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Numero 1
16 settembre 2014
Tera de San Marc
Munere clamoris fit
Marcos imaga leonis
Foglio di divulgazione storica, linguistica e culturale
sulla Lombardia Orientale ex Veneta e la Repubblica di Venezia.
Versione dei testi in koinè italiana (italiano)
Bergamo, Brescia, Crema e Cremona nella guerra tra il Ducato di
Milano e la Repubblica di Venezia del XV secolo
Con la II Pace di Ferrara del 18 o 19 aprile 1428 la città di Bergamo veniva storicamente acquisita da Venezia in uno
degli episodi della lunga guerra della Serenissima contro il Ducato di Milano durata dal 1426 al 1454. Tra le varie e alterne
situazioni scandite da famose battaglie ricordiamo la presa di Brescia il 20 novembre 1426 che portò alla I Pace di Ferrara (o di
Venezia) del 30 dicembre 1426 dove la città di Brescia con tutto il suo territorio, eccetto che la Valcamonica, fu inclusa nello
“Stato da Terra” della Repubblica. Un altro e più famoso scontro avvenne nella Battaglia di Maclodio del 12 ottobre 1427 dove
l’esercito condotto dal Capitano di ventura Francesco Bussone detto ‘il Carmagnola’, sbaragliò quello del Duca di Milano
Filippo Maria Visconti. Oltre a Bergamo e al suo contado – a eccezione di Treviglio, Caravaggio, la Geradadda o Ghiaradadda,
e la Val San Martino – nella II Pace di Ferrara, Venezia conseguì anche i territori montani bergamaschi e bresciani con le
rispettive valli. Nacque così la Lombardia Veneta come territorio lombardo aggiunto alla terraferma veneta di allora che si era
venuta a formare già a partire dal 1404 con le prime dedizioni naturali, o forzate, delle più importanti città venete (Vicenza,
Verona, Padova, etc.).
Con la III Pace di Ferrara (26 aprile 1433) furono stabilite
definitivamente le estensioni del Dominio veneto su tutta la bergamasca
(fino al fosso bergamasco) e su tutto il territorio bresciano, città e valli
incluse. Una sorte particolare ebbe invece Cremona che diventò veneta per
poco tempo per ben due volte. Una prima volta passò sotto Venezia poiché
al condottiero milanese – ma di famiglia romagnola e al soldo di Venezia –
Francesco Sforza, era stata data per dote dal Duca di Milano insieme alla
figlia per moglie, come punto di accordo dei patti della Pace di Cremona del
20 novembre 1441. Successivamente alla morte del Visconti (il 13 agosto
1447) e alla mancanza di un erede maschio, il suo genero Sforza si fece
avanti facendosi ingaggiare alla condotta dell’esercito milanese contro
Venezia fino a conquistare, con un assedio, la città di Caravaggio. Siccome
i milanesi non si decidevano a dargli il Ducato, lo Sforza passò di nuovo al
soldo della Repubblica e alla fine, dopo lunghe e oscure trattative, riuscì a
farsi nominare Duca di Milano (settembre 1449). Questo passaggio di poteri
farà perdere Cremona – di proprietà dello Sforza – alla Repubblica nei
accordi della Pace di Venezia (21 settembre 1449). Nello stesso anno, nel
Il territorio della Lombardia Orientale ex Veneta nel 1782
mese di novembre, per effetto degli accordi di pace, la città di Crema e la
Geradadda, con Treviglio e Caravaggio, passarono sotto la Serenissima. La
guerra continuò poi fino alla Pace di Lodi (9 o 26 aprile 1454) dove vennero confermati i territori e i confini risultanti fino ad
allora eccetto che la perdita, per Venezia, della Geradadda insieme a Treviglio e Caravaggio. Nel 1499 con il Trattato di Blois
in Francia (15 aprile), Venezia ottenne la concessione da parte del Re di Francia Luigi XII di occupare la città di Cremona, il
suo contado e la Geradadda in cambio del sostegno alla discesa del Re in Italia per conquistare il Ducato di Milano.
