Rivista dell`arbitrato 2-2010 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XX - N. 2/2010
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
© Copyright - Giuffrè Editore
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XX - N. 2/2010
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
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INDICE
DOTTRINA
FRANCESCO P. LUISO, L’articolo 824-bis c.p.c. .............................................
LAURA BERGAMINI, Ricusazione giudiziale e ricusazione « amministrata »
dell’arbitro ..........................................................................................
MARCO GRADI, L’intervento volontario e la chiamata in causa dei terzi nel
processo arbitrale ...............................................................................
235
251
283
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
Italiana
Sentenze annotate:
Cass. 26 maggio 2010, n, 12866, con nota di E. D’ALESSANDRO, Ancora
una volta reputata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria dettata dalla Legge
n. 25/1994 ...........................................................................................
Trib. Paola 16 gennaio 2010, con nota di C. CORBI, L’intramontabile fascino della c.d. « teoria unitaria » e l’ambiguità dell’arbitrato irrituale o libero .......................................................................................
II)
315
325
Straniera
Sentenze annotate:
Regno Unito - High Court of Justice, Queen’s Bench Commercial Division 26 novembre 2008, con nota di R. TUCCILLO, La Section 21 dell’Arbitration Act del 1996: un nuovo ruolo per l’umpire? ...............
Stati Uniti - Court of Appeals, Second Circuit 14 gennaio 2010, con nota
di A. CARLEVARIS, La correzione del lodo: potere insindacabile degli
arbitri di accertarne i presupposti? ...................................................
343
363
III
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
Italiana
Lodi annotati:
Coll. arb. 2 settembre 2009 (Milano), con nota di E. OCCHIPINTI, La giurisprudenza arbitrale esclude la vessatorietà della clausola d’arbitrato irrituale ......................................................................................
375
RASSEGNE E COMMENTI
LAURENT GOUIFFÈS - CHRISTIAN DI MAURO, I meccanismi di soluzione delle
controversie nel quadro del Trattato sulla Carta dell’Energia ........
387
DOCUMENTI E NOTIZIE
Notizie libri [Francesco P. Luiso] ...............................................................
IV
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413
DOTTRINA
L’articolo 824-bis c.p.c. (*)
FRANCESCO P. LUISO (**)
1. Ambito dell’indagine. — 2. Il lodo come atto privato. — 3. Lo « ius superveniens ». — 4. Il rapporto giuridico fondamentale. — 5. I diritti dipendenti. — 6. I terzi « interessati ». — 7. I terzi « indifferenti ». — 8. Sentenza,
lodo e contratto. — 9. L’invalidità del lodo e la contrarietà all’ordine pubblico.
1. La riforma del 2006, com’è noto, ha disciplinato gli effetti
del lodo mediante il nuovo art. 824-bis c.p.c., in base al quale
« salvo quanto disposto dall’articolo 825, il lodo ha dalla data della
sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ». Questa norma ha sostituito la previgente disposizione, contenuta nell’art. 823, ultimo comma, c.p.c., secondo la
quale « il lodo ha efficacia vincolante tra le parti dalla data della sua
ultima sottoscrizione ».
Una prima lettura dell’art. 824-bis c.p.c. dovrebbe condurre
pianamente a ritenere che — a parte l’efficacia esecutiva (1) — sotto
tutti gli altri profili la sentenza ed il lodo abbiano uguali effetti. Purtuttavia tale equiparazione continua da più parti ad essere contestata
in ragione della « natura » del lodo (2), più specificamente in ragione
(*) Il presente lavoro è dedicato a Giovanni Verde, con il rammarico che non sia
stato pronto in tempo per poter essere inserito nella raccolta di Studi a Lui offerti.
(**) Professore ordinario nell’Università di Pisa.
(1) Che in realtà non è un effetto proprio e tipico della sentenza: v. infra, § 7.
(2) MONTESANO, Le tutele giurisdizionali dei diritti, Torino, 1994, 46; PUNZI, « Effıcacia di sentenza » del lodo, in questa Rivista, 2005, 829 ss., 836; ID., Ancora sulla delega in
tema di arbitrato: riaffermazione della natura privatistica dell’istituto, in Riv. dir. proc.,
2005, 970, 976; ID., Luci e ombre sulla riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2007, 430 ss.; ID., Relazioni fra l’arbitrato e le altre forme non giurisdizionali di soluzione
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del fatto che gli effetti dello stesso non si fondano sul potere autoritativo dello Stato (il c.d. imperium), ma sul consenso degli interessati. Oltre a ciò, ma sicuramente in posizione subordinata rispetto ai
profili sistematici, si adducono alcune disposizioni che differenzierebbero ancora gli effetti del lodo e gli effetti della sentenza (3).
Per affrontare in modo ordinato la questione occorre, dopo aver
preliminarmente verificato se la premessa circa la natura del lodo è
corretta, stabilire se questa diversa « natura » del lodo rispetto alla
sentenza, e quindi la diversità del potere esercitato dagli arbitri rispetto a quello esercitato dal giudice, giustifica in via sistematica una
lettura correttiva dell’art. 824-bis c.p.c.
L’analisi deve essere compiuta prendendo come punto di riferimento da un lato il lodo non più soggetto all’impugnazione per nullità e dall’altro la sentenza non più soggetta alle impugnazioni ordinarie, cioè passata in giudicato formale, nelle seguenti direzioni:
a) in ordine al contenuto:
1) con riferimento in senso proprio al suo contenuto, cioè a
ciò che esso dispone;
2) con riferimento ai suoi limiti oggettivi, per stabilire se il
lodo produce gli stessi effetti della sentenza da un lato rispetto al
rapporto fondamentale, e dall’altro rispetto ai diritti dipendenti da
quello oggetto di decisione;
3) con riferimenti ai suoi limiti soggettivi, per stabilire se il
lodo produce gli stessi effetti della sentenza da un lato rispetto ai
terzi titolari di diritti dipendenti, e dall’altro rispetto ai terzi c.d. indifferenti;
b) in ordine alla sua validità, per stabilire se il lodo possa essere contestato in ragione della sua « ingiustizia » in misura diversa
da quella cui è soggetta la sentenza (ovviamente passata in giudicato
formale).
Non tratteremo, invece, delle questioni attinenti a quelle disposizioni, da cui si evincerebbe una non perfetta parificazione degli effetti del lodo a quelli della sentenza. A mio avviso, si tratta infatti di
delle liti, in questa Rivista, 2003, 395 ss.; RUFFINI, Patto compromissorio, in questa Rivista,
2005, 722.
(3) Su cui v. PUNZI, « Effıcacia di sentenza », 838; ID., Ancora sulla delega, cit., 978;
ID., Luci e ombre, cit., 432; CARPI, Effıcacia del lodo (art. 824-bis c.p.c.) in Arbitrato, diretto
da CARPI, Bologna, 2007, 594 ss.
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profili non decisivi (4), e comunque indifferenti rispetto al problema
sistematico oggetto del presente studio.
2. Quanto all’esame preliminare. A me sembra incontestabile
che il lodo non sia atto disciplinato dal diritto pubblico, e quindi non
sia espressione di un potere autoritativo. La qualificazione dell’attività arbitrale come attività « giurisdizionale » può essere accettata
solo in senso contenutistico: in quella stessa direzione, quindi, battuta dalla Corte costituzionale nella sentenza 28 novembre 2001 n.
376 la quale — com’è noto — ebbe a definire l’arbitrato come « un
procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile
per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della
risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e
di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto
l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello
che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per
quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili
alla fattispecie ».
In questo senso si può aderire a quella parte della dottrina che
parla appunto di giurisdizione « privata » (5): laddove l’aggettivo
rende palese che l’attività arbitrale non può in alcun modo essere
fatta rientrare nell’art. 102 Cost., che appunto riserva la funzione
giurisdizionale alla magistratura. Ciò non significa, ovviamente, che
i medesimi risultati i quali — se prodotti in via autoritativa, attraverso il diritto pubblico — sono riservati alla magistratura non possano dalla legge essere attribuiti anche ad attività non autoritative.
Del resto, il significato dell’art. 102 Cost. sta proprio in ciò che, se
taluni effetti sono prodotti in via autoritativa, essi sono affidati alla
magistratura; ma questo ovviamente non impedisce che gli stessi ef-
(4) Si consideri, infatti, che a fronte di norme che differenziano il lodo rispetto alla
sentenza, ve ne sono altre — in primis l’art. 819, comma 2, c.p.c. — che attribuiscono al lodo
l’efficacia di giudicato. Di recente, poi, l’art. 112 del D.Lgs. n. 104/2010 (Codice del processo amministrativo), a proposito dei lodi arbitrali, prevede espressamente che può essere
proposta l’azione di ottemperanza per ottenere l’attuazione dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili « al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato ».
(5) VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2010, 163 e fondamentalmente BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 7, 30 ss.
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fetti possano essere prodotti anche in via non autoritativa: ed in tal
caso non avrebbe senso la riserva dell’art. 102 Cost. (6).
Appurato dunque che l’attività degli arbitri ha natura privatistica, e che il lodo vincola le parti non perché agli arbitri sia attribuito un potere autoritativo, e dunque necessariamente pubblicistico,
resta da vedere se questa diversità del potere esercitato impedisca al
legislatore di attribuire al lodo gli stessi effetti della sentenza.
3. Iniziando, secondo l’ordine sopra indicato, dal contenuto
del lodo, mi pare indubitabile che esso — come qualunque atto risolutivo di una controversia — operi determinando in modo vincolante
i comportamenti leciti e doverosi che i destinatari degli effetti del
lodo stesso possono e debbono tenere con riferimento ad un bene
della vita protetto (7). Occorre ora verificare quale sia la resistenza di
tali regole di condotta ad uno ius superveniens, ivi comprendendo
anche le sentenze della Corte costituzionale che dichiarano l’illegittimità della normativa sostanziale che disciplinava il rapporto prima
della pronuncia del lodo (8).
Il punto è fondamentale, perché talora si individua una differenza specifica fra sentenza e contratto in ciò, che solo la prima resiste allo ius superveniens mentre il secondo no. Dunque — si potrebbe concludere — se il lodo ha efficacia non di sentenza sibbene
di contratto, la decisione arbitrale che abbia fatto applicazione di una
norma dichiarata incostituzionale (ovvero di una norma successivamente modificata dal legislatore con effetti retroattivi) dovrebbe perdere effetti, e la controversia potrebbe essere sottoposta ad una nuova
(6) Contrariamente a quanto affermato da parte della dottrina (v. per tutti FAZZALARI,
Questione di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 2005, 662 ss.; ID., Arbitrato (dir.
proc. civ.), in Enc. dir., Annali II, 1, Milano, 2008, 48; MONTESANO, Le tutele giurisdizionali,
cit., 47; RUFFINI, in Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, Milano, 2006,
62-63), dunque, l’art. 102 Cost. riserva alla giurisdizione non già la produzione di determinati effetti, ma solo uno degli strumenti (quello autoritativo) per la produzione degli effetti
stessi. Nel senso del testo RICCI, Ancora sulla natura e sugli effetti del lodo arbitrale, in Studi
offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 709.
(7) MENCHINI, Sull’attitudine al giudicato sostanziale del lodo non più impugnabile
non assistito dalla omologa giudiziaria, in questa Rivista, 1998, 777-778.
(8) Questo è il punto centrale da esaminare. Gli altri profili, individuati dalla dottrina
per differenziare l’efficacia del lodo da quella della sentenza (MENCHINI, La natura e la disciplina dell’eccezione con la quale è fatta valere l’effıcacia di un (precedente) lodo non impugnabile, in questa Rivista, 2002, 294-298), costituiscono solo profili collaterali o dipendenti
da quello individuato, salvo per quanto attiene all’efficacia riflessa, su cui v. infra il § 5.
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decisione, che tenesse conto dello ius superveniens; mentre ciò non
accadrebbe se la stessa decisione fosse stata presa in sede giurisdizionale (9).
Senonché, sono le stesse premesse a dover essere poste in discussione. Non vi è dubbio, infatti, che il contratto in genere non resista allo ius superveniens: ma a contraria conclusione si deve giungere se non di un qualunque contratto si tratta, sibbene di un contratto che ha come causa (10) la risoluzione della controversia (11). È
pacifico, infatti, in giurisprudenza che lo ius superveniens trova ostacolo in egual misura vuoi nella transazione vuoi nella sentenza (12).
Ed anche il legislatore, quando disciplina l’efficacia di una norma
retroattiva, accomuna costantemente la transazione alla sentenza (13).
È singolare che l’argomento relativo alla resistenza della transazione allo ius superveniens sia assente dalle più recenti trattazioni (14), mentre era oggetto di esame nella dottrina più antica. Già in
diritto romano si affermava che la legge retroattiva opera su tutti i
rapporti giuridici, exceptis illis causis, quas aut iudicialis sententia
aut transactio terminavit (15). Anche in dottrina l’egual regime delle
(9) Cosı̀ infatti RUFFINI, « Effıcacia di sentenza » del lodo arbitrale ed impugnazione
incidentale per nullità, in questa Rivista, 2000, 470; ma in senso diverso v. ID., Arbitri, diritto e costituzione (riflessioni a margine della sentenza della Corte costituzionale, 28 novembre 2001, n. 376, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 272 ss.. Solo apparentemente nello stesso
senso MONTESANO, Questioni incidentali nel giudizio arbitrale e sospensioni di processi, in
Riv. dir. proc., 2000, 6, il quale giunge a tale conclusione perché nega agli arbitri la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale (nonché di disapplicare la norma incostituzionale): possibilità, com’è noto, riconosciuta poi dalla Corte costituzionale con la
sentenza citata nel § 2; sul punto v. BRIGUGLIO, La pregiudizialità costituzionale nell’arbitrato
rituale e la effıcacia del lodo, in questa Rivista, 2000, 658.
(10) O, se si vuole, come scopo: GITTI, La transazione, in I contratti di composizione
delle liti, Torino, 2005, 86.
(11) Lo nota un’acuta dottrina: D’ALESSANDRO, Riflessioni sull’effıcacia del lodo arbitrale rituale alla luce dell’art. 824-bis c.p.c., in questa Rivista, 2007, 533 nota 7 (ed in
Commentario alle riforme del processo civile a cura di BRIGUGLIO e CAPPONI, III, 2, Padova,
2009, 964 nota 7).
(12) Cass. 17 gennaio 2001 n. 576; Cons. Stato, Sez. VI, 18 ottobre 1993 n. 728;
Cass. 4 luglio 1992 n. 8174; Cass. 23 marzo 1991 n. 3270, in Giur. it., 1992, I, 1, 1139; Cass.
10 giugno 1988 n. 3956, in Arch. loc., 1989, 78.
(13) V., ad es., l’art. 53 della Legge 3 maggio 1982 n. 203 e l’art. 37 del D.P.R. 26
aprile 1986 n. 131.
(14) Si v. ad es., GITTI, La transazione, cit. (il quale pure, nel determinare gli effetti
della transazione, applica gli stessi criteri che si utilizzano per la sentenza: op. cit., 197 ss.).
(15) Nov. 19, pr. Si v. anche il ben noto D.XXXVIII.17.1.12, secondo il quale « quae
iudicata, transacta, finitave sunt, rata maneant », che peraltro è meno significativo perché
accomuna ipotesi — giudicato e transazione — in cui lo ius superveniens non trova applica-
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transazioni e delle sentenze rispetto allo ius superveniens trovava affermazione (16). La dottrina più recente ha peraltro chiarito, in maniera a me pare assolutamente convincente, che la transazione opera
recidendo il « nesso di condizionalità fra fattispecie concreta ed effetto giuridico previsto dalla norma astratta di legge », sostituendo
conseguentemente quest’ultimo con il precetto dell’autonomia privata (17).
Non è affatto vero, dunque, che « ad essa [la giurisdizione] soltanto compete quella forza, la forza del giudicato, idonea ad esaurire
ogni potestà di giudizio su quello specifico frammento di vita e a
troncare in modo irreversibile e ad ogni effetto il nesso fra la fattispecie concreta e quella astratta » (18). Abbiamo appena visto che lo
stesso risultato è attinto anche dalla transazione: con il che è confermato che non la forza, sibbene il contenuto dell’atto, determinato
dalla funzione dello stesso (19), produce l’effetto in questione (20).
Dunque, l’attribuzione al lodo della natura privata, e la qualificazione in termini privatistici del potere esercitato dagli arbitri non
consente di fondare alcuna differenza, sotto questo profilo, fra lodo e
sentenza: ed anzi consente di mettere un primo tassello volto a giustificare l’equiparazione, sotto il primo dei profili che qui interessano, fra (contenuto del)la sentenza e (contenuto de) il contratto che
risolve la controversia. Equiparazione che — lo anticipiamo — costituirà il fil rouge del presente lavoro.
Dal punto di vista del contenuto dell’atto, deve quindi essere
rivalutato quanto già affermato da L. 20 C. de transact. 2.4 (21), dall’art. 2052 del code Napoléon (22) e dall’art. 1772 del nostro previ-
zione perché viene reciso il nesso fra fattispecie concreta e norma, da altre ipotesi, in cui la
norma sopravvenuta non trova applicazione perché sussiste un fatto che osta all’applicazione
della stessa (ad es., prescrizione, usucapione, estinzione per non uso etc.).
(16) SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, VII, Torino, 1896, 516-520; CAMMEO, L’interpretazione autentica, in Giur. it., 1907, IV, 348-349; GIANTURCO, Sistema di diritto
civile italiano, I, Napoli, 1909, 115; BUTERA, Transazione, in Dig. it. XXIII, 1, Torino, 1916,
1750; ID., Delle transazioni, Torino, 1933, 319-320.
(17) CAPONI, L’effıcacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, 188. In giurisprudenza, da ultimo, Cass. 6 agosto 2010, n. 18359.
(18) Cosı̀ PUNZI, « Effıcacia di sentenza », cit., 832.
(19) CAPONI, L’effıcacia, cit., 194.
(20) Sul punto v. anche BRIGUGLIO, La pregiudizialità costituzionale, cit., 659 ss.
(21) Secondo il quale non minorem auctoritatem transactionum quam rerum iudicatarum esse recta ratione placuit.
(22) Secondo il quale les transactions ont, entre les parties, l’autorité de la chose
jugée en dernier ressort.
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gente c.c. (23). In verità, se la cosa giudicata sostanziale viene definita come « la legge del caso concreto » che « si sostituisce in tutto
e per tutto, rendendola irrilevante, alla fonte normativa del rapporto
che essa regola » (24), non è chi non veda come la stessa definizione
si attagli anche alla transazione e più in generale al contratto risolutivo di una controversia. Come è dimostrato dal fatto che quanto statuito nella sentenza e quanto convenuto nel contratto finalizzato alla
risoluzione di una controversia operano esattamente nella stessa maniera e sono sottoposti alla medesima disciplina.
E solo un errore di prospettiva può negare che alla transazione
sia ricollegata la cosa giudicata sostanziale, contestando « il dogma
dell’immutabilità della transazione » (25), quando l’immutabilità attiene non al contenuto, ma all’invalidità e quindi al regime giuridico
dell’atto: semmai, dunque, al giudicato formale e non a quello sostanziale (26). Ora, è evidente — o, almeno, a me cosı̀ pare — che la
possibilità di far valere l’invalidità dell’atto in tempi e modi diversi
non incide affatto sul contenuto dell’atto stesso: cosı̀ come la stabilità della sentenza derivante dall’art. 161, comma 1, c.p.c. niente ha
a che vedere con il contenuto della stessa che — finché la sentenza
ed il contratto sono validi — è perfettamente coincidente con quello
del contratto che, come la sentenza ed il lodo, sia finalizzato alla risoluzione di una controversia.
La conclusione mi sembra palese: non vi è alcun ostacolo sistematico ad attribuire al lodo, sotto il profilo esaminato dei rapporti
con lo ius superveniens, un contenuto coincidente con quello della
sentenza, poiché anche il contratto finalizzato alla risoluzione di una
controversia ha contenuto coincidente con quello della sentenza. E
dunque la natura privatistica-contrattuale del lodo non rileva sotto
questo profilo.
(23) Secondo il quale le transazioni hanno fra le parti l’autorità di una sentenza irrevocabile.
(24) Sono parole di MONTESANO, Le tutele giurisdizionali, cit., 268-269: ma nella sostanza si tratta di definizione pacifica.
(25) Cosı̀ il titolo del § 1 del lavoro di GITTI, La transazione, cit.
(26) V. sul punto LAURENT, Principii di diritto civile, I ed., XXVIII, 290-291, il quale
afferma che l’eccezione di transazione coincide con l’eccezione di cosa giudicata, ma riconosce che le transazioni possono essere impugnate come ogni contratto, mentre le sentenze
passate in forza di cosa giudicata non sono riformabili. Dov’è evidente — e sul punto ritorneremo in seguito — la differenza fra la cosa giudicata sostanziale e la cosa giudicata formale; fra il contenuto della sentenza ed il suo regime giuridico.
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4. Altra divergenza fra sentenza e lodo è talvolta individuata
in ciò che la sentenza e non il lodo produrrebbero un accertamento
relativo all’esistenza ed alla qualificazione del rapporto giuridico
fondamentale (27).
Non è il caso, ovviamente, di discutere in questa sede se sia
corretto o meno affermare che il giudicato si estende al rapporto giuridico fondamentale secondo la tecnica del c.d. antecedente logico
necessario. Diamo per scontato che cosı̀ accada, e chiediamoci se ciò
sia conseguenza della natura pubblicistico-autoritativa della sentenza, che il lodo non ha.
Ora, la ragion d’essere dell’efficacia della sentenza sul rapporto
fondamentale è correttamente individuata nella necessità di garantire
che — laddove fra i più effetti dello stesso rapporto vi sia una stretta
interdipendenza, come accade nei rapporti sinallagmatici — la statuizione relativa ad un effetto si coordini con le successive statuizioni relative agli altri effetti del medesimo rapporto (28). Sicché, ove
ad es., a Tizio sia riconosciuto verso Caio un credito per il pagamento di un canone di locazione, e Caio successivamente avanzi una
pretesa relativa alla durata legale dello stesso rapporto, Tizio non
possa opporre che non di locazione si tratta ma di comodato.
Chiediamoci dunque quali conseguenze avrebbe un accordo fra
Tizio e Caio, con il quale — a seguito di una controversia sorta fra
gli stessi — Caio si impegnasse a pagare una certa somma a titolo di
canoni di locazione: mi pare indubitabile che l’accordo in questione
sia idoneo a qualificare il rapporto, in relazione al quale il pagamento
viene effettuato, come rapporto di locazione. Al pari di quanto sopra
visto, sarebbe assurdo che Tizio, dopo aver ricevuto ed accettato il
pagamento a titolo di canone di locazione, sostenesse poi che in
realtà il rapporto deve essere qualificato come comodato.
Se, dunque, il fondamento dell’estensione degli effetti della
sentenza al rapporto fondamentale sta in ciò, che una volta determinata una certa disciplina di uno degli effetti del rapporto, anche la
disciplina degli altri effetti si deve coordinare a quello che è stato
oggetto di decisione, mi sembra indubitabile che, quando le parti di-
(27) ODORISIO, Prime osservazioni sulla nuova disciplina dell’arbitrato, in Riv. dir.
proc., 2006, 268; AULETTA, Art. 824-bis, in La nuova disciplina dell’arbitrato a cura di MENCHINI, Padova, 2010, 427. Contra BOVE, La giustizia privata, cit., 166.
(28) V. fondamentalmente MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano,
1987, 109 ss.
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sciplinano negozialmente uno degli effetti del rapporto, anche gli altri effetti si coordinano alla disciplina del primo.
Pertanto, pure sotto questo profilo nessuna differenza vi è fra la
sentenza ed il contratto finalizzato alla risoluzione di una controversia; nessuna rilevanza ha, dunque, la natura privatistica-consensuale
del lodo per giustificare una sua diversa efficacia rispetto alla sentenza, poiché l’effetto è ricollegabile non al tipo di potere esercitato,
ma ancora una volta al contenuto dell’atto.
5. Discorso analogo deve essere fatto per quelle opinioni, che
negano che il lodo faccia stato « ad ogni effetto », e dunque produca
effetti (riflessi) vincolanti sui diritti dipendenti (29). Si ipotizza, dunque, che il lodo, che condanna Tizio a pagare una certa somma a
Caio, non sarebbe vincolante, laddove fra Tizio e Caio successivamente sorgesse controversia sugli interessi, in ordine all’esistenza
del credito principale.
Chiediamoci dunque: se fra Tizio e Caio si stipula una transazione, in virtù della quale Tizio si impegna a pagare a Caio una certa
somma, e successivamente sorge controversia sugli interessi, si potrà
contestare l’esistenza del credito principale? La risposta mi sembra
chiaramente negativa: ne consegue che nessun rilievo ha l’attribuzione al lodo della natura privatistica-consensuale, poiché nessuna
differenza vi è sotto questo profilo fra sentenza e contratto, e dunque
nessuna differenza vi è fra lodo e sentenza. Ancora una volta non è
il tipo di potere esercitato (ed in virtù del quale tale atto è vincolante)
che produce l’effetto riflesso, ma il contenuto dell’atto.
In verità — tirando le fila di quanto detto in questo paragrafo e
nel paragrafo precedente — se, come abbiamo visto, il contratto finalizzato alla risoluzione della controversia e la sentenza operano
nello stesso modo, sostituendo (o sovrapponendo) (30) una regola di
(29) PUNZI, « Effıcacia di sentenza », cit., 833-834, il quale afferma che l’art. 2909
c.c. collega il fare stato ad ogni effetto solo alla sentenza. Ma l’art. 2909 c.c., nell’affermare
che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto, in
alcun modo riserva alla sola sentenza una tale efficacia.
Parte della dottrina nega invece che il lodo abbia effetti riflessi sui diritti dipendenti
non perché esso sia atto non autoritativo, ma perché esso non applica il diritto oggettivo al
caso concreto, sicché gli effetti riflessi sono negati anche alla sentenza che decide in via
equitativa (e che pure è atto autoritativo): MONTESANO, Le tutele giurisdizionali, cit., 273-276.
(30) È chiaro, nell’alternativa, il riferimento ai due diversi modi con cui può operare
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condotta concreta alla disciplina generale ed astratta, anche in relazione agli effetti sul rapporto pregiudiziale e sui diritti dipendenti
non vi può essere diversità fra i due strumenti. L’efficacia vincolante
sul rapporto pregiudiziale e sui diritti dipendenti, infatti, non deriva
dal tipo di atto che la produce, ma dal contenuto dello stesso: è il
contenuto dell’atto che, operando la sostituzione (o la sovrapposizione), fa sı̀ che quanto determinato dall’atto costituisca l’unica
realtà rilevante fra le parti. Sicché, quando successivamente si discute fra le parti di tale realtà — e non importa che se ne discuta a
titolo principale, o come presupposto rilevante con riferimento ad un
diverso bene della vita — essa sola può essere presa in considerazione (31).
6. Uno dei punti più delicati e problematici del problema che
stiamo affrontando riguarda indubbiamente gli effetti del lodo nei
confronti dei terzi (32): ma, come vedremo fra poco, esso è un vero
e proprio trompe l’œil.
Iniziamo dal profilo più importante: l’efficacia verso i terzi, titolari di situazioni sostanziali dipendenti da quella decisa. Non vi è
dubbio, sotto questo profilo, che il potere autoritativo, su cui si fonda
la giurisdizione e che rende vincolante quanto statuito nella sentenza,
è potenzialmente in grado di rendere la sentenza vincolante erga
omnes, poiché appunto è un potere che prescinde dal consenso dei
destinatari. Viceversa, non vi è egualmente dubbio che il contratto,
in quanto fondato sul consenso, non è in grado di produrre effetti nei
la cosa giudicata sostanziale, e che trovano corrispondenza nella teoria sostanziale e nella
teoria processuale del giudicato.
(31) Questa considerazione consente di superare anche le obiezioni che, contro l’efficacia riflessa del lodo sui diritti dipendenti, sono state tratte dai limiti dell’accordo compromissorio (PUNZI, « Effıcacia di sentenza », 833-834). Infatti, che il diritto dipendente sia o
meno ricompreso nella convenzione di arbitrato rileva solo per stabilire a chi spetta decidere
la controversia sul diritto dipendente, e non già per escludere che la decisione sul rapporto
pregiudiziale sia vincolante quando essa sia opera di un soggetto diverso da quello che ha il
potere di decidere sulla controversia relativa al diritto dipendente. Altrimenti si dovrebbero
concludere che, decisa in sede giurisdizionale la controversia relativa al diritto pregiudiziale,
nella controversia sul diritto dipendente deferita in arbitrato la precedente decisione non abbia efficacia.
(32) Che parte della dottrina nega: PUNZI, « Effıcacia di sentenza », 834; CONSOLO, Le
impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2008, 376; AULETTA, Art. 824-bis, cit., 425
ss.; RUFFINI, Il giudizio arbitrale con pluralità di parti, in Studi in onore di Montesano, Padova, 1997, I, 680. Ma v. sul punto BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità del lodo, Napoli,
2005, 162 ss. testo e nota 19.
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confronti di coloro che tale consenso non abbiano manifestato. Sicché, con riferimento al lodo, vuoi la necessaria volontarietà dell’arbitrato vuoi la natura privatistico-consensuale del lodo non permettono di estendere gli effetti del lodo se non a coloro che alla via arbitrale abbiano consentito in via diretta o indiretta.
Senonché, alla astratta, potenziale illimitatezza soggettiva del
potere giurisdizionale pongono un limite, costituzionalmente necessario, le norme che garantiscono il principio del contraddittorio ed il
diritto di difesa. Pertanto, se anche è vero che in potenza tutti i titolari di diritti dipendenti sono vincolati alla sentenza emessa inter
alios sul rapporto pregiudiziale; se, dunque, è possibile che, in
astratto, attraverso la giurisdizione trovi realizzazione il principio
della absolute Wirkung der relative Feststellung (33); tuttavia il necessario rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa impedisce che ciò accada: donde anche la sentenza trova dei limiti soggettivi ai suoi effetti, pur potenzialmente illimitati.
Se andiamo più in dettaglio, vediamo che i terzi, titolari di diritti ed obblighi dipendenti da quello oggetto della decisione, si debbono dividere in due categorie: quelli con titolo posteriore e quelli
con titolo anteriore alla litispendenza.
Rispetto ai primi, il combinato disposto degli artt. 111, comma
4, c.p.c. e 2909 c.c. prevede che la decisione inter alios sia per essi
vincolante: e la giustificazione sta nel fatto che in tali (come in altri)
casi la tutela del diritto di azione della parte vittoriosa, di cui al
primo comma dell’art. 24 Cost., prevale sul diritto di difesa dell’avente causa della parte soccombente, di cui al secondo comma
dell’art. 24 Cost.
In relazione a costoro, l’art. 816-quinquies, ult. comma, c.p.c.,
nell’affermare che all’arbitrato « si applica l’articolo 111 », nonché
le disposizioni che prevedono la trascrivibilità della domanda proposta in sede arbitrale al pari di quella proposta in sede giurisdizionale
(artt. 2652 e 2653 c.c.), equiparano in tutto e per tutto gli effetti del
lodo arbitrale e quelli della sentenza nei confronti dei terzi titolari di
diritti ed obblighi dipendenti da quello oggetto di decisione, ogni
qual volta il titolo degli stessi sia posteriore alla proposizione della
domanda.
(33) Come magistralmente illustrato da MENDELSSOHN BARTHOLDY, Grenzen der Rechtskraft, Lipsia, 1900, 509 ss.; da ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935,
87 ss.; e da FABBRINI, Contributo alla dottrina dell’intervento adesivo, Milano, 1964, 102 ss.
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Per quanto riguarda i terzi titolari di diritti ed obblighi con titolo anteriore alla litispendenza, la loro posizione in linea di principio è di immunità dagli effetti della sentenza inter alios, poiché in
questo caso non vi è alcuna ragione per privilegiare il diritto di
azione della parte vittoriosa la quale — se avesse voluto una sentenza efficace anche verso un avente causa, il cui titolo era già esistente quando egli ha proposto la domanda — ben avrebbe potuto
estendergli il contraddittorio, avvertendolo della pendenza del processo e facendogli assumere il ruolo di parte.
Sicché — ma qui non è ovviamente possibile dilungarsi sull’argomento (34) — gli unici casi nei quali è giustificato che una sentenza produca effetti nei confronti di terzi, qualora il titolo da cui nascono i loro diritti o gli obblighi sia antecedente alla proposizione
della domanda, si hanno quando è lo stesso diritto sostanziale a costruire la posizione di costoro come esposta alle modifiche della situazione pregiudiziale, da qualunque fonte esse siano prodotte, e
dunque tanto dalla sentenza pronunciata nei confronti delle parti del
rapporto pregiudiziale, quanto dal contratto da esse stipulato e che
quel rapporto pregiudiziale abbia ad oggetto (35).
Se cosı̀ è — ed a mio avviso non può essere che cosı̀, perché
altrimenti il diritto di difesa del terzo osta all’esplicarsi nei suoi confronti dell’efficacia della sentenza, che pure è potenzialmente illimitata — ne deriva che ancora una volta fra lodo e sentenza non vi
possono essere differenze, perché in realtà non vi sono differenze fra
sentenza e contratto (36).
7. Se i terzi in questione non sono i titolari di situazioni dipendenti da quella decisa, ma i terzi che, in quanto « esercenti fun(34) Sia consentito rinviare a quanto esposto in LUISO, Principio del contraddittorio
ed effıcacia della sentenza verso terzi, Milano, 1981, 84 ss.
(35) Non è quindi fondata l’affermazione di RICCI, Ancora sulla natura, cit., 712, il
quale ritiene che — nella fattispecie descritta dall’art. 1595, comma 3, c.c. — solo la sentenza, e non il contratto, potrebbe produrre effetti sfavorevoli per il subconduttore. In realtà,
è proprio perché il rapporto di locazione principale può venir meno anche in virtù di un negozio che si giustifica l’efficacia verso il subconduttore della sentenza che produca lo stesso
risultato.
(36) Del resto, che una qualche efficacia verso i terzi il lodo la debba esplicare si ricava senza ombra di dubbio dall’art. 831 c.p.c., laddove si prevede che il terzo possa proporre opposizione di terzo revocatoria nei confronti del lodo: MENCHINI, Sull’attitudine al
giudicato, cit., 779. Non è quindi corretta l’opinione di LA CHINA, L’arbitrato, Milano, 2007,
212, secondo il quale i terzi possono subire dal lodo solo pregiudizi « di fatto ».
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zioni pubbliche » (37), sono indifferenti, la situazione a mio avviso
non cambia.
