Immobili & proprietà La rivista IMMOBILI E PROPRIETÀ organizza la Tavola rotonda RIFORMA DEL CONDOMINIO: LUCI E OMBRE AD UN ANNO DALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE 220/2012 Prime applicazioni nella prassi e nella giurisprudenza Milano, 20 giugno 2014 - Ore 14.30 - 18.30 Palazzo di Giustizia - Aula Magna La tavola rotonda consente un confronto tra i relatori che, per la loro specifica competenza ed esperienza forniranno concrete risposte ai numerosi dubbi interpretativi, con particolare riguardo alle nuove prassi adottate in concreto per il funzionamento dell’assemblea e per la gestione dei beni comuni. Il confronto affronterà anche temi processuali ed il dialogo tra i relatori consentirà un più vivace approccio. Saluti Paolo Giuggioli, Presidente Ordine Avvocati Milano Mariagrazia Monegat e Federico Magliulo, Direttori scientifici della rivista “Immobili e Proprietà” Temi dell’incontro • • • • L’assemblea: ruolo, funzione ed esercizio dei poteri. Il supercondominio Legittimazione dell’amministratore, poteri processuali, rapporti con l’assemblea La mediazione e le cause condominiali Le spese condominiali, il conto corrente e il fondo per le opere straordinarie Se ne parla con: Augusto Cirla , Avvocato del foro di Milano Domenico Piombo, Magistrato - Presidente sezione 7 civile Tribunale di Milano Debora Ravenna, Avvocato, Mediatore, Giudice di Pace Giacomo Rota, Magistrato sezione 13 civile Tribunale di Milano Antonio Scarpa, Magistrato presso il Massimario della Corte di Cassazione LA PARTECIPAZIONE È GRATUITA Y56EL_LE.indd 1 Y56EL LE L’evento ha il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano. La richiesta è stata inoltrata all’Ordine degli Avvocati di Milano per il riconoscimento di n. 4 crediti formativi. Iscrizione on line sul sito formazione.ipsoa.it/convegni 16/05/14 11:05 Immobili & proprietà Sommario SCADENZARIO MEMORANDUM a cura di Paola Aglietta 345 OPINIONI Regolamento Deliberazioni COMPRAVENDITE IMMOBILIARI TRA REGOLAMENTI ‘‘BLINDATI’’ DAL COSTRUTTORE E PRESCRIZIONI DEL CODICE DEL CONSUMO di Alberto Celeste 348 FORMA DELL’ATTO D’IMPUGNAZIONE DELLE DELIBERE CONDOMINIALI di Alessandro Gallucci 355 Famiglia ‘‘di fatto’’ IL PROBLEMA DELL’ESTENSIONE DELLA TUTELA POSSESSORIA AI CONVIVENTI MORE UXORIO di Giovanna Di Benedetto 359 Catasto CONDIZIONI DI LEGITTIMITÀ DELLA REVISIONE DELLE RENDITE CATASTALI di Paola Aglietta 364 SEPARAZIONE TRA CONIUGI E BENEFICI ‘‘PRIMA CASA’’ di Salvatore Servidio 367 IRAP, STUDI ASSOCIATI E AMMINISTRATORI DI CONDOMINIO di Francesca Picardi 373 Prima casa IRAP Risoluzione del contratto Rent to buy Uso abitativo LA TASSAZIONE DEL C.D. MUTUO DISSENSO: IL REVIREMENT DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE di Paolo Frugiuele 377 IL RENT TO BUY: LA TIPIZZAZIONE SOCIALE DI UN CONTRATTO ATIPICO di Antonio Testa 384 LE LOCAZIONI ABITATIVE TRANSITORIE di Giuseppe Bordolli 390 GIURISPRUDENZA LA SENTENZA DEL MESE - Spese accessorie della compravendita a carico del compratore e incarico professionale Cassazione civile, sez. II, 16 aprile 2014, n. 8886 a cura di Mariagrazia Monegat 394 IN PRIMO PIANO a cura di Roberto Triola 396 RASSEGNA DI MERITO a cura di Alessandro Re, Luana Tagliolini 398 PRATICA PROBLEMI PRATICI - Aria di novità sulle strade a cura di Vincenza Albertini 401 QUESITI CASA & QUESTIONI a cura di Augusto Cirla 403 INDICE INDICE AUTORI, INDICE CRONOLOGICO, INDICE ANALITICO Immobili & proprietà 6/2014 405 343 Immobili & proprietà Sommario Mensile sull’amministrazione e la gestione degli immobili EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1, Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI) INDIRIZZO INTERNET www.edicolaprofessionale.com/??? DIRETTORE RESPONSABILE Giulietta Lemmi REDAZIONE Ines Attorresi, Maria Grazia Bonacini, Francesco Cantisani REALIZZAZIONE GRAFICA Wolters Kluwer Italia S.r.l. FOTOCOMPOSIZIONE Sinergie Grafiche Srl Viale Italia, 12 - 20094 Corsico (MI) - Tel. 02/57789422 STAMPA GECA S.r.l. Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI) Tel. 02/99952 L’elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali errori o inesattezze PUBBLICITÀ: db Consulting srl Event & Advertising via Leopoldo Gasparotto 168 - 21100 Varese tel. 0332/282160 - fax 0332/282483 e-mail: [email protected] www.db-consult.it Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 474 del 23 ottobre 1993 344 Per informazioni in merito a contributi, articoli ed argomenti trattati, scrivere o telefonare a: Per informazioni su gestione abbonamenti, numeri arretrati, cambi d’indirizzo, ecc., scrivere o telefonare a: Casella Postale 12055 - 20120 Milano telefono (02) 82476.005 (02) 82476.570 telefax (02) 82476.079 e-mail: [email protected] IPSOA Servizio Clienti Casella postale 12055 – 20120 Milano telefono (02) 824761 – telefax (02) 82476.799 Servizio risposta automatica: telefono (02) 82476.999 Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 febbraio 2004, n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa con il n. 3353 vol. 34 foglio 417 in data 31 luglio 1991 Iscrizione al R.O.C. n. 1702 ABBONAMENTI Gli abbonamenti hanno durata annuale, solare: gennaio-dicembre; rolling 12 mesi dalla data di sottoscrizione, e si intendono rinnovati, in assenza di disdetta da comunicarsi entro 60 gg. prima della data di scadenza a mezzo raccomandata A.R. da inviare a Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1 Pal. F6 Milanofiori 20090 Assago (MI). Servizio Clienti: tel. 02-824761 - e-mail: [email protected] Compresa nel prezzo dell’abbonamento l’estensione on line della Rivista consultabile all’indirizzo www.edicolaprofessionale.com/??? oppure — Inviare assegno bancario/circolare non trasferibile intestato a Wolters Kluwer Italia S.r.l. Indicare nella causale del versamento il titolo della rivista e l’anno di abbonamento. Prezzo copia: E 23,00 Arretrati: prezzo dell’anno in corso all’atto della richiesta DISTRIBUZIONE Vendita esclusiva per abbonamento Il corrispettivo per l’abbonamento a questo periodico è comprensivo dell’IVA assolta dall’editore ai sensi e per gli effetti del combinato disposto dell’art. 74 del D.P.R. 26/10/1972, n. 633 e del D.M.29/12/1989 e successive modificazioni e integrazioni. ITALIA Abbonamento annuale: E 175,00 ESTERO Abbonamento annuale: E 350,00 MAGISTRATI e UDITORI GIUDIZIARI - sconto del 30% sull’acquisto dell’abbonamento annuale alla rivista, applicabile rivolgendosi alle Agenzie Ipsoa di zona (www.ipsoa.it/agenzie) o inviando l’ordine via posta a Wolters Kluwer Italia S.r.l., Strada 1 Pal. F6, 20090 Assago (MI) o via fax al n. 02-82476403 o rivolgendosi al Servizio Informazioni Commerciali al n. 02-82476794. Nell’ordine di acquisto i magistrati dovranno allegare fotocopia del proprio tesserino identificativo attestante l’appartenenza alla magistratura e dichiarare di essere iscritti all’Associazione Nazionale Magistrati. MODALITÀ DI PAGAMENTO — Versare l’importo sul C/C/P n. 583203 intestato a WKI S.r.l. Gestione incassi - Strada 1, Palazzo F6, Milanofiori Egregio abbonato, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, La informiamo che i Suoi dati personali sono registrati su database elettronici di proprietà di Wolters Kluwer Italia S.r.l., con sede legale in Assago Milanofiori Strada 1-Palazzo F6, 20090 Assago (MI), titolare del trattamento e sono trattati da quest’ultima tramite propri incaricati. Wolters Kluwer Italia S.r.l. utilizzerà i dati che La riguardano per finalità amministrative e contabili. I Suoi recapiti postali e il Suo indirizzo di posta elettronica saranno utilizzabili, ai sensi dell’art. 130, comma 4, del D.Lgs. n. 196/2003, anche a fini di vendita diretta di prodotti o servizi analoghi a quelli oggetto della presente vendita. Lei potrà in ogni momento esercitare i diritti di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003, fra cui il diritto di accedere ai Suoi dati e ottenerne l’aggiornamento o la cancellazione per violazione di legge, di opporsi al trattamento dei Suoi dati ai fini di invio di materiale pubblicitario, vendita diretta e comunicazioni commerciali e di richiedere l’elenco aggiornato dei responsabili del trattamento, mediante comunicazione scritta da inviarsi a: Wolters Kluwer Italia S.r.l. - PRIVACY - Centro Direzionale Milanofiori Strada 1Palazzo F6, 20090 Assago (MI), o inviando un Fax al numero: 02.82476.403. Immobili & proprietà 6/2014 Scadenze Memorandum Memorandum a cura di Paola Aglietta - Dottore Commercialista e Revisore Legale in Torino LUNEDÌ 16 GIUGNO 2014 Versamento delle imposte sulla base del Modello Unico 2014 È fissato al 16 giugno 2014 il termine per il versamento delle imposte a saldo per l’anno 2013, risultanti dalla dichiarazione, unitamente al primo acconto per il 2014. In alternativa, i contribuenti possono scegliere di effettuare i versamenti entro il 16 luglio 2014, con la maggiorazione dello 0,4% a titolo di interessi. Unitamente ai versamenti delle imposte sui redditi, alle stesse scadenze, si versano le imposte sugli immobili e le attività finanziare detenute all’estero (Ivie e Ivafe). Prima rata in acconto IMU anno 2014 Entro il 16 giugno i contribuenti tenuti al versamento dell’IMU (“Imposta Municipale Propria”) devono versare la prima rata per l’anno 2014. Prima rata in acconto TASI anno 2014 Entro il 16 giugno 2014 è previsto il versamento del primo acconto ai fini della Tasi per il 2014. Per gli immobili diversi dalle abitazioni principali si deve versare l'acconto in base all’aliquota standard entro il 16 giugno; in caso l’imposta dovuta, una volta adottata la delibera comunale, sia inferiore o addirittura nulla, si rende necessario attivare la richiesta di rimborso. Per gli immobili adibiti ad abitazione principale, il versamento della Tasi è invece effettuato in un'unica rata, entro il 16 dicembre 2014, se non ci sono delibere comunali entro il 31 maggio 2014; è effettuato secondo le scadenze e le regole stabilite nella delibera comunale, se assunta entro il 31 maggio 2014. Dichiarazioni d’intento Termine entro il quale i contribuenti Iva che hanno ricevuto, nel corso del mese precedente (maggio), dichiarazioni d’intento rilasciate da esportatori abituali devono inviare apposita comunicazione all’Agenzia delle Entrate, in via telematica, direttamente o tramite intermediari abilitati, utilizzando il modello reperibile sul sito internet dell'Agenzia delle Entrate. Sostituti d'imposta Termine per il versamento delle ritenute alla fonte su redditi di lavoro dipendente ed assimilati e su redditi di lavoro autonomo, corrisposti nel mese precedente. Versamenti Iva Termine per il versamento dell’Iva risultante: - dalla liquidazione del mese di maggio per i contribuenti con periodicità Iva mensile; - dalla liquidazione del mese di maggio, effettuata sulla base delle operazioni registrate e dell’imposta divenuta esigibile in aprile, per i contribuenti con periodicità mensile che hanno affidato a terzi la tenuta della contabilità optando per il regime previsto dall'art. 1, comma 3, D.P.R. n. 100/98. Immobili & proprietà 6/2014 Consolidato fiscale Il consolidato nazionale è un istituto che consente alle società facenti parte di un gruppo e che manifestano apposita opzione di determinare un unico reddito complessivo Ires, rappresentato dalla somma algebrica delle singole base imponibili che risultano dalle rispettive dichiarazioni dei redditi. Le società che intendono adottare la tassazione consolidata di gruppo devono esercitare la specifica opzione che dura per un triennio ed è irrevocabile. La comunicazione dell’opzione deve essere presentata entro il sedicesimo giorno del sesto mese successivo alla chiusura del periodo d’imposta precedente al primo esercizio del triennio. Il 16 giugno 2014 scade pertanto il termine, per le società con esercizio coincidente con l’anno solare, per esercitare: - opzione per la prima applicazione del regime, da comunicare con apposito modello a cura della società controllante; l’opzione è valida il triennio 2014-2016; - rinnovo dell’opzione per il triennio 2014-2016. MERCOLEDÌ 25 GIUGNO 2014 Elenchi Intrastat Gli operatori intracomunitari con obbligo mensile devono presentare gli elenchi riepilogativi (INTRASTAT) delle cessioni e degli acquisti intracomunitari di beni nonché delle prestazioni di servizio in ambito comunitario, effettuati nel mese precedente (maggio). La periodicità di presentazione è mensile nelle ipotesi di cessioni/acquisti di beni e servizi resi/ricevuti superiori a euro 50.000,00 nel trimestre di riferimento e/o in uno dei 4 trimestri precedenti. LUNEDÌ 30 GIUGNO 2014 Presentazione del Modello Unico 2014 in forma cartacea Le persone fisiche per le quali ricorrono i presupposti possono presentare il Modello Unico 2014 in forma cartacea per il tramite di un ufficio postale. In generale, tutti i contribuenti sono obbligati a presentare la dichiarazione Modello Unico 2014 esclusivamente per via telematica, direttamente o tramite intermediario abilitato; sono esclusi da tale obbligo e pertanto possono presentare il modello Unico 2014 cartaceo i contribuenti che: - pur possedendo redditi che possono essere dichiarati con il mod. 730, non possono utilizzare tale modello e devono ricorrere al modello Unico perché privi di datore di lavoro o non titolari di pensione; - pur potendo presentare il mod. 730, devono dichiarare alcuni redditi o comunicare dati utilizzando i relativi quadri del modello UNICO (RM, RT, RW, AC); - devono presentare la dichiarazione per conto di contribuenti deceduti; 345 Scadenze Memorandum - sono privi di un sostituto d’imposta al momento della presentazione della dichiarazione perché il rapporto di lavoro è cessato. Operatori finanziari Invio della Comunicazione dei dati all'Anagrafe Tributaria da parte degli operatori finanziari, contenente i dati relativi ai rapporti intrattenuti con i clienti nel mese di maggio. Black list I soggetti passivi Iva che abbiano effettuato operazioni nei confronti di operatori economici aventi sede, residenza o domicilio negli Stati o nei territori individuati dalla lista di cui al D.M. 4 maggio 1999 ed al D.M. 21 novembre 2001 (cosiddetti black list) sono tenuti ad effettuare la prevista comunicazione mensile, mediante invio telematico del modello di comunicazione delle operazioni effettuate nel corso del mese precedente (maggio). L’obbligo di comunicazione è previsto per le sole operazioni attive e passive di importo superiore a euro 500. Contratti di locazione Versamento dell’imposta di registro sui contratti di locazione nuovi o rinnovati tacitamente con decorrenza 1° giugno 2014, per i quali non si è scelto il regime della “cedolare secca”. Adempimenti 5 per mille Entro tale termine, gli enti che hanno inviato nei termini (7 maggio) la domanda per essere ammessi all’elenco dei destinatari del 5 per mille 2014, devono inviare, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno alla Direzione Regionale dell'Agenzia delle Entrate, una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante la persistenza dei requisiti che danno diritto all'iscrizione, allegando la copia di un documento di identità del legale rappresentante. Tale comunicazione è obbligatoria a pena di decadenza dell’iscrizione dell’ente nell’elenco. I soggetti destinatati del 5 per mille, entro un anno dalla ricezione degli importi, sono tenuti a redigere apposito rendiconto, nonché una relazione illustrativa. Dichiarazione IMU Il D.L. n. 102/2013 ha introdotto disposizioni di favore, per le quali è prevista la presentazione della dichiarazione IMU a pena di decadenza. In particolare, in relazione alle fattispecie che danno diritto alle agevolazioni per l’anno 2013, la dichiarazione IMU deve essere presentata entro il 30 giugno 2014. Si tratta delle seguenti fattispecie: - fabbricati costruiti e destinati dall’impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati (c.d. “immobili merce” invenduti) per i quali è prevista la soppressione della seconda rata IMU dell’anno 2013 e l’esenzione dall’imposta a decorrere dal 1° gennaio 2014; - immobili degli enti non commerciali che sono destinati esclusivamente allo svolgimento, con modalità non commerciali, di attività di ricerca scientifica per i quali è prevista l’esenzione, a decorrere dal 1° gennaio 2014; - alloggi appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa per i quali è prevista l’assimilazione alle abitazioni principali, a decorrere dal 1° luglio 2013; - fabbricati abitativi destinati agli alloggi sociali per i quali è prevista l’assimilazione all’abitazione principale, a decorrere dal 2014; 346 - immobili posseduti dal personale delle Forze armate, di Polizia, dei Vigili del fuoco o dal personale appartenente alla carriera prefettizia, per i quali non sono richieste le condizioni della dimora abituale e della residenza anagrafica ai fini dell’applicazione della disciplina IMU concernente l’abitazione principale e le relative pertinenze per i quali è prevista l’ assimilazione all’abitazione principale, a decorrere dal 1° luglio 2013. Rivalutazione di terreni e delle partecipazioni in capo alle persone fisiche In base alle disposizioni contenute nella Legge di Stabilità 2014, è possibile rideterminare il costo o valore fiscale di acquisto delle partecipazioni non quotate e dei terreni posseduti, al di fuori del regime d’impresa, alla data del 1° gennaio 2014, affrancando in tutto o in parte le plusvalenze conseguite, ex art. 67 comma 1 lett. a) - c-bis) del TUIR, allorché le partecipazioni o i terreni vengano ceduti a titolo oneroso. Entro il termine del 30 giugno 2014 occorre: - la redazione e asseverazione di perizia di stima da parte di un professionista abilitato; - il versamento dell’imposta sostitutiva pari al 2% (partecipazioni non qualificate) o al 4% (partecipazioni qualificate o terreni); il versamento può avvenire per l’intero importo in unica soluzione oppure in tre rate annuali. I soggetti che hanno già effettuato una precedente rideterminazione del valore delle partecipazioni e dei terreni possono detrarre dall’imposta sostitutiva dovuta per la nuova rivalutazione l’importo relativo all’imposta sostitutiva già versata o, in alternativa, chiedere il rimborso dell’imposta sostitutiva già pagata. IN EVIDENZA RIVALUTAZIONE DEI BENI D'IMPRESA E DELLE PARTECIPAZIONI RISERVATA ALLE SOCIETÀ DI CAPITALI ED ENTI COMMERCIALI CHE NON ADOTTANO I PRINCIPI CONTABILI INTERNAZIONALI Con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 12 maggio, sono state aggiornate le istruzioni al modello Unico 2014, per tenere conto delle modifiche portate dal D.L. n. 66/2014 ai fini del pagamento dell’imposta sostituta sulla rivalutazione, da effettuare intermente nel 2014 anziché in rate su più anni. Si tratta della rivalutazione dei beni d'impresa e delle partecipazioni riservata alle società di capitali ed enti commerciali che non adottano i principi contabili internazionali, riproposta dalla Legge di Stabilità 2014 (legge n. 147/2013, commi da 140 a 146). La rivalutazione va effettuata nel bilancio 2013 e deve riguardare tutti i beni risultanti dal bilancio al 31 dicembre 2012 appartenenti alla stessa categoria omogenea. Secondo la Legge di Stabilità, le imposte sostitutive dovute per il riconoscimento della rivalutazione e per l'eventuale affrancamento della riserva andavano versate in 3 rate annuali, senza interessi, entro il termine previsto per il saldo delle imposte sui redditi. Ora, per effetto della modifica apportata con D.L. n. 66/2014, le imposte sostitutive devono essere versate in unica soluzione entro il termine di versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta in Immobili & proprietà 6/2014 Scadenze Memorandum corso al 31 dicembre 2013, pertanto entro il 16 giugno 2014. Si attende peraltro ulteriore modifica in sede di conversione del D.L. n. 66/2014, con previsione di pagamento entro il 2014 ma in tre rate (16 giugno, 16 settembre e 16 dicembre). DICHIARAZIONE DEI REDDITI E QUADRO RW Le persone fisiche residenti in Italia che detengono, titolo di proprietà o di altro diritto reale, investimenti all’estero (es. immobili) e/o attività estere di natura finanziaria (es. conti correnti e depositi), devono compilare il quadro RW nel Modello Unico per la dichiarazione dei redditi. Il quadro RW deve essere compilato: - ai fini del cosiddetto “monitoraggio fiscale” (obbligo di indicare il valore di beni e attività finanziarie collocate all’estero, suscettibili di produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia); - ai fini del calcolo dell’imposta sul valore degli immobili all’estero (Ivie); - ai fini del calcolo dell’imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero (Ivafe). L’Ivie è dovuta, dal 2012, sui beni patrimoniali collocati all’estero: - immobili o diritti reali immobiliari (ad esempio, usufrutto o nuda proprietà) o quote di essi (comproprietà, multiproprietà …); Immobili & proprietà 6/2014 - oggetti preziosi e opere d’arte; - imbarcazioni o navi da diporto o altri beni mobili detenuti e/o iscritti nei pubblici registri esteri; attività patrimoniali detenute all’estero immesse in cassette di sicurezza. La misura dell’Ivie è: - 7,6 per mille sul costo di acquisto dell’immobile o altra attività patrimoniale; in mancanza del costo di acquisto, l’aliquota si applica al valore di mercato (o al valore catastale, se i beni sono situati in Paesi UE); - 4 per mille in caso di immobile all’estero adibito ad abitazione principale. È possibile dedurre l’eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui è situato l’immobile. L’ Ivafe è invece dovuta, sempre dal 2012, in relazione alle attività finanziarie all’estero. La misura dell’Ivafe è: - in misura fissa di euro 34,20, per ciascun conto corrente o libretto di risparmio detenuto all’estero, con valore medio di giacenza annuo superiore a euro 5.000,00; - zero, se il valore medio di giacenza è inferiore a euro 5.000,00 - in misura proporzionale con aliquota 1,5 per mille, sul valore al 31 dicembre 2013 delle altre attività finanziarie (es. depositi titoli). È possibile dedurre le eventuali imposte patrimoniali versate all’estero. 347 Opinioni Condominio Regolamento Compravendite immobiliari tra regolamenti “blindati” dal costruttore e prescrizioni del codice del consumo di Alberto Celeste- Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione L’applicazione delle prescrizioni enucleabili dal Codice del consumo – manifestamente volto a perseguire obiettivi di (ri)equilibrio e trasparenza nella prassi contrattuale – alla materia condominiale in generale ed ai regolamenti in particolare, non risulta affatto scontata, ma anche il riferimento allo schema causale (di matrice codicistica) delle clausole vessatorie, per quanto concerne le disposizioni del medesimo regolamento, registra numerose criticità operative; invero, nell’ottica della funzione economica unitaria che il contratto tra venditore ed acquirente è destinato a realizzare, occorre considerare, da un lato, la prestazione di dare, per fini di lucro, assunta dal costruttore-imprenditore e, dall’altro, il soddisfacimento dei bisogni abitativi del condomino-consumatore che acquista l’appartamento. Le clausole vessatorie nei regolamenti contrattuali Prima di addentrarsi nell’analisi della tematica, occorre, però, operare dei necessari distinguo, in quanto non tutte le tipologie di regolamento di condominio sono interessate dal controllo sulla vessatorietà delle relative clausole. Invero, una corretta indagine sulle clausole vessatorie è estranea ai regolamenti di origine “interna”, ossia approvati dall’assemblea con il quorum di cui all’art. 1138, comma 3, cod. civ., poiché gli stessi traggono proprio dall’approvazione assembleare il fondamento della loro obbligatorietà; invero, deve negarsi la natura contrattuale dei regolamenti costituiti mediante una deliberazione collegiale dell’organo condominiale, con cui si intende munire la compagine condominiale di un complesso di regole giuridiche per la gestione del condominio piuttosto che comporre un contrasto tra una pluralità di parti. Peraltro, anche se approvato all’unanimità di tutti i proprietari, in tale regolamento assembleare, difetterebbe pur sempre l’imprescindibile riferimento alle contrapposte posizioni soggettive del “consumatore” e del “professionista”, che è la ratio della disciplina speciale; qualora tale regolamento contempli clausole “vessatorie” ex artt. 33 ss. del 348 D.Lgs. n. 206/2003 (o addirittura più stringenti), l’inoperatività della tutela di protezione del consumatore consegue al fatto che, in questa ipotesi, non si rinviene alcuna imposizione da parte di un terzo (soggetto forte), ma la volontaria autosoggezione da parte della stessa compagine condominiale in via assolutamente paritetica (c.d. autoregolamentazione non eterologa). La nuova normativa di matrice comunitaria trova, invece, la sua piena operatività nei regolamenti di origine “esterna”, ossia predisposti dall’originario unico proprietario dell’edificio o dal costruttore, ed accettati o comunque richiamati dai singoli acquirenti delle unità immobiliari che compongono lo stabile condominiale, in quanto, da un lato, tali regolamenti risultano oggettivamente ricollegabili all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale svolta dal proprietario-costruttore, e, dall’altro, il condomino (persona fisica), acquirente dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva, riveste lo status di consumatore, perché intende soddisfare, con il suddetto acquisto, esigenze di natura personale, non legate allo svolgimento di attività, a sua volta eventualmente, imprenditoriale o professionale. Ci si riferisce soprattutto a quelle clausole del regolamento definite “contrattuali”, le quali, proprio Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Condominio perché traggono la loro fonte nel predetto titolo di natura convenzionale, possono restringere o comprimere l’esercizio dei poteri di disposizione o/e di godimento dei condomini in ordine sia alle cose comuni sia a quelle di proprietà esclusiva, imponendo vincoli di inalienabilità, circoscrivendo la libertà di godimento, vietando alcune destinazioni di uso, ecc.; minori preoccupazioni destano, invece, le clausole c.d. regolamentari, volte alla mera disciplina d’uso o di godimento delle cose comuni, le quali - secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente - possono essere modificate con i quorum di cui all’art. 1136, comma 2, cod. civ., anche se inserite in un regolamento contrattuale, essendo rilevante il contenuto concreto della clausola, e non le modalità con cui il regolamento viene formato. A questo punto, occorre verificare se, ai sensi dell'art. 1341, comma 2, cod. civ., alcune clausole contenute nel regolamento contrattuale, poiché ritenute vessatorie, debbano essere oggetto di specifica approvazione per iscritto (1). La tematica della c.d. doppia sottoscrizione era stata analizzata soprattutto in ordine alla possibilità di compromettere la controversia ex art. 1137 cod. civ. in arbitri, tuttavia, l'intesa negoziale rimaneva fuori dalla predetta previsione legislativa, trattandosi di una relatio perfetta, poiché il richiamo era opera di entrambe le parti contraenti: invero, il regolamento contrattuale, anche quando non fosse materialmente inserito nel testo del contratto di compravendita dei singoli appartamenti dell'edificio, “faceva corpo con esso, perché espressamente richiamato e approvato, di guisa che le sue clausole rientravano, almeno per relationem, nel tessuto dei singoli contratti di acquisto” (2). In pratica - secondo i giudici di Piazza Cavour nella formazione del regolamento convenzionale di condominio, considerato appunto come “contratto a relazione perfetta”, ossia quello il cui contenuto sia determinato in relazione ad un atto, esterno al contratto che si stipula, del quale però le parti hanno effettiva conoscenza, può ritenersi realizzato l’accordo delle parti sul contenuto dello stesso; tale contratto è, infatti, caratterizzato da una cooperazione delle parti nella scelta delle clausole di riferimento e nell'approvazione di quella che disponeva il richiamo, la quale importava l'espressione di una manifestazione di volontà di entrambe le parti. Il regolamento condominiale, in altre parole, quando era recepito nel contesto dell'atto di trasferimento dell'appartamento, non doveva considerarsi come qualcosa di estraneo al consenso manifestato in quella sede e non presupponeva un'ulteriore manifestazione di volontà, ma contribuiva a definire la prestazione quando specificava gli strumenti per l'utilizzazione delle cose comuni e prefigurava gli schemi per l'operatività dei servizi (3). Anche il prezzo concordato, in fondo, viene usualmente rapportato alle previste modalità di uso della proprietà comune connesse all'acquisto della singola unità immobiliare. In realtà, nella prassi delle negoziazioni nel settore immobiliare, succede che un terzo, originario e unico proprietario dell’immobile (il costruttore o l’unico acquirente dell’intero edificio) predisponga unilateralmente (e di fatto imponga) un testo regolamentare (il c.d. regolamento esterno o contrattuale) che viene successivamente “accettato”, via via, dagli acquirenti delle singole unità immobiliari; tale atto, che sovente contempla condizioni ingiustificatamente gravose e discriminatorie per gli acquirenti (e futuri condomini), viene allegato ai singoli atti di acquisto stipulati dai diversi condomini, rimane trascritto presso la Conservatoria dei registri immobiliari (ora Agenzia per il territorio) ed è menzionato come parte integrante dell’atto di compravendita che l’acquirente dichiara di conoscere ed accettare, oppure, anche se non materialmente inserito nel contratto di compravendita, fa corpo con esso allorché sia espressamente richiamato ed approvato, sicché le sue clausole rientrano per relationem nel contenuto dei singoli contratti di acquisto, vincolando i singoli acquirenti indipendentemente dalla trascrizione. La dottrina più attenta (4) ha, però, evidenziato l’anomalia di tale regolamento, perché indirizzato a disciplinare - non solo i rapporti tra i singoli proprietari in ordine all’uso dei beni comuni, bensì anche - i rapporti tra condomini e costruttore/venditore, e che, in sede assembleare, difficilmente potrebbero essere deliberati (salvo manifestazioni “masochistiche”) proprio perché implicanti limita- (1) Si consenta il rinvio a Celeste, Regolamento contrattuale e tutela del consumatore-condomino, in Immob. & diritto, 2011, 10, 24. (2) Così Cass. 10 gennaio 1986, n. 73, in Vita notar., 1986, 251. (3) V., tra le pronunce di legittimità, Cass. 14 gennaio 1993, n. 395, in Arch. loc. e cond., 1993, 531; Cass. 7 gennaio 1992, n. 49, in Giur. it., 1992, I, 1, 1465; sul versante della giurisprudenza di merito, si segnala Trib. Milano 6 febbraio 1992, in Arch. loc. e cond., 1992, 619. (4) Belli, Le clausole vessatorie nel regolamento “contrattuale” di condominio, in i Contratti, 2012, 3, 181. Immobili & proprietà 6/2014 349 Opinioni Condominio zioni cospicue ai diritti di proprietà dei singoli e della collettività condominiale. Tale regolamento - a differenza di quello assembleare - non viene discusso ed approvato collegialmente e diventa vincolante ed obbligatorio, per ogni condomino, soltanto in forza di un negozio giuridico, distinto ed autonomo, con il quale quest’ultimo si impegna ad osservarlo integralmente secondo la logica del “prendere o lasciare”: in buona sostanza, un negozio che non deriva dalla volontà dell’assemblea ma da un fatto del terzo (costruttore/venditore dell’edificio) che esercita pienamente la propria supremazia negoziale ed economica. A fronte delle clausole più “invasive” dei diritti dei proprietari, si è posta, dunque, la questione della possibilità della loro rimozione dal testo regolamentare “contrattuale” o attraverso una declaratoria di illegittimità delle stesse da parte del magistrato, oppure per mezzo di una deliberazione assembleare adottata a maggioranza piuttosto che con il consenso unanime di tutti i partecipanti al condomìnio. Si tenta così di superare l’orientamento dominante, secondo cui tali previsioni sarebbero immodificabili senza l’unanimità dei contraenti, sul presupposto che il regolamento in esame, configurando un vero e proprio “contratto condominiale” (avente, in quanto tale, forza di legge tra le parti), non possa consentire la modifica o la soppressione delle clausole negoziali “aggiunte” se non in forza di un nuovo accordo tra contraenti adottato all’unanimità (5); é, infatti, intuitivo che, richiedendosi il consenso unanime, il costruttore potrebbe scegliere di rimanere “a vita” proprietario anche di una piccola unità immobiliare dello stabile da lui stesso costruito, comportando così l’impossibilità, di fatto, che le clausole regolamentari predisposte in suo favore vengano in futuro modificate (si pensi alla riserva della proprietà della facciata dell’edificio per permettergli di utilizzarla a scopi pubblicitari). L’intervento della normativa consumeristica (5) Per un accenno dottrinario alla problematica, anche se prima dell’avvento della speciale legislazione consumeristica, Marmocchi, Condizioni generali e condominio, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, Milano, 1986; Bessone, Condizioni generali di contratto, contratti in materia immobiliare e tutela degli operatori non “professionali”, in Giur. it., 1980, IV, 177 ss. (6) Sul versante dottrinale, Belli, Condominio “consumatore”: nullità di protezione delle clausole vessatorie nei contratti di assicurazione e intervento integrativo del giudice, in Giur. merito, 2013, 282; Tortorici, Il condominio-consumatore e i diversi rapporti contrattuali, in Immob. & diritto, 2008, 10, 6; Dona - Savasta, Il condominio inteso come consumatore: nuovi scenari di tutela e difficoltà applicative, in Merito, 2005, 6, 20; Terzago, Regolamento contrattuale di condominio c.d. esterno, clausole vessatorie e verifica in base alle norme del D.Lgs. n. 206/2005, in Immob. & diritto, 2006, 9, 7; Id, Condominio e tutela del consumatore, in Riv. giur. edil., 2001, I, 866. 