"Un ragazzo proiettato nel duemilaCredici" Era un venerdì, era finita

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"Un ragazzo proiettato nel duemilaCredici" Era un venerdì, era finita finalmente la settimana e iniziava il weekend. Come ogni giorno, mi trovavo fermo a un semaforo, in centro a Milano, nei pressi di Piazza San Babila. Era mezzogiorno e mi trovavo immerso in un vortice di macchine… come il vortice di pensieri che mi frullavano nella testa: avevo sentito prima di arrivare in ufficio un ragazzo alla radio che parlava del “paese che vorrebbe”. Analizzando il tempo verbale di questa frase, secondo quanto imparato fin dalle elementari, si può intendere chiaramente che si tratta di un condizionale, unico tempo verbale che noi giovani siamo in grado di usare quando pensiamo al nostro futuro, perché in questo paese di certo non abbiamo più nulla, fatta eccezione per l'affetto che i nostri cari provano per noi. Un paese che per i giovani ha solo forbici per tagliare, un paese egoista dove chi raggiunge il traguardo perde la memoria e dimentica qualsiasi promessa. Un ragazzo come me può solo immaginare il suo futuro fuori dall'Italia, fuori da un paese segnato dalla corruzione, dalla giustizia che vuole imporsi nella politica e condizionarla; un paese dove la meritocrazia è un'utopia, un paese governato da sanguisughe, che per loro natura sono egoiste e pensano solo al proprio benessere. Il paese che vorrei non lascerebbe spazio a queste specie animali che la scienza indica come “parassiti”, ma darebbe fiducia a coloro che si dimostrano intraprendenti, brillanti e amanti della propria bandiera; alle persone umili, oneste, responsabili, valori che prima rientravano nella morale della maggior parte delle persone e che ora, invece, sono paragonati al fumo di una sigaretta, dannosi per la salute. Nel paese che vorrei, mi piacerebbe che ci fosse meno frenesia, meno traffico, meno code nelle strade; vorrei che la vita umana non dipendesse da un orologio ma dalle esperienze vissute, dalle scoperte fatte. Sarebbe incantevole anche il fatto che talvolta il silenzio non venisse considerato come un momento da riempire perché apparentemente vuoto, ma una situazione in cui ogni persona cercasse di ascoltare non la voce bensì il cuore del prossimo e, attraverso gli sguardi, instaurare un rapporto di piacevole convivenza tra persone. Vorrei che tornasse anche un po' di passato dove la comunicazione tra le persone avveniva principalmente faccia a faccia, vorrei che le tecnologie odierne venissero usate solo per migliorare la qualità della vita, senza eliminare il fattore umano caratterizzato dall' “essere vivi”, dall'espressività, dal provare emozioni e sentimenti. La voglia di ascoltarsi e non di sentirsi, come la necessità di guardarsi e non di vedersi. Vorrei che le diversità e le tradizioni non fossero soppresse dal "modello standard", vorrei che ognuno nel suo piccolo fosse unico, originale e capace di stupire il prossimo. Vorrei che la curiosità fosse premiata e l'indifferenza, l'ignoranza e l'egoismo fossero disprezzati. Alla base del mio paese utopistico collocherei la libertà, un concetto astratto che racchiude al suo interno mille aspetti differenti, il cui significato si può riassumere nel “la volontà di poter scegliere". Vorrei un paese in cui i principi appena citati siano la base su cui costruire il benessere economico della popolazione. E poi, finalmente, scattò quel dannato verde, era ora di andare, era ora di correre verso il futuro. Tornai a casa e ripensai a ciò che la mia mente aveva prodotto in quell’intervallo separato dai colori del semaforo e mi accorsi che il mio paese ideale assomigliava troppo all’ “isola che non c’è”, tuttavia, come molti detti recitano, “la speranza è l’ultima a morire”. Sono un ragazzo a cui piace sognare e immaginare, “perché chi non sogna non può volare” ed io un giorno vorrei arrivare alla mia meta e realizzare i miei sogni, contro la crisi, contro le difficoltà e superando ogni barriera lecitamente. TAPPARO ANDREA 
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