Infatti: l’attribuzione dell’efficacia esecutiva non necessariamente avviene « per il tramite di una pubblica potestà » (38), poiché
l’art. 474 c.p.c. — che, si noti, attribuisce efficacia esecutiva anche
alle sentenze, parificandole, quindi, a tutti gli altri titoli esecutivi —
prevede che abbiano efficacia esecutiva anche atti che autoritativi
non sono. Sicché l’exequatur del lodo è frutto di una scelta di opportunità del legislatore, non già di una necessità costituzionale (39).
Con riferimento, invece, ai conservatori di pubblici registri, la
diversa disciplina della sentenza e del lodo si fonda sulla qualità di
atto pubblico della prima e di scrittura privata non autenticata del
secondo. Ma non sembra che tale diversità possa incidere sull’art.
824-bis c.p.c., e specificamente che la mancanza di trascrivibilità del
lodo non munito di exequatur determini una deminutio degli effetti
di cui a detta norma, posto che sotto questo profilo la sentenza è parificata ad un atto notarile che è sı̀ atto pubblico, ma non certo frutto
di imperium!
8. Volendo concludere questa prima parte dell’indagine, dedicata al raffronto fra gli effetti del lodo e quelli della sentenza dal
punto di vista del loro contenuto, mi sembra che si possa concludere
che ha ragione quella dottrina, che insiste nella natura privatisticoconsensuale del lodo e nega che esso possa essere ascritto all’attività
giurisdizionale, e quindi avere natura pubblicistico-autoritativa. Tuttavia, tale dottrina non può essere seguita laddove ritiene che, in
conseguenza della sua natura autoritativa, la sentenza possa avere
effetti maggiori di quelli del lodo, poiché, in realtà, la sentenza non
ha effetti maggiori di un contratto che abbia risolto la stessa controversia: né in ordine alla « tenuta » rispetto allo ius superveniens, né
(37) AULETTA, Art. 824-bis, cit., 427
(38) AULETTA, Art. 824-bis, cit., 428. Conf. LA CHINA, L’arbitrato, cit., 211; VITALE,
Deposito del lodo (art. 825 c.p.c.), in Commentario alle riforme del processo civile a cura di
BRIGUGLIO e CAPPONI, III, 2, Padova, 2009, 983; ID., L’ottemperanza al giudicato arbitrale, in
Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 886.
(39) Conf. RICCI, 700, il quale a ragione afferma che l’esecutività « finisce per essere
un carattere solo esteriore dell’istituto, se si considera che essa può spettare anche ad atti
meramente privati ».
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in ordine ai rapporti pregiudiziali o dipendenti da quello oggetto di
decisione, né nei confronti dei terzi (40).
Ma se un atto non autoritativo quale il contratto — non un qualunque contratto, si badi bene: bensı̀ un contratto che abbia come
causa (o come scopo) la risoluzione della controversia — ha i medesimi effetti della sentenza, allora anche il lodo, pur essendo un atto
privato e non pubblico, può avere gli stessi effetti della sentenza. E
dunque la conferma di quella che è la lettura piana ed immediata
dell’art. 824-bis c.p.c. non si ha elevando il lodo ad piano « superiore » rispetto alla sua natura privata, ma constatando che la differenza fra contratto, arbitrato e giurisdizione sta nei rispettivi presupposti e disciplina, ma non nel risultato, che è perfettamente equivalente. Si tratta, in definitiva, di vie alternative che conducono alla
medesima meta.
9. Affrontiamo ora l’altro profilo dell’indagine: dopo aver
escluso che, in ordine al suo contenuto, gli effetti del lodo divergano
necessariamente da quelli della sentenza in ragione del suo fondamento
privatistico-consensuale, vediamo ora se il lodo possa essere contestato
in ragione della sua « ingiustizia » in misura diversa da quella cui è
soggetta la sentenza (ovviamente passata in giudicato formale).
Da questo punto di vista è facile constatare che i mezzi di impugnazione utilizzabili avverso il lodo non impugnato sono gli stessi
che possono essere utilizzati avverso la sentenza passata in giudicato
formale. Sicché la questione potrebbe dirsi presto chiusa, se non
fosse che sotto taluni profili quella dottrina la quale, affermando
(correttamente) la natura privata del lodo, ritiene (non correttamente)
che gli effetti del lodo non possano essere equivalenti a quelli della
sentenza, avanza delle esigenze sistematiche che non possono essere
facilmente disattese.
Intendo riferirmi all’affermazione secondo cui il lodo, quale
manifestazione dell’autonomia privata, non può non incontrare i limiti di questa con riferimento alla disponibilità dei diritti ed al rispetto delle norme inderogabili di ordine pubblico (41).
(40) Non si capisce, dunque, in cosa si manifesti la peculiare « irretrattabilità e incontrovertibilità » della sentenza, affermata da PUNZI, « Effıcacia di sentenza », 836; ID., Ancora sulla delega, cit., 980; ID., Relazioni fra l’arbitrato, cit., 397.
(41) PUNZI, « Effıcacia di sentenza », cit., 831; ID., Ancora sulla delega, cit., 968, 970,
976; ID., Luci e ombre, cit., 433; ID., Relazioni fra l’arbitrato, cit., 399.
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Relativamente alla disponibilità dei diritti in verità il problema
non si pone, poiché in materia di diritti indisponibili il lodo è radicalmente nullo/inesistente, ed improduttivo di effetti ancorché non
impugnato. In altri termini, la invalidità del lodo perché pronunciato
in materia di diritti indisponibili si sottrae all’onere dell’impugnazione, e può essere rilevata — come la sentenza c.d. inesistente —
in ogni tempo, luogo e da parte di chiunque. Tale constatazione mostra che l’assenza di un rimedio analogo a quello previsto dall’art.
397 c.p.c., talvolta lamentata in dottrina (42), in realtà non è fondata,
posto che l’art. 397 c.p.c. riguarda appunto controversie relative a
diritti indisponibili (43).
Rimane, ed è un problema di non poco conto, quello del lodo
contenente disposizioni contra legem, che — se contenute in una
transazione o in un altro contratto risolutivo della controversia —
darebbero luogo a nullità dello stesso, rilevabile anche di ufficio in
ogni momento ed in ogni luogo.
Ora, com’è noto, nell’arbitrato la questione in esame viene in
rilievo sotto il profilo della contrarietà all’ordine pubblico, che non è
necessariamente un profilo di « ingiustizia » della sentenza (44) né
coincide con la violazione di norme inderogabili (45), e che costituisce unicamente motivo di impugnazione del lodo. Sicché, si deve
concludere, ove il lodo non sia impugnato, la contrarietà all’ordine
pubblico perde rilevanza (46).
La conseguenza dell’aver dato rilievo alla contrarietà all’ordine
pubblico unicamente come motivo di impugnazione del lodo, destinata quindi a perdere rilevanza se il lodo non è impugnato, non è di
certo illogica, ed è stata avallata anche dalla Corte di giustizia nella
ben nota decisione Benetton - Eco Swiss (47).
(42) RUFFINI, « Effıcacia di sentenza », cit., 470; PUNZI, « Effıcacia di sentenza », cit.,
832, 841; ID., Ancora sulla delega, cit., 979; ID., Luci e ombre, cit., 433.
(43) CARPI, Effıcacia del lodo, cit., 599.
(44) Ciò accade quando la corretta applicazione della normativa sostanziale
« esterna », cui è sottoposto il rapporto, determina conseguenze inaccettabili per l’ordinamento in cui il lodo è chiamato a produrre i suoi effetti.
(45) Poiché non ogni violazione di norma inderogabile determina contrarietà all’ordine pubblico, ma solo quella che produca conseguenze contrarie all’ordine pubblico: sul
punto v. MENCHINI, Impugnazioni del lodo « rituale », in questa Rivista, 2005, 864.
(46) MENCHINI, Impugnazioni del lodo, cit., 861.
(47) Corte giust. CE, 1o giugno 1999, C-126/1997, in questa Rivista, 2000, 235.
Nello stesso senso si v. anche Corte giust. CE, 6 ottobre 2009, C-40/08 Asturcom.
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A mio avviso, tuttavia, sarebbe più opportuna (48) una disciplina analoga a quella esistente in Francia e Germania, ove la contrarietà all’ordine pubblico può essere rilevata di ufficio anche al di
fuori dell’impugnazione del lodo (49), poiché in effetti sembra incongruo che uno strumento che si fonda sull’autonomia privata, come
l’arbitrato, possa produrre effetti contrari all’ordine pubblico senza
che sia garantita l’esistenza di una sede, in cui tale contrarietà possa
essere rilevata di ufficio.
The Author examines article 824-bis of the Italian Code of Civil Procedure,
acknowledging that the private and consensual nature of the award, which cannot
be ascribed to jurisdictional activity, and that neither can have a public-authoritarian nature.
The purpose of the essay is to examine whether such diversity is capable or
not of determining the conclusion whereby the effects of an award would be different from those of a judgment.
To this aim, the Author performs a comparative analysis of awards and judgments which are no longer challengeable, by studying both their content (operative, objective and subjective content) and their validity.
As to the former, the Author concludes that the effects arising from an award
are as well as those arising from a judgment. Indeed, the award does not produce
fewer effects than those produced by a judgment, neither regarding its resistance to
the supervening law, nor with respect to rights or relations that are conditions of
or dependant from the rights in dispute, nor regarding third parties.
Regarding the latter, the Author distinguishes between the case of an award
that decided on a matter which could not be subject to arbitration and the case of
an award rendered contra legem. In the first case, there would be no differences
from judgments: the award in question, to be considered as inexistent, can be sanctioned anytime by anyone. With reference to the second case, the Author acknowledges the existence of a gap, as in arbitration an award contra legem would be
considered as in breach of public policy, ground that can only be raised whilst
challenging the award for nullity and nowhere else. The Author thus concludes by
highlighting the usefulness of provisions such as the ones contained in the French
and German systems, that allow the courts, also out of a proceedings for annulment, to contest the breach of public policy even by their own motion.
(48) Conf. MENCHINI, Impugnazioni del lodo, cit., 861.
(49) Sia consentito rinviare a LUISO, L’impugnazione del lodo di equità, in questa Rivista, 2002, 465.
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Ricusazione giudiziale
e ricusazione « amministrata » dell’arbitro
LAURA BERGAMINI (*)
1. Introduzione. — 2. I rapporti tra ricusazione amministrata e giudiziale. —
3. Inderogabilità dello strumento giudiziale posto a tutela dell’imparzialità
del giudicante. — 4. Imparzialità dell’arbitro. — 5. Il procedimento ex art.
815 c.p.c. non è uno strumento di ordine pubblico. — 6. La ricusazione giudiziale può essere sostituita da un equivalente meccanismo negoziale di ricusazione. — 7. L’accertamento della parzialità dell’arbitro è riservato al giudizio di impugnazione del lodo. — 8. Conclusioni.
1. È opinione pacifica che le parti possano affidare ad un privato il potere di rimuovere l’arbitro sospetto di parzialità. L’adozione
— anche per rinvio ad un regolamento arbitrale — di un meccanismo negoziale di ricusazione (in seguito, ricusazione convenzionale
o amministrata) non precluderebbe, però, secondo l’opinione ampiamente condivisa, la ricusabilità dell’arbitro ex art. 815 c.p.c. (in seguito, anche ricusazione giudiziale). Secondo l’opinione prevalente,
infatti, l’ordinamento italiano risolverebbe i rapporti tra ricusazione
giudiziale e ricusazione amministrata secondo il modello delle vie
parallele: i due meccanismi, diversi ma concorrenti nella tutela dell’imparzialità dell’arbitro, potrebbero svolgersi parallelamente fino
all’accoglimento dell’istanza in una delle due sedi (1). Tale regime,
stante l’abrogazione degli artt. 832-838 c.p.c., sarebbe applicabile ad
ogni procedura arbitrale con sede in Italia, anche se caratterizzata da
profili di internazionalità (2).
(*) Dottore di ricerca nell’Università Luiss Guido Carli di Roma.
(1) Per tutti, E.F. RICCI, Le rapport entre règles prévues par la loi et règlements des
institutions arbitrales en matière de récusation des arbitres en droit italien: conflit ou conciliation?, in L’impartialité du juge et de l’arbitre, Etude de droit comparé sotto la direzione
di VAN COMPERNOLLE e TARZIA, Bruxelles, 2006, 263. Ma v. infra par. 2.
(2) Per i margini di rilevanza della figura dell’arbitrato transnazionale nel regime
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Il regime italiano si distinguerebbe cosı̀ dalle soluzioni accolte
in ordinamenti tradizionalmente considerati « arbitration friendly » (3). Si pensi, ad esempio, all’ordinamento francese, nel quale
giurisprudenza costante consente, nell’ambito di arbitrati internazionali, la deroga del procedimento di ricusazione giudiziale in favore
di meccanismi amministrati equivalenti (4). Si pensi all’analogo regime previsto dall’art. 180, comma 3, della Loi de Droit International Privé (LDIP) svizzera (5) e dalla Sez. 11 dell’Arbitration Act
post riforma, BRIGUGLIO, La dimensione transnazionale dell’arbitrato, in questa Rivista, 2005,
679, 685.
(3) Una soluzione analoga sembra essere adottata, nonostante le critiche di parte
della dottrina, dalla giurisprudenza olandese, Juge de provision, Trib. Rotterdam, 8 giugno
2006, in Gaz. Pal., 21 marzo 2009, 57 s., con nota di INGEN - HOUSZ (secondo cui « vu les
délais contraignants prévus audit article, rien ne permet de considérer que le législateur a
souhaité laisser de la place à une “phase intermédiaire” obligatoire. En tout cas, dans la
présente affaire, le droit n’autorise pas à considérer que le non-aboutissement à ce stade de
la procédure NAI doive conduire à l’irrecevabilité de la requête ou au report de la décision
du juge au delà de celle du NAI. Ceci signifie qu’Exel a valablement pu engager la présente
procédure indépendamment de l’achévement de la procédure devant le NAI »). La Commissione di riforma del diritto dell’arbitrato, presieduta dal Prof. Albert Van den Berg, ha proposto di disciplinare i rapporti fra ricusazione amministrata e giudiziale, introducendo, nell’art. 1035 del c.p.c., un nuovo comma, ai sensi del quale « Au cas où le tiers désigné par les
parties jugerait la demande de récusation irrecevable ou infondée, celle-ci ne peut plus être
soumise au juge des provisions, sans préjudice du recours en annulation », INGEN - HOUSZ,
ivi, 58.
(4) TGI Paris, Etat du Dubai et société Dubai Drydocks c. Halcrow et F. Mc Williams, in Rev. Arb., 1993, 455; TGI Paris, Republique de Guinée c. MM R. et O., 23 giugno
1988, in Rev. Arb., 1988, 657; App. Paris, 15 maggio 1985, Raffıneries de pétrole d’Homs et
de Banias c. Chambre de Commerce Internationale, in Rev. Arb., 1985, 141 (indirettamente).
Benché unanime nel negare natura di ordine pubblico alla disposizione che consacra la ricusazione giudiziale dell’arbitro (art. 1463 NCPC), la dottrina è incerta su se tale rimedio possa
essere sostituito dalla ricusazione amministrata nell’arbitrato domestico, ex pluribus, FOUCHARD, La coopération du President du Tribunal de grande instance à l’arbitrage, in Rev.
Arb., 1985, 17 s.; PLUYETTE, Le point de vue du juge, in Rev. Arb., 1990, 357; ROBERT, nota
a TGI Paris, 15 gennaio 1988, in Rev. Arb., 1988, 323; contra, ex pluribus, METZGER, nota a
App. Paris, 15 maggio 1985, in Rev. Arb., 1986, 87. Il decreto n. 2011-48 del 13 gennaio
2011 concernente la riforma del diritto dell’arbitrato (pubblicato quando questo articolo era
in bozze) ha regolato espressamente la materia, prevedendo agli artt. 1454 e 1456 che le
controversie relative alla costituzione del tribunale arbitrale e al « mantient de l’arbitre » devono essere definite « par la personne chargée d’organiser l’arbitrage ou, à défaut, tranchée[s]
par le juge d’appui ».
(5) Il concordato intercantonale sull’arbitrato (27 marzo 1969, RS 279, nel seguito
CIA), disciplina oggi applicabile solo alle procedure domestiche, esclude, invece, la derogabilità del meccanismo giudiziale di ricusazione qualificando di « impérati[f] » (art. 1, comma
3, CIA) l’art. 21, comma 1 (« En cas de contestation, l’autorité judiciaire prévue à l’article
3 statue sur la récusation »). Alla luce di tale norma, la giurisprudenza ha negato efficacia
agli accordi con cui le parti prevedano meccanismi convenzionali di ricusazione (BGE 111
Ia 255, consid. 2 f), analogamente BGE 111 Ia 259 consid. 2a e 3a, disponibili sul sito in-
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svedese (SAA). Si pensi, altresı̀, al regime adottato dalla Legge Modello Uncitral (e dalle legislazioni ad essa ispirate), nel quale i rapporti tra ricusazione amministrata e giudiziale sono scanditi da una
rigida sequenzialità temporale (6). Il rischio è, dunque, che il tema
dei rapporti fra ricusazione amministrata e giudiziale confermi l’impressione, talvolta espressa dagli operatori stranieri, che l’ordinamento italiano non costituisca una sede in grado di rispondere alle
esigenze dell’arbitrato internazionale.
La tesi che questo articolo propone è che il dato normativo e la
funzione riservata, nel nostro ordinamento, alla ricusazione dell’arbitro suggeriscono una ricostruzione, diversa da quella dominante,
coerente con le più sofisticate esperienze straniere ed adeguata nell’assicurare l’imparzialità dell’arbitro. In arbitrati con sede in Italia,
le parti sembrerebbero, infatti, poter affidare la ricusazione dell’arbitro, in via esclusiva, ad un meccanismo negoziale equivalente al
procedimento ex art. 815 c.p.c. (accettato dagli arbitri). La tutela
dell’imparzialità dell’arbitro sembrerebbe, invece, inderogabilmente
attuata attraverso la possibilità di suscitare l’accertamento e la decisione sul vizio, già valutato in sede di ricusazione giudiziale o amministrata, nel giudizio di impugnazione del lodo.
2. Prima dell’intervento del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la
dottrina maggioritaria riteneva che il procedimento di ricusazione
giudiziale potesse essere derogato in favore di un meccanismo convenzionale soltanto in procedure arbitrali internazionali (7). Nelle
procedure domestiche le parti non avrebbero potuto né derogare la
disciplina posta dall’art. 815 c.p.c. (stante il divieto di processo con-
ternet www.polyreg.ch), escludendo che essi possano avere l’effetto di precludere — definitivamente o temporaneamente — l’azionabilità del meccanismo legale. Il regime previsto
dall’art. 180, comma 3, fu introdotto in ragione delle severe critiche circa l’opportunità di
adottare una simile disciplina nell’ambito di procedure internazionali (ex pluribus, FOUCHARD,
Les institutions permanentes d’arbitrage devant le juge étatique (A propos d’une jurisprudence récente), in Rev. Arb., 1987, 268).
(6) V. infra par. 3.
(7) V. autori nota successiva. Secondo una ricostruzione minoritaria, invece, le parti
avrebbero potuto derogare il regime previsto dall’art. 815 c.p.c. anche in procedure domestiche: l’art. 836 c.p.c. si sarebbe, infatti, limitato ad esplicitare un principio generale, non potendo la ricusabilità giudiziale dell’arbitro essere ricostruita come un valore essenziale e inderogabile (GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815, Ricusazione degli arbitri, in Arbitrato a cura
di CARPI, Bologna, 2006, 302; in giurisprudenza, Ord. Pres. Trib. Lucca, 20 luglio 2004, in
CG, 2005).
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venzionale), né rinunciare all’istituto (tout court (8) o in favore di un
meccanismo di ricusazione amministrata (9)) perché posto a tutela di
un diritto indisponibile (10), costituzionalmente garantito e di ordine
pubblico (11), l’imparzialità dell’arbitro (12).
Mentre, quindi, l’adozione — anche per rinvio ad un regolamento amministrato (13) — di un meccanismo convenzionale di ricusazione avrebbe precluso, in caso di arbitrato internazionale, l’azionabilità del procedimento ex art. 815 c.p.c., nell’ambito di procedure
domestiche, essa avrebbe introdotto uno strumento privatistico a
fianco del rimedio giudiziale, determinando la (co)esistenza di due
meccanismi, non gerarchicamente coordinati, indipendenti (addirittura utilizzabili contemporaneamente) a garanzia dell’imparzialità
dell’arbitro. Il coordinamento fra i due meccanismi sarebbe avvenuto
soltanto a seguito dell’accoglimento dell’istanza in una delle due
sedi. Tale evenienza, infatti, estinguendo il rapporto tra arbitro e
parti, avrebbe privato di oggetto l’istanza pendente (14).
(8) Accordi contrari sarebbero nulli per contrasto con norma imperativa (E.F. RICCI,
Le rapport entre règles prévues par la loi et reglèments des institutions arbitrales cit., 270;
cfr. BRIGUGLIO - (FAZZALARI - MARENGO), Sub art. 815, in La nuova disciplina dell’arbitrato,
cit., 99).
(9) BRIGUGLIO - (FAZZALARI - MARENGO), Sub articolo 815, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 99; CONSOLO, Elasticità convenzionale della disciplina della imparzialità dell’arbitro e nuovo articolo 836, in questa Rivista, 2000, 437, 441; E.F. RICCI, Le rapport entre règles prévues par la loi et reglèments des institutions arbitrales, cit., 269 ss. Contra BIAVATI, Sub articolo 836, in L’arbitrato a cura di Carpi, Bologna, 2001, 771, spec. 772-773;
GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub articolo 815, Ricusazione degli arbitri, ivi, 215 s.
(10) E.F. RICCI, Le rapport entre règles prévues par la loi et reglèments des institutions arbitrales, cit., 263.
(11) ID., ivi, 266 s. Nega che la terzietà dell’arbitro — valore, diverso dall’imparzialità, tutelato dalla ricusazione — sia di ordine pubblico, GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub articolo
815, Ricusazione degli arbitri, in Arbitrato, cit., 302.
(12) Affermava che la ricusazione tendeva alla tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudicante, Cass., 16 maggio 1998, n. 4924 (implicitamente, Cass., 25 giugno
2005, n. 13701).
(13) Contra E.F. RICCI, Note sull’arbitrato amministrato, RDPr, 2002, 17 secondo cui
il richiamo ad un regolamento arbitrale istitutivo di un meccanismo convenzionale di ricusazione non determinerebbe di per sé l’inapplicabilità dell’articolo 815 c.p.c. (essendo a tale
fine necessaria un’espressa statuizione delle parti).
(14) CONSOLO, Elasticità convenzionale della disciplina della imparzialità dell’arbitro, cit., 441 ss. (secondo cui l’accoglimento dell’istanza in sede amministrata svolgerebbe
effetti in sede giudiziale soltanto una volta accettato dall’arbitro e la parte avversaria); E.F.
RICCI, Le rapport entre règles prévues par la loi et reglèments des institutions, cit., 269 ss.
Conferma dell’irrinunciabilità della ricusazione giudiziale, era anche tratta dall’ — affermata
— eterogeneità dei rimedi negoziale e giudiziale. Mentre, infatti, la ricusazione amministrata
opererebbe come revoca negoziale del mandato arbitrale, esercitata dalle parti congiunta-
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Tale ricostruzione si fondava, come noto, sul disposto dell’art.
836 c.p.c. La norma era, infatti, interpretata nel senso di autorizzare,
eccezionalmente, le parti a derogare (15) il meccanismo di cui all’art.
815 c.p.c. (16) Dall’espresso riconoscimento della derogabilità della
ricusazione giudiziale in procedure internazionali, la dottrina ricavava a contrario l’inderogabilità dell’istituto in arbitrati domestici (17). Tale conclusione, si notava, sarebbe stata conforme sia alla
mente per relationem alla valutazione del terzo sull’imparzialità dell’arbitro (CONSOLO, Elasticità convenzionale della disciplina della imparzialità dell’arbitro, cit., 442 (n. 5) e 443),
la ricusazione giudiziale sarebbe un processo sommario di cognizione avente ad oggetto il
diritto della parte ad intrattenere un rapporto di buona fede con ogni componente del collegio arbitrale. Per una critica a tale ricostruzione, v. infra nota 26.
(15) L’accordo avrebbe dovuto avere forma scritta (BONSIGNORI, L’arbitrato internazionale fra la Convenzione di Ginevra del 1961 e codice di rito, in questa Rivista, 1995, 388;
CONSOLO, Elasticità convenzionale della disciplina della imparzialità dell’arbitro, 449; contra BRIGUGLIO, La nuova disciplina dell’arbitrato internazionale, cit., 101), ed intervenire
prima dell’accettazione dell’incarico da parte dell’arbitro (CONSOLO, ibidem).
(16) AULETTA, L’arbitrato internazionale, in Diritto dell’arbitrato rituale a cura di G.
VERDE, 2005, 530. La dottrina era invece divisa su i) l’ammissibilità di accordi con cui le parti
rinunciassero preventivamente ad ogni meccanismo di ricusazione (AULETTA, ibidem; BRIGUGLIO, in BRIGUGLIO FAZZALARI MARENGO, 250; BRIGUGLIO, La nuova disciplina dell’arbitrato internazionale, cit., 101; FAZZALARI, La riforma dell’arbitrato, in questa Rivista, 1994, 18, n.
20; contra, TARZIA, Assistenza e non interferenza giudiziaria nell’arbitrato internazionale, in
questa Rivista, 1996, 481; la rinunciabilità tout court al meccanismo non avrebbe creato problemi di costituzionalità (integrità della tutela giurisdizionale) (AULETTA, L’arbitrato internazionale, cit., 530-531; BRIGUGLIO, La nuova disciplina dell’arbitrato internazionale, cit., 101),
essendo la ricusazione un « mezzo preventivo » per « ovviare alla sospetta parzialità del giudicante » e residuando alle parti la possibilità di reagire a posteriori avverso la parzialità effettiva dell’arbitro con il rimedio revocatorio, la — limitata — sindacabilità in sede di impugnazione per nullità per irregolare costituzione del tribunale (in quanto sbilanciata al momento della nomina a favore di una delle parti) e per violazione del contraddittorio ex art.
829, comma 1, n. 9 (contra DITTRICH, L’imparzialità dell’arbitro nell’arbitrato interno e internazionale, in RDP, 1995, 166, n. 43); ii) la derogabilità della procedura di cui all’articolo
815 c.p.c. (ammettevano la derogabilità dei motivi di ricusazione, ma non la modifica delle
regole processuali del procedimento, come la competenza, AULETTA, L’arbitrato internazionale, cit., 531; BIAVATI, Sub art. 836, La ricusazione degli arbitri, in Arbitrato a cura di
Carpi, Bologna, 2001, 771-772; CONSOLO, Elasticità convenzionale della disciplina dell’imparzialità dell’arbitro, cit., 446; contra escludendo la derogabilità dei motivi di ricusazione,
BRIGUGLIO, La nuova disciplina dell’arbitrato internazionale, cit., 101 (e, ciò per l’impossibilità che l’autonomia privata potesse, pur sulla base dell’articolo 836 c.p.c., « mettere fuori
gioco la funzione giurisdizionale ordinaria prevista dall’articolo 815 c.p.c. »).
(17) La previsione di una disciplina differenziata per arbitrati domestici e internazionali aveva suscitato dubbi sulla legittimità di tale disposizione alla luce degli artt. 111 e 3
Cost. Sotto il primo profilo, si rilevava che l’art. 836 c.p.c. avrebbe consentito alle parti di
rinunciare, in arbitrati nazionali, ad un bene indisponibile ed essenziale, costituzionalmente
garantito (art. 111 Cost.); sotto il secondo profilo, si notava che la disposizione differenziava
irragionevolmente situazioni analoghe, dato che le procedure arbitrali internazionali erano
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ratio di garanzia sottesa all’istituto, che alla ontologica compatibilità
fra i meccanismi di ricusazione giudiziale e ricusazione amministrata (18).
Il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 non ha né sancito né escluso la
derogabilità dell’art. 815 c.p.c. (19). La riforma è intervenuta, però,
sul quadro normativo di riferimento, abrogando l’art. 836 c.p.c. (20)
ed introducendo l’art. 832, comma 5, c.p.c., secondo cui « il regolamento può prevedere ulteriori casi di sostituzione e ricusazione degli arbitri in aggiunta a quelli previsti dalla legge ».
Secondo la dottrina maggioritaria, tali interventi — l’abrogazione dell’unica eccezione posta al principio di inderogabilità della
ricusazione giudiziale e la limitazione della derogabilità pattizia dell’art. 815 c.p.c. all’ampliamento dei motivi di ricusazione (21) —
avrebbero confermato (22) — ed esteso ad ogni arbitrato con sede in
Italia — l’inderogabilità del rimedio ex art. 815 c.p.c. (23). Inoltre,
procedure italiane al pari delle procedure domestiche (E.F. RICCI, Le rapport entre règles prévues par la loi et règlements des institutions arbitrales, cit., 266 ss.).
(18) I due strumenti, infatti, pur provocando lo stesso effetto (la rimozione dell’arbitro), avrebbero operato in modi diversi e sulla base di presupposti potenzialmente diversi:
l’autorità giudiziaria dovendo definire l’istanza di ricusazione sulla base della legge nazionale, l’istituzione arbitrale alla stregua del regolamento, E.F. RICCI, Le rapport entre règles
prévues par la loi et règlements des institutions arbitrales, cit., 269. La possibile coesistenza
tra rimedio giudiziale e convenzionale di ricusazione, era inoltre confermata alla luce delle
soluzioni adottate in ordinamenti stranieri, ibidem, 273.
(19) ODORISIO, Prime osservazioni sulla nuova disciplina dell’arbitrato, in RDP,
2006, 274; AZZALI, Arbitrato amministrato, in Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di
altre ADR a cura di BUONFRATE e GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 53; ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’arbitrato amministrato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2008,
1006.
(20) Criticano la scelta anche alla luce dell’indicazione contenuta nella delega di
estendere la disciplina dell’arbitrato internazionale all’arbitrato interno, BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, in BOVE - CECCHELLA, Il nuovo processo civile, Milano, 2006, 71; GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815, Ricusazione degli arbitri, in Arbitrato a cura di Carpi, Bologna, 2006, 301.
(21) BRIGUGLIO, La dimensione transnazionale dell’arbitrato, cit., 685; BOVE, La
nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 71. Contra BERNARDINI, Ancora una riforma dell’arbitrato in Italia, cit., 235; GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub articolo 815, in Arbitrato, cit., 292. La
disposizione sarebbe, infatti, applicabile anche alla ricusazione giudiziale in quanto riferita
genericamente all’arbitrato secondo regolamenti precostituiti, non specificamente all’arbitrato
amministrato, contra, GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub articolo 815, in Arbitrato, cit., 302 (ritiene
che l’art. 832, comma 5, consenta l’ampliamento dei motivi di ricusazione di fronte all’organismo investito della ricusazione amministrata, non al presidente del tribunale).
(22) Per tutti, CAPONI, Sub art. 832 c.p.c., in La riforma del diritto arbitrale, in
Nuove leggi civili commentate, 2007, 1426.
(23) BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 71 (criticando l’irragionevolezza
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l’art. 832, comma 5, c.p.c., precludendo di fatto la rinuncia al meccanismo giudiziale (attraverso la rinuncia a tutti i motivi tipici di ricusazione), avrebbe espresso l’intenzione del legislatore di autorizzare soltanto ampliamenti pattizi della garanzia di imparzialità degli
arbitri. Una ratio questa compatibile soltanto con un sistema che affiancasse, e non già sostituisse, il meccanismo convenzionale al rimedio ex art. 815 c.p.c. (24).
Conferma dell’inammissibilità di una deroga alla ricusazione
giudiziale è, infine, ravvisata nella tassatività dei motivi di impugnazione del lodo, ribadita dalla riforma: mancherebbe, infatti, nel nostro ordinamento, il presupposto sul quale ordinamenti stranieri ammettono la derogabilità dell’istituto in favore di un meccanismo convenzionale (25).
Un’autorevole, pur se minoritaria, dottrina propone, invece,
che, nel quadro delineato dalla riforma, l’adozione di meccanismi di
ricusazione amministrata precluda — sostituisca — la procedura prevista dall’art. 815 c.p.c. (26) In questa direzione muoverebbero gli
della scelta di chiudere possibilità aperte nel precedente regime); CAPONI, Sub articolo 832
c.p.c., cit., 1426; ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’arbitrato amministrato, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 2008, 993. BERNARDINI, Ancora una riforma dell’arbitrato in Italia, cit., 235; BRIGUGLIO, La dimensione transnazionale dell’arbitrato, cit., 685 s.; CARRATTA,
Sub art. 832, in Le recenti riforme del processo civile, in Commentario diretto a cura di
CHIARLONI, Bologna, 2007, 1909-1910.
(24) BIAVATI, Sub art. 832, in Arbitrato a cura di CARPI, 2007, 867, 871; BOVE, La
nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 71; CORSINI, L’arbitrato secondo regolamenti precostituiti, in questa Rivista, 2006, 310; MURONI, Sub art. 832, in Codice di procedura civile commentato a cura di CONSOLO e LUISO, vol. II, Milano, 2007, 6087.
(25) ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’arbitrato amministrato, cit.,
993.
(26) GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815, in Arbitrato cit., 301 s. (secondo cui l’esperimento del rimedio ex art. 815 c.p.c. in presenza di un accordo per arbitrato amministrato
costituirebbe una violazione dell’impegno contrattualmente assunto di seguire le norme del
regolamento; analogamente COPPO - AZZALI, Observations to the decision of England’s Court
of Appeal (Civil Division) rendered in 2000 in case [2000] EWCA Civ. 154, The “Saudi Cable” case, in Stockholm Arbitration Report 2/2003, 109, 124); LUISO, Il nuovo articolo 832
c.p.c., in questa Rivista, 2007, 3354 ss. (secondo cui l’art. 815 sarebbe derogabile sia se si
ricostruisse la ricusazione giudiziale come « giudizio autonomo di cognizione sul rapporto
contrattuale volto ad ottenere in sede giurisdizionale il corretto adempimento delle obbligazioni di cui al patto compromissorio » (potendo il procedimento essere sostituito « con altro,
avente la stessa funzione, anche se natura diversa »), sia inquadrandolo nell’ambito della
giurisdizione volontaria); sembra ammettere la validità di una deroga convenzionale, se chiaramente espressa dalle parti o nel regolamento, CARRATTA, Sub art. 832, in Le recenti riforme
del processo civile, cit., 1910; v. anche CORSINI, Arbitrati amministrati, proprietà intellettuale
e questioni processuali, in AIDA, 2006, 206 s.; in giurisprudenza Trib. Milano, 3 ottobre
2007, ined. citata da GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815, in Arbitrato cit., 302.