350 Nel nuovo panorama contraddistinto dalla vigenza della legge 6 febbraio 1996, n. 52 e del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, si è tentato di inquadrare le clausole del regolamento di condominio predisposto dall’originario proprietario dell’edificio o dal costruttore, astrattamente idonee a menomare i diritti dei singoli acquirenti sulle parti comuni dello stabile o/e sugli appartamenti di proprietà esclusiva (6). Nello specifico, in primo momento, la legge n. 52/1996, recependo in Italia la direttiva 1993/13/CEE, aveva aggiunto, al titolo II del libro IV del codice civile, il capo IV-bis, rubricato “dei contratti del consumatore”, provocando l’inserimento, nel tessuto dello stesso codice, di cinque articoli, dal 1469-bis al 1469-sexies, disciplinanti le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. Erano considerate “vessatorie” le clausole che, malgrado la buona fede, determinassero a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto stipulato tra questi ed un professionista che, nell’àmbito della sua attività imprenditoriale, utilizzava il contratto avente ad oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, salvo il rilievo che assumesse, nel giudizio sulla vessatorietà, lo svolgimento di una trattativa individuale (purché consapevole, seria ed effettiva). Si stilava, poi, un elenco, meramente esemplificativo, delle suddette clausole vessatorie - che, però, costituendo una presunzione “relativa”, ammetteva, in sede giudiziale, la possibilità di provare il contrario - stabilendo che erano “inefficaci” (ora nulle), mentre il contratto in cui le stesse erano inserite continuava a mantenere la sua validità, e consentendo al singolo consumatore di invocare dal giudice competente l’inibitoria dell’uso di quelle clausole di cui venisse accertata l’abusività. Successivamente, al fine di dare attuazione alla direttiva CE in materia di consumatori e di armonizzare la nostra legislazione a quella dei Paesi mem- Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Condominio bri, si è approvato il D.Lgs. n. 206/2005, sicché i summenzionati cinque articoli dal 1469-bis al 1469-sexies sono confluiti, senza sostanziali modifiche, negli articoli, rispettivamente, dal 33 al 37 del c.d. Codice del consumo. In buona sostanza, per applicare la tutela “antivessatoria”, occorrono due requisiti: a) oggettivo, perché il contratto deve essere riconducibile nell’alveo dei negozi aventi ad oggetto “la cessione dei beni o la prestazione dei servizi”; b) soggettivo, perché il contratto deve essere riferibile alle due parti, definibili come “consumatore”, da intendersi come la persona fisica, il quale agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta, e come “professionista”, da individuarsi nella persona fisica o giuridica, pubblica o privata, il quale, nel quadro della propria attività imprenditoriale et similia, utilizza il contratto concluso con il suddetto consumatore. Pertanto, si è dato atto che, nella vita quotidiana, il condominio può identificarsi come un’aggregazione di “persone fisiche” - che abitano, vivono, lavorano, ecc. nell’edificio in regime di condominio - le quali devono necessariamente interfacciarsi con vari “professionisti”, soprattutto per la gestione degli impianti comuni, ma anche per la prestazione dei servizi di acqua, luce e gas (7). Per quel che rileva in questa sede, atteso che, nella suddetta ipotesi del regolamento contrattuale, ci troviamo in presenza di un vero e proprio “contratto condominiale di cessione di beni a scopo di consumo”, all’interno del quale si possono considerare “vessatorie” le clausole tese a determinare, a carico dei singoli condomini, acquirenti delle unità immobiliari dello stabile in condominio, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi di derivazione contrattuale, dovendo, però, l’accertamento dello squilibrio tra diritti ed obblighi del consumatore correlarsi alla valutazione dell’intero assetto negoziale. Ne consegue che si dovranno porre a confronto, da un lato, l’interesse del venditore-predisponente a conseguire un notevole pregio dell’edificio e così il gradimento dei successivi condomini (e, quindi, un maggiore valore di mercato dell’immobile), e, dall’altro, il contrapposto interesse dei singoli alla pie- na espansione della proprietà comune ed individuale, sia pure calcolando i benefici che le restrizioni convenzionali ai poteri assoluti sul relativo alloggio assicurano riguardo alle sottese esigenze abitative. Tuttavia, al fine di delineare il carattere della vessatorietà della clausola del regolamento contrattuale e, quindi, definire l’onerosità delle posizioni riservate al condomino acquirente dalle disposizioni predisposte dal costruttore, va considerato che il mercato immobiliare assicura, di regola, all’imprenditore-costruttore una condizione dominante di forza contrattuale, rappresentando ciò un ostacolo insormontabile per l’effettività della contrattazione: il regolamento c.d. di origine esterna, infatti, preesiste rispetto al momento della stipula del singolo atto di acquisto, essendo difficile pensare che il condomino-acquirente possa concretamente contribuire a determinarne il contenuto, influendo sulle clausole preformulate per rivelare i propri interessi (8). Una certa “negoziazione” del contenuto del regolamento può immaginarsi solo nel momento in cui il venditore-predisponente aliena la prima unità immobiliare, che peraltro costituisce il momento in cui sorge il condominio, ma, dopo, i successivi acquirenti delle altre unità immobiliari si pongono come soggetti ai quali “estendere” gli effetti del regolamento già adottato, il cui testo si rivela oramai, per così dire, blindato; considerazioni queste che avranno un ruolo decisivo nell’accertamento giudiziale dell’abusività delle clausole regolamentari, specie per quel che concerne l’assenza di trattativa individuale intesa come fattore discriminante della natura vessatoria della singola clausola in esame (ai sensi dell’art. 1469-ter, comma 4, cod. civ., ora art. 34, ultimo comma, del Codice del consumo). (7) In ordine alla generale applicabilità della normativa speciale consumeristica alla materia condominiale, può richiamarsi, tra le pronunce di legittimità, la fondamentale Cass. 24 luglio 2001, n. 10086, in Corr. giur., 2001, 1436, mentre, tra le pronunce di merito: Trib. Milano 8 settembre 2008, in Arch. loc. e cond., 2009, 382, Trib. Modena 20 ottobre 2004, in Meri- to, 2005, 6, 19, Trib. Pescara 28 febbraio 2003, in PQM, 2003, 2, 85. (8) Né un ruolo di “garanzia” può conferirsi al notaio rogante, il quale, di solito, si limita a rendere edotte le parti, inserendo la clausola di stile per cui il “regolamento si ha per letto e conosciuto”. Immobili & proprietà 6/2014 Le criticità della prassi immobiliare Al contempo, non si può disconoscere che, talvolta, il costruttore-venditore possa rendersi, per così dire, interprete privilegiato delle esigenze abitative dei proprietari delle unità immobiliari che compongono lo stabile condominiale, inserendo, nel testo del regolamento da lui predisposto, limiti alle facoltà dominicali relative alle parti comuni dello 351 Opinioni Condominio stabile ed alle porzioni di proprietà esclusiva, destinati ad integrare gli atti di cessione dei rispettivi alloggi (9). Parimenti, va dato che tutta la normativa speciale presuppone, pur sempre, l’approvazione di clausole che stabiliscano particolari vantaggi esclusivamente a favore di chi le ha predisposte, laddove il regolamento contrattuale approntato dall’originario unico proprietario dell’edificio vincola anche quest’ultimo, almeno inizialmente, ossia fin tanto non abbia alienato l’ultima unità immobiliare dello stabile da lui costruito, allo stesso modo degli altri acquirenti in ordine alla gestione ed amministrazione del condominio. In realtà, la soluzione della questione non è agevole, e va trovata caso per caso, in quanto il legislatore speciale, nel configurare le clausole vessatorie, prende le mosse da una prospettiva di “contrapposizione di interessi” tra le parti del contratto, da un lato, assicurando a quello più debole di poter concretamente valutare la convenienza di stringere o meno l'obbligo contrattuale, e, dall'altro, impedendo a quello più forte, che ha unilateralmente fissato il contenuto del futuro accordo, di introdurre in modo surrettizio clausole eccessivamente impegnative per la parte cui spetta solo aderirvi. Talvolta, l’idea di antagonismo non si ravvisa nel regolamento condominiale, poiché si pensa, di regola, alla parità, al parallelismo e alla coincidenza di interessi nella medesima finalità, tanto che non è agevole sempre ravvisare in concreto abusi o soperchierie, a favore di uno ed a danno di un altro. Diverso è il discorso qualora le clausole regolamentari predisposte dal costruttore non abbiano per oggetto interessi “generali” della collettività condominiale, ma rivelino la disparità di forza negoziale, che connota il momento dell’acquisto delle unità immobiliari da parte dei condomini, consentendo ad un terzo, originario costruttore dell’edificio ma non più proprietario di alcuna unità immobiliare in esso, di allestire vincoli alle proprietà - di solito, tesi ad incrementare il pregio dell’edificio e il valore capitale del bene da alienare - mentre i singoli, pur di far parte di quella compagine condominiale, “subiscono” passivamente questa imposizione dall’esterno (finendo, poi, per accettare obtorto collo, clausole insidiose, pur di non perdere la caparra versata al venditore o/e la provvigione corrisposta al mediatore immobiliare). Non si può disconoscere che gli acquirenti delle unità immobiliari poste nell’edificio in condominio sono pur sempre estranei all’atto di riferimento, che è predisposto unilateralmente dal costruttore, né è ragionevolmente pensabile una trattativa o una discussione precedente che consenta ai singoli di dare al contratto nel suo complesso un contenuto più adeguato ai propri interessi. A ben vedere, l’applicazione della normativa consumeristica (di matrice comunitaria) al regolamento contrattuale di condominio presenta numerose criticità operative. Va, innanzitutto, premesso che le disposizioni di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ., introdotte dalla legge n. 52/1996, e gli artt. 33 ss. del Codice del consumo, introdotte dal D.Lgs. n. 206/2005, non si applicano ai contratti stipulati prima della loro entrata in vigore - salvo quelle che contengono regole di carattere processuale, in forza del principio tempus regit actum - in virtù del principio generale di irretroattività della legge (10), sicché l’àmbito di operatività della tematica si riduce notevolmente, ossia ai soli regolamenti contrattuali di condominio redatti soltanto negli ultimi tempi. Ciò premesso, la tutela del consumatore riguardo alle clausole vessatorie del suddetto regolamento non si rivela affatto scontata, se si considera che tali clausole sono inserite in un atto, appunto, il regolamento, che, di regola, non è inserito nel contratto di compravendita: in altri termini, il regolamento di condominio rientra per relationem nel contratto di compravendita, “fa corpo” con esso in quanto ivi richiamato e approvato. Pertanto, il condomino/consumatore può agire in giudizio per far valere la “nullità” della clausola vessatoria contenuta nel regolamento contrattuale - mantenendo “valido per il resto” ex art. 36, comma 1, del Codice del consumo - nei confronti del costruttore/professionista: in pratica, l’attore invoca la nullità parziale del contratto di compravendita limitatamente alla parte in cui richiama il regolamento di condominio - e solo quella, perché, per il resto, gli preme conservare la casa dove abita - e, quindi, il suddetto regolamento nella parte in cui contiene la clausola ritenuta vessatoria (perché inibisce, vieta, discrimina, ecc.). La stranezza è che il costruttore, una volta che, realizzata la sua finalità imprenditoriale, ha venduto l’ultima unità immobiliare di cui è composto lo stabile che ha edificato, è oramai fuoriuscito dalla (9) Scarpa, Le clausole vessatorie nel regolamento di condominio, in Rass. loc. e cond., 1999, 481. (10) V., ex multis, Cass. 6 luglio 2010, n. 15871, in Foro it., Rep. 2010, voce Contratto in genere, n. 387. 352 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Condominio compagine condominiale (potendo essere, nel frattempo, morto, trasferito, espatriato, ecc.), e sinceramente gli interessa poco se quella clausola - che ha, a suo tempo, inserito nel regolamento di condominio, che ha fatto richiamare nei singoli atti di acquisto - venga espunta dal medesimo regolamento (si pensi alla disposizione che vieta di adibire gli appartamenti a studio medico). A differenza dell’applicabilità della tutela del consumatore nei confronti di soggetti (quali banche, assicurazioni, ecc.) in cui il rapporto giuridico permane nel tempo, è curioso che qui il regolamento di condominio viene predisposto da un soggetto, il costruttore/venditore, il quale, esaurita la sua attività, diventa un terzo estraneo, laddove lo stesso regolamento coinvolge soltanto altri soggetti, i condomini, che sono in una situazione di parità, tutti soggetti “deboli” non più contrapposti ad un soggetto “forte” a loro antagonista, facendo venir meno la ratio che sta alla base della suddetta tutela del consumatore. Diverso, ovviamente, è se lo stesso costruttore ancora detiene un’unità immobiliare nello stabile ed intende mantenere la posizione di privilegio contenuta nel regolamento, come, ad esempio, attribuendosi la nomina del portiere o/e dell’amministratore, riservandosi un’area altrimenti considerata comune, esentando il suo appartamento da ogni spesa di conservazione dell’edificio, ecc. Ammessa, poi, l’azionabilità della domanda di nullità relativa di cui sopra, sorge la questione se il relativo giudizio debba o meno essere integrato nei confronti di tutti i condomini, perché l’eventuale caducazione di una clausola del regolamento contrattuale potrebbe configurare un’ipotesi di litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102 c.p.c., quantomeno per quelle disposizioni che non interessano il singolo (si pensi all’adibizione dell’appartamento a studio medico), ma coinvolgono l’intera collettività (si pensi all’esenzione di spese di manutenzione del fabbricato o all’utilizzo del cortile comune). Tuttavia, si potrebbe sostenere che già la norma generale dell’art. 1322 cod. civ., dispone che “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge”; per il resto, non appare necessario “scomodare” il Codice del consumo per affermare che il regolamento di condominio di natura contrattuale, in forza del disposto del comma 4 dell’art. 1138 cod. civ. - secondo una parte della giurisprudenza applicabile anche a quest’ultimo - non può “in alcun modo” menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e “in nessun caso” può derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 cod. civ., cui vanno aggiunti gli artt. 63, 66, 67 e 69 disp. att. cod. civ. (11). Al massimo, troverà applicazione l’art. 1341 cod. civ. - trattandosi di un testo, il regolamento, precostituito unilateralmente da un terzo, ossia il costruttore, ed accettato dai singoli acquirenti delle unità immobiliari dello stabile - secondo il quale le “condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe potuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza” (comma 1), prescrivendo la “specifica approvazione per iscritto”, a pena dell’inefficacia, di particolari condizioni che determinano vantaggi per chi le ha unilateralmente proposte (comma 2). Analizzando funditus la tematica, si registra che quasi tutte le clausole indicate come “vessatorie” nell’art. 33 del D.Lgs. n. 206/2005, riguardano atti, fatti, condotte, ecc. del consumatore nei confronti del professionista, laddove, per quel che concerne più da vicino il regolamento contrattuale, interessano specificatamente, invece, comportamenti del singolo nei confronti del condominio. Si tenga presente, inoltre, che il Codice del consumo non trova applicazione: a) se il trasferimento dell’appartamento avviene successivamente - non più dal costruttore, bensì - da un privato ad un privato (perché non sussiste più lo status del professionista); b) se il costruttore ha venduto originariamente ad una società (perché, non essendo persona fisica, non può qualificarsi come consumatore); c) se l’acquisto avviene da parte di una persona fisica ma non per soddisfare interessi strettamente personali (ad esempio, per adibire l’unità immobiliare ad esercizio commerciale); d) se l’originario venditore non era un imprenditore ma l’unico proprietario del fabbricato (avendolo costruito per la propria famiglia e, poi, cresciuti i figli, l’ha frazionato in unità abitative autonome e alienato a ciascuno di essi). (11) Esempi emblematici sono la clausola che riservi la nomina dell’amministratore al costruttore una volta che i condomini sono diventati più di otto, o che contempli quorum assem- bleari diversi, oppure precluda l’impugnativa delle deliberazioni viziate. Immobili & proprietà 6/2014 353 Opinioni Condominio A ciò si aggiunga che quelle clausole che sembrano la manifestazione di una sperequazione tra le parti contraenti - si pensi alla riserva di proprietà di una parte presunta comune ed all’esenzione di una determinata unità immobiliare dalle spese - in realtà, sono espressamente previste dalla disciplina condominiale, che stabilisce, rispettivamente, all’art. 1117, comma 1, cod. civ., che “sono di proprietà comune … se il contrario non risulta dal titolo” e, all’art. 1123, comma 1, cod. civ., che “le spese … sono sostenute dai condomini … salvo diversa convenzione”, laddove il titolo o la convenzione possono rinvenirsi in una disposizione del regolamento contrattuale o approvato all’unanimità dei partecipanti. In definitiva, l’acquirente, firmando il contratto di compravendita, dichiara di “ben conoscere” il regolamento che si impegna a rispettare o, quantomeno, dovrebbe farsi parte diligente per procurarsi tale atto e leggersi le disposizioni che contiene (la consueta trascrizione dovrebbe garantire la conoscibilità dello stesso); se tali regole non gli stanno bene, nessuno lo obbliga a comprare quell’appartamento sito in quello stabile, per cui appare irrealistico che possa pretendere, in sede di stipula, di discutere o negoziare il contenuto del regolamento condominiale, con la possibilità di modificarne le clausole. In fondo, il costruttore, predisponendo il regolamento quando ancora il condominio non era ancora costituito, ha fissato alcuni precetti (generali ed 354 astratti) di convivenza valevoli per tutti coloro che entrassero a far parte di quella compagine condominiale e, proprio al fine di conferire maggiori stabilità agli stessi, ha predisposto un testo non modificabile con maggioranze volubili: nell’ipotesi di acquisto dell’appartamento, si accettano in toto tali dettami, salva sempre la possibilità di cambiarli qualora si raggiunga il consenso unanime di tutti i partecipanti. D’altronde, non sempre la clausola, imposta dal costruttore e subita dall’acquirente, porta necessariamente ad una posizione vantaggiosa per il primo e penalizzante per il secondo, perché, ad esempio, il vietare la destinazione degli appartamenti ad uso commerciale, a studi professionali, o ad uffici pubblici, ecc. può far conseguire un aumento economico dell’edificio nel suo complesso e della singola unità abitativa che, in caso di successiva vendita, registrerebbe un’indubbia rivalutazione proficua per l’originario acquirente, stante l’avvenuta “blindatura” dell’assetto proprietario esclusivamente in una prospettiva residenziale; inoltre, per assicurare il miglior godimento delle singole unità immobiliari e del complesso nonché per assicurare l’omogeneità nell’utilizzazione delle stesse ed evitare i danni reciproci, si può vincolare l’utilizzo degli appartamenti in conformità con la destinazione dell’edificio, come si possono impedire, a beneficio di tutti, quelle iniziative individuali che turbino l’armonia dell’insieme. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Condominio Deliberazioni Forma dell’atto d’impugnazione delle delibere condominiali di Alessandro Gallucci - Avvocato in Lecce Il diritto del condominio ad impugnare le delibere assembleari, le quali - a seconda della tipologia del vizio - possono essere considerate nulle o annullabili, per essere correttamente esercitato deve rispettare determinati requisiti formali richiesti a pena dell’inammissibilità dell’azione. L’art. 1137 cod. civ., novellato dalla legge n. 220/2012 (la così detta riforma del condominio), parrebbe imporre l’uso dell’atto di citazione per introdurre il giudizio d’impugnazione delle delibere, così chiudendo una querelle risolta pilatescamente dalle Sezioni Unite nel 2011. Vizi delle delibere condominiali Per impugnare un atto e chiederne l’invalidazione, è evidente, devono esserci dei motivi tali da poter far considerare quell’atto illegittimo. Nel caso delle delibere assunte dalle assemblee condominiali, come per quelle societarie, i vizi possono essere ricondotti nell’ambito delle categorie della nullità e dell’annullabilità. Prima dell’ entrata in vigore della legge n. 220/2012, l’art. 1137 cod. civ. faceva generico riferimento al diritto del condomino d’impugnare le deliberazioni contrarie alla legge e/o al regolamento di condominio prevedendo un breve termine di decadenza (1). Il codice civile non faceva alcun riferimento alla tipologia di vizi da cui potevano essere afflitte le delibere condominiali; in questo contesto, come spesso è accaduto e accade per la materia condominiale, dottrina e giurisprudenza hanno svolto uno ruolo fondamentale e determi- nante. Fondamentale perché gli studiosi e di par loro i giudici, nei rispettivi ambiti di competenza, hanno tracciato un solco tra vizi che comportavano nullità e quelli da cui far discendere l’annullabilità del deliberato assembleare (2). Determinante perché il diritto vivente che s’è venuto così a creare (suggellato in una pronuncia resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nel marzo del 2005 (3)) è divenuto l’addentellato normativo di fatto dal quale far discendere i tempi d’impugnazione delle delibere (vedi infra) e quindi l’ammissibilità delle azioni giudiziali. La modifica delle norme condominiali non ha prodotto sostanziali novità in tema di cause d’invalidità delle delibere. Non che non ci sia stato nessun cambiamento, ma il Legislatore della riforma non ha inteso introdurre nell’ordinamento né un’elencazione dei vizi comportanti la nullità o l’annullabilità – limitandosi a sporadiche e circostanziate individuazioni di vizi (4) –, né tanto meno ha (1) Art. 1137, secondo e terzo, comma vecchia formulazione: “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può fare ricorso all'autorità giudiziaria , ma il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità stessa. Il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti”. (2) Cfr. G. Branca, Comunione, Condominio negli edifici, Bologna, 1982. (3) Si legge nella sentenza n. 4806/05 che devono “qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto”; devono, “invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto” (Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005, n. 4806). (4) La legge n. 220/2012, novellando il codice civile, ha previsto alcune specifiche ipotesi di vizi da cui discende la nullità o l’annullabilità della delibera. In tema di modificazione della destinazione d’uso delle parti comuni, l’art. 1117-ter cod. civ. specifica che “la convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e Immobili & proprietà 6/2014 355 Opinioni Condominio enunciato dei principi cui rifarsi per catalogare i vizi medesimi. Ciò significa che, a parte le ipotesi specificamente menzionate, l’impianto motivazionale e l’elencazione contenuta nella sentenza n. 4806/05 resta tutt’ora un punto di riferimento in materia. Tempistica d’impugnazione della delibera invalida La riconduzione di un vizio dal quale è affetta una deliberazione assembleare nell’alveo della nullità o dell’annullabilità non è questione meramente nominalistica. Come per la materia contrattuale, affermare che una delibera è nulla o annullabile incide profondamente sui tempi che l’interessato ad impugnare ha per iniziare l’azione giudiziale (5). D’altronde, è lo stesso art. 1137 cod. civ. a specificare che l’annullamento della delibera può essere chiesto, entro trenta giorni dalla deliberazione, dai condomini presenti, che siano dissenzienti ed astenuti, e dalla comunicazione del verbale per i condomini assenti (6). Sul punto è utile evidenziare che la norma testé citata nella sua formulazione vigente prima dell’intervento novellatore della legge n. 220/2012 non faceva riferimento all’annullamento, ma più semplicemente alla possibilità di adire l’Autorità giudiziaria nel medesimo termine. Ad ogni buon conto anche in passato non v’era dubbio che l’art. 1137 cod. civ. fosse riferito alle sole delibere annullabili e non anche a quelle nulle (7). In questo contesto, pertanto, è pacifico che le deliberazioni annullabili debbano essere impugnate nei termini di cui all’art. 1137 cod. civ. mentre quelle nulle possano essere impugnate in ogni tempo, restando salvi solamente gli effetti dell'usucapione e la nuova destinazione d'uso”. L’art. 1129, comma 14, cod. civ. prevede la nullità della nomina per il caso in cui l’amministratore non dettagli analiticamente il compenso richiesto per la propria attività. L’art. 66 disp. att. cod. civ. prevede l’annullamento della delibera per i vizi concernenti le modalità di convocazione. (5) È fondamentale ricordare che ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 5, comma 1-bis, D.Lgs. n. 28/2010 e 71quater disp. att. cod. civ. l’impugnativa della delibera condominiale è sottoposto all’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. (6) Art. 1137, comma 2, cod. civ.: “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti”. (7) In tal senso è stato affermato che “l’articolo (1137 cod. civ. n.d.A.) ha un’ampia portata ma non si riferisce a quelle decisioni assembleari che sono senza effetto in forza dei principi 356 della prescrizione delle azioni di ripetizione (8). Quanto alle modalità di conteggio dei termini s’è detto che per i presenti, astenuti e dissenzienti, i trenta giorni iniziano a decorrere dalla data di deliberazione mentre per gli assenti, il termine iniziale è quello in cui hanno avuto conoscenza legale (ex art. 1335 cod. civ.) del verbale; ciò vuol dire che qualora eventualmente non vi sia stata consegna a mano, il termine perentorio decadenziale inizia a decorrere dal giorno in cui l’avviso di giacenza della raccomandata è stato depositato nella cassetta postale e non da quello in cui il condomino ha materialmente ritirato l’avviso dall’ufficio postale ov’era in giacenza (9). Modalità d’impugnazione, novità legislative e prime pronunce giurisprudenziali Chiarito chi, perché e quando, può impugnare una deliberazione assembleare, assume fondamentale importanza comprendere in che modo la decisione assembleare debba essere posta al vaglio dell’Autorità Giudiziaria. La questione non è assolutamente di poco conto, in quanto sbagliare la forma dell’atto introduttivo vuol dire (anche se vedremo che in passato non sempre era così) vedersi rigettata l’azione sul nascere perché inammissibile, con conseguente rischio, nel caso di deliberazioni qualificabili come annullabili, della decadenza dal diritto ad impugnare per lo spirare del termine perentorio previsto dalla legge. Al riguardo la situazione è stata per lungo tempo notevolmente incerta (10) a tal punto da rendere necessario, nell’aprile del 2011, un intervento risolutore delle Sezioni Unite. La legge di riforma del condominio, modificando l’art. 1137 cod. civ., è generali indiscutibili: e perciò si possono attaccare in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse” (così Branca, op. cit., 651). (8) Artt. 1421-1422 cod. civ. dettati in materia di nullità dei contratti ma aventi portata generale, cfr. in tal senso Cass. 19 marzo 2010, n. 6714. (9) Sulla presunzione di conoscenza degli atti recettizi ex art. 1335 cod. civ. tra le tante si veda, da ultimo, Cass. 21 gennaio 2014, n. 1188, nella quale è affermato che “le lettere raccomandate si presumono conosciute, nel caso di mancata consegna per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l'ufficio postale (Cass. 24 aprile 2003, n. 6527; Cass. 1° aprile 1997, n. 2847)”. (10) Al riguardo in una pronuncia del Tribunale di Salerno del 23 maggio 2009, la quale espone la situazione citando il contrasto in atto in sede di legittimità si legge che “la questione della forma dell'atto di impugnazione delle delibere condominiali è in realtà tuttora massimamente controversa” (così Trib. Salerno 23 giugno 2009). Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Condominio andata ad intervenire anche su questo argomento rimettendo, come si suole dire, tutto in gioco. Vista la rilevanza pratica della situazione ante riforma (11) è utile rappresentare qui di seguito le ragioni del contrasto, la soluzione offerta dalle Sezioni Unite, l’intervento legislativo novellatore e le prime pronunce in tema. Oggetto del contrasto, per lunghissimo periodo, è stato il significato da attribuire al termine ricorso indicato nella formulazione originaria dell’art. 1137 cod. civ. (12). Come sempre accade quando sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite, l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza non era univoca. Da un lato v’era un orientamento (più datato), secondo il quale il termine ricorso stava ad indicare la specifica forma dell’atto introduttivo del giudizio d’impugnazione delle delibere condominiali (13). Di contro, invece, si argomentava portando avanti la tesi della così detta “a-tecnicità” del termine ricorso; in sostanza si propendeva per l’utilizzazione dell’atto di citazione, quale forma dell’atto introduttivo, ma si concludeva per la validità dell’introduzione del giudizio a mezzo ricorso, in virtù del così detto principio generale di conservazione degli atti (14). La scelta della citazione o del ricorso comportava una diversa valutazione del rispetto dei termini nel caso d’eccezione di decadenza dal diritto ad impugnare. Per l’ipotesi di giudizio introdotto con atto di citazione, infatti, il rispetto del termine doveva essere valutato tenendo in considerazione la data di notificazione dell’atto medesimo. Nel caso di ricorso, invece, il termine si poteva dire rispettato se l’impugnante aveva depositato l’atto in cancelleria entro i trenta giorni di cui all’art. 1137 cod. civ. Sebbene l’ultimo orientamento citato avesse, di fatto, il pregio si non precludere alcuna forma possibile all’atto introduttivo del giudizio, era altrettanto evidente che la situazione d’incertezza, per di più su un tema così delicato, non poteva non essere risolta. Come spesso è accaduto in materia condominiale (15) prima dell’approvazione della legge n. 220/2012, la soluzione è stata fornita dalle Sezioni Unite della Cassazione. La massima espressione della Corte nomofilattica ha propeso per la natura a-tecnica del termine ricorso, avvalorando quindi quella tesi che vedeva nell’atto di citazione, la forma d’atto utilizzabile in virtù della valenza generale dell’art. 163 c.p.c. Purtuttavia, gli ermellini hanno ritenuto ammissibile, in virtù del principio generale di conservazione degli atti, il ricorso quale forma introduttiva del giudizio d’impugnazione delle delibere condominiali (16). Fuori dal linguaggio giuridico si può dire che la sentenza n. 8491 ha “salvato capre e cavoli”. La così detta riforma del condominio è intervenuta sull’art. 1137 cod. civ. nella cui formulazione vigente è sparito il termine ricorso (17). Tale cesura rispetto al passato non è stata accolta in modo univoco. In sostanza v’è stato chi ha sostenuto che nulla sarebbe cambiato rispetto ai principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite nel 2011 e chi, in- (11) In ragione del così detto principio tempus regit actum e dell’enorme mole di contenzioso pendente e disciplinato dalla “vecchia” normativa. (12) Per il testo della norma nella sua vecchia formulazione si veda nota 1. (13) In una delle sentenza che meglio spiegano il perché di questa presa di posizione, si legge che “è fermo in giurisprudenza (sent. 1716/75, 1662/88, 2981/88) che l'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea dei condomini si propone con ricorso perché questa parola, usata nel testo dell'art. 1137 cod. civ., non può ritenersi adoperata in senso improprio, come mera istanza giudiziale, invece che in senso tecnico. [...] Secondo il significato letterale delle espressioni, reso esplicito dall'articolo determinativo "il", non può dubitarsi che la parola "ricorso" sta ad indicare non la mera possibilità per il condominio dissenziente di rivolgersi al giudice per l'accertamento della nullità o per l'annullamento della deliberazione contraria alla legge o al regolamento di condominio, bensì la forma della domanda” (così Cass. 9 luglio 1997, n. 6205). (14) In tal senso, “è stato convincentemente affermato che in tema di condominio, pur volendo ritenere che l'impugnativa delle delibere assembleari è vincolata al rito previsto per i procedimenti introdotti con ricorso per soddisfare l'esigenza di risolvere sollecitamente le questioni concernenti la gestione del condominio, nondimeno, ove tali esigenze di celerità non risultino compromesse in relazione al mezzo usato (cioè l'atto di citazione), deve farsi applicazione del principio generale di conservazione degli atti in virtù dell'equipollenza e del consegui- mento dello scopo” (così Cass. 28 maggio 2008, n. 14007, in senso conf. Cass. 30 luglio 2004, n. 14560). In dottrina sull’argomento si veda G. Branca, op. cit., Terzago, Il condominio, Milano, 1985, C. Costabile, L'impugnazione delle delibere condominiali ex art. 1137 c.c.: i problemi processuali connessi alla scelta del ricorso, in Giur. merito, 2008, 10, 2459. (15) Si pensi, per citarne alcune all’inapplicabilità in ambito condominiale del principio dell’apparenza (Cass., Sez. Un., n. 5035/02), alla pronuncia sulle cause d’invalidità delle delibere (Cass., Sez. Un., n. 4806/05), ecc. (16) “L'art. 1137 cod. civ. non disciplina la forma delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, che vanno pertanto proposte con citazione, in applicazione della regola dettata dall'art. 163 cod. proc. civ. L'adozione della forma del ricorso non esclude l'idoneità al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale, a patto che l'atto sia presentato al giudice, e non anche notificato, entro i trenta giorni previsti dall'art. 1137 cod. civ., atteso che estendere alla notificazione la necessità del rispetto del termine non risponde ad alcuno specifico e concreto interesse del convenuto, mentre grava l'attore di un incombente il cui inadempimento può non dipendere da una sua inerzia, ma dai tempi impiegati dall'ufficio giudiziario per la pronuncia del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione” (Cass., Sez. Un., 14 aprile 2011, n. 8491, in Diritto & Giustizia, 2011, 21 aprile). (17) Per l’art. 1137, comma 2, cod. civ. nella sua formulazione vigente si veda nota 6. Immobili & proprietà 6/2014 357 Opinioni Condominio vece, ha accolto la modificazione normativa come la prova del fatto che il legislatore avesse espunto dall’ordinamento la possibilità di impugnare la delibera tramite ricorso (18). Le prime impugnazioni introdotte con ricorso a seguito dell’entrata in vigore della riforma del condominio stanno suffragando quest’ultima ipotesi. In particolare, ultimo in ordine di tempo ad esprimersi in tal senso è stato il Tribunale di Cremona con la sentenza n. 37 depositata in cancelleria il 23 gennaio 2014. Il giudice lombardo, citando un altro precedente di merito (19), ha ritenuto condivisibile quella lettura secondo la quale l’espunzione dall’art. 1137 cod. civ. del termine ricorso altro non ha voluto significare che la certa riconduzione dell’impugnativa delle delibere assembleari nell’ambito di quelle azioni esperibili secondo i modi ordinari previsti dalla legge, ossia con atto di citazione ex art. 163 cod. proc. civ.; né, secondo il magistrato cremonese può essere invocato in queste circostanze il così detto principio di conservazione degli atti giudiziari e il meccanismo sanante previsto per la nullità dell’atto di citazione dall’art. 164 del codice di rito (20). In effetti, l’utilizzazione del ricorso muta in radice le prescrizioni che l’atto medesimo deve contenere rispetto all’atto di citazione. Nel ricorso non v’è traccia, ad esempio, dell’avvertimento di cui all’art. 163, comma 3 n. 7, cod. civ. e non può esservi poiché si tratta di indicazioni che saranno contenute nel decreto di fissazione dell’udienza. In buona sostanza, se questa sarà l’impostazione che prenderà piede nel diritto vivente, verrà messa in soffitta la procedura ibrida che prevedeva una sorta di prima udienza cautelare (laddove il ricorrente avesse chiesto la sospensione dell’efficacia della delibera) con prosecuzione della causa secondo le regole dell’ordinario giudizio civile. Citazione, dunque, e non ricorso; attenzione, però, a non cadere in conclusioni troppo affrettate con riferimento alla possibilità per l’attore di utilizzare strumenti processuali specificamente normati dal codice di rito. Il riferimento è al così detto procedimento di cognizione sommaria di cui all’art. 702bis e ss. cod. proc. civ. Ad avviso di chi scrive, la soluzione prospettata dalla sentenza n. 37 del Tribunale di Cremona non pregiudica la possibilità per il condomino, ove ricorrano i presupposti di legge, di fare uso di tale procedura, spesso utile nelle cause aventi ad oggetto semplici contestazioni afferenti il procedimento di convocazione e/o deliberazione. In sostanza il fatto che per questa procedura l’atto introduttivo del giudizio prenda la forma del ricorso non è preclusivo della possibilità di scelta. Non bisogna, infatti, fermarsi al mero dato letterale, sia perché il ricorso, in questi casi, deve contenere tutte le indicazioni previste per l’atto di citazione (21), sia perché dev’essere considerato un rito speciale di cognizione, predeterminato dalla legge ed utilizzabile a ben precise condizioni (22). In pratica, così come l’amministratore condominiale può decidere di recuperare il credito per mezzo di un ricorso per decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. cod. civ. o con un atto di citazione ordinario o con un ricorso ex art. 702-bis cod. proc. civ., allo stesso modo il condomino, ove ne ricorrano i presupposti, può impugnare il deliberato assembleare instaurando il giudizio con un atto di citazione oppure con un ricorso ex art. 702-bis c.p.c. In conclusione l’effetto dell’espunzione dall’art. 1137 cod. civ. del termine ricorso dev’essere visto come un effetto chiarificatore finalizzato ad eliminare incertezze e acrobazie processuali create dalla prassi giurisprudenziale nella vigenza della vecchia disciplina condominiale e non come una restrizione delle facoltà dell’attore nell’ambito delle scelte processuali che l’ordinamento mette a sua disposizione. (18) In relazione alla prima soluzione interpretativa si veda in dottrina G. V. Tortorici (a cura di), L’assemblea, in AA.VV., La riforma del Condominio, Milano, 2013, 95-96; contra R. Triola (a cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2013, 721 e A. Gallucci, Il condominio negli edifici, Milano, 2013, 424. (19) Trib. Milano 21 ottobre 2013. (20) Si legge in tal senso in sentenza che: «il principio di conservazione degli atti processuali (poiché l'atto non può, comunque, raggiungere lo scopo cui è destinato, ex art. 156 ultimo comma, cod. proc. civ., pena la completa abdicazione dal generalissimo principio di congruità delle forme allo scopo o della strumentalità delle forme che costituisce la stessa ratio della disciplina che il codice di rito dedica - per usare le stesse parole usate dal legislatore nell'intitolare il capo I del titolo de- dicato agli atti processuali - alle “forme degli atti e dei provvedimenti”), né può operare il meccanismo sanante di cui all'art. 164, comma 2, cod. proc. civ. (poiché esso è regolato espressamente nei soli casi di introduzione del giudizio con citazione e poiché manca totalmente l'indicazione di una udienza di comparizione, e non solo l'avvertimento previsto dal n. 7) dell'art. 163» Trib. Cremona 23 gennaio 2014, n. 37. (21) Ad esclusione della data dell’udienza che verrà successivamente fissata per decreto dal giudice. (22) Sul punto si veda art. 702-bis ss. cod. proc. civ., per una disamina approfondita su questo particolare procedimento, si veda M. Cataldi, Il procedimento sommario di cognizione, Milano, 2013. 