alla sola restituzione del bene
immobile. Tenuto conto dell’effetto eliminativo
che esplica l’atto di risoluzione per “mutuo consenso”, si ritiene che tale fattispecie non integra il
presupposto per l’applicazione della disciplina prevista per i trasferimenti immobiliari dall’articolo 1
della tariffa, parte prima, allegata al TUR, e la
consegna dell’immobile all’originario proprietario
non assume rilievo ai fini dell’imposta proporzionale di registro».
La affermazione è condivisibile sia per la riconsegna che per il riacquisto del bene.
Per la riconsegna, perché essa rappresenta niente
più che un mero atto di carattere materiale, di per
sé inespressivo di alcuna capacità contributiva.
Per il riacquisto, perché non può in effetti dirsi di
essere innanzi ad una “prestazione”. E ciò non solo
e non tanto per l’assenza di un trasferimento in
senso giuridico o per l’automaticità dell’effetto della risoluzione, quanto perché in tal caso si è in presenza di un effetto eliminativo retroattivo. È questo, a
ben vedere, il tratto distintivo della risoluzione per
mutuo consenso rispetto a tutte quelle altre fattispecie in cui opera invece la tassazione proporzionale, nonostante pure manchi un trasferimento in
senso giuridico o vi siano effetti automatici in
qualche misura incrementativi del patrimonio di
altro soggetto (11).
In assenza di prestazioni derivanti dalla risoluzione,
come affermato nella citata risoluzione, l’atto non
può che scontare le imposte di registro, ipotecaria
e catastale in misura fissa (pari attualmente ad euro
200,00 cadauna). Del resto, se è vero che il dante
causa ritorna proprietario in forza del suo originario
titolo di provenienza, ragionando diversamente, si
finirebbe per assoggettare il suo acquisto ad una
doppia e inammissibile imposizione tributaria.
Resta fermo, tuttavia, che la tassazione in misura
fissa presuppone che l’atto sia qualificabile come risoluzione per mutuo consenso in senso stretto. Il
trattamento fiscale dell’operazione è, cioè, destinato a mutare in almeno due casi.
In primo luogo, quando vi siano prestazioni derivanti
dalla risoluzione, ma ovviamente diverse dal mero
oggetto, stabilendo l'imposizione in misura fissa per la risoluzione del contratto dipendente da clausola o da condizione risolutiva espressa, che sia già contenuta nel contratto stesso o
che venga stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata
autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a
quello in cui è stato concluso il contratto. Il tutto fermo restando che sull’eventuale corrispettivo previsto per la risoluzione
deve essere applicata l’imposta di registro proporzionale.
(9) E con ciò parrebbe superata quella discutibile tesi sostenuta dalla già citata risoluzione del 14 novembre 2007, n. 329,
là dove si affermò che la risoluzione di un atto di donazione
posta in essere dal donante e dagli eredi del donatario sarebbe
soggetta all’imposta sulle donazioni, giacché, non trasmettendosi per causa di morte la facoltà di risolvere il contratto, la risoluzione altro non sarebbe che una retro-cessione a titolo
gratuito. L’Agenzia delle Entrate fonda infatti il proprio revirement muovendo anche dalla recente sentenza della Corte di
Cassazione (6 ottobre 2011, n. 20445), in cui espressamente si
ammette la risoluzione come “contratto autonomo con il quale
le stesse parti o i loro eredi ne estinguono uno precedente”.
(10) Le conclusioni riportate nella risoluzione in oggetto sono, peraltro, il frutto delle attività svolte dal Tavolo di lavoro
congiunto istituito tra l’Agenzia delle Entrate ed il Consiglio
Nazionale del Notariato, in forza del protocollo d’intesa sottoscritto il 29 ottobre 2010. Per la tassazione in misura fissa, vedi
già: in dottrina, fra gli altri, M. A. Casino, Il mutuo dissenso e la
legge di registro, in Notariato, 2008, 549 ss.; P. Criscuoli, Mutuo dissenso, la Cassazione aderisce alla tesi della risoluzione retroattiva, in questa Rivista, 2012, 373; in giurisprudenza:
Comm. Trib. Prov. di Matera, 29 settembre 2005, n. 157;
Comm. Trib. Reg. di Potenza, 7 gennaio 2009, n. 4; Comm.
Trib. Prov. di Macerata, 15 luglio 2013, n. 139.
(11) Si pensi, ad esempio, alla vendita con riserva della proprietà (art. 27, comma 3, D.P.R. n. 131/1986) o alla rinuncia
pura e semplice ad un diritto reale di godimento (art. 1, Tariffa,
Parte Prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986), là dove, indipendentemente dalla qualificazione civilistica delle rispettive vicende negoziali, l’atto è soggetto ad imposta di registro in misura proporzionale.
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379
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ripristino dello status quo ante. Potrebbe ascriversi
a questo gruppo di ipotesi, ad esempio, la risoluzione di un atto di donazione avente in origine per
oggetto un terreno, qualora medio tempore il donatario abbia edificato un fabbricato al di sopra di esso. In tal caso, infatti, la risoluzione produce degli
effetti esorbitanti rispetto a quelli ordinari, giacché
per la prima volta fa acquisire al donante la titolarità del fabbricato realizzato da terzi, con tutto quel
che ne consegue pure sul piano obbligatorio (art.
936 cod. civ.).
In secondo luogo, quando per la risoluzione sia previsto un corrispettivo, da intendersi questo “come
un’autonoma nuova obbligazione derivante dallo
stesso atto di risoluzione” (12). In tal caso, infatti,
si determina di necessità una diversa qualificazione
del contratto, non più in termini di mutuo dissenso
puro, ma come accordo con causa di scambio.
Alle ipotesi sopra indicate, tuttavia, dovrebbe aggiungersene un’altra. Infatti, se l’imposizione in misura fissa si collega, come appare, ad una risoluzione pura, va da sé che il trattamento fiscale dovrebbe mutare anche laddove il mutuo dissenso contenga “limiti o condizioni al ristabilimento della situazione ante donazione”, perché in tal caso si
configurerebbe «un secondo, nuovo e “diverso” trasferimento di diritti» (13). Perciò, volendo fare
un’esemplificazione, a prescindere dalle questioni
di ordine giuridico che esso solleva (14), il c.d. mutuo dissenso parziale non sembrerebbe in grado di
sottrarsi ad una tassazione di tipo proporzionale.
La risoluzione della permuta e della
vendita
L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione in oggetto, si è pronunciata soltanto con riferimento al
caso del mutuo dissenso senza corrispettivo avente
per oggetto un atto di donazione immobiliare. Ci si
potrebbe allora domandare se le conclusioni cui essa è giunta rimangano immutate anche quando si
tratti di risolvere un contratto di permuta o di vendita.
Benché da un punto di vista formale l’Agenzia delle Entrate si limiti ad escludere che la interpreta(12) Così, la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E
del 14 febbraio 2014.
(13) Testualmente, ancorché incidentalmente, Comm. Trib.
Prov. di Macerata, 15 luglio 2013, n. 139.
(14) Vedi, di recente, lo studio del Consiglio Nazionale del
Notariato n. 52-2014/C, Sul mutuo dissenso in generale e, in
specie, parziale del contratto di donazione (est. M. Ceolin).
(15) Nella risoluzione in commento, infatti, dopo aver ricordato che con quella in data 14 novembre 2007, n. 329, si affer-
380
zione contenuta nella risoluzione n. 329/E del 14
novembre 2007 valga pure nel caso affrontato (15),
a mio avviso, il quesito va risolto in senso positivo
per entrambe le fattispecie, a meno che – ovviamente – non si rientri in uno di quei casi in cui si
applica la tassazione in misura proporzionale.
In particolare, con riferimento alla permuta, se è
vero che l’efficacia retroattiva di tipo ripristinatorio resta identica a se stessa indipendentemente
dalla natura del contratto oggetto di risoluzione,
allora anche in tal caso il riacquisto e la riconsegna
del bene in favore del singolo permutante non costituiscono delle prestazioni derivanti dalla risoluzione. Conseguentemente, l’atto sarà soggetto ad
imposta di registro in misura fissa.
Con riferimento alla vendita, il discorso senz’altro
non cambia per le “prestazioni” a carico del compratore, che invero sono identiche a quelle del donatario. Potrebbe invece sorgere il dubbio per quelle a carico del venditore. Tuttavia, a mio avviso,
non c’è ragione di concludere diversamente quando si tratti di “prestazioni” di carattere restitutorio,
coerenti cioè – al pari della riconsegna del bene –
con la funzione ripristinatoria del negozio di risoluzione. In altri termini, la restituzione del prezzo pagato in origine, già di per sé inqualificabile come
corrispettivo della risoluzione, non sembra nemmeno prestarsi ad essere inquadrato fra le prestazioni
derivanti dalla risoluzione.
Alcune conseguenze del nuovo
orientamento
L’adesione alla concezione risolutoria del contratto
di mutuo dissenso non è poi priva di ricadute sul
piano sia dell’imposizione diretta, sia di quella indiretta.
Ad ogni modo, va innanzitutto precisato – sulla
scia della risoluzione in oggetto – che la retroattività non ha certo per conseguenza la restituzione
delle imposte originariamente corrisposte in relazione alla cessione risolta. Il versamento non diviene, cioè, indebito a seguito della stipula del contratto di mutuo dissenso. Ciò sarebbe infatti possibile solo ammettendo la riapertura – ad opera dei
mò che la risoluzione è soggetta all’imposta di registro in misura proporzionale ex art. 28, comma 2, D.P.R. n. 131/1986, si
dà atto che ciò che si chiede di conoscere è «se tale interpretazione trovi applicazione anche nel caso di risoluzione per “mutuo consenso”, senza previsione di alcun corrispettivo, di un
atto di donazione di immobili». Dal che parrebbe formalmente
desumersi che la tassazione proporzionale continui a valere
per tutte le altre ipotesi.
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contribuenti – di un rapporto tributario già definito. Il che però implicherebbe, fra l’altro, il riconoscimento al mutuo dissenso di una retroattività opponibile erga omnes.
La plusvalenza
La risoluzione in commento, con riferimento alla
disciplina di cui agli artt. 67 e 68, D.P.R. n.
917/1986, afferma l’incidenza del mutuo dissenso
(con effetti ex tunc) sulla determinazione del momento in cui si considera acquisito l’immobile,
nonché sulla quantificazione della plusvalenza.
Sembra però opportuno tracciare una linea di demarcazione fra la risoluzione della donazione e
quella della vendita.
Nel primo caso, se è vero che non c’è retrocessione
dell’immobile a titolo gratuito, la risoluzione va
considerata come una vicenda in sé neutra, proprio
perché avente ad oggetto un contratto (la donazione) che già non assume alcun rilievo né sul piano
del dies a quo del termine quinquennale, né su
quello del costo di acquisizione da considerare per
la quantificazione della plusvalenza (16).
Altro è se, invece, si tratti di risolvere un atto di
rivendita, là dove, una volta accolta la retroattività
del mutuo dissenso, è come se l’acquirente non
avesse in realtà mai rivenduto. Ecco allora che l’attenzione deve essere concentrata sulla eventuale
nuova rivendita del bene dopo la avvenuta risoluzione di quella originaria.
Qui bisogna distinguere a seconda dei casi.
Nulla quaestio, se la nuova rivendita sia compiuta
dopo cinque anni dall’acquisto. In tal caso, non si
avrà infatti alcuna plusvalenza, anche se sia stata
precedentemente risolta una rivendita infraquinquennale (17).
(16) In caso di rivendita ad opera del donatario, infatti, il periodo di cinque anni va computato a decorrere “dalla data di
acquisto da parte del donante” (art. 67, comma 1, lett. b),
D.P.R. n. 917/1986), e come prezzo di acquisto o costo di costruzione deve assumersi “quello sostenuto dal donante” (art.
68, comma 1, D.P.R. n. 917/1986). In altre parole, ai fini della
plusvalenza, è come se la rivendita fosse compiuta direttamente da parte del donante.
(17) Ad esempio, se Tizio dopo aver acquistato nel 2008
compie il secondo atto di rivendita nel 2014, non si avrà alcuna plusvalenza a prescindere dalla circostanza che la prima rivendita e la risoluzione per mutuo consenso fossero infraquinquennali o meno.
(18) Lo stesso vale anche per le ipotesi in cui la plusvalenza
operi indipendentemente dal termine quinquennale.
(19) Si ipotizzi ad esempio che Tizio rivenda nel 2011 un’abitazione acquistata nel 2010 ma destinata a sua abitazione
principale, senza dunque plusvalenza. Qualora Tizio proceda
nel 2014 sia alla risoluzione dell’atto di alienazione sia al compimento di una nuova rivendita, egli difficilmente potrà sottrar-
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Diverso è invece se entro cinque anni dallo originario acquisto si proceda anche alla stipula del
nuovo atto di rivendita (18).
In questo caso, l’atto è soggetto ad autonoma valutazione quanto all’accertamento dei presupposti
della plusvalenza, la quale invero ben potrebbe verificarsi anche laddove la prima rivendita non ebbe
a generarne alcuna (19).
La nuova rivendita infraquinquennale, invece, non
può assumere un’autonoma rilevanza per la determinazione dell’ammontare della plusvalenza. E infatti, se è vero che la doppia imposizione è illegittima e se è altresì vero che la risoluzione non comporta restituzione dell’imposta già versata per la
plusvalenza generata dalla prima rivendita (ormai
risolta), va allora chiarito che la nuova rivendita
non può dar luogo a nuova plusvalenza tassabile,
almeno non fino a concorrenza dell’imposta già assolta (20).
Il c.d. coacervo
La concezione risolutoria del mutuo dissenso influisce anche su altre questioni, non espressamente
trattate dalla risoluzione in commento. Una di
queste attiene al c.d. coacervo (21).
Gli artt. 8 e 57, D.Lgs. n. 346/1990, sanciscono
l’obbligo di considerare, ai fini della applicazione
delle imposte sulla successione e sulla donazione, il
valore globale netto dei beni e dei diritti in precedenza già ricevuti per donazione dal medesimo donante. Si pone allora il dubbio se ricadano nella
suddetta disciplina il riacquisto da parte del donante per effetto della risoluzione e l’acquisto da parte
del donatario per effetto della donazione che però
è ormai risolta.
si alla tassazione della eventuale plusvalenza, considerato che
l’immobile non è stato adibito ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari “per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto ... e la cessione” (art. 67, comma 1, lett.
b), D.P.R. 917/1986).
(20) Ad esempio, Tizio, acquistata nel 2010 per euro
100.000 un’abitazione non destinata a sua abitazione principale, la rivende nel 2011 per euro 150.000, dando così luogo ad
una plusvalenza tassabile di euro 50.000. Qualora Tizio, risolto
senza corrispettivo l’atto di alienazione, proceda nel 2014 ad
una nuova rivendita dell’abitazione per euro 200.000, la plusvalenza tassabile non ammonterà ad euro 100.000 ma soltanto ad euro 50.000, ossia la differenza fra l’ammontare delle
“due” plusvalenze. Per evitare la doppia imposizione, insomma, non resta che considerare l’imposta già versata per la plusvalenza generata dalla prima rivendita alla stregua di un acconto.
(21) Cfr. l’intervento sul punto dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato: Quesito n. 103-2010/T, Coacervo
- donazioni risolte (est. Valeria Mastroiacovo).
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Alla prima questione va senz’altro data risposta negativa. Se l’atto anche fiscalmente non integra un
trasferimento a titolo gratuito e perciò – per come
affermato dalla risoluzione in commento – non è
mai soggetto all’imposta di donazione, va da sé che
il riacquisto da parte del donante non potrà in nessun modo rilevare ai fini del coacervo.