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stretti termini per l’esperimento della ricusazione giudiziale, la constatazione che la previsione di un meccanismo legale di ricusazione
corrisponde ad una scelta politica legittima, ma non di ordine pubblico (27), e la constatazione che l’unica e vera « decisione » sulla
imparzialità dell’arbitro avviene in sede di impugnazione del lodo (28).
3. Come visto, l’affermazione dell’inderogabilità del procedimento ex art. 815 c.p.c. è spesso fondata sull’asserita natura di ordine pubblico dell’istituto, configurato come strumento per la tutela
di un valore indisponibile, l’imparzialità, neutralità ed indipendenza,
dell’arbitro. Tale equazione non sembra, però, convincente.
Affermare che l’imparzialità dell’organo giudicante è valore di
ordine pubblico coessenziale all’arbitrato implica, infatti, soltanto,
che irrinunciabile sia la sede cui il legislatore riserva l’accertamento
dell’eventuale violazione del principio, i.e. il processo attraverso cui
l’ordinamento evita che le parti possano essere vincolate da una decisione resa da un giudicante accertato parziale. In altri termini, considerare l’imparzialità/indipendenza dell’arbitro un valore essenziale
dell’arbitrato implica che il legislatore debba, per esigenze di ordine
pubblico, prevedere una sede giurisdizionale per accertare il vizio (29) (cui le parti non possono rinunciare a priori), non anche che
tale sede sia la ricusazione giudiziale.
(27) GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub art. 815, in Arbitrato, cit., 302.
(28) LUISO, Il nuovo articolo 832 c.p.c., cit., 355.
(29) Appaiono, in questa prospettiva, peculiari le soluzioni adottate in Svezia e British Colombia. La Sez. 11, comma 1, dell’Arbitration Act svedese del 1999 prevede che
l’istanza di ricusazione possa, salva diversa volontà delle parti, essere presentata al tribunale
arbitrale per uno dei motivi indicati nella sezione 8, e, in caso di rigetto, alle corti nazionali
che decidono con provvedimento inimpugnabile (Sez. 11, comma 2). L’Arbitration Act prevede, però, che le parti possano « agree that a motion as referred to in section 10, first paragraph shall be conclusively determined by an arbitration institution » (accordo che deve
essere chiaro e inequivoco, ma che può essere contenuto in una previsione del regolamento
arbitrale, OLDENSTAM, Observations to the decision by the Stockholm District Court rendered
in 2004 in case Ä 860-04 and the decision by the Svea Court of Appeal rendered in 2004 in
case Ä OA 4247-04, in Stockholm Arb. Rep. 2004(2), 336-337). Nell’ordinamento svedese,
quindi, l’accordo delle parti per ricusazione amministrata può escludere la competenza delle
corti sulla ricusazione, riconoscendo alle istituzioni arbitrali, stabilite e operanti secondo statuti validamente adottati, il potere di definire in maniera definitiva la ricusazione per i motivi
normativamente previsti (OLDENSTAM, Observations, cit., 337). Il giudice, di fronte a cui sia
impugnata la decisione dell’istituzione, sia di rigetto che di accoglimento dell’istanza, su
istanze di ricusazione fondate sulle circostanze indicate nella Sez. 8 SAA, dovrebbe, dunque,
rigettare la domanda (MAGNUSSON - SHAUGHNESSY, The 2007 Arbitration Rules of the Arbitra-
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La sede da deputare in concreto all’accertamento della violazione, sembra poter essere liberamente individuata dal legislatore
alla luce di interessi, talvolta contrapposti, ulteriori rispetto al valore
dell’imparzialità (ad es., il preservare la fiducia delle parti nell’arbitrato, il garantire l’efficacia, l’efficienza e la rapidità della procedura,
il limitare possibili strumentalizzazioni dilatorie delle parti). Cosı̀, il
legislatore potrebbe prevedere che l’accertamento della parzialità
debba essere compiuto pendente arbitrato (in modo da permettere la
rapida sanzione del vizio attraverso la rimozione dell’arbitro); ovvero al termine della procedura, convertendo l’eventuale parzialità
dell’arbitro in motivo di impugnazione del lodo (in modo da concentrare la censura di tutti i vizi della procedura in un’unica sede); ovvero, ancora, alternativamente nell’una o nell’altra sede, rimettendo
alle parti la scelta dello strumento da utilizzare (l’accertamento compiuto in una sede dovendo, però, vincolare il giudice successivamente investito) (30).
Le esperienze straniere confermano questa ricostruzione. Cosı̀,
alcuni legislatori riservano l’accertamento e la censura del vizio di
parzialità all’annullamento del lodo, senza prevedere meccanismi di
ricusazione giudiziale dell’arbitro. Si pensi al Federal Arbitration
Act (FAA) statunitense che non permette di censurare il vizio di parzialità nel corso della procedura, ma prevede che una « evident partion Institute of the Stockholm Chamber of Commerce, in Stockholm International Arbitration Review 2006(3), 43, nota 3; in questo senso, Stockholm District Court, JSC Novokusnetsk Aluminium Plant (Russia) v. Base Metal Trading S.A (Switzerland), 30 April 2004,
caso Ä 860-04 (in ITA, www.kluwerarbitration.com), e Svea Court of Appeal, in Stockholm
Arb. Rep. 2004(2), 329 con nota di OLDENSTAM). Nel caso in cui l’istanza di ricusazione fosse
fondata su motivi previsti dal regolamento ma non dalla legge (ad esempio, il difetto nell’arbitro delle qualità concordate dalle parti, v. art. 15 del regolamento SCC), il provvedimento
non godrebbe di definitività ex sez. 11, comma 3, SAA e potrebbe essere censurato in sede
di impugnazione del lodo (Sez. 34 SAA, MAGNUSSON - SHAUGHNESSY, The 2007 Arbitration
Rules of the Arbitration Institute of the Stockholm Chamber of Commerce, cit., 43, nota 4).
L’International Commercial Arbitration Act adottato in British Colombia nel 1996, ha, invece, previsto che, qualora la procedura convenzionale di ricusazione non determini la rimozione dell’arbitro, la parte interessata possa richiedere alla Corte Suprema di decidere sulla
ricusazione, che potrà però rifiutare di pronunciarsi se « it is satisfied that, under the procedure agreed on by the parties, the party making the request had an opportunity to have the
challenge decided on by other than the arbitral tribunal » (art. 13, comma 5).
(30) Quest’ultima considerazione, tratta dall’efficacia di accertamento del vizio attribuita per ipotesi all’intervento del giudice a tutela del valore dell’imparzialità, permette di
escludere che il legislatore possa prevedere che il vizio possa essere verificato nell’una e nell’altra sede. Se, infatti, la valutazione del secondo giudice non fosse vincolata dalla valutazione effettuata dal primo giudice, il primo procedimento non potrebbe essere considerato un
accertamento del vizio.
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tiality [...] in the arbitrators », tempestivamente eccepita nella procedura, sia motivo di annullamento del lodo (31). Si pensi, altresı̀,
alla legge brasiliana n. 9307, del 23 settembre 1996, che, pur se ispirata alla Legge Modello Uncitral, non consacra alcun meccanismo di
ricusazione giudiziale dell’arbitro, permettendo di sollevare la censura di parzialità rigettata dal tribunale arbitrale (o dal terzo incaricato dalle parti) in sede di impugnazione del lodo (32) (art. 20,
comma 2).
Cosı̀, altri ordinamenti sembrano richiedere la tempestiva decisione, nel corso della procedura, delle contestazioni relative all’imparzialità dell’arbitro, escludendone (tendenzialmente) (33) la rilevanza in sede di impugnazione del lodo. Si pensi all’art. 1704,
comma 5, del Code Judiciaire belga che espressamente esclude che
cause di ricusazione dell’arbitro possano giustificare l’impugnazione
del lodo ex art. 1704, comma 2, lett. f (irregolare composizione del
tribunale arbitrale) (34). Si pensi alla Legge Modello Uncitral che
(31) Si intende cosı̀ garantire la rapidità della procedura arbitrale contro manovre dilatorie delle parti, AIU Ins. Co. v. Am. Int’l Marine Agency, 2006 N.Y. Misc. LEXIS 2352,
11-12 (N.Y. Misc. 2006).
(32) « Não sendo acolhida a argüição, terá normal prosseguimento a arbitragem,
sem prejuı́zo de vir a ser examinada a decisão pelo órgão do Poder Judiciário competente,
quando da eventual propositura da demanda de que trata o art. 33 desta Lei ». Critica la
scelta del legislatore, NEHRING NETTO, Brazil, in International Handbook on Commercial Arbitration, PAULSSON, Suppl. 51 (March 2008), 15. V Corte d’appello di Rio de Janeiro, 3
aprile 2003, appeal no. 70005797774, in Revista de Arbitragem e Mediação, 2005, Valdoir
Vicente Sanchez v. Alcides Severino Milani. Analogamente nel vigore dell’Arbitration Act
svedese del 1929 (per il regime introdotto dalla riforma del 1996, v. supra nota 29), si riteneva che le istanze di ricusazione fossero presentate al tribunale arbitrale. In caso di rigetto
dell’istanza (ovvero nel caso in cui il motivo di ricusazione fosse scoperto dopo la chiusura
del procedimento arbitrale), la disqualification dell’arbitro avrebbe giustificato l’impugnazione del lodo (HOLMBÃCK - MANGÅRD, Sweden, in International Handbook on Commercial
Arbitration, PAULSSON (ed.), Suppl. 10 (June/1989), 7 (v. anche Sez. 21 Arbitration Act 1929
« At the suit of a party an award shall be set aside by the court: [...] 3. if an arbitrator was
disqualified or was not appointed in the proper manner »). Per le prospettive di riforma del
diritto olandese, v. supra, nota 3.
(33) Dovendo poter essere sollevata in sede di annullamento la censura di parzialità
per i vizi integrati o conosciuti dalla parte quando lo strumento della ricusazione non fosse
più esperibile. Diversamente, art. 1704 Code Judiciaire, v. infra, nota 34, disposizione che
troverebbe spiegazione in una prospettiva di efficienza della procedura, KEUTGEN, L’indépendance et l’impartialité de l’arbitre en droit belge, in L’impartialité, cit., 278 ss. (che ritiene
necessario de iure condito escludere anche l’annullabilità del lodo per violazione dell’ordine
pubblico).
(34) « Les causes de récusation et d’exclusion des prévues aux articles 1690 et 1692
ne constituent pas de causes d’annulation au sens de l’alinéa 2, lettre f) du présent article,
alors même qu’elles ne seraient connues qu’après le prononcé de la sentence ».
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sembra riservare la definizione delle censure di parzialità ad un meccanismo di ricusazione bifasico (contestazione di fronte al tribunale
arbitrale — od altro meccanismo previsto dalle parti — seguita, nel
caso di rigetto dell’istanza, dalla contestazione di fronte alle corti
nazionali) (35). Sembra essere, infine, questo il regime applicato dalla
giurisprudenza tedesca e austriaca, che, da una parte, affermano l’inderogabilità della ricusazione giudiziale, e, dall’altra, rifiutano di
consentire l’impugnazione del lodo per motivi definibili, o definiti, in
tale sede (36).
Se ricusazione giudiziale ed annullamento sono strumenti cui il
legislatore può alternativamente riservare l’accertamento di una violazione capace di pregiudicare la validità dell’arbitrato (37), si deve
(35) Entrambe le soluzioni erano state lungamente discusse dal Working Group (Report of the Working Group on International Contract Practices on the work of its third session (A/CN.9/216) in Yearbook of the United Nations Commission on International Trade
Law, 1982, Vol. XIII, 293; Report of the Working Group on International Contract Practices
on the work of its fourth session (Vienna, 4-15 October 1982, (A/CN.9/232), in Yearbook of
the United Nations Commission on International Trade Law, 1983, Vol. XIV, 39, par. 61;
Report of the Working group on International Contract Practices on the work of its fifth session (New York, 22 February-4 March 1983, (A/CN.9/233), in Yearbook of the United Nations Commission on International Trade Law, 1983, Vol. XIV, 71, par. 107; Report of the
Working Group on the work of its seventh session (Vienna, 29 August-9 September 1983 (A/
CN.9/245), in Yearbook of the United Nations Commission on International Trade Law,
1984, Vol. XV, 177, par. 205; nel Report of the Working Group on the work of its sixth session (New York, 6-17 February 1984, (A/CN.9/246), in Yearbook of the United Nations Commission, 1984, Vol. XV, 194, http://www.uncitral.org/uncitral/en/commission/
working_groups/2Contract_Practices.html. V. anche, Summary records for meetings on the
Uncitral Model law on international commercial arbitration, 313th meeting, 7 June 1985, in
Yearbook of the United Nations Commission on International Trade Law, 1985, Vol. XVI,
432 s. e Summary records for meetings on the Uncitral Model law on international commercial arbitration, 314th meeting, 7 June 1985, in Yearbook of the United Nations Commission
on International Trade Law, 1985, Vol. XVI, 434 ss.) Il testo dell’art. 9 proposto alla quarta
sessione del Working Group consacrava l’alternativa fra le soluzioni: « If within [20] days
after the challenge, the other party does not agree to the challenge and the challenged arbitrator does not withdraw [the decision on the challenge shall be made by the Authority
specified in Article 17] [the challenging party may pursue his objections before a court only
in an action for setting aside the award or any recourse against recognition and enforcement
of the award] »); nella quinta sessione, fu chiarito che « the final text of the Model law should
contain only one of the alternatives » (Yearbook of the United Nations Commission on International Trade Law, 1983, Vol. XIV, 76). La scelta in favore della prima alternativa, nel
corso della sesta riunione, fu motivata sulla constatazione che essa risolveva l’indesiderabile
situazione di avere un arbitro ricusato in carica e evitava « waste of time and expenses » nel
caso in cui il challenge fosse in seguito accolto.
(36) V. infra ntt. 38 e 39.
(37) La scelta di selezionare la parzialità come vizio censurabile nel corso del procedimento, diversamente dalle altre violazioni, potrebbe spiegarsi non soltanto per la parti-
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concludere che per ricostruire la ricusazione giudiziale come rimedio
a tutela dell’imparzialità del giudicante, la sua disciplina deve consentire, contro il vizio, una tutela efficace, equivalente a quella che
le parti potrebbero ottenere in sede di annullamento. A contrario,
dunque, non dovrebbe potersi riconoscere alla ricusazione funzione
di tutela dell’imparzialità, se la disciplina del procedimento non consentisse di sanzionare fattispecie che dovrebbero determinare un’invalidità dell’arbitrato. Quando la ricusazione non fosse configurabile
come sede dell’accertamento della parzialità, tale accertamento dovrebbe essere consentito, per esigenze di ordine pubblico, in altra
sede (ad es. in sede di impugnazione del lodo).
Ma si deve, altresı̀, concludere che può attribuirsi rilevanza di
ordine pubblico alla ricusabilità giudiziale dell’arbitro soltanto se la
ricusazione giudiziale sia la sede giurisdizionale cui è riservata la
decisione sull’eventuale parzialità. Quando ciò non sia, e l’accertamento del vizio sia riservato ad altro momento, non si vede perché
la ricusazione giudiziale non possa essere sostituita dalle parti con un
meccanismo equivalente. Cosı̀, nelle esperienze straniere, il procedimento di ricusazione giudiziale è considerato meccanismo di ordine
pubblico in ordinamenti, come quello tedesco (38), austriaco (39), belga (40), nei quali è precluso l’accertamento in sede di impugnazione
del lodo delle cause di ricusazione. Cosı̀, la ricusabilità giudiziale
dell’arbitro è ritenuta derogabile negli ordinamenti francese e svizzero, che consentono l’accertamento dell’imparzialità del giudicante
in sede di annullamento.
colare gravità del vizio — che mina la fiducia nel tribunale arbitrale — ma soprattutto nella
possibilità di sanare efficacemente il vizio attraverso la sostituzione dell’arbitro.
(38) Gli accordi con cui le parti escludano l’intervento delle corti nazionali sono
inefficaci, NACIMIENTO - ABT, § 1036 - Challenge of an Arbitrator, in Arbitration in Germany:
The Model Law in Practice, cit., 209.
(39) SCHWARTZ - KONRAD, Article 16: Challenge of Arbitrators, in The Vienna Rules:
A Commentary on International Arbitration in Austria, Kluwer, 2009, 374 s. (che confronta
con il regime anteriore).
(40) Cour Appel Bruxelles, 21 giugno 2005, inedita citata da KEUTGEN (qualifica di
ordine pubblico il meccanismo di ricusazione giudiziale, desumendo l’illegalità della procedura di ricusazione amministrata prevista dal regolamento CEPANI). La dottrina ha criticato
tale soluzione sostenendo che, se le parti hanno convenzionalmente disciplinato la ricusazione dell’arbitro anche per richiamo ad un regolamento arbitrale, tali disposizioni dovrebbero trovare applicazione, KEUTGEN - DAL, Belgium, in International Handbook on Commercial Arbitration, PAULSSON (ed.), Suppl. 49 (April 2007), 13-14; MATRAY, Belgium, in International Handbook on Commercial Arbitration, PAULSSON (ed.), Suppl. 20 (October/1995),
12.
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Concludendo, per poter affermare l’inderogabilità del procedimento ex art. 815 c.p.c. non sembra essere sufficiente affermare che
l’imparzialità dell’arbitro è un valore di ordine pubblico, ma sembra
altresı̀ necessario dimostrare che la ricusazione giudiziale è lo strumento deputato dall’ordinamento per la tutela di tale valore.
4. Che nel nostro ordinamento l’imparzialità dell’organo arbitrale — riferita non (sol)tanto al singolo componente, ma all’organo
giudicante nel suo complesso (41) — sia carattere costitutivo, coessenziale all’arbitrato, e, come tale, a priori non rinunciabile dalle
parti, non è dubbio.
Tale esigenza discende, infatti, dalla funzione decisoria tipica
dell’arbitrato (42). Nell’attribuire all’accordo compromissorio un effetto preclusivo dell’accesso alla giurisdizione statale, nel riconoscere al lodo effetti equivalenti a quelli di una sentenza (come ormai,
espressamente, l’art. 824-bis c.p.c.) ed un particolare regime di impugnazione ed esecuzione, il legislatore sembra presupporre/
richiedere che l’arbitro, al pari del giudice, non decida — o non appaia decidere — per motivi diversi dalla percepita fondatezza delle
posizioni delle parti nel giudizio. Richiedendo all’arbitro di mantenere una posizione neutrale rispetto alla lite fino a quando il thema
decidendum non sia stato completamente discusso, l’ordinamento
garantisce l’attuazione dei principi di equità del procedimento e l’effettiva parità delle parti.
Un addentellato normativo diretto a tale lettura è rintracciabile
nell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)
— la cui applicabilità alle procedure arbitrali, quanto meno nella via
indiretta del controllo in sede di impugnazione e di esecuzione, è ormai condivisa (43). Una conferma indiretta, ma chiara, può essere
(41) V. infra para 5.
(42) Nelle parole della corte di cassazione francese, « l’indépendance d’esprit est indispensable à l’exercice d’un pouvoir juridictionnel quelle qu’en soit la source et qu’elle est
une des qualités essentielles des arbitres » (Cass. Civ. 2e, Ury c. Galleries Lafayette, JCP,
1972, II, 17189, nota LEVEL, e in Rev. Arb., 1973, 235, nota di LOQUIN; ripresa, tra le altre,
da App. Paris 8 giugno 1972, in Rev. Arb., 1973, 38, in materia di arbitrato internazionale e,
più recentemente, da App. Paris, Société Commercial Agraris Hermanos Lucena c. Société
Transgrain France, 12 dicembre 1996, in Rev. Arb., 1998, 698, nota a seguire BUREAU). In
Svizzera ATF 8 settembre 1999, 4P.108/1999, 10; DFT, 7 gennaio 2004, ASA Bull 3/2004,
595).
(43) Nonostante alcune decisioni abbiano affermato che scegliendo l’arbitrato le parti
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tratta dalla constatazione che il requisito dell’imparzialità ed indipendenza dell’arbitro è ritenuto principio di ordine pubblico nella
maggior parte degli ordinamenti stranieri (44).
Nonostante la centralità del principio, il legislatore italiano non
ha né definito, né espressamente richiamato, i concetti di imparzialità, neutralità o indipendenza in riferimento al tribunale arbitrale (45). La riforma si è, infatti, limitata a ricollegare la possibile rimozione dell’arbitro (art. 815 c.p.c.) (46) ad alcune, specifiche, rela-
rinuncerebbero alle garanzie previste dall’art. 6 CEDU, negli ultimi anni si è fatta progressivamente strada l’affermazione dell’applicabilità diretta della convenzione anche all’arbitrato volontario, ECHR, Regent Company v. Ukraine, Appl. no. 773/03, 3 aprile 2008, paras
54 e 56, reperibile sul sito internet www.echr.coe.int (v. anche, Stran Greek Refineries and
Stratis Andreadis v. Greece (1994) 19 E.H.R.R. 293), ALTARAS, Arbitration in England and
Wales and the European Convention for the Protection of Human Rights: Should Arbitrators
be Frightened?, Arbitration 73 (2007), 3; JAKSIC, Procedural Guarantees of Human Rights in
Arbitration Proceedings A Still Unsettled Problem?, 24(2) J. Int. Arb. 159 (2007). V. anche
CLAY, L’indépendance et l’impartialité de l’arbitre et les règles du procès equitable, in L’impartialité, cit., 210 ss. Nella giurisprudenza francese, v. TGI Paris, Republique de Guinée, cit.
(44) Si pensi all’irrinunciabilità dei motivi di ricusazione riferiti all’imparzialità o
indipendenza dell’arbitro prevista, ad es., dall’art. 13 della Legge Modello Uncitral. Il requisito posto dall’art. 180(1) lett. c) della LDIP è considerato espressione di valori costituzionali
irrinunciabili dalle parti dal Tribunale Federale svizzero. Ritiene di ordine pubblico l’imparzialità, ma non l’indipendenza, KEUTGEN, L’indépendance et l’impartialité de l’arbitre, cit.,
287 e 289.
(45) Non interessa qui tracciare una distinzione tra indipendenza, imparzialità, neutralità, concetti su cui la dottrina italiana e straniera si sono lungamente soffermate; può però
ricordarsi l’interessante definizione di HASCHER, A Comparison Between the Independence of
State Justice and the Independence of Arbitration, ICC Bull, Spec. Suppl., 2007, 83, dell’imparzialità come « complete receptivity to the parties’arguments », l’assenza di ogni inclinazione preferenziale verso una delle parti o verso un particolare esito del procedimento. La
giurisprudenza inglese, in assenza di una espressa sanzione normativa dell’indipendenza, ha
affermato « Independence connotes an absence of connection with either of the parties in the
sense of an absence of any interest in, or of any present or prospective business or other
connection with, one of the parties which might lead the arbitrator to favour the party concerned », AT&T Corporation v. Saudi Cable Company [2000] APP.L.R. 05/15, per Potter LJ,
par. 67.
(46) I motivi di ricusazione previsti dai regolamenti delle istituzioni arbitrali (soprattutto ma non soltanto internazionali) richiamano frequentemente i concetti, non ulteriormente
definiti, di indipendenza e l’imparzialità (v. art. 19, comma 1, Reg. Camera di Milano, in vigore dal 1 gennaio 2010 (e artt. 5 e 6 del codice deontologico allegato; richiama, invece, le
« cause di ricusazione » l’art. 18 reg. Camera di Venezia (v., però, art. 19, comma 4o e 5o);
art. 10 comma 3 reg. LCIA, art. 10 comma 1 reg. CCIG (per un esame dei regolamenti internazionali, KOCH, Standards and Procedures for Disqualifying Arbitrators, in J. Int’l Arb.,
2003, 325). In tal modo, le parti riservano all’istituzione un’ampia discrezionalità nel definire il contenuto del motivo di ricusazione, o, meglio, nella valutazione dell’opportunità di
una revoca del mandato arbitrale alla luce delle circostanze concretamente contestate. Definendo, dunque, un’istanza di ricusazione l’istituzione dovrà (oltre a verificare i motivi tipici
previsti dall’art. 815 c.p.c, ex art. 832, comma 5, c.p.c., se la sede dell’arbitrato è in Italia)
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zioni fra arbitro e parti, non all’esistenza di circostanze che lo facciano apparire non imparziale — secondo la soluzione adottata dal
legislatore inglese e svedese (47) —, né all’esistenza di rapporti che
lo rendano non indipendente — secondo la scelta del legislatore
svizzero (48).
5. L’art. 815 c.p.c. tipizza specifiche fattispecie di ricusazione, che — anche per la mancanza di una formula elastica di chiu-
ricostruire i concetti di indipendenza e imparzialità alla luce del suo mandato contrattuale.
Essa deve ricercare la volontà, espressa o tacita, delle parti, anche alla luce dello scopo da
esse perseguito adottando un meccanismo contrattuale di ricusazione, i.e. creare uno strumento per prevenire il verificarsi di un vizio che potrebbe inficiare il lodo ed evitare di dover sopportare, fino alla conclusione, i tempi ed i costi di una procedura potenzialmente inutile, perché, con ogni probabilità, sfociante in una decisione annullabile. Il requisito dell’indipendenza (assenza di rapporti tra l’arbitro e le parti e l’oggetto della lite), richiamato dai
regolamenti, viene, dunque, a legarsi all’imparzialità, criterio rilevante ai fini dell’annullamento, operando, nell’intenzione delle parti, come un “valore-mezzo” più che un “valorefine” (l’efficace espressione è di BRIGUGLIO, Epigramma sulla ricusazione degli arbitri (con
due note a pie’ di pagina), in GI, 2004, I, 460, che la impiega, però, in relazione alla ricusazione giurisdizionale), rilevante perché ed in quanto indice del rischio di una possibile parzialità dell’arbitro, o meglio di un’apparenza di parzialità. In questa prospettiva, la ricusazione amministrata (operando come revoca negoziale per relationem dell’incarico conferito
agli arbitri, CONSOLO, L’elasticità convenzionale, cit., 437) permette di porre fine ad una situazione in cui appare possibile che il giudicante, per i propri rapporti con quanto e quanti
coinvolti dalla lite, sarà incline al partito di una delle parti per ragioni che « non derivano
direttamente dai fatti che gli sono esposti e dai precetti che a tali fatti si attagliano »
(l’espressione è di RONCO, Dialogo sulla ricusazione degli arbitri, in GI, 2003, I, 1972, spec.
1973). L’istituzione, nell’adempimento del proprio mandato, deve valutare se la dipendenza
contestata, pur se non riconducibile ai motivi tipici previsti dall’art. 815 c.p.c., sia comunque
in grado di generare un’apparenza di parzialità; ciò deve fare operando diligentemente,
traendo l’inferenza dipendenza-parzialità secondo criteri di ragionevolezza e senza trascurare
l’interesse delle parti all’efficacia dell’arbitrato (cosı̀, ad esempio, non sembra che l’istituzione adempirebbe diligentemente al proprio incarico, se revocasse il mandato arbitrale in
presenza di una qualsiasi relazione fra arbitro e parti (o difensori)). Sull’applicazione dei criteri di imparzialità ed indipendenza da parte di istituzioni arbitrali, WHITESELL, Independence
in ICC Arbitration; ICC Court Practice Concerning the Appointment, Confirmation, Challenge and Replacement of Arbitrators, ICC Bull, Spec. Suppl., 2007, 7; NICHOLAS - PARTASIDES, LCIA Court Decisions on Challenges to Arbitrators: A Proposal to Publish, 23(1) Arb.
Int. 1 (2007).
(47) Rispettivamente Sez. 24(1)(a) Arbitration Act e Sez. 8(1) SAA (su cui v. supra
nota 29).
(48) L’art. 180, comma 1, lett. c, LDIP. Assai frequente negli ordinamenti stranieri
sembra essere la scelta di legare la ricusabilità dell’arbitro alternativamente al difetto di indipendenza o imparzialità, v., ad es., art. 12, comma 1, Legge Modello Uncitral, § 1036,
comma 2, ZPO, art. 1690 Code Judiciaire, art. 1033, comma 1, codice procedura civile olandese, art. 6 CEDU.
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sura (49) — non sembrano consentire la censura di ogni dipendenza
potenzialmente rilevante (50), né di eventuali parzialità dell’arbitro.
La rigidità di questo quadro normativo sembra difficilmente superabile in via interpretativa dalla giurisprudenza (51). Il combinato disposto degli artt. 815 e 832, comma 5, c.p.c. sembra, infatti, ostacolare, nel nostro ordinamento, l’evoluzione conosciuta dall’ordinamento francese, nel quale, in mancanza di motivi di ricusazione dell’arbitro (52), l’applicazione analogica (53) dei motivi tipici di ricusazione del giudice (art. 341 N.C.P.C) è stata superata affermando,
prima, la non tassatività di tali motivi (54), e fissando, poi, uno specifico criterio di ricusazione dell’arbitro: la verifica dell’« indépendance et l’impartialité de l’arbitre, en relevant toute circonstance de
nature à affecter le jugement de celui-ci et à provoquer dans l’esprit
des parties un doute raisonnable sur ces qualités qui sont de l’essence même de la fonction arbitrale » (55). Da una parte, infatti, l’art.
(49) CONSOLO, Imparzialità degli arbitri. Ricusazione, cit., 730-731; contra LUISO,
Sub articolo 815, in LUISO - SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 2006, 281, secondo cui il riferimento a « altri rapporti di natura patrimoniale o associativa » previsto al
numero 5 dell’art. 815 c.p.c. opererebbe come fattispecie aperta idonea a ricomprendere ipotesi non tipizzate. Cfr. sez. 8 SAA.
(50) Se si vuole, BERGAMINI, Sub art. 815 c.p.c, in Commentario alle riforme del processo civile, vol. III/2, a cura di BRIGUGLIO - CAPPONI, Padova, 2009, 658 ss. e riferimenti bibliografici.
(51) Prima della riforma, riteneva inaccettabile la possibilità di superare interpretativamente la tassatività dei motivi di ricusazione, DITTRICH, L’imparzialità dell’arbitro, cit.,
147.
(52) L’art. 1452, comma 2, NCPC, ponendo a carico degli arbitri un obbligo di disclosure, richiama ma non definisce le cause di ricusazione « L’arbitre qui suppose en sa
personne une cause de récusation doit en informer les parties ».
(53) Cass., in Rev. Arb., 1996, 398; Cass. 14 novembre 1990, in Rev. Arb., 1991, 74.
Criticava tale soluzione la dottrina maggioritaria, BELLET, nota a TGI Paris, Etat du Dubai,
cit., 466.
(54) Cass. 28 aprile 1998, Bull. Civ. I, 1998, 55.
(55) Cass. 16 marzo 1998, Qatar c. Creighton, in Rev. Arb., 1999, 308, che, quindi,
richiede all’arbitro di possedere sia indipendenza che imparzialità. Riteneva che il riferimento
al solo concetto di indipendenza fosse opportuno perché avrebbe offerto minore spazio a
contestazioni artificiali delle parti, contemperando più efficacemente l’esigenza che il tribunale arbitrale presenti tutte le garanzie e l’efficacia della procedura, GAILLARD, Les manoeuvres dilatoires des parties et des arbitres dans l’arbitrage commercial international, in Rev.
Arb, 1990, 761. Il revirement della Cassazione è avvenuto sotto la pressione della giurisprudenza di merito — che scartava l’applicazione dell’art. 341 NCPC, ritenendo tali motivi inadeguati per garantire l’imparzialità dell’arbitro, legando la ricusazione dell’arbitro al difetto
di indipendenza; TGI Paris, Etat du Dubai, cit., 455, « un arbitre ne peut être récusé, sur le
fondement de partialité, que lorsque les circonstances font apparaı̂tre un risque certain de
prévention à l’égard d’une partie à l’arbitrage et permettent de douter légitimement de son
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815 c.p.c. tipizza motivi specifici di ricusazione — non offrendo
qunque veri e propri spazi lacunosi su cui la giurisprudenza potrebbe
intervenire —; dall’altra l’art. 832, comma 5, nell’autorizzare le
parti a fissare nuove cause di ricusazione, sembra suggerire che soltanto esse possano, eccezionalmente, introdurre motivi di ricusazione
ulteriori rispetto a quelli tipizzati.
Il procedimento di ricusazione giudiziale delineato dal legislatore sembra, dunque, consentire la rimozione dell’arbitro soltanto in
specifiche circostanze, senza offrire un’efficace tutela rispetto ad
ogni (potenzialmente rilevante) parzialità e dipendenza dell’arbitro.
Tale elemento suggerisce, per quanto detto nel precedente paragrafo,
che il legislatore non abbia inteso costruire la ricusazione giudiziale
come sede per l’accertamento della violazione di un principio di ordine pubblico. Verso questa conclusione muovono, del resto, altri
caratteri della disciplina del procedimento ex art. 815 c.p.c.
In primo luogo, l’inadeguatezza di tale meccanismo rispetto
alla tutela dell’equidistanza del collegio arbitrale dagli interessi e
dalle parti coinvolte (valore che si accompagna all’indipendenza/imindépendance ». In sede di annullamento, la censura valutata è individuata da parte della giurisprudenza francese alla stregua del principio secondo cui « les circonstances invoquées
pour contester cette indépendance doivent caractériser, par l’existence de liens matériels et
intellectuels, une situation de nature à affecter le jugement de l’arbitre en constituant un risque certain de prévention à l’égard de l’une des parties à l’arbitrage » (in materia di arbitrato internazione App. Paris 2 giugno 1989, in Rev. Arb., 1991, 87; App. Paris 28 giugno
1991, KFTCIC c. Icori Estero, in Rev. Arb., 1992, 568 nota di BELLET; App. Paris, 9 aprile
1992, in Rev. Arb., 1996, 483; App. Paris, 12 gennaio 1996, in Rev. Arb., 1996, 428; App.