L’occupazione avvenne il 10 settembre di quell’anno. Alla fine Cremona e la Geradadda tornarono di nuovo sotto il Ducato e
furono difatti perse senza rimedio in seguito alla sanguinosissima Battaglia di Agnadello (15 maggio 1509); battaglia che fu il
principio della dura e lunga guerra della Lega di Cambrai contro Venezia, guerra che tratteremo nel prossimo numero del
foglio.
La cerimonia solenne di dedizione di Bergamo a Venezia ebbe luogo il 4 o
9 luglio 1428 nella Basilica di San Marco a Venezia dove con grande sfarzo degli
ambasciatori bergamaschi fu donato al Doge Francesco Foscari lo stendardo di
Bergamo come segno di fedeltà alla Repubblica. Fu così che Bergamo venne inclusa
nel dominio veneto e finalmente ebbero fine, o quasi, le lotte di potere interne tra le
famiglie nobili ferocemente divise tra le fazioni guelfe e ghibelline. E infatti lo
stendardo o bandiera di Bergamo, nei suoi due colori rosso e giallo (prima il rosso
per la Patria e prima il giallo per la Città) rappresentano appunto i colori
rispettivamente dei ghibellini e dei guelfi.
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Bergamo divenne poi il bastione di confine orientale della
terraferma con tutti i pro e i contro che questo comportò, per esempio, la
realizzazione delle difese militari come lo splendido giro delle mura venete
o le scorrerie di eserciti e filibustieri dai territori di là dell’Adda. Certo, la
gente bergamasca non fu mai veneta o venetica di stirpe ma ebbe, e ha,
tutta un’altra origine protostorica. Possiamo dire con certezza delle sue
radici protoceltiche che si fondano nelle culture di Canegrate e di
Golasecca sorte all’alba dell’Età del Ferro (1200-1000 a.C.) e che
golasecchiani furono i fondatori della città e della maggior parte dei suoi
paesi, per la precisione tribù di insubri (in pianura) e orobi (sui monti). Per
i bresciani si parla invece di tribù di cenomani. A oriente dell’Adige
invece, durante l’età di Golasecca, si sviluppò l’antica civiltà veneta, di
origine indoeuropea (come per i celti), che interessò anche le attuali regioni
del Friuli, della Carniola in Slovenia, della Carinzia in Austria e dell’Istria
in Croazia.
Nonostante ciò sia i lombardi orientali che i veneti hanno avuto
nella zona alpina dei propri territori la presenza delle popolazioni retiche
(Reti) la cui origine sarebbe incerta. Al giorno d’oggi gli studiosi non
Il perimetro delle mura venete sui colli di Bergamo
sanno dargli ancora una fisionomia ben definita sebbene sia sicura l’origine
indoeuropea. Diverse tribù del nord-est italiano vengono incluse in questo popolo, per esempio i Camuni della Val Camonica e
gli Stoni o Steni della Val d’Adige. Si potrebbero ritenere retiche anche tutte le genti dell’arco alpino centro-orientale. Tutte
queste popolazioni e anche altre ancora, chiamate Galli Cisalpini dai romani, furono alla fine incluse nell’impero romano con
le spedizioni militari di Giulio Cesare intorno al 200 a.C..
Dunque per i territori della Lombardia Orientale (Bergamo, Brescia e Crema in particolare, Cremona di meno), si
potrebbe parlare sia di conquista che di “adozione” da parte di Venezia, e solo in questo senso dovrebbero essere intese le
espressioni di “Bergamo veneta” e “Lombardia Veneta”.
