Biografie di monumenti. Bozze dalla ex Jugoslavia

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Biografie di monumenti.
Bozze dalla ex Jugoslavia
di Heike Karge
l mio intervento cercherà di porre e articolare una semplice domanda, cioè se e
come i monumenti possono aiutarci a comprendere il passato. Robert Musil, lo
scrittore austriaco morto nel 1942, aveva scritto un piccolo saggio sui monumenti1, pubblicato circa 50 anni dopo la sua morte. In questo saggio, egli dichiara:
“Non c’è niente al mondo più invisibile di un monumento”. E poi: “Sono costruiti
per essere visti, per attirare attenzione. Allo stesso tempo, tuttavia, possiedono qualcosa che distrugge qualsiasi forma di attenzione”.
James Young, il famoso studioso americano che ha lavorato a lungo sui monumenti che ricordano l’Olocausto, cerca di rendere il concetto in questi termini:
“Questo qualcosa è l’intrinseca solidificazione, insita anche in tutte le altre
figure/rappresentazioni... Un monumento cambia/trasforma la memoria plasmabile
in pietra”2. Un monumento, dunque, conduce effettivamente alla fine della memoria? E poi, alla luce di questa valutazione, un monumento può dirci qualcosa sulle
“memorie collettive” delle generazioni passate?
Al fine di discutere questo argomento, vorrei fare una breve digressione sul tema
della memoria collettiva. In seguito cercherò di sostenere, con l’aiuto di materiale
visivo raccolto durante le mie ricerche in Croazia, Serbia e Bosnia Erzegovina sui
Memoriali della Seconda guerra mondiale, che “leggere” e “comprendere” un monumento può essere straordinariamente utile per capire le società del passato. La cosa
importante, tuttavia, è quella di non far dipendere l’analisi solo dal monumento per
come appare nel paesaggio. Bisogna prendere in considerazione l’intera biografia del
monumento, la sua nascita, il suo sviluppo e, a volte, la sua decadenza.
Il sociologo francese Maurice Halbwachs3, i cui scritti sono stati riscoperti mezzo
secolo dopo la sua morte nel 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald, ha
fornito il quadro analitico per comprendere ed esplorare le memorie collettive nel
passato e nel presente e per aiutarci, in questo modo, a “leggere un monumento”.
Secondo Halbwachs, che ha introdotto il termine “memoria collettiva” nel dibattito accademico, la memoria collettiva non è una semplice metafora. Al contrario,
sottolinea Halbwachs, le memorie possedute dagli individui sono sempre e necessariamente inserite in un quadro collettivo. Si potrebbe anche affermare: gruppi collettivi o comunità non “possiedono” una memoria, ma questi stessi collettivi e comunità determinano la memoria dei propri singoli membri. Inoltre, Halbwachs ha
sostenuto che il processo del ricordo collettivo rappresenta uno sforzo per ricostrui-
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re il passato o eventi del passato. La memoria collettiva dunque, non il passato in sé,
non è altro che un’attività che si svolge nel presente e che è diretta verso determinati aspetti del passato. Questi “aspetti”, questo interesse nei confronti del passato,
secondo Halbwachs, sono modellati socialmente.
Infine, Halbwachs ha sottolineato che le memorie collettive dipendono dalle rappresentazioni: rappresentazioni materiali, come i libri di testo o i nomi delle strade,
che ci informano del fatto che una determinata società vuole che i propri membri
ricordino il passato. Rappresentazioni materiali come musei e monumenti, naturalmente. E ancora, il passato è anche presente e rappresentato nelle giornate commemorative che una determinata società sceglie per esprimere il proprio rapporto con
il passato, per rendere onore a figure storiche importanti o per commemorare i
defunti.
Lo storico francese Pierre Nora ha definito tutte queste rappresentazioni come
“luoghi della memoria”. Lo studioso americano Jay Winter utilizza un approccio
diverso per analizzare questi luoghi della memoria. Per lui, infatti, al centro dell’attenzione devono esserci le pratiche commemorative che avvengono in questi luoghi,
Immagine 1
Heike Karge, Commemorazione a Kragujevac (Serbia), 1963
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i luoghi della memoria. Come sottolineato da Jay Winter, il processo collettivo del
ricordare non è solo legato a un monumento, a un luogo della memoria, ma anche
a pratiche commemorative molto concrete.
L’immagine n. 1 ritrae una commemorazione avvenuta nel 1963 a Kragujevac,
una città di medie dimensioni nel centro della Serbia, in Jugoslavia. Da un lato, questo raduno degli abitanti di Kragujevac era stato promosso dall’élite politica dello
stato socialista jugoslavo, che mirava alla costruzione di una memoria collettiva
patriottica sulla Seconda guerra mondiale.