Paris, Société Commercial Agraris Hermanos Lucena c. Société Transgrain France, 12 dicembre 1996, in Rev. Arb., 1998, 698, nota BUREAU). La giurisprudenza ha cosı̀ chiarito che
la violazione dell’obbligo di disclosure, pur espressamente consacrato a carico degli arbitri
dall’articolo 1452 NCPC, non sia sufficiente a giustificare l’annullamento del lodo, a tale fine
rilevando non la rimproverabilità all’arbitro del silenzio mantenuto su certe circostanze, ma
il fatto che quanto non rivelato tale giustifichi « une apparence de partialité ou de dépendence » (Cass. Civ, 16 marzo 1999, Qatar c. Creighton, in Rev. Arb., 1999, 308, con nota di
GRANDJEAN; Cass. Civ., 6 dicembre 2001, Frémarc c. ITM Entreprises, in Rev. Arb., 2003,
1231, con nota di GAILLARD, ivi, 1240; v. HENRY, Les obligations d’indépendance et d’information de l’arbitre à la lumière de la jurisprudence récente, in Rev. Arb., 1999, 193. Sulla
sanzione dell’obbligo di rivelazione, si veda anche CLAY, L’arbitre, cit., 337 ss.). Analogamente Tribunale Federale svizzero, 15 ottobre 2001, 20 ASA Bull. 321 (2002). Anche la giurisprudenza tedesca sembra escludere che la violazione dell’obbligo di rivelazione porti di
per sé all’annullamento del lodo, pur ammettendone l’eccezionale rilevanza in caso di grave
ed evidente parzialità (SCHLOSSER, L’impartialité et l’indépendence de l’arbitre en droit allemand, in RA, 2005, 14; sull’ampiezza dell’obbligazione di rivelazione in diritto tedesco,
HOFFMANN, Duty of disclosure and Challenge of Arbitrators: the Standard Applicable under
the New IBA Guidelines on Conflicts of Interest and the German Approach, 21(3) Arb. Int.
427 (2005)).
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parzialità di ciascun arbitro (56) per la garanzia dell’imparzialità dell’organo giudicante). Tale valore richiederebbe, infatti, nel caso di
nomine conosciute, accettate e perseguite dalle parti come « non
neutrali » (57), il costante bilanciamento di due, contrapposte, designazioni partigiane. La disciplina dettata dall’art. 815 c.p.c. non offre tale garanzia, ed anzi — facendo decorrere il breve termine di ricusazione dalla nomina dell’arbitro (art. 815, comma 3) — rischia di
introdurre uno sbilanciamento nel collegio. Essa, infatti, rende possibile alla parte che ha nominato, per prima, un arbitro non neutrale
di ricusare l’arbitro, non neutrale, nominato dalla controparte, senza
che a questa sia più possibile reagire alla presenza nel collegio dell’arbitro “avversario” (58).
In secondo luogo, la struttura snella e deformalizzata del procedimento, che non sembra offrire le garanzie imprescindibili di un
giudizio di accertamento, fra cui la possibilità di suscitare una cognizione piena e contraddittoria del thema decidendum (59).
Infine, la non impugnabilità del provvedimento adottato ex art.
815, comma 3 (60). Qualora, infatti, si ammettesse che la ricusazione
opera come giudizio di accertamento (anticipato rispetto al giudizio
(56) Sembrano ispirati alla garanzia dell’equidistanza del collegio dalle parti l’art.
816-quater e l’art. 832, comma 4, c.p.c.
(57) Ammessa dalla dottrina maggioritaria, per tutti CONSOLO, Arbitri di parte non
« neutrali », cit.; LUISO, Il nuovo regolamento-tipo per l’arbitrato amministrato dalle Camere
di Commercio, in questa Rivista, 2007, 15, 22 s.
(58) Alla tutela dell’equidistanza del giudicante dalle parti è ispirato il meccanismo
di ricusazione incidentale condizionata previsto dall’art. 18, comma 4, del Regolamento Tipo
Unioncamere, su cui LUISO, ibidem.
(59) Pur consentendo l’art. 815 c.p.c. un minimo di approfondimento nell’indagine
sull’esistenza dei presupposti — di rito e di fondatezza — per la concessione del provvedimento. L’art. 1457, comma 1, NCPC nella formulazione anteriore alla recente riforma prevedeva che il procedimento di ricusazione si svolga nelle forme del procedimento in référé (v.
infra nel testo) (cfr. attuale art. 1460). La natura contenziosa del rimedio è comunque discussa (favorevole, LOQUIN, Institution d’arbitrage, Juris Classeur, 1002, 1997, § 24). Per un
approfondito esame sulla natura e sul regime dell’intervento del presidente del tribunale contrattualmente scelto dalle parti come terzo incaricato della ricusazione, DE FONTMICHEL, La
décision du « juge d’appui » contractuellement choisi par les parties en droit français de
l’arbitrage commercial international, in Les Cahiers de l’arbitrage, Gazz. Pal., 28-29 marzo
2008, 21 ss.
(60) La non impugnabilità del provvedimento è espressamente prevista in numerosi
ordinamenti, v. ad es., art. 13, comma 3, Legge Modello Uncitral; combinato disposto dei
§§1062 e 1065 ZPO; art. 1457, comma 1, NCPC (attuale art. 1460, comma 2); art. 180,
comma 3, LDIP. V. infra nota 61. Sanciscono, invece, l’appellabilità del provvedimento con
cui il giudice definisce la richiesta di ricusazione art. 1691, comma 2, Code Judiciaire belga,
Sez. 24(6) Arbitration Act inglese.
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di impugnazione), la tutela avverso vizi di parzialità del giudicante
sarebbe irragionevolmente diversa, per struttura del procedimento e
per possibilità di impugnazione, da quella prevista avverso gli altri
vizi della procedura. Nei confronti delle decisioni sulla parzialità
dell’arbitro non sarebbe, infatti, possibile né ricorso per cassazione
(aperto avverso la decisione ex art. 829 c.p.c.) — con la sua funzione
nomofilattica — né altro rimedio impugnatorio (61). La non impu-
(61) Nell’ordinamento francese, contro il provvedimento del Presidente del Tribunale
— per espressa previsione di legge « inimpugnabile » — si ammette appel en nullité per
excès de pouvoir (implicitamente, App. Versailles, 14 novembre 1996, in Rev. Arb., 1997,
361; App. Paris 19 dicembre 1995, in Rev. Arb., 1996, 110, nota di HORY; Cass. 18 dicembre 1996, in Rev. Arb., 1997, 361, nota di HORY, esclude che la decisione in appel nullité sia
ricorribile in cassazione, ex art. 1457 NCPC), ma non appello (App. Paris, 24 novembre
1987, secondo cui tale conclusione non contravviene il principio del doppio grado di giudizio, ex art. 543 NCPC, costituendo una legittima eccezione per « faire échec aux recours dilatoires afin d’assurer à l’arbitrage son effıcacité »; ritenendo invece il diritto di ricorrere
contro un provvedimento un principio fondamentale di diritto, PLUYETTE, Le point de vue du
juge, in Rev. Arb., 1992, 318; HORY, in Rev. Arb., 1997, cit.) né ricorso in Cassazione (Cass.
22 novembre 1989, Philipp Brothers c. Société Drexel, in Rev. Arb., 1990, 142). La giurisprudenza ha, inoltre, escluso che le censure valutate dal presidente del tribunale possano essere fatte valere come motivi di impugnazione del lodo per irregolare composizione del tribunale arbitrale (App. Paris, 6 aprile 1990, Philipp Brothers c. Société ICCO et autres, in
Rev. Arb., 1990, 880 nota a critica di DE BOISSESSON), App. Paris 4 giugno 1992, Wattelet c.
société Gateba et Lorquin, in Rev. Arb., 1993, 449 (« considérant que la décision intervenue,
insusceptible de recours, a irrévocablement statué sur l’indépendance de l’arbitre, question
qui ne peut plus être rejugée par le moyen de recours en annulation des lors que: — l’objet
de la contestation est identique quant à l’appréciation des causes de récusation ou des
moyens, également fondés sur le défaut d’indépendance déduit de mêmes circonstances;
— l’intervention du juge étatique dans le processus de constitution du tribunal arbitral a eu
pour effet en réglant, sans recours possible, les contestations portant sur la qualité des arbitres, d’assurer et consacrer la régularité »), recentemente anche App. Paris 3 marzo 2005,
in Rev. Arb., 2006, nota critica di CAILLÉ, 450. La dottrina critica tale interpretazione affermando che il provvedimento del presidente del tribunale sulla ricusazione, non è una decisione, non statuendo sulla valida costituzione del tribunale arbitrale, ma interviene a facilitare la costituzione del tribunale (DE BOISSESSON, cit.; CAILLÉ, nota, cit., 450; secondo cui « le
président du tribunal de grande instance doit seulement régler une diffıculté de constitution
et permettre la mise en place des collèges arbitraux, lorsque la nécessaire coopération des
parties vient à faire défaut et qu’apparaı̂t une situation de blocage de l’arbitrage. Le seul
véritable contrôle judiciaire de l’arbitrage s’exerce à posteriori »; cfr. METZGER, in Rev. Arb.,
1986, 87, nota a App. Paris, 15 gennaio 1985, cit.. La giurisprudenza svizzera, interpretando
la previsione di definitività affermata dall’art. 180, comma 3, LDIP ha escluso l’impugnazione diretta del provvedimento di fronte al Tribunale Federale anche in caso di violazione
di diritti costituzionalmente garantiti (ATF 122 I 370, ricordata da BESSON, Réflexions sur la
jurisprudence suisse récente rendue en matière d’arbitrage international, 21(3) ASA Bull.
469 (2003) (non pronunciandosi sull’ammissibilità di un controllo indiretto in sede di impugnazione ex art. 190, lett. a). La giurisprudenza sembra aver abbandonato anche l’indiretta
controllabilità del provvedimento in sede di impugnazione del lodo ex art. 190, comma 1,
LDIP pur nel caso in cui venga contestata la violazione di un valore costituzionalmente ga-
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gnabilità del provvedimento si inserirebbe, invece, coerentemente
nel sistema, se si ipotizzasse che, nell’intentio legis, l’accertamento
del vizio sia demandato all’annullamento del lodo, non al procedimento di ricusazione.
Il ruolo della ricusazione ex art. 815 c.p.c. sarebbe, dunque, diverso anche da quello riconosciuto all’istituto dalla giurisprudenza
francese (e svizzera), che, nonostante le critiche della dottrina, ravvisa nella ricusazione giudiziale la sede dove accertare il vizio di
parzialità quando le parti non abbiano previsto un meccanismo di
convenzionale di ricusazione (optando per una decisione in sede di
annullamento). Infatti, benché l’ordinamento francese sia ispirato
alla concentrazione delle censure in sede di annullamento del lodo (62) e la giurisprudenza affermi la derogabilità dell’art. 1463
NCPC in favore di un equivalente meccanismo convenzionale (63)
(senza incertezze nel caso di arbitrato internazionale, con maggiori
dubbi nel caso di arbitrato domestico), la giurisprudenza ricostruisce
il procedimento di ricusazione di fronte al President du tribunal de
rantito (ATF 128 III 330, consid 2.2, disponibile sul sito www.polyreg.ch/d/informationen/
bgeleitentscheide, anche 20(4) ASA Bull. 690 (2002)) sul presupposto che la ratio sottesa alla
LDIP — limitare le possibilità di impugnazione — implichi la non controllabilità anche in
via indiretta del provvedimento di ricusazione. La dottrina (BESSON, Réflexions sur la jurisprudence suisse récente rendue en matière d’arbitrage international, cit., 471 s.; POUDRET,
Les recours au Tribunal fédéral suisse en matière d’arbitrage international (Commentaire de
l’art. 77 LTF), 25(4) ASA Bull. 698 (2007)) ha criticato tale conclusione, rilevando che essa
introduce un’ingiustificabile diversità di trattamento tra arbitrato amministrato e arbitrato ad
hoc, garantendo una maggiore tutela dei diritti delle parti nel primo caso in cui è consentita
l’impugnazione del lodo ex art. 190, comma 2o, lett. a) in caso di rigetto della istanza di ricusazione (BESSON, ibidem, rileva che la non impugnabilità del provvedimento ex art. 180,
comma 3o si giustifichi e trovi il proprio bilanciamento nella censurabilità del provvedimento
in sede di impugnazione del lodo ex art. 190, comma 2, lett. a). Circa l’inammissibilità di un
« staatsrechtliche Beschwerde » nei confronti del provvedimento giudiziale di ricusazione, v.
BLESSING, The New International Arbitration Law in Switzerland: A Significant Step Towards
Liberalism, in 5(2) Journ. Int. Arb. 9 (1988), 40 s. Esclude il public law appeal, ATF 122 I
370, 16 ASA Bull. 634 (1998).
(62) FOUCHARD, GAILLARD, GOLDMAN, International Commercial Arbitration, Kluwer,
1999.
(63) V. supra nota 4. TGI Paris, République de Guinée, cit. « il n’a pas été attribué
aux juridictions étatiques une compétence exclusive et dérogatoire de la volonté des parties
pour connaı̂tre de toute demande de récusation ». La giurisprudenza riconosce funzioni, natura e regimi diversi alla ricusazione amministrata, ritenuta uno strumento per l’amministrazione dell’arbitrato, privo di carattere giurisdizionale (la decisione dell’istituzione « n’empeche pas la Cour de juger de l’independence et de l’impartialité des arbitres après le prononcé de la sentence », App. Paris 12 gennaio 1996, in Rev. Arb., 1996, 428), v. infra par. 7.
Nega il carattere di ordine pubblico della ricusazione giudiziale, COHEN, in Rev. Arb., 1991,
192-193.
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grand instance come procedimento contenzioso, il cui effetto è « irrévocablement statuer » sulla sussistenza o meno della ragione ricusatoria (64). È da notarsi, però, che il procedimento deve essere, per
previsione normativa, svolto nelle forme del référé.
In conclusione, nell’ordinamento italiano la ricusazione giudiziale sembra operare non come strumento di accertamento, ma come
meccanismo per la soluzione di difficoltà emerse nella costituzione
del tribunale arbitrale, attraverso cui si consente la tempestiva eliminazione di potenziali vizi incidenti sulla validità del lodo. La creazione di un simile meccanismo risponde all’interesse pubblico di garantire l’efficienza dell’arbitrato, evitando che l’assenza di strumenti
di reazione al vizio prima dell’annullamento del lodo si trasformi
nella più efficace delle manovre dilatorie, imponendo alle parti i
tempi ed i costi di una procedura potenzialmente inutile (65).
(64) V. supra nota 63. App. Paris, 6 aprile 1990, Philipp Brothers c. Société ICCO,
in Rev. Arb., 1990, 880; App. Paris 4 giugno 1992, Wattelet c. société Gateba et Lorquin, in
Rev. Arb., 1993, 449, con nota favorevole di HORY, 454.
(65) L’opportunità di tutelare tale interesse è percepita anche negli ordinamenti più
marcatamente ispirati al principio della censura dei vizi del procedimento arbitrale nel giudizio di annullamento. Cosı̀, ad esempio, nell’ordinamento statunitense, benché il FAA non
preveda un meccanismo per la rimozione dell’arbitro parziale (e la giurisprudenza federale
maggioritaria ritenga che, in assenza di un’esplicita previsione di legge, non sia possibile verificare le qualità dell’arbitro nel corso della procedura e rimuovere l’arbitro parziale, ex pluribus, Michaels v. Mariformum Shipping S.A., 624 F2d 411, 414, n. 4 (2d Circ. 1980); Burlington Ins. Co. v. Trygg-Hansa Ins. Co. AB, 2002 U.S. Dist. LEXIS 19526 (D.N.C. 2002);
Gulf Guar. Life Ins. Co. v. Conn. Gen. Life Ins. Co., 304 F.3d 476, 490 (5th Cir. 2002)) sembra emergere la tendenza a consentire la verifica della parzialità dell’arbitro nel corso della
procedura (ANDREEVA, Challenge to a Challenge: Are Arbitrators Immune from Judicial
Oversight During the Arbitration Proceedings in the United States?, in TDM vol. 5(4) giugno 2008, http://www.transnational-dispute-management.com) attraverso (i) l’introduzione
da parte di alcune legislazioni statali di meccanismi giudiziali di ricusazione (ad es., codice
di procedura civile California 1297.131 (West 1988 & Supp. 1996); Texas, Tex. Civ. Prac. &
Rem. Code Ann. 172.104(a) (Vernon 1989 & Supp. 1996); (ii) il riconoscimento della facoltà
delle parti di adottare meccanismi di ricusazione amministrata; (iii) il riconoscimento da parte
di alcune corti federali del potere di verificare la parzialità dell’arbitro (a) decidendo dell’impugnazione per invalidità dell’accordo arbitrale per mancanza nell’arbitro delle qualità concordate nell’accordo compromissorio (ex pluribus, Aviall, Inc. v. Ryder System, Inc., 110 F.3d
892, 895 (2d Cir. N.Y. 1997; Jefferson-Pilot Liver Insurance Co. v. LeafRe Reinsurance Co.,
2000 WL 1724661, *2 (N.D. Ill. 2000); (b) dell’impugnazione di ordinanze arbitrali (Certain
Underwriters at Lloyd’s, London v. Argonaut Ins. Co., 264 F. Supp. 2d 926, 937 (D. Cal.
2003)) o lodi parziali o non definitivi (Applied Indus. Materials Corp. v. Ovalar Makine Ticaret Ve Sanayi, A.S., 492 F.3d 132 (2d Cir. 2007)); (c) o, infine, la censura della condotta
dell’arbitro che abbia commesso una fundamental unfairness (Metropolitan Property and
Cas. Ins. Co. v. J.C. Penney Cas. Ins. Co., 780 F. Supp. 885, 893-94 (D. Conn. 1991)).
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6. Escludere che la ricusazione giudiziale tenda all’accertamento della violazione di un principio di ordine pubblico, consente
di trarre due conclusioni.
In primo luogo, permette di negare all’istituto valenza di rimedio di ordine pubblico, consentendone la sostituzione con un meccanismo amministrato equivalente (66). Tale conclusione sembra, del
resto, indirettamente, confermata dal dato normativo introdotto dalla
riforma. L’art. 832, comma 5, c.p.c., applicabile ad arbitrati su regolamento precostituito (genus cui appartiene la species regolamenti
per arbitrato amministrato), sembra avere un duplice portato: da un
lato, autorizzare le parti ad introdurre, nel procedimento ex art. 815
c.p.c., ulteriori motivi di ricusazione (unico effetto in caso di arbitrato ad hoc secondo regolamento precostituito); dall’altro, richiedere all’istituzione, eventualmente incaricata dell’amministrazione
dell’arbitrato, la verifica dei motivi tipizzati dal legislatore (67). Con
l’art. 832, comma 5, c.p.c. il legislatore sembra, quindi, imporre una
convergenza fra cause di ricusazione amministrata e giudiziale, mostrando l’intenzione di garantire, in entrambe le sedi, la verifica di
una soglia minima di ricusabilità, rappresentata dai motivi prescritti
dalla legge. Tale intenzione è difficilmente spiegabile nella prospettiva delle vie parallele: perché assicurarsi che l’istituzione verifichi
le cause di cui all’art. 815 c.p.c, se la parte interessata può, se vuole,
chiederne la tutela in sede giudiziale, azionando il meccanismo dell’art. 815 c.p.c.? Al contrario, il richiedere all’istituzione la verifica
del tessuto minimo di indipendenza fissato dall’art. 815 c.p.c. diviene
non solo opportuno, ma necessario, quando si ipotizzi che il legislatore abbia presupposto la sostituzione del meccanismo giudiziale con
quello amministrato.
Il precetto dell’art. 832, comma 5, sembra inoltre aver indebo-
(66) Non sembrerebbe, invece, possibile alle parti di rinunciare ad ogni meccanismo
di ricusazione. Ciò non perché una tale rinuncia non possa in astratto essere ammessa dal legislatore (v. supra par. 3), ma perché la scelta di introdurre un meccanismo di ricusazione
degli arbitri implica che il legislatore abbia ritenuto meritevoli tutela (sottraendoli alla disponibilità delle parti) interessi di efficienza nella procedura arbitrale e di non sovraccarico della
fase dell’impugnazione.
(67) Analogo regime sembra previsto nell’ordinamento svizzero: l’istituzione arbitrale, che amministri una procedura cui sia applicabile la legge svizzera, deve infatti verificare il requisito di indipendenza ex art. 180, comma 1, lett. c) (principio costituzionale, inderogabile dalle parti) indipendentemente dall’esistenza di un’analoga previsione nel regolamento (ZUBERBÜHLER, MÜLLER, HABEGGER, Article 10, Swiss Rules of International Arbitration:
Commentary, Kluwer, 2005, 106; conf. ATF 15 ottobre 2001, cit., BGE 126 III 249).
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lito la possibilità di affermare che meccanismi di ricusazione amministrata e giudiziale siano « compatibili », il presupposto su cui la
dottrina, nel vigore della precedente disciplina, aveva giustificato la
possibilità della loro parallela esistenza. I due rimedi non sono infatti
oggi più chiamati a svolgersi su presupposti e secondo modalità diversi, ma destinati ad intervenire nelle medesime circostanze. Le
esperienze straniere sembrano, inoltre, confermare la difficoltà di
ipotizzare la parallela coesistenza di due meccanismi operanti sugli
stessi presupposti. Da una parte, infatti, gli ordinamenti che consacrano la possibile coesistenza dei due rimedi, ne escludono il parallelo svolgimento fissando per essi una necessaria scansione temporale (ammettendo il ricorso alle corti solo a seguito dell’infruttuoso
svolgimento del meccanismo negoziale) (68). Dall’altra, gli ordinamenti che non introducono tale scansione, individuano nell’identità
dei motivi censurabili nelle due sedi, il presupposto per la sostituzione convenzionale del meccanismo giudiziale (69), e, dunque, per
escludere la possibile coesistenza dei due rimedi.
7. Escludere che nel procedimento ex art. 815 c.p.c. si decida
della parzialità dell’arbitro, permette, in secondo luogo, di affermare
(68) Art. 13 Legge Modello Uncitral; § 1037 ZPO tedesca; § 539 ZPO austriaca; Sez.
24 Arbitration Act inglese. Senza che la ricusazione giudiziale possa essere considerata
un’impugnazione del provvedimento adottato dal tribunale arbitrale o dall’istituzione (NACIMIENTO - ABT, § 1037 - Challenge procedure, in Arbitration in Germany: The Model Law in
Practice, cit., 232. Il giudice non deve, infatti, verificare la decisione dell’istituzione, Oberlandesgericht Munchen 6 febbraio 2006, MDR 2006, 944 - OLGR Munchen 2006, 944)
(parte della dottrina ipotizza che il giudice dovrebbe spontaneamente attenersi a quanto concluso
dall’istituzione, che appaia reputata ed esperimentata, KÜHNER, Selected Areas and Issues of Arbitration in Germany, ICC Arbitration in Germany, in Arbitration in Germany, cit., 846).
(69) Cosı̀ la giurisprudenza francese ha negato che l’adozione di un meccanismo negoziale che investa il terzo del potere di sostituire l’arbitro « unable » o « unfit » costituisca
rinuncia alla ricusazione giudiziale (TGI Paris, Etat du Dubai c. Halcrow et Williams, in Rev.
Arb., 1993, 455, ha ritenuto ricevibile la domanda di ricusazione giudiziale notando che il
potere di rimozione affidato al terzo si esprimeva in casi più limitati di quelli legittimanti la
ricusazione giudiziale; favorevole, BELLET, nota, in Rev. Arb., 1993, 464). Cosı̀ l’art. 180,
comma 3, LDIP prevedendo che alla ricusazione provveda il giudice competente della sede
dell’arbitrato « en cas de litige et si les parties n’ont pas réglé la procédure de récusation »
suggerisce che le cause di ricusazione dell’arbitro fissate dall’art. 180, comma 1, non sono
derogabili dalle parti, e dunque devono essere verificate anche in sede di ricusazione amministrata — sostitutiva della ricusazione giudiziale. Cosı̀, infine, la Sez. 11 SAA prevede che
le parti possano liberamente convenire che la domanda di ricusazione fondata sulle circostanze indicate dalla Sez. 8 sia definitivamente decisa dall’istituzione arbitrale, senza ricorso
al rimedio giudiziale.
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che l’accertamento della parzialità/dipendenza, valutata dal presidente del tribunale o da un’istituzione arbitrale, debba essere consentito in altra sede (70).
Tale conclusione sembra confermata sia alla luce della natura
del provvedimento reso dall’istituzione che della previsione di non
impugnabilità dell’ordinanza resa ex art 815 c.p.c.
Sotto il primo profilo, infatti, l’accertamento giurisdizionale
della causa di ricusazione valutata dall’istituzione potrebbe essere
precluso soltanto se si ritenesse che l’incarico conferito all’istituzione sia un mandato a decidere di una controversia (incidentale alla
procedura principale) relativa alla violazione del principio di imparzialità. Il provvedimento reso dall’istituzione sarebbe, infatti, in questo caso, un lodo, vincolante, se non tempestivamente censurato ex
art. 829 c.p.c. (71). La giurisprudenza francese ha, in più occasioni,
rigettato tale ricostruzione, affermando che le funzioni affidate all’International Chamber of Commerce dal regolamento, non siano decisorie, ma di amministrazione della procedura (72). La giurisprudenza,
(70) FOUCHARD, Le statut de l’arbitre, in Rev. Arb., 1996, 355, approvando la soluzione adottata dalla giurisprudenza francese, afferma « le juge étatique ne peut renoncer au
contrôle a posteriori de la régularité de la sentence ni déléguer un tel pouvoir à un organisme privé ».
(71) Ad es. per possibile difetto di motivazione, difetto di sottoscrizione, mancata
indicazione della sede dell’arbitrato, possibile violazione del contraddittorio. Tale ricostruzione fu prospettata da KASSIS, Réflexions sur le Règlement d’arbitrage de la Chambre de
Commerce International, Paris, 1988, 187 ss. Contra PAULSSON, Vicarious Hypocondria and
Institutional Arbitration, 6(3) Arb Int. 238 ss. (1990).
(72) TGI Paris, République de Guinée, cit. (« assistance tecnique attribuée au juge
étatique pour la mise en oeuvre des operation d’arbitrage »); Cass. 7 settembre 1989, in Rev.
Arb., 1987, 474, con nota di METZGER; Cass. 7 ottobre 1987, Société Opinter France c. S.a.r.l.
Dacomex, in Rev. Arb., 1987, 479; App. Paris 15 gennaio 1985, Société Opinter France c.
société Dacomex, in Rev. Arb., 1986, 87 con nota di METZGER (che, di conseguenza, esclude
la necessaria contraddittorietà del procedimento e motivazione del provvedimento di ricusazione amministrata; analogamente Cass. 7 settembre 1989, cit.; cfr., sul contraddittorio, App.
Paris, 15 maggio 1985, Raffıneries de pétrole d’Homs et de Banias c. Chambre de Commerce
Internazionale, in Rev. Arb., 1985, 141); TGI Paris, 28 marzo 1984, Raffıneries de pétrole
d’Homs et de Banias c. Chambre de Commerce Internationale, in Rev. Arb., 1985, 141 (pur
se ambiguamente attribuendo efficacia di chose jugée al provvedimento dell’istituzione, afferma che esso « reste extérieur[e] de l’exercice du pouvoir de juger et de trancher un différend et ne saurait relever des même règles impératives »; contra, TGI Paris, 23 giugno
1988, République de Guinée, cit., nota FOUCHARD (che definisce, invece, la procedura di ricusazione di fronte alla ICC una « procédure juridictionnelle » spettando « à l’organe de l’institution de juger de la réalité de l’indépendence des arbitres »). In dottrina nega carattere
arbitrale all’intervento dell’istituzione, inter alia, LOQUIN, Arbitrage. Institution d’arbitrage,
in Juris Classeur, Procédure Civile. 1002 (marzo 1997), par. 24; PLUYETTE, Le point de vue
du juge, cit., 363 (apre all’ammissibilità teorica di qualificare come giurisdizionale l’attività
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negando natura giurisdizionale ai provvedimenti — anche di ricusazione — resi dall’istituzione, ha escluso la loro impugnabilità come
lodi (73), e la vincolatività della valutazione effettuata dall’istituzione
per il giudice dell’annullamento (74). Soluzione analoga sembra opportuna e necessaria nel nostro ordinamento. Opportuna, perché
l’impugnabilità ex art. 829 c.p.c. del provvedimento dell’istituzione
minerebbe l’efficacia della procedura arbitrale « congelandone » il
risultato fino a quando non divenisse definitiva la decisione. Necessaria, perché le funzioni affidate all’istituzione arbitrale dai principali
regolamenti precostituiti, non sembrano qualificabili come funzioni
arbitrali, ma come funzioni di amministrazione/supporto nella procedura arbitrale (75).
Sotto il secondo profilo, la censura della parzialità già valutata
dal presidente del tribunale ex art. 815 c.p.c., potrebbe essere preclusa in altra sede soltanto se la previsione di non impugnabilità del
provvedimento, di cui all’art. 815, comma 3, c.p.c. implicasse non
soltanto la non impugnabilità del provvedimento, ma anche la definitività del suo contenuto (76). Tale ricostruzione non è confermata
dalla corte di Cassazione, che, in più occasioni, ha ribadito che, in
caso di rigetto dell’istanza di ricusazione dell’arbitro, la parte può
chiedere « il riesame di tale pronuncia » (77) attraverso l’impugnazione per nullità del lodo alla cui deliberazione ha concorso l’arbitro
dell’istituzione, FOUCHARD, Les institutions, cit., 243, pur rilevando le difficoltà pratiche che
una simile soluzione implicherebbe). Analogamente, il Tribunale Federale svizzero ATF 118
II 359, 18 agosto 1992; qualifica come amministrativi i provvedimenti dell’istituzione, Oberlandgericht di Zurigo, 26 gennaio 1987, citato da FOUCHARD, Les institutions, cit., 263.
(73) Cass. 7 ottobre 1987, Société Opinter France c. S.a.r.l. Dacomex, in Rev. Arb.,
1987, 479; App. Paris, 15 gennaio 1985, Opinter, cit.; App. Paris, 15 maggio 1985, Raffıneries, cit. Analogamente, nell’ordinamento svizzero, 4P.226/2004, 9 maggio 2005, citata da
TSCHANZ, Chronique de jurisprudence étrangère suisse, Rev. Arb., 2006, 849. Cfr., Sez 11
SAA, v. supra nota 29.
(74) Ex pluribus, App. Paris 13 giugno 1996, Société KFTCIC c. Société Icori estero,
in Rev. Arb., 1997, 251. Analogamente Tribunale Federale svizzero 4P.539/2008, 19 febbraio
2009, cons. 3.1, ma anche 4P.4/2007 (269/2007), cons. 3.2, ATF 128 III 330 cons. 2.2.
(75) Non sembrerebbe, invece, precludere la configurabilità dell’intervento dell’istituzione come arbitrale, il particolare oggetto della decisione che sarebbe ad essa deferita: non
un diritto soggettivo (salvo non si prospetti che all’istituzione sia richiesta tutela del diritto
delle parti, scaturente dal patto compromissorio, di intrattenere un rapporto di buona fede con
gli arbitri), ma una questione (la violazione del principio di imparzialità). L’oggetto della domanda arbitrale, infatti, non conosce i limiti che caratterizzano l’oggetto della domanda giudiziale, LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, in questa Rivista, 1996, 669.
(76) V. supra para 5.
(77) V. infra nota 86.
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ricusato (78). L’affermazione giurisprudenziale sembra del resto condivisibile in ragione sia del carattere amministrativo (79) da riconoscere all’ordinanza presidenziale (in virtù della funzione non giurisdizionale del procedimento, supra par. 5), che dell’obbligo posto al
legislatore di prevedere una sede giudiziale per l’accertamento del
vizio di parzialità (supra par. 3).
La sede giurisdizionale cui è riservato, nel nostro ordinamento,
l’accertamento della parzialità non può che essere il giudizio di impugnazione del lodo. La verifica della « regolarità formale » riservata
al presidente del tribunale ex art. 825 c.p.c. non potrebbe, infatti, essere compatibile con un « accertamento » della parzialità.
La mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, ex art.
829 c.p.c., con cui far valere il vizio non sembra costituire ostacolo
a questa conclusione. Salvo, infatti, il FAA, che, come anticipato,
consacra l’« evident partiality » degli arbitri come motivo di annullamento del lodo (80), gli ordinamenti stranieri che ammettono un
controllo della parzialità (già verificata dal privato) in sede di annullamento (81), non individuano il difetto di imparzialità come autonomo e specifico motivo di impugnazione, ma ne consentono la cen-
(78) Cass. 28 agosto 2004, n. 17192. Cfr. Cass. 10 aprile 1984, n. 2300.
(79) La Cassazione ha affermato il carattere amministrativo del procedimento di ricusazione per escludere l’impugnabilità ex art. 111 Cost del provvedimento del presidente del
tribunale (inter alia, Cass. 16 maggio 1998, n. 4924, Cass. 6 luglio 1988, n. 4432).
(80) Nonostante il riferimento alla « evident partiality », la Corte Suprema ha ritenuto sufficiente per l’annullamento di un lodo la semplice « appearance of bias » (ingenerata
dalla mancata rivelazione di una precedente relazione professionale con una delle parti ed altri rilevanti profili della propria attività professionale) (« [a]ny tribunal permitted by law to
try cases and controversies not only must be unbiased but also avoid even the appeareance
or bias. We cannot believe that it was the purpose of Congress to authorize litigants to submit their cases and controverises to arbitration boards that might reasonably be thought biased against one litigant and favorable to another », Commonwealth Coatings Corp. v. Continental Casualty Co. (393 U.S. 145, 89 S.Ct. 337, 21 L.ED. 2d 301 (1968), si noti, comunque, che nella concurring opinion, Justice White specificò che l’annullamento del lodo sarebbe giustificato soltanto se la non rivelazione « created a substantial ranger of an junjust
result »). Il precedente non è pacificamente seguito dalle Corti federali, che hanno richiesto,
per l’annullamento, che l’arbitro « exhibit(s) actual bias », CARBONNEAU, United States. in
Practioner’s Handbook on International Arbitration cit., 1087, spec. 1106. Ritiene che la
Sect. 10 richieda « something more than the mere appereance of bias to vacate an award »,
i.e. che « a reasonable person would have to conclude that an arbitrator was partial to a
party to the arbitration » non quindi « the proof of actual bias » (United States Court of Appeals, Second Circuit, Morelite Construction Corp. v. New York City District Council Carpenters Benefit Funds (748 F.2d 79)).
(81) Nell’ordinamento francese, inter alia, App. Paris, 12 gennaio 1996, Qatar c.
Creighton, in Rev. Arb., 1996, 427; App. Paris 13 giugno 1996, Société KFTCIC c. Société
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sura, prevalentemente, come causa di irregolare costituzione del tribunale arbitrale (82), ovvero come violazione del diritto di difesa (83),
o violazione dell’ordine pubblico (84) (più raramente come nullità
dell’accordo arbitrale per errore sulla persona dell’arbitro) (85).