La seconda questione sembra pure da risolversi in
senso negativo. La retroattività della risoluzione
senz’altro non consente – come detto – il recupero
delle imposte pagate per la donazione, perché sotto
tale profilo non può ammettersi la riapertura di un
rapporto già esaurito sostenendo l’indebito versamento delle imposte originarie. Da ciò non può,
tuttavia, inferirsi che la donazione, pure intesa come fatto storico immutabile, continui a far numero
ai fini del coacervo. L’operatività ex tunc fa sì che,
una volta risolta, la donazione risulti in realtà mai
ricevuta dal donatario, e perciò, contrariamente ad
altre eventuali donazioni ricevute ma mai risolte,
essa non potrà rientrare nel calcolo.
La decadenza dalle agevolazioni prima
casa
Altra possibile ricaduta della nuova concezione del
mutuo dissenso si ha in tema di decadenza dalle
agevolazioni “prima casa” per alienazione del bene
infraquinquennale. Ma ciò non certo perché il negozio di risoluzione rilevi come alienazione (22) o
come riacquisto, quanto perché esso potrebbe avere ad oggetto sia l’atto di rivendita (23), sia l’atto
di riacquisto.
Nel primo caso, è come se il venditore non avesse
mai alienato l’abitazione acquistata con le agevolazioni. Conseguentemente, ove l’oramai “ex-rivenditore” intenda acquistare una ulteriore abitazione,
egli non potrà godere delle agevolazioni prima casa
(22) Peraltro, se risolvere non vuol dire trasferire, allora la risoluzione infraquinquennale dell’atto di acquisto compiuto
usufruendo delle agevolazioni prima casa non assume alcun rilievo ai fini della decadenza dai benefici fiscali, perché non fa
affatto decorrere il termine annuale per il riacquisto.
(23) Per mera semplicità ci si riferirà all’atto di rivendita, fermo restando che ai fini della decadenza assume rilievo ogni
alienazione, sia a titolo oneroso, sia a titolo gratuito.
(24) L’ipotesi presa a riferimento è quella della risoluzione
della rivendita infraquinquennale non seguita da riacquisto entro il termine di un anno. Altro sarebbe se invece la risoluzione
intervenisse dopo tale riacquisto. In forza della retroattività del
negozio, potrebbe invero risultare ex post illegittima l’applicazione delle agevolazioni prima casa (come pure l’utilizzo del
credito d’imposta) in relazione all’atto di riacquisto (così,
Comm. Trib. Prov. Trento, 16 febbraio 2009, n. 4, con riguardo
alla ipotesi di revocazione di una donazione per sopravvenienza di figli). Chi argomenta in tal senso afferma, più o meno
esplicitamente, l’esistenza - all’interno dell’atto di riacquisto -
382
(per difetto del requisito della novità), né potrà avvalersi del credito d’imposta (per difetto della precedente alienazione).
Le ulteriori conseguenze della risoluzione variano,
invece, a seconda che essa incida su una rivendita
ultraquinquennale ovvero su una infraquinquennale.
Nella prima ipotesi, non si pongono questioni in
merito alla decadenza dalle agevolazioni prima casa, giacché l’eventuale nuova rivendita interverrebbe comunque oltre il termine di cinque anni.
Nell’altra ipotesi, invece, è decisivo il momento in
cui interviene la stipula dell’atto di mutuo dissenso.
Infatti, qualora intervenga in pendenza del termine
annuale per il riacquisto, essa impedisce a monte il
verificarsi della decadenza.
Se al contrario la risoluzione avvenisse dopo l’inutile decorso del termine annuale per il riacquisto
(quando cioè la decadenza è già maturata) (24),
sembrerebbe necessario effettuare una ulteriore distinzione.
In particolare, da un lato, qualora l’amministrazione finanziaria avesse già fatto valere la decadenza,
la risoluzione non potrebbe certo costituire il mezzo per rimuoverne ex tunc l’esistenza (e le sue conseguenze), non fosse altro perché nella fattispecie
si è in presenza di una retroattività inter partes. Allo stesso modo, dall’altro lato, ove l’amministrazione finanziaria fosse a sua volta già decaduta dall’azione, la risoluzione non potrebbe nemmeno valere
a riaprirne i termini.
Resta, dunque, il caso della risoluzione che intervenga a decadenza già maturata, epperò in pendenza del termine dell’azione del fisco. Si tratta evidentemente di un’ipotesi complessa che necessita
di particolari approfondimenti. Da un lato si podi una dichiarazione mendace in ordine alla novità nel godimento delle agevolazioni. Sennonché, non pare che in tal modo si colga nel segno. La norma richiede una dichiarazione circa la (non) titolarità di altra abitazione acquistata con le agevolazioni, la quale non può che avere per oggetto un fatto storicamente attuale e presente. Ne deriva che non può parlarsi di
mendacio, né originario né successivo. Non successivo, perché si tratta di vera e propria dichiarazione di scienza e non di
dichiarazione di intenti (al contrario della dichiarazione di voler
stabilire la residenza nel Comune ove si trova l’immobile agevolato entro diciotto mesi dall’acquisto), tanto che non parrebbe applicarsi nemmeno l’art. 19, D.P.R. n. 131/1986. Non originario, perché la retroattività (peraltro inter partes) non può alterare a posteriori la veridicità storica della dichiarazione. La natura della dichiarazione, allora, importa di necessità che il dies
a quo dell’eventuale accertamento coincida con il giorno in cui
essa è resa e non da un giorno successivo. Contro eventuali
abusi, saranno altri insomma i rimedi da azionare.
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Fisco
trebbe, infatti, sostenere l’inutilità della risoluzione
come rimedio contro la decadenza, la quale – una
volta perfezionatasi – rimarrebbe cioè insensibile
alla retroattività dell’atto, non potendo che seguire
un proprio autonomo percorso. Dall’altro, però, si
potrebbe pure ritenere che la risoluzione possa giocare a vantaggio del contribuente, giacché essa in
definitiva interverrebbe comunque prima dell’esercizio del potere da parte del fisco, facendone così
cessare l’interesse a rilevarla.
La risoluzione ben potrebbe poi avere per oggetto,
non la rivendita ma il successivo atto di riacquisto.
In tal caso, è come se il riacquirente non avesse in
realtà mai riacquistato altra abitazione. Ecco allora
che anche qui è importante la fase temporale in
cui si colloca la risoluzione.
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Difatti, se essa intervenisse entro l’anno dalla rivendita, l’oramai “ex-riacquirente” potrebbe evitare la decadenza (invero tuttora suscettibile di perfezionarsi), procedendo a nuovo riacquisto.
Decorso l’anno, invece, la risoluzione non potrebbe
valere a far maturare ex post la decadenza per mancato riacquisto entro l‘anno. Non solo perché, diversamente, il contribuente non avrebbe modo di
evitarla una volta spirato il termine annuale, ma
anche perché in tal modo si finirebbe per riaprire
un rapporto tributario già definito; il che non sembra ammissibile.
Va da sé che quanto detto da ultimo vale, a maggior ragione, anche per la risoluzione che intervenga dopo lo spirare dello stesso termine di decadenza
per il recupero d’imposta da parte dell’amministrazione finanziaria.
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Locazioni
Rent to buy
Il rent to buy: la tipizzazione
sociale di un contratto atipico
di Antonio Testa - Notaio in Monza
Un ulteriore contributo di analisi del rent to buy nell'ottica di rivendicare una tipizzazione sociale del contratto che consenta di fugare dubbi sull'applicazione della disciplina chiamata a regolare la lex contractus
dell'accordo negoziale atipico. Il possibile superamento di certe criticità legate al diritto sostanziale e ai
profili fiscali attraverso la sperimentazione di una scelta negoziale sui generis che possa soddisfare le medesime esigenze legate all'utilizzo del rent to buy.
Nonostante le pagine di questa stessa rivista siano
state già ampiamente occupate (1) dalle questioni
fiscali e di diritto sostanziale attinenti questa fattispecie contrattuale, è innegabile come le esigenze
contingenti, dettate dalla crisi economica che attanaglia il settore immobiliare, spingano verso un'ulteriore valutazione del fenomeno, nell'ottica di
una progressiva maturazione di certe scelte negoziali capaci di smuovere il mercato edilizio.
È opportuno rammentare come non sia possibile
giustificare il ricorso a fattispecie contrattuali atipiche per il raggiungimento finale di un risultato
economico-negoziale al quale sono giuridicamente
preposte fattispecie tipiche, senza considerare i presupposti storico-economico-sociali che tradizionalmente conducono alla pragmatica “tipizzazione” di
un contratto atipico.
L'esempio in tal senso probabilmente più classico e
storicamente più vicino, è rinvenibile nel contratto di leasing notoriamente importato, a partire da
circa un quarantennio fa, dall'ordinamento anglosassone ed oggi passato alla routinaria tipicità, in
dipendenza dell'utilizzo che le mutate esigenze economico-sociali, rispetto all'offerta rappresentata da
certi sistemi contrattuali tradizionali, hanno rivendicato a tale fenomeno negoziale.
Analogamente, è assai verosimile come la contingente stagnazione di certi mercati, sia pure nel
tempo, potrà condurre gradatamente “a regime” la
fattispecie del rent to buy allo scopo di indovinare
novelle possibilità commerciali che possano tornare ad ossigenare significativamente il mercato immobiliare.
Non pare necessaria una specifica cultura economica per individuare le ragioni salienti che affliggono, con un inusitato ingessamento, il mercato dell'edilizia. Il sistema bancario italiano, tradizionalmente aduso quasi esclusivamente alla funzione
creditizia almeno sin dai tempi della rinascita del
nostro Paese nell'immediato dopoguerra, sembra
essere stato costretto a cambiare drasticamente rotta, sulla spinta evidentemente di pressioni comunitarie che, invero, trovano giustificazione solo con
riferimento a realtà nazionali totalmente diverse
dalla nostra. Drastici dettami, come quelli imposti
dall'ormai famigerato “Basilea 2”, costringono il sistema bancario ad analizzare in maniera asetticamente numerica perfino il bilancio familiare del signor Rossi, senza alcuna valutazione pragmatica
che possa riservare, al medesimo signor Rossi, apprezzato risparmiatore, una prospettiva di fiducia,
da parte delle banche, assolutamente superiore a
quella riservata al signor Bianchi, notoriamente
conosciuto invece come scialacquatore di quattrini.
Ciò ha comportato una netta contrazione del sistema creditizio del tutto sbilanciata rispetto alla
esclusiva funzione finanziaria concretamente oggi
svolta dalle banche. Nonostante, perciò, la liquidità non sembra proprio mancare nelle casse degli
Istituti di Credito, considerata una raccolta finanziaria assai più elevata, almeno in proporzione, a
quella conosciuta, ad esempio, fino ad un quinquennio fa, l'impiego di tale liquidità per il credito
(1) A. Cirla, Il rent to buy: una grande occasione che però
ancora non riesce a decollare, in questa Rivista, 2013, 12, 721
ss.; P. Aglietta, Profili fiscali dei contratti atipici “rent to buy”,
Id., 717 ss.
Presupposti economico-sociali che
giustificano il ricorso al contratto atipico
di rent to buy
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a favore delle famiglie e delle imprese che pur meriterebbero fiducia, è drasticamente negata da supposti “range di sicurezza” (i famigerati “rating” imposti da asettici documenti comunitari) ai quali esse non rispondono.
A ciò si aggiunga come, pur l'imperante onda di
certo liberismo economico, abbia, tuttavia di fatto,
impedito che gli spread applicati dalle banche ai
mutui possano avere risentito “in melius” degli
equilibrismi che hanno ultimamente condotto il sistema economico interno a tornare competitivo rispetto a quello di altri Paesi europei. Sicché, ad
onta del violento abbassamento dei parametri a cui
sono ancorati i tassi d'interesse dei finanziamenti,
la percentuale media degli spread applicati ai contratti di mutuo bancario risultano talmente elevati,
da avere ricondotto l'effettivo costo del finanziamento a quello che lo stesso era, quando i parametri di riferimento dei tassi erano ben più elevati del
costo del denaro, attualmente vicino allo zero, cui
risponde l'Euribor o il Libor. Con la conseguenza
che, sebbene in presenza di una situazione economica delle famiglie e delle imprese, assai più impoverita rispetto a quella di un quinquennio fa, il costo per l'accesso al credito, quando possibile, risulta
egualmente elevato ai medesimi livelli del tempo
in cui l'economia viaggiava a marce ben più elevate.
Tutto questo ha generato due ordini di conseguenze. L'una, a danno del cosiddetto “consumatore” il
quale, o non ha più la possibilità di accedere al
prestito bancario in quanto le proprie condizioni
patrimoniali non risultano rispondenti ai parametri
di sicurezza cui la concessione del credito è strettamente ancorata, oppure, pur avendo, di principio,
possibilità di accedervi, non si trova nelle condizioni economiche correnti da consentire un'esposizione al debito con certezza della capacità di rimborso, in presenza di un costo del finanziamento
oltremodo elevato rispetto ai propri guadagni. Il
corollario di una situazione di tal fatta è dato dalla
sensibile riduzione del potere di acquisto, comportante l'abbandono di ogni velleità di investimento
immobiliare.
D'altro canto, la situazione in cui versano le imprese edili diventa, vieppiù, sempre meno rosea proprio a causa dell'impossibilità da parte dell'utenza
di fruire dell'offerta merceologica a cui lo scopo
dell'impresa stessa è funzionalizzata. L'esigenza dell'impresa (ma anche quella del privato indotto a
vendere da impellenti bisogni economici) è quella
di disfarsi, nel più breve tempo possibile, dell'invenduto, allo scopo di raggiungere, con il minor dispendio di energie economiche, lo scopo che l'impresa stessa si è programmata (o, per il caso del pri-
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vato che si accinga a vendere, lo scopo ultimo di
conseguire la realizzazione economica della propria
cessione immobiliare nel più breve tempo possibile).
La situazione è tanto più drammatica quanto più ci
si accorge che si tratta del classico gatto che si
morde la coda, in uno stagnante circuito vizioso
nel quale diventa assai problematico districarsi, se
non, appunto, a condizione di trovare nuovi sbocchi negoziali che possano rispondere alle contingenti esigenze della collettività.
Il fenomeno sociale legato alla
stagnazione del mercato immobiliare e la
crisi creditizia come argomenti per una
causalità unitaria della fattispecie
negoziale atipica
Ora, da un lato, la difficoltà di accesso al credito e
la necessità comunque di acquisire la proprietà della casa di abitazione (ma l'esempio potrebbe anche
essere esteso a qualunque altra tipologia di immobile, anche strumentale all'attività lavorativa esercitata dal potenziale acquirente), determina, in capo all'utenza, l'esigenza di trovare una soluzione
economica, con riguardo all'adempimento dell'obbligo di pagare il corrispettivo, alternativa al pagamento integrale immediato, tradizionalmente coincidente con il momento del perfezionamento del
contratto di acquisto, normalmente finanziato, nel
passato, mediante accesso ad un finanziamento
bancario. D'altro canto, anche sotto l'ottica del
venditore (sia esso impresa o privato) non può negarsi come l'ottenimento del risultato sostanziale
ultimo è strettamente legato all'approvvigionamento, in capo al potenziale acquirente, di una forma
di finanziamento, diretto od indiretto, ancora una
volta diverso dai soliti canali bancari, come si è visto, ormai difficilmente percorribili.
Di fronte alla situazione economico-commerciale
sommariamente appena descritta, il punto è quello
di cercare una soluzione negoziale che possa consentire di contemperare le diverse esigenze dell'utente-consumatore, da un lato, e quelle dell'impresa (o comunque quelle del potenziale venditore),
dall'altro, tentando di arrecare il minor nocumento
possibile alle stesse parti contraenti nell'ipotesi in
cui l'intero accordo andasse a monte.
Si comprende facilmente come, in presenza di specifiche nuove esigenze espresse dal mercato, nell'impossibilità di trovare una idonea soluzione ai
problemi attraverso il ricorso agli schemi negoziali
correnti e tipizzati dall'Ordinamento, la concreta
risposta non può che ricercarsi in schemi contrat-
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tuali atipici che siano in grado di soddisfare quanto
il ricorso ai contratti tipici non riesca a fare.