358 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Famiglia Famiglia “di fatto” Il problema dell’estensione della tutela possessoria ai conviventi more uxorio di Alessandra Di Benedetto - Dottore in giurisprudenza La S.C. con la sentenza del 2 gennaio 2014, n. 7, involge la delicata tematica della tutela possessoria del convivente more uxorio estromesso in maniera violenta o occulta dall’immobile adibito a casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune della famiglia non fondata sul matrimonio. Gli Ermellini in linea con precedenti pronunce in materia, ribadiscono nuovamente che il convivente non è un ospite, ma assume la qualifica di co-detentore con conseguente legittimazione ad attivare la tutela possessoria. La vicenda in esame ha ad oggetto il ricorso, proposto innanzi il Tribunale di Torino, per la reintegrazione nel possesso o comunque nella detenzione dell’immobile, un appartamento abitato dalla signora R.Z. more uxorio con il signor R.M.C., il quale deteneva l’immobile in virtù di comodato gratuito concessogli da uno dei propri fratelli, M.C. Il giudice di prime cure aveva accolto la domanda e ritenuto avvenuto lo spoglio, avendo accertato che i signori F.C. e M.C., entrambi germani della parte comodataria, avevano cambiato la serratura nel periodo in cui il fratello R.M.C., a seguito di un grave incidente, era stato lungamente degente in ospedale. Contro la sentenza era stato proposto appello, innanzi la Corte di appello di Torino, che aveva riformato la sentenza di primo grado e rigettato la domanda di reintegrazione ex art. 1168 cod. civ. I Giudici della Corte di appello, pur ritenendo provato ed esistente il rapporto di convivenza more uxorio tra la signora R.Z. ed il signor R.M.C., escludevano che in capo alla signora R.Z. potesse configurarsi una situazione di possesso. Poiché la relazione con l’immobile trovava fonte in un rapporto contrattuale di comodato, intercorso tra R.M.C. ed il fratello M.C., quest’ultimo proprietario e che la signora R.Z. era consapevole di usufruire dell’alloggio messo a disposizione del convivente da un terzo. La Corte di appello non ha ritenuto ipotizzabile a favore dell’attrice neppure una detenzione qualificata, (1) In questa Rivista, 2014, 2, 121 con commento di M. Monegat. Immobili & proprietà 6/2014 legittimante il ricorso all’azione di reintegrazione, in virtù del fatto che l’alloggio doveva considerarsi messo a disposizione per ragioni di precaria ospitalità. La vicenda è così giunta all’esame della S.C. e si è conclusa con l’accoglimento del ricorso e la riforma della sentenza impugnata in ragione del potere di fatto sulla casa di abitazione ove si concretizza il programma di vita familiare, che la convivente della parte comodataria può vantare (1). Potere che appare essere, a giudizio dei giudici della S.C., diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, al punto da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata che ha ragione di essere, appunto, in un negozio giuridico di tipo familiare, anche in considerazione del rilievo sociale che ha assunto la convivenza more uxorio, la c.d. famiglia di fatto. La famiglia c.d. di fatto Il fenomeno delle famiglie non fondate sul matrimonio, le c.d. famiglie di fatto, appare essere sempre più diffuso nel costume sociale. Sembra essere tramontata l’epoca in cui il convivere come coniugi, non fondando, però, il rapporto nel matrimonio, era considerato come un disvalore. La mutata coscienza sociale segna una nuova epoca per le convivenze al di fuori del matrimonio (2) e va registrato un sempre più attento interesse per la (2) Bianca, La famiglia, le successioni, III ed., Milano, 2001, 25. 359 Opinioni Famiglia rilevanza socio giuridica di tale fenomeno e la possibile tutela dello stesso. Non è rinvenibile, all’interno del nostro ordinamento, una nozione giuridica di “famiglia di fatto” (3), né essa è espressamente riconosciuta dall’ordinamento. Sebbene non sembrino mancare numerose disposizioni giuridiche applicabili a svariati profili del concetto in esame (4); tuttavia, si tratta di norme dislocate disorganicamente nel nostro ordinamento e prive di qualsivoglia coordinamento e che in nessun caso provvedono a fornire una definizione formale del concetto di “famiglia non fondata sul matrimonio” o “famiglia di fatto” o una significativa tutela. Nonostante la progressiva attenzione prestata alla famiglia non fondata sul matrimonio non si può allo stato attuale sostenere che vi sia stato un mutamento della concezione costituzionale di famiglia (5) intesa quale “società naturale fondata sul matrimonio”, come si legge nell’art. 29 Cost. (3) Sulla famiglia di fatto in generale, v. amplius: F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991; D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano 1989; Id., La famiglia di fatto al bivio: rilevanza di singole fattispecie o riconoscimento generalizzato del fenomeno, in Giust. civ., 1982, II, 25; Dogliotti, voce “Famiglia di fatto”, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1992, 188; Roppo, La famiglia senza matrimonio. Diritto e non diritto nella fenomenologia delle libere unioni, in Riv. trim., 1980, 742; Cubeddu, Il rapporto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 1990, 323; Mazzocca, La famiglia di fatto (realtà attuali e prospettive), Milano, 1989; Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, Padova, 1992; Finocchiaro, Convivenza extra coniugale e convivenza more uxorio. Differenze (ai fini del diritto all’assegno di divorzio), in Giust. civ., 2002, 1001; Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Camerino - Napoli, 1980, 84 ss.; Perlingeri, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, 136; Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in AA.VV., Napoli, 1988, 51 ss.; Busnelli, Santilli, La famiglia di fatto, in Comm. Cian, Oppo e Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993; Tommasini, La famiglia di fatto, Padova, 2004; AA.VV., Convivenze e situazioni di fatto, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, I ed., Milano, 2002; Alagna, Famiglia di fatto e famiglia di diritto a confronto: spunti in tema di rapporti bancari, in Dir. Fam. Pers., 2001; Alagna, La famiglia di fatto al bivio: rilevanza di singole fattispecie o riconoscimento generalizzato del fenomeno?, in Giust. civ., 1982; Annunziata, Iannone, Dal concubinato alla famiglia di fatto: evoluzione del fenomeno, in Fam. Pers. Succ., 2010; Asprea, La famiglia di fatto in Italia ed in Europa, Milano, 2003; Asprea, La famiglia di fatto, Milano, 2009; Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, in Dir. Fam. Pers., 1999; Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004; Bernardini De Pace, Convivenza e famiglia di fatto. Ricognizione del tema nella dottrina e nella giurisprudenza, in AA.VV., I Contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini; Bile, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in Riv. dir. civ., 1996; Calderale, La famiglia di fatto tra legge e autonomie private, Bari, 1990; Calò, Profili di interesse notarile della famiglia di fatto, nel volume Studi e materiali, edito a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Commissione Studi, 2 (1986 - 1988), Milano, 1990; Cocuccio, Convivenze e famiglia di fatto: problematiche e prospettive, in Dir. Fam. Pers., 2009; Consiglio Nazionale del Notariato, La famiglia di fatto ed i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del XXXIII Congresso Nazionale del Notariato, Napoli, 29 settembre - 2 ottobre 1993, Roma 1994; D’Ercole, voce “Famiglia di fatto”, in Dizionari del diritto privato, a cura di Natalino Irti, I, Milano, 1980; Falletti, Famiglia di fatto e convivenze, Padova, 2009; Falletti, La fine della famiglia di fatto, gli aspetti patrimoniali, in AA.VV., Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, a cura di Oberto, Padova, 2011; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. Dir., 1998; Franceschelli, voce “Famiglia di fatto”, in Enc. Dir., Aggiornamento, VI, Milano, 2002; Ieva, I Contratti di convivenza. Dalla legge francese alle proposte italiane, in Riv. notar., 2001; Laurini, Le convivenze extra familiari. Una proposta di disciplina rispettosa dei principi etici e costituzionali, in Notariato, 2008; Lipari, Rapporti coniugali di fatto e rapporti di convivenza (Note a margine di un iter legislativo), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007; Muritano, Pischetola, Accordi Patrimoniali tra conviventi e attività notarile, Milano, 2009; Prosperi, La famiglia di fatto: analisi e disciplina di un modello familiare attuale e diffuso, Torino, 2007; Pellarini, La famiglia di fatto, Milano, 2003; Ceccherini e Francini, Famiglie in crisi e autonomia privata. I contratti dei coniugi e dei conviventi tra principi normativi e regole della giurisprudenza, Milano, 2013; B. De Filippis, R. De Filippis, Di Marco, Lettieri, Starita, Zambrano, La separazione nelle famiglie di fatto, II ed., Milano, 2014. (4) In particolare, tra i diversi provvedimenti, si ricordano: legge n. 356/1958, sull’assistenza in favore dei figli non riconosciuti dal padre caduto in guerra, quando i genitori abbiano convissuto more uxorio nel periodo del concepimento; art. 42, legge n. 313/1968 parificazione, ai fini pensionistici, alla della donna che ha convissuto con un militare caduto in guerra; art. 1, legge n. 405/1975, in materia di istituzione di consultori familiari; art. 30, comma 1, legge n. 354/1975, in tema di permessi in favore dei condannati per la visita ai familiari; legge n. 194/1978, sull’interruzione volontaria della gravidanza; art. 6, legge n. 392/1978, dichiarato incostituzionale (sent. Corte cost. n. 404/1988) nella parte in cui non prevedeva, tra gli aventi diritto alla prosecuzione del rapporto locativo dopo la morte del titolare, anche il convivente more uxorio, nonché nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto al conduttore che avesse cessato la convivenza, a favore del già convivente quando sussiste la prole; art. 45. legge n. 184/1983, in materia di adozione ed affidamento dei minori; art. 199, cod. pen., che estende la possibilità di astenersi dalla deposizione anche a coloro che convivono o hanno convissuto con l’imputato; art. 4, D.P.R. n. 223/1989, sulla rilevanza ai fini anagrafici della famiglia non fondata sul matrimonio; legge n. 302/1990, norme in favore delle famiglie delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; legge n. 82/1991, sui collaboratori di giustizia; art. 17, legge n. 179/1992, con riferimento alle cooperative a proprietà indivisa; art. 572, cod. pen. In materia di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli; art. 317-bis, cod. civ., sulla potestà parentale sui figli; art. 342-bis, cod. civ., in tema di forme di protezione contro la violenza in famiglia; art. 6, comma 4, legge n. 184/1993 (sostituito dall’art. 6, legge n. 149/2001) in ordine alle modalità di determinazione dell’idoneità all’adozione; art. 417, cod. civ., sull’amministrazione di sostegno; art. 5, legge n. 40/2004, sulla procreazione medicalmente assistita; art. 129, D.Lgs. n. 209/2005, codice delle assicurazioni private. (5) In questi termini cfr. Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8, in Giur. it., 1996, I, 281 in cui la Corte, richiamando la propria giurisprudenza, ha posto in luce la netta diversità della convivenza di fatto, fondata sull'affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile, di ciascuna delle parti rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio, affermando che soltanto quest'ultimo rap- 360 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Famiglia L’indice normativo invocato per procedere al riconoscimento ed alla relativa tutela giuridica delle famiglie non fondate sul matrimonio è stato, però, rinvenuto nell’art. 2 Cost. poiché in esso si garantiscono e si promuovono i diritti inviolabili dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità e si esplica la sua libertà (6). È proprio nella categoria delle formazioni sociali che la dottrina e la giurisprudenza (7) ascrivono le famiglie non fondate sul matrimonio, al fine di riconoscere rilevanza giuridica e legittimare protezione, altrimenti immotivata o difficilmente giustificabile. Con le espressioni “famiglia di fatto” e “convivenza more uxorio”, oggi utilizzate comunemente ed indistintamente, ci si intende riferire, in termini generali, a quella particolare formazione sociale che presuppone una convivenza caratterizzata dall’affectio coniugalis tra due soggetti non uniti in matrimonio. Formazione sociale tra individui che, se pur priva di qualsiasi formalizzazione del rapporto di coppia, appare essere in grado di dar vita ad una stabile comunione di vita spirituale e materiale. La quale travalica l’esistenza di una mera relazione affettiva, spingendosi più in là, al punto da configurare una vera e proprio unione, in cui i conviventi si assistono reciprocamente, in maniera non dissimile a quanto accade in costanza di matrimonio. In assenza di una normativa specifica, stante la notevole difficoltà di distinguere la famiglia di fatto dal rapporto occasionale, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato indici identificativi e caratteri propri, utili a cogliere le differenze, non sempre macroscopiche, tra i due tipi di rapporti. La relazione tra individui componenti la famiglia non fondata sul matrimonio sembra caratterizzarsi, secondo buona parte della dottrina, per due elementi distintivi: il primo, di carattere soggettivo, da identificarsi nell’affectio (8), consistente nella reciproca partecipazione alla vita del partner; il secondo, di carattere oggettivo, costituito dalla stabile convivenza (9). Elementi identificativi sono, altresì, la presenza di vincoli di fedeltà, assistenza e reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali (10), l’effettività della convivenza (11) e la stabilità (12) del legame (13). Un ruolo di fondamentale importanza nell’affermazione della rilevanza giuridica delle convivenze di fatto hanno avuto i giudici della Consulta. In diverse occasioni i giudici della Corte costituzionale hanno avuto modo di affrontare sia la questione del riconoscimento giuridico delle convivenze more uxorio, sia della possibilità di estendere taluni strumenti di tutela previsti esplicitamente per la famiglia legittima. Appare di fondamentale importanza, in tal senso, la sentenza della Consulta n. 404/1998 nella quale i Giudici di legittimità delle leggi mettono in risalto la natura della c.d. famiglia di fatto intesa questa come formazione sociale nella quale si estrinseca la personalità dell’individuo favorendone lo sviluppo. porto può ritenersi ricondotto all'ambito della protezione offerta dall'art. 29 Cost. (6) Cass. 8 febbraio 1977, n. 556, in Dir. fam., 1977, 514, con nota di Liotta, Sulla rilevanza formale della famiglia di fatto. (7) Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237, in Foro It., 1987, I, 2353, per la quale “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.)”. (8) Tra chi pone l’accento sull’elemento soggettivo: Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit. (9) Tra chi valorizza maggiormente l’elemento oggettivo: Roppo, La famiglia senza matrimoni - Diritto e non diritto nella fenomenologia delle unioni libere, cit. (10) Rescigno, Manuale di diritto privato italiano, Napoli, 1992, 382. (11) In assenza di strumenti di forme di pubblicità del rapporto, appare essenziale, perché si possa parlare di “famiglia di fatto”, che i componenti di detto sodalizio convivano effettivamente e continuativamente nella medesima abitazione. (12) Cass. 10 agosto 2007, n. 17643, in materia di separazione, a proposito dell’incidenza della convivenza more uxorio sul diritto all’assegno di mantenimento e nello specifico in riferimento alla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dello stesso: “deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità. Che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente”. (13) È necessario che il rapporto che fonda la famiglia abbia avuto già una certa durata e lasci presumere che continuerà ad averla in futuro. (14) V. Corte cost. sent. n. 237/1986 e n. 138/2010. Immobili & proprietà 6/2014 Il problema dell’estensione della tutela possessoria ai conviventi componenti famiglie non fondate sul matrimonio L’aspetto principale affrontato dai giudici di legittimità con la sentenza in esame riguarda il riconoscimento in capo al convivente more uxorio della legittimazione all’esercizio delle azioni possessorie in relazione all’immobile in cui si svolge la vita comune. Come già evidenziato tale questione è già stata affrontata dalla S.C. che in più occasioni ha riconosciuto pacificamente la famiglia di fatto quale formazione sociale rilevante e meritevole di riconoscimento e tutela giuridica (14). 361 Opinioni Famiglia Tuttavia, nonostante il riconoscimento costituzionale della famiglia di fatto, la questione non appare di facile risoluzione poiché una norma che estenda specificamente la tutela possessoria ai componenti della famiglia non fondata sul matrimonio all’interno del nostro ordinamento non è rinvenibile. In assenza di un’organica disciplina relativa alla famiglia non fondata sul matrimonio, la giurisprudenza ha dovuto reinterpretare ed utilizzare alcuni istituti di diritto comune, al fine di concedere tutela alla famiglia di fatto, i cui componenti, diversamente, sarebbe stati abbandonati ai meri rapporti di forza degli individui. La dottrina (15) e la giurisprudenza sul punto non sono state sempre univoche, appaiono, anzi, essere caratterizzate da orientamenti contrastanti. In passato, in presenza di convivenze non fondate sul matrimonio ci si limitava ad osservare che esse costituivano situazioni di fatto (16), detti rapporti non erano riconosciuti e non era giuridicamente tutelabili, ma, al più, erano tollerati (17). Pertanto, andavano considerati come situazioni metagiuridiche del tutto irrilevanti per l’ordinamento. Il convivente more uxorio di colui che deteneva l’immobile in ragione di un titolo assumeva una qualifica sostanzialmente assimilabile a quella dell’ospite, in ragione dell’assenza di un rapporto parentale e di una situazione di certezza dei rapporti giuridici (18). L’alloggio, in questa prospettiva, era messo a disposizione del convivente per ragioni di precaria ospitalità, ragione idonea ad escludere il presupposto per ricevere la tutela di cui all’art. 1168 cod. civ., non ritenendosi sufficientemente meritevole di tutela quel fenomeno sociale che è la famiglia non fondata sul matrimonio (19). Secondo il citato orientamento il solo fatto della convivenza non pone in essere nella persona del convivente un potere sulla cosa che possa essere considerato come un possesso autonomo o al limite come un compossesso (20). Tuttavia, in passato, non è mancato un indirizzo dottrinario e giurisprudenziale di segno diverso e contrario. Si è ritenuto, infatti, non escludibile una tutela possessoria in favore di coloro che fossero legati da rapporti di parentela o affinità o conviventi con colui che possiede l’immobile, ove prende forma la vita comune familiare, poiché in capo a costoro sarebbe configurabile un rapporto di codentenzione tutelabile con l’azione di spoglio (21). Al convivente more uxorio che goda con il partner, questo possessore iure proprietatis, dell’immobile ove si svolge la vita familiare, va riconosciuta, secondo la Suprema Corte, una posizione riconducibile alla detenzione autonoma (22). La Cassazione di recente ha aderito senza soluzione di continuità all’orientamento giurisprudenziale appena citato, affermando espressamente che il convivente more uxorio è detentore qualificato (23). La tesi secondo la quale la relazione di fatto tra i conviventi all’interno della casa, dove si concretizza la vita familiare, sarebbe paragonabile alla situazione tra ospiti appare essere contraria alla rilevanza giuridica che la famiglia non fondata sul matrimonio ha progressivamente acquisito e sembra negare la dignità stessa dei componenti della coppia di fatto. Va, infatti, considerato che tra i conviventi more uxorio esiste un reciproco rispettivo riconoscimento di diritti che con passare del tempo si consolida e si rafforza, al punto da configurare un vero e proprio consorzio di vita familiare meritevole di tutela ai sensi dell’art. 2 della Costituzione (24). Poiché la famiglia non fondata sul matrimonio è senz’altro collocabile tra le formazioni sociali che l’art. 2 Cost., considerato luogo di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della (15) Per le diverse tesi si veda Carbone, Possesso e detenzione nella famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011, 37. (16) Gangi, Il matrimonio, II ed., Milano, 1953, 1 e 6. (17) Gangi, Il matrimonio, cit. (18) Per la tesi dell’ospitalità reciproca Pret. Vigevano, 10 giugno 1996, in Foro it., 1997, I, C. 3686. (19) Trib. Belluno, 31 ottobre 2008. (20) Cass. 2 ottobre 1974, n. 2555 e Cass. 14 giugno 2001, n. 8047. (21) Cass. 7 ottobre 1971, n. 2753. (22) Cass. 14 giugno 2012, n. 9786. (23) Cass. 21 marzo 2013, n. 7214. In senso contrario Protetti, L’impresa familiare tra conviventi more uxorio, in Soc., 1985, il quale nega che la persona convivente more uxorio sia legittimata all’azione di reintegrazione relativamente all’abitazione in cui convive. (24) È stata, dall’altra parte, la stessa giurisprudenza costituzionale a sottolineare, nella Corte cost. n. 237 del 1986, che “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.)”. La stessa Consulta di recente, nella Corte cost. n. 138 del 2010, ha ribadito che “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” . 362 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Famiglia La S.C. con la sentenza in commento si inserisce nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata che riconosce al convivente more uxorio la legittimazione ad agire con l’azione possessoria a tutela del proprio diritto di continuare ad abitare nell’immobile in cui si è svolta la vita comune. Gli Ermellini evidenziano che, la convivenza continuativa con il comodatario dell’immobile, attribuisce la qualifica di codetentore dell’immobile concesso in comodato al convivente. Pertanto, la convivente che vive con il compagno comodatario dell’immobile ha rispetto a detto bene la medesima posizione del compagno. Non si può, dunque, sostenere che il potere di fatto esercitato dal convivente non proprietario sull’immobile usato quale abitazione della coppia sia riconducibile a ragioni di mera ospitalità. La convivenza stabile e prolungata per un periodo di tempo significativo nell’immobile oggetto di comodato assume i connotati tipici di una detenzione qualificata con conseguente riconoscimento della tutela possessoria. Tuttavia, nonostante l’adesione all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la sentenza in esame presenta un aspetto di originalità rispetto alle precedenti pronunce intervenute sull’argomento. Ed invero, a differenza delle fattispecie in precedenza sottoposte a giudizio della Corte, nel caso de quo l’azione di turbativa del possesso non è commessa dal convivente bensì da un soggetto estraneo alla coppia e più precisamente dal proprietario dell’immobile concesso in comodato al fratello che, approfittando dell’assenza prolungata della coppia, ha provveduto a sostituire la serratura dell’appartamento impedendo di fatto alla convivente di poter accedere all’immobile. Con ciò la S.C. ha sottolineato che “la convivenza more uxorio, quale forma sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare e ad un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di pura ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata”. Pertanto, l’estromissione violente o clandestina dall’unità abitativa non è legittima. Il fenomeno delle famiglie non fondate sul matrimonio ha assunto una indiscutibile rilevanza sociale nel contesto europeo, tanto da avere indotto numerosi paesi occidentali a provvedere alla sua regolamentazione Nonostante i ripetuti, sempre più frequenti, interventi della giurisprudenza a tutela di determinate situazioni tra conviventi more uxorio e nonostante le numerose disposizioni legislative in tema di famiglia di fatto continua a mancare nell’ordinamento italiano una legge che dia organica disciplina al fenomeno (25), ormai sempre più diffuso. È in questo modo possibile riscontrare l’enorme ritardo giuridico e culturale dell’Italia rispetto ad altri Paesi europei (26). Appare del tutto evidente, il caso in esame ne costituisce prova, che il fenomeno in questione sta assumendo dimensioni significative ed ormai appare non più eludibile un provvedimento normativo che miri a disciplinare organicamente la materia, al fine di non pregiudicare i diritti e le libertà fondamentali degli individui. (25) Pur tuttavia, Ferrando, Il diritto di famiglia oggi: c’è qualcosa di nuovo, anzi di antico, in Politica del dir., 2008, 3., ritiene siano stati già garantiti, ai conviventi more uxorio, diritti inviolabili e pertanto a questa non appare necessario attribuire interiori strumenti di tutela. Al contrario, altri autori, tra tutti Bonini, Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano, 2005, si dichiarano favorevoli ad una or- ganizzazione organica della disciplina, al punto da estendere ai conviventi more uxorio i medesimi benefici già spettanti ai coniugi. (26) Sulla questione dell’armonizzazione a livello europeo delle norme che regolamentano la famiglia: Ruscello, La famiglia tra diritto interno e normativa comunitaria, in Familia, 2001, 697 casa di abitazione familiare non già a titolo di mera ospitalità (giuridicamente del tutto irrilevante), ma per soddisfare un interesse proprio (oltre che della coppia), sulla base di un titolo personale. Titolo personale la cui rilevanza e tutela sono garantiti dalla Costituzione, al punto da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata, legittimante il ricorso alle azioni possessorie. Dall’altra parte un’unione caratterizzata da stabilità e contribuzione reciproca, quale appare essere quella delle famiglie non fondate sul matrimonio, comporta che non si possa parlare di rapporti di mera ospitalità o tolleranza per il convivente more uxorio di colui che detiene l’immobile in ragione di un titolo. Con l’evidente conseguenza che il convivente non può vedersi violentemente o occultamente estromesso dall’abitazione, dove si attua il programma di vita familiare, senza essere legittimato ad esperire le apposite azioni possessorie, quale quella di reintegrazione di cui all’art. 1168 cod. civ. Conclusione Immobili & proprietà 6/2014 363 Opinioni Fisco Catasto Condizioni di legittimità della revisione delle rendite catastali di Paola Aglietta - Dottore Commercialista e Revisore Legale in Torino Quando l’attribuzione di un nuovo classamento ad un’unità immobiliare deriva da una risistemazione dei parametri relativi alla microzona, l’Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle Entrate) deve indicare l'atto con il quale si è provveduto alla revisione di tali parametri, a pena di nullità. L’Agenzia delle Entrate, pur se descrive dettagliatamente le mutate capacità reddituali degli immobili e le variazioni del contesto insediativo, non può omettere la puntuale indicazione dell'atto. Questo principio, già contenuto nella sentenza 9629 del 13 giugno 2012, viene ora ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2357/2014 depositata il 3 febbraio 2014. L’ordinanza 3 febbraio 2014, n. 2357 interviene nell’ambito di un contenzioso sorto a seguito del riclassamento di una unità immobiliare urbana, avvenuto in una microzona di Napoli in base alla legge n. 662/96, art. 3, comma 58. Nel 2009, il ricorso del contribuente veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli. Successivamente, nel 2011, la Commissione regionale di Napoli dava ragione all'Agenzia del Territorio e confermava l’avviso di classamento. Secondo tale commissione, l’obbligo di motivazione deve ritenersi rispettato quando l’atto valga a delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa ed a consentire al contribuente l’esercizio del diritto alla difesa; pertanto, è necessario e sufficiente che l’avviso indichi il maggior valore accertato, con riserva alla fase contenziosa di dell’onere di provare gli elementi di fatto giustificativi della pretesa. Contro questa pronuncia, il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione. Secondo la Corte di Cassazione, che ha esaminato le modalità con cui era stato operato il riclassamento, non è sufficiente a motivare la nuova rendita il fatto che l'Agenzia abbia tenuto conto dei parametri costruttivi dell'immobile, delle sue caratteristiche edilizie e del fabbricato che la comprende, nonché del livello di capacità reddituale degli immobili della zona e dei significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano. Secondo l’orientamento richiamato dalla Cassazione, già espresso con precedente sentenza n. 9629 del 2012, l'Agenzia del Territorio deve innanzi tutto specificare se il mutato classamento è dovuto a 364 trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione oppure ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l'unità immobiliare. Una volta effettuato tale inquadramento, l’Agenzia deve poi: - nel primo caso, indicare le trasformazioni edilizie intervenute; - nel secondo caso, indicare l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti, rendendo così possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente. In mancanza dell’indicazione di tale atto, il riclassamento è nullo. Il classamento Il “classamento” delle unità immobiliari urbane consiste nell’attribuzione della “categoria” e della “classe” a ciascuna unità immobiliare. Il classamento può essere oggetto di revisione generale, ove vi sia la necessità di mantenere la corrispondenza tra le risultanze catastali e le mutate condizioni dei fabbricati, legate allo sviluppo urbanistico e all’evolversi della tecnica e dei materiali edili. La revisione del classamento consiste pertanto nell’assegnazione, alle unità immobiliari interessate, di nuove categorie e classi. Dal riclassamento derivano nuove rendite catastali. La “microzona” La nozione di “microzona” è contenuta nell’art. 2 comma 1 del D.P.R. n. 138/98 (Regolamento re- Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco cante norme per la revisione generale delle zone censuarie, delle tariffe d'estimo delle unità immobiliari urbane e dei relativi criteri […]). La microzona rappresenta una porzione del territorio comunale che presenta omogeneità nei caratteri di posizione, urbanistici, storico-ambientali, socioeconomici, nonché nella dotazione dei servizi ed infrastrutture urbane. In ciascuna microzona le unità immobiliari sono uniformi per caratteristiche tipologiche, epoca di costruzione e destinazione prevalenti. La microzona individua ambiti territoriali di mercato omogeneo sul piano dei redditi e dei valori. L’articolazione in microzone del territorio comunale o della zona censuaria viene effettuata dal Comune, con deliberazione del Consiglio comunale, oppure, in difetto, dall’Amministrazione del catasto. Lo scostamento è significativo quando il rapporto tra valore medio di mercato e valore medio catastale presenta una discrepanza superiore al 35%. L'Agenzia del Territorio, esaminata la richiesta del comune e verificata la sussistenza dei presupposti, attiva il procedimento revisionale con provvedimento del direttore dell'Agenzia medesima. Gli atti che attribuiscono le nuove rendite, derivanti dalla revisione del classamento delle microzone, sono notificati al soggetto interessato e devono contenere le indicazioni previste per gli atti impugnabili. A tal fine, si ricorda, l’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 dispone che sono, tra gli altri, impugnabili gli atti relativi alle operazioni catastali e concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale. La revisione del classamento Aggiornamento del classamento catastale per intervenute variazioni edilizie I Comuni hanno la facoltà di richiedere agli uffici del Territorio la revisione del classamento delle unità immobiliari di una determinata microzona qualora i valori delle unità immobiliari in essa situate risultino non aggiornati o non congrui. L’art. 3 comma 58 legge n. 662/96 (richiamato dall’Ufficio controricorrente), dispone che “il Comune chiede all'Ufficio tecnico erariale la classificazione di immobili il cui classamento risulti non aggiornato ovvero palesemente non congruo rispetto a fabbricati similari e aventi medesime caratteristiche. L'Ufficio tecnico erariale procede prioritariamente alle operazioni di verifica degli immobili segnalati dal comune”. Le cause che possono rendere necessario un riclassamento sono individuate nella legge n. 311 del 2004, art. 1, commi 335 e 336. Revisione del classamento delle unità immobiliari private site in microzone comunali Il comma 335 individua la “revisione del classamento delle unità immobiliari private site in microzone comunali”. I Comuni possono chiedere agli Uffici provinciali dell'Agenzia del Territorio tale revisione quando il rapporto tra il valore medio di mercato (individuato ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 23 marzo 1998,n. 138) e il corrispondente valore medio catastale ai fini dell'applicazione dell'imposta comunale sugli immobili si discosta significativamente dall'analogo rapporto relativo all'insieme delle microzone comunali. Immobili & proprietà 6/2014 Il successivo comma 336 individua invece l’“aggiornamento del classamento catastale per intervenute variazioni edilizie”. Riguarda gli immobili di proprietà privata non dichiarati in catasto ovvero le situazioni di fatto non più coerenti con i classamenti catastali, per intervenute variazioni edilizie. In tal caso, i Comuni richiedono ai titolari di diritti reali sulle unità immobiliari interessate la presentazione degli atti di aggiornamento, notificando ai soggetti interessati una richiesta contenente gli elementi constatati, tra i quali, qualora accertata, la data cui riferire la mancata presentazione della denuncia catastale. La richiesta è notificata anche agli uffici provinciali dell'Agenzia del Territorio. La sentenza del 2012 La Corte di Cassazione si era già espressa sul tema, con la sentenza n. 9629 del 13 giugno 2012. In tale occasione, la Corte di Cassazione ricordava innanzi tutto che le cause che possono rendere necessario un riclassamento sono riconducibili alle due categorie individuate nella legge n. 311 del 2004, art. 1, commi 335 e 336. Tali disposizioni hanno sviluppato e meglio disciplinato un potere del Comune già stabilito nella legge n. 662 del 1996, art. 3, comma 58. Alla luce di tali normative, la Corte di Cassazione chiariva che l'Agenzia del Territorio, quando procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classa- 365 Opinioni Fisco mento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve prima di tutto specificare se tale mutato classamento è: - dovuto ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare; - oppure dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione. È importante che l’Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle Entrate) effettui questo primo inquadramento, perché si tratta di due procedure con presupposti diversi e perciò non del tutto omogenee. La prima prevede un riclassamento dovuto ad eventi di carattere generale o collettivo. La zona è - ad esempio - divenuta di maggior pregio a seguito della creazione di infrastrutture (strade e piazze, o altro). Nel secondo caso invece le innovazioni specifiche riguardano direttamente un certo immobile. Ad esempio, un immobile che è stato ristrutturato e reso più signorile, o che - al contrario - è andato in rovina. Ebbene, nel primo caso, l'Agenzia deve indicare l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti: solo in tal modo rende possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente. Non è sufficiente che l’Agenzia del Territorio effettui il nuovo classamento sulla base dei caratteri tipologici e costruttivi specifici dell'immobile, delle 366 sue caratteristiche edilizie e del fabbricato che lo comprende, richiamando - genericamente, secondo la Cassazione - un dettagliato esame delle mutate capacità reddituali degli immobili ricadenti nella stessa zona aventi analoghe caratteristiche tipologiche, costruttive e funzionali, e richiamando una diversa qualità urbana ed ambientale del contesto insediativo a seguito dell'incremento delle infrastrutture urbane. Intanto, il provvedimento di cui trattasi “non chiarisce neppure se ci si trovi di fronte a un riclassamento del tipo di cui al comma 335 o ad un riclassamento ai sensi del comma 336”. Un siffatto provvedimento è comunque da ritenersi “nullo, per difetto di motivazione, in quanto emesso in contrasto con il principio secondo cui l'accertamento tributario non può limitarsi ad enunciare un dispositivo, ma deve anche indicare il punto di riferimento giuridico o fattuale che giustifica e sorregge il dispositivo stesso, onde, così, delimitare l'oggetto del possibile contenzioso, in cui all'Amministrazione è inibito addurre ragioni diverse, rispetto a quelle enunciate”. Con tale sentenza n. 9629/2012 dunque la Corte di Cassazione ha enunciato un’importante massima, ora richiamata con l’ordinanza n. 2357/2014 in commento. L’orientamento espresso è particolarmente rilevante, soprattutto nel contesto delle operazioni di accertamento catastale recentemente avviate in misura imponente da parte dell’Agenzia delle Entrate. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco Prima casa Separazione tra coniugi e benefici “prima casa” di Salvatore Servidio - Esperto tributario La Corte di Cassazione, con le pronunce n. 3753 e 3931 del 2014, ha stabilito, rispettivamente, che l'assegnazione della ex casa coniugale non costituisce atto ad efficacia reale, con conseguente trasferimento dei diritti reali, ma una mera regolamentazione dei rapporti fra i coniugi e nella maggior parte dei casi fra il coniuge non assegnatario e i figli minorenni, con conseguente diritto ai benefici fiscali; inoltre che la comproprietà di un immobile in capo ai coniugi legalmente separati, acquistata senza l’applicazione dell’agevolazione “prima casa”, non impedisce un nuovo acquisto agevolato da parte di uno dei due soggetti. Premessa Con ordinanza 18 febbraio 2014, n. 3753, la Corte di Cassazione ha affermato che l’attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell’atto di separazione consensuale, non costituisce una forma di alienazione dell’immobile rilevante ai fini della decadenza dei benefici “prima casa”, bensì una forma di utilizzazione dello stesso ai fini della migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi, sia pure al venir meno della loro convivenza. Con la successiva sentenza 19 febbraio 2014, n. 3931, la Corte ha poi stabilito che la comproprietà di un immobile in capo ai coniugi legalmente separati, acquistata senza l’applicazione dell’agevolazione “prima casa”, non impedisce un nuovo acquisto agevolato da parte di uno dei due soggetti. Secondo il giudice di legittimità, la titolarità di una quota è paragonabile alla situazione di chi ha un immobile non idoneo alle esigenza abitative. La sentenza n. 3753/2014 Lo svolgimento dei fatti trattati dall’ordinanza n. 3753/2014, riguarda un lite fiscale in cui, con avviso di liquidazione della maggiore imposta di registro, l'Agenzia delle Entrate dichiarava la decadenza dalle agevolazioni “prima casa”, a causa della cessione dell’immobile nel quinquennio dall’acquisto, il cui ricorso della contribuente venne respinto sia in primo che in secondo grado. Nel conseguente ricorso per Cassazione, la contribuente ribadisce che non si è trattato di una cessione nel quinquennio ma di una assegnazione del- Immobili & proprietà 6/2014 l’immobile al coniuge per effetto di separazione consensuale. Comunione legale e convenzionale Prima di esaminare l’esito del giudizio di Cassazione, occorre brevemente soffermarsi sulla considerazione delle peculiarità che caratterizzano e contraddistinguono rispetto alla comunione ordinaria, la “comunione legale” prevista e disciplinata quale “tipo” di regime patrimoniale tra i coniugi dagli artt. 177 e ss. cod. civ., secondo la sistematica introdotta con la legge 19 maggio 1975, n. 151. La comunione legale si qualifica per essere, appunto, un "regime", cioè non solo una situazione di plurisoggettività nella titolarità di determinate posizioni giuridiche ma il complesso statuto speciale di una contitolarità di massa relativa a una “universitas” che non si esaurisce nella regolamentazione dell'esercizio del potere di godere e di disporre delle cose comuni ma si estende all'aspetto dinamico dell'acquisizione di nuovi beni o diritti e dell'assunzione di nuove obbligazioni. Di tale configurazione rappresenta riflesso specifico la non coincidenza tra il momento dello scioglimento, al quale si ricollega la cessazione del regime di comunione, e quello della divisione, che determina concretamente il venir meno della contitolarità dei coniugi nei diritti sui beni che ne formano oggetto. Infatti, lo scioglimento della comunione legale, correlato al verificarsi di una delle cause indicate nel primo comma dell'art. 191 cod. civ., dà luogo a due distinti ordini di effetti giuridici: a) per quanto attiene ai rapporti giuridici successivi, esso si traduce nella caducazione dell'assoggettamento dei co- 367 Opinioni Fisco niugi a quel regime che, altrimenti, sarebbe destinato a permanere e ad operare trovando espressione nel principio di cui all'art. 177, comma 1, lett. a), cod. civ., il quale prevede la necessaria automatica caduta in comunione di ogni acquisto che non possa considerarsi personale a norma dell'art. 179 cod. civ., e nella instaurazione, in luogo di tale regime, di quello di separazione; b) con riguardo ai rapporti anteriori già ricadenti nella comunione, lo scioglimento lascia in vita lo stato di contitolarità indivisa dei diritti sui beni comuni, con la sostituzione, in ordine ai poteri di amministrazione e di disposizione, alla disciplina della comunione legale de qua della disciplina della comunione ordinaria, e, quindi, con il venire in essere, in capo a ciascuno dei coniugi, di quel diritto potestativo alla divisione che, nella comunione ordinaria, spetta a ciascuno dei compartecipi. Tutto ciò trova conferma nel tenore testuale del dato normativo nel quale la vicenda giuridica dello scioglimento e quella della divisione sono contemplate in due diverse disposizioni (art. 191 e art. 194 cod. civ.), e appare rispondente al sistema della tutela dei terzi quale delineato nell'art. 162 cod. civ. E, di fronte a tale fenomeno giuridico, riveste significato meramente nominalistico, sul piano lessicale definitorio, il rilievo dottrinale della improprietà della intitolazione e della formulazione dell'art. 191 cod. civ. in termini di scioglimento della comunione con riguardo a una realtà giuridica che non è identificabile in se stessa con lo scioglimento di una comunione, inteso in senso tecnico, tale dovendosi considerare quello per effetto del quale viene meno lo stato di indivisione e ciascuno dei compartecipi diviene titolare esclusivo dei diritti compresi nella quota di sua pertinenza. Pertanto, nel contesto generale così delineato, la convenzione tra i coniugi, esprimente l'opzione per la cessazione della comunione legale e per il correlativo passaggio alla separazione dei beni, esaurisce in se stessa quella incidenza sul regime dei rapporti patrimoniali tra i coniugi stessi che la qualifica come convenzione matrimoniale modificativa ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 163 cod. civ. e la rende come tale soggetta ai requisiti di forma costitutiva di cui all'art. 162 cod. civ. Tale non è, invece, la convenzione in virtù della quale avviene il passaggio della situazione potenziale di divisibilità (conseguente al pregresso scioglimento) all'attualità (derivante dal compimento della divisione) dell'attribuzione a ciascuno dei coniugi della esclusiva titolarità di uno o più diritti o cespiti precedentemente comuni: la divisione infatti non incide su una situazione giuridica di comunione legale speciale alla quale soltanto è riferibile la disciplina degli artt. 162 e 163 cod. civ., situazione che più non esiste nel momento in cui viene posta in essere la divisione convenzionale, alla quale perciò torna applicabile la disciplina di forma e di sostanza che regola la divisione ordinaria in funzione della sua natura e dei beni che ne formano oggetto. Va ricordato, a questo proposito, che, con riferimento a qualsivoglia cespite, la sostituzione, nel patrimonio dei condividenti, del diritto esclusivo in luogo della situazione di contitolarità indivisa, ben può avvenire, secondo i principi generali, mediante l'attribuzione a uno di essi dell'intero bene e all'altro dell'equivalente pecuniario del valore della quota, se non anche mediante liquidazione del valore del cespite con alienazione a terzi, e conseguente distribuzione del ricavato pro quota: le quali ipotesi riguardano anche la divisione di un'azienda commerciale normalmente non suscettibile di divisione in natura se non a prezzo di dispersione della competente economica rappresentata dall'avviamento (1). La decisione n. 3753/2014 Sovvertendo l’esito dei giudicati di merito, con l’ordinanza n. 3753/2014, la Suprema Corte accoglie il ricorso di parte, affermando che l’attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale, non costituisce una forma di "alienazione" del bene rilevante ai fini della decadenza dei benefici “prima casa”, ma una forma di utilizzazione dello stesso ai fini della migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi, sia pure al venir meno della loro convivenza (e proprio in vista della cessazione della convivenza medesima). Nella fattispecie si trattava di chiarire se si verifica la decadenza dall’agevolazione “prima casa”, fruita in sede di acquisto dell’immobile, nel caso di trasferimento della casa coniugale, effettuato in adempimento di accordi di separazione e divorzio, da parte di uno o di entrambi i coniugi; più precisamente, se si verifica decadenza dall’agevolazione nel caso in cui, nell’ambito dell’accordo omologato dal Tribunale, venga previsto che uno dei coniugi trasferisca all’altro, prima del decorso del termine (1) Così Cass. 11 novembre 1996, n. 9846. 368 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco di cinque anni dall’acquisto, la propria quota del 50 per cento della casa coniugale, acquistata con i benefici “prima casa”. A tal fine, mentre la legge di registro prevede che in caso di vendita dell’immobile nel quinquennio, la decadenza dall’agevolazione può essere evitata ai sensi del riferito art. 1, nota II-bis), comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al TUR -, qualora, entro un anno dall’alienazione, si proceda all’acquisto di un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale, la contribuente sosteneva che l’atto di trasferimento della quota del 50 per cento della casa coniugale, da parte di uno dei due coniugi all’altro, era stato effettuato in adempimento di un accordo di separazione o divorzio. In relazione a tale trasferimento trova applicazione il regime di esenzione previsto dall’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, in base al quale non sono soggetti all’imposta di bollo, di registro e ad ogni altra tassa “Tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio”. Il regime di esenzione disposto dall’art. 19 - spiega la Corte costituzionale nella sentenza 11 giugno 2003, n. 202 - risponde all’esigenza “… di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del giudizio divorzile …” e “… di separazione, anche in considerazione dell’esigenza di agevolare e promuovere, nel più breve tempo, una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio sul coniuge non affidatario della prole”. Di fatto, secondo la Consulta, con la richiamata disposizione, il legislatore ha inteso escludere da imposizione gli atti del giudizio divorzile (o di separazione), al fine di favorire una rapida definizione dei rapporti patrimoniali tra le parti. Anche la giurisprudenza di legittimità (2) si è attestata nell’affermazione che nell’ipotesi di trasferimento di immobili in adempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi, l'art. 19 della legge n. 74 del 1987, (norma speciale rispetto a quella di cui all'art. 26 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 10 maggio 1999, n. 154 e 15 aprile 1992, n. 176, deve essere interpretato nel senso che l'esenzione “dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa” di “tutti gli atti, i do- cumenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio”, si estende “a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi”, in modo da garantire l'adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli. L’Amministrazione finanziaria si è pronunciata sull’argomento con risoluzione 21 giugno 2012, n. 27/E, affermando che in virtù del principio espresso dall'art. 19 della legge n. 74/1987, tale regime di favore può trovare applicazione anche al fine di escludere il verificarsi della decadenza dalle agevolazioni “prima casa” fruite in sede di acquisto, qualora in adempimento di un obbligo assunto in sede di separazione o divorzio, uno dei coniugi ceda la propria quota dell’immobile all’altro, prima del decorso del termine quinquennale. Il trasferimento al coniuge concretizza, infatti, un atto relativo “al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio”. La decadenza dall’agevolazione è esclusa a prescindere dalla circostanza che il coniuge cedente provveda o meno all’acquisto di un nuovo immobile. Ne deriva pertanto che, in applicazione di tali assunti, l’assegnazione dell’abitazione in sede di separazione non fa perdere i benefici fiscali sulla prima casa. Tuttavia, il trattamento tributario di favore non deve essere inteso in senso generalizzato, precisa la risoluzione n. 27/E/2012, ma deve ritenersi limitato solo a quei trasferimenti in favore della prole, contenuti negli accordi omologati dal Tribunale, purché costituiscano “elemento funzionale e indispensabile ai fini della risoluzione della crisi coniugale”. Osservazioni Occorre a questo punto rilevare che la posizione del giudice di legittimità nell’ordinanza n. 3753/2014, si pone in netto contrasto con la precedente sentenza n. 2263 del 3 febbraio 2014, con la quale la Suprema Corte ha invece affermato che l'alienazione avvenuta in seguito all'omologazione della separazione personale tra coniugi di un immobile acquistato usufruendo del beneficio delle agevolazioni prima casa, provoca la decadenza dal- (2) V. Cass. 17 febbraio 2001, n. 2347; 22 maggio 2002, n. 7493; 20 maggio 2005, n. 11458. Immobili & proprietà 6/2014 369 Opinioni Fisco le stesse se avviene nel quinquennio. In particolare, la Corte, accogliendo il ricorso dell'Agenzia delle Entrate che aveva revocato i benefici delle agevolazioni alla moglie e figlia di un contribuente a seguito del trasferimento infraquinquennale della casa coniugale intervenuto in dipendenza della separazione, ha sostenuto che le convenzioni concluse dai coniugi in sede di separazione personale, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro relative a beni mobili o immobili, non sono né legate alla presenza di un corrispettivo né costituiscono propriamente donazioni, ma rispondono, di norma, al peculiare spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell'evento di “separazione consensuale”, in funzione della complessiva sistemazione “solutorio-compensativa” di tutta la serie di possibili rapporti aventi significati patrimoniali maturati nel corso della convivenza matrimoniale. Perciò, il regolamento concordato fra i coniugi, pur acquistando efficacia giuridica solo in seguito al provvedimento di omologazione, che svolge l'essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti siano conformi ai superiori interessi della famiglia, trova la sua fonte nell'accordo delle parti. Il trasferimento di un immobile in favore del coniuge per effetto degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale è comunque riconducibile alla volontà del cedente, e non al provvedimento giudiziale di omologazione, sicché, qualora, intervenga nei cinque anni successivi al suo acquisto, senza che il cedente stesso, abbia comprato, entro l'anno ulteriore, altro appartamento da adibire a propria abitazione principale, le agevolazioni fiscali “prima casa” di cui egli abbia beneficiato per l'acquisto di quell'immobile vanno revocate, con conseguente legittimo recupero delle ordinarie imposte di registro, ipotecarie e catastali da parte dell'Amministrazione finanziaria. Stessi assunti nella contestuale sentenza n. 2273, nella quale il giudice di legittimità argomenta, tra l’altro, che il tenore letterale della norma (art. 1 della Tariffa annessa al D.P.R. n. 131/1986, nota II- bis), lett. b) e c)), che enuncia il diritto di abitazione, unitamente a proprietà, usufrutto ed uso, è inequivoca nell'indicare che il titolo della disponibilità di un immobile, che preclude l'accesso all'agevolazione, deve avere carattere reale, e deve essere riferito, appunto, al contenuto del corrispondente diritto, in coerenza con la ratio della disposizione agevolatrice che persegue lo scopo d'incentivare l'investimento del risparmio nell'acquisto dei predetti diritti su un'unità immobiliare da destinare a “prima casa”. 370 La sentenza n. 3931/2014 Il caso trattato dalla sentenza n. 3931/2014, riguarda due coniugi, i quali, in sede di separazione personale, consensuale, concordavano che la casa coniugale in comunione legale (di proprietà del marito e “prima casa” dello stesso) venisse assegnata alla moglie la quale era titolare di altro immobile nello stesso comune in regime di comunione ordinaria. L’impugnazione era rigettata in primo grado e confermata dalla Commissione tributaria regionale, nei confronti della quale la contribuente ha dedotto in Cassazione violazione dell'art. 1, nota II-bis), della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, e degli artt. 177, 191, 1100, 1102, 1103, cod. civ., per avere la sentenza d’appello ritenuto precluso l'accesso alle agevolazioni “prima casa”, in ipotesi di comunione “ordinaria” tra coniugi (art. 159 cod. civ.). La ricorrente chiarisce altresì che, successivamente all'acquisto dell’immobile in regime di comunione legale, erano intervenuti il mutamento convenzionale del regime patrimoniale della famiglia, ed in seguito la separazione legale dal coniuge, e conclude domandando se la contitolarità a titolo di comunione legale su una casa di abitazione rimanga tale anche a seguito di mutamento del regime patrimoniale e di separazione dei coniugi, oppure, se, a seguito di tali eventi, l’originaria comunione legale si trasformi - come essa ritiene - in comunione ordinaria, ai sensi degli artt. 1100 e ss. cod. civ. Nel decidere la controversia, la Suprema Corte accoglie i rilievi esposti in ricorso in quanto la Commissione regionale ha affermato principi difformi da quelli assunti dalla giurisprudenza di legittimità. Presupposto della pronuncia è che l'attribuzione della proprietà, stabilita dai coniugi, in adempimento di una condizione inserita all'interno dell'atto di separazione consensuale, non costituisce una “alienazione” dell'immobile che possa rilevare “ai fini della decadenza dei benefici prima casa, bensì una forma di utilizzazione dello stesso ai fini della migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi, sia pure al venir meno della loro convivenza (e proprio in vista della cessazione della convivenza stessa)”. Al riguardo occorre richiamare la lettera b) della nota II-bis) all'art. 1 della Tariffa annessa al D.P.R. n. 131/1986, la quale prevede che per il godimento delle agevolazioni fiscali “prima casa” occorre che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari “di non essere titolare esclusivo o in comunione Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare”, e che, ove l'unità immobiliare da destinare a “prima casa” sia acquistata in comunione, legale o convenzionale, tra coniugi, nessuno abbia in precedenza fruito del beneficio, come previsto dalla successiva lett. c) della stessa nota II-bis) della Tariffa. Nell’intento di conformare la norma tributaria di favore ai principi del diritto di famiglia, la giurisprudenza di legittimità ha positivamente considerato che, ove l'immobile acquistato sia, in concreto, adibito a “residenza della famiglia”, il diritto all'agevolazione non resta escluso dalla diversa residenza del coniuge che ha acquistato in regime di comunione legale, in considerazione del dovere di coabitazione al quale i coniugi sono tenuti (ex art. 143 cod. civ.) e che costituisce un elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza, ai fini fiscali (3). Un'interpretazione della legge tributaria conforme ai principi che presidiano il momento patologico della vita coniugale induce, quindi, a ritenere che allorché cessa il dovere della coabitazione per effetto della separazione personale, viene di conseguenza meno la destinazione dell'immobile ad abitazione familiare, che è presunta dalla norma agevolatrice e ne costituisce la ratio. In base alla considerazioni che precedono, il giudice di legittimità afferma quindi il principio secondo cui, al verificarsi della separazione legale, la comunione tra coniugi di un diritto reale su un immobile, ancorché originariamente acquistato in regime di comunione legale, deve essere equiparata alla contitolarità indivisa dei diritti sui beni tra soggetti tra loro estranei, che è compatibile con le agevolazioni: la facoltà di usare il bene comune, che non impedisca a ciascuno degli altri comunisti “di farne parimenti uso” ex art. 1102 cod. civ., non consente, infatti, di destinare la casa comune ad abitazione di uno solo dei comproprietari, per cui la titolarità di una quota è simile a quella di un im(3) Cfr. Cass. 28 ottobre 2000, n. 14237; 8 settembre 2003, n. 13085; 28 gennaio 2009, n. 2109; 28 giugno 2013, n. 16355; la riferita giurisprudenza ha corretto il precedente orientamento, più "restrittivo", espresso in particolare da Cass. 4 aprile 1996, n. 3159, in base al quale era stato affermato che nei casi di specie il beneficio fiscale spetta pro quota. Tale interpretazione si basava sulla considerazione che l'acquisto in comunione del diritto di proprietà su un bene da parte di più soggetti, non implica il trasferimento della proprietà in capo ad un unico e nuovo soggetto, ma pone ciascun compratore nella Immobili & proprietà 6/2014 mobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative (4). Perciò, l'eventuale assegnazione del bene da parte del giudice della separazione o i patti in tal senso contenuti nella separazione consensuale omologata non hanno effetto ostativo al riconoscimento del beneficio, tenuto conto che, nell'enunciare il diritto di proprietà, usufrutto, uso ed abitazione, la norma agevolativa è inequivoca nell'indicare che il titolo della disponibilità di un immobile, che preclude l'accesso al beneficio, deve avere carattere reale, e deve essere riferito, appunto, al contenuto del corrispondente diritto (si ricorda che l'accordo con effetti reali è quello che produce immediatamente l'effetto di trasferire da un soggetto ad un altro la proprietà o altro diritto reale su immobili - superficie, servitù, usufrutto, ecc. -, mentre l'accordo con effetti obbligatori, è quello in cui il diritto reale sull'immobile non si trasferisce immediatamente, ma le parti assumono l'obbligo di trasferirlo, e quindi occorre un successivo atto affinché il diritto sull'immobile si trasferisca da un soggetto all'altro, nel rispetto dell'accordo obbligatorio). Anche in questa fattispecie, la Suprema Corte conclude avvertendo che l'utilizzo “strumentale” dell'istituto della separazione a fini elusivi potrà essere fatto valere dall’ente impositore, in armonia col divieto generale di abuso del diritto che si applica ad ogni pratica volta ad ottenere benefici fiscali indebiti (5). Nuovo orientamento della Cassazione Con la successiva sentenza n. 7069 del 26 marzo 2014, la Suprema Corte fa marcia indietro rispetto alle determinazioni assunte dalla sentenza n. 3931/2014 in esame, nello stabilire nuovamente che la proprietà di un immobile in comproprietà col coniuge da cui, poi, ci si separa, fa comunque venire meno il beneficio fiscale prima casa. Il caso é quello di una contribuente cui veniva rigettato il ricorso e l’appello contro l’avviso di liquidazione con cui erano state recuperate le imposte di registro, ipotecaria e catastale per l’acquisto di un immobile con i benefici “prima casa”, sebbene situazione di titolare di detta proprietà e che, conseguentemente, il beneficio fiscale accordato nel concorso di determinati requisiti soggettivi, non può essere globalmente riconosciuto o negato in ragione della sussistenza dei requisiti stessi valutati con riferimento ad uno solo dei contitolari. (4) Cfr. anche Cass. 10 settembre 1999, n. 9647; 14 maggio 2007, n. 10984. (5) Cfr. Cass. 28 giugno 2012, n. 10807; 17 gennaio 2014, n. 861. 371 Opinioni Fisco la contribuente fosse comproprietaria, insieme al marito, di un’altra casa nello stesso comune. I giudice di merito ritenevano che la titolarità di beni in comunione con il consorte, ostativa al beneficio, non era limitata ai beni acquisiti in comunione legale, “non rilevando il regime patrimoniale della separazione dei beni adottato dai coniugi”. Nel rigettare il ricorso della contribuente, la Cassazione argomenta che per usufruire delle agevolazioni fiscali prima casa occorre che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari “di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare”. In costanza di contitolarità di questi diritti reali su un immobile, sito nel comune dove si trova quello da acquistare, il beneficio fiscale è precluso, a prescindere dalla scelta del regime patrimoniale dei coniugi. La disposizione di registro in argomento (in particolare, art. 1, nota II-bis), lettera b), della Tariffa annessa 372 al D.P.R. n. 131/1986) persegue infatti lo scopo di incentivare l'investimento del risparmio nell'acquisto di un'unità immobiliare da destinare a prima casa. Quindi, nel caso in cui i coniugi siano già contitolari, sia in comunione legale che convenzionale di una casa di abitazione, “opera la presunzione legislativa che la stessa sia destinata ad abitazione della famiglia, con conseguente esclusione dell'agevolazione per il successivo acquisto”. Il giudice di legittimità ritiene anche infondati i dubbi della ricorrente sulla costituzionalità della norma applicata in sede di decadenza dell'agevolazione (in relazione agli artt. 3, 29 e 31 Cost.), considerato che la perdita dell'agevolazione non consegue alla celebrazione delle nozze, ma a un secondo acquisto immobiliare, di modo che la libertà di contrarre matrimonio e il diritto alla formazione della famiglia “non traggono alcun vulnus dalla disposizione censurata”. Dunque, niente più benefici fiscali per la ricorrente per l’immobile in comproprietà con l'ex coniuge. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco IRAP IRAP, studi associati e amministratori di condominio di Francesca Picardi - Magistrato di Tribunale addetto all’Ufficio del Massimario e del Ruolo Nella nota alla sentenza della Cass. 27 gennaio 2014, n. 1575, che ad oggetto la pretesa di rimborso IRAP da parte di uno studio associato di amministratori di condominio, sono evidenziate alcune delle posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità relativamente sia al requisito impositivo di tale tributo, costituito dall’autonoma struttura organizzativa, sia all’onere probatorio a carico del contribuente nel giudizio di rimborso. Viene, inoltre, sottolineato il collegamento esistente tra l’assoggettamento degli amministratori di condominio all’IRAP ed il carattere professionale della loro attività. Il caso La presente vicenda trae origine da un’istanza di rimborso dell’IRAP formulata da uno studio associato di amministratori di condominio. Con sentenza n. 161/12/2005 la Commissione Tributaria Provinciale di Brescia, ritenendo assente il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, vista l’esiguità del valore dei beni strumentali e la mancanza di dipendenti e collaboratori, ha dichiarato illegittimo il silenzio rifiuto dell’amministrazione finanziaria. In data 18 maggio 2009 tale decisione è stata confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia - Sezione distaccata di Brescia, salva la parziale riforma limitatamente agli anni 1998-2000, relativamente ai quali il contribuente era decaduto dal diritto al rimborso. Il fisco ha proposto ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., lamentando l’omessa valutazione, da parte del giudice di merito, sia della presunzione dell’autonoma organizzazione insita nell’esercizio in forma associata di un’attività professionale sia della riferibilità del reddito allo studio associato e non ai singoli associati, nonostante l’assenza di dipendenti o collaboratori e l’esiguità dei beni strumentali. Con la sentenza in esame la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza, da un lato, ribadendo l’assoluta compatibilità dell’autonoma organizzazione, quale requisito (1) Così, tra le altre, Cass., sez. V, 13 novembre 2009, n. 24058 e Cass., sez. V, 11 giugno 2007, n. 13570, la prima con- Immobili & proprietà 6/2014 impositivo dell’IRAP, con l’irrisorietà dei beni strumentali e con la mancanza di collaborazioni di terzi e, dall’altro lato, richiamando l’orientamento secondo cui l'esercizio in forma associata di una professione liberale è circostanza di per sé idonea a far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione, ancorché non di particolare onere economico, nonché dell'intento di avvalersi della reciproca collaborazione e delle rispettive competenze, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio e, conseguentemente, debba essere assoggettato all'IRAP, a meno che il contribuente non dimostri che tale reddito è derivato dalla sola attività dei singoli associati (1). Tale ultima posizione, già espressa relativamente agli studi associati di ingegneri civili e di dottori commercialisti, è stata assunta, nel caso di specie, riguardo ad uno studio associato di amministratori di condominio, precisandosi che la relativa attività è “ratione temporis estranea all’alveo delle professioni protette”. L’IRAP e l’autonoma organizzazione La sentenza in esame contribuisce a delineare l’ambito applicativo dell’IRAP, imposta generale di tipo reale che colpisce tutte le attività produttive esercitate sul territorio regionale, a prescindere dall’esito produttivo e dal conseguente risultato, sulla cernente uno studio associato di ingegneri civili e la seconda di dottori commercialisti. 373 Opinioni Fisco base del valore aggiunto netto di produzione (2). Come stabilisce l’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, il presupposto di tale tributo è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata e diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi (3), inteso come un indice di capacità contributiva, distinto dal reddito, dal patrimonio, dal consumo e dalle altre manifestazioni di potenzialità economica, già poste a fondamento di diversi tributi vigenti nell'attuale sistema: attività che può essere sia di carattere imprenditoriale sia di lavoro autonomo ed, in quest’ultimo caso, può consistere sia nell’esercizio di una professione protetta sia di una professione non organizzata (4). Assume, pertanto, rilievo la struttura organizzativa, visto che l’imposta grava sulla maggiore ricchezza creata proprio dall'organizzazione, mentre restano in secondo piano i soggetti organizzatori o coinvolti nel processo produttivo, i quali, ove percepiscano la ricchezza o una sua quota, una volta prodot- ta, saranno colpiti successivamente, mediante le imposte sui redditi, con l’evidente rischio, sovente denunciato, di una doppia imposizione del medesimo reddito. Ad ogni modo l’imposta è stata reputata costituzionalmente legittima dalla Consulta (5) e compatibile con il sistema comunitario dalla Corte di giustizia CE (6). L'identificazione della fattispecie imponibile nell'esercizio dell'attività produttiva “autonomamente organizzata” implica anche un criterio di individuazione dei soggetti passivi, non espressamente enunciato nell’art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997, che si limita ad una classificazione dei possibili soggetti passivi secondo tipologie di attività svolte. Nell’elaborazione giurisprudenziale, pertanto, ove l’attività non sia esercitata da società o da enti e l’imposta non sia, perciò, automaticamente applicabile in base alla seconda parte dell’art. 2 del D.Lgs. n. 466/997, si è prestata particolare attenzione ai requisiti necessari ai fini della configurabilità di un’autonoma organizzazione (7). (2) La base imponibile si determina in virtù degli artt. 5, 5bis e 6 del D.Lgs. n. 446/1997, che si occupano rispettivamente di società di capitali ed enti commerciali, società di persone ed imprese individuali, banche ed altri enti o società finanziarie. L’attuale testo delle disposizioni de quibus è il risultato di una serie di interventi, di cui l’ultimo costituito dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244. Più precisamente per le società di capitali ed enti commerciali (art. 5) la base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore ed i costi della produzione risultanti dal conto economico, mentre per le società di persone e imprese individuali (art. 5-bis, salva la possibile opzione, per i soggetti in contabilità ordinaria, dell’applicazione delle regole di cui al precedente art. 5), dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi e delle variazioni delle rimanenze finali e l’ammontare dei costi delle materie prime sussidiarie e di consumo, delle merci, dei servizi, dell'ammortamento e dei canoni di locazione anche finanziaria dei beni strumentali materiali e immateriali. In entrambi i casi non possono includersi tra i componenti negativi in deduzione una serie di costi, specificamente elencati, tra cui, a titolo esemplificativo, possono ricordarsi le spese per il personale dipendente ed assimilato e per le collaborazioni esterne e la quota interessi dei canoni di locazione finanziaria, desunta dal contratto. (3) Le parole “autonomamente organizzata” sono state introdotte dal D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137, che ha modificato l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 446/1997. Per completezza va ricordato che il citato art. 2 precisa che “l’attività esercita dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto d’imposta”, per cui in tali ipotesi non è necessaria alcuna indagine relativamente alla sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione. (4) Secondo la terminologia della legge 14 gennaio 2013, n. 4. (5) La Corte cost., con la sentenza n. 156 del 21 maggio 2001, ha rigettato una serie di questioni di legittimità costituzionali: quella, con riferimento all’art. 3 Cost., relativa agli artt. 2, 4, 8 e 11 del D.Lgs. n. 446/1997, nella parte in cui fissano i presupposti d'imposta e determinano la base imponibile dell'IRAP, ritenendo che non irrazionalmente il legislatore ha individuato quale nuovo indice di capacità contributiva, diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate; quella, con riferimento all’art. 76 Cost., relativa all'art. 3, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n.446/1997, che ha assoggettato al pagamento dell'IRAP i lavoratori autonomi, in quanto espressamente previsto dall'art. 3, comma 144, lett. b), delle legge delega 23 dicembre 1996, n. 662; quella, con riferimento all’art. 3 Cost., relativa all’art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997, nella parte in cui include tra i soggetti passivi dell'imposta gli esercenti abituali di arti e professioni, e non anche gli esercenti occasionali, poiché tale differente trattamento fiscale trova fondamento in una non irragionevole presunzione circa la mancanza del requisito dell'autonoma organizzazione nelle diverse ipotesi di lavoro autonomo occasionale o non abituale; quella, con riferimento agli artt. 3, 35 e 53 Cost., relativa agli artt. 2, 3, 4, 8 e 11 D.Lgs. n. 446/1997, nella parte in cui equiparano, ai fini dell'applicazione dell'IRAP, i redditi di impresa a quelli di lavoro autonomo, perché l’IRAP è un'imposta che colpisce non i redditi personali, ma il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate. La Consulta non si è, invece, mai pronunciata, stante il difetto di rilevanza o, comunque, l’inammissibilità della questione, né in questo giudizio né nei successivi, sulla diversa problematica della indeducibilità dell’IRAP, ai fini delle imposte sui redditi: problematica attenuata grazie all’introduzione dell’art. 6 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in legge 28 gennaio 2009, n. 2, e successivamente modificato. (6) V. la sentenza della Corte di giustizia CE n. 475 del 3 ottobre 2006, secondo cui l’art. 33 della sesta direttiva CE 17 maggio 1977, n. 388 (oggi sostituita dalla direttiva CE 28 novembre 2006, n. 112) in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, come modificata dalla direttiva 91/680, non osta al mantenimento di un prelievo fiscale avente caratteristiche come quelle dell’imposta regionale italiana sulle attività produttive. Infatti, un tale prelievo si distingue dall’imposta sul valore aggiunto in modo tale da non poter essere considerato un’imposta sulla cifra d’affari, ai sensi dell’art.33, n.1, della direttiva, in quanto non deve essere considerato proporzionale al prezzo dei beni o dei servizi forniti, e non è stato concepito per ripercuotersi sul consumatore finale nel modo tipico dell’imposta sul valore aggiunto. (7) Va, tuttavia, segnalato che non vi sono ancora pronunce 374 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco Secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, in tema di IRAP, il requisito dell'autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (8). Per quanto concerne l’uso di prestazioni altrui, da un lato, si è ritenuto che il ricorso al lavoro di terzi per la fornitura di tutti i necessari servizi (dalla telefonia al segretariato) in forma rilevante e continuativa integra il presupposto impositivo di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997, non rilevando che la struttura posta a sostegno e potenziamento dell'attività professionale del contribuente sia fornita da personale dipendente o da un terzo in base ad un contratto di fornitura (9), ma, dall’altro lato, si è escluso che la presenza di un solo dipendente, sebbene possa costituire indizio di “stabile organizzazione”, comporti automaticamente l’applicazione dell’imposta, spettando al giudice di merito verificare quando il coinvolgimento nel proprio lavoro di un altro soggetto si traduca effettivamente in un elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito (10). Ad ogni modo, l’assenza di dipendenti o di collaboratori non occasionali costituisce sicuramente un indice della carenza del requisito dell’autonoma organizzazione (11). Non è, invece, necessario che la struttura organizzata sia in grado di funzionare in assenza del titolare, il cui apporto può, quindi, risultare insostituibile, per ragioni giuridiche o semplicemente per le sue particolari capacità, con prevalenza della sua opera sugli altri fattori produttivi (12). Costituisce, comunque, onere del contribuente che chieda il rimborso dell'imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell'assenza dell’autonoma organizzazione (13). In tale contesto risulta particolarmente rigorosa la soluzione adottata dalla Suprema Corte nel caso di relativamente all’impatto sulla problematica in esame dell’art. 1, comma 515, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha previsto l’istituzione, a decorrere dal 2014, di un fondo finalizzato ad escludere dall’ambito applicativo dell’IRAP i contribuenti - persone fisiche, che non si avvalgono di lavoratori dipendenti e assimilati e che impiegano, anche in locazione, beni strumentali che non eccedono il valore massimo determinato con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato previo parere conforme delle Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari. Cfr. sul punto G. Ferranti, Esclusione dall’IRAP di professionisti e imprese: una disciplina da rivedere, in Corr. trib., 2013, 117 ss. (8) V., ad esempio, Cass., sez. V, 16 febbraio 2007, n. 3680, edita in Boll. trib. d’informazione, 2007, n. 484, con nota di F. Brighenti, La Cassazione sull'IRAP dei professionisti non organizzati: certezze e dubbi, e Cass., sez. V, 16 febbraio 2007, n. 3676, concernenti le attività di lavoro autonomo di presentatore televisivo e di consulente del lavoro. Cfr. anche Cass., Sez. Un., 26 maggio 2009, n. 12108 e Cass., Sez. Un., 26 maggio 2009, n. 12111, che riguardano l’esercizio dell’attività imprenditoriale di agente di commercio e promotore finanziario e, quindi, superano la tesi secondo cui il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione sarebbe implicito nell’impresa. (9) Cass., sez. V, 28 aprile 2010, n. 10151. (10) Cass., sez. VI, 25 settembre 2013, n. 22019. In proposito v. anche G. Ferranti, L’impiego di un collaboratore con funzioni esecutive non comporta l’assoggettamento ad IRAP, in Corr. trib., 2013, 3299. (11) Ad