D’altro canto questo raduno degli abitanti di Kragujevac, dei figli, delle figlie, dei
nipoti di coloro che erano stati fucilati in questo luogo dalle truppe tedesche nell’ottobre 1941, non era solamente un atto politico. Era allo stesso tempo un’opportunità per piangere i propri morti e ricordarli, come individui o come gruppo, nello spazio pubblico. Ciò che vediamo in questa fotografia, quindi, è lo spazio pubblico degli
anni Sessanta, un presente passato da tempo, un presente che non è più il nostro.
Si tratta di un aspetto importante, dal momento che dubito si potrebbe trovare
una fotografia simile nel nostro presente, cioè dopo la fine della Jugoslavia, della
commemorazione degli studenti e degli altri abitanti di Kragujevac uccisi. Eppure,
pratiche di ricordo avvengono in quel luogo anche oggi. Tuttavia hanno un signifi-
Immagine 2
Luka Zanoni, Monumento alla Vittoria, Parco nazionale Tjentiste-Sutjeska (Bosnia Erzegovina)
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cato differente, un’intenzione diversa, un diverso “formato”. Torniamo qui all’analisi di Halbwachs, che sottolineava come ogni processo collettivo di ricordo è “determinato socialmente”. Secondo questo studioso gli individui, così come le collettività, ricordano solo ciò che in un determinato presente possiede una “cornice sociale”,
un quadro di riferimento. Di conseguenza, tendono a dimenticare le cose che sono
uscite da questo quadro, che non sono più importanti per i membri di una determinata società e non sono interessanti o funzionali per le élite politiche.
L’oblio e il silenzio non prendono forma solamente nell’assenza di un monumento o di un atto commemorativo. L’oblio e il silenzio sono soprattutto inerenti a
ogni monumento. Questo concetto è stato formulato concisamente dallo storico
tedesco Reinhart Koselleck, in modo simile alla dichiarazione di Musil, con le parole: “Zeigen heißt verschweigen”. Reinhart Koselleck4 è uno dei più importanti storici contemporanei e ha lavorato intensamente sulla tradizione e sulle trasformazioni
dei monumenti di guerra. Sostenendo che ogni rappresentazione della memoria collettiva comprende sempre e necessariamente anche l’oblio, il silenzio, ha affermato:
“Appartiene alla logica intrinseca a un monumento il fatto che ogni visualizzazione
nasconda qualcosa. La domanda cruciale dunque è: Che cosa è nascosto?”
Il silenzio più ovvio e diffuso relativamente ai monumenti moderni dedicati agli
eroi e alle vittime della Prima e della Seconda guerra mondiale riguarda il nemico, o
meglio i morti nel campo di battaglia opposto.
Il Monumento alla Vittoria nel parco nazionale Tjentiste-Sutjeska in Bosnia Erzegovina (immagine n. 2) è un’opera di Miodrag Zivković inaugurata nel 1971. Ricorda i combattimenti e la vittoria dei partigiani jugoslavi nella battaglia di Sutjeska nell’estate del 1943, le migliaia di combattenti caduti – nota bene solo i propri combattenti, i partigiani jugoslavi.
Il silenzio e l’oblio dei soldati caduti sul fronte opposto, tuttavia, non è una caratteristica specifica dei monumenti di guerra dell’Europa orientale e sud-orientale.
Come sottolineato da Koselleck, dappertutto nell’Europa del XX secolo i monumenti dedicati alla Prima e Seconda guerra mondiale tacevano a proposito del nemico e, più precisamente, dei suoi morti. Nel corso del XIX secolo, il nemico era stato
trattato diversamente.
Koselleck ha dunque sottolineato nei propri lavori quei messaggi che sono assenti o taciuti nelle rappresentazioni materiali delle memorie collettive. Questa importante prospettiva di ricerca è stata ampliata da altri studiosi quali James Young e Jay
Winter, le cui ricerche sui monumenti di guerra non prendono in considerazione
tanto il monumento finale, quanto i processi e le pratiche che hanno portato alla edificazione di questo o quel monumento. Seguendo il ragionamento proposto da
Young o Winter, i monumenti possiedono, proprio come gli esseri umani, una propria biografia. Attraversano diversi processi, fasi di crescita, di vita, di trasformazione e, infine, processi di decadenza fisica o mentale.
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Pratiche commemorative
I monumenti evolvono da una serie di attività e richiedono sempre la volontà di
ricordare da parte di una élite politica, di un gruppo di interesse o di un individuo.
Individui o gruppi che vogliono ricordare devono organizzarsi, raccogliere denaro,
sviluppare piani o idee su come il monumento dovrebbe essere e dove. Spesso il gruppo di persone interessate deve condurre una campagna pubblica per la realizzazione
del monumento e per ottenere sostegno. Questa fase, che può durare una o più decadi, è secondo me una delle più interessanti per la comprensione delle società del passato e delle loro memorie collettive.