Ed è proprio questa la funzione che l'Ordinamento
riserva, nella buona sostanza, al principio della libertà di autonomia negoziale attraverso il quale è
consentito ricostruire schemi negoziali, atipici appunto, diversi da quelli contemplati e regolamentati dal codice civile, con il solo limite del rispetto
dei principi generali inderogabili, dell'ordine pubblico e del buon costume, attraverso i quali sia possibile soddisfare esigenze, meritevoli di tutela giuridica, altrimenti non realizzabili da nessuno degli
schemi codicisticamente conosciuti.
La fattispecie del rent to buy, ma il discorso non è
poi troppo diverso anche per il caso delle fattispecie alternative a questa che la dottrina si è curata
di ricostruire, come il caso del buy to rent o dell'help to buy, trova linfa vitale allorché essa riesca
dunque concretamente ad assecondare i bisogni
che sono legati alle cause fondamentali della crisi
del mercato immobiliare, senza tuttavia porre, nel
contempo, dubbi interpretativi che possono generare difficoltà applicative, sia con riferimento a
questioni di diritto sostanziale, sia con riferimento
a problematiche di ordine fiscale e che, pertanto
non rendono conveniente il richiamo della fattispecie stessa.
È ovvio quanto il primo problema che si pone di
fronte ad un novello schema negoziale realizzato
nella prassi, sia costituito dalla necessità di individuare la concreta disciplina che, a livello civilistico e a livello fiscale, possa valere a regolamentare
la materia.
Soprattutto al fine di consegnare allo schema negoziale atipico una cittadinanza civilistica che sia
idonea a definire la disciplina applicabile, come è
noto, risulta fondamentale inquadrare il fenomeno
negoziale sotto l'aspetto della causa contrattuale
che lo giustifichi. A tal riguardo, secondo certa
dottrina che ha approfonditamente analizzato il fenomeno del rent to buy, sarebbe essenziale la verifica del concreto interesse che abbia mosso i contraenti verso certe soluzioni piuttosto che verso altre. In tal modo, se ne dovrebbe dedurre nel senso
di affermare una differente interpretazione causale
della fattispecie a seconda del diverso scopo realmente perseguito dalle parti contraenti.
Di conseguenza, allorché la fattispecie venisse utilizzata allo specifico scopo di consentire al compratore l'ottenimento della concreta possibilità di rateizzazione del pagamento del prezzo di acquisto,
nell'impossibilità da parte di questi di sborsare integralmente la somma stessa al momento del perfezionamento di un eventuale contratto di vendita
con effetti immediati, il negozio, come è stato af-
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fermato, mostrerebbe i caratteri di un contratto
unitario atipico che viene a tipizzarsi in considerazione della speciale causa economico-sociale determinata dalla specifica funzione, sostanzialmente
creditizia, a cui il contratto stesso risponderebbe.
Qualora, invece, sempre secondo questo filone dottrinale, lo scopo effettivamente perseguito dalla
parte acquirente fosse quello di acquisire l'immediata disponibilità del mero godimento del bene
immobile dietro corresponsione di canoni periodici
a favore dell'attuale proprietario, salva la possibilità – da parte dello stesso utilizzatore – di accedere
successivamente (ed eventualmente) all'acquisizione del diritto di proprietà del bene medesimo, godendo del vantaggio economico di poter imputare,
tutti o parte dei canoni pagati, a totale o parziale
scomputo del prezzo di cessione, in tal caso, se ne
dovrebbe dedurre l'esistenza di una fattispecie contrattuale complessa, certamente caratterizzata da
un collegamento negoziale volontario.
L'effettiva causa negoziale unitaria del
rent to buy e la necessita di distinguerla
dai “motivi”
Per quanto sostenuto, allora, pare che la causa negoziale della fattispecie debba dirsi complessa
quando l'intento che muova l'effettiva volontà delle parti veda la prevalenza dell'interesse del potenziale acquirente di procrastinare l'acquisto, intanto
assicurandosi l'immediata utilizzazione del bene in
corrispettivo del quale vengono pagati canoni periodici, poi (eventualmente) imputabili a prezzo, e
debba invece dirsi semplice ed unitaria (sebbene
atipica) quando a prevalere fosse l'interesse alla rateizzazione del corrispettivo al fine di consentire
un frazionamento temporale del pagamento che
corrisponda, in tal modo, al medesimo scopo cui risponderebbe l'avvenuto ottenimento di un mutuo,
stante la mancata capacità attuale dell'acquirente
di provvedere al pagamento del corrispettivo dovuto mediante utilizzo di propria liquidità immediatamente disponibile.
Sicché, mentre nel primo caso, la disciplina del
contratto risulterebbe dall'applicazione della singola disciplina che norma ciascun tipo contrattuale
oggetto del collegamento, nel secondo caso essa risulta funzionalizzata agli effettivi interessi perseguiti dalle parti, le quali potranno stabilire in totale
autonomia quale debbano essere le regole applicabili alla fattispecie, con conseguente disapplicazione di certe normative che sarebbero invece inderogabili nel caso di un inquadramento disciplinare
della fattispecie stessa alla stregua dei singoli con-
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tratti tipici che la compongano nella sua complessità.
Non sembra che tali conclusioni dottrinali possano, alla luce delle esigenze che giustificano il ricorso al fenomeno contrattuale del rent to buy (ed,
analogamente, del buy to rent e dell'help to buy),
acriticamente essere condivise.
Per quanto sopra si è cercato di premettere, sembra
piuttosto evidente che, qualunque sia la scelta pratica che si voglia seguire, tra quelle consentite dall'autonomia negoziale privata, l'effettiva esigenza a
cui l'atipicità del rent to buy dovrebbe rispondere e,
dall'altro lato, la vera questione da risolvere attraverso il ricorso ad un fenomeno negoziale atipico
di tal fatta, consista nella individuazione di una
scelta contrattuale capace di consentire, sia pure
indirettamente, una forma di finanziamento dell'acquisto, alternativo a quello offerto dagli ordinari canali bancari di accesso al credito ipotecario o
fondiario, non più, di fatto, disponibili, o comunque scarsamente disponibili.
Appare, infatti lapalissiano come il ricorso al rent
to buy è unicamente giustificabile dalla funzione
economico-sociale alla quale l'operazione negoziale
è chiamata a rispondere. Non pare significativamente credibile che, sebbene palesata in tali termini, la funzione del negozio possa essere diversa allorché la parte acquirente abbia intenzionalmente
inteso procrastinare gli effetti della vendita, intanto assicurandosi l'immediato godimento del bene.
In tal caso è evidente come, se la volontà contrattuale fosse davvero questa, sarebbe molto più semplice ricorrere ad un preliminare ad effetti anticipati con una rateizzazione del corrispettivo dovuto,
che di fatto avvenga mediante la previsione di una
serie di acconti-prezzo aventi scadenza successiva
nelle more tra la stipula del preliminare e l'adempimento contrattuale definitivo.
In altri termini, comunque si congegni la fattispecie e, perciò, qualunque sia l'interesse dell'acquirente apparentemente palesatosi attraverso la specifica strutturazione negoziale utilizzata, di fronte
ad un accordo che preveda un'operazione unitaria
con la quale un immobile viene concesso in locazione con contestuale previsione di un impegno alla successiva cessione dell'immobile medesimo dal
locatore al conduttore, ad un prezzo già fissato, dovendosi scomputare (in tutto o in parte), da tale
corrispettivo, quanto già versato a titolo di canone
locativo, l'effettiva causa contrattuale (da ben distinguersi dai motivi che possono indurre le parti ad
utilizzare un certo schema negoziale piuttosto che
un altro) è una ed una sola, trovando essa fondamento nella necessità di rendere possibile al compratore un dilazionamento del corrispettivo dovuto
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e quindi approntando – di fatto – a favore di questi
i medesimi vantaggi economici di cui egli godrebbe
in caso di accesso ai normali canali creditizi. Il rent
to buy, insomma, si atteggia sempre come una risposta concretamente attualizzabile in presenza dell'insorgenza di una difficoltà economica del compratore a versare interamente il corrispettivo dovuto al momento della vendita, contemperando l'interesse di questi alla conclusione comunque dell'acquisto, con l'interesse del venditore alla conclusione dell'alienazione immobiliare pur in assenza di
un pagamento del prezzo dovuto in un'unica soluzione.
A ben vedere, dunque, il rent to buy, sotto l'aspetto
sostanziale, presenta una sua causa unitaria assimilabile, per grandi linee, a quella sottesa alla legittimazione del contratto di finanziamento bancario
dalla quale unicamente si distanzia per il fatto che
l'ottenuto finanziamento consente il pagamento
del corrispettivo in un'unica soluzione, mediante
utilizzo della provvista approntata dalla banca finanziatrice, alla quale verrà effettuato, da parte del
mutuatario-acquirente, un rimborso rateale.
Tale unitarietà della causa contrattuale, sia pure di
natura atipica, consistente nel ruolo economicocreditizio che viene conferito al negozio posto in
essere, consente di accedere ad una valutazione
normativa della fattispecie, non col ricorso alle discipline dei singoli contratti (tipici) costituenti il
collegamento negoziale all'interno della fattispecie
atipica, sibbene attraverso una lex contractus che le
parti possono liberamente prevedere in totale autonomia, con conseguenziale disapplicazione, tra l'altro, di certe discipline vincolistiche, come quella
prevista dalla legge in materia di locazione.
A questo punto è opportuno ricordare come un
contratto si connaturi di atipicità tutte le volte in
cui il congegno negoziale posto in essere non risponda ad alcuna fattispecie regolarmente disciplinata dal codice civile; ed è tipico quando la fattispecie è realizzata secondo lo schema tipicamente
disciplinato. È certo, quindi, come la tipicità, da
un lato, e l'atipicità, dall'altro, non abbiano alcun
addentellato con la causa contrattuale la quale risulta sempre quella che è inerente le fattispecie tipiche le quali, combinandosi tra loro, realizzano
l'atipicità della fattispecie venuta in esistenza. Ciò
che, almeno di principio, conduce a realizzare un
congegno negoziale veramente atipico, sono i “motivi”, cioè le ragioni specifiche che inducono le parti alla realizzazione di una nuova fattispecie.
Senza andare a scomodare le teorie generali del diritto, è abbastanza intuitiva la differenza tra la
“causa”, quale funzione economico-sociale che un
determinato tipo contrattuale è chiamato a conse-
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guire, ed i “motivi” i quali, quasi del tutto estranei
alla c.d. lex contractus, rappresentano le ragioni
contingenti che hanno spinto le parti versa una
determinata scelta contrattuale piuttosto che verso
altra.
La tipizzazione sociale del contratto
atipico
È però altrettanto vero come si possa parlare di
una tipizzazione sociale del negozio giuridico atipico
quando esso trovi fondamento in una specifica causa, dettata dalla specifica funzione sociale ed economica alla quale lo schema negoziale stesso è
chiamato a rispondere. Nel caso del rent to buy, come si è avuto modo di verificare, l'esigenza che ha
spinto le parti a trovare un congegno contrattuale
atipico, non risulta da contingenze legate agli interessi propri di quelle specifiche parti di quel singolo
contratto, ma da un'esigenza che risulta socialmente diffusa, quale quella di consentire il superamento dell'impasse in cui è caduto il mercato immobiliare, sostanzialmente a causa della mancata presenza, nelle mani della normale utenza, di quella liquidità patrimoniale che consentirebbe l'immediato pagamento dei corrispettivi dovuti per gli acquisti immobiliari e la cui mancanza dipende dal fenomeno, ugualmente socialmente diffuso, rappresentato dal mancato approntamento di quella stessa liquidità, da parte degli istituti di credito
tradizionalmente chiamati al ruolo di enti finanziatori al quale essi più non rispondono.
In conclusione, lo specifico aspetto causale del rent
to buy rende tale schema negoziale una fattispecie
contrattuale socialmente tipica, con la conseguenza
importantissima di poter considerare il fenomeno,
non come una summa di più fattispecie contrattuali
tipiche, tra loro collegate, il che implicherebbe
l'applicazione di una disciplina complessa che segua la disciplina dei singoli tipi contrattuali componenti la fattispecie nella sua complessità, ma come fenomeno negoziale unitario per il quale trova
applicazione la disciplina che le parti abbiano
autonomamente realizzato in base ai propri concreti interessi e alle proprie reali valutazioni.
Il rent to buy, come il leasing, può dirsi dunque un
contratto che, sebbene non trovi una disciplina codicistica espressamente riferibile, e quindi tale da
considerarsi civilisticamente atipico, si veste di
una propria tipizzazione in dipendenza di una causa
sociale che risponde alla tutela di interessi diffusi
all'intera collettività e quindi di una causa socialmente tipica determinata dalla funzione sociale alla quale esso è chiamato a rispondere. Ciò, come
sopra affermato, ha il grandissimo vantaggio di ren-
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dere disapplicata la disciplina che, in maniera cogente, sarebbe, altrimenti, chiamata a regolare la
fattispecie laddove essa fosse costituita, non da un
contratto causalmente unitario, ma da singole fattispecie tipiche da ritenersi riunite unicamente dal
nesso di collegamento che è funzionale alla soddisfazione delle motivazioni che hanno indotto le
parti alla realizzazione di quello specifico schema
negoziale articolato.
Tutto questo premesso, non si può escludere come
taluni profili di criticità, sia di natura sostanziale
che fiscale, nell'applicazione concreta di certe scelte negoziali, possano frapporre seri ostacoli al successo della fattispecie. Rimandando a quanto, sul
punto, è stato ampiamente ribadito, come si è detto all'inizio, dai contributi pubblicati su questa
stessa rivista non più tardi di qualche mese addietro, si potrebbe tuttavia tentare una ricostruzione
sui generis di uno schema negoziale che, soddisfacendo le medesime esigenze a cui viene chiamato
il rent to buy, possa lasciare più ampi margini di
certezza, sia in ordine alla concreta tutela degli interessi delle parti coinvolte, sia in ordine al profilo
fiscale, in tal modo difficilmente sottoponibile a
“vessazioni” tributarie deducibili da una errata interpretazione della fattispecie.
La possibile sperimentazione di uno
schema negoziale di rent to buy sui
generis
Invero, proprio in quanto il contratto di rent to buy
rappresenta una figura negoziale atipica, non si può
dire che ad esso si ricolleghi, sempre e comunque,
un medesimo schema negoziale che lo individui.
Piuttosto, come si è avuto modo di sostenere sopra,
esso trova la sua tipicità nella causa che vi dà luogo, con la conseguenza che la disciplina contrattuale applicabile è unicamente funzionalizzata all'effettivo interesse sociale perseguito da acquirente
e venditore. L'uno indotto all'acquisizione di un
immobile della cui disponibilità al godimento ha
immediata necessità senza, tuttavia, poter adempiere immediatamente all'obbligo di pagamento integrale del prezzo di un'eventuale acquisizione a titolo oneroso; l'altro interessato alla dismissione del
proprio patrimonio immobiliare in quanto indotto
alla realizzazione di capitali liquidi nel più breve
tempo possibile.
Si potrebbe immaginare, tra le altre soluzioni possibili, il perfezionamento di un contratto con il quale il titolare della piena proprietà sul bene immobile, al cui acquisto finale è interessato il potenziale
acquirente, ceda a quest'ultimo il diritto di usufrutto vitalizio per un corrispettivo determinato da
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corrispondersi ratealmente per tot anni. Nell'ambito di tale operazione negoziale si introduce, poi, un
contratto di opzione per l'acquisto del diritto di
nuda proprietà (con previsione di autonomo corrispettivo da pagarsi al momento dell'esercizio dell'opzione stessa) sottoposto a termine iniziale,
coincidente con la scadenza della rateizzazione del
prezzo di acquisto del diritto di usufrutto vitalizio,
con contestuale previsione di apposita condizione
risolutiva della durata dell'usufrutto a vita il quale,
in caso di mancato esercizio dell'opzione suddetta,
vede automaticamente limitata la propria durata
che diventa coincidente con la fine della rateizzazione del corrispettivo impiegato per l'acquisto.