Storia della I Guerra Mondiale sul fronte orientale
Introduzione
Il fronte italiano dei combattimenti della Grande Guerra
partiva dal confine Svizzero con la Lombardia fino al mar
Adriatico correndo lungo le linee di cresta delle montagne alpine, i
colli prealpini e al purtroppo famoso Carso friulano. Sui fronti più
piani gli eserciti erano separati da una striscia di terra di nessuno:
la zona della morte. Gli assalti della fanteria erano spesso
successivi al tiro dell’artiglieria pesante con il suo stordente
effetto. Ma come partiva l’attacco, e a ondate i soldati italiani
correvano con il fucile in mano urlando “Avanti Savoia!” verso le
trincee austriache, succedeva prima il finimondo e poi una cosa
assurda. Prima c’era il massacro, la macelleria, poi tutto si
fermava, tutto taceva finché no si faceva sentire una voce
germanica che diceva in un italiano un po’ stentato: «Italiani,
tornate indietro!» oppure: «Basta!, Basta! Volete morire tutti?». E
allora i poveri fanti sopravvissuti prendevano la palla al balzo e
tornavano indietro. Ma non sempre finiva così perché le trincee italiane alle volte avevano dei fucilieri in postazione con la
mitraglia carica e con l’ordine di eseguire la condanna a morte sul campo di battaglia per tutti quelli che anche soltanto si
fermavano dal correre verso la trincea nemica.
I fronti di combattimento più famosi furono, prima di Caporetto l’altopiano del Carso e dopo Caporetto il massiccio
del Monte Grappa. L’altopiano del Carso è un’area carsica che dalle città friulane di Gorizia e Monfalcone si alza coperta di
cespugli, rocce e buche fonde chiamate doline o foibe, fino all‘Istria e alla Carniola in Slovenia, dopo di esso i Balcani fino
all’Albania.
Il Friuli è sempre stato una terra difficile da gestire fin dai tempi della Serenissima. Per poterla amministrare senza
problemi i veneziani dovettero lasciare in vita le istituzioni già presenti e mantenere vivo il Parlamento della Patria del Friuli –
davvero inconsueto per quei tempi – con la presenza, unica nel suo genere, del Luogotenente invece che del Podestà e del
Capitano come succedeva in tutte le altre province della Repubblica. E poi a oriente c’erano le terre slave, un mondo ancora
più diverso ed estraneo che all’epoca era suddito dell’Austria. Tutto questo restò così fin all’Ottocento e gli idealisti
dell’unificazione italiana di tutta la penisola si imbatterono in un problema praticamente irrisolvibile. Ritenevano infatti che
italiane avrebbero dovuto essere tutte le terre degli schiavoni (la Carniola slovena) e dell’Istria perché nell’antichità furono
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territori dell’Italia romana sotto Augusto imperatore. Tutte queste terre verranno dette da allora terre “irredente” da liberare e
da redimere per consegnarle di nuovo alla patria, alla civiltà e al genio latino.
Dopo mesi di trattative le forze di governo italiane si unirono alla guerra degli Alleati (Francia e Gran Bretagna)
contro la Germania e l’Austria-Ungheria, e la promessa di conquista dei territori irredenti diventò parte delle condizioni del
patto di alleanza. Gli Alleati non si fecero scrupoli ad accettare tutte queste rivendicazioni pur di evitare che l’Italia finisse
alleata di tedeschi e austriaci. In pratica l’Italia si vendette al miglior offerente come uno sfacciato mercenario mossa
dall’ambizione di diventare una potenza politico-militare nei Balcani.
Le truppe italiane si ammassarono quasi tutte nella regione orientale e in
particolare ai piedi dell’altopiano carsico per puntare subito in direzione di Gorizia e
Trieste. In due anni e mezzo di battaglie gli italiani non riuscirono neanche ad avvicinarsi a
Trieste pur riuscendo a conquistare Gorizia nel 1916 (8 agosto). Le offensive italiane
sull’Isonzo arrivarono a guadagnare un pezzo di terra lungo 30 km al prezzo di 900mila tra
morti e feriti: ragion per cui il Papa Pio X definì l’infelice impresa “una inutile strage”. In
tre anni di conflitto si videro gesti di coraggio, incompetenza, fanatismo, ammutinamenti,
diserzioni, fucilazioni e, per l’eccesso di severità, scarsi viveri, rigore della disciplina
militare e del tempo atmosferico, migliaia di tradimenti per convenienza. I soldati italiani
erano trattati con durezza e disumanità, erano le truppe peggio pagate e peggio
equipaggiate d’Europa occidentale e venivano mandati al fronte per alimentare la
macchina da guerra italiana comandata dal Generale Luigi Cadorna e dalla sua tattica degli
assalti frontali con una artiglieria inadeguata. L’Italia mise in campo lo stesso numero di
soldati della Gran Bretagna, ma il numero dei condannati a morte fu tre volte superiore. Il
governo italiano fu l’unico a trattare da pecore e traditori i soldati catturati, rifiutando e
impedendo di inviare loro cibo e vestiti da casa. Oltre 100mila dei 600mila prigionieri di
guerra italiani morirono in prigione: una percentuale nove volte più alta di quella dei
prigionieri austriaci in Italia. Statisticamente era più facile per i fanti morire in prigione
catturati che morire in trincea sul fronte.