Ho definito questa fase – prima dell’inaugurazione di un monumento – come
“retrospettiva”. Si tratta del periodo di tempo prima che un monumento sia costruito. Il punto di vista della “prospettiva”, invece, considera lo stesso luogo, ma dopo la
costruzione del monumento.
Proviamo a prendere in considerazione prima la retrospettiva, cioè il momento
dopo che è avvenuto un determinato evento storico ma prima che questo sia commemorato con un monumento. Vorrei distinguere tre tipi di pratiche:
- pratiche precedenti di ricordo;
- pratiche precedenti di oblio;
- pratiche irrealizzate: rappresentazioni che non si sono mai concretizzate, ma per le
quali sono stati sviluppati piani e disegni.
Immagine 3
Heike Karge, Ex campo di concentramento di Jasenovac prima della costruzione del Fiore di Pietra
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Relativamente al primo punto – pratiche precedenti di ricordo – ci si può chiedere, ad esempio, se ci siano state forme anteriori di commemorazione di un determinato evento storico o delle sue vittime. Se la risposta è affermativa, sorgono ulteriori interrogativi: chi si riuniva in quel luogo, per ricordare che cosa, chi erigeva
monumenti provvisori?
Nell’immagine n. 3 appare il luogo dell’ex campo di concentramento di Jasenovac, molto prima della costruzione del Fiore di Pietra (immagine n. 4). All’inizio
degli anni Cinquanta, un monumento di legno provvisorio era stato posto lì da esponenti della sezione locale della Lega Comunista Jugoslava, per ricordare le vittime del
campo. L’immagine successiva (immagine n. 5) mostra invece l’area dove gli abitanti di Kragujevac furono fucilati nell’ottobre del 1941. Le croci cristiane, erette in
questo luogo già durante il tempo di guerra, sono state rimosse solo pochi anni più
tardi, dal momento che le croci cristiane non rientravano nella narrazione patriottica e socialista della guerra che la Lega Comunista Jugoslava avrebbe costruito in
seguito.
Il silenzio sugli orrori dei campi di concentramento nella sfera pubblica degli anni
Cinquanta e Sessanta, di nuovo, non è un fatto specifico dell’Europa dell’est e del
sud-est, ma rappresenta un elemento costitutivo quasi dovunque nell’Europa politi-
Immagine 4
Luka Zanoni, Osservatorio sui Balcani, Il Fiore di Pietra, complesso memoriale a Jasenovac (Croazia),
progettato da Bogdan Bogdanović
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camente divisa del periodo. Tuttavia è possibile tracciare una distinzione tra un oblio
politicamente prescritto da un lato, nell’ex blocco comunista, e un’amnesia pubblicamente accettata dall’altro lato della Cortina di Ferro, nell’Europa occidentale.
Infine, è possibile indagare le pratiche non realizzate: i resti, le rappresentazioni
del passato che oggi si possono trovare solo negli archivi, o in scritti scientifici a diffusione limitata e quindi persi per il pubblico, rappresentazioni che non sono mai
state realizzate. Tra questi si possono ricordare la bozza di progetto per un futuro
parco memoriale a Jasenovac presentata nel 1952 da Nikola Nikolić, ex internato a
Jasenovac, oppure i diversi progetti presentati al bando per l’edificazione di un parco
memoriale a Kragujevac, tenuto alla metà degli anni Cinquanta.
La vita dei monumenti
dopo la loro costruzione
Consideriamo ora più da vicino la fase della biografia dei monumenti successiva alla
loro costruzione. Dal momento che tutti i miei esempi sono tratti dall’area ex jugoslava, bisogna tenere a mente che qui non solo è passato del tempo, ma è anche avvenuto un cambiamento nel sistema politico attraverso un periodo di guerre. Sia lo
scorrere del tempo sia il cambiamento politico, incluse le guerre, hanno condotto ad
almeno due sviluppi distinti relativamente ai monumenti di guerra in questo territorio: l’eliminazione del monumento oppure la sovrascrittura e il cambiamento del
suo significato.
La distruzione di un monumento è uno dei mezzi più ovvi di distruzione della
memoria o di imposizione dell’oblio. In totale, durante gli anni Novanta, in Croazia
Immagine 5
Heike Karge, Area in cui gli abitanti di Kragujevac furono fucilati nel 1941
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sono stati danneggiati o distrutti circa il 50% dei monumenti alla “Guerra Popolare
di Liberazione”, come veniva definita la Seconda guerra mondiale nella Jugoslavia
socialista. Nel villaggio di Luscani presso Petrinja (Croazia) dopo il 1945 erano stati
eretti vari monumenti locali alla memoria dei 113 combattenti caduti e alle 284 vittime della Seconda guerra mondiale a Luscani. Uno di questi monumenti è stato
distrutto dopo l’azione militare “Oluja” nell’agosto del 1995 e oggi ne rimane solamente il piedistallo vuoto, monumento non intenzionale a quanto doveva essere
dimenticato attraverso l’atto della distruzione.