Tale corrispettivo, a tutela dell'interesse del venditore, resta comunque quello originariamente fissato, nonostante l'avvenuta riduzione della durata
dell'usufrutto, e ciò a titolo di compensazione della
mancata realizzazione dell'aspettativa del cedente
all'esercizio del diritto di opzione all'acquisto della
nuda proprietà da parte dell'acquirente dell'originario usufrutto vitalizio.
In tal modo: il potenziale acquirente acquisisce immediatamente il libero godimento dell'immobile
per il quale si troverà a pagare un corrispettivo rateizzato (secondo un meccanismo analogo a quello
della locazione), con il vantaggio, per il venditore,
dell'alleggerimento del peso del pagamento delle
imposte dirette e delle spese di mantenimento e di
manutenzione (ordinaria e straordinaria) che gravano l'immobile, le quali, dal momento dell'acquisizione dell'usufrutto, dovranno essere pagate dall'usufruttuario.
Inoltre, è evidente come, attraverso i normali meccanismi giuridici connessi alla disciplina della risoluzione del contratto per inadempimento, del termine iniziale e della condizione risolutiva, al contrario di ciò che avviene in presenza di un rent to
buy più tradizionale, congegnato per mezzo di un
collegamento tra un contratto di locazione ed un
contratto che impegni il locatario ad un futuro acquisto del bene locatogli, restino impregiudicati i
diritti e le aspettative di venditore ed acquirente
senza che, sugli stessi, abbiano a gravare i rischi
tradizionalmente relativi ai contratti di affitto, all'impossibilità di disporre del diritto da parte del
locatore durante la durata del contratto di affitto,
al fallimento del promittente venditore tra il momento della conclusione di un eventuale contratto
preliminare ed il relativo contratto definitivo, ad
eventuali procedure esecutive singole, a vicende
pregiudizievoli a carico del venditore cui questi
può incorrere fino al trasferimento definitivo della
proprietà, ad eventuali previsioni di penali per il
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recesso, all'applicazione della tutela, a favore del
conduttore, tipicamente prevista per il contratto di
locazione (il tutto con conseguenziali possibili
aperture di procedimenti giudiziali tesi, ad esempio,
all'accertamento di sfratti per morosità, al rilascio
del bene pignorato, a risarcimenti di danno per
eventuali pesi o gravami che abbiano colpito l'immobile durante il corso del contratto di affitto, a
riduzioni richieste rispetto a penali originariamente
previste, etc.) .
D'altro canto, la previsione di un corrispettivo per
l'acquisto del diritto di usufrutto vitalizio che resti
fermo, anche qualora la durata dell'usufrutto venisse drasticamente a ridursi per effetto della condizione risolutiva apposta alla costituzione del diritto
di usufrutto a vita, da un lato, il venditore resta
protetto dal rischio del mancato acquisto della piena proprietà in capo all'attuale usufruttuario e, dall'altro lato, quest'ultimo è maggiormente indotto a
pervenire all'acquisto definitivo della piena proprietà in virtù del fatto di avere già sborsato una
somma ben maggiore rispetto a quella normalmente necessaria per l'acquisizione di un usufrutto a
durata limitata.
Infine, non è aspetto secondario, quello connesso
alla dimostrazione in tal modo data, alla potenziale
banca che dovrebbe finanziare l'acquisto della nuda proprietà in capo al potenziale acquirente della
stessa (l'attuale usufruttuario), della propria capacità di rimborso del credito concessogli, per il semplice fatto che, durante il decorso del termine per
l'esercizio dell'opzione, l'usufruttuario è stato perfettamente in grado di adempiere puntualmente alla rateizzazione per l'acquisto del diritto di usufrutto.
Sotto il profilo fiscale, poi, l'operazione posta in essere non pone problematiche che possano indurre
a tassazioni dubbie e suscettibili di recupero di imposte a carico delle parti. Nessuno può dubitare come all'attuale cessione del diritto di usufrutto vitalizio e alla successiva eventuale cessione della nuda
proprietà, conseguano imposizioni tributarie del
tutto autonome e certe; mentre gli elementi accidentali (termine iniziale e condizione risolutiva)
non paiono possano dare adito a dubbi applicativi
di sorta nel trattamento fiscale della materia. Senza
dire che, la mancanza di canoni da imputarsi, a
conclusione dell'operazione, a parziale o totale pagamento del corrispettivo della vendita, evitano il
ricorrere delle normali criticità a cui, sotto il profilo dell'imposizione indiretta, si esporrebbe altrimenti la fattispecie, soprattutto con riguardo al rischio di una duplicazione d'imposta.
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Uso abitativo
Le locazioni abitative transitorie
di Giuseppe Bordolli - Consulente legale in Genova
La possibilità di concludere locazioni destinate a soddisfare esigenze abitative di breve periodo, locazioni
che si distinguono sia da quelle agli studenti universitari (pure disciplinate dalla medesima legge) sia da
quelle turistiche, che sono regolate dal codice civile, costituisce un’ottima opportunità per locatori ed inquilini che desiderano rapporti di locazione transitori, purché siano stipulati nel rigoroso rispetto di quelle
determinate condizioni fissate dalla legislazione speciale.
Non vi è dubbio che il ricorso a contratti di locazioni per esigenze abitative transitorie continua a costituire lo strumento principale utilizzato dai locatori
per tentare di eludere l'applicazione degli stretti limiti imposti dalla legislazione attuale sulla durata
del rapporto e determinazione del corrispettivo.
Questo fenomeno si era già manifestato sotto la vigenza della legge 27 luglio 1978, n. 392, favorito
anche da un orientamento giurisprudenziale favorevole agli interessi dei proprietari.
Infatti, laddove il locatore, al momento della stipula
del contratto, fosse riuscito ad inserire un riferimento alla transitorietà dell'esigenza abitativa, sarebbe
stato poi difficile, per il conduttore, dare la prova
che in realtà il contratto di locazione era stato stipulato per soddisfare un'esigenza abitativa primaria.
Quindi se il conduttore - a fronte della previsione,
risultante dal contratto, della destinazione dell'immobile al soddisfacimento di esigenze di natura
transitoria - deduceva che il bene era in realtà destinato al soddisfacimento di esigenze abitative primarie, ai fini dell'assoggettabilità del rapporto alla
disciplina vincolistica prevista per il regime ordinario, non bastava l'accertamento della sussistenza
oggettiva delle dedotte esigenze abitative stabili,
occorrendo che fosse dimostrata la consapevolezza
condivisa da parte di entrambi i contraenti della
effettiva destinazione dell'immobile a tale diverso
uso rispetto a quello indicato nel contratto.
Mancando invece il suddetto requisito di consapevolezza, comune ad entrambe le parti, il proposito
unilaterale del conduttore di adibire l'immobile che gli veniva offerto in locazione a titolo transitorio - ad abitazione stabile, configurava una semplice riserva mentale del tutto irrilevante.
(1) S. Paparo, in Le locazioni abitative, Padova, 2002, 125.
(2) G. Gabrielli, in La locazioni di immobili urbani, Padova,
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Il conduttore, quindi, avrebbe dovuto fornire la
prova della simulazione dell'accordo apparente ovvero la prova della conoscenza, in capo al locatore,
dell'inesistenza dell'esigenza transitoria (1).
Per porre rimedio alle questioni generate dalla previgente disciplina delle locazioni transitorie, la regolamentazione delle stesse contenuta all'art. 5,
legge n. 431/1998, mostra chiaramente i segni di
un mutamento di prospettiva.
La disciplina
A differenza della legge n. 392/78 (il cui art. 26 lasciava libere le locazioni per esigenze abitative di
natura transitoria) la legge n. 431/98 ha sottratto
all’autonomia delle parti le locazioni in questione
(che richiedono la forma scritta a pena di nullità),
le quali devono fare riferimento ai criteri generali
e ai tipi di contratto approvati con decreti ministeriali sostitutivi e con gli Accordi Locali stipulati in
esecuzione dei decreti medesimi.
Non sono quindi le parti a decidere se e quando
poter ricorrere alla tipologia del contratto transitorio ma sono i decreti ministeriali emanati ai sensi
della predetta legge a fissare le modalità ed i presupposti, sussistendo i quali è consentito ai contraenti il ricorso al contratto di durata più breve rispetto alla disciplina ordinaria.
Dunque, mentre in generale un soggetto è libero di
scegliere se concludere un contratto libero o un
contratto del canale concertato, la parte (indifferentemente se il locatore o il conduttore) che necessiti di concludere un contratto di locazione
transitorio, può unicamente avvalersi del canale
concertato (2).
2005, 512.
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Opinioni
Locazioni
In altre parole, l'ammissibilità della stipulazione di
un contratto di locazione ad uso transitorio di durata inferiore a quella minima stabilita in via ordinaria non è incondizionata ma deve essere in linea
con il disposto dell'art. 5 della legge stessa, il quale
demanda alla normazione secondaria di cui al comma 2 dell'art. 4 della stessa legge la definizione delle condizioni e delle modalità necessarie per la
conclusione di validi ed efficaci contratti locativi
di natura transitoria.
Così, il D.M. 30 dicembre 2002 all’art. 2 stabilisce
che i contratti di locazione di natura transitoria sono stipulati per soddisfare particolari esigenze dei
proprietari e/o dei conduttori - con particolare riferimento a quelle derivanti da mobilità lavorativa da individuarsi nella contrattazione territoriale tra
le organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e
dei conduttori maggiormente rappresentative.
Inoltre stabilisce che i contratti di natura transitoria devono prevedere una specifica clausola che individui l'esigenza transitoria del locatore e/o del
conduttore - da provare quest'ultima con apposita
documentazione da allegare al contratto - i quali
dovranno confermare il permanere della stessa tramite lettera raccomandata da inviarsi prima della
scadenza del termine stabilito nel contratto; stabilisce inoltre che i contratti di cui al precedente decreto sono ricondotti alla durata prevista dall'art. 2
comma 1 della legge n. 431/1998, in caso di inadempimento delle modalità di conferma delle esigenze transitorie stabilite nei tipi di contratto di
cui al comma 6 ovvero nel caso le esigenze di transitorietà vengano meno.
Il sopra citato ultimo D.M. 10 marzo 2006 all’art.
4 conferma che gli accordi locali stipulati tra le
rappresentanze delle parti (proprietari e inquilini)
devono determinare quali sono le fattispecie che
consentono la stipula di locazioni transitorie.
Viene altresì confermato che in ogni Comune, dotato o no di accordo territoriale, è comunque per
le parti possibile, ai sensi del D.M. 10 marzo 2006,
stipulare contratti transitori per la suindicata durata di minimo 1 mese e massimo 18 mesi per soddisfare qualsiasi esigenza specifica, espressamente indicata in contratto, del locatore o di un suo familiare ovvero del conduttore o di un suo familiare,
collegata ad un evento certo a data prefissata.
Alla luce di quanto sopra si può concludere che ai
fini di un valido ed efficace contratto locativo di natura transitoria a norma del combinato disposto di
cui all'art. 5 legge n. 431/98 e del D.M. 30 dicembre
(3) Cass. 20 febbraio 2014, n.4075, in Giust. civ. Mass, 2014.
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2002, nonché del D.M. 10 marzo 2006, occorre la
sussistenza delle seguenti condizioni: 1) la previsione
di una specifica clausola contrattuale che individui
l'esigenza di transitorietà del locatore e/o del conduttore; 2) l'allegazione, al contratto, di un'apposita documentazione atta a provare la suddetta esigenza; 3)
la conferma, da parte dei contraenti, del permanere
di essa, tramite lettera raccomandata da inviarsi prima della scadenza del termine.
In definitiva, o ricorrono tali condizioni e si soddisfano le dette modalità, volte a giustificare obbiettivamente la deroga alla disciplina ordinaria oppure, quali che siano le cause del mancato soddisfacimento dei presupposti contemplati, il contratto locativo non può avere una durata inferiore a quella
ordinaria con l'ulteriore conseguenza che, in difetto di prova dei requisiti richiesti, va ricondotto
nell'alveo dei contratti di cui all'art. 2 commi 2 e
3 legge n.431/98 (3).
Tuttavia merita di essere precisato che, indipendentemente dalle esigenze individuate negli accordi locali, le parti possono stipulare un contratto di
locazione transitoria per soddisfare qualsiasi esigenza specifica, espressamente indicata in contratto,
del locatore o di un suo familiare ovvero del conduttore o di un suo familiare, collegata ad un evento certo a data prefissata.
Ne consegue che la corrispondenza tra quanto stabilito in sede locale e quanto pattuito a livello di
contratto individuale fra le parti ha il limitato effetto di esonerare il giudice dalla verifica dei presupposti per la deroga della durata minima legale.
Pertanto, per le ipotesi in cui venga concluso un
contratto transitorio in forza di un'esigenza non
contemplata nell'accordo locale, il giudice dovrà
ogni volta valutarne l'effettività, tanto in base ai
principi generali dell'ordinamento, quanto in base
alle linee generali della contrattazione territoriale
emergenti a livello nazionale (4).
In ogni caso sono escluse dalla disciplina in questione le locazioni transitorie per finalità turistiche
(soggette alle norme del codice civile) o quelle per
esigenze di studio degli studenti universitari, per i
quali la legge n. 431/98 prevede un’apposita disciplina distinta e diversa da quella dettata per le esigenze transitorie.
Infatti il comma 2 dell'art. 5 della stessa legge afferma che gli studenti universitari, in alternativa a
quanto previsto al comma 1, possono stipulare
contratti di locazione transitori sulla base di quan(4) G. Cresci, Le locazioni abitative, Padova, 2002, 147.
391
Opinioni
Locazioni
to previsto nei contratti tipo approvati ai sensi dell'art. 4-bis.
Ciò significa, quindi, che non solo gli studenti sono ammessi stipulare i contratti espressamente previsti per realizzare le loro esigenze transitorie, ma
che possono continuare a stipulare contratti transitori “comuni”, secondo le modalità sopra analizzate
(ferma la possibilità sottoscrivere contratti c.d. liberi o a canone c.d. concertato).
La strada indicata dal comma 2 dell'art. 5 costituisce, dunque, non la modalità esclusiva che lo studente universitario - che necessiti di un alloggio
per un periodo di tempo limitato - deve obbligatoriamente scegliere, bensì uno strumento alternativo all'ipotesi normale di locazione transitoria.
Il concetto di transitorietà e le esigenze
delle parti
I contratti di locazione transitoria in questione devono prevedere una specifica clausola che individui l’esigenza della transitorietà del locatore e/o
del conduttore - da provare quest’ultima con apposita documentazione da allegare al contratto.
Per la valida stipula di un contratto transitorio,
non è dunque sufficiente la proclamazione della
natura transitoria del contratto, ma viene introdotto un requisito di letteralità, da cui possa risultare
giustificata la deroga ai limiti di durata (5).
Deve escludersi, quindi, che il contratto di locazione abbia natura transitoria nel caso in cui manchi
ogni riferimento alle esigenze di tale natura.
Quale ulteriore elemento all'esclusione della transitorietà vale anche la considerazione che l'immobile è stato concesso in locazione senza il trasferimento delle utenze che sono state attivate dallo
stesso conduttore (6).
Inoltre, al fine di evitare possibili elusioni ed accordi simulatori a danno del conduttore (come nella vigenza del precedente disciplina), l'esigenza
transitoria dello stesso deve essere appositamente
provata con documentazione da allegarsi al contratto (D.M. 30 dicembre 2002, All. C, art. 3) (7).
Non può quindi considerarsi sufficiente la generica
e non documentata menzione di una mera probabilità del trasferimento del conduttore in altra sede
di lavoro (8).
(5) G. Gabrielli, cit., 2005, 512.
(6) Cass. 20 febbraio 2013, n. 4242, in Giust. civ. Mass.,
2013.
(7) Tale documento, che dovrà pervenire da soggetti estranei formalmente o sostanzialmente alle parti contraenti (potrà
ad esempio allegarsi un contratto di lavoro a tempo determinato), costituirà elemento essenziale della fattispecie deroga-
392
Non basta quindi che l’esigenza sia specificata nel
corpo della scrittura contrattuale: è richiesto, nell’ipotesi che questa concerna il conduttore, che ne
sia dato riscontro documentale al momento della
conclusione del contratto.