Analogamente l’eventuale parzialità dell’arbitro sembra poter
Icori estero, in Rev. Arb., 1997, 251, nota GAILLARD; App. Paris, 15 maggio 1985, Raffıneries,
cit.; nell’ordinamento svizzero, BGE 118 II 359, 18 agosto 1992, consid. 3(b).
(82) Giurisprudenza francese, inter alia recentemente, App. Paris, 12 febbraio 2009,
J. & P. c. Tecnimont, in Les cahiers de l’arbitrage, Gazz. Pal., 20-21 mars 2009, 53; App.
Paris, Raoul Duval, 2 luglio 1992, cit.; App. Paris 6 aprile 1990, Philippe Brothers c. Société
ICCO, in Rev. Arb., 1990, 880; giurisprudenza svizzera costante (che, però, sembra negare
che possano rilevare come vizio ex art. 190, c. 2o, lett. a) le cause di ricusazione eventualmente concordate dalle parti, ATF 11 maggio 1992, consid. 2 d/dd, ASA Bull. 1992, 381; cfr.
con la soluzione elaborata per il caso in cui l’impugnazione del lodo avvenga per una causa
di ricusazione, non eccepita nel corso della procedura perché non conosciuta dalla parte, ATF
4P.188/2001, consid. 2 e), 15 ottobre 2001, cit.). La verifica dell’indipendenza e dell’imparzialità deve essere effettuata guardando ai principi costituzionali come sviluppati dalla giurisprudenza, secondo ATF 4P.539/2008, 19 febbraio 2009. Anche nell’ordinamento svizzero
sono ritenute censurabili, come motivo di irregolare composizione del tribunale arbitrale, le
parzialità conosciute dopo la chiusura del procedimento e la partecipazione di un arbitro ricusato alla deliberazione del lodo, SCHWARTZ - KONRAD, The New Vienna Rules, 23(4) Arb.
Int. 612 nota 46 (2007).
(83) App. Paris, Société Commercial Agraris Hermanos Lucena c. Société Transgrain France, 12 dicembre 1996, in Rev. Arb., 1998, 698, nota a seguire Bureau (la corte
d’appello sembra ammettere la rilevanza di tale motivo di annullamento in un caso in cui una
delle parti in arbitrato aveva ignorato una circostanza tale da giustificare la ricusazione dell’arbitro, non potendo cosı̀ esercitare il diritto alla ricusazione); in un obiter anche App. Paris, 12 novembre 1998, Société civile financière Azzaro et autres c. consorts Cattan, cit.
(84) Inter alia, Cass. 16 marzo 1998, Qatar cit.; App. Paris, 23 marzo 1995, cit.; in
dottrina CLAY, L’arbitre, Paris, 2000, 373; DEVOLVÉ, Challenge of Arbitral Awards in French
Cours d’Appel, in French Arbitration Law and Practice: A Dynamic Civil Law Approach to
International Arbitration, Kluwer, 2009, 245 s. (cfr. FOUCHARD, GAILLARD, GOLDMAN, International Commercial Arbitration, cit., 958, secondo cui « given that the concepts of dignity and
impartiality are highly subjective, in our view they should not be treated as a public policy
requirement distinct from the principles of due process and equality of the parties »). In sede
di riconoscimento di un lodo straniero, la parzialità dell’arbitro è stata ritenuta rilevante come
violazione dell’ordine pubblico, da Cass. Excelsior Film TV c. UGC-PH, in Rev. Arb., 1999,
255, con nota di FOUCHARD. Le corti nazionali hanno rifiutato di riconoscere il lodo per violazione dell’ordine pubblico in ragione della parzialità dell’arbitro, raramente, in circostanze
di particolare ed evidente gravità, v. nell’ordinamento svizzero Affoltern am Albis Court of
first instance, 23 YBCA 754 (1998).
(85) Inter alia App. Paris, Société Annahold BV et D. Frydman c. L’Oréal et autres,
9 aprile 1992, in Rev. Arb., 1996, 483 (rapporti tra arbitro e parte, ignorati dalla controparte
esistevano già al tempo della stipulazione del compromesso che conteneva la designazione
dell’arbitro); App. Paris, 12 novembre 1998, Société civile financière Azzaro et autres c. consorts Cattan, in Rev. Arb., 1999, 374 (ammette, in astratto, la possibile rilevanza del vizio
della parzialità come motivo di nullità dell’accordo arbitrale per vizio del consenso, pur rigettando in concreto la censura per mancata tempestiva contestazione nel corso del procedimento).
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essere censurata attraverso i generici motivi tipizzati dall’art. 829
c.p.c. (86), in particolare il vizio di irregolare costituzione del tribunale arbitrale (art. 829, comma 1, n. 2). Soltanto l’organo giudicante
che sia — appaia — imparziale e indipendente è, infatti, regolarmente costituito, e, dunque, investito del potere di rendere una decisione vincolante per le parti (87). A contrario, non è regolarmente
composto il tribunale di cui faccia parte un arbitro che risulti aver
sposato la posizione di una parte per motivi diversi dalla fondatezza
delle pretese e delle argomentazioni discusse nel processo (88), o la
(86) In sede di impugnazione non si ha un controllo del provvedimento del presidente del tribunale o dell’istituzione, ma l’accertamento dell’asserita parzialità dell’arbitro.
La parte potrebbe, dunque, addurre nuovi elementi, diversi da quelli presentati in sede di ricusazione, a sostegno della censura (nei limiti in cui ciò non l’allegazione di una nuova censura non tempestivamente eccepita). Anche la giurisprudenza svizzera ritiene che il giudice
dell’impugnazione accerta, liberamente, se le circostanze invocate integrino il vizio di irregolare costituzione del tribunale arbitrale (da ultimo, 4A.539/2008, 19 febbraio 2009, consid.
3.1; v. anche ATF 11 maggio 1992, consid. 2 d/dd, ASA Bull. 1992, 381; ATF 128 III 330
consid. 2.2 disponibile sul sito internet http://www.polyreg.ch/d/informationen/
bgeleitentscheide; ATF 118 II 359 consid 3b citato da TSCHANZ, Indépendance des arbitres en
droit suisse, in Rev. Arb., 2000, 523, 535, ATF 4P.4/2007, consid. 3.2, 26 settembre 2007, disponibile sul sito http://jumpcgi.bger.ch).
(87) Cass. 8 febbraio 2007, n. 2774, applicando la normativa previgente, ha, invece,
ritenuto che il riesame del contenuto dell’ordinanza debba essere suscitato impugnando il
lodo per violazione di regola di diritto (art. 829, comma 2; attuale art. 829, comma 3), e negandone la controllabilità ex art. 829, comma 1, nn. 2 e 3.
(88) L’apparente parzialità dell’arbitro è criterio rilevante per l’annullamento del
lodo in numerosi ordinamenti stranieri. Il Tribunale Federale svizzero verifica il vizio di irregolare costituzione del tribunale arbitrale guardando all’« apparence de partialité ou dépendence » dell’arbitro (4A.539/2008, 19 febbraio 2009, consid. 3.2; 4P. 4/2007, 26 settembre 2007, consid. 3.2; applicando gli stessi criteri da applicare in sede di ricusazione BGE
111 1a 72). Cosı̀, ad esempio, ha ammesso che « des fautes de procédure ou une décision
materiellement erronée ne suffısent pas à fonder l’apparence de prévention chez un arbitre
sauf erreurs particulièrement graves ou répétées qui constitueraient une violation manifeste
de ses obligations », 4P.196/2003, consid. 3.1). Cosı̀ nell’ordinamento inglese è stato ritenuto
viziato da serious irregularity per apparent bias il lodo pronunciato da un arbitro che aveva
contattato telefonicamente un teste (Norbrook laboratories Ltd v. A Tank Moulson Chemplant
Ltd [2006] EWHC 1055 (Comm.), ma anche il lodo pronunciato da un tribunale arbitrale di
cui faceva parte un arbitro che aveva agito come avvocato in una precedente procedura in
cui erano state mosse serie accuse nei confronti di un teste chiave della procedura pendente
(ASM Shipping Ltd v. TTMI Ltd of England [2005] EWHC 2238). La giurisprudenza francese ha applicato lo stesso criterio per ricusazione e annullamento in Société Annahold c.
L’Oréal, in Rev. Arb., 1986, 483, v. supra nota 85. Nell’ordinamento britannico, ha ritenuto
l’apparent partiality criterio per la rimozione dell’arbitro ex sez. 24(1) e per l’impugnazione
del lodo per serious irregularity ex sez. 68, Rustal v. Gill & Duffs, QB Comm. Ct., Lloyds
Rep. [2000] vol. 1, 18; ASM Shipping Ltd of India v. TTMI Ltd of England [2006] EWCA
Civ. 1341, 14 (contra, ritenendo rilevante nell’impugnazione ex sez. 68, l’actual bias, Hussman (Europe) Ltd v. Pharaon [2002] 16 aprile 2002, para 50, disponibile su kluwerarbitra-
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cui imparzialità sia posta ragionevolmente in dubbio da circostanze
obiettive (fra cui la sua stessa condotta). In questa valutazione il giudice dell’impugnazione sarà nella posizione privilegiata di poter verificare il vizio guardando all’intera procedura ed alla complessiva
condotta dell’arbitro.
Come motivi di irregolare costituzione del tribunale arbitrale
potrebbero, quindi, essere addotti: i) le cause di ricusazione previste
dall’art. 815 c.p.c., già contestate e definite in corso di procedura (89)
(fra cui, dunque, anche l’eventuale interesse dell’arbitro nella soluzione della controversia) (90); ii) violazioni del principio di imparzialità/indipendenza non riconducibili a tali motivi, purché tempestivamente eccepite nel corso della procedura (ex art. 829, comma 1, n. 2
e, analogicamente, art. 829, comma 2); iii) motivi sub i) e ii) ignorati dalla parte, pendente arbitrato (91); iv) motivi venuti in esistenza
quando il rimedio della ricusazione non era più esperibile dalle parti.
Sembrerebbe, inoltre, possibile far valere come vizio di irregolare
costituzione del tribunale arbitrale la partecipazione alla deliberazione del lodo di un arbitro ricusato con successo, ma non anche la
partecipazione alla procedura di un arbitro nominato in sostituzione
tion.com). Nell’ordinamento tedesco soltanto casi di parzialità e dipendenza particolarmente
severe rilevano ai fini della irregolare costituzione del tribunale arbitrale in sede di impugnazione (NASCIMENTO - ABT, Constitution of Arbitral Tribunal, § 1036, cit., 222) e effettivamente
incidenti sulla decisione (§ 1059, comma 1, lett. d)), prevalendo altrimenti il principio della
definitività del lodo (analogamente in sede di riconoscimento ed esecuzione dei lodi stranieri,
KROLL, Commentary on the German Arbitration Law, Charter VIII, Recognition and Enforcement of awards, § 1061 - Foreign awards, in Arbitration in Germany, cit., 547).
(89) In questo senso CONSOLO, Elasticità convenzionale della disciplina della imparzialità dell’arbitro, cit., 442, testo e nota 5; contra sembra GIOVANNUCCI ORLANDI, Sub articolo 815, in Arbitrato, cit., 289. NELA, Sub art. 815, in Le recenti riforme del processo civile,
cit., 1710, negando la trasformazione dei motivi di ricusazione in motivi di impugnazione,
ammette l’impugnazione del lodo in due casi: quando il difetto di imparzialità sia riconducibile a dolo dell’arbitro (ex art. 395, n. 6) e quando l’arbitro abbia un interesse diretto nella
causa tale da porlo nella condizione di parte (ex art. 829, comma 1, n. 2).
(90) Circostanza censurabile ex art. 395, n. 6, secondo CONSOLO, Elasticità convenzionale, cit., 445.
(91) La giurisprudenza straniera ha spesso richiesto che l’ignoranza, pendente arbitrato, della causa di ricusazione non sia rimproverabile alla parte (i.e. il motivo di ricusazione
non fosse conoscibile usando un’appropriata, ragionevole, diligenza, Tribunale Federale svizzero 4P.176/2008, 28 settembre 2008, consid. 3.3), ponendo alle parti un obbligo di intraprendere ragionevoli indagini per verificare la possibile esistenza di motivi di ricusazione
(ATF 4A.528/2007, 4 aprile 2008, negando, inoltre, che il motivo di ricusazione scoperto
successivamente possa giustificare una revisione ex art. 137, 140 e 143 OG). Analogamente
esclude la censurabilità di vizi conoscibili usando una « reasonable diligence » la giurisprudenza britannica, Rustal v. Gill & Duffus, cit., 20.
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dell’arbitro erroneamente ricusato (salvo, ovviamente, il caso in cui
l’arbitro sostituto appaia egli stesso parziale). L’erronea ricusazione
non sembrerebbe, infatti, determinare un’invalidità del lodo, mancando, in genere, un diritto della parte a che la controversia sia decisa dall’arbitro ingiustamente ricusato (salvo, forse, nell’ipotesi in
cui le parti avessero congiuntamente scelto e nominato l’arbitro nell’accordo compromissorio).
È stato, inoltre, prospettato che la parzialità dell’arbitro possa
rilevare ex art. 829, comma 1, n. 9: il contraddittorio — pur se formalmente rispettato — non sarebbe, infatti, sostanzialmente assicurato da un arbitro, non equidistante dagli interessi in conflitto, che
decidesse per motivi diversi dalle risultanze processuali (92). Contro
tale possibilità, si è rilevato che l’art. 829, comma 1, n. 9, garantisce
unicamente la facoltà delle parti « di esporre le proprie ragioni ed
argomentazioni e di replicare su quelle altrui », una facoltà che potrebbe essere garantita anche di fronte ad un arbitro « fazioso, partigiano e magari corrotto » (93).
Al di là dell’ovvia considerazione che la parzialità dell’arbitro
deve poter essere censurata ex n. 9, art. 829, ogniqualvolta il favore
verso una delle parti si sia manifestato (anche) in una violazione formale del contraddittorio (impartiality implies fairness), i limiti di
censurabilità della parzialità come vizio del contraddittorio sembrano
dover essere identificati in funzione della ratio sottesa al principio.
Se il contraddittorio è lo strumento attraverso cui il legislatore attua
la parità delle parti ed il diritto di difesa, il suo rispetto richiede che
il tribunale prenda in considerazione le allegazioni, le argomentazioni, le prove o richieste di prova introdotte dalle parti e rilevanti ai
fini della decisione. Se una trascuratezza dell’arbitro dovuta a errore
o a malinteso potesse essere sanzionata come violazione del contraddittorio in senso sostanziale, per quale motivo non dovrebbe poter
essere consentita la censura della trascuratezza causata da parzialità?
Attraverso l’art. 829, comma 1, n. 9, sembrerebbe, dunque, possibile
(92) Ex pluribus, FAZZALARI, Ancora sull’imparzialità dell’arbitro, in questa Rivista,
1998, 1, 4); e recentemente, LUISO, Il nuovo articolo 832 c.p.c., cit., 355.
(93) CONSOLO, Elasticità convenzionale, cit., 445, nt. 11; TARZIA, Assistenza, cit.;
ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’arbitrato amministrato, cit., 1007, nota 75
(che prospetta la possibilità di un’impugnazione per violazione dell’ordine pubblico processuale). Anche la giurisprudenza francese tende a ritenere che il contraddittorio richieda
« seulement que les parties aient été mises de débattre contradictoirement des moyens invoquées et des pièces produites », inter alia, App. Paris, 12 gennaio 1996, Qatar, cit.
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censurare la parzialità concretizzatasi nell’aver l’arbitro favorito uno
dei litiganti, violando l’uguaglianza delle parti e il diritto di difesa.
L’accoglimento della censura richiederà ovviamente che la violazione sia specificamente circostanziata e non genericamente contestata. Scarse possibilità di successo, sembrano, invece, destinati ad
avere — salvo palesi abnormità — tentativi di ravvisare una parzialità degli arbitri nella discutibile valutazione dei mezzi di prova da
questi compiuta: il principio dell’eguaglianza delle parti e del contraddittorio non sembrano, infatti, poter divenire lo strumento per la
verifica del modo in cui l’arbitro ha apprezzato gli elementi di prova
a sua disposizione.
Lo spazio di rilevanza della violazione del principio di imparzialità nell’ambito di una censura di contrarietà di ordine pubblico
sembra, infine, limitato, essendo subordinato non soltanto all’ammissibilità della rilevanza dell’ordine pubblico processuale come motivo
di impugnazione, ma anche agli stretti limiti cui questo rimedio deve
soggiacere (residualità rispetto alle altre censure e l’esistenza di una
deviazione tale dai principi fondamentali che il procedimento non
possa essere considerato un giusto e contraddittorio processo).
8. In conclusione, la ratio e la disciplina della ricusazione
sembrano suggerire che le parti possano sostituire il meccanismo di
ricusazione giudiziale con meccanismi convenzionali di ricusazione.
L’accertamento della parzialità dell’arbitro, valutata dal presidente
del tribunale o dall’istituzione, sembra essere dal legislatore riservato
al giudizio di impugnazione del lodo. I rapporti tra ricusazione amministrata e giudiziale sarebbero, quindi, risolti, nel nostro ordinamento, secondo un modello in grado di contemperare esigenze di efficienza della procedura arbitrale, di garanzia dell’integrità del procedimento, con esigenze di economia processuale. Non diversamente
dalle migliori esperienze straniere, l’ordinamento italiano darebbe
piena attuazione alla volontà espressa dalle parti con la scelta di un
arbitrato amministrato, evitando la possibilità di ricusazioni multiple
e parallele, con le loro inevitabili ricadute sul rapporto di fiducia fra
arbitri e parti; garantirebbe attraverso la ricusazione giudiziale dell’arbitro, azionabile in mancanza di un equivalente meccanismo convenzionale, la tempestiva reazione ad un potenziale vizio nel corso
della procedura; assicurerebbe, infine, un’efficace tutela avverso violazioni del principio di imparzialità dell’arbitro attraverso la possibi281
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lità di suscitare il pieno accertamento del vizio in sede di impugnazione del lodo.
In this work the Author examines the topic of the relations between judicial
and institutional means of challenges of arbitrators, performing a comparative
analysis of the Italian system based on the method of the “parallel ways”. First of
all she recalls that such method, if construed in the sense of deeming that the
mechanism provided for by article 815 of the Italian Code of Civil Procedure cannot be derogated, seems to be too restrictive, besides representing a remote example in the international context.
Hence, the Author proposes a different interpretation of the norms in question, whereby the parties would be free to decide to defer the decision on arbitrators’ challenges to a different mechanism. Indeed, in that case the impartiality of
the arbitrators could be actionable in the proceedings for annulment of the award.
In particular, the Author criticizes the mandatory nature of the procedure
provided for by article 815.
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L’intervento volontario
e la chiamata in causa
dei terzi nel processo arbitrale
MARCO GRADI (*)
1. Novità legislative e vecchi problemi. — 2. I valori in gioco nell’intervento
volontario. — 3. ... e nell’intervento coatto. — 4. L’intervento volontario del
terzo originario compromittente. — 5. Le facoltà d’intervento dei terzi estranei al patto compromissorio. — 6. Intervento volontario e arbitrato societario. — 7. La chiamata in arbitrato. — 8. La partecipazione del terzo successiva alla nomina degli arbitri.
1. Con l’introduzione dell’articolo 816-quinquies, commi 1 e
2, c.p.c., la disciplina dell’arbitrato comune si è recentemente arricchita di un’apposita norma concernente l’intervento dei terzi nel giudizio arbitrale, volta a regolare, in particolare, l’intervento volontario e la chiamata in causa (1), cosı̀ finalmente prendendo posizione su
(*) Dottore di ricerca nell’Università di Roma « La Sapienza ».
(1) La nuova disposizione, introdotta dall’art. 22 della Legge 2 febbraio 2006, n. 40,
ha, come noto, stabilito che « l’intervento volontario o la chiamata in arbitrato di un terzo
sono ammessi solo con l’accordo del terzo e delle parti e con il consenso degli arbitri » e che
« sono sempre ammessi l’intervento previsto dal secondo comma dell’art. 105 e l’intervento
del litisconsorte necessario »; in argomento, cfr. MARENGO, Processo arbitrale, in questa Rivista, 2005, 803 ss.; BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, in BOVE, CECCHELLA, Il nuovo
processo civile, Milano, 2006, 76 ss.; LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, Milano,
2006, 291 ss.; OCCHIPINTI, Il procedimento arbitrale, in CATTANI, D’ALESSANDRO, OCCHIPINTI,
SANTI, VECCHIO, Il nuovo processo arbitrale, Milano, 2006, 90 ss.; ODORISIO, Prime osservazioni alla nuova disciplina dell’arbitrato, in Riv. dir. proc., 2006, 262 s.; RUBINO SAMMARTANO,
Il diritto dell’arbitrato, V ed., Padova, 2006, 445 ss. (ora VI ed., Padova, 2010, I, 394 ss.);
VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, II ed., Torino, 2006, 109 ss. (ora III ed., Torino,
2010, 119 ss.); PUNZI, Luci e ombre nella riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2007, 419 s.; LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, III ed., Milano, 2007, 122 ss.;
NELA, in Le recenti riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, II, Bologna, 2007, sub
art. 816-quinquies, 1750 ss.; G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., a cura di Carpi, Bologna, 2007,
sub art. 816-quinquies, 452 ss.; RUFFINI, voce Arbitrato (dir. proc. civ.), in Il diritto. Enciclopedia giuridica, Milano, 2007, I, 563 s.; SALVANESCHI, in Riforma del diritto arbitrale, a cura
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di un tema che, in mancanza di una specifica regolamentazione, aveva
profondamente diviso la dottrina tanto in riferimento all’ammissibilità
delle diverse figure di intervento, quanto in relazione alla partecipazione successiva dei terzi alla formazione del collegio arbitrale.
Come è noto, infatti, l’opinione tradizionale era nel senso di
escludere qualsiasi possibilità di intervento nel giudizio arbitrale del
terzo estraneo alla convenzione d’arbitrato, ritenendo a tal fine necessario, in nome del fondamento volontaristico dell’arbitrato, l’accordo di tutti i soggetti coinvolti (2) e, secondo alcuni, in ragione
dell’esigenza di salvaguardare lo spatium deliberandi degli arbitri,
anche il consenso di questi ultimi (3).
Più di recente, tuttavia, tale orientamento era stato messo in discussione da una parte della dottrina, sulla base di differenti percorsi
argomentativi, sostanzialmente in nome delle esigenze di tutela del
terzo, anche se, fra i vari autori, restavano profonde differenze in ordine alle forme di intervento che in concreto dovevano ritenersi ammesse e, specialmente, al riguardo della possibilità del terzo di provocare un allargamento dell’oggetto del processo arbitrale (4).
di MENCHINI, in Nuove leggi civ. comm., 2007, sub art. 816-quinquies, 1257 ss.; ID., in La
nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, Padova, 2010, sub art. 816-quinquies,
254 ss.; GRADI, in Codice di procedura civile commentato, III ed., a cura di CONSOLO e LUISO,
Milano, 2007, sub art. 816-quinquies, 5894 ss. (e ora nella IV ed., diretta da CONSOLO, Milano, 2010, sub art. 816-quinquies, III, 1854 ss.); ID., in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale e internazionale, a cura di BENEDETTELLI, CONSOLO e RADICATI DI BROZOLO, Padova, 2010, sub art. 816-quinquies, 216 ss.; MURONI, La pendenza del giudizio arbitrale, Torino, 2008, 153 ss.; BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 143 ss.; CAVALLINI,
L’arbitrato rituale, Milano, 2009, 157 ss.; LIPARI, in Commentario alle riforme del processo
civile, a cura di BRIGUGLIO e CAPPONI, III, 2, Padova, 2009, sub art. 816-quinquies, 768 ss.
(2) In proposito, sotto la vigenza del codice di rito del 1865, v. CODOVILLA, Del compromesso e del giudizio arbitrale, Torino, 1899, 363; MORTARA, Manuale della procedura civile, IX ed., Torino, 1929, II, 617; analogamente, alla luce del codice vigente, CARNACINI,
voce Arbitrato rituale, in Novissimo Digesto it., Torino, 1958, I, 2, 895 s.; REDENTI, voce
Compromesso (diritto processuale civile), in Novissimo Digesto it., Torino, 1959, III, 802;
VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, Milano, 1971, 547 ss.; PIERGROSSI, Tutela del terzo nell’arbitrato, in Studi in onore di Enrico Tullio Liebman, Milano, 1979, IV,
2569 ss.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, I, 564 ss.; TARZIA, L’intervento di terzi nell’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2004, 349 ss.
(3) In tal senso, v. CARNACINI, Arbitrato rituale, cit., 895; PUNZI, Disegno sistematico
dell’arbitrato, cit., I, 568; DELLA PIETRA, Il procedimento, in Diritto dell’arbitrato, a cura di
VERDE, Milano, 2005, 246; contra, PIERGROSSI, Tutela del terzo nell’arbitrato, cit., 2571; G.F.
RICCI, in Arbitrato, a cura di CARPI, Bologna, 2001, sub art. 816, 323 s., secondo i quali, a tal
fine, non sarebbe invece necessario il beneplacito degli arbitri.
(4) E.F. RICCI, Il lodo rituale di fronte ai terzi, in Riv. dir. proc., 1989, 654 ss., spec.
676 ss., secondo il quale, in considerazione degli effetti che il lodo rituale di diritto è capace
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In tale situazione, si era peraltro opportunamente precisato
come il problema dell’ammissibilità dell’intervento o della chiamata
in arbitrato non avesse comunque ragione di porsi, rispetto alla comune volontà dei paciscenti, nelle ipotesi in cui il terzo fosse stato
parte del patto compromissorio (5); e si era altresı̀ rilevato come, in
tali circostanze ed in ogni altro caso in cui il litisconsorzio successivo dovesse ritenersi ammissibile, si ponesse in maniera preponderante la necessità di garantire, fra l’altro, la libera e paritaria partecipazione di tutte le parti alla nomina degli arbitri (6).
Si tratta, nel complesso, di articolate questioni che sono peraltro destinate a riproporsi con la medesima tensione interpretativa in
tutti quegli ordinamenti — come ad esempio quello portoghese (7) o
quello brasiliano (8) — che, analogamente a quanto avveniva in Ita-
di produrre nella sfera dei terzi (da escludersi però nel caso in cui gli arbitri siano chiamati
a decidere secondo equità), non sarebbe possibile trasformare l’accordo compromissorio in
« un onere preliminare della difesa » per lo meno quando l’intervento del terzo non comporti
un mutamento dell’oggetto della lite; FAZZALARI, Le difese del terzo rispetto al lodo rituale,
in questa Rivista, 1992, 613 ss.; ID., L’arbitrato, Torino, 1997, 57 ss., secondo cui la necessità di tutelare il terzo estraneo al patto compromissorio porterebbe ad ammettere anche gli
interventi innovativi, con la sola esclusione di quello litisconsortile; LUISO, Diritto processuale civile, III ed., Milano, 2000, IV, 341; BOVE, Processo arbitrale e terzi, in questa Rivista, 1995, 792 s., secondo i quali, ove il terzo non allarghi l’oggetto del giudizio arbitrale, gli
originari compromittenti non avrebbero alcun motivo per rifiutarne l’intervento; similmente,
CECCHELLA, Disciplina del processo nell’arbitrato, in questa Rivista, 1995, 230; ZUCCONI
GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, Milano, 2004, 740 ss., secondo cui
il fondamento dell’ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum avrebbe determinato a favore
del terzo titolare di un diritto dipendente destinato ad essere inciso dagli effetti del lodo
emesso inter alios la nascita di un diritto potestativo ad aderire alla convenzione d’arbitrato
altrui, con la conseguenza che al terzo sarebbe stato sempre possibile l’intervento non innovativo, senza alcuna possibilità dei paciscenti di impedirne l’accesso.
(5) Per tale precisazione, che non sempre si rinviene negli autori che si occupano del
tema, v., in particolare, RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, in questa Rivista, 1995, 661
ss.; ID., Il giudizio arbitrale con pluralità di parti, in Studi in onore di Luigi Montesano, Padova,
1997, I, 682 s.; SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, Padova, 1999, 261 ss.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 564 ss.; e già CARNACINI, Arbitrato rituale, cit., 895, testo e nota 8; VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, cit., 547 ss.
(6) Il problema era stato, in particolare, sottolineato da RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 663 ss.; ID., Il giudizio arbitrale con pluralità di parti, cit., 678 ss., ove
anche l’indicazione di ulteriori questioni connesse alle modalità di svolgimento del processo
arbitrale litisconsortile.
(7) In proposito, v. COSTA e SILVA, A intervenção de terceiros no direito português,
in COSTA e SILVA, GRADI, A intervenção de terceiros no procedimento arbitral voluntário nos
direitos português e italiano, in corso di pubblicazione in Revista brasileira de arbitragem e
pubblicato in edizione provvisoria, Montecatini Terme, 2009, 11 ss.
(8) In argomento, v. ATHOS GUSMÃO CARNEIRO, Intervenção de terceiros, XVIII ed.,
São Paulo, 2009, 78 ss.; HUMBERTO THEODORO JÚNIOR, Arbitragem e terceiros. Litisconsórcio
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lia prima della recente riforma, mantengano tutt’ora il più assoluto
silenzio al riguardo, cosı̀ lasciando « all’interprete l’intera responsabilità delle sue costruzioni » (9).
Tuttavia, come subito vedremo in dettaglio, tale addenda legislativa, che accomuna la legge arbitrale italiana a quella di altri ordinamenti europei che già in precedenza si erano espressamente occupati dell’istituto (10), non ha invero affrontato tutti i problemi (ad
esempio, ha taciuto al riguardo della nomina degli arbitri in caso di
litisconsorzio successivo), ma ne ha addirittura generati di nuovi, ai
quali si tenterà dunque di fornire un’adeguata soluzione nel prosieguo.
Va inoltre ricordato, sia pure incidentalmente, che la riforma
della legge arbitrale del 2006 non costituisce il primo tentativo del
legislatore italiano di regolare l’istituto; infatti, già con l’art. 34,
comma 2, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, limitatamente alla materia
societaria, ossia proprio in quella materia in cui strutturalmente sorgono ipotesi di litisconsorzio, si era espressamente prevista la possibilità dell’intervento volontario dei terzi, nonché della chiamata in
causa e dell’intervento iussu arbitrorum dei soci (11).
fora de pacto arbitral. Outras intervenções de terceiros, in Revista forense, 2002, n. 362,
41 ss.
(9) L’efficace espressione è di E.F. RICCI, Il lodo rituale di fronte ai terzi, cit., 678.
(10) Ci si riferisce, in particolare, all’art. 1696 bis del Code judiciaire del Belgio, a
norma del quale l’intervento volontario e la chiamata in causa del terzo sono, in ogni caso,
subordinati all’esistenza di « une convention d’arbitrage entre le tiers et les parties en
litige », nonché all’« assentiment du tribunal arbitral qui statue à l’unanimité »; nonché all’art. 1045, comma 3, del Wetboek van Burgerlijke Rechtsvordering olandese, secondo cui
l’intervento volontario del terzo in arbitrato o la chiamata in garanzia ad opera delle parti del
procedimento arbitrale non è possibile se il terzo non sia vincolato o non aderisca alla convenzione di arbitrato mediante patto scritto concluso con le parti; per osservazioni in proposito e per ulteriori riferimenti di diritto comparato, v. SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità
di parti, cit., 59 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, cit.,
737 ss.
(11) In argomento, cfr. BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato societario, in questa
Rivista, 2003, 33 ss.; BOVE, L’arbitrato nelle controversie societarie, in Giust. civ., 2003, II,
484 ss.; CARPI, Profili dell’arbitrato in materia di società, in questa Rivista, 2003, 425 ss.;
CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1295; LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 718 ss.; E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato
societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 530 ss.; RUFFINI, La riforma dell’arbitrato societario, in Corr. giuridico, 2003, 1533 s.; ID., Il nuovo arbitrato per le controversie societarie,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 523 ss.; TARZIA, L’intervento di terzi nell’arbitrato societario, cit., 353 ss.; LUISO, in Il nuovo processo societario, a cura di LUISO, Torino, 2006, sub
art. 35, 580 ss.; BOCCAGNA, in Commentario dei processi societari, a cura di ARIETA e DE
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Peraltro, proprio al fine di favorire la partecipazione successiva
del terzo all’arbitrato, il legislatore societario aveva stabilito che le
clausole arbitrali contenute negli statuti delle società dovessero, a
pena di nullità, rimettere ad un terzo la nomina del collegio arbitrale,
cosı̀ appunto rimuovendo qualsiasi complicazione in ordine alla nomina successiva degli arbitri (12).
2. Il problema fondamentale dell’intervento volontario in arbitrato di un soggetto estraneo alla convenzione arbitrale deriva in
sostanza dalla difficoltà di contemperare due opposte esigenze, entrambe di evidente rilievo costituzionale.
In primo luogo, infatti, vi è senz’altro un’imprescindibile necessità di evitare che l’ingresso nella vicenda arbitrale altrui ad opera
del terzo finisca per comprimere l’autonomia negoziale delle parti
originarie e, quindi, per imporre a quest’ultime, in mancanza di una
loro rinuncia alla giurisdizione statale, un’ingiustificata violazione
del right to access a court, riconosciuto dall’art. 24, comma 1, Cost.,
nonché dall’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (13).
È infatti innegabile che le parti della convenzione arbitrale abbiano rinunciato alla giurisdizione offerta dallo Stato soltanto in riferimento alle controversie oggetto del patto compromissorio e non
ad altre, nonché soltanto nei confronti delle parti compromittenti e
non nei confronti di altri soggetti, avendo altresı̀ interesse alla più
pronta definizione della lite arbitrale senza dover subire un ampliamento oggettivo o soggettivo che ne determinerebbe senz’altro un
rallentamento (14); e come, conseguentemente, l’obbligazione as-
SANTIS, Torino, 2007, II, 940 ss.; BIAVATI, in Arbitrati speciali, cit., sub Arbitrato societario:
art. 35, 123 ss.
(12) Come chiariva la stessa Relazione al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, « la designazione del collegio da parte di terzi imparziali » è diretta allo scopo di « rendere possibile,
senza pregiudizio delle concrete possibilità di difesa, l’intervento volontario di terzi nel procedimento arbitrale »; in dottrina, v. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., 715 s.;
ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale nelle società dopo la riforma, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2003, 956 ss.; BONATO, L’indipendenza e l’imparzialità degli arbitri alla luce
della riforma dell’arbitrato societario, in Davanti al giudice. Studi sul processo societario,
a cura di LANFRANCHI e CARRATTA, Torino, 2005, 478 ss.