Gli italiani erano più divisi sulla guerra di qualsiasi altro popolo. Per una minoranza, la causa era lampante:
l’irredentismo e la conquista per fucinare la razza italiana con le vittorie in guerra. Tanto maggiore sarebbe stato il sacrificio,
tanto migliore sarebbe stato il risultato alle trattative di pace; tanto più forte sarebbe poi stata anche l’amalgama delle genti
italiane nel sangue spanto. Alla fine della guerra, sebbene che l’unificazione poté finalmente verificarsi, l’economia era ridotta
alla fame, con le istituzioni che non poterono impedire l’ascesa al governo del fascismo e della sua ideologia che stabiliva che
la Grande Guerra era stata il fondamento della grandezza d’Italia, fornendo la giustificazione per creare un altro progetto di
egemonia e un’ulteriore azione di assalto al mondo esterno.
Amministrazione e burocrazia veneziana in terraferma
Le istituzioni centrali per il controllo della terraferma
I parte
Nel contesto di un progetto poliennale di indagini sul rapporto storico fra la città di Bergamo e la Repubblica di
Venezia, non può che presentarsi in forma sommaria e sintetica questa analisi sulle istituzioni centrali dello stato, soprattutto
perché l’ambito preso in considerazione è l’intero stato di terraferma, dal Friuli al Bergamasco, dal Cadore al Polesine, e il
periodo in questione è lungo quattro-cinque secoli. Scartando in partenza ogni illusione di trattazione organica, dunque, alla
discussione delle istituzioni sembra comunque opportuno premettere qualche considerazione sull’attenzione ora più diffusa che
gli storici della Repubblica di Venezia prestano alle sue province italiane, intese come parte integrante della vicenda
complessiva dello Stato.
È dato infatti di constatare che, se da una parte quasi ovunque nelle province una volta soggette a Venezia esistono
radicate e longeve tradizioni storiografiche locali (interessate alle vicende in epoca veneziana delle città, delle comunità di
valle, dei singoli comuni rurali, delle istituzioni ecclesiastiche e della vita religiosa, delle famiglie illustri e così via), d’altra
parte sono assai rare, prima di venti o venticinque anni fa, le indagini imperniate specificamente sui rapporti politici, economici
e sociali fra Venezia e la terraferma e tali, inoltre, da sfuggire a luoghi comuni e schemi fissi dell’orgoglio municipale, della
nostalgia o del risentimento nei confronti del governo veneziano, della storia provinciale o locale vista come riflesso scialbo o
specchio lontano della grande storia della capitale. Una svolta ‘storiografica decisiva, pur anticipata dai sondaggi di Marino
Berengo sulla terraferma nel ‘700 (estesi anche a una parte delle colonie marittime di Venezia), è rappresentata ‘dalla
monografia pubblicata nel 1964 da Angelo Ventura su Nobiltà e popolo nella società veneta del ‘400-’500: grande opera di
ricognizione, accolta da qualcuno con riserve per alcune sue tesi ma, finalmente e indubbiamente, una proposta e un avvio di
ricerche. Ancora qualche anno di pausa e poi, in sintonia con la maggiore attenzione ai processi di formazione di tutti gli stati
regionali italiani, la graduale accumulazione di un corpo sostanziale di ricerche, concentrate soprattutto in alcuni settori: il
diritto e l’amministrazione della giustizia, l’organizzazione della difesa, le strutture fiscali.