La norma di fonte secondaria impone così ben due
oneri: di specificazione e di documentazione (9).
Del resto la specificazione e la documentazione
della necessità abitativa transitoria valgono ad attribuire concretezza e credibilità all’esigenza prospettata dal conduttore, radicando nel locatore il
ragionevole convincimento che questa sia obbiettivamente sussistente.
In mancanza delle condizioni di cui sopra, opera, a
beneficio del conduttore che adduca la conoscenza,
in capo alla controparte, dell’inesistenza delle esigenze di natura transitoria, una vera e propria relevatio ab onere probandi: così che in questo caso sarà
il locatore stesso a dover provare che il contratto è
stato concluso nella condivisa consapevolezza della
sussistenza di una ben precisa necessità transitoria
del locatario (10).
In ogni caso il locatore ha l’onere di confermare il
verificarsi di quanto ha giustificato la stipula del contratto di natura transitoria a mezzo di lettera raccomandata da inviarsi al conduttore entro un termine
da determinarsi, prima della scadenza del contratto.
In caso di mancato invio della lettera appena citata oppure del venire meno delle condizioni che
hanno giustificato la transitorietà, il contratto si
intende automaticamente ricondotto alla durata
prevista dall’art. 2 comma 1 della legge n.
431/1998 (ossia quattro anni, rinnovati obbligatoriamente di altri quattro alla prima scadenza).
Si noti che la riconduzione alla durata prevista per
i contratti disciplinati dall'art. 2, comma 1, è prevista non solo per le ipotesi in cui non venga confermata l'esigenza transitoria, ma pure quando siano venute meno le cause della transitorietà.
Questa ipotesi deve, peraltro, intendersi riferita alle sole esigenze del locatore, e non alle esigenze
del conduttore, che si trasformano, nel corso del
rapporto, in necessità di una locazione stabile.
Tale ricostruzione troverebbe conferma nel testo
stesso del contratto tipo allegato al decreto sopra
citato, dove è menzionata la riconduzione alla dutoria: così N. Scripelliti, I contratti di locazione transitori, in Arch.
loc, 1999, 205.
(8) Cass. 20 febbraio 2014, n.4075, cit.
(9) M. Serpolla, Le locazioni ad uso abitativo, Milano, 2008,
173.
(10) Trib. Roma, 23 aprile 2003, in Rass. loc., 2004, 181.
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Locazioni
rata di cui all'art. 2, comma 1 (come per il caso di
mancata conferma) solo per i contratti conclusi
per esigenze transitorie del locatore.
Infine merita di essere ricordato che il contratto tipo prevede un’ulteriore eventuale conseguenza (tanto per le ipotesi di mancata conferma, tanto nel caso del venir meno delle cause della transitorietà).
Infatti, si dice che in ogni caso, ove il locatore abbia
riacquistato la disponibilità dell'alloggio alla scadenza dichiarando di volerlo adibire ad un uso determinato e non lo adibisca, nel termine di sei mesi dalla
data in cui ha riacquistato la detta disponibilità, a
tale uso, il conduttore ha diritto al ripristino del rapporto di locazione alle condizioni di cui all'art. 2,
comma 1, legge n. 431/1998 o, in alternativa, ad un
risarcimento in misura pari a trentasei mensilità dell'ultimo canone di locazione corrisposto.
Secondo l'art. 2, comma 1, D.M. 30 dicembre
2002, i contratti di locazione transitoria hanno durata non inferiore ad un mese e non superiore a diciotto mesi.
Da un lato, pertanto, il legislatore ha fissato un termine minimo di durata di un mese, ritenendo che
non possano sussistere esigenze abitative transitorie
di durata inframensile, dall'altro ha individuato in diciotto mesi il termine massimo di durata delle stesse.
Non si può negare però che anche necessità temporanee di rilevante valenza (quali, ad es., le necessità di lavoro ovvero di studio non rientranti
nell’ambito delle esigenze di studenti universitari)
siano suscettibili di perdurare nel tempo.
Detto aspetto, tuttavia, non è stato espressamente
disciplinato dal legislatore, sicché una parte della
dottrina sostiene - nel silenzio della legge - che si applichi, anche alle locazioni transitorie, l'istituto della
rinnovazione tacita di cui all'art. 1597 cod. civ., sostenendo che ove il locatore non intimi disdetta, ed
il conduttore sia lasciato o rimanga nella detenzione,
il contratto si rinnovi tacitamente (per lo stesso periodo originariamente concordato), ritenendo che in
tal caso l'esigenza transitoria perduri (11).
La possibilità di tacita rinnovazione del contratto
in esame sembra trovare conferma in un argomento di carattere testuale contenuto nei decreti ministeriali succedutisi nel tempo (D.M. 5 marzo 1999,
D. M. 30 dicembre 2002 e D.M. 10 marzo 2006) e
negli allegati tipi di contratto.
In particolare, dal combinato disposto delle disposizioni dell’art. 2, commi 2, 3 e 6, lett. b), c), d) ed
e), del D.M. 5 marzo 1999, sostanzialmente riprodotte nell’art. 2, commi 4 e 5, del D.M. 30 dicembre 2002, emerge l’esistenza dell’istituto della riconduzione della durata del contratto transitorio a
quella prevista dall’art. 2, comma 1, della legge n.
431/1998 (e, cioè, alla durata di quattro anni +
quattro stabilita per le locazioni c.d. libere), e ciò
nell’ipotesi di mancata conferma, da parte del locatore, del verificarsi dell’evento che ha giustificato
la stipulazione del contratto ed, altresì, nel caso in
cui le cause di transitorietà (concernenti il locatore
o il conduttore) poste a fondamento della convenzione locatizia siano venute meno (art. 2, comma
2, D.M. 5 marzo 1999 e punto 2, del contratto tipo
Allegato B; art. 2, comma 5, D.M. 30 dicembre
2002 e art. 2, comma 2, del tipo di contratto Allegato C).
Quanto alla determinazione del canone, la disciplina è contenuta nell'art. 2, comma 2, D.M. 30 dicembre 2002, il quale prevede che i canoni di locazione dei contratti di natura transitoria relativi ad
immobili ricadenti nelle aree metropolitane di Roma, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze,
Napoli, Torino, Bari, Palermo e Catania, nei comuni con esse confinanti e negli altri comuni capoluogo di provincia, sono definiti dalle parti all'interno dei valori minimi e massimi stabiliti per
le fasce di oscillazione per le aree omogenee così
come fissati per i contratti del canale concertato.
Gli Accordi territoriali relativi a questo tipo di
contratti possono prevedere variazioni, fino ad un
massimo del 20%, dei valori minimi e massimi anzidetti per tenere conto, anche per specifiche zone,
di particolari esigenze locali.
Nel caso in cui non sia stato stipulato alcun tipo di
accordo territoriale, si deve fare riferimento a pregressi Accordi oppure all’Accordo stipulato, secondo il D.M. 30 dicembre 2002, nel comune demograficamente omogeneo di minore distanza territoriale anche situato in altra Regione, verificando se
sia stato stabilito in tale accordo anche l’aumento
sopra citato delle fasce di oscillazione.
In ogni caso, però, fuori delle aree indicate dalla
legge, il canone è libero.
(11) A. Mazzeo, I contratti transitori: ammissibilità della tacita
rinnovazione, in Arch. loc., 2008, 11. Nello stesso senso: F.
Lazzaro, P. Di Marzio, Le locazioni per uso abitativo, Milano,
2007, 268.
Durata e canone
Immobili & proprietà 6/2014
393
Giurisprudenza
Sintesi
La sentenza del mese
a cura di Maria Grazia Monegat - Avvocato in Milano
L’acquirente, salvo patto contrario, è tenuto a sostenere le
spese del contratto, ma non anche quelle per il contratto.
La vicenda portata al vaglio della S.C. trae origine dalla
pretesa di un commercialista, di ottenere dall’acquirente di
un immobile il pagamento delle proprie competenze professionali per la redazione di un contratto preliminare di
compravendita, pretesa fondata sulla clausola contenuta
nel medesimo contratto che sostanzialmente richiamava il
disposto di cui all’art. 1475 cod. civ. (1). Il professionista otteneva un decreto ingiuntivo che veniva opposto dall’acquirente, ma il giudice di prime cure rigettava l’opposizione
e confermava il decreto ingiuntivo.
L’acquirente proponeva appello che la corte territoriale accoglieva revocando il decreto ingiuntivo e statuendo che
nulla era dovuto dall’acquirente al professionista posto che
nessun incarico era stato al medesimo conferito dall’acquirente e, comunque, la clausola inserita nel preliminare andava interpretata nel senso di ritenere a carico dell’acquirente le sole spese derivanti dal contratto e non anche le
spese sostenute per l’elaborazione del contratto stesso.
La Corte d’appello, in sostanza, in difetto di prova del conferimento dell’incarico professionale da parte dell’acquirente al commercialista di redigere il contratto preliminare di
compravendita, escludeva che tale spesa potesse essere ricompresa tra quelle che l’art. 1475 cod. civ. pone a carico
del compratore se non è diversamente pattuito.
La decisione della Corte di merito è stata impugnata dal
commercialista che ne ha contestato l’erroneità e censurato la correttezza dedotte sulla base di tre motivi, articolate
in tre quesiti di diritto, ai quali ha resistito l’acquirente.
In primo luogo il professionista lamenta la violazione dell’art. 1362 cod. civ. in relazione alla clausola contrattuale
prevedente l’onere di ogni spesa a carico dell’acquirente.
Sostanzialmente il commercialista lamentava che la corte
territoriale non avesse tenuto conto nell’interpretazione della volontà delle parti, che con l’espressione “tutte le spese,
imposte e diritti che derivano dal presente atto”, le medesime avevano inteso che a carico dell’acquirente fosse compreso anche il compenso del professionista che aveva curato la predisposizione dell’atto stesso, con ciò violando il
disposto normativo che impone di interpretare l’intenzione
delle parti secondo il senso letterale delle parole, secondo
il rapporto logico di tutte le clausole, la buona fede e le pratiche generali interpretative.
Sul punto la S.C. ribadisce il proprio orientamento secondo
cui la valutazione ermeneutica delle clausole contrattuali
spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata.
Osserva poi che, nella fattispecie, la Corte territoriale escludendo che le spese per la redazione preventiva del testo
del contratto, redatto su incarico del promittente venditore,
fossero da porre a carico dell’acquirente, aveva esaurientemente motivato la propria decisione evidenziando che non
vi era nesso di causalità tra l’incarico di redigere il preliminare, per altro conferito al professionista dal promittente la
vendita, e le spese derivanti dal contratto di compravendita.
L’avvalersi dell’opera professionale per una miglior stesura
delle clausole contrattuali non può costituire fonte di spesa
derivante dalla stessa convenzione perché tale opera precede la conclusione del contratto e, nel caso di specie era
stata pacificamente commissionata dal promittente venditore.
Non si era dunque in presenza né di una spesa ex art. 1475
cod. civ., né di un’obbligazione sorta dal rapporto di mandato professionale e, dunque, nessun onere poteva essere
posto a carico dell’acquirente.
È per altro pacificamente ritenuto che la citata norma nello
stabilire che le spese del contratto di compravendita e le altre accessorie sono a carico del compratore se non è stato
diversamente pattuito, detta una disciplina che è al tempo
stesso suppletiva, perché la sua operatività è subordinata
alla mancanza di esplicita diversa pattuizione, e in bianco,
poiché la dizione “spese accessorie” può estendersi ad
una pluralità di contenuti determinati prima dai contraenti
in sede di conclusione del contratto e, poi, dall'interprete
che, nella fase contenziosa, è il giudice di merito (2).
Nella vicenda esaminata, essendo pacifico che l’incarico al
professionista era stato affidato dal promittente venditore,
correttamente la Corte di merito aveva escluso che l’onere
per la sua prestazione fosse da porsi a carico dell’acquirente in conseguenza della clausola contenuta nel preliminare.
Le spese accessorie di cui all’art. 1475 cod. civ. sono solo
quelle necessarie alla conclusione del contratto e non possono essere considerate tali quelle relative ad attività che
precedono la conclusione del contratto, occorre che siano,
perciò, con questo in stretto rapporto di causalità, efficienza e strumentalità, con la conseguenza che vanno escluse
(1) Il tenore letterale della clausola è il seguente: “tutte le
spese, imposte e diritti che derivano dal presente atto vengono
sopportate dalla parte promittente acquirente”
(2) Cass.16 gennaio 2007, n. 843.
COMPRAVENDITA
SPESE ACCESSORIE DELLA COMPRAVENDITA A CARICO
DEL COMPRATORE E INCARICO PROFESSIONALE
Corte di Cassazione, sez. II, 16 aprile 2014, n. 8886
Vendita - Spese - Della vendita - Spese accessorie - A carico del compratore - Art. 1475 cod. civ. - Natura di norma suppletiva e di norma in bianco - Configurabilità - Attività del professionista prodromica alla vendita - Esclusione
Per spese accessorie della compravendita devono intendersi solo quelle necessarie alla conclusione del contratto e non anche quelle relative ad attività prodromiche che non hanno alcun rapporto di strumentalità e
causalità per la conclusione del contratto stesso, come
quelle inerenti alla predisposizione da parte di un terzo
del preventivo testo del relativo contratto preliminare.
394
Immobili & proprietà 6/2014
Giurisprudenza
Sintesi
soltanto quelle spese per cui risulti mancante un rapporto
causale - anche sotto il profilo della inutilità evidente e della esorbitanza delle stesse - ovvero l'eventuale contrario accordo delle parti.
Così è stato affermato che costituiscono “spese” della
compravendita, a carico anche del compratore, ai sensi
dell'art. 1475 cit. - in quanto strumentalmente compiute
per rendere possibile il negozio - gli onorari spettanti ad un
professionista per la redazione di una relazione tecnica per
il frazionamento e di una planimetria che, costituenti parte
integrante dell'atto pubblico di vendita di un immobile, siano state effettuate su incarico del solo venditore (3).
Nel caso esaminato, invece, il professionista aveva svolto
un’attività prodromica al contratto, che trovava la sua causa nell’incarico ricevuto dal promittente la vendita. Di conseguenza, obbligato al pagamento dell'onorario per l'opera
professionale svolta è il committente, anche se lo stesso
può non necessariamente essere anche il beneficiario della
prestazione, giacché l'incarico ben può esser conferito da
un terzo o soltanto da alcuni dei soggetti nel cui interesse
la prestazione è svolta (4).
È pacifico, infatti, che cliente del professionista non è necessariamente il soggetto nel cui interesse viene eseguita
la prestazione d'opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito l'incarico al professioni-
(3) Cass. 13 agosto 1990, n. 8237.
(4) Cass. 29 settembre 2004, n. 19596.
Immobili & proprietà 6/2014
sta ed è, conseguentemente, tenuto al pagamento del corrispettivo (5).
In conclusione, la S.C. ha respinto il ricorso del commercialista e lo ha condannato alle spese del giudizio.
La compravendita immobiliare si perfeziona al termine di
un iter caratterizzato da una fase precontrattuale durante la
quale le parti, acquirente e venditore, pongono in essere diversi atti, per l’appunto preparatori alla conclusione del
contratto, atti prodromici e propedeutici alla stipulazione
del contratto definitivo di compravendita, ciascuno dei quali produce effetti giuridici. Anche se tutti gli atti negoziali
sono coordinati e finalizzati al conseguimento dello stesso
obbiettivo, la stipulazione del contratto definitivo di compravendita, ciascuno di essi è retto da una diversa causa
giuridica e fa sorgere obbligazioni in capo alle parti fondate
su di essa.