(13) V., in particolare, TARZIA, L’intervento di terzi nell’arbitrato societario, cit., 354;
RUFFINI, La riforma dell’arbitrato societario, cit., 1534; BONATO, L’indipendenza e l’imparzialità degli arbitri, cit., 480 ss.
(14) Per quest’ultimo rilievo, v. G.F. RICCI, Arbitrato, cit., sub art. 816, 321.
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sunta agli arbitri con l’accettazione del mandato ricevuto dalle parti
operi esclusivamente nei loro confronti e nei limiti di quanto dedotto
in arbitrato, senza che possano assumere soverchio rilievo le pretese
dei terzi (15).
Sennonché, quando il rapporto oggetto del giudizio arbitrale
coinvolga gli interessi di una pluralità di soggetti, si pone al tempo
stesso l’esigenza — che pure non può dirsi estranea all’assetto dei
valori costituzionali (16) — di offrire ai terzi adeguate possibilità difensive di fronte alla controversia arbitrale altrui, in considerazione
dell’efficacia ultra partes del lodo o comunque degli effetti che la
pronuncia degli arbitri può comunque produrre nei loro confronti.
Si è molto discusso, in dottrina, sull’esistenza e sulla qualità di
tali effetti, ossia se il terzo debba o meno risentire in via « riflessa »
dell’irretrattabilità e dell’incontrovertibilità della decisione arbitrale
resa inter alios (17), o se, invece, non ne venga pregiudicato solo alla
stregua di un negozio, id est soltanto sul piano degli effetti « naturali » derivanti dall’intreccio delle relazioni sostanziali (18). Un tale
(15) V., per tutti, PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 564 ss., spec. 568;
come era stato rilevato anche da CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, cit.,
1295, la possibilità dell’intervento dei terzi senza il consenso degli arbitri, in caso di allargamento oggettivo o anche solo soggettivo dell’arbitrato, escluderebbe il riconoscimento della
« natura squisitamente privatistica dell’obbligazione » assunta dagli arbitri nei confronti dei
paciscenti.
(16) Lo riconosce, ad esempio, ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, cit., 732, testo e nota 572.
(17) In tal senso, E.F. RICCI, Il lodo rituale di fronte ai terzi, cit., 664 ss.; FAZZALARI,
L’arbitrato, cit., 59, nonché 92 ss., secondo cui tali effetti seguirebbero però soltanto all’omologazione del lodo da parte del giudice statale; MENCHINI, Sull’attitudine al giudicato sostanziale del lodo non più impugnabile non assistito dall’omologa giudiziale, in questa Rivista,
1998, 779; più in generale, per la tesi dell’equiparazione del lodo alla sentenza giurisdizionale, v. ancora MENCHINI, Il giudicato civile, II ed., Torino, 2002, 388 ss., a cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti; per una comparazione con il diritto francese, nel quale si ritiene
che la sentence arbitrale abbia un’efficacia « riflessa » (« opposabilité ») nei confronti dei
terzi, v. BONATO, La nozione e gli effetti della sentenza arbitrale nel diritto francese, in Riv.
dir. proc., 2006, 682 s.
(18) Per tale impostazione, che deriva dalla tesi della negozialità dell’arbitrato di
SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, 1931, passim, spec. 165 ss., v. RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 648 ss.; ID., Il giudizio arbitrale con pluralità di
parti, cit., 678 ss.; PUNZI, « Effıcacia di sentenza » del lodo, in questa Rivista, 2005, 832 ss.
Peraltro, anche chi, come CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, VII ed.,
II, Torino, 2010, 162, ammette la piena efficacia vincolante ed irretrattabile del lodo fra le
parti, finisce per escluderla nei confronti dei terzi; nello stesso senso già MATTIROLO, Trattato
di diritto giudiziario civile italiano, V ed., I, Torino, 1902, 736, secondo cui il terzo potrà
sempre respingere il lodo altrui con l’omologo dell’exceptio rei inter alios judicatae; e, assai significativamente LUISO, Diritto processuale civile, V ed., Milano, 2009, IV, 411 ss., il
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acceso dibattito — che investiva, a ben vedere, anche il problema
primigenio della natura giurisdizionale o negoziale dell’arbitrato,
nonché, ancora più a monte, quello degli stessi limiti soggettivi della
cosa giudicata (19) — aveva quindi finito per condurre una parte
della dottrina (quella che accedeva alla prima delle teorie sopra menzionate) ad ammettere, anche in deroga al principio consensualistico
del fenomeno arbitrale, una qualche forma di intervento del terzo
pregiudicato in maniera irreversibile dal lodo altrui (20).
A ciò si era elegantemente replicato osservando come, al contrario, un tale effetto vincolante del lodo nei confronti dei terzi,
equivalente all’autorità della cosa giudicata, semmai presupponesse,
e non invece provocasse, il potere di intervento e come, in realtà, il
dovuto rispetto delle esigenze di protezione del terzo potesse essere
raggiunto proprio accettando l’opposta tesi della natura contrattuale
del lodo, con la conseguenza che, in un eventuale e successivo giudizio, le parti del processo arbitrale non avrebbero potuto paralizzare
o comprimere le facoltà difensive del terzo invocando contro quest’ultimo l’irretrattabilità dell’accertamento contenuto nella decisione
degli arbitri (21).
Come è evidente, una tale opinione — la quale non può dirsi
quale osserva, proprio attraverso il prisma dell’arbitrato, che « l’efficacia del lodo nei confronti dei terzi » equivale in realtà, a quella « di una sentenza o di un negozio stipulato fra
le parti »; quest’ultima soluzione sembra accolta anche nell’ordinamento brasiliano, come risulta da CARLOS ALBERTO CARMONA, Arbitragem e processo, II ed., São Paulo, 2007, 69, che
limita l’effetto di coisa julgada del lodo alle parti del giudizio arbitrale.
(19) Su tale dibattuta questione, in questa sede non si può che rinviare all’ordinata
esposizione di MENCHINI, Il giudicato civile, cit., 171 ss., spec. 214 ss. Tuttavia, come osserva
assai perspicuamente ODORISIO, Prime osservazioni alla nuova disciplina dell’arbitrato, cit.,
267 s., se si ritenesse, come parte della dottrina ritiene, che l’incontrovertibilità del giudicato
alieno non si estenda automaticamente ai terzi, non ci sarebbe « materia di discussione »; per
la tesi, sia pure assai controversa, dell’efficacia « naturale » della sentenza nei confronti dei
terzi, v. LIEBMAN, Autorità ed effıcacia della sentenza, Milano, 1935, 115 ss.; e, per una rielaborazione critica, LUISO, Principio del contraddittorio ed effıcacia della sentenza verso
terzi, Milano, 1981, 80 ss.
(20) E.F. RICCI, Il lodo rituale di fronte ai terzi, cit., 676 ss.; FAZZALARI, L’arbitrato,
cit., 58 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, cit., 730 ss.;
contra, però, G.F. RICCI, in Arbitrato, cit., sub art. 816, 321, secondo cui, invece, il fatto che
il terzo subisca gli effetti del lodo non giustifica comunque la sua legittimazione all’intervento, ma solo la necessità di prevedere un rimedio successivo; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, IV ed., Milano, 2005, 425, il quale, « pur riconoscendo la sensibilità ad
esigenze di pari trattamento del terzo nell’arbitrato rispetto al giudizio di cognizione ordinaria », ravvisa comunque nella natura consensuale dell’arbitrato un ostacolo insuperabile all’intervento dei terzi estranei alla convenzione arbitrale.
(21) RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 657 ss.
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superata nonostante che l’art. 824-bis c.p.c. abbia adesso attribuito al
lodo « gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria » (22) — riduce sensibilmente l’esigenza di consentire al terzo
una difesa « preventiva »; tuttavia, ciò non esclude affatto che questi
possa ricevere un pregiudizio dall’attività arbitrale svolta inter alios,
vuoi in ragione dell’esecutività che può essere attribuita al lodo a seguito dell’exequatur, vuoi per effetto della stessa efficacia vincolante
del dictum arbitrale fra le parti (23), e che sia quindi ragionevole (e
finanche necessario) disporre strumenti idonei a rimuovere, o anche
a prevenire, siffatto pregiudizio (24).
Nella scelta dei più opportuni strumenti per la tutela del terzo
— che non può in realtà dirsi immune da delicate opzioni di valore
e che si pone con intensità innegabilmente diversa a seconda che si
aderisca all’una o all’altra teoria — l’ordinamento può, in astratto,
ammettere l’intervento volontario nel giudizio arbitrale in corso; può
consentire l’intervento del terzo nel giudizio di impugnazione per
(22) V., in proposito, le riflessioni di PUNZI, « Effıcacia di sentenza » del lodo, cit.,
819 ss., spec. 832 ss.; D’ALESSANDRO, Riflessioni sull’effıcacia del lodo arbitrale rituale alla
luce dell’art. 824-bis c.p.c., in questa Rivista, 2007, 529 ss., spec. 544 ss.; G.F. RICCI, Ancora
sulla natura e sugli effetti del lodo arbitrale, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde,
Napoli, 2010, 699 ss.; LUISO, L’art. 824-bis c.p.c., in questa Rivista, 235.
(23) Cosı̀, anche dopo la riforma del 2006, PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, II ed., Torino, 2010, III, 265; più in generale, v. CHIZZINI, L’intervento adesivo,
II, Padova, 1992, 655 ss., secondo il quale il pregiudizio del terzo deriva non solo dall’efficacia « riflessa » dell’accertamento contenuto nella decisione altrui, ma va anche ravvisato
negli effetti esecutivi, costitutivi, ovvero di fattispecie della pronuncia resa inter alios, a cui
sono soggetti i titolari di situazioni soggettive dipendenti.
(24) Lo stesso PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 100 s., nonché 272;
ID., Il processo civile, cit., III, 266 ritiene che, avverso gli effetti pregiudizievoli del lodo,
debba essere comunque accordato al terzo uno strumento di tutela idoneo a rimuoverne successivamente la portata; analogamente, l’esigenza di protezione successiva dei terzi è fortemente avvertita, in maniera irrinunciabile, anche dalla dottrina civilistica in riferimento a
quegli atti negoziali idonei a produrre effetti pregiudizievoli nei confronti dei terzi: in proposito, per ampi ragguagli, ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi,
cit., 710 ss.
Quanto alla possibilità di prevenire tali conseguenze, secondo RUFFINI, L’intervento nel
giudizio arbitrale, cit., 659, la tensione costituzionale per la configurazione praeter legem di
un intervento del terzo non compromittente dovrebbe essere stemperata, atteso che, se gli effetti del lodo fossero paragonabili a quelli di un negozio, il terzo non avrebbe « titolo per
partecipare al processo arbitrale allo stesso modo in cui non potrebbe pretendere di partecipare all’attività negoziale delle parti »; per un’ipotesi in cui ai terzi è riconosciuta la facoltà
di partecipare anche ad un’attività puramente contrattuale, non necessariamente oggetto di un
litisconsorzio necessario, v. però il nuovo art. 768-quater c.c. in combinato disposto con l’art.
768-sexies c.c., e, in proposito, il commento di CHECCHI, Patto di famiglia, in Persona, famiglia e successioni, a cura di CUFFARO, Milano, 2006, 647 ss.
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nullità eventualmente proposto da uno dei paciscenti (25); e, infine,
offrirgli il rimedio dell’opposizione di terzo avverso la pronuncia degli arbitri (26), ovvero, in mancanza di un’apposita impugnativa, consentirgli di far valere l’inefficacia del lodo, in via di azione o di eccezione, in un diverso giudizio, eventualmente richiedendo anche le
opportune misure cautelari e il risarcimento dell’eventuale pregiudizio subito (27).
Il compito di selezionare le diverse facoltà difensive del terzo
rispetto all’arbitrato può però oggi dirsi assolto, sia pure « a puntate », dal nostro legislatore, dapprima con la novella del 1994 (che
ha introdotto il rimedio dell’opposizione del terzo avverso il lodo) e
poi con le più recenti riforme del 2003 sull’arbitrato societario e del
2006 sull’arbitrato di diritto comune (che, come si è ricordato, hanno
diversamente disciplinato l’intervento nel giudizio arbitrale), cosı̀
che l’interprete non ha più motivo di interrogarsi in ordine all’esistenza o meno di tali possibili rimedi, ma deve invero concentrarsi
sui numerosi problemi applicativi che sorgono dalle nuove disposizioni, ovvero procedere, ove occorra, ad una verifica di compatibi-
(25) In tal senso, sia pure sotto il vigore della legge arbitrale anteriore al 1994, v.
Cass. 25 settembre 1984, n. 4820, in Foro it., 1985, I, 816 ss.; App. Roma, 24 gennaio 1991,
in Giur. merito, 1992, 317 ss., con nota di RUFFINI, Intervento principale del terzo nel giudizio d’impugnazione per nullità del lodo arbitrale; contra, però, Cass., 11 febbraio 1988, n.
1465, in Giust. civ., 1988, I, 1508 ss.; Cass., Sez. un., 17 dicembre 1998, n. 12622, in Arch.
civ., 1999, 448 ss.
(26) Tale facoltà è stata in Italia introdotta ad opera dell’art. 23 della Legge 5 gennaio 1994, n. 5, che ha modificato l’art. 831 c.p.c., sul quale v. LUISO, Le impugnazioni del
lodo dopo la riforma, in questa Rivista, 1995, 30 ss.; SASSANI, L’opposizione del terzo al lodo
arbitrale, in questa Rivista, 1995, 199 ss.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II,
271 ss.; Cass., 28 maggio 2003, n. 8545, in Giust. civ., 2004, I, 401 ss.; ma già in precedenza
l’esperibilità di un tale rimedio era ritenuta possibile da una parte della dottrina: cosı̀ E.F.
RICCI, Il lodo rituale di fronte ai terzi, cit., 674 ss., che, in particolare, reputa consentito al
terzo dipendente anche il rimedio dell’opposizione ordinaria ex art. 404, comma 1, c.p.c.;
FAZZALARI, Le difese del terzo rispetto al lodo rituale, cit., 615 ss.; PUNZI, Arbitrato. I) Arbitrato rituale e irrituale, in Enc. giur., II, Roma, 1988, 35; contra, PIERGROSSI, Tutela del terzo
nell’arbitrato, cit., 2574 ss., il quale però precisa che doveva essere consentita l’opposizione
del terzo contro la sentenza resa al termine del giudizio di impugnazione per nullità del lodo
arbitrale.
(27) In tal senso, sotto il vigore del codice di rito del 1865, v. MATTIROLO, Trattato di
diritto giudiziario civile italiano, cit., I, 736; MORTARA, Commentario del codice e delle leggi
di procedura civile, III, IV ed., Milano, 1923, 198 s.; e, alla luce del nuovo codice, ma prima
della riforma del 1994, CARNACINI, Arbitrato rituale, cit., 911; VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, cit., 549; Cass., 11 febbraio 1988, n. 1465, cit.; Cass., 3 agosto
1992, n. 9225, in Rep. Foro it., 1992, voce Arbitrato, n. 119; Cass., Sez. un., 17 dicembre
1998, n. 12622, cit.
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lità delle scelte compiute dal legislatore rispetto ai valori costituzionali sopra richiamati.
3. Anche con riferimento alla chiamata in arbitrato del terzo
ad opera dei paciscenti, si presenta l’esigenza di realizzare un analogo contemperamento fra diverse esigenze e principi, anche se, in
questo caso, il rispetto del carattere convenzionale dell’arbitrato si
contrappone alla necessità di tutelare, non già il terzo, bensı̀ la posizione delle parti del giudizio arbitrale e, precisamente, quella del litigante che abbia interesse, per ragione di garanzia o di comunanza
di causa, a realizzare un simultaneus arbitratus con il terzo.
Tale interesse si fonda, soprattutto, sull’opportunità di rendere
pienamente opponibile al soggetto estraneo il contenuto della pronuncia arbitrale, in modo tale da evitare che la decisione resa in un
successivo o parallelo giudizio possa prescindere dal risultato del
lodo e che, quindi, si possa eventualmente giungere a pronunce contrastanti con lo stesso, per le quali, secondo le vigenti disposizioni
del nostro sistema processuale civile, non vi sarebbe peraltro nessuna
possibilità di coordinamento successivo.
In proposito, è assai banale osservare che, qualora la parte interessata alla chiamata del terzo abbia concluso la convenzione arbitrale soltanto con alcuni dei soggetti legati dal rapporto plurilaterale,
non possa poi dolersi dell’inevitabile trattazione separata dei giudizi,
che la stessa ha voluto. Il discorso cambia però completamente
quando il terzo risulti invece vincolato alla convenzione d’arbitrato,
nel qual caso non può evidentemente essere esclusa a priori la possibilità di chiamarlo in arbitrato, anche contro la sua volontà o senza
il consenso delle altre parti del giudizio arbitrale (28). Ragionando
diversamente, infatti, con l’arbitrato si verificherebbe un ingiustificato frazionamento della tutela giurisdizionale in danno della parte
che, oltre a non avervi in alcun modo rinunciato, mantiene un innegabile interesse a realizzare il cumulo soggettivo.
(28) Per l’ammissibilità della chiamata del terzo vincolato all’accordo compromissorio, v. già RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 662; PUNZI, Disegno sistematico
dell’arbitrato, cit., I, 564 s.; contra, anche se non esplicitamente, CARNACINI, Arbitrato rituale, cit., 896; FAZZALARI, Le difese del terzo rispetto al lodo arbitrale, cit., 621 s.; PIERGROSSI, Tutela del terzo nell’arbitrato, cit., 2570 ss.; SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., 483 s.;
VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, cit., 548.
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4. Come si è accennato in precedenza, non sempre si verifica
una necessaria coincidenza fra le parti dell’accordo compromissorio
e quelle del giudizio arbitrale, ben potendo accadere che la domanda
di arbitrato venga proposta soltanto nei confronti di alcuni dei compromittenti, come peraltro oggi conferma chiaramente l’art. 816quater, comma 1, c.p.c., a norma del quale « qualora più di due parti
siano vincolate dalla stessa convenzione d’arbitrato, ciascuna parte
può convenire tutte o alcune delle altre nel medesimo procedimento
arbitrale » (29).
Ecco quindi che risulta non poco sorprendente, e per certi versi
problematica, la nuova disposizione contenuta nel successivo art.
816-quinquies, comma 1, c.p.c., a norma della quale l’intervento volontario viene tout court subordinato all’accordo delle parti e al consenso degli arbitri, con la conseguenza che, secondo i primi commentatori, tale duplice approvazione dovrebbe essere raggiunta anche nel caso in cui le parti del giudizio arbitrale siano già vincolate
dal patto compromissorio nei confronti dell’interveniente (30).
Una tale interpretazione letterale non appare però convincente,
né ragionevole, per lo meno in riferimento al requisito dell’accordo
delle parti, atteso che la manifestazione di volontà degli originari
compromittenti è, in realtà, già contenuta nella stessa convezione arbitrale stipulata con il terzo interveniente. Di conseguenza, deve ritenersi che non occorra un ulteriore assenso delle parti del giudizio
arbitrale (31), le quali, a tutela dell’affidamento degli altri compromittenti, non potrebbero certo opporsi all’ingresso del terzo, al quale
sarà dunque consentita qualsiasi forma di intervento (intervento principale o ad excludendum, intervento adesivo autonomo o litisconsor-
(29) Su questa nuova disposizione, anch’essa introdotta con la novella del 2006, v.,
fra le molte indicazioni possibili, SALVANESCHI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub
art. 816-quater, 235 ss.; POLINARI, in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art.
816-quater, III, 1838 ss.
(30) In tal senso, NELA, in Le recenti riforme del processo civile, cit., II, Bologna,
2007, sub art. 816-quinquies, 1751; v. anche MARENGO, Processo arbitrale, cit., 804; CORSINI,
Prime riflessioni sulla nuova riforma dell’arbitrato, cit., 518, i quali peraltro non mancano
di rilevare l’irragionevolezza della disciplina; in senso dubitativo, v. invece SALVANESCHI, in
La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 816-quinquies, 257 ss.
(31) LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, cit., 291; G.F. RICCI, in Arbitrato,
II ed., cit., sub art. 816-quinquies, 455; PUNZI, Il processo civile, cit., III, 217; BOVE, La giustizia privata, cit., 146; LIPARI, in Commentario alle riforme del processo civile, cit., III, 2,
sub art. 816-quinquies, 777 ss.
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tile, intervento adesivo dipendente o ad adiuvandum, intervento del
litisconsorte necessario pretermesso).
Quanto al requisito dell’adesione del collegio arbitrale, si dovrebbe giungere ad analoghe conclusioni, in quanto non pare ragionevole che l’interesse degli arbitri a conservare il mandato ricevuto
e a non subire l’aggravamento dello stesso a seguito dell’intervento
possa prevalere sulla volontà originaria dei compromittenti di consentire un arbitrato con pluralità di parti. In altre parole, non pare
possibile attribuire agli arbitri un potere che nemmeno spetta alle
parti che hanno provveduto alla loro nomina; e ciò proprio nel rispetto del rapporto che lega il collegio arbitrale ai paciscenti, ossia
al fine di evitare che un eventuale rifiuto si risolva, per loro tramite,
in una violazione dello stesso patto compromissorio a cui le parti del
giudizio arbitrale sono innegabilmente vincolate, dovendo al contrario ritenersi che il corretto adempimento del mandato arbitrale imponga loro di accettare l’allargamento soggettivo (32).
5. Per quanto concerne l’intervento volontario dei terzi estranei all’accordo compromissorio, la nuova disposizione prevista in
materia di arbitrato comune ha invece in generale affermato il principio, già ampiamente riconosciuto, secondo il quale l’ingresso del
terzo nel giudizio arbitrale pendente riposa innanzitutto sull’ampliamento della convenzione arbitrale già operante fra le parti compromittenti, imponendo altresı̀ la necessità, che in passato era invece
oggetto di discussione, anche del consenso del collegio arbitrale investito della controversia.
Tuttavia, accogliendo un’interpretazione già in passato sostenuta dalla dottrina, il legislatore italiano ha inoltre disposto una vistosa deroga al fondamento consensualistico dell’arbitrato, ammettendo in ogni caso la possibilità dell’intervento ad adiuvandum, che
sarà dunque ammissibile senza alcuna necessità di ottenere il preventivo consenso delle parti e degli arbitri (33).
In altre parole, il legislatore ha inteso scalfire l’autonomia ne-
(32) Per analoghe conclusioni, v. G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., cit., sub art. 816quinquies, 455; PUNZI, Il processo civile, cit., III, 217; LIPARI, in Commentario alle riforme
del processo civile, cit., III, 2, sub art. 816-quinquies, 784.
(33) MARENGO, Processo arbitrale, cit., 803 s.; ODORISIO, Prime osservazioni alla
nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 262 s.; VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit.,
119; G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., cit., sub art. 816-quinquies, 456.
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goziale delle parti in materia di arbitrato solamente sotto il profilo
meramente soggettivo, ritenendo opportuno consentire in ogni caso
l’accesso nel giudizio arbitrale ai soggetti titolari di situazioni soggettive dipendenti o altrimenti connesse che volessero sostenere le
ragioni di una delle parti in lite. In tal modo, con il limite del divieto
di modificare l’oggetto della controversia, la riforma ha quindi offerto uno strumento anticipato di tutela del soggetto rimasto estraneo
alla convenzione e al processo arbitrale, anche se non tutti i problemi
possono invero dirsi risolti, in quanto, oltre alla questione della deminutio di poteri processuali che la giurisprudenza talvolta riconosce
al terzo dipendente (34), l’effettività di detta tutela è in realtà condizionata dalla possibilità di incidere sulla composizione del collegio
arbitrale (35).
Va però notato, in senso favorevole, come la novità legislativa
abbia troncato tutte quelle discussioni che in passato ritenevano di
far dipendere l’ammissibilità dell’intervento in parola dall’estensione
e dalla qualità degli effetti della decisione arbitrale nei confronti dei
terzi (36), cosı̀ allineandone i presupposti con quelli ricavabili da una
più ampia lettura dell’art. 105, comma 2, c.p.c., nel quale una parte
della dottrina ravvisa ragionevolmente non solo le ipotesi in cui
l’accertamento contenuto nella decisione resa inter alios risulti vincolante ultra partes, ma anche quelle in cui il terzo dipendente subi-
(34) Sul complesso argomento, al quale non è qui possibile prestare la dovuta considerazione, v., in riferimento al processo statale, CHIZZINI, Privato e pubblico nella ripartizione dei ruoli processuali: i poteri dell’interveniente adesivo, in Riv. dir. civ., 1996, I, 352
ss., il quale giunge invece correttamente ad affermare la pienezza di poteri processuali da riconoscere al terzo intervenuto in via adesiva dipendente, fra cui, in particolare, quello di impugnazione autonoma della sentenza; per opportune precisazioni sul punto, v. COSTANTINO, La
pluralità di parti nel processo civile nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Diritto processuale civile e Corte costituzionale, a cura di FAZZALARI, Napoli, 2006, 194 s.
(35) In proposito, v. infra, § 8.
(36) Deve essere pertanto respinta la tesi, che vorrebbe riportare il dibattito su questioni ormai superate, secondo cui, anche alla luce della riforma, l’intervento ad adiuvandum
del terzo estraneo alla convenzione arbitrale dovrebbe essere consentito, anche contro la volontà dei paciscenti, solo a quei soggetti destinati ad essere incisi dagli effetti del lodo emesso
inter alios, ovvero soltanto a quei terzi che, se rimasti estranei al processo arbitrale, sarebbero legittimati a proporre contro il lodo l’opposizione di terzo revocatoria di cui all’art. 404,
comma 2, c.p.c.; in tal senso, BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 76; ID., L’arbitrato societario tra disciplina speciale e (nuova) disciplina di diritto comune, in Riv. dir.
proc., 2008, 947; ma, contra, NELA, in Le recenti riforme del processo civile, cit., sub art.
816-quinquies, II, 1754.
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sca un pregiudizio semplicemente in ragione degli effetti costitutivi,
esecutivi o di fattispecie derivanti dalla decisione (37).
Sempre sulla base dell’art. 816-quinquies, comma 2, c.p.c., anche l’intervento volontario del litisconsorte necessario pretermesso
estraneo al patto compromissorio deve oggi ritenersi ammissibile
senza la necessità di alcun consenso dei paciscenti o degli arbitri (38).
A tale soluzione era peraltro già pervenuta, attraverso un’interpretazione profondamente assiologica del dato normativo, una parte della
dottrina, la quale aveva appunto ritenuto insuperabile l’esigenza di
tutela del diritto al contraddittorio dello stesso litisconsorte pretermesso (39).
In verità, però, la regola della necessaria partecipazione di più
soggetti al processo non si giustifica soltanto in ragione della tutela
del terzo pretermesso, che pure potrebbe subire un pregiudizio dalla
decisione resa inter pauciores, ma appare diretta anche a consentire
la pronuncia di una sentenza « utile » (40). Per questa via, l’inter-
(37) In questo senso, v., in particolare, CHIZZINI, L’intervento adesivo, cit., II, 655 ss.;
ID., in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art. 105, I, 1188 ss., cui si rinvia anche per ulteriori richiami, fra cui, in particolare, CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale
civile, cit., II, 341 ss.; e già SEGNI, L’intervento adesivo, Roma, 1919, 207 ss.
(38) MARENGO, Processo arbitrale, cit., 802 s.; ODORISIO, Prime osservazioni alla
nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 262 s.; LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile,
cit., 292; SALVANESCHI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 816-quinquies,
261 s.
(39) In particolare, FAZZALARI, L’arbitrato, cit., 58 ss., ma v. anche la ricostruzione di
ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, cit., 733. Secondo RUFFINI,
L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 649 s.; ID., Il giudizio arbitrale con pluralità di parti,
cit., 681 s.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 569, invece, il litisconsorte necessario pretermesso non avrebbe potuto avvalersi della convenzione arbitrale contro il volere concorde dei compromittenti, ma ove fosse riuscito ad ottenere il consenso di una sola
delle parti, avrebbe avuto titolo all’intervento, in quanto, con la stipulazione del patto compromissorio, ciascun compromittente si sarebbe impegnato (beninteso, nei confronti degli altri contraenti, non del terzo) anche a consentire l’ingresso in giudizio di soggetti estranei
senza la cui partecipazione non si sarebbe potuti pervenire ad una decisione di merito; aderendo a questa soluzione, SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, cit., 274 s., testo e
nota 88, osservava peraltro come tale consenso avrebbe dovuto considerarsi implicito nello
stesso comportamento della parte compromittente che aveva dato inizio al processo arbitrale.
(40) Come è noto, il concetto di « utilità » della sentenza come criterio per stabilire
i casi della necessaria partecipazione al processo di una pluralità di parti era stato messo in
discussione dalla dottrina: v., ad esempio, CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile
italiano, V ed., Roma, 1956, I, 241 ss.; SATTA, Commentario al codice di procedura civile,
I, Milano, 1966, 362 ss. Per la riaffermazione del litisconsorzio necessario come istituto volto
ad evitare sentenze inutiliter data, v. però, per tutti, COSTANTINO, Contributo allo studio del
litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, 241 ss., il quale dedica un’ampia analisi all’individuazione delle ipotesi che, nell’ambito del diritto sostanziale, sono riconosciute come tali,
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vento del litisconsorte necessario sua sponte in deroga all’espressa
volontà dei paciscenti risponde anche al loro stesso interesse, in
nome del quale, dunque, appare ragionevole che le parti del giudizio
arbitrale non possano rifiutare, nei limiti di quanto già dedotto in arbitrato, la partecipazione volontaria del terzo, tanto più che la mancata integrazione del contraddittorio priverebbe di qualsiasi utilità lo
stesso ricorso all’arbitrato (41).
Quanto alla questione del consenso del collegio arbitrale ai fini
della partecipazione del litisconsorte necessario, già prima della riforma, lo si riteneva ininfluente, sulla base della considerazione che
gli arbitri, avendo già accettato di dirimere la controversia oggetto
del compromesso, sarebbero tenuti ad adempiere al mandato ricevuto
anche accettando l’intervento dei litisconsorti necessari pretermessi,
proprio al fine di adempiere correttamente al mandato ricevuto (42).
In relazione alle altre forme di intervento volontario di cui all’art. 105, comma 1, c.p.c. (intervento ad excludendum e intervento
litisconsortile), si deve invece applicare il principio generale riconosciuto dalla nuova disposizione, la quale subordina l’intervento del
terzo all’accordo delle parti e al consenso del collegio arbitrale, a tutela dell’autonomia privata dei litiganti e della posizione degli arbitri di fronte ad un possibile ampliamento dell’oggetto della controversia, cosı̀ segnando un preciso e ragionevole contemperamento fra
le loro esigenze e quelle di tutela del terzo estraneo alla convenzione
arbitrale.
Benché la disposizione appaia a prima vista cristallina, sorgono
in realtà non trascurabili problemi applicativi, il primo dei quali concerne la forma attraverso cui possa validamente esprimersi l’accordo
delle parti; in assenza di un’esplicita precisazione del legislatore, non
avendo peraltro cura di notare che, in taluni casi, « la “necessità” del litisconsorzio si coglie
sul piano positivo, non ontologico; essa indica un sollen, non un müssen » (510 ss.): in tal
modo il dissidio interpretativo è coerentemente ricondotto ad unità, in quanto, se è vero che
nelle scelte del legislatore non può talvolta dirsi completamente estranea una valutazione di
opportunità circa le esigenze difensive del terzo, è altrettanto vero che quell’esigenza viene
trasferita, proprio attraverso il meccanismo dell’« utilità » della sentenza, in capo alle parti
che intendano proporre l’azione.
(41) Per l’« inutilità » della pronuncia arbitrale resa in assenza del litisconsorte necessario pretermesso, v., in particolare, SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, cit.,
262 ss.
(42) Cosı̀ PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 569; contra, invece, CECCHELLA, Il processo e il giudizio arbitrale, in L’arbitrato, a cura di Cecchella, Torino, 2005,
178.
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è chiaro infatti se tale accordo, comportante una vera e propria integrazione dell’accordo compromissorio, necessiti della forma scritta
nel rispetto dell’art. 807 c.p.c. (43) o se invece sia possibile anche
un’accettazione tacita dell’intervento.
La soluzione del problema dovrebbe però rinvenirsi, almeno da
un punto di vista pratico, nell’art. 817, comma 2, seconda parte (da
intendersi, in realtà, come comma 3), c.p.c., in combinato disposto
con l’art. 829, comma 1, n. 1, c.p.c. (44), il quale esclude che il lodo
possa essere impugnato per un difetto inerente alla convenzione arbitrale qualora il vizio non sia stato sollevato dalla parte interessata
nella prima difesa utile (45).
Secondariamente, in riferimento al consenso degli arbitri, è incerto se, a tal fine, occorra l’unanimità dei membri del collegio, o se
invece basti la semplice maggioranza (46), ma il dubbio dovrebbe es-
(43) In tal senso, era orientato PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 568
s.; sulla forma scritta della convenzione arbitrale, anch’essa interessata dalla recente riforma,
v., per tutti, RUFFINI, in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art. 807, III, 1581
ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 807, 41 ss.; in
particolare, per la possibilità della formazione dell’accordo compromissorio in sede arbitrale,
attraverso lo scambio di missive provenienti dalle parti e contenenti la proposta e l’accettazione del deferimento della controversia ad arbitri, v. Cass., 2 febbraio 2007, n. 2256, in questa Rivista, 2007, 237 ss.; Cass., 22 febbraio 2000, n. 1989, in Foro it., 2001, I, 1352 ss.
(44) Sull’errore tipografico che ha generato un imperfetto coordinamento delle disposizioni, v. E.F. RICCI, L’arbitrato e il tipografo legislatore (elogio della « rientranza »), in Riv.
dir. proc., 2006, 631 s.
(45) Con riferimento all’ipotesi descritta nel testo, v. CONSOLO, MURONI, Contratti
collegati con clausole arbitrali identiche: sempre unica la potestà (e cosı̀ il processo) arbitrale?, in Corr. giuridico, 2008, 1274, secondo i quali « non si assisterebbe tanto al sopravvenuto perfezionamento di un compromesso » quanto più « ad un ampliamento della potestas judicandi degli arbitri su una controversia astrattamente compromettibile, ma non compromessa in concreto, a fronte della mancata tempestiva eccezione dell’altra parte ex art. 817
c.p.c. ». Più in generale, sulla diposizione richiamata, che dovrebbe in realtà essere applicata
al caso di specie per identità di ratio, si rinvia a RUFFINI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 817, 281 ss., spec. 287 ss.; LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 778 ss.; BOVE, Aspetti problematici della nuova disciplina della convenzione d’arbitrato rituale, in Giusto proc. civ., 2006, n. 2, 65 ss., spec. 72; ID., Ancora sui
rapporti tra arbitro e giudice statale, in questa Rivista, 2007, 364 ss.; BOCCAGNA, in Codice
di procedura civile commentato, cit., sub art. 817, III, 1901 ss., secondo i quali il fenomeno
deve essere peraltro ricondotto ad un meccanismo di « preclusione processuale », senza che
possa dare origine ad una sorta di « compromesso tacito »; per quest’ultima possibilità, v. invece MOTTO, In tema di clausola compromissoria: forma, oggetto, rilevanza del comportamento delle parti, in questa Rivista, 2006, 99 ss., spec. 105 s.