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Quanto alla politica economica le acquisizioni recenti in
questo settore hanno carattere più disorganico. Se invece di
guardare ai vari filoni di ricerca, tentiamo di censire le
indagini sui rapporti fra Venezia e la terraferma secondo un
criterio
di
distribuzione
cronologica,
risultano
complessivamente privilegiati i secoli XV e XVI, a scapito
del ‘600-’700, ancora in qualche modo ingabbiati dalle
etichette e dai relativi concetti della decadenza prima, e poi di
un illuminismo sostanzialmente mancato, almeno negli effetti
pratici sulla vita dello stato. Se adottiamo, infine, un criterio
geografico, si possono stendere elenchi più o meno nutriti di
ricerche per le varie province, e da un confronto in questo
senso si coglie un certo ritardo nello sviluppo degli studi
relativi alle province lombarde una volta soggette alla
Repubblica. Quest’ultimo fatto forse rispecchia la solidità di
Bergamo, Piazza Vecchia e il Palazzo della Ragione in Città Alta
ricerca e l’ottica non meramente municipale che
caratterizzano studi precedenti come quelli di Carlo Pasero su
Brescia e di Bortolo Belotti su Bergamo. Ma sembra anche testimoniare una condizione in qualche modo emarginata di queste
province: eredità attuale sul piano culturale di un’irrisolta tensione fra i due poli, della Lombardia e del Veneto, che
caratterizzò le loro vicende nei secoli della soggezione alla Repubblica. Non mancano di certo le fonti da sfruttare per indagini
dall’impostazione aggiornata su Queste province lombarde nei loro
rapporti con Venezia; a prescindere dall’abbondante materiale
conservato a Venezia stessa, lo indicano, per esempio, le recenti
indagini sugli statuti della provincia bergamasca e la disponibilità per
Bergamo di strumenti sempre più validi di accesso alle fonti locali e di
ricognizione bibliografica. Ben nota, in particolare, ma pur sempre da
sottolineare, e la splendida e dettagliata relazione stesa nel 1595-96 dal
capitano veneziano della città, Giovanni da Lezze: relazione che,
sull’esempio del testo analogo per Brescia di qualche anno posteriore (e
Brescia, il Tempio Capitolino nel centro storico
di tutto il massiccio corpo delle relazioni dei rettori veneziani), si
dovrebbe assolutamente pubblicare.
Bibliografia storica di riferimento
Frederic C. Lane – Storia di Venezia – Einaudi, 1978.
Alvise Zorzi – La Repubblica del Leone – Tascabili Bompiani, 2008.
AA.VV. – Venezia e le Istituzioni di Terraferma – Comune di Bergamo, Assessorato alla Cultura, 1987.
Ivone Cacciavillani – Venezia e la Terraferma – Panda Edizioni, 2008.
Gianni Pieropan – 1914-1918 Storia della Grande Guerra sul fronte italiano – Mursia, 1988.
Mark Thompson – La guerra bianca – ilSaggiatore Tascabili, 2008.
Et Viva Sancto Marco!
Tera de San Marc
Foglio di divulgazione storica, linguistica e-culturale
sulla Lombardia Orientale ex Veneta e la Repubblica di Venezia.
A cura di Serğ Gigant
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La grafia adottata per i testi in dialetto bergamasco, bresciano, cremasco e
cremonese non è quella tradizionale dei corrispondenti dialetti ma è una grafia
innovativa unitaria denominata ‘GLOVU’ (Grafia Lombardo Orientale-Veneta
Unitaria). I dialetti bergamasco, bresciano, cremasco e cremonese usati, con alcune
normalizzazioni grammaticali, sono indicativamente quelli delle corrispondenti città
capoluogo di Bergamo, Brescia, Crema e Cremona.
La lingua adottata per i testi in lingua veneta è invece il dialetto veneziano del
Sette-Ottocento, normalizzato e assunto come koinè veneta in considerazione del
prestigio letterario, economico e socio-politico che lo ha caratterizzato in quei
secoli. La grafia adottata per la sua scrittura è sempre la GLOVU.
Avvertenza per la lettura dei testi: le lettere sottolineate sono etimologiche e
puramente grafiche e non vanno pronunciate.
Per ulteriori informazioni sull’ortografia e per commenti vari scrivere all’indirizzo
suindicato.