Con la pronuncia in commento, la S.C. ha chiarito che le
attività di consulenza e assistenza svolte dal professionista
nella fase che precede la stipulazione del contratto definitivo, trovano la loro ragion d’essere e il fondamento giuridico in una causa, appunto il mandato professionale, diversa
rispetto a quella “tipica” della compravendita e, di conseguenza, il relativo onere non può essere compreso tra le
spese a carico dell’acquirente di cui all’art. 1475 cod. civ.
(5) Cass. 2 giugno 2000, n. 7309.
395
Giurisprudenza
Sintesi
In primo piano
a cura di Roberto Triola - Consigliere di Cassazione
COMPRAVENDITA
PRELIMINARE
Corte di Cassazione, sez. II, 7 aprile 2014, n. 8081 Pres. Piccialli - Rel. Falaschi
Irregolarità urbanistiche - Esecuzione specifica - Limiti
In tema di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex art.
2932 cod. civ., non solo allorché l'immobile sia stato
costruito senza licenza o concessione edilizia (e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata
della prova dell'avvenuto versamento delle prime due
rate dell'oblazione), ma anche quando l'immobile sia
caratterizzato da totale difformità dalla concessione (e
manchi la sanatoria). Ove, invece, l'immobile - munito
di regolare concessione e di permesso di abitabilità,
non annullati né revocati - abbia un vizio di regolarità
urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale
difformità rispetto alla concessione non sussiste alcuna preclusione all'emanazione della sentenza costitutiva, perché il corrispondente negozio di trasferimento
non sarebbe nullo, ed è pertanto illegittimo il rifiuto
del promittente venditore di dare corso alla stipulazione del definitivo, sollecitata dalla promissaria acquirente.
L'amministratore del condominio risponde quale mandatario dell'erogazione della spesa relativa all'esercizio
di servizi comuni, indipendentemente dal fatto che questi siano prodotti da impianti a loro volta comuni ad altri condomini, e dalla circostanza che per la loro gestione non sia stato nominato un amministratore della comunione. Pertanto, ai sensi dell'art. 1717 cod. civ., comma 1, l'amministratore che nell'esecuzione di tale attività di mandato sostituisca altri a se stesso senza esservi
autorizzato in forza di un'apposita delibera dell'assemblea condominiale, o senza che ciò sia necessitato dalla
natura dell'incarico, risponde dell'operato della persona
sostituita, a nulla rilevando che la sostituzione sia conforme a precedenti prassi note ai condomini, trattandosi di circostanza che di per se non vale ad esprimere la
volontà del condominio.
Il caso
L’amministratore aveva versato l’importo delle spese di riscaldamento all’amministratore di altro condominio con il
quale la centrale termica era comune, che non aveva provveduto al pagamento al fornitore del carburante, il quale
aveva agito nei confronti dei condomini, ottenendo la condanna degli stessi, per cui vi era stata azione di rivalsa nei
confronti dell’amministratore. I giudici di merito avevano rigettato la domanda.
La soluzione della Corte di Cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. ha accolto il ricorso, affermando un principio in relazione al quale non si rinvengono precedenti in termini.
Il caso
I giudici di merito avevano ritenuto di non potere emettere
la sentenza ex art. 2932 cod. civ., in relazione ad un contratto preliminare avente ad oggetto una costruzione iniziata prima del 1° settembre 1967 e sulla quale era stato successivamente operato un intervento edilizio (nuova scala
esterna), non costituente variazione essenziale, né ampliamento della volumetria.
La soluzione della Corte di Cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. ha accolto il ricorso, ribadendo sostanzialmente il
principio espresso da Cass. 18 settembre 2009, n. 20258.
CONDOMINIO
AMMINISTRATORE
Corte di Cassazione, sez. II, 9 aprile 2014, n. 8339 Pres. Triola - Rel. Manna
Sostituto - Mancata autorizzazione dell’assemblea - Conseguenze
396
DIRITTI REALI
SERVITÙ
Corte di Cassazione, sez. II, 3 aprile 2014, n. 7803 Pres. Triola - Rel. Nuzzo
Mutamento di destinazione del fondo dominante - Irrilevanza - Condizioni
Il mutamento di destinazione del fondo dominante o le
innovazioni ad esso apportate assumono rilevanza solo
ove si riflettano, alterandolo, sul contenuto essenziale
della servitù, come determinato dal titolo e, cioè, sulla
natura ed estensione della utilitas e sulle esigenze che,
secondo il titolo stesso, è destinata a soddisfare, oppure nell'ipotesi in cui incidano sulle modalità concrete di
esercizio della servitù.
Il caso
Il proprietario del fondo servente chiedeva l'accertamento
dell'aggravamento della servitù carraia, per effetto della costruzione, sul fondo dominante, di un silos interrato per
consentirvi l'accesso di autovetture. I giudici di merito avevano rigettato la domanda.
Immobili & proprietà 6/2014
Giurisprudenza
Sintesi
La soluzione della Corte di Cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
ad litem, la quale può esplicare solo effetti processuali
e non sostanziali.
La S.C. ha rigettato il ricorso osservando che i giudici di
merito avevano motivatamente escluso che il fondo servente avesse subito un pregiudizio effettivo in quanto l'autorimessa realizzata per soli 5/7 posti macchina sul fondo
dominante non era tale da configurare un aggravamento
della servitù carraia a carico della striscia di terreno del
condominio, considerata l'estensione delle modalità di
esercizio della servitù (“nel più ampio dei modi”). Inoltre, i
bisogni del fondo dominante, in difetto di particolari restrizioni specificate nel titolo costitutivo, vanno valutati secondo normali criteri di prevedibilità, sicché correttamente i
giudici di merito avevano escluso che un più intenso transito di veicoli costituisse, di per se, un aggravamento della
servitù per il solo fatto che i veicoli, dopo il transito sul terreno condominiale, si fermassero nel fondo dominante. In
precedenza Cass. 6 gennaio 1979, n. 43, ha affermato che
per la determinazione dell’estensione del contenuto di una
servitù di passaggio, non specificata nel titolo costitutivo
convenzionale della servitù stessa, si deve avere riguardo
alle necessità tenute presenti al tempo della sua costituzione e non a quelle sopravvenute, per cui era esatta la decisione del giudice del merito che aveva affermato l’esistenza di un notevole mutamento nell’esercizio della servitù a
seguito del cambiamento della destinazione economica del
fondo dominante, da piccolo agrumeto ad autorimessa
pubblica.
Il caso
LOCAZIONI
USO NON ABITATIVO
Corte di Cassazione, sez. III, 9 aprile 2014, n. 8263 Pres. Massera - Rel. Amendola
Prelazione - Riscatto - Esercizio - Atto stragiudiziale - Sottoscrizione in base a procura ad litem - Inidoneità
È inefficace l’esercizio del riscatto ai sensi dell’art. 39
legge 27 luglio 1978, n. 392, mediante atto stragiudiziale notificato a mezzo di ufficiale giudiziario sottoscritto
dall’avvocato del titolare del diritto di prelazione in forza non di una procura ad negotia, bensì di una procura
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I giudici di merito avevano ritenuto inefficace il riscatto.
La soluzione della Corte di Cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio affermato da Cass. 27 settembre 2006, n. 20948.
POSSESSO
SPOGLIO
Corte di Cassazione, sez. II, 2 aprile 2014, n. 7741Pres. Oddo - Rel. Migliucci
Risarcimento del danno - Spese per il ripristino del bene Inclusione
Tenuto conto che la reintegrazione prevista dall'art.
1168 cod. civ. ha la finalità di consentire la disponibilità
del bene nelle medesime condizioni in cui era esercitato
il possesso prima dello spoglio, il risarcimento del danno subito per effetto della privazione del possesso non
può limitarsi ai pregiudizi derivanti dallo spoglio, dovendo essere considerata anche la lesione patrimoniale
consistita nei costi sopportati per ripristinare il bene
che, per effetto degli interventi compiuti nel frattempo
dallo spogliatore, sia in condizioni tali da non consentire di godere del possesso secondo le modalità esercitate prima dello spoglio.
Il caso
I giudici di merito avevano rigettato la domanda di risarcimento dei danni
La soluzione della Corte di Cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. ha accolto il ricorso, affermando che nella specie il
danno andava verificato tenendo conto che lo spoglio aveva avuto a oggetto un complesso alberghiero ovvero un'azienda, che è costituita dall'insieme dei beni organizzati ai
fini dell'esercizio dell’impresa.
397
Giurisprudenza
Sintesi
Rassegna di merito
a cura di Alessandro Re - Avvocato in Torino, Luana Tagliolini - Pubblicista
APPALTO
VIZI
Tribunale di Torino, 24 marzo 2014
Responsabilità ex art. 1669 cod. civ. - Natura aquiliana
dell’azione - Colpa professionale
In ragione della natura aquiliana dell’azione ex art. 1669
cod. civ., possono incorrere, a titolo di concorso con
l'appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato
da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che,
prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione
del bene, abbiano contribuito, per colpa professionale
(segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori),
alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi.
L’azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 1669
cod. civ. può essere proposta nei confronti del venditore dell’immobile, solo se questi abbia rivestito la qualità
di costruttore o comunque la posizione assunta dal
venditore nei confronti degli acquirenti abbia evidenziato l’assunzione da parte del soggetto di una diretta responsabilità nella costruzione dell’opera.
Il caso
Il Signor C. N. proponeva ricorso ex art. 702-bis cod. proc.
civ. contro la B.R.E. s.r.l., società venditrice, la C. s.r.l. e la
I. s.r.l., in qualità di imprese appaltatrici, e l’ing. B. in qualità di progettista e direttore dei lavori, per ottenere il risarcimento dei danni o, in difetto, l'eliminazione dei vizi riscontrati nell'immobile oggetto di compravendita a rogito notaio
A. del 18 settembre 2008 ed altresì l’eliminazione dei vizi
nelle parti comuni del complesso residenziale dove è sita l’
unità immobiliare.
La B.R.E. s.r.l., la C. s.r.l. e la I. s.r.l. si costituivano ed eccepivano la decadenza del ricorrente da qualsiasi azione di
garanzia nonché la prescrizione di qualsiasi preteso diritto.
Le stesse chiedevano, inoltre, la condanna di controparte
ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ. per lite temeraria.
L’Ing. B., costituendosi in giudizio, sosteneva di essere stato solo il progettista esecutivo delle singole villette e di aver
avuto la relativa direzione dei lavori, e non era, pertanto, il
responsabile del progetto dell’intero Piano Edilizio Convenzionato.
In ogni caso anch’egli eccepiva la decadenza del ricorrente
da qualsiasi azione di garanzia.
Il Giudice disponeva il mutamento del rito ai sensi dell’art.
702-ter cod. proc. civ. e la causa veniva istruita a mezzo testi ed acquisizione dell’ATP già svolto tra le parti.
La decisione del Tribunale ed i collegamenti
giurisprudenziali
Il ricorrente contestava agli appaltatori i vizi dell’opera ai
sensi dell’art. 1669 cod. civ.
Il Giudice osservava, in primo luogo, come la responsabilità
dell'appaltatore per gravi difetti dell'opera, sancita dall'art.
398
1669 cod. civ., nonostante la collocazione tra le norme disciplinanti il contratto di appalto, sia diretta alla tutela dell’esigenza di carattere generale della conservazione e funzionalità degli edifici e degli altri immobili destinati, per loro
natura, a lunga durata.
Così come sostiene la Suprema Corte, “l'azione di responsabilità prevista da detta norma, pertanto, ha natura extracontrattuale” (Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2012, n.
21089).
In ragione della natura aquiliana dell’azione, il Giudice rilevava che possono incorrere, nella responsabilità a titolo di
concorso con l'appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti
che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione del bene, abbiano contribuito, per colpa professionale
(segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla
determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi in questione.
Alla luce di ciò il Giudice osservava, quindi, che le posizioni
delle imprese appaltatrici e del direttore dei lavori potevano
essere esaminate congiuntamente.
I convenuti eccepivano la decadenza dell’attore dal diritto
di garanzia per i vizi della cosa venduta ai sensi dell'art.
1669 cod. civ., poiché sostenevano che quest’ultimo aveva
abitato l'immobile oggetto di causa sin dall’aprile del 2006,
ed era a conoscenza di eventuali vizi del bene e che, in
ogni caso, lo stesso aveva acquistato l’immobile in data 18
settembre 2008 e non aveva provveduto alla contestazione
dei vizi entro l’anno.
Il Giudice rilevava che la denuncia dei vizi è atto recettizio
per cui, ai fini del rispetto del termine di decadenza, rileva
non la data di deposito del ricorso, ma la data di notifica alla controparte e che incombe, quindi, sull’attore l’onere di
provare la tempestività della denuncia.
In proposito la giurisprudenza ha messo in luce il principio
secondo cui “in tema di appalto, poiché la denuncia dei
gravi difetti o del pericolo di rovina dell'opera costituisce, ai
sensi dell'art. 1669 cod. civ., una condizione dell'azione di
responsabilità esercitabile nei confronti dell'appaltatore o
del costruttore-venditore, quando il convenuto eccepisca la
decadenza dall'azione per intempestività della denuncia,
costituisce onere dell'attore fornire la prova di avere operato la denuncia entro l'anno dalla scoperta” (v. Cass. civ.,
sez. II, 16 giugno 2000, n. 8187).
Dalle risultanze istruttorie si evinceva che l’attore era entrato nel possesso dell’immobile ben prima dell’acquisto dello
stesso.
Il Giudice osservava, quindi, che i vizi, già esistenti al momento dell’acquisto dell’immobile, ben dovevano essere
noti all’acquirente al momento del rogito, per essere egli
già nel possesso o detenzione del bene.
Pertanto, per computare il termine di decadenza del diritto
di contestare la rovina o il difetto dell’immobile all’appaltatore, il Giudice sosteneva la necessità di prendere in considerazione il momento in cui il N. - che già aveva a disposizione il bene – era divenuto formalmente proprietario dell’immobile.
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Giurisprudenza
Sintesi
In base ai documenti prodotti risultava quindi che da taIe
data (dell’atto notarile), era trascorso più di un anno.
Il Giudice concludeva, pertanto, che il N. era da considerarsi decaduto dal diritto di contestare all’appaltatore la rovina
ed i difetti del suo immobile, e delle parti comuni del complesso immobiliare, per non aver provato di averli denunziati entro l’anno dalla scoperta.
L’attore contestava, inoltre, i vizi dell’opera ai sensi dell’art.
1669 cod. civ., anche nei confronti della venditrice B.R.E.
s.r.l.
L'art. 1669 cod. civ., come è stato precedentemente osservato dal Giudice, prevede un’azione di responsabilità extracontrattuale e trascende, quindi, il rapporto negoziale (appalto o vendita) in base al quale l'immobile è pervenuto nella sfera di un soggetto diverso dal costruttore, che può essere esercitata nei confronti di quest’ultimo, quando abbia
veste di venditore, anche da parte degli acquirenti i quali,
in tema di gravi difetti dell'opera, possono fruire dei termini
decennali di prescrizione ed annuale di decadenza (v. in tal
senso Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2012, n. 21089).
Il Giudice, pertanto, ha rilevato che l’azione di responsabilità extracontrattuale può essere proposta nei confronti del
venditore dell’immobile, solo se questi abbia rivestito la
qualità di costruttore o comunque la posizione assunta dal
venditore nei confronti degli acquirenti abbia evidenziato
l’assunzione da parte sua di una diretta responsabilità nella
costruzione dell’opera.
Nel caso di specie, così come rilevava il Giudice, non era
emerso che la venditrice B.R.E. avesse essa stessa costruito l’immobile oggetto di causa, né che avesse assunto una
diretta responsabilità nella costruzione, non potendo desumersi tale fatto dalla connessione soggettiva dei soci facenti parte delle rispettive compagini sociale.
Tuttavia il Giudice osservava come in una clausola del rogito
notaio A., la venditrice avesse specificatamente assunto la
garanzia ex art. 1669 cod. civ. nei confronti della parte acquirente, oltre all’impegno per l’ultimazione di alcuni lavori.