(46) Nel primo senso, LA CHINA, L’arbitrato, III ed., cit., 122, il quale ritiene peraltro che non possa nemmeno farsi ricorso a rimozioni o sostituzioni degli arbitri dissenzienti;
viceversa, per la tesi secondo cui sarebbe invece sufficiente anche il consenso prestato a
maggioranza dal collegio arbitrale, NELA, in Le recenti riforme del processo civile, cit., sub
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sere a mio avviso risolto nella prima direzione, trattandosi di un’accettazione che implica, tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto
quello soggettivo, una modifica dell’incarico arbitrale, che non può
che competere singolarmente a ciascun arbitro (47).
Nel merito della scelta del legislatore, la subordinazione dell’intervento ad excludendum all’accordo delle parti e al consenso
degli arbitri è stata peraltro giudicata inopportuna, sulla base della
considerazione che non sarebbe accettabile ostacolare l’intervento
del terzo titolare di un diritto autonomo e incompatibile, in ragione
del fatto che il lodo emesso inter alios potrebbe comunque pregiudicarlo anche se solo in via di fatto (48).
Pur non trascurando tali rilievi, si deve però prendere atto del
contemperamento voluto dal legislatore fra il fondamento consensuale dell’arbitrato e il diritto di azione e di difesa del terzo titolare
di un diritto autonomo e incompatibile, la cui tutela resterà dunque
affidata, in caso di disaccordo, alla possibilità dell’intervento nell’eventuale giudizio di impugnazione per nullità, al rimedio successivo costituito dall’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., nonché a
quello, che pare senz’altro il più efficace, di instaurare immediatamente un giudizio dinnanzi all’autorità statale, coinvolgendo anche
le parti del giudizio arbitrale (49).
L’inammissibilità, senza il consenso delle parti e degli arbitri,
dell’intervento litisconsortile semplice non pone invece insuperabili
questioni, né tantomeno era mai stato revocato in dubbio dalla dottrina, considerato che, in caso di connessione basata sul titolo o sulart. 816-quinquies, 1752; LIPARI, in Commentario alle riforme del processo civile, cit., III, 2,
sub art. 816-quinquies, 783 s. Come si è ricordato, l’art. 1696 bis del Code judiciaire belga
rimuove ogni dubbio in proposito, richiedendo a tal fine l’unanimità degli arbitri.
(47) Secondo PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 568 s. sarebbe peraltro necessario anche il rispetto delle forme previste, oggi regolate dal novellato art. 813,
comma 1, c.p.c.
(48) In tal senso, MARENGO, Processo arbitrale, cit., 804; in passato, già FAZZALARI,
L’arbitrato, cit., 59, secondo cui, peraltro, doveva ritenersi legittimato all’intervento anche il
falsamente rappresentato nella stipula dell’accordo compromissorio; contra, per tutti, PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 569 s.
(49) La connessione esistente fra questa causa con quella compromessa in arbitrato
non esclude, peraltro, la potestas judicandi degli arbitri in ordine alla domanda a loro sottoposta, ai sensi dell’art. 819-ter c.p.c. (in cui è stato trasfuso il contento del precedente art.
819-bis c.p.c.); su tale disposizione, che ha eliminato la regola di matrice giurisprudenziale
della vis attractiva del giudice ordinario, cosı̀ superando i frequenti « abusi » a cui essa si
prestava « da parte di litiganti desiderosi di sottrarsi agli effetti dell’accordo compromissorio », v. RUFFINI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 819-ter, 378 ss., ove anche ampi richiami.
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l’identità di questioni, il diritto del terzo è del tutto indipendente rispetto alla res in judicium deducta e che, quindi, non si pone alcuna
necessità (ma solo opportunità) di consentire il simultaneus arbitratus (50), mentre, qualora le diverse situazioni soggettive siano legate
da un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, al terzo è comunque
aperta la possibilità di effettuare liberamente l’intervento nella forma
adesiva dipendente.
6. Le soluzioni accolte dal legislatore in riferimento all’arbitrato comune risultano nettamente diverse rispetto a quanto è stato
previsto in tema di arbitrato societario, laddove, in base all’art. 35,
comma 2, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, l’intervento volontario dei
terzi (anche non vincolati dalla clausola arbitrale contenuta nello
statuto) è ammesso tout court senza la necessità di ottenere il consenso dei compromittenti e degli arbitri e, soprattutto, senza operare
alcun distinguo fra le diverse forme di intervento.
Tuttavia, al riguardo, una parte della dottrina ha apportato
un’interpretazione correttiva, ritenendo che l’intervento volontario
dei terzi estranei alla clausola statutaria debba ritenersi consentito, in
caso di disaccordo, soltanto in via adesiva dipendente, in quanto la
possibilità di compiere interventi innovativi si porrebbe in contrasto,
oltre che con la natura del rapporto che lega le parti agli arbitri, con
la garanzia costituzionale dell’accesso alla giurisdizione sancita nell’art. 24 Cost. da riconoscere agli originari compromittenti (51).
Sotto il profilo della tutela degli arbitri, la scelta legislativa non
coinvolge profili di incostituzionalità, ma pone semmai soltanto la
necessità di consentire loro la rinuncia all’incarico (52) e di risolvere
(50) MARENGO, Processo arbitrale, cit., 804; FAZZALARI, L’arbitrato, cit., 61; G.F.
RICCI, in Arbitrato, cit., sub art. 816, 322; CAVALLINI, L’arbitrato rituale, cit., 159 s.
(51) In tal senso, TARZIA, L’intervento di terzi nell’arbitrato societario, cit., 353 s.,
nonché 357; RUFFINI, La riforma dell’arbitrato societario, cit., 1534; ID., Il nuovo arbitrato
per le controversie societarie, cit., 526 s.; ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale
rispetto ai terzi, cit., 513 ss.; LA CHINA, L’arbitrato, III ed., cit., 248; anche LUISO, Appunti
sull’arbitrato societario, cit., 719 s. ritiene di dover limitare la possibilità dell’intervento del
terzo estraneo alla clausola compromissoria alla forma ad adiuvandum; similmente, BOVE,
L’arbitrato societario tra disciplina speciale e (nuova) disciplina di diritto comune, cit., 948,
il quale, più in generale, rileva come, attraverso interpretazione adeguatrice sulla base dei
principi, i due modelli arbitrali possano essere portati su di un piano di (quasi) perfetta convergenza.
(52) V. ancora TARZIA, L’intervento di terzi nell’arbitrato societario, cit., 357, il quale
appunto sembra ritenere che l’intervento innovativo del terzo possa costituire « giustificato
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la questione dei compensi di coloro che abbiano fatto uso di tale facoltà oppure che vengano sostituiti per motivi di sopravvenuta incompatibilità o per consentire la formazione di un nuovo collegio (53).
Viceversa, dal punto di vista degli originari compromittenti, la
questione è sicuramente assai delicata. La disposizione prevista in
materia societaria dovrebbe però essere valutata — per lo meno in
relazione agli interventi principali, i quali si giustificano per il pregiudizio che il terzo potrebbe ricevere, sia pure non irretrattabilmente, dalla decisione resa inter alios — tenendo anche in considerazione la garanzia, di pari valore costituzionale, dell’azione e della
difesa del terzo, anch’essa innegabilmente oggetto dell’art. 24 Cost.
Per tale via, si potrebbe osservare come la deroga alla giurisdizione
statale non possa essere compiuta con l’assoluta pretesa di escludere,
magari intenzionalmente, la possibilità di una trattazione congiunta
di eventuali cause connesse; se cosı̀ fosse, infatti, ai soggetti titolari
di tali azioni verrebbe infatti riconosciuta una tutela certamente « impoverita » a causa della perdita di una facoltà difensiva che sarebbe
invece senz’altro consentita davanti al giudice statale, e ciò in conseguenza della sola volontà altrui di compromettere in arbitrato specifiche controversie ovvero quelle inerenti ad un certo rapporto.
Ovviamente non si nega che a ciò si possa giungere sulla base
del contemperamento delle opposte esigenze, come in effetti avviene,
con soluzione di indubbio equilibrio, nell’arbitrato di diritto comune;
ma laddove il legislatore opti per una disciplina « aperta » dell’arbitrato, peraltro in relazione ad ipotesi in cui gli intrecci fra le posizioni sostanziali sono particolarmente intensi, non mi pare possibile
sbilanciare l’analisi costituzionale riconoscendo esclusivo rilievo all’autonomia negoziale delle parti (54).
motivo » di rinuncia all’incarico arbitrale in ragione dell’allargamento dell’oggetto del processo; in senso conforme, BOVE, L’arbitrato societario tra disciplina speciale e (nuova) disciplina di diritto comune, cit., 947 s.
(53) Una disposizione che si occupa dei compensi degli arbitri cessati è contenuta,
sebbene in riferimento alla riunione autoritativa di procedimenti arbitrali connessi, nell’art.
1046, comma 3, del Wetboek van Burgerlijke Rechtsvordering olandese, a norma del quale,
appunto, il presidente della corte distrettuale di Amsterdam (investito della decisione circa la
connessione) determina l’onorario per l’incarico svolto dagli arbitri il cui mandato è cessato
in ragione della riunione.
(54) Ritengono possibili gli interventi innovativi dei terzi estranei alla clausola statutaria, ma che facciano valere, anche in via innovativa, un diritto non estraneo a tale ambito: E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., 530, il quale osserva che, in ragione del-
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7. La nuova disciplina contenuta nell’art. 816-quinquies,
comma 1, c.p.c. subordina espressamente anche la chiamata in arbitrato all’accordo del terzo chiamato e delle altre parti del giudizio
arbitrale, nonché al consenso del collegio arbitrale, con la conseguenza che l’interprete potrebbe essere indotto a ritenere sempre necessaria la contemporanea ricorrenza di tutti i requisiti sopra menzionati (55), senza la possibilità di operare quella distinzione — in passato opportunamente segnalata dalla migliore dottrina — fra le ipotesi in cui il terzo chiamato sia vincolato al patto compromissorio e
quelle in cui vi risulti estraneo.
Tuttavia, per le medesime ragioni già in precedenza illustrate,
tale irragionevole soluzione deve essere respinta: non pare infatti che
sia necessario ottenere un ulteriore assenso del terzo chiamato o
delle parti del giudizio arbitrale, giacché tutti sono già vincolati, gli
uni nei confronti degli altri, dal patto compromissorio (56). Né tantomeno risulta configurabile un potere degli arbitri di opporsi alla
chiamata proprio in pregiudizio degli interessi e della volontà di uno
di quei soggetti nei cui confronti sono tenuti ad adempiere al mandato arbitrale; senza considerare che il loro consenso potrebbe perall’influenza che la decisione arbitrale può avere su una pluralità di soggetti, non si può non
consentire, al fine del rispetto del principio del contraddittorio, « l’intervento dei terzi interessati esattamente negli stessi termini, in cui esso sarebbe possibile davanti all’autorità giudiziaria »; FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in questa Rivista, 2002,
445; CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, cit., 1295; CARPI, Profili dell’arbitrato in materia di società, cit., 426; BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato societario, cit.,
33 s., il quale, pur avanzando perplessità, riconosce alla disposizione « una sua razionalità »;
ID., in Arbitrati speciali, cit., sub Arbitrato societario: art. 35, 124 s.; SALVANESCHI, L’arbitrato
societario, in Arbitrato, ADR, conciliazione, a cura di Rubino Sammartano, Bologna, 2009,
217 s.
(55) In tal senso, v. LIPARI, in Commentario alle riforme del processo civile, cit., III,
2, sub art. 816-quinquies, 785 ss.; sembra esprimersi in senso analogo anche CORSINI, Prime
riflessioni sulla nuova riforma dell’arbitrato, cit., 517 s., benché l’autore non manchi di rilevare l’inopportunità della soluzione; cfr. altresı̀ SALVANESCHI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 816-quinquies, 257 ss., la quale solleva tuttavia dubbi in proposito.
(56) G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., cit., sub art. 816-quinquies, 457, nota 14; ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e arbitrato, in I collegamenti negoziali e le
forme di tutela, Milano, 2007, 94 ss.; BOVE, L’arbitrato societario tra disciplina speciale e
(nuova) disciplina di diritto comune, cit., 948 s.
In senso diverso, v. però LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, cit., 292;
PUNZI, Il processo civile, cit., III, 217; LIPARI, in Commentario alle riforme del processo civile, cit., III, 2, sub art. 816-quinquies, 784 ss., secondo i quali il consenso del terzo chiamato sarebbe necessario anche quando, pur essendo assoggettato al patto compromissorio,
egli non abbia partecipato né sia stato messo in grado di partecipare alla nomina degli arbitri; sul problema, che riguarda, a mio avviso, non già l’ammissibilità della chiamata, bensı̀ la
facoltà del terzo di incidere sulla composizione del collegio arbitrale, v. infra, § 8.
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tro ritenersi, non solo dovuto, ma anche implicito in virtù della stessa
accettazione dell’incarico sulla base dell’accordo compromissorio
con pluralità di parti (57).
Tale preferibile interpretazione risulta in questo modo in linea
con quanto disposto in materia di arbitrato societario dall’art. 35,
comma 2, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, a norma del quale l’intervento coatto dei soci, ossia dei soggetti che sono già vincolati rispetto alla clausola statutaria, è consentito senza alcun bisogno di ottenere il consenso del chiamato o degli arbitri (58).
Viceversa, qualora il terzo non sia vincolato al patto compromissorio, è pacifico (cosı̀ come lo era in passato) che lo stesso non
possa essere chiamato in arbitrato senza il suo consenso, nemmeno
ai limitati fini della denuntiatio litis, in quanto è inconcepibile che un
soggetto rimasto estraneo all’accordo compromissorio possa risultare
costretto a partecipare in via coatta all’arbitrato, finendo cosı̀ per essere privato, contro la sua volontà, del diritto di accedere alla tutela
giurisdizionale davanti al giudice statale (59). La stessa conclusione
vale, senza alcun dubbio, anche nel caso in cui il terzo che si vorrebbe chiamare è un litisconsorte necessario estraneo alla convenzione arbitrale, il quale non può essere parimenti costretto, contro la
sua volontà, a partecipare al giudizio arbitrale (60).
La disposizione riformata ha inoltre espressamente affermato
(57) Esclude il rilievo della volontà degli arbitri in tale circostanza anche PUNZI, Il
processo civile, cit., III, 217.
(58) Nonostante il silenzio della legge, risulta possibile chiamare in arbitrato anche
gli altri soggetti vincolati alla clausola compromissoria, come la società, ovvero gli amministratori e i liquidatori, purché inseriti in detta clausola; in tal senso, v. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., 719; RUFFINI, La riforma dell’arbitrato societario, cit., 1534; BOVE,
L’arbitrato societario tra disciplina speciale e (nuova) disciplina di diritto comune, cit., 949;
BOCCAGNA, in Commentario dei processi societari, cit., sub art. 35, 941; in senso contrario,
BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato societario, cit., 34; ID., in Arbitrati speciali, cit., sub
Arbitrato societario: art. 35, 123 ss., secondo cui la possibilità dell’intervento andrebbe invece limitata soltanto ai soci.
(59) G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., cit., sub art. 816-quinquies, 457; LUISO, Diritto
processuale civile, V ed., cit., IV, 395; LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, cit.,
292; FAZZALARI, L’arbitrato, cit., 61 s.; RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 662;
Coll. arb., 27 gennaio 1994, in questa Rivista, 1995, 781 ss., con nota di BOVE, Processo arbitrale e terzi; Coll. arb., 24 febbraio 1993, in Arch. giur. op. pubbl., 1994, 538 ss.; Coll. arb.,
27 ottobre 1992, in Arch. giur. op. pubbl., 1994, 371 ss.; Coll. arb., 17 ottobre 1988, in Arch.
giur. op. pubbl., 1989, 580 ss.
(60) In senso conforme, G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., cit., sub art. 816-quinquies,
456; SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, cit., 272 s.; App. Roma, 26 giugno 1989,
in Rass. arb., 1990, 202 ss.
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che la chiamata del terzo estraneo al patto compromissorio, sia essa
innovativa o non innovativa, richiede, oltre al consenso degli arbitri (61), anche l’accordo di tutte le parti del processo arbitrale. Pertanto, secondo la lettera di questa disposizione, qualora uno dei paciscenti ottenga l’adesione del terzo (magari attraverso una diversa
convenzione d’arbitrato), ma non del suo contraddittore nel giudizio
arbitrale, la chiamata in arbitrato non potrebbe spiegare i suoi effetti.
Tale regola appare senz’altro giustificata nel caso in cui la parte
istante voglia promuovere contro il terzo una nuova domanda, la
quale non è appunto compresa nell’oggetto del patto compromissorio. La subordinazione al consenso dell’avversario potrebbe invece
determinare conseguenze irragionevoli nel caso in cui, proprio a seguito delle sue difese, sia sorta l’opportunità di coinvolgere il terzo
nell’arbitrato per estendergli (con chiamata non innovativa) l’efficacia della decisione, come potrebbe, ad esempio, accadere nel caso in
cui l’avversario abbia indicato il soggetto estraneo al processo arbitrale come il vero responsabile. In questo caso, il rifiuto della controparte del giudizio arbitrale di consentire la chiamata non innovativa del terzo (che la accetti o che non possa ad essa sottrarsi) non
pare in alcun modo meritevole di tutela e potrebbe essere risolto,
senza violare il fondamento consensuale dell’arbitrato, ritenendo che
l’accordo del paciscente sia implicito nella sua stessa strategia di difesa o, comunque, che non possa essere da questi negato in evidente
pregiudizio della controparte (62).
Un’altra ipotesi che avrebbe forse meritato una soluzione diversa rispetto a quella che pare imposta dalla lettera della legge riguarda il caso in cui, nel corso dell’arbitrato, una delle parti voglia
chiamare, sempre nella forma non innovativa, il terzo garante —
proprio o improprio — che accolga o non possa rifiutare la chiamata
(ad esempio perché vincolato, sulla base di un separato patto compromissorio, alla risoluzione arbitrale della lite soltanto nei confronti
della parte istante) (63), ma le altre parti dell’arbitrato non intendano
(61) Su tale consenso, in passato già ritenuto necessario da PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 568, si rinvia però ai dubbi applicativi già segnalati nel § 5.
(62) In tal senso, BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 77; simili ragionamenti potrebbero essere svolti, mutato ciò che si deve, in relazione alla posizione degli arbitri rispetto agli interessi della parte istante, sulla base del rapporto obbligatorio che lega l’una
agli altri.
(63) Per la possibilità della celebrazione di un unico arbitrato anche in presenza di
una pluralità di clausole compromissorie, v., anche se in riferimento a contratti operanti fra
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dare il loro consenso all’esplicarsi dell’intervento coatto (si pensi al
caso in cui l’appaltatore convenuto dal committente dell’opera voglia estendere l’arbitrato al subappaltatore per opporgli, attraverso
una chiamata adesiva dipendente, l’efficacia dell’accertamento contenuto nel lodo, ossia al fine di evitare che, in caso di sconfitta, questi possa successivamente sollevare l’exceptio litis malae gestae).
Anche in questa ipotesi, la necessità di ottenere l’accordo di
tutte le parti del giudizio arbitrale — che sembrerebbe invero inevitabile proprio alla luce dell’art. 816-quinquies, comma 1, c.p.c. (64)
— frustra infatti l’interesse di una di esse alla trattazione congiunta
della controversia, senza che al contempo possa rinvenirsi un apprezzabile interesse dell’avversario (65), come è stato ad esempio avveri medesimi soggetti, Cass., 25 maggio 2007, n. 12321, in Corr. giuridico, 2008, 1269 ss., secondo la quale, nel rispetto della volontà delle parti, la trattazione congiunta delle liti connesse si imporrebbe, in alcune circostanze, in nome del « dovere di leale collaborazione delle
parti nell’attività di costituzione del collegio arbitrale », « che è espressione del più generale
principio di esecuzione di buona fede di ogni contratto » e che si esplicherebbe in caso di
collegamento negoziale fra i contratti ed omogeneità del contenuto delle singole clausole
compromissorie; in proposito, v. i commenti di LUISO, Pluralità di clausole compromissorie
e unitarietà del processo arbitrale, in questa Rivista, 2007, 604 ss.; CONSOLO, MURONI, Contratti collegati con clausole arbitrali identiche, cit., 2008, 1271 ss.; POLINARI, Pluralità di
clausole compromissorie, connessione di cause e processo arbitrale: quali limiti alla realizzazione del simultaneus processus?, in Riv. dir. proc., 2008, 1156 ss.; nella giurisprudenza arbitrale si è peraltro giunti a ritenere possibile anche la trattazione congiunta di liti connesse
fra parti diversi vincolate a differenti convenzioni arbitrali: cosı̀ Coll. arb., 17 maggio 2006,
in questa Rivista, 2007, 531 ss., con nota di POLINARI, Pluralità di parti e pluralità di convenzioni d’arbitrato.
(64) In riferimento all’efficacia ultra partes della clausola compromissoria anche in
relazione al contratto collegato stipulato da un altro soggetto, v. però ZUCCONI GALLI FONSECA,
Collegamento negoziale e arbitrato, cit., 82 ss., secondo cui ciò avviene però soltanto nei
(rari) casi in cui si ravvisi un collegamento negoziale diretto fra i due contratti, ad esempio
laddove vi sia un accordo quadro dell’intero programma contrattuale; in giurisprudenza, cfr.
Cass., 19 dicembre 2000, n. 15941, in Giust. civ., 2001, I, 1874 ss.
In senso contrario, v. invece App. Milano, 9 giugno 1998, in questa Rivista, 2000, 97
ss., con nota di DANOVI, Lodi non definitivi e limiti soggettivi di effıcacia del patto compromissorio, secondo cui, al fine di consentire la realizzazione del simultaneus arbitratus, sarebbe in ogni caso imprescindibile che i diversi contratti intercorrano fra le medesime parti;
ancora più restrittive, Cass., 7 febbraio 2006, n. 2598, in Rep. Foro it., 2006, voce Arbitrato,
n. 107; Cass., 11 aprile 2001, n. 5371, Rep. Foro it., 2006, voce cit., n. 128; Cass., Sez. un.,
28 luglio 1998, n. 7398, in Giust. civ., 1999, I, 2760 ss., secondo cui andrebbe escluso che
la clausola compromissoria contenuta in un contratto possa estendersi a contratti collegati,
ancorché inerenti fra le stesse parti; in proposito, v. anche CONSOLO, MURONI, Contratti collegati con clausole arbitrali identiche, cit., 2008, 1279 s., secondo i quali oggi dovrebbe essere valorizzata la nuova previsione dell’art. 808-quater c.p.c. al fine di estendere la clausola
compromissoria a tutte le controversie insorte fra le stesse parti ed inerenti alla medesima
operazione economico-giuridica.
(65) È stato autorevolmente affermato, sia pure in riferimento alla possibilità di una
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tito dai regolamenti di alcune camere arbitrali che hanno infatti
escluso che l’ammissibilità della chiamata, ovviamente sempre subordinata all’accordo col terzo, possa in tal caso dipendere anche dal
consenso dell’avversario (66).
L’inconveniens sopra segnalato dovrebbe pertanto suggerire un
ripensamento del legislatore, se non addirittura un’interpretazione
« correttiva » della normativa vigente, facendo leva sul principio
pluralità di arbitrati fra le stesse parti, che non vi sarebbe alcun interesse meritevole di tutela
alla trattazione disgiunta delle liti; in tal senso, LUISO, Pluralità di clausole compromissorie
e unitarietà del processo arbitrale, cit., 609 ss.; contra, CONSOLO, MURONI, Contratti collegati
con clausole arbitrali identiche, cit., 1274 s., secondo i quali, invece, anche a questo riguardo, non potrebbe essere superato il fondamento privatistico dell’arbitrato; POLINARI, Pluralità di parti e pluralità di convenzioni d’arbitrato, cit., 546, il quale afferma, fra l’altro, che
una delle parti potrebbe avere interesse a mantenere la riservatezza sulle singoli liti; in argomento, cfr., da ultimo, anche GIORGETTI, Frazionamento della domanda giudiziale e unitarietà
dell’arbitrato, in questa Rivista, 2009, 437 ss.
Per le ragioni meglio indicate nel testo, tali critiche non paiono però insuperabili, dovendo semmai ravvisarsi una possibile complicazione in relazione all’eventuale ricomposizione del collegio arbitrale, che, a seguito della chiamata del terzo, potrebbe risultare necessaria (sul punto, v. infra, § 8).
(66) In proposito, v., ad esempio, l’art. 22, lett. h), del regolamento della London
Court of International Arbitration, il quale consente la chiamata del terzo con il consenso
scritto di quest’ultimo, ma senza quello dell’avversario, oppure l’art. 4, comma 2, delle Swiss
Rules of International Arbitration, che offre al tribunale arbitrale un’ampia libertà nel decidere, dopo aver sentito le parti, in ordine all’ammissibilità della chiamata; in argomento,
ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, cit., 739 s., la quale però
rileva, in mancanza di una relatio fra i diversi contratti, il problema dell’imposizione all’altro contraente della partecipazione « non desiderata » del terzo.
Un’analoga esigenza mi sembra colta anche da quegli ordinamenti che hanno disciplinato l’ipotesi della riunione fra diversi procedimenti arbitrali per intervento dell’autorità
giudiziaria, i quali hanno escluso che la c.d. consolidation possa dipendere dall’unanime volontà delle parti del giudizio arbitrale, ovvero dal consenso degli arbitri; si veda, ad esempio,
l’art. 1046 del già ricordato Wetboek van Burgerlijke Rechtsvordering olandese, il quale dispone che, previa audizione delle parti e degli arbitri, il giudice statale possa disporre la riunione degli arbitrati connessi; sul punto, anche per riferimenti ad esperienze di altri paesi, v.
SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, cit., 7 ss.; ZUFFI, L’arbitrato nel diritto inglese, Torino, 2008, 100 s.
Nel nostro ordinamento, non essendo prevista una norma di tal fatta, è invece escluso
che si possa ricorrere all’autorità giudiziaria statale a tal fine; si ritiene però che la riunione
di distinti procedimenti arbitrali connessi possa essere disposta dal collegio arbitrale, ma solo
se le diverse cause pendano dinnanzi agli stessi arbitri e, comunque, soltanto ove sussista il
consenso di tutte le parti; in proposito, v. CARNACINI, Arbitrato rituale, cit., 896 s.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 669 ss.; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato,
VI ed., cit., I, 397 ss.; POLINARI, Pluralità di clausole compromissorie, connessione di cause
e processo arbitrale, cit., 1159 ss.; v. anche CONSOLO, MURONI, Contratti collegati con clausole arbitrali identiche, cit., 2008, 1271 ss., i quali precisano che a tal fine sarebbe però irrilevante il consenso degli arbitri, salvo che in riferimento alla rimodulazione del termine per
la pronuncia del lodo.
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della « buona fede oggettiva » come dovere di protezione della controparte nell’esecuzione del contratto o come fonte di integrazione
dello stesso (67); si potrebbe per tale via escludere che le parti del
giudizio arbitrale e gli arbitri già nominati possano, con il loro rifiuto, determinare un vulnus delle facoltà difensive della parte
istante, tenendo peraltro conto che, sotto il profilo oggettivo, non si
avrebbe nessuna violazione del principio consensualistico che domina l’arbitrato.
8. Fra le numerose questioni che l’intervento del terzo nel
giudizio arbitrale fa insorgere, un posto senz’altro centrale, oltre alla
questione dell’ammissibilità delle diverse forme di intervento, è occupato dal problema della partecipazione successiva del terzo alla
nomina del collegio arbitrale (68), che, secondo alcuni, finirebbe peraltro per riflettersi anche sull’ammissibilità dell’intervento stesso.
In tutti i casi in cui il litisconsorzio successivo è consentito, e
specialmente quando il terzo è parte della convenzione arbitrale, si
pone infatti il problema di garantire il rispetto della libera e paritaria
partecipazione di tutte le parti alla nomina degli arbitri e, quindi, anche del terzo intervenuto e chiamato, non essendo ammissibile che
la scelta del tribunale arbitrale venga rimessa soltanto ad alcune delle
parti (69).
(67) In proposito, v., ad esempio, BIANCA, La nozione di buona fede quale regola di
comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 205 ss., spec. 209 s.; CRISCUOLI, Buona
fede e ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, 709 ss.; RODOTÀ, Le fonti di integrazione del
contratto, rist. agg., Milano, 2004, 111 ss.; in giurisprudenza, fra le tante, Cass., 9 marzo
1991, n. 2503, in Foro it., 1991, I, 2077 ss.; in senso parzialmente critico, v. però BIGLIAZZI
GERI, voce Buona fede, in Digesto disc. priv., Sez. civ., Torino, 1993, II, 169 ss.
Come ricordato, in precedenza, questo argomento è stato adoperato dalla ricordata
Cass., 25 maggio 2007, n. 12321 proprio al fine di favorire la trattazione congiunta in sede
arbitrale di più cause connesse, sia pure limitatamente al caso in cui vi sia un collegamento
negoziale fra i diversi contratti contenenti diverse clausole compromissorie omogenee ed
operanti fra le stesse parti.
(68) Nondimeno, la pluralità di parti successiva pone altri non trascurabili problemi,
che purtroppo non è possibile affrontare in questa sede; si pensi, ad esempio, all’applicazione
ai terzi intervenuti delle regole processuali previste dalle parti, riguardanti la lingua dell’arbitrato o la previsione di cadenze e preclusioni; al tempo utile entro il quale può essere compiuto l’intervento; alla proroga del termine per l’emanazione del lodo; all’eventuale rinuncia
o sostituzione degli arbitri per motivi di incompatibilità sopravvenuta; alla validità dell’attività compiuta dal precedente collegio arbitrale e, in particolare, alle prove eventualmente assunte; per un esame di tali questioni, mi permetto di rinviare a GRADI, in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art. 816-quinquies, III, 1872 s.
(69) In proposito, v., in particolare, RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit.,
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Il vero e proprio nodo gordiano che tale questione è capace di
generare è stato reciso in relazione all’arbitrato societario grazie all’art. 34, comma 2, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, il quale, come si
è ricordato, prevede, a pena di nullità della stessa clausola compromissoria statutaria, che la nomina degli arbitri debba essere affidata
ad un soggetto estraneo alla società; in tal modo, infatti, poiché la
nomina degli arbitri è in ogni caso effettuata da un terzo imparziale,
e non dai soggetti coinvolti nella lite, viene evitato a monte il rischio
di violare il principio della parità delle parti nella formazione del
collegio arbitrale (70).
Analogamente, anche in riferimento all’arbitrato di diritto comune, non si pone alcun problema al riguardo, qualora le parti abbiano affidato spontaneamente ad un soggetto terzo il compito di
scegliere il collegio arbitrale, oppure nel caso in cui il terzo intervenuto abbia comunque partecipato alla formazione degli arbitri,
avendo concorso a nominarli nel patto compromissorio al quale era
vincolato ab origine (71).
Assai problematica si presenta invece la situazione nelle ipotesi
in cui il terzo intervenuto o chiamato non abbia in alcun modo partecipato alla nomina del collegio arbitrale, vuoi perché sia rimasto
estraneo al patto compromissorio con il quale sia stata effettuata la
nomina, vuoi perché non abbia poi partecipato alla designazione degli arbitri nella fase introduttiva del giudizio arbitrale instaurato fra
le altre parti.
Nessun ostacolo al funzionamento del giudizio arbitrale pendente si verifica qualora il terzo aderisca, anche implicitamente, alla
nomina dell’arbitro effettuata da una delle parti, id est quando accetti
liberamente di farsi giudicare dal collegio arbitrale già designato (72),
663 ss.; per il più generale riconoscimento del principio, REDENTI, Compromesso, cit., 803;
ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, III ed., IV, Napoli, 1964, 797; VECCHIONE,
L’arbitrato nel sistema del processo civile, cit., 408 s.; RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 663; SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti (una pluralità di problemi),
in Riv. dir. proc., 2002, 465; Cass., 25 marzo 1998, n. 3136, in Rep. Foro it., 1998, voce Arbitrato, n. 82; Cass., 5 febbraio 1997, n. 1090, in Rep. Foro it., 1997, voce cit., n. 142.
(70) Per tale rilievo ante litteram, v. LUISO, L’arbitrato amministrato nelle controversie con pluralità di parti, in questa Rivista, 2001, 605 ss.
(71) RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 663; MARENGO, Processo arbitrale, cit., 801.
(72) RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 667; NELA, in Le recenti riforme
del processo civile, cit., sub art. 816-quinquies, 1752 s.; TIZI, Litisconsorzio successivo e imparzialità del tribunale arbitrale, in questa Rivista, 2008, 495 ss.
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oppure nel caso in cui tutte le parti procedano, di comune accordo,
all’ampliamento o alla ricostituzione dello stesso (73).
Quando però ciò non accada, si crea una situazione di possibile
stallo: da un lato, infatti, il tribunale arbitrale in precedenza nominato non è fornito di potestas judicandi nei confronti del terzo e,
dall’altro, l’eventuale nomina successiva di ulteriori giudici privati
da parte di quest’ultimo (in applicazione analogica dell’art. 816-quater, comma 1, c.p.c.) potrebbe portare il collegio ad un numero pari
di componenti, ovvero ad una sua composizione squilibrata qualora
il terzo intervenuto o chiamato sia portatore di un interesse comune
a quello di una della parti del giudizio arbitrale, con conseguente
impossibilità del nuovo collegio di assumere validamente qualsiasi
decisione (74).
La dottrina ritiene pertanto che, al fine di evitare una tale situazione di impasse, non sia possibile lo svolgimento di un arbitrato con
pluralità di parti e, precisamente, che l’ammissibilità dell’intervento
volontario sia in ogni caso subordinata all’adesione del terzo al collegio arbitrale già nominato, in quanto — fuori dei casi di litisconsorzio necessario — non sarebbe accettabile consentire al terzo di
determinare una sopravvenuta impossibilità di funzionamento dell’arbitrato (75); analogamente, si ritiene che la chiamata del terzo che
(73) Tale possibilità è ammessa, ad esempio, da BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 77; e, con riferimento al caso del litisconsorzio necessario, da SALVANESCHI,
L’arbitrato con pluralità di parti, cit., 130 s.; 270 s.; più in generale, per la possibilità della
revoca degli arbitri o di un singolo arbitro per volontà concorde di tutti i paciscenti, v. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, cit., 417 s., mentre per il divieto di revoca unilaterale dell’arbitro già
nominato dalla parte, ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, cit., IV, 807; PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 376.