esempio, l’assenza di personale dipendente, unitamente all’esiguo valore di beni strumentali, ha indotto ad escludere il requisito dell’autonoma organizzazione con riguardo all’esercizio in forma individuale dell’attività di medico convenzionato ed di dottore commercialista: v. Cass., sez. V, 28 aprile 2010, n. 10240, secondo cui in tema di IRAP, la disponibilità, da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, di uno studio, avente le caratteristiche e dotato delle attrezzature indicate nell'art. 22 dell'accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, rientrando nell'ambito del “minimo indispensabile” per l'esercizio dell'attività professionale, ed essendo obbligatoria ai fini dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto convenzionale, non integra, di per sé, in assenza di personale dipendente, il requisito dell'autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo; Cass., sez, V, 16 febbraio 2007, n. 3672, secondo cui presupposto per l'assoggettamento ad imposizione è l'esistenza di un'autonoma organizzazione, la quale ricorre quando l'attività abituale ed autonoma del contribuente dia luogo ad un'organizzazione dotata di un minimo di autonomia che potenzi ed accresca la capacità produttiva del contribuente stesso, di guisa che l'imposta non risulta applicabile ove in concreto i mezzi personali e materiali di cui si sia avvalso il contribuente costituiscano un mero ausilio della sua attività personale (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva accolto la domanda di rimborso presentata da un dottore commercialista, in base all'affermazione - non contestata dall'Agenzia delle Entrate sotto il profilo motivazionale - che l'attività professionale del contribuente era imperniata in modo esclusivo sulla sua persona, essendo stato accertato che egli operava senza l'ausilio di dipendenti e con attrezzature minime, consistenti in mobili di ufficio, telefono, automezzo e "personal computer"); Cass., sez. V, 16 febbraio 2007, n. 3677, che ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva accolto l'istanza di rimborso proposta da un ragioniere commercialista, affermando l'inesistenza di una struttura produttiva, in virtù dell'accertamento, non contestato in sede di legittimità, dell'assoluta inesistenza di personale dipendente e di collaborazioni coordinate e continuative, e della presenza di beni strumentali di modesta portata, costituiti da un computer ed un'autovettura). (12) Cass., sez. V, 6 dicembre 2011, n. 26157, che ha annullato la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza del requisito dell'autonoma organizzazione per la prevalenza del lavoro autonomo del professionista rispetto agli altri fattori produttivi organizzati. (13) In questo senso tutta la giurisprudenza citata, coerentemente con i principio generali elaborati in materia di rimbor- Immobili & proprietà 6/2014 375 Opinioni Fisco Assolutamente coerente con i presupposti impositivi dell’IRAP appare, invece, l’applicazione dell’imposta all’amministratore di condominio (o allo studio associato di amministratori di condominio), che eserciti la sua attività professionale con un’autonoma struttura organizzativa. Del resto, all’esito della recente riforma (15), non sembra potersi dubitare, non solo ai fini del diritto tributario, ma anche del diritto civile, della professionalità dell’attività dell’amministratore di condominio, il quale è, quindi, tenuto ad adempiere le sue obbligazioni non con la diligenza del buon padre di famiglia, ma con quella di cui all’art.1176, comma 2, cod. civ.: in questo senso depongono i requisiti di professionalità oggi necessari ex art. 71bis disp. att. cod. civ. e l’espresso riferimento, nell’art. 1129, comma 4, cod. civ., ad una possibile polizza dell’amministratore per la responsabilità civile professionale. Sebbene l’inciso della sentenza in esame (“attività di amministratore di condominio”, per quanto ratione temporis estranea all’alveo delle professioni protette) possa indurre in equivoco, tale professione non sembra, tuttavia, riconducibile all’art. 2229 cod. civ., non rientrando tra quelle per le quali la legge richiede la necessaria iscrizione in appositi albi o elenchi e per le quali esclude in caso contrario, ai sensi dell’art. 2231 cod. civ., qualsiasi azione per il pagamento del compenso (16): va inclusa, piuttosto, tra le professioni non organizzate, di cui oggi si occupa la legge 14 gennaio 2013, n. 4 (17). so di imposta, per cui si rinvia a Cass., sez. V, 29 dicembre 2011, n. 29613, secondo cui in tema di contenzioso tributario, ove la controversia abbia ad oggetto l'impugnazione del rigetto dell'istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, quest'ultimo riveste la qualità di attore in senso non solo formale - come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo - ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l'onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con le quali l'Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o - dove in concreto ne ricorrono i presupposti l'applicazione del principio di non contestazione. (14) In senso diverso appare orientata, invece, Cass., sez. VI, 27 febbraio 2014, n. 4663, in cui si legge “la presuntio hominis secondo cui la sussistenza di uno studio associato costituisce indizio della esistenza di una stabile organizzazione ai fini IRAP è, appunto, una presunzione che può essere superata con adeguata motivazione; così come accaduto nel caso di specie in cui il giudice di merito ha evidenziato l’assenza di spese per personale dipendente e la non sussistenza di una autonoma organizzazione”: tale ordinanza si riferisce, però, all’ipotesi peculiare di uno studio associato tra familiari, nella specie due coniugi. (15) La legge 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 18 giugno 2013. (16) V. Cass., sez. II, 11 giugno 2010, n. 14085, secondo cui l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della prescritta qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa, sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione. Al di fuori di tali attività vige, infatti, il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi, a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione, salvi gli oneri amministrativi o tributari. (17) Così A. Scarpa voce Condominio (riforma del), in AA.VV., Digesto civ. (aggiornamento), I, a cura di R. Sacco, Torino, 2013. specie, in cui la presunzione dell’autonoma organizzazione, collegata all’esercizio in forma associata dell’attività professionale, è ritenuta prevalente rispetto agli elementi indiziari in senso contrario desumibili dall’irrisorio valore dei beni utilizzati e dall’assenza o inconsistenza numerica delle collaborazioni di terzi: prevalenza probatoria ricondotta alla astratta possibilità per gli associati di avvalersi delle reciproche collaborazioni e competenze e di farsi sostituire dagli altri professionisti nelle proprie incombenze e, cioè, dall’astratta possibilità di sfruttare le sinergie positive dell’organizzazione dello studio associato (14). Amministratori di condominio ed IRAP 376 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco Risoluzione del contratto La tassazione del c.d. mutuo dissenso: il revirement dell’Agenzia delle Entrate di Paolo Frugiuele - Notaio in Lamezia Terme Con la recente risoluzione del 14 febbraio 2014 n. 20/E, l’Agenzia delle Entrate è ritornata sul tema della risoluzione del contratto, escludendo – sulla scia del più recente indirizzo di legittimità – che si abbia ritrasferimento immobiliare. Le conclusioni cui si giunge, ancorché riferite solo alla donazione, sembrano estensibili anche al di là di essa. Ciò che resta da valutare sono le eventuali ricadute fiscali della risoluzione. Il contratto, pur avendo forza di legge tra le parti, non è detto che non possa venir meno. Ai sensi dell’art. 1372, comma 2, cod. civ., oltre che per le cause ammesse dalla legge, esso può infatti esser sciolto anche per mutuo consenso. Le ragioni per le quali nella pratica si ricorre al c.d. “mutuo dissenso” sono le più varie. Laddove però il contratto da sciogliere sia una donazione, la motivazione sottostante consiste di regola nell’offrire (o, almeno, nel tentare di offrire) una qualche tutela all’acquirente dell’immobile di provenienza donativa (e – soprattutto – al suo eventuale creditore ipotecario). Tuttavia, posto che – come la pratica insegna – il successo di un rimedio dipende normalmente dalla sua convenienza economica, va da sé che il tema da affrontare è proprio quello del trattamento fiscale da riservare al mutuo dissenso, con particolare riguardo a quello relativo ad atti di disposizione immobiliare, là dove cioè il carico tributario dell’operazione potrebbe essere anche talmente gravoso da disincentivarla. Precondizione di tutto il ragionamento è, nondimeno, l’accoglimento di una ben definita concezione giuridica dell’istituto, giacché, come si vedrà, solo in tal modo si creano le premesse per una più favorevole tassazione (oltre che per la stessa risoluzione dei problemi di tutela sopra accennati per le donazioni). La natura giuridica del contratto di mutuo dissenso (1) F. Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Commentario al Codice Civile diretto da P. Schlesinger, artt. 2643-2645-bis, Milano, 1998, 419; Id., Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 1032. (2) B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1961, 519; L. Ferri, in Giur. it., 1970, IV, 25; D. Ru- bino, La compravendita, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, XXIII, Milano, 1971, 1024; F. Carresi, Il contratto, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, XXI, 2, Milano, 1987, 874; M. Ieva, Retroattività reale dell’azione di riduzione e tutela dell’avente causa dal donatario tra presente e futuro, in Riv. not., 1998, 1137. Immobili & proprietà 6/2014 L’inquadramento giuridico del contratto di mutuo dissenso è uno dei temi storicamente più tormentati del diritto civile. Tuttavia, stante la necessità di adottare in questa sede un approccio di tipo sintetico, ci si può soltanto limitare a dare atto per sommi capi delle tre impostazioni che si contendono il campo. Secondo una prima tesi, tanto recente ed autorevole, quanto attualmente isolata (1), il mutuo dissenso varrebbe a rimuovere il titolo dell’acquisto in capo all’avente causa, ma non sarebbe di per sé sufficiente a ripristinare la titolarità del bene in capo al suo dante causa. A tal fine, in adempimento dell’obbligo di dare che – per effetto della risoluzione del titolo – verrebbe a generarsi a carico dell’acquirente, occorrerebbe porre in essere un ulteriore atto di ri-trasferimento del bene in favore dell’originario alienante (c.d. pagamento traslativo). Secondo altra teoria, molto più diffusa e antica della precedente (2), la risoluzione di un contratto traslativo in realtà altro non sarebbe che un contrarius actus. Le parti, cioè, potrebbero porre in essere una mera retro-cessione del bene uguale e contraria a quella originaria, sicché il ri-acquisto da parte dell’alienante avverrebbe a titolo talora di donazio- 377 Opinioni Fisco ne, talaltra di vendita, ecc. Una risoluzione con operatività ex tunc non sarebbe invero ammissibile non solo perché, una volta esauriti gli effetti del titolo, il contratto sarebbe un fatto storico oramai intangibile; ma anche perché in ogni caso la retroattività sarebbe materia preclusa ai privati, i quali potrebbero disporre soltanto per l’avvenire. In caso contrario, infatti, si finirebbe per pregiudicare i diritti acquistati dai terzi in data anteriore. Secondo l’ultima impostazione, prevalente in dottrina (3), il mutuo dissenso sarebbe invece l’atto per mezzo del quale le parti di un contratto, ritrattando la loro originaria dichiarazione di volontà, ne risolvono gli effetti a far tempo dall’origine. In tal modo, pertanto, il dante causa non compie un nuovo acquisto, ma torna ad essere proprietario del bene in forza del suo primitivo titolo di provenienza. Il negozio, legittimato dall’art. 1372, comma 2, cod. civ., ed in certa misura disciplinato sotto il profilo pubblicitario dall’art. 2655, cod. civ., pur operando ex tunc, non sarebbe poi in grado di travolgere i diritti acquistati medio tempore dai terzi, perché in tale ipotesi si tratterebbe di retroattività non reale ma solo obbligatoria, in analogia a quanto previsto dall’art. 1458, cod. civ. Quest’ultimo orientamento ha di recente fatto breccia anche nella giurisprudenza di legittimità. La Corte di Cassazione in ben due pronunce, l’una a distanza di un anno dall’altra (4), ha espressamente ammesso il mutuo dissenso come risoluzione, invece che come retrocessione. E proprio questi arresti giurisprudenziali hanno posto le necessarie premesse per il revirement dell’amministrazione finanziaria sul trattamento fiscale da riservare all’operazione. (3) G. Capozzi, Il mutuo dissenso nella pratica notarile, in Vita not., 1993, 1, 635 ss.; A. Luminoso, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, 49 ss. e 234 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 735; M. Franzoni, Degli effetti del contratto, I, in Commentario al cod. civ. diretto da P. Schlesinger, Milano, 1999, 56 ss.; S. Patti, Il mutuo dissenso, in Vita not., 1999, 1658; P. Sirena, Effetti e vincolo, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, III, Milano 2006, 98 s.; F. Alcaro, Il mutuo dissenso, in Alcaro-Bandinelli-Palazzo, Effetti del contratto, in Trattato di diritto civile, Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2011, 67. (4) Il riferimento è, evidentemente, a Cass. 6 ottobre 2011, n. 20445; e Cass. 31 ottobre 2012, n. 18844. (5) V. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 329/E del 14 novembre 2007, laddove per l’appunto, escludendosi l’imposizione in misura fissa, si argomentava - senza solide fondamenta - ora per l’imposta di registro proporzionale, ora per l’imposta sulle donazioni a seconda che la risoluzione provenisse dalle parti originarie ovvero dai loro eredi. Vedi infatti F. Magliulo, 378 Il trattamento fiscale della risoluzione del contratto traslativo L’individuazione dell’esatta natura del negozio in oggetto ha una diretta, seppur non decisiva, influenza sul regime fiscale dell’atto. Ha influenza diretta, perché, in presenza di un trasferimento, non ci sarebbe spazio alcuno per l’imposizione in misura fissa (5) (eccezion fatta, ovviamente, per le vicende negoziali imponibili ad IVA). In tal caso, il trattamento fiscale della operazione resterebbe peraltro non predeterminabile in astratto, giacché in concreto variabile in ragione di svariati indici. Più in particolare, se si aderisse alla tesi della retrocessione solvendi causa, il trasferimento sarebbe soggetto all’imposta di registro in misura proporzionale ovvero all’imposta di donazione, a seconda che se ne qualifichi il titolo come oneroso ovvero come gratuito (6) (essendo, peraltro, questa un’operazione molto meno semplice di quanto possa apparire a prima vista (7)). Se invece si fosse innanzi ad un contrarius actus, la tassazione sarebbe identica a quella originariamente applicata in relazione all’atto risolto. L’inquadramento giuridico del mutuo dissenso non ha però un’influenza decisiva sul relativo profilo fiscale, perché l’applicazione dell’imposta in misura fissa non si collega di necessità alla mera assenza di un trasferimento in senso civilistico. A tal fine, occorre escludere che si abbia un trasferimento anche sul piano fiscale. L’art. 28, comma 2, D.P.R. 131/1986. La risoluzione della donazione Sul punto, occorre fare i conti con l’art. 28, comma 2, D.P.R. n. 131/1986, ai sensi del quale, fuori dei casi ricompresi fra quelli previsti nel primo comma (8), “l’imposta è dovuta per le prestazioni La natura del mutuo dissenso nei contratti con effetti reali, in Notariato, 2012, 19. (6) V. art. 2, comma 47, legge n. 286/2006. (7) Sulla questione finisce, invero, per incidere pure l’incerto concetto di “atto neutro”. In particolare, secondo alcuni (L. Cariota-Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1966, 223 testo e nota 12, e 228 testo e nota 12), l’adempimento sarebbe un atto oneroso, poiché, da un lato, l’esistenza di una attribuzione escluderebbe la figura dell’atto neutro, dall’altro, atteggiandosi la liberazione del debitore a corrispettivo della prestazione, si fuoriuscirebbe senz’altro dall’area della gratuità. Secondo altri (G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, 209 ss.), invece, l’adempimento sarebbe più correttamente un atto neutro, perché esso, senz’altro non qualificabile come atto gratuito, non potrebbe nemmeno essere ricondotto agli atti onerosi, visto che la liberazione dall’obbligo costituisce un effetto legale della solutio e non il suo corrispettivo. (8) Il primo comma regola un’ipotesi differente da quella in Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco derivanti dalla risoluzione, considerando comunque, ai fini della determinazione dell’imposta proporzionale, l’eventuale corrispettivo della risoluzione come maggiorazione delle prestazioni stesse”. Nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E del 14 febbraio 2014, una volta preso atto del nuovo corso giurisprudenziale, si precisa innanzitutto che la lettera dell’art. 28 porta a ritenere che la risoluzione sia sempre soggetta all’imposta di registro. La circostanza che non sia previsto un corrispettivo non trascina, dunque, l’operazione nel campo applicativo dell’imposta sulle donazioni (9). Ciò premesso, il vero nodo da sciogliere per individuare a questo punto l’esatta tassazione del contratto di mutuo dissenso attiene alla definizione del concetto di “prestazioni derivanti dalla risoluzione”. Si tratta in particolare di stabilire se il riacquisto del diritto da parte dell’alienante ovvero la riconsegna del bene da parte dell’acquirente siano o meno da considerare tali e se quindi possano o meno configurare un trasferimento in senso fiscale. La questione, con riferimento al mutuo dissenso di un atto di donazione immobiliare, è stata affrontata nella citata risoluzione e risolta in senso negativo (10). L’amministrazione finanziaria infatti, muovendo dai recenti arresti giurisprudenziali, afferma espressamente che «Nel caso di risoluzione per “mutuo consenso” di un precedente atto di donazione avente per oggetto un bene immobile, senza previsione di un corrispettivo, le parti si obbligano, in linea generale, alla sola restituzione del bene immobile. Tenuto conto dell’effetto eliminativo che esplica l’atto di risoluzione per “mutuo consenso”, si ritiene che tale fattispecie non integra il presupposto per l’applicazione della disciplina prevista per i trasferimenti immobiliari dall’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al TUR, e la consegna dell’immobile all’originario proprietario non assume rilievo ai fini dell’imposta proporzionale di registro». La affermazione è condivisibile sia per la riconsegna che per il riacquisto del bene. Per la riconsegna, perché essa rappresenta niente più che un mero atto di carattere materiale, di per sé inespressivo di alcuna capacità contributiva. Per il riacquisto, perché non può in effetti dirsi di essere innanzi ad una “prestazione”. E ciò non solo e non tanto per l’assenza di un trasferimento in senso giuridico o per l’automaticità dell’effetto della risoluzione, quanto perché in tal caso si è in presenza di un effetto eliminativo retroattivo. È questo, a ben vedere, il tratto distintivo della risoluzione per mutuo consenso rispetto a tutte quelle altre fattispecie in cui opera invece la tassazione proporzionale, nonostante pure manchi un trasferimento in senso giuridico o vi siano effetti automatici in qualche misura incrementativi del patrimonio di altro soggetto (11). In assenza di prestazioni derivanti dalla risoluzione, come affermato nella citata risoluzione, l’atto non può che scontare le imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa (pari attualmente ad euro 200,00 cadauna). Del resto, se è vero che il dante causa ritorna proprietario in forza del suo originario titolo di provenienza, ragionando diversamente, si finirebbe per assoggettare il suo acquisto ad una doppia e inammissibile imposizione tributaria. Resta fermo, tuttavia, che la tassazione in misura fissa presuppone che l’atto sia qualificabile come risoluzione per mutuo consenso in senso stretto. Il trattamento fiscale dell’operazione è, cioè, destinato a mutare in almeno due casi. In primo luogo, quando vi siano prestazioni derivanti dalla risoluzione, ma ovviamente diverse dal mero oggetto, stabilendo l'imposizione in misura fissa per la risoluzione del contratto dipendente da clausola o da condizione risolutiva espressa, che sia già contenuta nel contratto stesso o che venga stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto. Il tutto fermo restando che sull’eventuale corrispettivo previsto per la risoluzione deve essere applicata l’imposta di registro proporzionale. (9) E con ciò parrebbe superata quella discutibile tesi sostenuta dalla già citata risoluzione del 14 novembre 2007, n. 329, là dove si affermò che la risoluzione di un atto di donazione posta in essere dal donante e dagli eredi del donatario sarebbe soggetta all’imposta sulle donazioni, giacché, non trasmettendosi per causa di morte la facoltà di risolvere il contratto, la risoluzione altro non sarebbe che una retro-cessione a titolo gratuito. L’Agenzia delle Entrate fonda infatti il proprio revirement muovendo anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione (6 ottobre 2011, n. 20445), in cui espressamente si ammette la risoluzione come “contratto autonomo con il quale le stesse parti o i loro eredi ne estinguono uno precedente”. (10) Le conclusioni riportate nella risoluzione in oggetto sono, peraltro, il frutto delle attività svolte dal Tavolo di lavoro congiunto istituito tra l’Agenzia delle Entrate ed il Consiglio Nazionale del Notariato, in forza del protocollo d’intesa sottoscritto il 29 ottobre 2010. Per la tassazione in misura fissa, vedi già: in dottrina, fra gli altri, M. A. Casino, Il mutuo dissenso e la legge di registro, in Notariato, 2008, 549 ss.; P. Criscuoli, Mutuo dissenso, la Cassazione aderisce alla tesi della risoluzione retroattiva, in questa Rivista, 2012, 373; in giurisprudenza: Comm. Trib. Prov. di Matera, 29 settembre 2005, n. 157; Comm. Trib. Reg. di Potenza, 7 gennaio 2009, n. 4; Comm. Trib. Prov. di Macerata, 15 luglio 2013, n. 139. (11) Si pensi, ad esempio, alla vendita con riserva della proprietà (art. 27, comma 3, D.P.R. n. 131/1986) o alla rinuncia pura e semplice ad un diritto reale di godimento (art. 1, Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986), là dove, indipendentemente dalla qualificazione civilistica delle rispettive vicende negoziali, l’atto è soggetto ad imposta di registro in misura proporzionale. Immobili & proprietà 6/2014 379 Opinioni Fisco ripristino dello status quo ante. Potrebbe ascriversi a questo gruppo di ipotesi, ad esempio, la risoluzione di un atto di donazione avente in origine per oggetto un terreno, qualora medio tempore il donatario abbia edificato un fabbricato al di sopra di esso. In tal caso, infatti, la risoluzione produce degli effetti esorbitanti rispetto a quelli ordinari, giacché per la prima volta fa acquisire al donante la titolarità del fabbricato realizzato da terzi, con tutto quel che ne consegue pure sul piano obbligatorio (art. 936 cod. civ.). In secondo luogo, quando per la risoluzione sia previsto un corrispettivo, da intendersi questo “come un’autonoma nuova obbligazione derivante dallo stesso atto di risoluzione” (12). In tal caso, infatti, si determina di necessità una diversa qualificazione del contratto, non più in termini di mutuo dissenso puro, ma come accordo con causa di scambio. Alle ipotesi sopra indicate, tuttavia, dovrebbe aggiungersene un’altra. Infatti, se l’imposizione in misura fissa si collega, come appare, ad una risoluzione pura, va da sé che il trattamento fiscale dovrebbe mutare anche laddove il mutuo dissenso contenga “limiti o condizioni al ristabilimento della situazione ante donazione”, perché in tal caso si configurerebbe «un secondo, nuovo e “diverso” trasferimento di diritti» (13). Perciò, volendo fare un’esemplificazione, a prescindere dalle questioni di ordine giuridico che esso solleva (14), il c.d. mutuo dissenso parziale non sembrerebbe in grado di sottrarsi ad una tassazione di tipo proporzionale. La risoluzione della permuta e della vendita L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione in oggetto, si è pronunciata soltanto con riferimento al caso del mutuo dissenso senza corrispettivo avente per oggetto un atto di donazione immobiliare. Ci si potrebbe allora domandare se le conclusioni cui essa è giunta rimangano immutate anche quando si tratti di risolvere un contratto di permuta o di vendita. Benché da un punto di vista formale l’Agenzia delle Entrate si limiti ad escludere che la interpreta(12) Così, la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E del 14 febbraio 2014. (13) Testualmente, ancorché incidentalmente, Comm. Trib. Prov. di Macerata, 15 luglio 2013, n. 139. (14) Vedi, di recente, lo studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 52-2014/C, Sul mutuo dissenso in generale e, in specie, parziale del contratto di donazione (est. M. Ceolin). (15) Nella risoluzione in commento, infatti, dopo aver ricordato che con quella in data 14 novembre 2007, n. 329, si affer- 380 zione contenuta nella risoluzione n. 329/E del 14 novembre 2007 valga pure nel caso affrontato (15), a mio avviso, il quesito va risolto in senso positivo per entrambe le fattispecie, a meno che – ovviamente – non si rientri in uno di quei casi in cui si applica la tassazione in misura proporzionale. In particolare, con riferimento alla permuta, se è vero che l’efficacia retroattiva di tipo ripristinatorio resta identica a se stessa indipendentemente dalla natura del contratto oggetto di risoluzione, allora anche in tal caso il riacquisto e la riconsegna del bene in favore del singolo permutante non costituiscono delle prestazioni derivanti dalla risoluzione. Conseguentemente, l’atto sarà soggetto ad imposta di registro in misura fissa. Con riferimento alla vendita, il discorso senz’altro non cambia per le “prestazioni” a carico del compratore, che invero sono identiche a quelle del donatario. Potrebbe invece sorgere il dubbio per quelle a carico del venditore. Tuttavia, a mio avviso, non c’è ragione di concludere diversamente quando si tratti di “prestazioni” di carattere restitutorio, coerenti cioè – al pari della riconsegna del bene – con la funzione ripristinatoria del negozio di risoluzione. In altri termini, la restituzione del prezzo pagato in origine, già di per sé inqualificabile come corrispettivo della risoluzione, non sembra nemmeno prestarsi ad essere inquadrato fra le prestazioni derivanti dalla risoluzione. Alcune conseguenze del nuovo orientamento L’adesione alla concezione risolutoria del contratto di mutuo dissenso non è poi priva di ricadute sul piano sia dell’imposizione diretta, sia di quella indiretta. Ad ogni modo, va innanzitutto precisato – sulla scia della risoluzione in oggetto – che la retroattività non ha certo per conseguenza la restituzione delle imposte originariamente corrisposte in relazione alla cessione risolta. Il versamento non diviene, cioè, indebito a seguito della stipula del contratto di mutuo dissenso. Ciò sarebbe infatti possibile solo ammettendo la riapertura – ad opera dei mò che la risoluzione è soggetta all’imposta di registro in misura proporzionale ex art. 28, comma 2, D.P.R. n. 131/1986, si dà atto che ciò che si chiede di conoscere è «se tale interpretazione trovi applicazione anche nel caso di risoluzione per “mutuo consenso”, senza previsione di alcun corrispettivo, di un atto di donazione di immobili». Dal che parrebbe formalmente desumersi che la tassazione proporzionale continui a valere per tutte le altre ipotesi. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco contribuenti – di un rapporto tributario già definito. Il che però implicherebbe, fra l’altro, il riconoscimento al mutuo dissenso di una retroattività opponibile erga omnes. La plusvalenza La risoluzione in commento, con riferimento alla disciplina di cui agli artt. 67 e 68, D.P.R. n. 917/1986, afferma l’incidenza del mutuo dissenso (con effetti ex tunc) sulla determinazione del momento in cui si considera acquisito l’immobile, nonché sulla quantificazione della plusvalenza. Sembra però opportuno tracciare una linea di demarcazione fra la risoluzione della donazione e quella della vendita. Nel primo caso, se è vero che non c’è retrocessione dell’immobile a titolo gratuito, la risoluzione va considerata come una vicenda in sé neutra, proprio perché avente ad oggetto un contratto (la donazione) che già non assume alcun rilievo né sul piano del dies a quo del termine quinquennale, né su quello del costo di acquisizione da considerare per la quantificazione della plusvalenza (16). Altro è se, invece, si tratti di risolvere un atto di rivendita, là dove, una volta accolta la retroattività del mutuo dissenso, è come se l’acquirente non avesse in realtà mai rivenduto. Ecco allora che l’attenzione deve essere concentrata sulla eventuale nuova rivendita del bene dopo la avvenuta risoluzione di quella originaria. Qui bisogna distinguere a seconda dei casi. Nulla quaestio, se la nuova rivendita sia compiuta dopo cinque anni dall’acquisto. In tal caso, non si avrà infatti alcuna plusvalenza, anche se sia stata precedentemente risolta una rivendita infraquinquennale (17). (16) In caso di rivendita ad opera del donatario, infatti, il periodo di cinque anni va computato a decorrere “dalla data di acquisto da parte del donante” (art. 67, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 917/1986), e come prezzo di acquisto o costo di costruzione deve assumersi “quello sostenuto dal donante” (art. 68, comma 1, D.P.R. n. 917/1986). In altre parole, ai fini della plusvalenza, è come se la rivendita fosse compiuta direttamente da parte del donante. (17) Ad esempio, se Tizio dopo aver acquistato nel 2008 compie il secondo atto di rivendita nel 2014, non si avrà alcuna plusvalenza a prescindere dalla circostanza che la prima rivendita e la risoluzione per mutuo consenso fossero infraquinquennali o meno. (18) Lo stesso vale anche per le ipotesi in cui la plusvalenza operi indipendentemente dal termine quinquennale. (19) Si ipotizzi ad esempio che Tizio rivenda nel 2011 un’abitazione acquistata nel 2010 ma destinata a sua abitazione principale, senza dunque plusvalenza. Qualora Tizio proceda nel 2014 sia alla risoluzione dell’atto di alienazione sia al compimento di una nuova rivendita, egli difficilmente potrà sottrar- Immobili & proprietà 6/2014 Diverso è invece se entro cinque anni dallo originario acquisto si proceda anche alla stipula del nuovo atto di rivendita (18). In questo caso, l’atto è soggetto ad autonoma valutazione quanto all’accertamento dei presupposti della plusvalenza, la quale invero ben potrebbe verificarsi anche laddove la prima rivendita non ebbe a generarne alcuna (19). La nuova rivendita infraquinquennale, invece, non può assumere un’autonoma rilevanza per la determinazione dell’ammontare della plusvalenza. E infatti, se è vero che la doppia imposizione è illegittima e se è altresì vero che la risoluzione non comporta restituzione dell’imposta già versata per la plusvalenza generata dalla prima rivendita (ormai risolta), va allora chiarito che la nuova rivendita non può dar luogo a nuova plusvalenza tassabile, almeno non fino a concorrenza dell’imposta già assolta (20). Il c.d. coacervo La concezione risolutoria del mutuo dissenso influisce anche su altre questioni, non espressamente trattate dalla risoluzione in commento. Una di queste attiene al c.d. coacervo (21). Gli artt. 8 e 57, D.Lgs. n. 346/1990, sanciscono l’obbligo di considerare, ai fini della applicazione delle imposte sulla successione e sulla donazione, il valore globale netto dei beni e dei diritti in precedenza già ricevuti per donazione dal medesimo donante. Si pone allora il dubbio se ricadano nella suddetta disciplina il riacquisto da parte del donante per effetto della risoluzione e l’acquisto da parte del donatario per effetto della donazione che però è ormai risolta. si alla tassazione della eventuale plusvalenza, considerato che l’immobile non è stato adibito ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari “per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto ... e la cessione” (art. 67, comma 1, lett. b), D.P.R. 917/1986). (20) Ad esempio, Tizio, acquistata nel 2010 per euro 100.000 un’abitazione non destinata a sua abitazione principale, la rivende nel 2011 per euro 150.000, dando così luogo ad una plusvalenza tassabile di euro 50.000. Qualora Tizio, risolto senza corrispettivo l’atto di alienazione, proceda nel 2014 ad una nuova rivendita dell’abitazione per euro 200.000, la plusvalenza tassabile non ammonterà ad euro 100.000 ma soltanto ad euro 50.000, ossia la differenza fra l’ammontare delle “due” plusvalenze. Per evitare la doppia imposizione, insomma, non resta che considerare l’imposta già versata per la plusvalenza generata dalla prima rivendita alla stregua di un acconto. (21) Cfr. l’intervento sul punto dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato: Quesito n. 103-2010/T, Coacervo - donazioni risolte (est. Valeria Mastroiacovo). 381 Opinioni Fisco Alla prima questione va senz’altro data risposta negativa. Se l’atto anche fiscalmente non integra un trasferimento a titolo gratuito e perciò – per come affermato dalla risoluzione in commento – non è mai soggetto all’imposta di donazione, va da sé che il riacquisto da parte del donante non potrà in nessun modo rilevare ai fini del coacervo. La seconda questione sembra pure da risolversi in senso negativo. La retroattività della risoluzione senz’altro non consente – come detto – il recupero delle imposte pagate per la donazione, perché sotto tale profilo non può ammettersi la riapertura di un rapporto già esaurito sostenendo l’indebito versamento delle imposte originarie. Da ciò non può, tuttavia, inferirsi che la donazione, pure intesa come fatto storico immutabile, continui a far numero ai fini del coacervo. L’operatività ex tunc fa sì che, una volta risolta, la donazione risulti in realtà mai ricevuta dal donatario, e perciò, contrariamente ad altre eventuali donazioni ricevute ma mai risolte, essa non potrà rientrare nel calcolo. La decadenza dalle agevolazioni prima casa Altra possibile ricaduta della nuova concezione del mutuo dissenso si ha in tema di decadenza dalle agevolazioni “prima casa” per alienazione del bene infraquinquennale. Ma ciò non certo perché il negozio di risoluzione rilevi come alienazione (22) o come riacquisto, quanto perché esso potrebbe avere ad oggetto sia l’atto di rivendita (23), sia l’atto di riacquisto. Nel primo caso, è come se il venditore non avesse mai alienato l’abitazione acquistata con le agevolazioni. Conseguentemente, ove l’oramai “ex-rivenditore” intenda acquistare una ulteriore abitazione, egli non potrà godere delle agevolazioni prima casa (22) Peraltro, se risolvere non vuol dire trasferire, allora la risoluzione infraquinquennale dell’atto di acquisto compiuto usufruendo delle agevolazioni prima casa non assume alcun rilievo ai fini della decadenza dai benefici fiscali, perché non fa affatto decorrere il termine annuale per il riacquisto. (23) Per mera semplicità ci si riferirà all’atto di rivendita, fermo restando che ai fini della decadenza assume rilievo ogni alienazione, sia a titolo oneroso, sia a titolo gratuito. (24) L’ipotesi presa a riferimento è quella della risoluzione della rivendita infraquinquennale non seguita da riacquisto entro il termine di un anno. Altro sarebbe se invece la risoluzione intervenisse dopo tale riacquisto. In forza della retroattività del negozio, potrebbe invero risultare ex post illegittima l’applicazione delle agevolazioni prima casa (come pure l’utilizzo del credito d’imposta) in relazione all’atto di riacquisto (così, Comm. Trib. Prov. Trento, 16 febbraio 2009, n. 4, con riguardo alla ipotesi di revocazione di una donazione per sopravvenienza di figli). Chi argomenta in tal senso afferma, più o meno esplicitamente, l’esistenza - all’interno dell’atto di riacquisto - 382 (per difetto del requisito della novità), né potrà avvalersi del credito d’imposta (per difetto della precedente alienazione). Le ulteriori conseguenze della risoluzione variano, invece, a seconda che essa incida su una rivendita ultraquinquennale ovvero su una infraquinquennale. Nella prima ipotesi, non si pongono questioni in merito alla decadenza dalle agevolazioni prima casa, giacché l’eventuale nuova rivendita interverrebbe comunque oltre il termine di cinque anni. Nell’altra ipotesi, invece, è decisivo il momento in cui interviene la stipula dell’atto di mutuo dissenso. Infatti, qualora intervenga in pendenza del termine annuale per il riacquisto, essa impedisce a monte il verificarsi della decadenza. Se al contrario la risoluzione avvenisse dopo l’inutile decorso del termine annuale per il riacquisto (quando cioè la decadenza è già maturata) (24), sembrerebbe necessario effettuare una ulteriore distinzione. In particolare, da un lato, qualora l’amministrazione finanziaria avesse già fatto valere la decadenza, la risoluzione non potrebbe certo costituire il mezzo per rimuoverne ex tunc l’esistenza (e le sue conseguenze), non fosse altro perché nella fattispecie si è in presenza di una retroattività inter partes. Allo stesso modo, dall’altro lato, ove l’amministrazione finanziaria fosse a sua volta già decaduta dall’azione, la risoluzione non potrebbe nemmeno valere a riaprirne i termini. Resta, dunque, il caso della risoluzione che intervenga a decadenza già maturata, epperò in pendenza del termine dell’azione del fisco. Si tratta evidentemente di un’ipotesi complessa che necessita di particolari approfondimenti. Da un lato si podi una dichiarazione mendace in ordine alla novità nel godimento delle agevolazioni. Sennonché, non pare che in tal modo si colga nel segno. La norma richiede una dichiarazione circa la (non) titolarità di altra abitazione acquistata con le agevolazioni, la quale non può che avere per oggetto un fatto storicamente attuale e presente. Ne deriva che non può parlarsi di mendacio, né originario né successivo. Non successivo, perché si tratta di vera e propria dichiarazione di scienza e non di dichiarazione di intenti (al contrario della dichiarazione di voler stabilire la residenza nel Comune ove si trova l’immobile agevolato entro diciotto mesi dall’acquisto), tanto che non parrebbe applicarsi nemmeno l’art. 19, D.P.R. n. 131/1986. Non originario, perché la retroattività (peraltro inter partes) non può alterare a posteriori la veridicità storica della dichiarazione. La natura della dichiarazione, allora, importa di necessità che il dies a quo dell’eventuale accertamento coincida con il giorno in cui essa è resa e non da un giorno successivo. Contro eventuali abusi, saranno altri insomma i rimedi da azionare. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Fisco trebbe, infatti, sostenere l’inutilità della risoluzione come rimedio contro la decadenza, la quale – una volta perfezionatasi – rimarrebbe cioè insensibile alla retroattività dell’atto, non potendo che seguire un proprio autonomo percorso. Dall’altro, però, si potrebbe pure ritenere che la risoluzione possa giocare a vantaggio del contribuente, giacché essa in definitiva interverrebbe comunque prima dell’esercizio del potere da parte del fisco, facendone così cessare l’interesse a rilevarla. La risoluzione ben potrebbe poi avere per oggetto, non la rivendita ma il successivo atto di riacquisto. In tal caso, è come se il riacquirente non avesse in realtà mai riacquistato altra abitazione. Ecco allora che anche qui è importante la fase temporale in cui si colloca la risoluzione. Immobili & proprietà 6/2014 Difatti, se essa intervenisse entro l’anno dalla rivendita, l’oramai “ex-riacquirente” potrebbe evitare la decadenza (invero tuttora suscettibile di perfezionarsi), procedendo a nuovo riacquisto. Decorso l’anno, invece, la risoluzione non potrebbe valere a far maturare ex post la decadenza per mancato riacquisto entro l‘anno. Non solo perché, diversamente, il contribuente non avrebbe modo di evitarla una volta spirato il termine annuale, ma anche perché in tal modo si finirebbe per riaprire un rapporto tributario già definito; il che non sembra ammissibile. Va da sé che quanto detto da ultimo vale, a maggior ragione, anche per la risoluzione che intervenga dopo lo spirare dello stesso termine di decadenza per il recupero d’imposta da parte dell’amministrazione finanziaria. 383 Opinioni Locazioni Rent to buy Il rent to buy: la tipizzazione sociale di un contratto atipico di Antonio Testa - Notaio in Monza Un ulteriore contributo di analisi del rent to buy nell'ottica di rivendicare una tipizzazione sociale del contratto che consenta di fugare dubbi sull'applicazione della disciplina chiamata a regolare la lex contractus dell'accordo negoziale atipico. Il possibile superamento di certe criticità legate al diritto sostanziale e ai profili fiscali attraverso la sperimentazione di una scelta negoziale sui generis che possa soddisfare le medesime esigenze legate all'utilizzo del rent to buy. Nonostante le pagine di questa stessa rivista siano state già ampiamente occupate (1) dalle questioni fiscali e di diritto sostanziale attinenti questa fattispecie contrattuale, è innegabile come le esigenze contingenti, dettate dalla crisi economica che attanaglia il settore immobiliare, spingano verso un'ulteriore valutazione del fenomeno, nell'ottica di una progressiva maturazione di certe scelte negoziali capaci di smuovere il mercato edilizio. È opportuno rammentare come non sia possibile giustificare il ricorso a fattispecie contrattuali atipiche per il raggiungimento finale di un risultato economico-negoziale al quale sono giuridicamente preposte fattispecie tipiche, senza considerare i presupposti storico-economico-sociali che tradizionalmente conducono alla pragmatica “tipizzazione” di un contratto atipico. L'esempio in tal senso probabilmente più classico e storicamente più vicino, è rinvenibile nel contratto di leasing notoriamente importato, a partire da circa un quarantennio fa, dall'ordinamento anglosassone ed oggi passato alla routinaria tipicità, in dipendenza dell'utilizzo che le mutate esigenze economico-sociali, rispetto all'offerta rappresentata da certi sistemi contrattuali tradizionali, hanno rivendicato a tale fenomeno negoziale. Analogamente, è assai verosimile come la contingente stagnazione di certi mercati, sia pure nel tempo, potrà condurre gradatamente “a regime” la fattispecie del rent to buy allo scopo di indovinare novelle possibilità commerciali che possano tornare ad ossigenare significativamente il mercato immobiliare. Non pare necessaria una specifica cultura economica per individuare le ragioni salienti che affliggono, con un inusitato ingessamento, il mercato dell'edilizia. Il sistema bancario italiano, tradizionalmente aduso quasi esclusivamente alla funzione creditizia almeno sin dai tempi della rinascita del nostro Paese nell'immediato dopoguerra, sembra essere stato costretto a cambiare drasticamente rotta, sulla spinta evidentemente di pressioni comunitarie che, invero, trovano giustificazione solo con riferimento a realtà nazionali totalmente diverse dalla nostra. Drastici dettami, come quelli imposti dall'ormai famigerato “Basilea 2”, costringono il sistema bancario ad analizzare in maniera asetticamente numerica perfino il bilancio familiare del signor Rossi, senza alcuna valutazione pragmatica che possa riservare, al medesimo signor Rossi, apprezzato risparmiatore, una prospettiva di fiducia, da parte delle banche, assolutamente superiore a quella riservata al signor Bianchi, notoriamente conosciuto invece come scialacquatore di quattrini. Ciò ha comportato una netta contrazione del sistema creditizio del tutto sbilanciata rispetto alla esclusiva funzione finanziaria concretamente oggi svolta dalle banche. Nonostante, perciò, la liquidità non sembra proprio mancare nelle casse degli Istituti di Credito, considerata una raccolta finanziaria assai più elevata, almeno in proporzione, a quella conosciuta, ad esempio, fino ad un quinquennio fa, l'impiego di tale liquidità per il credito (1) A. Cirla, Il rent to buy: una grande occasione che però ancora non riesce a decollare, in questa Rivista, 2013, 12, 721 ss.; P. Aglietta, Profili fiscali dei contratti atipici “rent to buy”, Id., 717 ss. Presupposti economico-sociali che giustificano il ricorso al contratto atipico di rent to buy 384 Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Locazioni a favore delle famiglie e delle imprese che pur meriterebbero fiducia, è drasticamente negata da supposti “range di sicurezza” (i famigerati “rating” imposti da asettici documenti comunitari) ai quali esse non rispondono. A ciò si aggiunga come, pur l'imperante onda di certo liberismo economico, abbia, tuttavia di fatto, impedito che gli spread applicati dalle banche ai mutui possano avere risentito “in melius” degli equilibrismi che hanno ultimamente condotto il sistema economico interno a tornare competitivo rispetto a quello di altri Paesi europei. Sicché, ad onta del violento abbassamento dei parametri a cui sono ancorati i tassi d'interesse dei finanziamenti, la percentuale media degli spread applicati ai contratti di mutuo bancario risultano talmente elevati, da avere ricondotto l'effettivo costo del finanziamento a quello che lo stesso era, quando i parametri di riferimento dei tassi erano ben più elevati del costo del denaro, attualmente vicino allo zero, cui risponde l'Euribor o il Libor. Con la conseguenza che, sebbene in presenza di una situazione economica delle famiglie e delle imprese, assai più impoverita rispetto a quella di un quinquennio fa, il costo per l'accesso al credito, quando possibile, risulta egualmente elevato ai medesimi livelli del tempo in cui l'economia viaggiava a marce ben più elevate. Tutto questo ha generato due ordini di conseguenze. L'una, a danno del cosiddetto “consumatore” il quale, o non ha più la possibilità di accedere al prestito bancario in quanto le proprie condizioni patrimoniali non risultano rispondenti ai parametri di sicurezza cui la concessione del credito è strettamente ancorata, oppure, pur avendo, di principio, possibilità di accedervi, non si trova nelle condizioni economiche correnti da consentire un'esposizione al debito con certezza della capacità di rimborso, in presenza di un costo del finanziamento oltremodo elevato rispetto ai propri guadagni. Il corollario di una situazione di tal fatta è dato dalla sensibile riduzione del potere di acquisto, comportante l'abbandono di ogni velleità di investimento immobiliare. D'altro canto, la situazione in cui versano le imprese edili diventa, vieppiù, sempre meno rosea proprio a causa dell'impossibilità da parte dell'utenza di fruire dell'offerta merceologica a cui lo scopo dell'impresa stessa è funzionalizzata. L'esigenza dell'impresa (ma anche quella del privato indotto a vendere da impellenti bisogni economici) è quella di disfarsi, nel più breve tempo possibile, dell'invenduto, allo scopo di raggiungere, con il minor dispendio di energie economiche, lo scopo che l'impresa stessa si è programmata (o, per il caso del pri- Immobili & proprietà 6/2014 vato che si accinga a vendere, lo scopo ultimo di conseguire la realizzazione economica della propria cessione immobiliare nel più breve tempo possibile). La situazione è tanto più drammatica quanto più ci si accorge che si tratta del classico gatto che si morde la coda, in uno stagnante circuito vizioso nel quale diventa assai problematico districarsi, se non, appunto, a condizione di trovare nuovi sbocchi negoziali che possano rispondere alle contingenti esigenze della collettività. Il fenomeno sociale legato alla stagnazione del mercato immobiliare e la crisi creditizia come argomenti per una causalità unitaria della fattispecie negoziale atipica Ora, da un lato, la difficoltà di accesso al credito e la necessità comunque di acquisire la proprietà della casa di abitazione (ma l'esempio potrebbe anche essere esteso a qualunque altra tipologia di immobile, anche strumentale all'attività lavorativa esercitata dal potenziale acquirente), determina, in capo all'utenza, l'esigenza di trovare una soluzione economica, con riguardo all'adempimento dell'obbligo di pagare il corrispettivo, alternativa al pagamento integrale immediato, tradizionalmente coincidente con il momento del perfezionamento del contratto di acquisto, normalmente finanziato, nel passato, mediante accesso ad un finanziamento bancario. D'altro canto, anche sotto l'ottica del venditore (sia esso impresa o privato) non può negarsi come l'ottenimento del risultato sostanziale ultimo è strettamente legato all'approvvigionamento, in capo al potenziale acquirente, di una forma di finanziamento, diretto od indiretto, ancora una volta diverso dai soliti canali bancari, come si è visto, ormai difficilmente percorribili. Di fronte alla situazione economico-commerciale sommariamente appena descritta, il punto è quello di cercare una soluzione negoziale che possa consentire di contemperare le diverse esigenze dell'utente-consumatore, da un lato, e quelle dell'impresa (o comunque quelle del potenziale venditore), dall'altro, tentando di arrecare il minor nocumento possibile alle stesse parti contraenti nell'ipotesi in cui l'intero accordo andasse a monte. Si comprende facilmente come, in presenza di specifiche nuove esigenze espresse dal mercato, nell'impossibilità di trovare una idonea soluzione ai problemi attraverso il ricorso agli schemi negoziali correnti e tipizzati dall'Ordinamento, la concreta risposta non può che ricercarsi in schemi contrat- 385 Opinioni Locazioni tuali atipici che siano in grado di soddisfare quanto il ricorso ai contratti tipici non riesca a fare. Ed è proprio questa la funzione che l'Ordinamento riserva, nella buona sostanza, al principio della libertà di autonomia negoziale attraverso il quale è consentito ricostruire schemi negoziali, atipici appunto, diversi da quelli contemplati e regolamentati dal codice civile, con il solo limite del rispetto dei principi generali inderogabili, dell'ordine pubblico e del buon costume, attraverso i quali sia possibile soddisfare esigenze, meritevoli di tutela giuridica, altrimenti non realizzabili da nessuno degli schemi codicisticamente conosciuti. La fattispecie del rent to buy, ma il discorso non è poi troppo diverso anche per il caso delle fattispecie alternative a questa che la dottrina si è curata di ricostruire, come il caso del buy to rent o dell'help to buy, trova linfa vitale allorché essa riesca dunque concretamente ad assecondare i bisogni che sono legati alle cause fondamentali della crisi del mercato immobiliare, senza tuttavia porre, nel contempo, dubbi interpretativi che possono generare difficoltà applicative, sia con riferimento a questioni di diritto sostanziale, sia con riferimento a problematiche di ordine fiscale e che, pertanto non rendono conveniente il richiamo della fattispecie stessa. È ovvio quanto il primo problema che si pone di fronte ad un novello schema negoziale realizzato nella prassi, sia costituito dalla necessità di individuare la concreta disciplina che, a livello civilistico e a livello fiscale, possa valere a regolamentare la materia. Soprattutto al fine di consegnare allo schema negoziale atipico una cittadinanza civilistica che sia idonea a definire la disciplina applicabile, come è noto, risulta fondamentale inquadrare il fenomeno negoziale sotto l'aspetto della causa contrattuale che lo giustifichi. A tal riguardo, secondo certa dottrina che ha approfonditamente analizzato il fenomeno del rent to buy, sarebbe essenziale la verifica del concreto interesse che abbia mosso i contraenti verso certe soluzioni piuttosto che verso altre. In tal modo, se ne dovrebbe dedurre nel senso di affermare una differente interpretazione causale della fattispecie a seconda del diverso scopo realmente perseguito dalle parti contraenti. Di conseguenza, allorché la fattispecie venisse utilizzata allo specifico scopo di consentire al compratore l'ottenimento della concreta possibilità di rateizzazione del pagamento del prezzo di acquisto, nell'impossibilità da parte di questi di sborsare integralmente la somma stessa al momento del perfezionamento di un eventuale contratto di vendita con effetti immediati, il negozio, come è stato af- 386 fermato, mostrerebbe i caratteri di un contratto unitario atipico che viene a tipizzarsi in considerazione della speciale causa economico-sociale determinata dalla specifica funzione, sostanzialmente creditizia, a cui il contratto stesso risponderebbe. Qualora, invece, sempre secondo questo filone dottrinale, lo scopo effettivamente perseguito dalla parte acquirente fosse quello di acquisire l'immediata disponibilità del mero godimento del bene immobile dietro corresponsione di canoni periodici a favore dell'attuale proprietario, salva la possibilità – da parte dello stesso utilizzatore – di accedere successivamente (ed eventualmente) all'acquisizione del diritto di proprietà del bene medesimo, godendo del vantaggio economico di poter imputare, tutti o parte dei canoni pagati, a totale o parziale scomputo del prezzo di cessione, in tal caso, se ne dovrebbe dedurre l'esistenza di una fattispecie contrattuale complessa, certamente caratterizzata da un collegamento negoziale volontario. L'effettiva causa negoziale unitaria del rent to buy e la necessita di distinguerla dai “motivi” Per quanto sostenuto, allora, pare che la causa negoziale della fattispecie debba dirsi complessa quando l'intento che muova l'effettiva volontà delle parti veda la prevalenza dell'interesse del potenziale acquirente di procrastinare l'acquisto, intanto assicurandosi l'immediata utilizzazione del bene in corrispettivo del quale vengono pagati canoni periodici, poi (eventualmente) imputabili a prezzo, e debba invece dirsi semplice ed unitaria (sebbene atipica) quando a prevalere fosse l'interesse alla rateizzazione del corrispettivo al fine di consentire un frazionamento temporale del pagamento che corrisponda, in tal modo, al medesimo scopo cui risponderebbe l'avvenuto ottenimento di un mutuo, stante la mancata capacità attuale dell'acquirente di provvedere al pagamento del corrispettivo dovuto mediante utilizzo di propria liquidità immediatamente disponibile. Sicché, mentre nel primo caso, la disciplina del contratto risulterebbe dall'applicazione della singola disciplina che norma ciascun tipo contrattuale oggetto del collegamento, nel secondo caso essa risulta funzionalizzata agli effettivi interessi perseguiti dalle parti, le quali potranno stabilire in totale autonomia quale debbano essere le regole applicabili alla fattispecie, con conseguente disapplicazione di certe normative che sarebbero invece inderogabili nel caso di un inquadramento disciplinare della fattispecie stessa alla stregua dei singoli con- Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Locazioni tratti tipici che la compongano nella sua complessità. Non sembra che tali conclusioni dottrinali possano, alla luce delle esigenze che giustificano il ricorso al fenomeno contrattuale del rent to buy (ed, analogamente, del buy to rent e dell'help to buy), acriticamente essere condivise. Per quanto sopra si è cercato di premettere, sembra piuttosto evidente che, qualunque sia la scelta pratica che si voglia seguire, tra quelle consentite dall'autonomia negoziale privata, l'effettiva esigenza a cui l'atipicità del rent to buy dovrebbe rispondere e, dall'altro lato, la vera questione da risolvere attraverso il ricorso ad un fenomeno negoziale atipico di tal fatta, consista nella individuazione di una scelta contrattuale capace di consentire, sia pure indirettamente, una forma di finanziamento dell'acquisto, alternativo a quello offerto dagli ordinari canali bancari di accesso al credito ipotecario o fondiario, non più, di fatto, disponibili, o comunque scarsamente disponibili. Appare, infatti lapalissiano come il ricorso al rent to buy è unicamente giustificabile dalla funzione economico-sociale alla quale l'operazione negoziale è chiamata a rispondere. Non pare significativamente credibile che, sebbene palesata in tali termini, la funzione del negozio possa essere diversa allorché la parte acquirente abbia intenzionalmente inteso procrastinare gli effetti della vendita, intanto assicurandosi l'immediato godimento del bene. In tal caso è evidente come, se la volontà contrattuale fosse davvero questa, sarebbe molto più semplice ricorrere ad un preliminare ad effetti anticipati con una rateizzazione del corrispettivo dovuto, che di fatto avvenga mediante la previsione di una serie di acconti-prezzo aventi scadenza successiva nelle more tra la stipula del preliminare e l'adempimento contrattuale definitivo. In altri termini, comunque si congegni la fattispecie e, perciò, qualunque sia l'interesse dell'acquirente apparentemente palesatosi attraverso la specifica strutturazione negoziale utilizzata, di fronte ad un accordo che preveda un'operazione unitaria con la quale un immobile viene concesso in locazione con contestuale previsione di un impegno alla successiva cessione dell'immobile medesimo dal locatore al conduttore, ad un prezzo già fissato, dovendosi scomputare (in tutto o in parte), da tale corrispettivo, quanto già versato a titolo di canone locativo, l'effettiva causa contrattuale (da ben distinguersi dai motivi che possono indurre le parti ad utilizzare un certo schema negoziale piuttosto che un altro) è una ed una sola, trovando essa fondamento nella necessità di rendere possibile al compratore un dilazionamento del corrispettivo dovuto Immobili & proprietà 6/2014 e quindi approntando – di fatto – a favore di questi i medesimi vantaggi economici di cui egli godrebbe in caso di accesso ai normali canali creditizi. Il rent to buy, insomma, si atteggia sempre come una risposta concretamente attualizzabile in presenza dell'insorgenza di una difficoltà economica del compratore a versare interamente il corrispettivo dovuto al momento della vendita, contemperando l'interesse di questi alla conclusione comunque dell'acquisto, con l'interesse del venditore alla conclusione dell'alienazione immobiliare pur in assenza di un pagamento del prezzo dovuto in un'unica soluzione. A ben vedere, dunque, il rent to buy, sotto l'aspetto sostanziale, presenta una sua causa unitaria assimilabile, per grandi linee, a quella sottesa alla legittimazione del contratto di finanziamento bancario dalla quale unicamente si distanzia per il fatto che l'ottenuto finanziamento consente il pagamento del corrispettivo in un'unica soluzione, mediante utilizzo della provvista approntata dalla banca finanziatrice, alla quale verrà effettuato, da parte del mutuatario-acquirente, un rimborso rateale. Tale unitarietà della causa contrattuale, sia pure di natura atipica, consistente nel ruolo economicocreditizio che viene conferito al negozio posto in essere, consente di accedere ad una valutazione normativa della fattispecie, non col ricorso alle discipline dei singoli contratti (tipici) costituenti il collegamento negoziale all'interno della fattispecie atipica, sibbene attraverso una lex contractus che le parti possono liberamente prevedere in totale autonomia, con conseguenziale disapplicazione, tra l'altro, di certe discipline vincolistiche, come quella prevista dalla legge in materia di locazione. A questo punto è opportuno ricordare come un contratto si connaturi di atipicità tutte le volte in cui il congegno negoziale posto in essere non risponda ad alcuna fattispecie regolarmente disciplinata dal codice civile; ed è tipico quando la fattispecie è realizzata secondo lo schema tipicamente disciplinato. È certo, quindi, come la tipicità, da un lato, e l'atipicità, dall'altro, non abbiano alcun addentellato con la causa contrattuale la quale risulta sempre quella che è inerente le fattispecie tipiche le quali, combinandosi tra loro, realizzano l'atipicità della fattispecie venuta in esistenza. Ciò che, almeno di principio, conduce a realizzare un congegno negoziale veramente atipico, sono i “motivi”, cioè le ragioni specifiche che inducono le parti alla realizzazione di una nuova fattispecie. Senza andare a scomodare le teorie generali del diritto, è abbastanza intuitiva la differenza tra la “causa”, quale funzione economico-sociale che un determinato tipo contrattuale è chiamato a conse- 387 Opinioni Locazioni guire, ed i “motivi” i quali, quasi del tutto estranei alla c.d. lex contractus, rappresentano le ragioni contingenti che hanno spinto le parti versa una determinata scelta contrattuale piuttosto che verso altra. La tipizzazione sociale del contratto atipico È però altrettanto vero come si possa parlare di una tipizzazione sociale del negozio giuridico atipico quando esso trovi fondamento in una specifica causa, dettata dalla specifica funzione sociale ed economica alla quale lo schema negoziale stesso è chiamato a rispondere. Nel caso del rent to buy, come si è avuto modo di verificare, l'esigenza che ha spinto le parti a trovare un congegno contrattuale atipico, non risulta da contingenze legate agli interessi propri di quelle specifiche parti di quel singolo contratto, ma da un'esigenza che risulta socialmente diffusa, quale quella di consentire il superamento dell'impasse in cui è caduto il mercato immobiliare, sostanzialmente a causa della mancata presenza, nelle mani della normale utenza, di quella liquidità patrimoniale che consentirebbe l'immediato pagamento dei corrispettivi dovuti per gli acquisti immobiliari e la cui mancanza dipende dal fenomeno, ugualmente socialmente diffuso, rappresentato dal mancato approntamento di quella stessa liquidità, da parte degli istituti di credito tradizionalmente chiamati al ruolo di enti finanziatori al quale essi più non rispondono. In conclusione, lo specifico aspetto causale del rent to buy rende tale schema negoziale una fattispecie contrattuale socialmente tipica, con la conseguenza importantissima di poter considerare il fenomeno, non come una summa di più fattispecie contrattuali tipiche, tra loro collegate, il che implicherebbe l'applicazione di una disciplina complessa che segua la disciplina dei singoli tipi contrattuali componenti la fattispecie nella sua complessità, ma come fenomeno negoziale unitario per il quale trova applicazione la disciplina che le parti abbiano autonomamente realizzato in base ai propri concreti interessi e alle proprie reali valutazioni. Il rent to buy, come il leasing, può dirsi dunque un contratto che, sebbene non trovi una disciplina codicistica espressamente riferibile, e quindi tale da considerarsi civilisticamente atipico, si veste di una propria tipizzazione in dipendenza di una causa sociale che risponde alla tutela di interessi diffusi all'intera collettività e quindi di una causa socialmente tipica determinata dalla funzione sociale alla quale esso è chiamato a rispondere. Ciò, come sopra affermato, ha il grandissimo vantaggio di ren- 388 dere disapplicata la disciplina che, in maniera cogente, sarebbe, altrimenti, chiamata a regolare la fattispecie laddove essa fosse costituita, non da un contratto causalmente unitario, ma da singole fattispecie tipiche da ritenersi riunite unicamente dal nesso di collegamento che è funzionale alla soddisfazione delle motivazioni che hanno indotto le parti alla realizzazione di quello specifico schema negoziale articolato. Tutto questo premesso, non si può escludere come taluni profili di criticità, sia di natura sostanziale che fiscale, nell'applicazione concreta di certe scelte negoziali, possano frapporre seri ostacoli al successo della fattispecie. Rimandando a quanto, sul punto, è stato ampiamente ribadito, come si è detto all'inizio, dai contributi pubblicati su questa stessa rivista non più tardi di qualche mese addietro, si potrebbe tuttavia tentare una ricostruzione sui generis di uno schema negoziale che, soddisfacendo le medesime esigenze a cui viene chiamato il rent to buy, possa lasciare più ampi margini di certezza, sia in ordine alla concreta tutela degli interessi delle parti coinvolte, sia in ordine al profilo fiscale, in tal modo difficilmente sottoponibile a “vessazioni” tributarie deducibili da una errata interpretazione della fattispecie. La possibile sperimentazione di uno schema negoziale di rent to buy sui generis Invero, proprio in quanto il contratto di rent to buy rappresenta una figura negoziale atipica, non si può dire che ad esso si ricolleghi, sempre e comunque, un medesimo schema negoziale che lo individui. Piuttosto, come si è avuto modo di sostenere sopra, esso trova la sua tipicità nella causa che vi dà luogo, con la conseguenza che la disciplina contrattuale applicabile è unicamente funzionalizzata all'effettivo interesse sociale perseguito da acquirente e venditore. L'uno indotto all'acquisizione di un immobile della cui disponibilità al godimento ha immediata necessità senza, tuttavia, poter adempiere immediatamente all'obbligo di pagamento integrale del prezzo di un'eventuale acquisizione a titolo oneroso; l'altro interessato alla dismissione del proprio patrimonio immobiliare in quanto indotto alla realizzazione di capitali liquidi nel più breve tempo possibile. Si potrebbe immaginare, tra le altre soluzioni possibili, il perfezionamento di un contratto con il quale il titolare della piena proprietà sul bene immobile, al cui acquisto finale è interessato il potenziale acquirente, ceda a quest'ultimo il diritto di usufrutto vitalizio per un corrispettivo determinato da Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Locazioni corrispondersi ratealmente per tot anni. Nell'ambito di tale operazione negoziale si introduce, poi, un contratto di opzione per l'acquisto del diritto di nuda proprietà (con previsione di autonomo corrispettivo da pagarsi al momento dell'esercizio dell'opzione stessa) sottoposto a termine iniziale, coincidente con la scadenza della rateizzazione del prezzo di acquisto del diritto di usufrutto vitalizio, con contestuale previsione di apposita condizione risolutiva della durata dell'usufrutto a vita il quale, in caso di mancato esercizio dell'opzione suddetta, vede automaticamente limitata la propria durata che diventa coincidente con la fine della rateizzazione del corrispettivo impiegato per l'acquisto. Tale corrispettivo, a tutela dell'interesse del venditore, resta comunque quello originariamente fissato, nonostante l'avvenuta riduzione della durata dell'usufrutto, e ciò a titolo di compensazione della mancata realizzazione dell'aspettativa del cedente all'esercizio del diritto di opzione all'acquisto della nuda proprietà da parte dell'acquirente dell'originario usufrutto vitalizio. In tal modo: il potenziale acquirente acquisisce immediatamente il libero godimento dell'immobile per il quale si troverà a pagare un corrispettivo rateizzato (secondo un meccanismo analogo a quello della locazione), con il vantaggio, per il venditore, dell'alleggerimento del peso del pagamento delle imposte dirette e delle spese di mantenimento e di manutenzione (ordinaria e straordinaria) che gravano l'immobile, le quali, dal momento dell'acquisizione dell'usufrutto, dovranno essere pagate dall'usufruttuario. Inoltre, è evidente come, attraverso i normali meccanismi giuridici connessi alla disciplina della risoluzione del contratto per inadempimento, del termine iniziale e della condizione risolutiva, al contrario di ciò che avviene in presenza di un rent to buy più tradizionale, congegnato per mezzo di un collegamento tra un contratto di locazione ed un contratto che impegni il locatario ad un futuro acquisto del bene locatogli, restino impregiudicati i diritti e le aspettative di venditore ed acquirente senza che, sugli stessi, abbiano a gravare i rischi tradizionalmente relativi ai contratti di affitto, all'impossibilità di disporre del diritto da parte del locatore durante la durata del contratto di affitto, al fallimento del promittente venditore tra il momento della conclusione di un eventuale contratto preliminare ed il relativo contratto definitivo, ad eventuali procedure esecutive singole, a vicende pregiudizievoli a carico del venditore cui questi può incorrere fino al trasferimento definitivo della proprietà, ad eventuali previsioni di penali per il Immobili & proprietà 6/2014 recesso, all'applicazione della tutela, a favore del conduttore, tipicamente prevista per il contratto di locazione (il tutto con conseguenziali possibili aperture di procedimenti giudiziali tesi, ad esempio, all'accertamento di sfratti per morosità, al rilascio del bene pignorato, a risarcimenti di danno per eventuali pesi o gravami che abbiano colpito l'immobile durante il corso del contratto di affitto, a riduzioni richieste rispetto a penali originariamente previste, etc.) . D'altro canto, la previsione di un corrispettivo per l'acquisto del diritto di usufrutto vitalizio che resti fermo, anche qualora la durata dell'usufrutto venisse drasticamente a ridursi per effetto della condizione risolutiva apposta alla costituzione del diritto di usufrutto a vita, da un lato, il venditore resta protetto dal rischio del mancato acquisto della piena proprietà in capo all'attuale usufruttuario e, dall'altro lato, quest'ultimo è maggiormente indotto a pervenire all'acquisto definitivo della piena proprietà in virtù del fatto di avere già sborsato una somma ben maggiore rispetto a quella normalmente necessaria per l'acquisizione di un usufrutto a durata limitata. Infine, non è aspetto secondario, quello connesso alla dimostrazione in tal modo data, alla potenziale banca che dovrebbe finanziare l'acquisto della nuda proprietà in capo al potenziale acquirente della stessa (l'attuale usufruttuario), della propria capacità di rimborso del credito concessogli, per il semplice fatto che, durante il decorso del termine per l'esercizio dell'opzione, l'usufruttuario è stato perfettamente in grado di adempiere puntualmente alla rateizzazione per l'acquisto del diritto di usufrutto. Sotto il profilo fiscale, poi, l'operazione posta in essere non pone problematiche che possano indurre a tassazioni dubbie e suscettibili di recupero di imposte a carico delle parti. Nessuno può dubitare come all'attuale cessione del diritto di usufrutto vitalizio e alla successiva eventuale cessione della nuda proprietà, conseguano imposizioni tributarie del tutto autonome e certe; mentre gli elementi accidentali (termine iniziale e condizione risolutiva) non paiono possano dare adito a dubbi applicativi di sorta nel trattamento fiscale della materia. Senza dire che, la mancanza di canoni da imputarsi, a conclusione dell'operazione, a parziale o totale pagamento del corrispettivo della vendita, evitano il ricorrere delle normali criticità a cui, sotto il profilo dell'imposizione indiretta, si esporrebbe altrimenti la fattispecie, soprattutto con riguardo al rischio di una duplicazione d'imposta. 389 Opinioni Locazioni Uso abitativo Le locazioni abitative transitorie di Giuseppe Bordolli - Consulente legale in Genova La possibilità di concludere locazioni destinate a soddisfare esigenze abitative di breve periodo, locazioni che si distinguono sia da quelle agli studenti universitari (pure disciplinate dalla medesima legge) sia da quelle turistiche, che sono regolate dal codice civile, costituisce un’ottima opportunità per locatori ed inquilini che desiderano rapporti di locazione transitori, purché siano stipulati nel rigoroso rispetto di quelle determinate condizioni fissate dalla legislazione speciale. Non vi è dubbio che il ricorso a contratti di locazioni per esigenze abitative transitorie continua a costituire lo strumento principale utilizzato dai locatori per tentare di eludere l'applicazione degli stretti limiti imposti dalla legislazione attuale sulla durata del rapporto e determinazione del corrispettivo. Questo fenomeno si era già manifestato sotto la vigenza della legge 27 luglio 1978, n. 392, favorito anche da un orientamento giurisprudenziale favorevole agli interessi dei proprietari. Infatti, laddove il locatore, al momento della stipula del contratto, fosse riuscito ad inserire un riferimento alla transitorietà dell'esigenza abitativa, sarebbe stato poi difficile, per il conduttore, dare la prova che in realtà il contratto di locazione era stato stipulato per soddisfare un'esigenza abitativa primaria. Quindi se il conduttore - a fronte della previsione, risultante dal contratto, della destinazione dell'immobile al soddisfacimento di esigenze di natura transitoria - deduceva che il bene era in realtà destinato al soddisfacimento di esigenze abitative primarie, ai fini dell'assoggettabilità del rapporto alla disciplina vincolistica prevista per il regime ordinario, non bastava l'accertamento della sussistenza oggettiva delle dedotte esigenze abitative stabili, occorrendo che fosse dimostrata la consapevolezza condivisa da parte di entrambi i contraenti della effettiva destinazione dell'immobile a tale diverso uso rispetto a quello indicato nel contratto. Mancando invece il suddetto requisito di consapevolezza, comune ad entrambe le parti, il proposito unilaterale del conduttore di adibire l'immobile che gli veniva offerto in locazione a titolo transitorio - ad abitazione stabile, configurava una semplice riserva mentale del tutto irrilevante. (1) S. Paparo, in Le locazioni abitative, Padova, 2002, 125. (2) G. Gabrielli, in La locazioni di immobili urbani, Padova, 390 Il conduttore, quindi, avrebbe dovuto fornire la prova della simulazione dell'accordo apparente ovvero la prova della conoscenza, in capo al locatore, dell'inesistenza dell'esigenza transitoria (1). Per porre rimedio alle questioni generate dalla previgente disciplina delle locazioni transitorie, la regolamentazione delle stesse contenuta all'art. 5, legge n. 431/1998, mostra chiaramente i segni di un mutamento di prospettiva. La disciplina A differenza della legge n. 392/78 (il cui art. 26 lasciava libere le locazioni per esigenze abitative di natura transitoria) la legge n. 431/98 ha sottratto all’autonomia delle parti le locazioni in questione (che richiedono la forma scritta a pena di nullità), le quali devono fare riferimento ai criteri generali e ai tipi di contratto approvati con decreti ministeriali sostitutivi e con gli Accordi Locali stipulati in esecuzione dei decreti medesimi. Non sono quindi le parti a decidere se e quando poter ricorrere alla tipologia del contratto transitorio ma sono i decreti ministeriali emanati ai sensi della predetta legge a fissare le modalità ed i presupposti, sussistendo i quali è consentito ai contraenti il ricorso al contratto di durata più breve rispetto alla disciplina ordinaria. Dunque, mentre in generale un soggetto è libero di scegliere se concludere un contratto libero o un contratto del canale concertato, la parte (indifferentemente se il locatore o il conduttore) che necessiti di concludere un contratto di locazione transitorio, può unicamente avvalersi del canale concertato (2). 2005, 512. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Locazioni In altre parole, l'ammissibilità della stipulazione di un contratto di locazione ad uso transitorio di durata inferiore a quella minima stabilita in via ordinaria non è incondizionata ma deve essere in linea con il disposto dell'art. 5 della legge stessa, il quale demanda alla normazione secondaria di cui al comma 2 dell'art. 4 della stessa legge la definizione delle condizioni e delle modalità necessarie per la conclusione di validi ed efficaci contratti locativi di natura transitoria. Così, il D.M. 30 dicembre 2002 all’art. 2 stabilisce che i contratti di locazione di natura transitoria sono stipulati per soddisfare particolari esigenze dei proprietari e/o dei conduttori - con particolare riferimento a quelle derivanti da mobilità lavorativa da individuarsi nella contrattazione territoriale tra le organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative. Inoltre stabilisce che i contratti di natura transitoria devono prevedere una specifica clausola che individui l'esigenza transitoria del locatore e/o del conduttore - da provare quest'ultima con apposita documentazione da allegare al contratto - i quali dovranno confermare il permanere della stessa tramite lettera raccomandata da inviarsi prima della scadenza del termine stabilito nel contratto; stabilisce inoltre che i contratti di cui al precedente decreto sono ricondotti alla durata prevista dall'art. 2 comma 1 della legge n. 431/1998, in caso di inadempimento delle modalità di conferma delle esigenze transitorie stabilite nei tipi di contratto di cui al comma 6 ovvero nel caso le esigenze di transitorietà vengano meno. Il sopra citato ultimo D.M. 10 marzo 2006 all’art. 4 conferma che gli accordi locali stipulati tra le rappresentanze delle parti (proprietari e inquilini) devono determinare quali sono le fattispecie che consentono la stipula di locazioni transitorie. Viene altresì confermato che in ogni Comune, dotato o no di accordo territoriale, è comunque per le parti possibile, ai sensi del D.M. 10 marzo 2006, stipulare contratti transitori per la suindicata durata di minimo 1 mese e massimo 18 mesi per soddisfare qualsiasi esigenza specifica, espressamente indicata in contratto, del locatore o di un suo familiare ovvero del conduttore o di un suo familiare, collegata ad un evento certo a data prefissata. Alla luce di quanto sopra si può concludere che ai fini di un valido ed efficace contratto locativo di natura transitoria a norma del combinato disposto di cui all'art. 5 legge n. 431/98 e del D.M. 30 dicembre (3) Cass. 20 febbraio 2014, n.4075, in Giust. civ. Mass, 2014. Immobili & proprietà 6/2014 2002, nonché del D.M. 10 marzo 2006, occorre la sussistenza delle seguenti condizioni: 1) la previsione di una specifica clausola contrattuale che individui l'esigenza di transitorietà del locatore e/o del conduttore; 2) l'allegazione, al contratto, di un'apposita documentazione atta a provare la suddetta esigenza; 3) la conferma, da parte dei contraenti, del permanere di essa, tramite lettera raccomandata da inviarsi prima della scadenza del termine. In definitiva, o ricorrono tali condizioni e si soddisfano le dette modalità, volte a giustificare obbiettivamente la deroga alla disciplina ordinaria oppure, quali che siano le cause del mancato soddisfacimento dei presupposti contemplati, il contratto locativo non può avere una durata inferiore a quella ordinaria con l'ulteriore conseguenza che, in difetto di prova dei requisiti richiesti, va ricondotto nell'alveo dei contratti di cui all'art. 2 commi 2 e 3 legge n.431/98 (3). Tuttavia merita di essere precisato che, indipendentemente dalle esigenze individuate negli accordi locali, le parti possono stipulare un contratto di locazione transitoria per soddisfare qualsiasi esigenza specifica, espressamente indicata in contratto, del locatore o di un suo familiare ovvero del conduttore o di un suo familiare, collegata ad un evento certo a data prefissata. Ne consegue che la corrispondenza tra quanto stabilito in sede locale e quanto pattuito a livello di contratto individuale fra le parti ha il limitato effetto di esonerare il giudice dalla verifica dei presupposti per la deroga della durata minima legale. Pertanto, per le ipotesi in cui venga concluso un contratto transitorio in forza di un'esigenza non contemplata nell'accordo locale, il giudice dovrà ogni volta valutarne l'effettività, tanto in base ai principi generali dell'ordinamento, quanto in base alle linee generali della contrattazione territoriale emergenti a livello nazionale (4). In ogni caso sono escluse dalla disciplina in questione le locazioni transitorie per finalità turistiche (soggette alle norme del codice civile) o quelle per esigenze di studio degli studenti universitari, per i quali la legge n. 431/98 prevede un’apposita disciplina distinta e diversa da quella dettata per le esigenze transitorie. Infatti il comma 2 dell'art. 5 della stessa legge afferma che gli studenti universitari, in alternativa a quanto previsto al comma 1, possono stipulare contratti di locazione transitori sulla base di quan(4) G. Cresci, Le locazioni abitative, Padova, 2002, 147. 391 Opinioni Locazioni to previsto nei contratti tipo approvati ai sensi dell'art. 4-bis. Ciò significa, quindi, che non solo gli studenti sono ammessi stipulare i contratti espressamente previsti per realizzare le loro esigenze transitorie, ma che possono continuare a stipulare contratti transitori “comuni”, secondo le modalità sopra analizzate (ferma la possibilità sottoscrivere contratti c.d. liberi o a canone c.d. concertato). La strada indicata dal comma 2 dell'art. 5 costituisce, dunque, non la modalità esclusiva che lo studente universitario - che necessiti di un alloggio per un periodo di tempo limitato - deve obbligatoriamente scegliere, bensì uno strumento alternativo all'ipotesi normale di locazione transitoria. Il concetto di transitorietà e le esigenze delle parti I contratti di locazione transitoria in questione devono prevedere una specifica clausola che individui l’esigenza della transitorietà del locatore e/o del conduttore - da provare quest’ultima con apposita documentazione da allegare al contratto. Per la valida stipula di un contratto transitorio, non è dunque sufficiente la proclamazione della natura transitoria del contratto, ma viene introdotto un requisito di letteralità, da cui possa risultare giustificata la deroga ai limiti di durata (5). Deve escludersi, quindi, che il contratto di locazione abbia natura transitoria nel caso in cui manchi ogni riferimento alle esigenze di tale natura. Quale ulteriore elemento all'esclusione della transitorietà vale anche la considerazione che l'immobile è stato concesso in locazione senza il trasferimento delle utenze che sono state attivate dallo stesso conduttore (6). Inoltre, al fine di evitare possibili elusioni ed accordi simulatori a danno del conduttore (come nella vigenza del precedente disciplina), l'esigenza transitoria dello stesso deve essere appositamente provata con documentazione da allegarsi al contratto (D.M. 30 dicembre 2002, All. C, art. 3) (7). Non può quindi considerarsi sufficiente la generica e non documentata menzione di una mera probabilità del trasferimento del conduttore in altra sede di lavoro (8). (5) G. Gabrielli, cit., 2005, 512. (6) Cass. 20 febbraio 2013, n. 4242, in Giust. civ. Mass., 2013. (7) Tale documento, che dovrà pervenire da soggetti estranei formalmente o sostanzialmente alle parti contraenti (potrà ad esempio allegarsi un contratto di lavoro a tempo determinato), costituirà elemento essenziale della fattispecie deroga- 392 Non basta quindi che l’esigenza sia specificata nel corpo della scrittura contrattuale: è richiesto, nell’ipotesi che questa concerna il conduttore, che ne sia dato riscontro documentale al momento della conclusione del contratto. La norma di fonte secondaria impone così ben due oneri: di specificazione e di documentazione (9). Del resto la specificazione e la documentazione della necessità abitativa transitoria valgono ad attribuire concretezza e credibilità all’esigenza prospettata dal conduttore, radicando nel locatore il ragionevole convincimento che questa sia obbiettivamente sussistente. In mancanza delle condizioni di cui sopra, opera, a beneficio del conduttore che adduca la conoscenza, in capo alla controparte, dell’inesistenza delle esigenze di natura transitoria, una vera e propria relevatio ab onere probandi: così che in questo caso sarà il locatore stesso a dover provare che il contratto è stato concluso nella condivisa consapevolezza della sussistenza di una ben precisa necessità transitoria del locatario (10). In ogni caso il locatore ha l’onere di confermare il verificarsi di quanto ha giustificato la stipula del contratto di natura transitoria a mezzo di lettera raccomandata da inviarsi al conduttore entro un termine da determinarsi, prima della scadenza del contratto. In caso di mancato invio della lettera appena citata oppure del venire meno delle condizioni che hanno giustificato la transitorietà, il contratto si intende automaticamente ricondotto alla durata prevista dall’art. 2 comma 1 della legge n. 431/1998 (ossia quattro anni, rinnovati obbligatoriamente di altri quattro alla prima scadenza). Si noti che la riconduzione alla durata prevista per i contratti disciplinati dall'art. 2, comma 1, è prevista non solo per le ipotesi in cui non venga confermata l'esigenza transitoria, ma pure quando siano venute meno le cause della transitorietà. Questa ipotesi deve, peraltro, intendersi riferita alle sole esigenze del locatore, e non alle esigenze del conduttore, che si trasformano, nel corso del rapporto, in necessità di una locazione stabile. Tale ricostruzione troverebbe conferma nel testo stesso del contratto tipo allegato al decreto sopra citato, dove è menzionata la riconduzione alla dutoria: così N. Scripelliti, I contratti di locazione transitori, in Arch. loc, 1999, 205. (8) Cass. 20 febbraio 2014, n.4075, cit. (9) M. Serpolla, Le locazioni ad uso abitativo, Milano, 2008, 173. (10) Trib. Roma, 23 aprile 2003, in Rass. loc., 2004, 181. Immobili & proprietà 6/2014 Opinioni Locazioni rata di cui all'art. 2, comma 1 (come per il caso di mancata conferma) solo per i contratti conclusi per esigenze transitorie del locatore. Infine merita di essere ricordato che il contratto tipo prevede un’ulteriore eventuale conseguenza (tanto per le ipotesi di mancata conferma, tanto nel caso del venir meno delle cause della transitorietà). Infatti, si dice che in ogni caso, ove il locatore abbia riacquistato la disponibilità dell'alloggio alla scadenza dichiarando di volerlo adibire ad un uso determinato e non lo adibisca, nel termine di sei mesi dalla data in cui ha riacquistato la detta disponibilità, a tale uso, il conduttore ha diritto al ripristino del rapporto di locazione alle condizioni di cui all'art. 2, comma 1, legge n. 431/1998 o, in alternativa, ad un risarcimento in misura pari a trentasei mensilità dell'ultimo canone di locazione corrisposto. Secondo l'art. 2, comma 1, D.M. 30 dicembre 2002, i contratti di locazione transitoria hanno durata non inferiore ad un mese e non superiore a diciotto mesi. Da un lato, pertanto, il legislatore ha fissato un termine minimo di durata di un mese, ritenendo che non possano sussistere esigenze abitative transitorie di durata inframensile, dall'altro ha individuato in diciotto mesi il termine massimo di durata delle stesse. Non si può negare però che anche necessità temporanee di rilevante valenza (quali, ad es., le necessità di lavoro ovvero di studio non rientranti nell’ambito delle esigenze di studenti universitari) siano suscettibili di perdurare nel tempo. Detto aspetto, tuttavia, non è stato espressamente disciplinato dal legislatore, sicché una parte della dottrina sostiene - nel silenzio della legge - che si applichi, anche alle locazioni transitorie, l'istituto della rinnovazione tacita di cui all'art. 1597 cod. civ., sostenendo che ove il locatore non intimi disdetta, ed il conduttore sia lasciato o rimanga nella detenzione, il contratto si rinnovi tacitamente (per lo stesso periodo originariamente concordato), ritenendo che in tal caso l'esigenza transitoria perduri (11). La possibilità di tacita rinnovazione del contratto in esame sembra trovare conferma in un argomento di carattere testuale contenuto nei decreti ministeriali succedutisi nel tempo (D.M. 5 marzo 1999, D. M. 30 dicembre 2002 e D.M. 10 marzo 2006) e negli allegati tipi di contratto. In particolare, dal combinato disposto delle disposizioni dell’art. 2, commi 2, 3 e 6, lett. b), c), d) ed e), del D.M. 5 marzo 1999, sostanzialmente riprodotte nell’art. 2, commi 4 e 5, del D.M. 30 dicembre 2002, emerge l’esistenza dell’istituto della riconduzione della durata del contratto transitorio a quella prevista dall’art. 2, comma 1, della legge n. 431/1998 (e, cioè, alla durata di quattro anni + quattro stabilita per le locazioni c.d. libere), e ciò nell’ipotesi di mancata conferma, da parte del locatore, del verificarsi dell’evento che ha giustificato la stipulazione del contratto ed, altresì, nel caso in cui le cause di transitorietà (concernenti il locatore o il conduttore) poste a fondamento della convenzione locatizia siano venute meno (art. 2, comma 2, D.M. 5 marzo 1999 e punto 2, del contratto tipo Allegato B; art. 2, comma 5, D.M. 30 dicembre 2002 e art. 2, comma 2, del tipo di contratto Allegato C). Quanto alla determinazione del canone, la disciplina è contenuta nell'art. 2, comma 2, D.M. 30 dicembre 2002, il quale prevede che i canoni di locazione dei contratti di natura transitoria relativi ad immobili ricadenti nelle aree metropolitane di Roma, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Torino, Bari, Palermo e Catania, nei comuni con esse confinanti e negli altri comuni capoluogo di provincia, sono definiti dalle parti all'interno dei valori minimi e massimi stabiliti per le fasce di oscillazione per le aree omogenee così come fissati per i contratti del canale concertato. Gli Accordi territoriali relativi a questo tipo di contratti possono prevedere variazioni, fino ad un massimo del 20%, dei valori minimi e massimi anzidetti per tenere conto, anche per specifiche zone, di particolari esigenze locali. Nel caso in cui non sia stato stipulato alcun tipo di accordo territoriale, si deve fare riferimento a pregressi Accordi oppure all’Accordo stipulato, secondo il D.M. 30 dicembre 2002, nel comune demograficamente omogeneo di minore distanza territoriale anche situato in altra Regione, verificando se sia stato stabilito in tale accordo anche l’aumento sopra citato delle fasce di oscillazione. In ogni caso, però, fuori delle aree indicate dalla legge, il canone è libero. (11) A. Mazzeo, I contratti transitori: ammissibilità della tacita rinnovazione, in Arch. loc., 2008, 11. Nello stesso senso: F. Lazzaro, P. Di Marzio, Le locazioni per uso abitativo, Milano, 2007, 268. Durata e canone Immobili & proprietà 6/2014 393 Giurisprudenza Sintesi La sentenza del mese a cura di Maria Grazia Monegat - Avvocato in Milano L’acquirente, salvo patto contrario, è tenuto a sostenere le spese del contratto, ma non anche quelle per il contratto. La vicenda portata al vaglio della S.C. trae origine dalla pretesa di un commercialista, di ottenere dall’acquirente di un immobile il pagamento delle proprie competenze professionali per la redazione di un contratto preliminare di compravendita, pretesa fondata sulla clausola contenuta nel medesimo contratto che sostanzialmente richiamava il disposto di cui all’art. 1475 cod. civ. (1). Il professionista otteneva un decreto ingiuntivo che veniva opposto dall’acquirente, ma il giudice di prime cure rigettava l’opposizione e confermava il decreto ingiuntivo. L’acquirente proponeva appello che la corte territoriale accoglieva revocando il decreto ingiuntivo e statuendo che nulla era dovuto dall’acquirente al professionista posto che nessun incarico era stato al medesimo conferito dall’acquirente e, comunque, la clausola inserita nel preliminare andava interpretata nel senso di ritenere a carico dell’acquirente le sole spese derivanti dal contratto e non anche le spese sostenute per l’elaborazione del contratto stesso. La Corte d’appello, in sostanza, in difetto di prova del conferimento dell’incarico professionale da parte dell’acquirente al commercialista di redigere il contratto preliminare di compravendita, escludeva che tale spesa potesse essere ricompresa tra quelle che l’art. 1475 cod. civ. pone a carico del compratore se non è diversamente pattuito. La decisione della Corte di merito è stata impugnata dal commercialista che ne ha contestato l’erroneità e censurato la correttezza dedotte sulla base di tre motivi, articolate in tre quesiti di diritto, ai quali ha resistito l’acquirente. In primo luogo il professionista lamenta la violazione dell’art. 1362 cod. civ. in relazione alla clausola contrattuale prevedente l’onere di ogni spesa a carico dell’acquirente. Sostanzialmente il commercialista lamentava che la corte territoriale non avesse tenuto conto nell’interpretazione della volontà delle parti, che con l’espressione “tutte le spese, imposte e diritti che derivano dal presente atto”, le medesime avevano inteso che a carico dell’acquirente fosse compreso anche il compenso del professionista che aveva curato la predisposizione dell’atto stesso, con ciò violando il disposto normativo che impone di interpretare l’intenzione delle parti secondo il senso letterale delle parole, secondo il rapporto logico di tutte le clausole, la buona fede e le pratiche generali interpretative. Sul punto la S.C. ribadisce il proprio orientamento secondo cui la valutazione ermeneutica delle clausole contrattuali spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata. Osserva poi che, nella fattispecie, la Corte territoriale escludendo che le spese per la redazione preventiva del testo del contratto, redatto su incarico del promittente venditore, fossero da porre a carico dell’acquirente, aveva esaurientemente motivato la propria decisione evidenziando che non vi era nesso di causalità tra l’incarico di redigere il preliminare, per altro conferito al professionista dal promittente la vendita, e le spese derivanti dal contratto di compravendita. L’avvalersi dell’opera professionale per una miglior stesura delle clausole contrattuali non può costituire fonte di spesa derivante dalla stessa convenzione perché tale opera precede la conclusione del contratto e, nel caso di specie era stata pacificamente commissionata dal promittente venditore. Non si era dunque in presenza né di una spesa ex art. 1475 cod. civ., né di un’obbligazione sorta dal rapporto di mandato professionale e, dunque, nessun onere poteva essere posto a carico dell’acquirente. È per altro pacificamente ritenuto che la citata norma nello stabilire che le spese del contratto di compravendita e le altre accessorie sono a carico del compratore se non è stato diversamente pattuito, detta una disciplina che è al tempo stesso suppletiva, perché la sua operatività è subordinata alla mancanza di esplicita diversa pattuizione, e in bianco, poiché la dizione “spese accessorie” può estendersi ad una pluralità di contenuti determinati prima dai contraenti in sede di conclusione del contratto e, poi, dall'interprete che, nella fase contenziosa, è il giudice di merito (2). Nella vicenda esaminata, essendo pacifico che l’incarico al professionista era stato affidato dal promittente venditore, correttamente la Corte di merito aveva escluso che l’onere per la sua prestazione fosse da porsi a carico dell’acquirente in conseguenza della clausola contenuta nel preliminare. Le spese accessorie di cui all’art. 1475 cod. civ. sono solo quelle necessarie alla conclusione del contratto e non possono essere considerate tali quelle relative ad attività che precedono la conclusione del contratto, occorre che siano, perciò, con questo in stretto rapporto di causalità, efficienza e strumentalità, con la conseguenza che vanno escluse (1) Il tenore letterale della clausola è il seguente: “tutte le spese, imposte e diritti che derivano dal presente atto vengono sopportate dalla parte promittente acquirente” (2) Cass.16 gennaio 2007, n. 843. COMPRAVENDITA SPESE ACCESSORIE DELLA COMPRAVENDITA A CARICO DEL COMPRATORE E INCARICO PROFESSIONALE Corte di Cassazione, sez. II, 16 aprile 2014, n. 8886 Vendita - Spese - Della vendita - Spese accessorie - A carico del compratore - Art. 1475 cod. civ. - Natura di norma suppletiva e di norma in bianco - Configurabilità - Attività del professionista prodromica alla vendita - Esclusione Per spese accessorie della compravendita devono intendersi solo quelle necessarie alla conclusione del contratto e non anche quelle relative ad attività prodromiche che non hanno alcun rapporto di strumentalità e causalità per la conclusione del contratto stesso, come quelle inerenti alla predisposizione da parte di un terzo del preventivo testo del relativo contratto preliminare. 394 Immobili & proprietà 6/2014 Giurisprudenza Sintesi soltanto quelle spese per cui risulti mancante un rapporto causale - anche sotto il profilo della inutilità evidente e della esorbitanza delle stesse - ovvero l'eventuale contrario accordo delle parti. Così è stato affermato che costituiscono “spese” della compravendita, a carico anche del compratore, ai sensi dell'art. 1475 cit. - in quanto strumentalmente compiute per rendere possibile il negozio - gli onorari spettanti ad un professionista per la redazione di una relazione tecnica per il frazionamento e di una planimetria che, costituenti parte integrante dell'atto pubblico di vendita di un immobile, siano state effettuate su incarico del solo venditore (3). Nel caso esaminato, invece, il professionista aveva svolto un’attività prodromica al contratto, che trovava la sua causa nell’incarico ricevuto dal promittente la vendita. Di conseguenza, obbligato al pagamento dell'onorario per l'opera professionale svolta è il committente, anche se lo stesso può non necessariamente essere anche il beneficiario della prestazione, giacché l'incarico ben può esser conferito da un terzo o soltanto da alcuni dei soggetti nel cui interesse la prestazione è svolta (4). È pacifico, infatti, che cliente del professionista non è necessariamente il soggetto nel cui interesse viene eseguita la prestazione d'opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito l'incarico al professioni- (3) Cass. 13 agosto 1990, n. 8237. (4) Cass. 29 settembre 2004, n. 19596. Immobili & proprietà 6/2014 sta ed è, conseguentemente, tenuto al pagamento del corrispettivo (5). In conclusione, la S.C. ha respinto il ricorso del commercialista e lo ha condannato alle spese del giudizio. La compravendita immobiliare si perfeziona al termine di un iter caratterizzato da una fase precontrattuale durante la quale le parti, acquirente e venditore, pongono in essere diversi atti, per l’appunto preparatori alla conclusione del contratto, atti prodromici e propedeutici alla stipulazione del contratto definitivo di compravendita, ciascuno dei quali produce effetti giuridici. Anche se tutti gli atti negoziali sono coordinati e finalizzati al conseguimento dello stesso obbiettivo, la stipulazione del contratto definitivo di compravendita, ciascuno di essi è retto da una diversa causa giuridica e fa sorgere obbligazioni in capo alle parti fondate su di essa. Con la pronuncia in commento, la S.C. ha chiarito che le attività di consulenza e assistenza svolte dal professionista nella fase che precede la stipulazione del contratto definitivo, trovano la loro ragion d’essere e il fondamento giuridico in una causa, appunto il mandato professionale, diversa rispetto a quella “tipica” della compravendita e, di conseguenza, il relativo onere non può essere compreso tra le spese a carico dell’acquirente di cui all’art. 1475 cod. civ. (5) Cass. 2 giugno 2000, n. 7309. 395 Giurisprudenza Sintesi In primo piano a cura di Roberto Triola - Consigliere di Cassazione COMPRAVENDITA PRELIMINARE Corte di Cassazione, sez. II, 7 aprile 2014, n. 8081 Pres. Piccialli - Rel. Falaschi Irregolarità urbanistiche - Esecuzione specifica - Limiti In tema di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 cod. civ., non solo allorché l'immobile sia stato costruito senza licenza o concessione edilizia (e manchi la prescritta documentazione alternativa: concessione in sanatoria o domanda di condono corredata della prova dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione), ma anche quando l'immobile sia caratterizzato da totale difformità dalla concessione (e manchi la sanatoria). Ove, invece, l'immobile - munito di regolare concessione e di permesso di abitabilità, non annullati né revocati - abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione non sussiste alcuna preclusione all'emanazione della sentenza costitutiva, perché il corrispondente negozio di trasferimento non sarebbe nullo, ed è pertanto illegittimo il rifiuto del promittente venditore di dare corso alla stipulazione del definitivo, sollecitata dalla promissaria acquirente. L'amministratore del condominio risponde quale mandatario dell'erogazione della spesa relativa all'esercizio di servizi comuni, indipendentemente dal fatto che questi siano prodotti da impianti a loro volta comuni ad altri condomini, e dalla circostanza che per la loro gestione non sia stato nominato un amministratore della comunione. Pertanto, ai sensi dell'art. 1717 cod. civ., comma 1, l'amministratore che nell'esecuzione di tale attività di mandato sostituisca altri a se stesso senza esservi autorizzato in forza di un'apposita delibera dell'assemblea condominiale, o senza che ciò sia necessitato dalla natura dell'incarico, risponde dell'operato della persona sostituita, a nulla rilevando che la sostituzione sia conforme a precedenti prassi note ai condomini, trattandosi di circostanza che di per se non vale ad esprimere la volontà del condominio. Il caso L’amministratore aveva versato l’importo delle spese di riscaldamento all’amministratore di altro condominio con il quale la centrale termica era comune, che non aveva provveduto al pagamento al fornitore del carburante, il quale aveva agito nei confronti dei condomini, ottenendo la condanna degli stessi, per cui vi era stata azione di rivalsa nei confronti dell’amministratore. I giudici di merito avevano rigettato la domanda. La soluzione della Corte di Cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. ha accolto il ricorso, affermando un principio in relazione al quale non si rinvengono precedenti in termini. Il caso I giudici di merito avevano ritenuto di non potere emettere la sentenza ex art. 2932 cod. civ., in relazione ad un contratto preliminare avente ad oggetto una costruzione iniziata prima del 1° settembre 1967 e sulla quale era stato successivamente operato un intervento edilizio (nuova scala esterna), non costituente variazione essenziale, né ampliamento della volumetria. La soluzione della Corte di Cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. ha accolto il ricorso, ribadendo sostanzialmente il principio espresso da Cass. 18 settembre 2009, n. 20258. CONDOMINIO AMMINISTRATORE Corte di Cassazione, sez. II, 9 aprile 2014, n. 8339 Pres. Triola - Rel. Manna Sostituto - Mancata autorizzazione dell’assemblea - Conseguenze 396 DIRITTI REALI SERVITÙ Corte di Cassazione, sez. II, 3 aprile 2014, n. 7803 Pres. Triola - Rel. Nuzzo Mutamento di destinazione del fondo dominante - Irrilevanza - Condizioni Il mutamento di destinazione del fondo dominante o le innovazioni ad esso apportate assumono rilevanza solo ove si riflettano, alterandolo, sul contenuto essenziale della servitù, come determinato dal titolo e, cioè, sulla natura ed estensione della utilitas e sulle esigenze che, secondo il titolo stesso, è destinata a soddisfare, oppure nell'ipotesi in cui incidano sulle modalità concrete di esercizio della servitù. Il caso Il proprietario del fondo servente chiedeva l'accertamento dell'aggravamento della servitù carraia, per effetto della costruzione, sul fondo dominante, di un silos interrato per consentirvi l'accesso di autovetture. I giudici di merito avevano rigettato la domanda. Immobili & proprietà 6/2014 Giurisprudenza Sintesi La soluzione della Corte di Cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali ad litem, la quale può esplicare solo effetti processuali e non sostanziali. La S.C. ha rigettato il ricorso osservando che i giudici di merito avevano motivatamente escluso che il fondo servente avesse subito un pregiudizio effettivo in quanto l'autorimessa realizzata per soli 5/7 posti macchina sul fondo dominante non era tale da configurare un aggravamento della servitù carraia a carico della striscia di terreno del condominio, considerata l'estensione delle modalità di esercizio della servitù (“nel più ampio dei modi”). Inoltre, i bisogni del fondo dominante, in difetto di particolari restrizioni specificate nel titolo costitutivo, vanno valutati secondo normali criteri di prevedibilità, sicché correttamente i giudici di merito avevano escluso che un più intenso transito di veicoli costituisse, di per se, un aggravamento della servitù per il solo fatto che i veicoli, dopo il transito sul terreno condominiale, si fermassero nel fondo dominante. In precedenza Cass. 6 gennaio 1979, n. 43, ha affermato che per la determinazione dell’estensione del contenuto di una servitù di passaggio, non specificata nel titolo costitutivo convenzionale della servitù stessa, si deve avere riguardo alle necessità tenute presenti al tempo della sua costituzione e non a quelle sopravvenute, per cui era esatta la decisione del giudice del merito che aveva affermato l’esistenza di un notevole mutamento nell’esercizio della servitù a seguito del cambiamento della destinazione economica del fondo dominante, da piccolo agrumeto ad autorimessa pubblica. Il caso LOCAZIONI USO NON ABITATIVO Corte di Cassazione, sez. III, 9 aprile 2014, n. 8263 Pres. Massera - Rel. Amendola Prelazione - Riscatto - Esercizio - Atto stragiudiziale - Sottoscrizione in base a procura ad litem - Inidoneità È inefficace l’esercizio del riscatto ai sensi dell’art. 39 legge 27 luglio 1978, n. 392, mediante atto stragiudiziale notificato a mezzo di ufficiale giudiziario sottoscritto dall’avvocato del titolare del diritto di prelazione in forza non di una procura ad negotia, bensì di una procura Immobili & proprietà 6/2014 I giudici di merito avevano ritenuto inefficace il riscatto. La soluzione della Corte di Cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio affermato da Cass. 27 settembre 2006, n. 20948. POSSESSO SPOGLIO Corte di Cassazione, sez. II, 2 aprile 2014, n. 7741Pres. Oddo - Rel. Migliucci Risarcimento del danno - Spese per il ripristino del bene Inclusione Tenuto conto che la reintegrazione prevista dall'art. 1168 cod. civ. ha la finalità di consentire la disponibilità del bene nelle medesime condizioni in cui era esercitato il possesso prima dello spoglio, il risarcimento del danno subito per effetto della privazione del possesso non può limitarsi ai pregiudizi derivanti dallo spoglio, dovendo essere considerata anche la lesione patrimoniale consistita nei costi sopportati per ripristinare il bene che, per effetto degli interventi compiuti nel frattempo dallo spogliatore, sia in condizioni tali da non consentire di godere del possesso secondo le modalità esercitate prima dello spoglio. Il caso I giudici di merito avevano rigettato la domanda di risarcimento dei danni La soluzione della Corte di Cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. ha accolto il ricorso, affermando che nella specie il danno andava verificato tenendo conto che lo spoglio aveva avuto a oggetto un complesso alberghiero ovvero un'azienda, che è costituita dall'insieme dei beni organizzati ai fini dell'esercizio dell’impresa. 397 Giurisprudenza Sintesi Rassegna di merito a cura di Alessandro Re - Avvocato in Torino, Luana Tagliolini - Pubblicista APPALTO VIZI Tribunale di Torino, 24 marzo 2014 Responsabilità ex art. 1669 cod. civ. - Natura aquiliana dell’azione - Colpa professionale In ragione della natura aquiliana dell’azione ex art. 1669 cod. civ., possono incorrere, a titolo di concorso con l'appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione del bene, abbiano contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi. L’azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 cod. civ. può essere proposta nei confronti del venditore dell’immobile, solo se questi abbia rivestito la qualità di costruttore o comunque la posizione assunta dal venditore nei confronti degli acquirenti abbia evidenziato l’assunzione da parte del soggetto di una diretta responsabilità nella costruzione dell’opera. Il caso Il Signor C. N. proponeva ricorso ex art. 702-bis cod. proc. civ. contro la B.R.E. s.r.l., società venditrice, la C. s.r.l. e la I. s.r.l., in qualità di imprese appaltatrici, e l’ing. B. in qualità di progettista e direttore dei lavori, per ottenere il risarcimento dei danni o, in difetto, l'eliminazione dei vizi riscontrati nell'immobile oggetto di compravendita a rogito notaio A. del 18 settembre 2008 ed altresì l’eliminazione dei vizi nelle parti comuni del complesso residenziale dove è sita l’ unità immobiliare. La B.R.E. s.r.l., la C. s.r.l. e la I. s.r.l. si costituivano ed eccepivano la decadenza del ricorrente da qualsiasi azione di garanzia nonché la prescrizione di qualsiasi preteso diritto. Le stesse chiedevano, inoltre, la condanna di controparte ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ. per lite temeraria. L’Ing. B., costituendosi in giudizio, sosteneva di essere stato solo il progettista esecutivo delle singole villette e di aver avuto la relativa direzione dei lavori, e non era, pertanto, il responsabile del progetto dell’intero Piano Edilizio Convenzionato. In ogni caso anch’egli eccepiva la decadenza del ricorrente da qualsiasi azione di garanzia. Il Giudice disponeva il mutamento del rito ai sensi dell’art. 702-ter cod. proc. civ. e la causa veniva istruita a mezzo testi ed acquisizione dell’ATP già svolto tra le parti. La decisione del Tribunale ed i collegamenti giurisprudenziali Il ricorrente contestava agli appaltatori i vizi dell’opera ai sensi dell’art. 1669 cod. civ. Il Giudice osservava, in primo luogo, come la responsabilità dell'appaltatore per gravi difetti dell'opera, sancita dall'art. 398 1669 cod. civ., nonostante la collocazione tra le norme disciplinanti il contratto di appalto, sia diretta alla tutela dell’esigenza di carattere generale della conservazione e funzionalità degli edifici e degli altri immobili destinati, per loro natura, a lunga durata. Così come sostiene la Suprema Corte, “l'azione di responsabilità prevista da detta norma, pertanto, ha natura extracontrattuale” (Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2012, n. 21089). In ragione della natura aquiliana dell’azione, il Giudice rilevava che possono incorrere, nella responsabilità a titolo di concorso con l'appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione del bene, abbiano contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi in questione. Alla luce di ciò il Giudice osservava, quindi, che le posizioni delle imprese appaltatrici e del direttore dei lavori potevano essere esaminate congiuntamente. I convenuti eccepivano la decadenza dell’attore dal diritto di garanzia per i vizi della cosa venduta ai sensi dell'art. 1669 cod. civ., poiché sostenevano che quest’ultimo aveva abitato l'immobile oggetto di causa sin dall’aprile del 2006, ed era a conoscenza di eventuali vizi del bene e che, in ogni caso, lo stesso aveva acquistato l’immobile in data 18 settembre 2008 e non aveva provveduto alla contestazione dei vizi entro l’anno. Il Giudice rilevava che la denuncia dei vizi è atto recettizio per cui, ai fini del rispetto del termine di decadenza, rileva non la data di deposito del ricorso, ma la data di notifica alla controparte e che incombe, quindi, sull’attore l’onere di provare la tempestività della denuncia. In proposito la giurisprudenza ha messo in luce il principio secondo cui “in tema di appalto, poiché la denuncia dei gravi difetti o del pericolo di rovina dell'opera costituisce, ai sensi dell'art. 1669 cod. civ., una condizione dell'azione di responsabilità esercitabile nei confronti dell'appaltatore o del costruttore-venditore, quando il convenuto eccepisca la decadenza dall'azione per intempestività della denuncia, costituisce onere dell'attore fornire la prova di avere operato la denuncia entro l'anno dalla scoperta” (v. Cass. civ., sez. II, 16 giugno 2000, n. 8187). Dalle risultanze istruttorie si evinceva che l’attore era entrato nel possesso dell’immobile ben prima dell’acquisto dello stesso. Il Giudice osservava, quindi, che i vizi, già esistenti al momento dell’acquisto dell’immobile, ben dovevano essere noti all’acquirente al momento del rogito, per essere egli già nel possesso o detenzione del bene. Pertanto, per computare il termine di decadenza del diritto di contestare la rovina o il difetto dell’immobile all’appaltatore, il Giudice sosteneva la necessità di prendere in considerazione il momento in cui il N. - che già aveva a disposizione il bene – era divenuto formalmente proprietario dell’immobile. Immobili & proprietà 6/2014 Giurisprudenza Sintesi In base ai documenti prodotti risultava quindi che da taIe data (dell’atto notarile), era trascorso più di un anno. Il Giudice concludeva, pertanto, che il N. era da considerarsi decaduto dal diritto di contestare all’appaltatore la rovina ed i difetti del suo immobile, e delle parti comuni del complesso immobiliare, per non aver provato di averli denunziati entro l’anno dalla scoperta. L’attore contestava, inoltre, i vizi dell’opera ai sensi dell’art. 1669 cod. civ., anche nei confronti della venditrice B.R.E. s.r.l. L'art. 1669 cod. civ., come è stato precedentemente osservato dal Giudice, prevede un’azione di responsabilità extracontrattuale e trascende, quindi, il rapporto negoziale (appalto o vendita) in base al quale l'immobile è pervenuto nella sfera di un soggetto diverso dal costruttore, che può essere esercitata nei confronti di quest’ultimo, quando abbia veste di venditore, anche da parte degli acquirenti i quali, in tema di gravi difetti dell'opera, possono fruire dei termini decennali di prescrizione ed annuale di decadenza (v. in tal senso Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2012, n. 21089). Il Giudice, pertanto, ha rilevato che l’azione di responsabilità extracontrattuale può essere proposta nei confronti del venditore dell’immobile, solo se questi abbia rivestito la qualità di costruttore o comunque la posizione assunta dal venditore nei confronti degli acquirenti abbia evidenziato l’assunzione da parte sua di una diretta responsabilità nella costruzione dell’opera. Nel