Questa assunzione di impegni e di garanzia, rilevava il Giudice, evidentemente precludeva che i rapporti tra le parti
potessero dirsi definitivamente conclusi, quanto meno per
ciò che riguardava la garanzia prestata e l’obbligo contrattuale di terminare le opere indicate nell’atto notarile.
In ogni caso, il Giudice dichiarava che, anche nei confronti
della B.R.E., la domanda di parte attrice ex art. 1669 cod.
civ. dovesse essere respinta in quanto era sopravvenuta la
decadenza dell’attore dal diritto di contestare i vizi, non
tempestivamente denunziati entro l’anno.
Il Tribunale di Torino, definitivamente pronunciando sulla
domanda proposta dal Signor C.N. contro la B.R.E. s.r.l., la
C. s.r.l., la I. s.r.l. e l’Ing. B. respingeva quindi la stessa per
avvenuta decadenza.
Il Giudice, inoltre, dichiarava che non meritava accoglimento la domanda ex art. 96 cod. proc. civ. proposta reciprocamente sia dai convenuti che dall’attore poiché non si ravvedevano i profili di dolo o colpa grave nel rispettivo comportamento processuale.
A.R.
CONDOMINIO
AMMINISTRATORE
Giudice di Pace di Palermo, sez. VII, 28 novembre 2013
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Amministratore - Disavanzo contabile - Approvazione del
rendiconto - Riconoscimento del debito - Credito dell’amministratore - Diritto al rimborso - Prova documentale insussistente - Esclusione
Nulla spetta all'amministratore che rivendica il pagamento delle relative spettanze professionali e degli asseriti anticipi di cassa, laddove questi non provi, documenti alla mano, la tracciabilità di ciascuna delle pretese accampate.
Il caso
Il Giudice di Pace di Palermo, accoglieva l’opposizione al
decreto ingiuntivo del condominio, ingiunto a pagare somme che l’amministratore reclamava per compensi non percepiti e per pretese anticipazioni da lui asseritamente effettuate.
Lo stesso Giudice, prendendo spunto da una consulenza
tecnica d'ufficio - condotta sul verbale di consegna tra i
due amministratori entrante-uscente, sul rendiconto condominiale in cui si evidenziava un disavanzo di cassa che
non appariva chiaro, né dal dettaglio dei riepilogativi contabili dallo stesso amministratore prodotti né dalla documentazione agli atti - deduceva che tale disavanzo derivava da
esborsi non documentati dall'ex amministratore.
Pertanto, laddove l’amministratore non provi, documenti
alla mano, la tracciabilità di ciascuna delle pretese accampate, non potrà pretendere alcunché dal condominio.
Sulla base di tale principio, il Giudice, rilevando che non
era stato provato il credito ingiunto, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’amministratore alla refusione delle
spese di lite a favore del condominio.
La decisione del Giudice di pace ed i
collegamenti giurisprudenziali
Il Giudice di pace, nell’affrontare il problema del rimborso
delle anticipazioni dell’amministratore, si è ricollegato all’orientamento dei giudici di legittimità i quali sono soliti affermare che “il disavanzo contabile, presente in un rendiconto
condominiale, non vuol dire per via deduttiva che questo
sia un credito dell'amministratore per l’importo corrispondente o che questo abbia versato la differenza utilizzando il
proprio denaro” (Cass. 9 maggio 2011, n. 10153).
Ed invero, l'approvazione assembleare del rendiconto ha
valore di riconoscimento del debito in relazione alle sole
poste passive specificatamente indicate.
Nel caso in cui, il rendiconto presenti un disavanzo tra uscite ed entrate, l'amministratore è tenuto ad offrire la prova
puntuale degli esborsi effettuati in qualità di mandatario; il
condominio - che come mandante è invece obbligato a
rimborsare le anticipazioni da lui effettuate con gli interessi
legali dal giorno in cui sono state fatte, ed a pagargli il
compenso oltre al risarcimento dell'eventuale danno - deve, viceversa, dimostrare di aver adempiuto all'obbligo di
tenere indenne l'amministratore da ogni diminuzione patrimoniale in proposito subita (Cass. civ., 30 marzo 2006, n.
7498).
Tuttavia è pacifico che l’amministratore che non abbia avuto approvato il suo credito, ai sensi dell’art. 1713 cod. civ.
non può trattenere nulla di ciò che egli abbia ricevuto nell’esercizio del mandato per conto del condominio cioè, la
cassa (Cass. n. 10815/2000) e i documenti concernenti la
gestione (art. 1129, comma 8 cod. civ.).
Beni che non può trattenere neanche nel caso in cui non
abbia ottenuto il rimborso di somme anticipate per conto
399
Giurisprudenza
Sintesi
del condominio non potendosi avvalere del principio inademplenti non est adimplendum, non essendovi corrispettività né interdipendenza tra dette prestazioni, originate da
titoli diversi (Cass. n. 13503/1999).
Non implica riconoscimento del debito ex art. 1988 cod.
civ. in danno al condominio, la sottoscrizione, in calce del
verbale di passaggio delle consegne, in cui sia stata verificata l’esistenza delle anticipazioni, perché tale sottoscrizione vale come mera ricevuta della documentazione, così come l’approvazione del bilancio da cui risulti un disavanzo
non vuol dire implicitamente che trattasi di esborsi dell’amministratore, che vanno provati con specifici documenti
contabili (nella fattispecie il rendiconto non presentava dati
che riflettevano, con chiarezza, le pretese vantate dall’amministratore, come le sue competenze professionali che risultavano già pagate; il debito verso il fornitore che rimaneva persistente e di importo superiore a quanto da egli riportato nel rendiconto. Il disavanzo di cassa, pertanto, non era
chiaramente giustificato non essendovi alcun elemento di
riscontro documentato nell'apposizione dei costi alle voci
di bilancio).
L.T.
PROCESSO
MEDIAZIONE
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sez. I, ord. 23
dicembre 2013
Mediazione - Soluzione conciliativa della controversia Comportamento non collaborativo - Ricorso al giudice Lite temeraria - Presupposti - Ammissibilità - Condanna
al doppio delle spese
Con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013 gli avvocati sono mediatori di diritto e debbono assistere le parti
nel procedimento di mediazione in una prospettiva che
tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l’extrema ratio per la soluzione della quasi totalità
delle controversie civili.
Va accolta la richiesta di condanna ex art. 96, comma 3
cod. proc. civ., potendo ravvisarsi, nel caso di specie,
l’elemento soggettivo della mala fede in capo ai ricorrenti, in considerazione della evidenziata e documentata disponibilità manifestata dalla resistente per risolvere il problema delle lamentate infiltrazioni del tutto
ignorate prima della proposizione del ricorso e, in ordine alle quali, peraltro, è stato omesso ogni riferimento
nel ricorso.
Il caso
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, rigettava il ricorso presentato da alcuni condomini per ottenere un accertamento tecnico preventivo che verificasse le cause generanti le macchie di muffa e di umidità presenti nell’appartamento da essi locato, nonché il risarcimento del danno subito.
La locataria eccepiva che non sussisteva alcun presupposto per richiedere tale accertamento avendo ripetutamente
dato piena disponibilità per accertare le cause delle lamen-
400
tate infiltrazioni e ad eliminarle, a fronte di un comportamento per nulla collaborativo della parte conduttrice.
Il Tribunale accertato quanto sostenuto dalla resistente, rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti alla rifusione
delle spese di giudizio a favore del resistente oltre al pagamento del doppio delle spese ex art. 96 cod. proc. civ.
La decisione del Tribunale ed i collegamenti
giurisprudenziali
Il Tribunale, con ordinanza, ha condannato per lite temeraria gli inquilini al pagamento del doppio delle spese processuali, per aver adito l'autorità giudiziaria rifiutando, senza
giustificazione alcuna, le ripetute richieste di soluzione bonaria della controversia proposte dalla conduttrice.
Evidenzia il Tribunale, che la mediazione (D.Lgs. n.
69/2010), di recente reintrodotta, ha una funzione "preventiva": l'obiettivo è quello di favorire l'incontro delle parti al
fine di risolvere la controversia in via conciliativa evitando,
ove possibile, il ricorso al giudice.
Il decreto n. 69 citato ha, inoltre, riconosciuto, di diritto, il
titolo di mediatore agli avvocati. Al difensore, dunque, è attribuito un ruolo centrale nell'attività di mediazione delle
controversie, in una prospettiva che tende sempre di più
ad individuare nel ricorso al giudice quale extrema ratio per
la soluzione della quasi totalità delle controversie civili.
Osserva, infatti, il Tribunale: "nel caso di specie … si sarebbe potuto agevolmente risolvere il problema emerso nel
corso del rapporto locatizio senza ricorrere all'autorità giudiziaria, semplicemente raccoglimento l'invito della resistente a far visionare l'immobile locato … Infatti, anziché
recepire l'invito della locatrice, che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, si è preferito adire il tribunale, in un'ottica conflittuale decisamente lontana dalla
nuova prospettiva nella quale, anche alla luce della recente
reintroduzione con il c.d. decreto del fare della mediazione
obbligatoria, appare muoversi il legislatore negli ultimi tempi, prospettiva che attribuisce al difensore un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell'attività di mediazione
delle controversie - al punto da prevedere, con le modifiche
operate dal D.L. n. 69/2013, che gli avvocati siano di diritto
mediatori e debbano assistere la parte nel procedimento di
mediazione - prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l'extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili".
Il Giudice di merito, sulla base di precedenti esperienze giurisprudenziali (Giudice di Pace Reggio Calabria, 14 novembre 2013, n. 2884; Trib. Catania, 4 settembre 2013, che si
erano orientati nell’applicare la soluzione “punitiva” quando i tentativi di soluzione del caso, spiegati da una delle parti, per via stragiudiziale e per lungo tempo, erano stati ignorati) ha accolto, altresì, la richiesta di condanna per lite temeraria ex art. 96 comma 3 cod. proc. civ. (la cui ratio è
quella di punire la parte che non adempia spontaneamente
i propri obblighi, costringendo la controparte a un giudizio,
e/o agisca o resista in giudizio infondatamente e pretestuosamente) in quanto ha ravvisato l'elemento oggettivo della
mala fede dei ricorrenti, in considerazione della disponibilità manifestata dalla resistente per risolvere il problema prima del ricorso e del tutto ignorata dai ricorrenti stessi e
proprio il comportamento scarsamente collaborativo dei ricorrenti ha contribuito a creare una situazione di pregiudizio irreparabile.
L.T.
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Pratica
Problemi tecnici
L’Architetto
Aria di novità sulle strade
a cura di Vincenza Albertini - Architetto in Milano
In quest’articolo parleremo di due tecniche innovative che potrebbero avere grandi potenzialità sul
versante del risparmio energetico. La prima ci viene dagli Stati Uniti, la seconda dall’Olanda. Entrambe trovano la loro applicazione in sede stradale.
L’esperienza degli Stati Uniti
Nel South Carolina si è recentemente conclusa la
sperimentazione di un prototipo di pannello fotovoltaico carrabile, grazie ad uno stanziamento del
Dipartimento dei Trasporti statunitensi.
Sappiamo come i pannelli fotovoltaici montati a
terra trovino, nel loro uso intensivo, numerosi detrattori, in quanto accusati di deturpare il paesaggio e l’ambiente naturale provocando danni all'agricoltura, agli allevamenti e agli animali. Trovare
pertanto una loro collocazione sulla superficie stradale può essere una scelta alternativa vincente.
Si tratta di un modulo esagonale, forma scelta per
garantire la massima giunzione e tenuta fra le varie
parti del manto; ciascun pannello include celle fotovoltaiche, circuiti elettrici e lampadine led programmabili, ed è dotato di un sistema scaldante
per consentire lo scioglimento automatico di
ghiaccio e neve. Ma soprattutto è dotato di uno
speciale vetro in grado di resistere al peso dei veicoli, realizzato adottando le tecniche usate per la
costruzione dei vetri antiproiettile. Il vetro presenta ovviamente una superficie antiscivolo zigrinata,
ovvero composta da migliaia di piccolissimi prismi,
atta a garantire la presa dei pneumatici.
La sfida è quella di utilizzare i pannelli fotovoltaici
non solo sui tetti, ma anche per pavimentare le
strade al posto dell’asfalto in tratti idonei e vocati
all’uso. No, quindi al consumo del territorio per
l’installazione di centrali per la produzione dell’energia da fotovoltaico, ma la possibilità di utilizzare
la rete di strade, autostrade e corsie di parcheggi all’aperto quale struttura lineare e diffusa di captazione dell’energia solare.
Sono ovviamente da escludersi viali alberati, strade
urbane solitamente molto “occupate” e poco esposte alla radiazione solare; i centri urbani inoltre
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hanno una presenza di sottoservizi la cui manutenzione è all’ordine del giorno e quindi richiederebbe, ogni volta, lo smontaggio dei pannelli in superficie. La preferenza non può che andare alle corsie
a grande scorrimento (dove non si sosta ai semafori
e non si parcheggia) e a tratti suburbani, non eccessivamente soggetti a traffico di autoveicoli tale
da occultare per troppo tempo la superficie captante.
La Solar Roadways ha progettato a questo scopo
pannelli fotovoltaici carrabili quadrati di 3,7 metri
di lato, pari alla larghezza standard delle corsie
stradali in America, in modo che possano poi essere giustapposti sulle strade. È stato calcolato che,
con un’insolazione media di picco equivalente a 4
ore al giorno e un’efficienza energetica intorno al
15%, ogni pannello potrebbe produrre 7,6 kWh al
giorno.
A questo scopo, e con le caratteristiche sopra citate, anche aree private di pertinenza potrebbero essere pavimentate con tale sistema, provvedendo
così a produrre energia dal sole per un uso diretto e
privato.
L’esperienza olandese
In Olanda, con il progetto Glowing lines niente più
cartelli stradali e nemmeno lampioni: si è creato
un particolare tipo di vernice che durante le ore
del giorno accumula luce solare per poi rilasciarla
durante le ore notturne. Di fatto, a fronte dell'esposizione a un'altra fonte di illuminazione quale
quella dei fari dei veicoli, la vernice, utilizzata per
la segnaletica orizzontale, sprigiona un effetto luminescente in grado di illuminare la strada di notte.
La vernice è composta da una polvere photo-luminising la quale, a fronte di una intera giornata di luce, sprigiona un effetto luminescente della durata
di 8 ore, giusto quanto dal calar del sole all'alba. Il
sistema funziona alla stregua del fotovoltaico con
la differenza che è molto meno costoso dato che la
vernice è spalmabile e non c'è bisogno di investimenti iniziali per la realizzazione di infrastrutture.
401
Pratica
Problemi tecnici
Il progetto, firmato dell'artista Daan Roosegaarde e dagli ingegneri della società Heijmans, è
stato sperimentato su 500 metri di autostrada nei
pressi di Oss, vicino Amsterdam, ed ha riguardato la realizzazione delle linee di demarcazione
stradali.
Si punta ora a replicare il test in strade dove non è
prevista l'installazione di lampioni, come ad esempio nelle aree rurali non servite dalla linea elettrica. Nel frattempo si sta lavorando alla realizzazione
402
di un progetto parallelo che mira alla visualizzazione di segnaletica stradale a fronte di variazioni meteorologiche in atto. In buona sostanza, le luci
fluorescenti saranno in grado di reagire al cambio
di temperatura e alle condizioni dell'asfalto, mandando segnali al guidatore tramite l’utilizzo di appositi simboli.
Questo progetto, nella sua globalità, potrebbe diminuire i costi di illuminazione e migliorare la sicurezza sulle strade.
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Pratica
Quesiti
Casa e questioni
a cura di Augusto Cirla - Avvocato in Milano
L’ACQUISTO DELL’IMMOBILE “SULLA CARTA”: C’È
L’OBBLIGO DELLA FIDEIUSSIONE
Ho sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto
di un immobile che ancora deve essere costruito, con
termine per la consegna del bene tra due anni. Sono naturalmente previsti pagamenti scadenzati anche prima
della stipula del contrato definitivo ed il saldo verrà effettuato a mezzo di accollo di parte del mutuo contratto
dalla società costruttrice. Come posso tutelarmi che
tutto andrà per il meglio?