Sorte pressoché analoga è toccata al monumento locale di Bjelovar (Croazia) costruito nel 1947 da Vojin Bakić in memoria dei 25 combattenti caduti e delle 269 vittime
civili della Seconda guerra mondiale. Questo monumento è stato completamente
distrutto nel 1991. La statua di bronzo è stata fusa e il
metallo poi venduto.
Un esempio invece di
pratiche di “sovrascrittura”
(scrivere sulla superficie
del monumento originale
e cambiare, trasformare il
suo messaggio e significato) è visibile a Budrovci nel
comune di Djakovo
(Croazia), dove era stato
eretto il “monumento
locale ai liberatori di
Budrovci, ai combattenti
locali e ai soldati del 1942.
La Divisione macedone
nella Seconda guerra mondiale”.
Il monumento, di fronte a un edificio scolastico,
ha cambiato del tutto la
propria dedica nella seconda metà degli anni Novanta: è oggi un monumento
alla memoria dei combattenti croati della guerra
civile degli anni Novanta
in Croazia, simbolizzato
Immagine 6
attraverso le insegne nazioHeike Karge, Sarajevo, Monumento ai soldati jugoslavi caduti per la liberazione di Sarajevo nella Seconda guerra
mondiale, con striscione rappresentante le bare delle vittime del massacro di Srebrenica
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nali croate. Non c’è più nessun indizio del fatto che questo, un tempo, era un monumento per i soldati e le vittime di un’altra guerra. Il luogo del monumento, di fronte a una scuola, fa sorgere un’altra domanda: gli studenti, i nostri figli, cosa possono
imparare da questo tipo di sovrascrittura di significati, dal rimpiazzare un messaggio,
una verità, con un’altra?
Che possiamo scegliere il passato che decidiamo di ricordare, a seconda dei cambiamenti nel clima politico? Oppure, come vorrei sostenere, l’esempio testimonia la
nostra incapacità di sopportare l’esistenza di più di una verità, di più di una versione del passato, delle ambivalenze del ricordare?
La possibilità di porre diverse memorie una accanto all’altra, di mantenere passati diversi senza cancellarne uno o l’altro, è dimostrata da un’altra fotografia scattata
nel centro di Sarajevo, in Bosnia Erzegovina, nel 2003 (immagine n. 6). L’immagine mostra il monumento, in parte danneggiato e devastato, eretto alla memoria di
quei soldati jugoslavi che sono caduti per la liberazione di Sarajevo nella Seconda
guerra mondiale. Nell’estate del 2003 è stato posto uno striscione sopra al monumento vecchio, l’originale, presentando all’osservatore una memoria diversa, dolorosa: lo striscione mostra le bare delle vittime identificate del massacro di Srebrenica,
fotografate il giorno prima della prima cerimonia funebre tenuta a Srebrenica nella
primavera di quell’anno.
I monumenti ci possono aiutare a ricordare, così come possono impedire la
memoria. Dietro i monumenti, quello che mostrano e quello che nascondono, ci
sono tuttavia le persone che hanno vissuto attraverso le catastrofi del XX secolo, che
Immagine 7
Heike Karge, Anziana coppia in un villaggio vicino a Jasenovac
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sono in grado di parlare, di ricordare. Vorrei quindi concludere con le persone che
vivono nella ex-Jugoslavia e che hanno vissuto sia la Seconda guerra mondiale sia le
guerre degli anni Novanta. Entrambe le guerre hanno lasciato i loro segni, traumatici e dolorosi, sulle persone che vivono qui. Ho incontrato questa anziana coppia
(immagini n. 7 e n. 8) in un villaggio vicino a Jasenovac. L’uomo era stato mandato
al campo di concentramento di Jasenovac da bambino, e poi come lavoratore forzato in Germania – cosa per la quale fino ad oggi non ha ricevuto nessuna compensazione. Hanno perso uno dei loro figli nell’ultima guerra.
La donna veste di nero il proprio dolore. ◆
[Traduzione dall’inglese di Andrea Rossini]
Note
1.
Robert Musil, Monuments. Posthumous papers of a living author, Hygiene, Colorado 1987, pp.
480-483.
2.
James E. Young, The texture of memory. Holocaust memorials and mourning, Yale University
Press, New Haven 1993.
3.
Maurice Halbwachs, La memoire collective, Parigi 1950.
4.
Reinhart Koselleck, Michael Jeismann, Der politische Totenkult: Kriegerdenkmäler in der
Moderne, Fink, Monaco 1994.
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