caso di specie, così come rilevava il Giudice, non era emerso che la venditrice B.R.E. avesse essa stessa costruito l’immobile oggetto di causa, né che avesse assunto una diretta responsabilità nella costruzione, non potendo desumersi tale fatto dalla connessione soggettiva dei soci facenti parte delle rispettive compagini sociale. Tuttavia il Giudice osservava come in una clausola del rogito notaio A., la venditrice avesse specificatamente assunto la garanzia ex art. 1669 cod. civ. nei confronti della parte acquirente, oltre all’impegno per l’ultimazione di alcuni lavori. Questa assunzione di impegni e di garanzia, rilevava il Giudice, evidentemente precludeva che i rapporti tra le parti potessero dirsi definitivamente conclusi, quanto meno per ciò che riguardava la garanzia prestata e l’obbligo contrattuale di terminare le opere indicate nell’atto notarile. In ogni caso, il Giudice dichiarava che, anche nei confronti della B.R.E., la domanda di parte attrice ex art. 1669 cod. civ. dovesse essere respinta in quanto era sopravvenuta la decadenza dell’attore dal diritto di contestare i vizi, non tempestivamente denunziati entro l’anno. Il Tribunale di Torino, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal Signor C.N. contro la B.R.E. s.r.l., la C. s.r.l., la I. s.r.l. e l’Ing. B. respingeva quindi la stessa per avvenuta decadenza. Il Giudice, inoltre, dichiarava che non meritava accoglimento la domanda ex art. 96 cod. proc. civ. proposta reciprocamente sia dai convenuti che dall’attore poiché non si ravvedevano i profili di dolo o colpa grave nel rispettivo comportamento processuale. A.R. CONDOMINIO AMMINISTRATORE Giudice di Pace di Palermo, sez. VII, 28 novembre 2013 Immobili & proprietà 6/2014 Amministratore - Disavanzo contabile - Approvazione del rendiconto - Riconoscimento del debito - Credito dell’amministratore - Diritto al rimborso - Prova documentale insussistente - Esclusione Nulla spetta all'amministratore che rivendica il pagamento delle relative spettanze professionali e degli asseriti anticipi di cassa, laddove questi non provi, documenti alla mano, la tracciabilità di ciascuna delle pretese accampate. Il caso Il Giudice di Pace di Palermo, accoglieva l’opposizione al decreto ingiuntivo del condominio, ingiunto a pagare somme che l’amministratore reclamava per compensi non percepiti e per pretese anticipazioni da lui asseritamente effettuate. Lo stesso Giudice, prendendo spunto da una consulenza tecnica d'ufficio - condotta sul verbale di consegna tra i due amministratori entrante-uscente, sul rendiconto condominiale in cui si evidenziava un disavanzo di cassa che non appariva chiaro, né dal dettaglio dei riepilogativi contabili dallo stesso amministratore prodotti né dalla documentazione agli atti - deduceva che tale disavanzo derivava da esborsi non documentati dall'ex amministratore. Pertanto, laddove l’amministratore non provi, documenti alla mano, la tracciabilità di ciascuna delle pretese accampate, non potrà pretendere alcunché dal condominio. Sulla base di tale principio, il Giudice, rilevando che non era stato provato il credito ingiunto, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’amministratore alla refusione delle spese di lite a favore del condominio. La decisione del Giudice di pace ed i collegamenti giurisprudenziali Il Giudice di pace, nell’affrontare il problema del rimborso delle anticipazioni dell’amministratore, si è ricollegato all’orientamento dei giudici di legittimità i quali sono soliti affermare che “il disavanzo contabile, presente in un rendiconto condominiale, non vuol dire per via deduttiva che questo sia un credito dell'amministratore per l’importo corrispondente o che questo abbia versato la differenza utilizzando il proprio denaro” (Cass. 9 maggio 2011, n. 10153). Ed invero, l'approvazione assembleare del rendiconto ha valore di riconoscimento del debito in relazione alle sole poste passive specificatamente indicate. Nel caso in cui, il rendiconto presenti un disavanzo tra uscite ed entrate, l'amministratore è tenuto ad offrire la prova puntuale degli esborsi effettuati in qualità di mandatario; il condominio - che come mandante è invece obbligato a rimborsare le anticipazioni da lui effettuate con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte, ed a pagargli il compenso oltre al risarcimento dell'eventuale danno - deve, viceversa, dimostrare di aver adempiuto all'obbligo di tenere indenne l'amministratore da ogni diminuzione patrimoniale in proposito subita (Cass. civ., 30 marzo 2006, n. 7498). Tuttavia è pacifico che l’amministratore che non abbia avuto approvato il suo credito, ai sensi dell’art. 1713 cod. civ. non può trattenere nulla di ciò che egli abbia ricevuto nell’esercizio del mandato per conto del condominio cioè, la cassa (Cass. n. 10815/2000) e i documenti concernenti la gestione (art. 1129, comma 8 cod. civ.). Beni che non può trattenere neanche nel caso in cui non abbia ottenuto il rimborso di somme anticipate per conto 399 Giurisprudenza Sintesi del condominio non potendosi avvalere del principio inademplenti non est adimplendum, non essendovi corrispettività né interdipendenza tra dette prestazioni, originate da titoli diversi (Cass. n. 13503/1999). Non implica riconoscimento del debito ex art. 1988 cod. civ. in danno al condominio, la sottoscrizione, in calce del verbale di passaggio delle consegne, in cui sia stata verificata l’esistenza delle anticipazioni, perché tale sottoscrizione vale come mera ricevuta della documentazione, così come l’approvazione del bilancio da cui risulti un disavanzo non vuol dire implicitamente che trattasi di esborsi dell’amministratore, che vanno provati con specifici documenti contabili (nella fattispecie il rendiconto non presentava dati che riflettevano, con chiarezza, le pretese vantate dall’amministratore, come le sue competenze professionali che risultavano già pagate; il debito verso il fornitore che rimaneva persistente e di importo superiore a quanto da egli riportato nel rendiconto. Il disavanzo di cassa, pertanto, non era chiaramente giustificato non essendovi alcun elemento di riscontro documentato nell'apposizione dei costi alle voci di bilancio). L.T. PROCESSO MEDIAZIONE Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sez. I, ord. 23 dicembre 2013 Mediazione - Soluzione conciliativa della controversia Comportamento non collaborativo - Ricorso al giudice Lite temeraria - Presupposti - Ammissibilità - Condanna al doppio delle spese Con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013 gli avvocati sono mediatori di diritto e debbono assistere le parti nel procedimento di mediazione in una prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l’extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili. Va accolta la richiesta di condanna ex art. 96, comma 3 cod. proc. civ., potendo ravvisarsi, nel caso di specie, l’elemento soggettivo della mala fede in capo ai ricorrenti, in considerazione della evidenziata e documentata disponibilità manifestata dalla resistente per risolvere il problema delle lamentate infiltrazioni del tutto ignorate prima della proposizione del ricorso e, in ordine alle quali, peraltro, è stato omesso ogni riferimento nel ricorso. Il caso Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, rigettava il ricorso presentato da alcuni condomini per ottenere un accertamento tecnico preventivo che verificasse le cause generanti le macchie di muffa e di umidità presenti nell’appartamento da essi locato, nonché il risarcimento del danno subito. La locataria eccepiva che non sussisteva alcun presupposto per richiedere tale accertamento avendo ripetutamente dato piena disponibilità per accertare le cause delle lamen- 400 tate infiltrazioni e ad eliminarle, a fronte di un comportamento per nulla collaborativo della parte conduttrice. Il Tribunale accertato quanto sostenuto dalla resistente, rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti alla rifusione delle spese di giudizio a favore del resistente oltre al pagamento del doppio delle spese ex art. 96 cod. proc. civ. La decisione del Tribunale ed i collegamenti giurisprudenziali Il Tribunale, con ordinanza, ha condannato per lite temeraria gli inquilini al pagamento del doppio delle spese processuali, per aver adito l'autorità giudiziaria rifiutando, senza giustificazione alcuna, le ripetute richieste di soluzione bonaria della controversia proposte dalla conduttrice. Evidenzia il Tribunale, che la mediazione (D.Lgs. n. 69/2010), di recente reintrodotta, ha una funzione "preventiva": l'obiettivo è quello di favorire l'incontro delle parti al fine di risolvere la controversia in via conciliativa evitando, ove possibile, il ricorso al giudice. Il decreto n. 69 citato ha, inoltre, riconosciuto, di diritto, il titolo di mediatore agli avvocati. Al difensore, dunque, è attribuito un ruolo centrale nell'attività di mediazione delle controversie, in una prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al giudice quale extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili. Osserva, infatti, il Tribunale: "nel caso di specie … si sarebbe potuto agevolmente risolvere il problema emerso nel corso del rapporto locatizio senza ricorrere all'autorità giudiziaria, semplicemente raccoglimento l'invito della resistente a far visionare l'immobile locato … Infatti, anziché recepire l'invito della locatrice, che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, si è preferito adire il tribunale, in un'ottica conflittuale decisamente lontana dalla nuova prospettiva nella quale, anche alla luce della recente reintroduzione con il c.d. decreto del fare della mediazione obbligatoria, appare muoversi il legislatore negli ultimi tempi, prospettiva che attribuisce al difensore un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell'attività di mediazione delle controversie - al punto da prevedere, con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013, che gli avvocati siano di diritto mediatori e debbano assistere la parte nel procedimento di mediazione - prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l'extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili". Il Giudice di merito, sulla base di precedenti esperienze giurisprudenziali (Giudice di Pace Reggio Calabria, 14 novembre 2013, n. 2884; Trib. Catania, 4 settembre 2013, che si erano orientati nell’applicare la soluzione “punitiva” quando i tentativi di soluzione del caso, spiegati da una delle parti, per via stragiudiziale e per lungo tempo, erano stati ignorati) ha accolto, altresì, la richiesta di condanna per lite temeraria ex art. 96 comma 3 cod. proc. civ. (la cui ratio è quella di punire la parte che non adempia spontaneamente i propri obblighi, costringendo la controparte a un giudizio, e/o agisca o resista in giudizio infondatamente e pretestuosamente) in quanto ha ravvisato l'elemento oggettivo della mala fede dei ricorrenti, in considerazione della disponibilità manifestata dalla resistente per risolvere il problema prima del ricorso e del tutto ignorata dai ricorrenti stessi e proprio il comportamento scarsamente collaborativo dei ricorrenti ha contribuito a creare una situazione di pregiudizio irreparabile. L.T. Immobili & proprietà 6/2014 Pratica Problemi tecnici L’Architetto Aria di novità sulle strade a cura di Vincenza Albertini - Architetto in Milano In quest’articolo parleremo di due tecniche innovative che potrebbero avere grandi potenzialità sul versante del risparmio energetico. La prima ci viene dagli Stati Uniti, la seconda dall’Olanda. Entrambe trovano la loro applicazione in sede stradale. L’esperienza degli Stati Uniti Nel South Carolina si è recentemente conclusa la sperimentazione di un prototipo di pannello fotovoltaico carrabile, grazie ad uno stanziamento del Dipartimento dei Trasporti statunitensi. Sappiamo come i pannelli fotovoltaici montati a terra trovino, nel loro uso intensivo, numerosi detrattori, in quanto accusati di deturpare il paesaggio e l’ambiente naturale provocando danni all'agricoltura, agli allevamenti e agli animali. Trovare pertanto una loro collocazione sulla superficie stradale può essere una scelta alternativa vincente. Si tratta di un modulo esagonale, forma scelta per garantire la massima giunzione e tenuta fra le varie parti del manto; ciascun pannello include celle fotovoltaiche, circuiti elettrici e lampadine led programmabili, ed è dotato di un sistema scaldante per consentire lo scioglimento automatico di ghiaccio e neve. Ma soprattutto è dotato di uno speciale vetro in grado di resistere al peso dei veicoli, realizzato adottando le tecniche usate per la costruzione dei vetri antiproiettile. Il vetro presenta ovviamente una superficie antiscivolo zigrinata, ovvero composta da migliaia di piccolissimi prismi, atta a garantire la presa dei pneumatici. La sfida è quella di utilizzare i pannelli fotovoltaici non solo sui tetti, ma anche per pavimentare le strade al posto dell’asfalto in tratti idonei e vocati all’uso. No, quindi al consumo del territorio per l’installazione di centrali per la produzione dell’energia da fotovoltaico, ma la possibilità di utilizzare la rete di strade, autostrade e corsie di parcheggi all’aperto quale struttura lineare e diffusa di captazione dell’energia solare. Sono ovviamente da escludersi viali alberati, strade urbane solitamente molto “occupate” e poco esposte alla radiazione solare; i centri urbani inoltre Immobili & proprietà 6/2014 hanno una presenza di sottoservizi la cui manutenzione è all’ordine del giorno e quindi richiederebbe, ogni volta, lo smontaggio dei pannelli in superficie. La preferenza non può che andare alle corsie a grande scorrimento (dove non si sosta ai semafori e non si parcheggia) e a tratti suburbani, non eccessivamente soggetti a traffico di autoveicoli tale da occultare per troppo tempo la superficie captante. La Solar Roadways ha progettato a questo scopo pannelli fotovoltaici carrabili quadrati di 3,7 metri di lato, pari alla larghezza standard delle corsie stradali in America, in modo che possano poi essere giustapposti sulle strade. È stato calcolato che, con un’insolazione media di picco equivalente a 4 ore al giorno e un’efficienza energetica intorno al 15%, ogni pannello potrebbe produrre 7,6 kWh al giorno. A questo scopo, e con le caratteristiche sopra citate, anche aree private di pertinenza potrebbero essere pavimentate con tale sistema, provvedendo così a produrre energia dal sole per un uso diretto e privato. L’esperienza olandese In Olanda, con il progetto Glowing lines niente più cartelli stradali e nemmeno lampioni: si è creato un particolare tipo di vernice che durante le ore del giorno accumula luce solare per poi rilasciarla durante le ore notturne. Di fatto, a fronte dell'esposizione a un'altra fonte di illuminazione quale quella dei fari dei veicoli, la vernice, utilizzata per la segnaletica orizzontale, sprigiona un effetto luminescente in grado di illuminare la strada di notte. La vernice è composta da una polvere photo-luminising la quale, a fronte di una intera giornata di luce, sprigiona un effetto luminescente della durata di 8 ore, giusto quanto dal calar del sole all'alba. Il sistema funziona alla stregua del fotovoltaico con la differenza che è molto meno costoso dato che la vernice è spalmabile e non c'è bisogno di investimenti iniziali per la realizzazione di infrastrutture. 401 Pratica Problemi tecnici Il progetto, firmato dell'artista Daan Roosegaarde e dagli ingegneri della società Heijmans, è stato sperimentato su 500 metri di autostrada nei pressi di Oss, vicino Amsterdam, ed ha riguardato la realizzazione delle linee di demarcazione stradali. Si punta ora a replicare il test in strade dove non è prevista l'installazione di lampioni, come ad esempio nelle aree rurali non servite dalla linea elettrica. Nel frattempo si sta lavorando alla realizzazione 402 di un progetto parallelo che mira alla visualizzazione di segnaletica stradale a fronte di variazioni meteorologiche in atto. In buona sostanza, le luci fluorescenti saranno in grado di reagire al cambio di temperatura e alle condizioni dell'asfalto, mandando segnali al guidatore tramite l’utilizzo di appositi simboli. Questo progetto, nella sua globalità, potrebbe diminuire i costi di illuminazione e migliorare la sicurezza sulle strade. Immobili & proprietà 6/2014 Pratica Quesiti Casa e questioni a cura di Augusto Cirla - Avvocato in Milano L’ACQUISTO DELL’IMMOBILE “SULLA CARTA”: C’È L’OBBLIGO DELLA FIDEIUSSIONE Ho sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile che ancora deve essere costruito, con termine per la consegna del bene tra due anni. Sono naturalmente previsti pagamenti scadenzati anche prima della stipula del contrato definitivo ed il saldo verrà effettuato a mezzo di accollo di parte del mutuo contratto dalla società costruttrice. Come posso tutelarmi che tutto andrà per il meglio? L’acquisto di immobili “sulla carta”, di quelli cioè la cui costruzione non è ancora iniziata oppure è ancora in corso, presenta indubbiamente grandi vantaggi, ma impone anche all’acquirente particolare attenzione e vigilanza. I vantaggi stanno nella possibilità di acquistare un appartamento che, sebbene possa essere all’inizio solo individuato sulla piantina offerta in visione dal costruttore, nel corso della edificazione può essere adattato alle personali esigenze dell’acquirente, che ha la facoltà di scegliere la qualità e la tipologia degli accessori a seconda delle sue preferenze e gusti. È però necessario muoversi con particolare prudenza ed attenzione, visto l’impegno finanziario che si va ad affrontare a fronte dell’acquisto di un bene di cui si otterrà la proprietà soltanto in una fase successiva rispetto ai tempi in cui vengono eseguiti i pagamenti di acconti consistenti. Sino all’anno 2005 il fenomeno delle famiglie impegnatesi nell’acquisto di un immobile in costruzione - e successivamente coinvolte nella crisi di impresa del costruttore - aveva assunto davvero dimensioni piuttosto consistenti. Con la legge 2 agosto 2004, n. 210 in tema di tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire e con il successivo D.Lgs. 20 giugno 2005 n. 122 il legislatore ha però introdotto nel nostro ordinamento un sistema di tutele per tale categoria di acquirenti. Lo scopo della legge n. 210/2004 è stato quello di rafforzare la posizione dell’acquirente, non ponendosi come obiettivo la revisione sistematica dell’istituto della vendita immobiliare, ma realizzando un intervento di mirato impatto normativo e fornendo l’esatta definizione dei presupposti in presenza dei quali devono trovare applicazione le garanzie a tutela degli acquirenti “sulla carta”. In tale situazione l’acquirente che effettua versamenti al costruttore di fatto finanzia l’edificazione o l’ultimazione dell’immobile a lui promesso, senza che tale suo finanziamento sia adeguatamente garantito prima del definitivo trasferimento della proprietà. L’art. 2 del D.Lgs. n. 122/2005 prevede l’obbligo del costruttore di procurarsi e consegnare all’acquirente, prima o all’atto della stipula di un contratto avente come finalità il trasferimento non immediato della proprietà (in buona sostanza, al momento della stipula del contratto preliminare) una fideiussione a garanzia di tutti gli acconti versati o da versare anteriormente dell’effettivo trasferimento della proprietà, che avviene con la stipula del rogito. Immobili & proprietà 6/2014 La norma pone in capo al costruttore un obbligo alla prestazione di fideiussione per le predette finalità, che trova quindi nella legge la sua fonte. Prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, in caso di sopravvenuta crisi aziendale del costruttore l’acquirente creditore degli importi versati in acconto durante la costruzione dell’immobile poteva soltanto richiedere al giudice del fallimento di partecipare alla procedura, senza avere però alcuna realistica prospettiva di recupero del credito, proprio perché tale credito non godeva di alcun privilegio. La nuova disciplina ha rafforzato la posizione dell’acquirente di immobili in corso di costruzione o da costruire, garantendo che, in caso di sopravvenuta crisi aziendale del venditore-costruttore, gli importi versati prima del trasferimento della proprietà siano immediatamente disponibili per l’acquirente, che può fare valere la garanzia derivante dalla fideiussione che il costruttore è obbligato a procurarsi e a consegnargli all’atto della stipula del contratto preliminare. La garanzia fideiussoria consente dunque al promissorio acquirente di ottenere la restituzione di tutte le somme da lui anticipate al costruttore per consentirgli di portare a termine ciò che ha promesso di vendere. Trattasi di una garanzia che trova applicazione automatica al verificarsi di determinate circostanze previste dalla legge, senza che sia data possibilità al garante di valutare l’entità o le cause del verificato inadempimento da parte del costruttore stesso. Sin dal momento del suo rilascio, deve riguardare non solo somme versate al momento della stipula del contratto preliminare, ma anche tutti quegli acconti che l’acquirente si impegna a versare nel corso della costruzione: la garanzia, in buona sostanza, deve estendersi a ogni corrispettivo che sia corrisposto dall’acquirente al costruttore anteriormente al trasferimento della proprietà. La mancata consegna della garanzia fideiussoria comporta la nullità del contratto preliminare di vendita. Si tratta di una nullità cosiddetta “relativa” o “di protezione” perché è il solo acquirente che può farla valere senza alcuno specifico limite temporale. La legge ha introdotto questo tipo di nullità come strumento per la salvaguardia e la tutela dell’acquirente, considerato contraente debole. La sanzione della nullità opera non solo nel caso di mancanza assoluta della fideiussione, ma anche nell’ipotesi in cui la garanzia rilasciata vada a coprire solo in parte gli acconti che l’acquirente è contrattualmente obbligato a versare anteriormente al trasferimento della proprietà. Resta inoltre operante anche quando l’acquirente dichiara esplicitamente di voler rinunciare alla garanzia. Spetta comunque a lui, in quanto unico soggetto legittimato, decidere se attivare o meno il rimedio della nullità. L’acquirente potrà quindi agire in giudizio per ottenere la dichiarazione di nullità e la conseguente condanna del costruttore alla restituzione di quanto eventualmente versatogli, oltre al risarcimento del danno. Se invece l’acquirente ha interesse a mantenere in vita il rapporto contrattuale malgrado il mancato rilascio della fideiussione, potrà darvi esecuzione, restando però esposto al rischio di non recuperare gli acconti versati (non assistiti dalla garanzia fideiussoria), qualora il costruttore incorra in una situazione di crisi. 403 Pratica Quesiti Il legislatore, con la normativa sopra citata, ha dunque fornito al promissario acquirente i mezzi per tutelarsi e spetta a lui quindi richiedere al promittente venditore il rispetto della normativa vigente, senza eccezione alcuna. L’IMPIANTO DI VIDEOSORVEGLIANZA L’assemblea del condominio in cui abitato ha deliberato di fare installare un impianto di videosorveglianza delle parto comuni, benché già ci sia un custode. La nuova disciplina del condominio stabilisce le maggioranze con cui deve essere assunta la delibera, ma nulla dice in ordine ai presupposti per potere installare l’impianto. Necessito dunque dei chiarimenti. La norma introdotta dalla riforma, l’art. 1122-ter cod. civ., colma sicuramente il vuoto legislativo che esisteva in ordine al quorum necessario per legittimamente deliberare da parte dell’assemblea l’installazione di un impianto di videosorveglianza sulle parti comuni: adesso serve il voto favorevole espresso dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea (non importa se presenti personalmente o per delega) portatori di almeno la metà del valore dell’edificio. Il tema della sorveglianza del territorio, da svolgersi con diversi mezzi e modalità, rappresenta oggi uno degli aspetti più importanti per gli amministratori che devono necessariamente mettere in atto azioni volte a tutelare il patrimonio e la sicurezza delle persone, con sempre maggiore efficacia. La videosorveglianza sta diventando ormai il mezzo più diffuso in condominio per tutelare la sicurezza, al punto che il Garante della privacy ha ritenuto necessario emettere in data 8 aprile 2010 un nuovo provvedimento (sostitutivo di quello del 2004) per individuare e regolamentare il giusto equilibrio tra sicurezza e privacy in condominio. I sistemi di videosorveglianza non devono pregiudicare la riservatezza, l’intimità ed il riserbo dei condomini e di tutti coloro che frequentano gli spazi comuni condominiali: la loro installazione deve avvenire, oltre che nel rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati personali, anche nella piena osservanza delle norme vigenti dell’ordinamento civile e penale. Il garante conferma che la privacy si basa su tre principi generali: liceità, necessità e proporzionalità fra i mezzi usati e gli obiettivi da perseguire. 404 Proprio per evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (vedasi sul punto Cass. pen. 26 novembre 2008, n. 44156) è opportuno, in primo luogo, che l’angolo visuale delle riprese sia limitato ai soli spazi di propria esclusiva competenza, quale può essere quella immediatamente antistante l’ingresso dell’edificio condominiale ovvero della singola unità immobiliare. È da escludersi invece, a pena di illiceità del trattamento dei dati, ogni forma di ripresa anche senza registrazione di immagini relative ad aree comuni, quali i cortili, i pianerottoli, le scale o le autorimesse comuni, oppure a spazi antistanti le altre abitazioni. Il condomino non ha possibilità di installare un impianto di videosorveglianza per riprendere aree condominiali comuni. E non può farlo nemmeno nel caso in cui lo scopo di tale installazione sia la propria sicurezza, messa in pericolo in seguito ad alcuni episodi di furti e di effrazioni. Quando infatti un impianto di videosorveglianza, per distanza, angolo visuale o qualità degli strumenti di ripresa consente di rendere identificabili le persone inquadrate, le registrazioni effettuate tramite l’uso di telecamere installate contengono in ogni caso dati di carattere personale, quale è innegabilmente il dato dell’immagine, di per sé idoneo a contraddistinguere l’aspetto fisico di una persona con modalità tali da permetterne il riconoscimento. L’immagine della persona trova ampia tutela nel nostro ordinamento. Ecco allora il motivo per cui l’attività di videosorveglianza deve rispettare il cosiddetto principio della proporzionalità nella scelta delle modalità di ripresa e di dislocazione delle telecamere. E così, il ricorso alla videosorveglianza appare sproporzionato quando nel condominio già vi sia la presenza di personale addetto esclusivamente alla protezione o alla custodia. La posa e l’installazione delle telecamere in condominio con annessi impianti d videosorveglianza devono essere giustificate da concrete esigenze di tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Sono illegittime se installate in luoghi non soggetti a concreti pericoli o per i quali non sussistono effettive esigenze di controllo: è il caso del condominio dove non risultano essersi mai verificati né furti nei singoli appartamenti e né particolari intrusioni di terzi estranei nelle parti comuni, ove quindi l’installazione di simili impianti rappresenterebbero un inutile deterrente destinato solo ad influenzare negativamente il comportamento e i movimenti delle persone che vi transitano nelle vicinanze. Immobili & proprietà 6/2014 Indici Immobili & proprietà INDICE DEGLI AUTORI INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI Aglietta Paola Condizioni di legittimità della revisione delle rendite catastali ..................................................... 364 Memorandum .............................................. 345 Albertini Vincenza Aria di novità sulle strade ................................ Corte di Cassazione 2 aprile 2014, n. 7741, sez. II ............................ 3 aprile 2014, n. 7803, sez. II ............................ 401 7 aprile 2014, n. 8081, sez. II ............................ 9 aprile 2014, n. 8263, sez. III ........................... Bordolli Giuseppe Le locazioni abitative transitorie ......................... Giurisprudenza 390 9 aprile 2014, n. 8339, sez. II ............................ 16 aprile 2014, n. 8886, sez. II .......................... Celeste Alberto Compravendite immobiliari tra regolamenti ‘‘blindati’’ dal costruttore e prescrizioni del codice del consumo ......................................................... Tribunale 348 Cirla Augusto 403 L’impianto di videosorveglianza ......................... 404 377 355 Compravendita 394 373 403 Preliminare Irregolarità urbanistiche (Cass. n. 8081/2014) ........ 396 Spese Spese accessorie della compravendita a carico del compratore e incarico professionale, a cura di Mariagrazia Monegat ............................................ 394 Condominio Re Alessandro 398 Amministratore Prova del diritto al rimborso (Rass.) .................... Servidio Salvatore Separazione tra coniugi e benefici ‘‘prima casa’’ ..... 398 Fideiussione Picardi Francesca Vizi ........................................................... Vizi L’acquisto dell’immobile ‘‘sulla carta’’: c’è l’obbligo della fideiussione, a cura di Augusto Cirla ............. Monegat Mariagrazia IRAP, studi associati e amministratori di condominio 399 INDICE ANALITICO Responsabilità ex art. 1669 cod. civ. (Rass.) .......... Gallucci Alessandro Spese accessorie della compravendita a carico del compratore e incarico professionale ................... 400 398 Appalto 359 Frugiuele Paolo Forma dell’atto d’impugnazione delle delibere condominiali ..................................................... 24 marzo 2014, Torino .................................... 28 novembre 2013, Palermo, sez. VII .................. Di Benedetto Alessandra La tassazione del c.d. mutuo dissenso: il revirement dell’Agenzia delle Entrate ................................ 23 dicembre 2013, Santa Maria Capua Vetere, ord., sez. I ......................................................... Giudice di pace L’acquisto dell’immobile ‘‘sulla carta’’: c’è l’obbligo della fideiussione .......................................... Il problema dell’estensione della tutela possessoria ai conviventi more uxorio ................................. 397 396 396 397 396 394 367 Sostituto (Cass. n. 8339/2014) .......................... 399 396 Assemblea Tagliolini Luana Amministratore ............................................ 399 Forma dell’atto d’impugnazione delle delibere condominiali, di Alessandro Gallucci ........................ Mediazione ................................................. 400 Privacy L’impianto di videosorveglianza, a cura di Augusto Cirla .......................................................... Testa Antonio Il rent to buy: la tipizzazione sociale di un contratto atipico ....................................................... 384 Regolamento 396 Compravendite immobiliari tra regolamenti ‘‘blindati’’ dal costruttore e prescrizioni del codice del consumo, di Alberto Celeste ................................. Triola Roberto In primo piano (Corte di Cassazione) ................... Immobili & proprietà 6/2014 355 404 348 405 Indici Immobili & proprietà Diritti reali Risoluzione del contratto Servitù La tassazione del c.d. mutuo dissenso: il revirement dell’Agenzia delle Entrate, di Paolo Frugiuele ......... Mutamento di destinazione del fondo dominante (Cass. n. 7803/2014) ...................................... 396 Locazioni Famiglia Rent to buy Famiglia ‘‘di fatto’’ Il rent to buy: la tipizzazione sociale di un contratto atipico, di Antonio Testa .................................. Il problema dell’estensione della tutela possessoria ai conviventi more uxorio, di Giovanna Di Benedetto 359 Le locazioni abitative transitorie, di Giuseppe Bordolli .............................................................. Catasto Uso non abitativo Prelazione (Cass. n. 8263/2014) ........................ 364 IRAP IRAP, studi associati e amministratori di condominio, di Francesca Picardi .................................. 406 390 397 Possesso Spoglio 373 Risarcimento del danno (Cass. n. 7741/2014) ........ 397 Processo Prima casa Separazione tra coniugi e benefici ‘‘prima casa’’, di Salvatore Servidio ......................................... 384 Uso abitativo Fisco Condizioni di legittimità della revisione delle rendite catastali, di Paola Aglietta ................................ 377 Mediazione 367 Comportamento non collaborativo (Rass.) ............ 400 Immobili & proprietà 6/2014 CONSULTARE Y74EI FI L’unica edicola digitale che raccoglie tutte le riviste IPSOA, CEDAM, UTET Giuridica e il fisco per RICERCARE Da oggi non devi più ricordare in quale fascicolo è stato pubblicato l’articolo che ti serve perché Edicola Professionale ti permette di avere a disposizione con una sola ricerca oltre 70 riviste IPSOA, CEDAM, UTET Giuridica e il fisco. Un patrimonio bibliografico inimitabile dove poter consultare dall’anteprima dell’ultimo fascicolo, appena chiuso in redazione, allo storico degli articoli pubblicati in ambito legale, fiscale, lavoro, aziendale e amministrativo. E con la ricerca avanzata per rivista, anno, numero, autore trovi proprio l’articolo che ti serve. Puoi consultare Edicola Professionale su PC e in mobilità, su tablet e smartphone, grazie all’app gratuita. La consultazione degli articoli di Edicola Professionale è un servizio esclusivo e COMPRESO NELL’ABBONAMENTO. UTET GIURIDICA® è un marchio registrato e concesso in licenza da De Agostini Editore S.p.A. a Wolters Kluwer Italia S.r.l. ARCHIVIARE Scopri subito Edicola Professionale! www.edicolaprofessionale.com adv_EDICOLA_PROF_6.indd 1 02/04/14 12:29 NOTARIATO E DIRITTO IMMOBILIARE Collana diretta da Giancarlo Laurini e Ernesto Briganti I diritti edificatori I nuovi assetti urbanistici devono tenere conto di alcuni interessi costituzionalmente orientati sorti negli ultimi anni: l’eguaglianza sostanziale dei cittadini dinanzi alla fruizione del territorio e all’allocazione delle opere pubbliche; la salvaguardia dei beni culturali ed ambientali; la ricerca di uno sviluppo edilizio sostenibile; l’attuazione di schemi di edilizia residenziale pubblica che diano la possibilità di attribuire in modo sempre più diffuso l’accesso al bene casa ai cittadini. La loro attuazione su base regionale - in assenza di norme quadro nazionali - ha condotto gli Enti locali ad individuare strade che le soddisfacessero, adottando soluzioni spesso tra loro eterogenee e confliggenti. Il volume fornisce al lettore un elemento di coerenza partendo dai nomi degli istituti e dalle loro definizioni per arrivare all’auspicio di una Legge Quadro nazionale che eviti lo spreco della risorsa “suolo” e miri a salvaguardare l’ambiente generando, nel contempo, uno sviluppo umano e sociale sostenibile. di Giuseppe Trapani pagg. 640, € 60,00 È disponibile anche nella versione eBook. Compili subito il coupon, e lo invii via fax allo 02.82476403. Può acquistare anche on line su www.shopwki.it oppure può contattare l’Agenzia della Sua zona (www.shopwki.it/agenzie) o rivolgersi alle migliori librerie della Sua città. acquistare il volume I diritti edificatori di Giuseppe Trapani a € 60,00. Cognome e Nome Azienda/Studio Via CAP Città Tel. Fax e-mail (obbligatoria): Cod. cliente C.F. Partita IVA ❑ (1002) Pagherò con bollettino postale premarcato sul c.c. n° 412205, intestato a Wolters Kluwer Italia s.r.l. Gestione abbonamenti Ipsoa, allegato alla fattura ❑ Addebitare l'importo di € .................... sulla mia carta di credito: ❑ Mastercard (16 cifre) ❑ American Express (15 cifre) n° Nome e indirizzo titolare carta di credito Timbro e firma Y40EI_LE.indd 1 ❑ VISA (16 cifre) ❑ Diner's (14 cifre) Data di scadenza Trattamento dati personali ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, La informiamo che i suoi dati personali saranno registrati su database elettronici di proprietà di Wolters Kluwer Italia S.r.l., con sede legale in Assago Milanofiori Strada 1 - Pal. F6, 20090 Assago (MI), titolare del trattamento e saranno trattati da quest’ultima tramite propri incaricati. Wolters Kluwer Italia S.r.l. utilizzerà i dati che La riguardano per finalità amministrative e contabili. I Suoi recapiti postali e il Suo indirizzo di posta elettronica saranno utilizzabili, ai sensi dell’art. 130, comma 4, del Dlgs. 196/03, anche a fini di vendita diretta di prodotti o servizi analoghi a quelli oggetto della presente vendita. Lei potrà in ogni momento esercitare i diritti di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003, fra cui il diritto di accedere ai Suoi dati e ottenerne l’aggiornamento o la cancellazione per violazione di legge, di opporsi al trattamento dei Suoi dati ai fini di invio di materiale pubblicitario, vendita diretta e comunicazioni commerciali e di richiedere l’elenco aggiornato dei responsabili del trattamento, mediante comunicazione scritta da inviarsi a: Wolters Kluwer Italia S.r.l. - PRIVACY - Centro Direzionale Milanofiori Strada 1 - Pal. F6, 20090 Assago (MI), o inviando un Fax al numero: 02.82476.403. Clausola di ripensamento diritto di recesso ai sensi dell’art. 5 D.lgs. n. 185/1999- Decorsi 10 giorni lavorativi dalla data di ricevimento del bene da parte del cliente senza che questi abbia comunicato con raccomandata A.R. inviata a Wolters Kluver Italia S.r.l. (o mediante e-mail, fax o facsimile confermati con raccomandata A.R. nelle 48 ore successive), la propria volontà di recesso, la proposta si intenderà impegnativa e vincolante per il cliente medesimo. In caso di recesso da parte del cliente, entro lo stesso termine (10 giorni lavorativi dal ricevimento) il bene dovrà essere restituito per posta a Wolters Kluver Italia S.r.l., Milanofiori, Strada 1 Pal. F6, 20090 Assago (MI) - telefax 02.82476.799. Y40EI LE (00148844) Sì, desidero 14/03/14 10:02