L’acquisto di immobili “sulla carta”, di quelli cioè la cui costruzione non è ancora iniziata oppure è ancora in corso,
presenta indubbiamente grandi vantaggi, ma impone anche all’acquirente particolare attenzione e vigilanza.
I vantaggi stanno nella possibilità di acquistare un appartamento che, sebbene possa essere all’inizio solo individuato
sulla piantina offerta in visione dal costruttore, nel corso
della edificazione può essere adattato alle personali esigenze dell’acquirente, che ha la facoltà di scegliere la qualità e
la tipologia degli accessori a seconda delle sue preferenze
e gusti. È però necessario muoversi con particolare prudenza ed attenzione, visto l’impegno finanziario che si va
ad affrontare a fronte dell’acquisto di un bene di cui si otterrà la proprietà soltanto in una fase successiva rispetto ai
tempi in cui vengono eseguiti i pagamenti di acconti consistenti. Sino all’anno 2005 il fenomeno delle famiglie impegnatesi nell’acquisto di un immobile in costruzione - e successivamente coinvolte nella crisi di impresa del costruttore - aveva assunto davvero dimensioni piuttosto consistenti. Con la legge 2 agosto 2004, n. 210 in tema di tutela dei
diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire
e con il successivo D.Lgs. 20 giugno 2005 n. 122 il legislatore ha però introdotto nel nostro ordinamento un sistema
di tutele per tale categoria di acquirenti.
Lo scopo della legge n. 210/2004 è stato quello di rafforzare la posizione dell’acquirente, non ponendosi come obiettivo la revisione sistematica dell’istituto della vendita immobiliare, ma realizzando un intervento di mirato impatto normativo e fornendo l’esatta definizione dei presupposti in
presenza dei quali devono trovare applicazione le garanzie
a tutela degli acquirenti “sulla carta”.
In tale situazione l’acquirente che effettua versamenti al costruttore di fatto finanzia l’edificazione o l’ultimazione dell’immobile a lui promesso, senza che tale suo finanziamento sia adeguatamente garantito prima del definitivo trasferimento della proprietà.
L’art. 2 del D.Lgs. n. 122/2005 prevede l’obbligo del costruttore di procurarsi e consegnare all’acquirente, prima o
all’atto della stipula di un contratto avente come finalità il
trasferimento non immediato della proprietà (in buona sostanza, al momento della stipula del contratto preliminare)
una fideiussione a garanzia di tutti gli acconti versati o da
versare anteriormente dell’effettivo trasferimento della proprietà, che avviene con la stipula del rogito.
Immobili & proprietà 6/2014
La norma pone in capo al costruttore un obbligo alla prestazione di fideiussione per le predette finalità, che trova
quindi nella legge la sua fonte.
Prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, in caso
di sopravvenuta crisi aziendale del costruttore l’acquirente
creditore degli importi versati in acconto durante la costruzione dell’immobile poteva soltanto richiedere al giudice
del fallimento di partecipare alla procedura, senza avere
però alcuna realistica prospettiva di recupero del credito,
proprio perché tale credito non godeva di alcun privilegio.
La nuova disciplina ha rafforzato la posizione dell’acquirente di immobili in corso di costruzione o da costruire, garantendo che, in caso di sopravvenuta crisi aziendale del venditore-costruttore, gli importi versati prima del trasferimento della proprietà siano immediatamente disponibili per
l’acquirente, che può fare valere la garanzia derivante dalla
fideiussione che il costruttore è obbligato a procurarsi e a
consegnargli all’atto della stipula del contratto preliminare.
La garanzia fideiussoria consente dunque al promissorio
acquirente di ottenere la restituzione di tutte le somme da
lui anticipate al costruttore per consentirgli di portare a termine ciò che ha promesso di vendere. Trattasi di una garanzia che trova applicazione automatica al verificarsi di
determinate circostanze previste dalla legge, senza che sia
data possibilità al garante di valutare l’entità o le cause del
verificato inadempimento da parte del costruttore stesso.
Sin dal momento del suo rilascio, deve riguardare non solo
somme versate al momento della stipula del contratto preliminare, ma anche tutti quegli acconti che l’acquirente si
impegna a versare nel corso della costruzione: la garanzia,
in buona sostanza, deve estendersi a ogni corrispettivo che
sia corrisposto dall’acquirente al costruttore anteriormente
al trasferimento della proprietà.
La mancata consegna della garanzia fideiussoria comporta
la nullità del contratto preliminare di vendita. Si tratta di
una nullità cosiddetta “relativa” o “di protezione” perché è
il solo acquirente che può farla valere senza alcuno specifico limite temporale. La legge ha introdotto questo tipo di
nullità come strumento per la salvaguardia e la tutela dell’acquirente, considerato contraente debole.
La sanzione della nullità opera non solo nel caso di mancanza assoluta della fideiussione, ma anche nell’ipotesi in
cui la garanzia rilasciata vada a coprire solo in parte gli acconti che l’acquirente è contrattualmente obbligato a versare anteriormente al trasferimento della proprietà.
Resta inoltre operante anche quando l’acquirente dichiara
esplicitamente di voler rinunciare alla garanzia. Spetta comunque a lui, in quanto unico soggetto legittimato, decidere se attivare o meno il rimedio della nullità. L’acquirente
potrà quindi agire in giudizio per ottenere la dichiarazione
di nullità e la conseguente condanna del costruttore alla restituzione di quanto eventualmente versatogli, oltre al risarcimento del danno. Se invece l’acquirente ha interesse a
mantenere in vita il rapporto contrattuale malgrado il mancato rilascio della fideiussione, potrà darvi esecuzione, restando però esposto al rischio di non recuperare gli acconti
versati (non assistiti dalla garanzia fideiussoria), qualora il
costruttore incorra in una situazione di crisi.
403
Pratica
Quesiti
Il legislatore, con la normativa sopra citata, ha dunque fornito al promissario acquirente i mezzi per tutelarsi e spetta
a lui quindi richiedere al promittente venditore il rispetto
della normativa vigente, senza eccezione alcuna.
L’IMPIANTO DI VIDEOSORVEGLIANZA
L’assemblea del condominio in cui abitato ha deliberato
di fare installare un impianto di videosorveglianza delle
parto comuni, benché già ci sia un custode. La nuova
disciplina del condominio stabilisce le maggioranze con
cui deve essere assunta la delibera, ma nulla dice in ordine ai presupposti per potere installare l’impianto. Necessito dunque dei chiarimenti.
La norma introdotta dalla riforma, l’art. 1122-ter cod. civ.,
colma sicuramente il vuoto legislativo che esisteva in ordine al quorum necessario per legittimamente deliberare da
parte dell’assemblea l’installazione di un impianto di videosorveglianza sulle parti comuni: adesso serve il voto favorevole espresso dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea (non importa se presenti personalmente o per delega) portatori di almeno la metà del valore dell’edificio.
Il tema della sorveglianza del territorio, da svolgersi con diversi mezzi e modalità, rappresenta oggi uno degli aspetti
più importanti per gli amministratori che devono necessariamente mettere in atto azioni volte a tutelare il patrimonio
e la sicurezza delle persone, con sempre maggiore efficacia.
La videosorveglianza sta diventando ormai il mezzo più diffuso in condominio per tutelare la sicurezza, al punto che il
Garante della privacy ha ritenuto necessario emettere in
data 8 aprile 2010 un nuovo provvedimento (sostitutivo di
quello del 2004) per individuare e regolamentare il giusto
equilibrio tra sicurezza e privacy in condominio.
I sistemi di videosorveglianza non devono pregiudicare la
riservatezza, l’intimità ed il riserbo dei condomini e di tutti
coloro che frequentano gli spazi comuni condominiali: la
loro installazione deve avvenire, oltre che nel rispetto della
disciplina in materia di protezione dei dati personali, anche
nella piena osservanza delle norme vigenti dell’ordinamento civile e penale.
Il garante conferma che la privacy si basa su tre principi generali: liceità, necessità e proporzionalità fra i mezzi usati e
gli obiettivi da perseguire.
404
Proprio per evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (vedasi sul punto Cass. pen. 26 novembre 2008, n. 44156) è opportuno, in primo luogo, che
l’angolo visuale delle riprese sia limitato ai soli spazi di propria esclusiva competenza, quale può essere quella immediatamente antistante l’ingresso dell’edificio condominiale
ovvero della singola unità immobiliare. È da escludersi invece, a pena di illiceità del trattamento dei dati, ogni forma
di ripresa anche senza registrazione di immagini relative ad
aree comuni, quali i cortili, i pianerottoli, le scale o le autorimesse comuni, oppure a spazi antistanti le altre abitazioni. Il condomino non ha possibilità di installare un impianto
di videosorveglianza per riprendere aree condominiali comuni. E non può farlo nemmeno nel caso in cui lo scopo di
tale installazione sia la propria sicurezza, messa in pericolo
in seguito ad alcuni episodi di furti e di effrazioni. Quando
infatti un impianto di videosorveglianza, per distanza, angolo visuale o qualità degli strumenti di ripresa consente di
rendere identificabili le persone inquadrate, le registrazioni
effettuate tramite l’uso di telecamere installate contengono
in ogni caso dati di carattere personale, quale è innegabilmente il dato dell’immagine, di per sé idoneo a contraddistinguere l’aspetto fisico di una persona con modalità tali
da permetterne il riconoscimento.
L’immagine della persona trova ampia tutela nel nostro ordinamento. Ecco allora il motivo per cui l’attività di videosorveglianza deve rispettare il cosiddetto principio della
proporzionalità nella scelta delle modalità di ripresa e di dislocazione delle telecamere. E così, il ricorso alla videosorveglianza appare sproporzionato quando nel condominio
già vi sia la presenza di personale addetto esclusivamente
alla protezione o alla custodia.
La posa e l’installazione delle telecamere in condominio
con annessi impianti d videosorveglianza devono essere
giustificate da concrete esigenze di tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Sono illegittime se installate in luoghi
non soggetti a concreti pericoli o per i quali non sussistono
effettive esigenze di controllo: è il caso del condominio dove non risultano essersi mai verificati né furti nei singoli appartamenti e né particolari intrusioni di terzi estranei nelle
parti comuni, ove quindi l’installazione di simili impianti
rappresenterebbero un inutile deterrente destinato solo ad
influenzare negativamente il comportamento e i movimenti
delle persone che vi transitano nelle vicinanze.
Immobili & proprietà 6/2014
Indici
Immobili & proprietà
INDICE DEGLI AUTORI
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Aglietta Paola
Condizioni di legittimità della revisione delle rendite
catastali .....................................................
364
Memorandum ..............................................
345
Albertini Vincenza
Aria di novità sulle strade ................................
Corte di Cassazione
2 aprile 2014, n. 7741, sez. II ............................
3 aprile 2014, n. 7803, sez. II ............................
401
7 aprile 2014, n. 8081, sez. II ............................
9 aprile 2014, n. 8263, sez. III ...........................
Bordolli Giuseppe
Le locazioni abitative transitorie .........................
Giurisprudenza
390
9 aprile 2014, n. 8339, sez. II ............................
16 aprile 2014, n. 8886, sez. II ..........................
Celeste Alberto
Compravendite immobiliari tra regolamenti ‘‘blindati’’ dal costruttore e prescrizioni del codice del consumo .........................................................
Tribunale
348
Cirla Augusto
403
L’impianto di videosorveglianza .........................
404
377
355
Compravendita
394
373
403
Preliminare
Irregolarità urbanistiche (Cass. n. 8081/2014) ........
396
Spese
Spese accessorie della compravendita a carico del
compratore e incarico professionale, a cura di Mariagrazia Monegat ............................................
394
Condominio
Re Alessandro
398
Amministratore
Prova del diritto al rimborso (Rass.) ....................
Servidio Salvatore
Separazione tra coniugi e benefici ‘‘prima casa’’ .....
398
Fideiussione
Picardi Francesca
Vizi ...........................................................
Vizi
L’acquisto dell’immobile ‘‘sulla carta’’: c’è l’obbligo
della fideiussione, a cura di Augusto Cirla .............
Monegat Mariagrazia
IRAP, studi associati e amministratori di condominio
399
INDICE ANALITICO
Responsabilità ex art. 1669 cod. civ. (Rass.) ..........
Gallucci Alessandro
Spese accessorie della compravendita a carico del
compratore e incarico professionale ...................
400
398
Appalto
359
Frugiuele Paolo
Forma dell’atto d’impugnazione delle delibere condominiali .....................................................
24 marzo 2014, Torino ....................................
28 novembre 2013, Palermo, sez. VII ..................
Di Benedetto Alessandra
La tassazione del c.d. mutuo dissenso: il revirement
dell’Agenzia delle Entrate ................................
23 dicembre 2013, Santa Maria Capua Vetere, ord.,
sez. I .........................................................
Giudice di pace
L’acquisto dell’immobile ‘‘sulla carta’’: c’è l’obbligo
della fideiussione ..........................................
Il problema dell’estensione della tutela possessoria
ai conviventi more uxorio .................................
397
396
396
397
396
394
367
Sostituto (Cass. n. 8339/2014) ..........................
399
396
Assemblea
Tagliolini Luana
Amministratore ............................................
399
Forma dell’atto d’impugnazione delle delibere condominiali, di Alessandro Gallucci ........................
Mediazione .................................................
400
Privacy
L’impianto di videosorveglianza, a cura di Augusto
Cirla ..........................................................
Testa Antonio
Il rent to buy: la tipizzazione sociale di un contratto
atipico .......................................................
384
Regolamento
396
Compravendite immobiliari tra regolamenti ‘‘blindati’’ dal costruttore e prescrizioni del codice del consumo, di Alberto Celeste .................................
Triola Roberto
In primo piano (Corte di Cassazione) ...................
Immobili & proprietà 6/2014
355
404
348
405
Indici
Immobili & proprietà
Diritti reali
Risoluzione del contratto
Servitù
La tassazione del c.d. mutuo dissenso: il revirement
dell’Agenzia delle Entrate, di Paolo Frugiuele .........
Mutamento di destinazione del fondo dominante
(Cass. n. 7803/2014) ......................................
396
Locazioni
Famiglia
Rent to buy
Famiglia ‘‘di fatto’’
Il rent to buy: la tipizzazione sociale di un contratto
atipico, di Antonio Testa ..................................
Il problema dell’estensione della tutela possessoria
ai conviventi more uxorio, di Giovanna Di Benedetto
359
Le locazioni abitative transitorie, di Giuseppe Bordolli ..............................................................
Catasto
Uso non abitativo
Prelazione (Cass. n. 8263/2014) ........................
364
IRAP
IRAP, studi associati e amministratori di condominio, di Francesca Picardi ..................................
406
390
397
Possesso
Spoglio
373
Risarcimento del danno (Cass. n. 7741/2014) ........
397
Processo
Prima casa
Separazione tra coniugi e benefici ‘‘prima casa’’, di
Salvatore Servidio .........................................
384
Uso abitativo
Fisco
Condizioni di legittimità della revisione delle rendite
catastali, di Paola Aglietta ................................
377
Mediazione
367
Comportamento non collaborativo (Rass.) ............
400
Immobili & proprietà 6/2014
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cittadini dinanzi alla fruizione del territorio e all’allocazione delle opere
pubbliche; la salvaguardia dei beni culturali ed ambientali; la ricerca di
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più diffuso l’accesso al bene casa ai cittadini.
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5 D.lgs. n. 185/1999- Decorsi 10 giorni lavorativi dalla data
di ricevimento del bene da parte del cliente senza che questi abbia comunicato con raccomandata A.R. inviata a Wolters Kluver Italia S.r.l. (o mediante e-mail, fax o facsimile
confermati con raccomandata A.R. nelle 48 ore successive),
la propria volontà di recesso, la proposta si intenderà impegnativa e vincolante per il cliente medesimo. In caso di recesso da parte del cliente, entro lo stesso termine (10 giorni
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