(74) Per tale rilievo, v. DELLA PIETRA, Il procedimento, cit., 244 s.; più in generale,
per un’approfondita analisi sulla complessa questione relativa alla nomina degli arbitri con
pluralità di parti, che sembra riproporsi negli stessi termini anche quando il litisconsorzio si
realizzi in un momento successivo, si rinvia a SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti,
cit., 309 ss.; ID., in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 816-quater, 235 ss.; POLINARI, in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art. 816-quater, III, 1838 ss., ove
anche ampi riferimenti.
(75) SALVANESCHI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 816-quinquies,
256 s., secondo cui l’intervento o la chiamata dovrebbero ritenersi precluse nel caso in cui il
terzo rifiuti di accettare il collegio già costituito e non si raggiunga un accordo sulla ricostituzione dello stesso, potendo tuttavia essere instaurato un diverso procedimento arbitrale da
o nei confronti del terzo vincolato alla risoluzione arbitrale della lite; nello stesso senso, v.
CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 1991, 117; DELLA PIETRA, Il procedimento, cit., 246 s.; LUISO,
SASSANI, La riforma del processo civile, cit., 291 s.; BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato,
cit., 77; v. anche TIZI, Litisconsorzio successivo e imparzialità del tribunale arbitrale, cit.,
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non intenda accettare il collegio arbitrale già designato non possa
avere alcun effetto nei suoi confronti, in quanto non sarebbe certamente congruo costringerlo ad un tale sacrificio (76).
Tali conclusioni risultano sicuramente condivisibili nella parte
in cui escludono che al terzo possa essere imposto un collegio arbitrale già costituito e alla cui nomina non abbia contribuito; tuttavia,
non può essere a mio avviso trascurata la duplice circostanza che il
legislatore non ha in alcun modo subordinato l’ammissibilità della
partecipazione successiva del terzo alla supina adesione di quest’ultimo alle designazioni arbitrali altrui (77) e che, nel momento in cui
sorge la crisi circa la composizione del collegio arbitrale, l’intervento o la chiamata del terzo si sono, in un certo qual modo, già verificate (78). Di conseguenza, la soluzione dei problemi relativi alla
formazione del collegio arbitrale in caso di litisconsorzio successivo
non può essere diversa da quella prevista per le ipotesi in cui il litisconsorzio si realizzi già nella fase introduttiva del procedimento,
485 ss., secondo la quale il terzo sarebbe costretto a dover accettare i giudici già nominati;
l’a. ritiene tuttavia che, qualora il terzo sia soggetto agli effetti del lodo reso inter alios, il
problema possa essere risolto attraverso l’istituto della ricusazione del collegio arbitrale nel
suo complesso.
(76) RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 667 s.; LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, cit., 292; PUNZI, Il processo civile, cit., III, 217.
(77) In senso dubitativo, v. ZUCCONI GALLI FONSECA, Collegamento negoziale e arbitrato, cit., 96, secondo la quale « è tutto da dimostrare » che l’accordo del terzo circa la sua
partecipazione successiva all’arbitrato implichi automaticamente l’accettazione del collegio
arbitrale originariamente costituito.
(78) A tale riguardo mi pare utile richiamare, per evidente analogia, che, secondo
l’opinione oggi prevalente, la pendenza del giudizio arbitrale deriva dalla semplice proposizione della domanda di arbitrato, con la quale si procede ad indicare la materia del contendere, le parti ed eventualmente ad effettuare la nomina dell’arbitro di propria competenza,
senza però che sia necessaria la costituzione del collegio arbitrale: v., da ultimo, MURONI, La
pendenza del giudizio arbitrale, cit., 118 ss., che parla in proposito di litispendenza « semplice » conseguente al compimento di tali adempimenti ed anteriore all’accettazione del collegio arbitrale; nello stesso senso, TOMMASEO, La domanda di arbitrato, in questa Rivista,
2001, 186; SALETTI, La domanda di arbitrato e i suoi effetti, in questa Rivista, 2002, 665 ss.;
TRISORIO LIUZZI, La fase introduttiva del procedimento arbitrale, in questa Rivista, 2003, 701
ss.; PICOZZA, in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art. 816-bis, III, 1814; in
giurisprudenza, v. Cass., 25 luglio 2002, n. 10922, in Foro it., 2002, I, 2919 ss.; Cass., 28
maggio 2003, n. 8532, in Arch. civ., 2004, 360 ss.; Cass., 8 aprile 2003, n. 5457, in Giur. it.,
2004, 1391 ss.; contra, CAVALLINI, L’alienazione della res litigiosa nell’arbitrato, in Riv. dir.
proc., 1997, 146 ss., secondo cui, invece, la pendenza del processo arbitrale si avrebbe soltanto con l’accettazione degli arbitri. Se però si accetta, come pare ragionevole, la prima tesi,
è allora giocoforza concludere che anche l’intervento o la chiamata del terzo spieghino i suoi
effetti fin dalla proposizione dell’atto di intervento o di chiamata da o nei suoi confronti,
senza che ciò imponga l’accettazione del collegio arbitrale, che peraltro potrebbe dover essere modificato o integrato proprio a seguito dell’intervento.
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ma prima della costituzione del collegio arbitrale, che sono oggi regolate dall’art. 816-quater, commi 2 e 3, c.p.c.
Tale disposizione prevede, fra l’altro, che, nel caso in cui non
si riesca a superare il disaccordo fra le parti, il procedimento arbitrale si scinda dando origine ad una serie di arbitrati paralleli, mentre, limitatamente al caso in cui si versi in ipotesi di litisconsorzio
necessario, l’arbitrato venga dichiarato improcedibile.
Pertanto, nel caso in cui il litisconsorte necessario pretermesso
non intenda accettare il collegio già nominato, gli arbitri officiati del
lodo dovranno chiudere in rito il procedimento (79), mentre ciascuna
delle parti potrà proporre un nuovo giudizio, arbitrale od ordinario, a
seconda che tutti i litisconsorti siano o non siano vincolati all’accordo compromissorio.
L’improcedibilità del giudizio arbitrale pendente deve peraltro
a mio avviso ravvisarsi, nonostante la lettera della legge, anche nelle
ipotesi di litisconsorzio unitario, nelle quali la decisione deve essere
logicamente unica per tutte le parti (ciò avviene, ad esempio, nel
caso di impugnazione plurima delle delibere condominiali o societarie) (80); e una medesima conseguenza deve altresı̀ accogliersi in relazione a quelle ipotesi in cui la pluralità di parti si sia impegnata a
risolvere congiuntamente una lite per mezzo dell’arbitrato, perché
anche in tale circostanza la separazione delle liti in distinti procedimenti sarebbe contraria alla volontà iniziale dei compromittenti,
dalla quale dovrebbe quindi ricavarsi un’ipotesi di litisconsorzio unitario o necessario di origine convenzionale (81).
Negli altri casi, invece, il cumulo processuale non potrà realizzarsi, analogamente a quanto previsto dall’art. 816-quater, comma 2,
c.p.c., a norma del quale, se il problema della composizione del collegio arbitrale si verifica nella fase iniziale, si deve procedere alla
separazione dei procedimenti. Ne segue che la domanda introdotta
con l’intervento o con la chiamata del terzo deve proseguire disgiun-
(79) Tale soluzione era propugnata già sotto il vigore della precedente legge: cfr., per
tutti, G.F. RICCI, in Arbitrato, cit., sub art. 816, 313; DELLA PIETRA, Il procedimento, cit., 244
s.; alla luce della riforma, v. invece BOVE, L’arbitrato societario tra disciplina speciale e
(nuova) disciplina di diritto comune, cit., 945.
(80) G.F. RICCI, in Arbitrato, II ed., cit., sub art. 816-quinquies, 451; LUISO, SASSANI,
La riforma del processo civile, cit., 290.
(81) Cfr. Coll. arb., 22 marzo 1996, in Temi romana, 1996, 151 ss., con nota di ROSSI.
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tamente rispetto al giudizio arbitrale pendente, dando vita ad un arbitrato parallelo (82).
Se la trattazione disgiunta delle controversie non comporta, in
alcuni casi, insuperabili disarmonie, è altresı̀ vero che, in altre circostanze, ciò determina un’evidente frustrazione degli interessi dell’interveniente volontario, ovvero di quella parte del giudizio arbitrale
che abbia interesse alla chiamata del terzo; si pensi, in particolare,
alle ipotesi in cui sussista un nesso di pregiudizialità-dipendenza
permanente fra la posizione del terzo e quella di una delle parti in
causa, o ancora alla stessa funzione della chiamata in garanzia, senza
peraltro considerare che, quando l’intervento o la chiamata sono effettuate nella forma adesiva dipendente, non avrebbe alcuna utilità la
separazione dei procedimenti.
In tali casi, non sembra però accettabile che il terzo debba essere costretto alla secca alternativa di accettare il collegio arbitrale
già nominato, oppure di rimanere estraneo all’arbitrato ed accontentarsi dei rimedi successivi (83), a maggior ragione ove detto terzo sia
vincolato ab origine alla convenzione arbitrale con pluralità di parti.
Similmente, non pare ragionevole che, in caso di intervento coatto,
la trattazione congiunta della controversia possa restare subordinata
ai capricci delle altre parti del giudizio arbitrale o del terzo chiamato
che frappongano ostacoli alla necessaria ricostituzione del collegio
arbitrale.
Nel tentativo di evitare tali inaccettabili, e forse inavvertite,
conseguenze della legge arbitrale italiana, è da chiedersi se non sia
possibile ricorrere all’ausilio dell’autorità giudiziaria: in primo
luogo, se, di fronte alla nomina da parte del terzo intervenuto di un
ulteriore giudice privato, senza che venga ricostituita concordemente
la disparità del collegio, la parte più diligente possa far ricorso, ai
sensi dell’art. 809, comma 3, c.p.c., al presidente del tribunale per la
nomina dell’ulteriore arbitro; ovvero, quando ciò non sia sufficiente,
se sia possibile applicare analogicamente la disposizione contenuta
(82) È evidente come un tale risultato possa essere raggiunto attraverso la diretta
proposizione, da parte o nei confronti del terzo, di un distinto giudizio arbitrale, come sostenuto da SALVANESCHI, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., sub art. 816-quinquies, 256
s., secondo cui l’intervento o la chiamata dovrebbero ritenersi preclusi nel caso in cui il terzo
rifiuti di accettare il collegio già costituito e non si raggiunga un accordo sulla ricostituzione
dello stesso.
(83) In favore della soluzione invece criticata nel testo, v. invece FAZZALARI, L’arbitrato, cit., 59; BOVE, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 77.
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nel medesimo comma anche ai fini della ricomposizione integrale del
collegio (84).
Tuttavia, proprio la disposizione contenuta nel nuovo art. 816quater c.p.c., che non prevede il ricorso all’intervento dell’autorità
giudiziaria, ma impone alternativamente, in caso di disaccordo sulla
nomina degli arbitri nei giudizi arbitrali con pluralità di parti, l’improcedibilità dell’arbitrato o la separazione dei procedimenti, sembra
purtroppo escludere una tale soluzione, la quale meriterebbe in realtà
un ripensamento dello stesso legislatore (85).
Nel frattempo, a meno che non si voglia procedere ad un’interpretazione profondamente « creativa » in tal senso, mi sembra che,
laddove non sia ragionevole la separazione dei procedimenti arbitrali
(come avviene, ad esempio, in tutti i casi in cui si è spiegato l’intervento adesivo dipendente), si debba applicare in via analogica la soluzione dell’improcedibilità dell’arbitrato, con o senza reviviscenza
del potere di introdurre la lite davanti al giudice statale, oppure — il
che sarebbe in parte qua lo stesso — giungere a ritenere nulla per
sopravvenuta impossibilità di funzionamento la stessa convenzione
arbitrale.
(84) Prima della novella, tali soluzioni erano state proposte, sia pure con riferimento
al litisconsorzio iniziale, da RUFFINI, L’intervento nel giudizio arbitrale, cit., 666 s.; ID., Il
giudizio arbitrale con pluralità di parti, cit., 693; contra, SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, cit., 265 ss.; ID., L’arbitrato con pluralità di parti (una pluralità di problemi),
cit., 473 ss., secondo cui il procedimento davanti al presidente del tribunale non sarebbe
sempre idoneo a consentire di valutare in concreto la situazione al fine di nominare un numero maggiore di arbitri necessario per ristabilire l’equidistanza del collegio, né tantomeno
al fine di procedere alla nomina dell’intero collegio, l’una e l’altra dipendendo da valutazioni
che potrebbero compiersi solo prendendo in esame gli interessi coinvolti e che non sarebbe
possibile sottrarre al giudice ordinario; a tale critica si era però replicato, a mio avviso in
maniera dirimente, rilevando come le caratteristiche del procedimento in parola (sommario a
contraddittorio eventuale) non fossero di per sé incompatibili con il riconoscimento al presidente del tribunale di un potere associativo funzionale alla formazione di collegi arbitrali
equilibrati, salvo in ogni caso il diritto all’impugnazione del lodo in caso di eventuali violazioni: cosı̀ POLINARI, in Codice di procedura civile commentato, cit., sub art. 816-quater, III,
1851 s.
(85) Come ricordato anche da ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale nelle
società dopo la riforma, cit., 955 ss., al fine di risolvere i problemi della nomina degli arbitri nelle controversie con pluralità di parti, ove non si voglia imporre la soluzione della designazione affidata fin dall’inizio ad un soggetto terzo (che pure ha lo svantaggio della rinuncia della « gelosa » prerogativa della nomina diretta ad opera delle parti), si dovrebbero adottare meccanismi che consentano il ricorso all’autorità giudiziaria in ogni caso di impasse: si
pensi, come modello, all’art. 1444 del Nouveau code de procédure civile francese o all’art.
185 della legge federale svizzera del diritto internazionale privato, che prevedono l’intervento
dell’autorità giudiziaria in ogni caso in cui la nomina sia resa difficoltosa da una delle parti
o dall’applicazione delle modalità di designazione.
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The Author examines the topics of third parties’ intervention and joinder to
arbitral proceedings governed by the first two subparagraphs of article 816-quinquies of the Italian Code of Civil Procedure, also making a constant reference to
the regulation provided for as to the same topic by article 35 of the Legislative Decree no. 5 of 2003 concerning company arbitration.
First of all, the Author traces the evolution of the relevant legislative framework, recalling the problems that were to be faced with at the time when there
was no explicit provision concerning these issues and also stating beforehand that
in the regulation of both intervention and joinder of third parties, it is essential to
find a balance between respect for the parties’ agreement, the interest of third parties upon whom the award would produce effects and the interest of an existing
party to realise a simultaneus arbitratus with them.
Subsequently the Author reviews the current legal problems that still stand
out in practise. Among the criticisms reported, the Author in particular deals with
the problems arising from the provision that requests the parties and the arbitrators’ consent to the third party’s intervention or joinder and the problems related to
the form to expressing such consent.
Finally, the Author also reviews the problem of the participation of third
parties to the process of appointment of the arbitrators, deeming that a provision
permitting the judicial assistance on these issues would be appropriate.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
ITALIANA
Sentenze annotate
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civ., sentenza 26 maggio 2010, n. 12866 —
ADAMO Pres.; RORDORF Est. — Ministero Affari Esteri (avv. Stato) c. Techint
(avv.ti Leone, Minoli).
Arbitrato internazionale - Disciplina transitoria - Manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale.
È manifestamente infondata la questione del preteso contrasto con gli artt. 3 e
24 Cost. della disciplina transitoria dettata dall’art. 27, comma 5, della Legge n. 25/
1994, nella parte in cui prevede il divieto di impugnazione per motivi di diritto anche
per i lodi internazionali emessi in procedimenti arbitrali iniziati dopo l’entrata in vigore di detta legge ma attivati sulla base di una clausola compromissoria stipulata
anteriormente; il potere discrezionale del legislatore di introdurre nuove regole processuali, valevoli pro futuro per entrambe le parti, non incontra ostacoli nell’esistenza
di antecedenti situazioni convenzionalmente create dalle medesime.
CENNI DI FATTO. — Il Ministero Affari Esteri (di seguito: il Ministero) cita in
giudizio dinanzi alla Corte d’appello di Roma la Techint chiedendo che siano dichiarati nulli due lodi arbitrali con i quali è stata risolta una controversia concernente l’esecuzione di un appalto di opere. La pronuncia della Corte d’appello, che
ha rigettato l’impugnazione, viene cassata con rinvio dalla Corte di cassazione con
una prima sentenza del 1999, ritenendosi che quello convenuto dalle parti sia un
arbitrato irrituale. La Corte d’appello di Roma, in qualità di giudice del rinvio, accerta il carattere internazionale dei lodi arbitrali impugnati, deducendone l’irrilevanza della distinzione tra arbitrato rituale e irrituale non essendo tale distinzione
invocabile in ambito internazionale e conseguentemente dichiara inammissibili le
doglianze prospettate dal Ministero. Avverso tale pronuncia è nuovamente proposto
ricorso per cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Il primo motivo di ricorso è teso a dimostrare
che il giudice di rinvio ha violato l’art. 384 c.p.c., perché, essendo stato l’arbitrato
espressamente qualificato come irrituale nella precedente sentenza di questa corte,
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quella qualifica non avrebbe potuto essere posta in non cale affermandosene l’irrilevanza nell’arbitrato internazionale.
Col secondo motivo di ricorso il Ministero, denunciando la violazione dell’art.
832 c.p.c., artt. 1349 e 1473 c.c. contesta la correttezza dell’affermazione del giudice di rinvio secondo cui le disposizioni introdotte nel codice di rito dalla Legge
n. 25/1994 in tema di arbitrato internazionale (vigenti al tempo della controversia
in esame) sarebbero applicabili anche all’arbitrato irrituale, che è istituto di diritto
sostanziale ed ha caratteristiche tipologiche ben distinte dal quello rituale.
In via subordinata, col terzo motivo, il medesimo Ministero nega, in primo
luogo, che l’arbitrato in esame sia davvero qualificabile come internazionale (donde
la denunciata violazione dell’art. 832 ss. c.p.c.) ed, in secondo luogo, che la disciplina introdotta con riguardo a tale figura dalla citata Legge n. 25/1994 possa essere applicata anche ad arbitrati stipulati prima dell’entrata in vigore di detta legge,
a norma dell’art. 27 della stessa, senza cosı̀ vulnerare i principi stabiliti dagli artt.
3 e 24 Cost.
Da ultimo, lamentando la violazione dell’art. 823 c.p.c., n. 3, ed art. 829
c.p.c., n. 3, nonché vizi di motivazione della sentenza impugnata, l’amministrazione ricorrente richiama l’affermazione del giudice di rinvio secondo cui la motivazione del lodo impugnato avrebbe potuto essere sindacata soltanto se del tutto
omessa, o contraddittoria al punto da farla ritenere inesistente, e rileva che proprio
di questa totale mancanza di motivazione essa si era doluta.
2. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2.1. L’esame del primo motivo non può prescindere dalla corretta interpretazione della precedente sentenza di questa corte, a seguito della quale il giudice di
rinvio ha pronunciato la sentenza ora impugnata.
In quella precedente sentenza si è affermato che, nei termini in cui le parti lo
avevano pattuito, l’arbitrato destinato a risolvere le loro controversie era da considerare irrituale. A tale conclusione questa corte è arrivata procedendo all’analisi del
testo della clausola compromissoria e correggendo gli errori compiuti dal giudice
di merito nell’applicare i canoni legali d’interpretazione del contratto. Si tratta,
dunque, di una conclusione riferita a quel che era dato ricavare dagli accordi contrattuali intervenuti tra le parti in anni compresi tra il 1986 ed il 1989.
Siffatto rilievo, però, nella logica della sentenza di cui si sta parlando, non ha
assunto significato risolutivo: non ha infatti condotto alla cassazione senza rinvio
della sentenza emessa dalla corte d’appello direttamente investita dell’impugnazione del lodo a norma dell’art. 827 ss. c.p.c., come ci si sarebbe potuto attendere
una volta stabilito che non si trattava di un arbitrato rituale e che, pertanto, non
sussistevano le condizioni per far ricorso allo speciale regime d’impugnazione per
nullità contemplato dagli articoli citati.
Si è proceduto, invece, ad una cassazione con rinvio, e si è espressamente demandato al giudice di rinvio di esaminare (tra l’altro) se ricorressero o meno le
condizioni per poter qualificare l’arbitrato in questione come internazionale.
Per intendere il senso di un tale indicazione occorre tener presente che la
Legge n. 25/1994, intervenuta dopo la stipulazione della clausola per arbitrato irrituale della quale si discute, ma prima che le parti si rivolgessero agli arbitri per la
risoluzione della loro controversia, ha appunto introdotto nel codice di rito, all’art.
832 ss. c.p.c., la figura — prima non contemplata (ed in seguito nuovamente eliminata) — dell’arbitrato internazionale. La necessità d’indagare in sede di rinvio sul316
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l’eventuale sussistenza delle condizioni di applicabilità di tale nuova figura, in una
fattispecie che, alla stregua della normativa vigente al tempo della stipulazione
della clausola compromissoria, era stata qualificata come arbitrato irrituale, si giustifica, evidentemente, soltanto muovendo dal presupposto che la Cassazione ha ritenuto le disposizioni sopravenute non solo idonee ad interessare anche gli arbitrati
instaurati sulla base di convenzioni pregresse, ma pure tali da produrre effetti
riguardo ad arbitrati originariamente concepiti dalle parti come irrituali, incidendo
sul regime dell’impugnazione dei relativi lodi.
Non vi sarebbe stata altrimenti ragione per demandare una siffatta indagine al
giudice di rinvio.
In altre parole, è chiaro che nella precedente sente za di cassazione con rinvio questa corte ha inteso affermare che, all’epoca della stipulazione (a teriore all’entrata in vigore della Legge n. 25/1994), la clausola arbitrale di cui si tratta era
da co siderare irrituale; e che però, alla luce della sopravvenuta introduzione della
figura dell’arbitrato internazionale nel codice di rito, occorreva ancora verificare se
quello in esame potesse essere appunto ritenuto un arbitrato internazionale; valutazione necessaria — e fino a quel momento non compiuta dal giudice di merito —
in quanto ne sarebbe potuta scaturire l’applicazione della nuova normativa, riferibile anche ad arbitrati irrituali non ancora iniziati quando l’anzidetta legge del 1994
era entrata in vigore.
Tanto chiarito, non par dubbio che il giudice di rinvio, procedendo appunto
ad accertare che l’arbitrato di cui si sta discutendo presentava i caratteri dell’arbitrato internazionale di cui agli (allora vigenti) art. 832 ss. c.p.c., e traendo da ciò la
conclusione che tale qualifica ha comportato l’applicazione della disciplina dell’impugnazione del lodo contemplata da detti articoli, indipendentemente dall’originaria qualifica irritale dell’arbitrato medesimo, non ha in alcun modo tradito il mandato affidatogli dalla Cassazione.
2.2. Il secondo motivo di ricorso ripropone la già accennata questione della
configurabilità di un arbitrato irrituale internazionale, cui sarebbero peraltro applicabili le medesime disposizioni dettate dal codice di procedura per l’arbitrato rituale internazionale.
La risposta da dare a tale questione è però insita in quanto già osservato e si
lega, indissolubilmente, al principio sotteso alla precedente sentenza di questa corte
cui si è già fatto menzione:
come tale non più suscettibile di esser rimesso in discussione nel giudizio di
rinvio.
Quel principio (seguito in altra occasione anche da Cass. n. 554/2004) muove
dalla constatazione che la distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, ben conosciuta dal nostro diritto vivente, è invece ben poco praticata in ambito internazionale; e ne trae la conclusione che le disposizioni introdotte nel codice di rito in
tema di arbitrato internazionale, proprio in quanto destinate a regolamentare un
istituto che trascende i confini domestici, sono concepite per essere applicate ad
ogni forma di arbitrato che sia definibile come tale nella prassi internazionale, superando perciò l’indicata distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.
2.3. Anche il terzo motivo di ricorso trova già implicita risposta in quanto
sopra osservato.
Si aggiunga che è ben consolidato — e non scalfito dalle argomentazioni contenute nel ricorso — il principio del quale ha fatto applicazione il giudice di rinvio
317
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nel presente caso, secondo cui il citato art. 832 c.p.c., nel far dipendere la qualificazione dell’arbitrato come internazionale dal criterio oggettivo dell’esecuzione all’estero di « una parte rilevante delle prestazioni nascenti dal rapporto al quale la controversia si riferisce », ha riguardo all’esecuzione di parte significativa delle prestazioni rispetto alle altre parti, pur funzionali al perseguimento degli interessi posti a
base del contratto, ma non richiede che, nell’ambito del rapporto nel suo complesso,
quelle eseguite all’estero ne rappresentino la parte preponderante o principale (cfr.
Cass. n. 13648/2000, n. 18155/2002, n. 544/2004, n. 8206/2004, e n. 1102/2010).
E si aggiunga altresı̀ che questa corte ha già avuto in più occasioni modo di
chiarire che è manifestamente infondata la questione del preteso contrasto con gli
artt. 3 e 24 Cost. della disciplina transitoria dettata dalla citata Legge n. 25/1994,
art. 27 nella parte in cui prevede il divieto di impugnazione per motivi di diritto
anche per i lodi emessi in procedimenti arbitrali iniziati dopo l’entrata in vigore di
detta legge, ma attivati sulla base di clausola compromissoria stipulata anteriormente. Infatti, il potere discrezionale del legislatore di introdurre nuove regole processuali, valevoli per il futuro per entrambe le parti, non incontra ostacoli nell’esistenza di antecedenti situazioni convenzionalmente create dalle medesime (si vedano Cass. n. 3696/2007 e n. 1102/2010).
2.4. L’ultimo motivo di ricorso è del pari infondato, e per taluni aspetti
inammissibile, perché si limita a contestare genericamente il giudizio espresso dalla
corte di merito in ordine all’esistenza della motivazione nei lodi impugnati, ma non
ricostruisce in quali precisi termini era stata in precedenza formulata la doglianza
per omessa motivazione dei predetti lodi.
3. Il ricorso, quindi, deve essere rigettato.
Tenuto però contro della non agevole decifrabilità di alcune tra le questioni
controverse, appare equo compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ancora una volta reputata manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale della disciplina transitoria dettata dalla
Legge n. 25/1994.
1. La pronuncia in epigrafe si occupa di una questione concernente la
disciplina transitoria delle disposizioni sull’arbitrato internazionale (artt. 832838 c.p.c.), introdotte nel nostro codice di rito dalla Legge 5 gennaio 1994, n.
25 e successivamente abrogate dall’art. 25 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.
Segnatamente e per la terza volta, la Suprema Corte è stata chiamata
a pronunciarsi a proposito di un dubbio di illegittimità costituzionale concernente l’art. 838 c.p.c. (1) ossia la disposizione riguardante l’impugnazione del lodo arbitrale internazionale (2).
(1) In precedenza, la questione era stata affrontata da Cass., Sez. I, 16 febbraio 2007,
n. 3696 (banca dati Dejure) e quindi da Cass., Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1102 (banca dati
Dejure).
(2) Sembra utile ricordare che, i sensi dell’ormai abrogato art. 832 c.p.c., si verteva
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Tale norma, come forse si ricorderà, prevedeva che all’arbitrato internazionale non si applicassero le disposizioni di cui all’art. 829, comma 2,
c.p.c., dell’art. 830, comma 2, c.p.c. e dell’art. 831, comma 2, c.p.c. ove le
parti non avessero diversamente convenuto.
Il secondo comma dell’art. 829 c.p.c. ante novella del 2006 stabiliva
— al contrario di quanto attualmente prevede — che l’impugnazione per
nullità fosse altresı̀ ammessa se gli arbitri nel giudicare non avevano osservato le regole di diritto, salvo che le parti non li avessero autorizzati a decidere secondo equità o non avessero dichiarato il lodo non impugnabile.
Prima del 2006, dunque, un lodo rituale interno era di regola impugnabile per violazione delle regole di diritto, salva diversa volontà delle
parti. Viceversa, nell’arbitrato internazionale — laddove secondo la giurisprudenza richiamata nella motivazione della pronuncia de qua, non assumeva rilievo la distinzione, meramente interna, tra arbitrato rituale ed irrituale (3) — era necessaria una espressa manifestazione di volontà delle
parti, affinché tale tipologia di censura fosse possibile (4).
Secondo quanto disposto dall’art. 27, comma 5, della Legge 5 gennaio
1994, n. 25 gli artt. 832 ss. c.p.c. e dunque anche l’art. 838 c.p.c. sarebbero
stati applicabili (5) nel caso in cui il compromesso o la clausola compromissoria fossero stati stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore
della novella (6).
Della conformità a Costituzione di quest’ultima previsione — per
contrasto con gli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale — aveva dubitato il
ricorrente nella vicenda che ha condotto all’emanazione della sentenza che
qui si commenta.
Dalla lettura della motivazione del dictum non si evincono le ragioni
per cui, ad avviso dell’istante, sussisterebbe conflitto con le menzionate disposizioni costituzionali. Tuttavia, è ragionevole pensare che possa trattarsi
delle medesime doglianze fatte valere nelle precedenti vicende giudiziarie
in presenza di un arbitrato internazionale ove, alla data della sottoscrizione della clausola
compromissoria o del compromesso, almeno una delle parti risiedesse o avesse la propria
sede effettiva all’estero oppure qualora dovesse essere eseguita all’estero una parte rilevante
delle prestazioni nascenti dal rapporto al quale la controversia si riferiva. Secondo la giurisprudenza — come ricordato nella motivazione della pronuncia che qui si commenta — ai
fini dell’applicazione degli artt. 832 ss. c.p.c. non assumeva rilievo la distinzione tra arbitrato
rituale ed irrituale. Cfr. per tutti Cass., Sez. III, 16 gennaio 2004, n. 554, in Riv. dottori
comm., 2004, 877, nonché Cass., Sez. I, 14 settembre 2004, n. 18460, in Foro amm.-Cons.
Stato, 2004, 2506; in Giur. it. 2005, 1142; in Foro it., 2005, I, 1807 con nota di richiami.
(3) Per gli opportuni riferimenti giurisprudenziali: supra, nota 2.
(4) In proposito, basti qui rinviare, per tutti a BRIGUGLIO, in BRIGUGLIO, FAZZALARI,
MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, Milano, 1994, 257 ss.
(5) Fino al momento della loro abrogazione, a partire dal 2 marzo 2006.
(6) Decorsi novanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Uffıciale, avvenuta il
17 gennaio 1994.
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in cui il giudice di legittimità è stato chiamato a ponderare la non manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità de quo, e segnatamente:
a) presunto contrasto con l’art. 24 Cost. in quanto la disciplina transitoria avrebbe leso il legittimo affidamento delle parti di poter impugnare
il lodo per violazione di legge;
b) presunta contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto i compromittenti sarebbero stati privati della facoltà di pattuire espressamente l’impugnabilità
del lodo anche per violazione delle regole di diritto; facoltà, questa, invece
attribuita agli stipulanti delle convenzioni di arbitrato successive alla riforma del 1994.
Invero, anche in dottrina, all’indomani dell’entrata in vigore della
normativa sull’arbitrato internazionale vi era stato chi aveva sollevato un
analogo dubbio chiamando in causa una diversa norma della Costituzione,
ossia l’art. 111 (7) ma con ciò pur sempre lamentando una violazione del
diritto di difesa delle parti, tutelato anche dall’art. 24 Cost. Si era cioè affermato che la disciplina transitoria « sottrae a sorpresa la pronuncia arbitrale al sindacato impugnatorio per violazione del diritto sostanziale innanzi
alla Corte d’appello e al successivo vaglio in Cassazione, senza che le parti
avessero ciò voluto al momento della stipula dell’accordo compromissorio,
ché anzi esse avevano evidentemente voluto il contrario, non optando per
la in impugnabilità del lodo, di fronte alla alternativa allora confinata nell’art. 829, comma 2 riguardo ad un arbitrato ancora indifferenziato quanto
al carattere domestico o internazionale » (8).
La questione, come in precedenza ricordato, era già stata sottoposta
invano all’attenzione della Corte di cassazione (nel 2007 ed ancora nel
2010) sempre per presunto contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
Anche la sentenza in epigrafe, ulteriormente chiamata a vagliare la
non manifesta infondatezza della questione in riferimento ai (soli) artt. 3 e
24 Cost., ha reputato la doglianza priva di pregio. Il giudice ha infatti ritenuto che il potere discrezionale del legislatore di introdurre nuove regole
processuali, valevoli pro futuro per le entrambe le parti dell’accordo arbitrale, non possa incontrare ostacoli nell’esistenza di antecedenti situazioni
create dalle medesime. Dopodiché, la Cassazione ha richiamato i due precedenti giurisprudenziali in cui la medesima questione era stata risolta in
senso negativo.
2. Nelle due pregresse vicende in cui era stata chiamata a pronunciarsi sulla non manifesta infondatezza del possibile contrasto dell’ormai
abrogato art. 838 c.p.c. con gli artt. 3 e 24 Cost., onde respingere la do-
(7) BRIGUGLIO, Chi ha paura dell’arbitrato internazionale?, in questa Rivista, 1998,
721 ss., spec. 727-728.
(8) BRIGUGLIO, Chi ha paura dell’arbitrato internazionale?, cit., 728.
320
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glianza, la Corte di cassazione aveva utilizzato le medesime affermazioni di
principio riproposte nella motivazione del dictum in epigrafe.
Nell’immediato precedente in cui la Cassazione ha dovuto affrontare
il tema — Cass., Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1102 — le argomentazioni che
hanno portato a reputare il dubbio di illegittimità costituzionale manifestamente infondato sono, tuttavia, ancor meglio esplicitate rispetto alla decisione che qui si commenta. Vi si afferma infatti che:
A) l’esistenza di antecedenti situazioni convenzionalmente scelte dalle
parti non può paralizzare la discrezionalità del legislatore relativamente ad
un mutamento, per il futuro, delle regole processuali, che valga per entrambe le parti;
B) il doppio grado di giudizio non è costituzionalmente tutelato;
C) la tutela giurisdizionale dei diritti è suscettibile di limitazioni se
esse non determinano un sostanziale svuotamento del diritto di azione;
D) la violazione del principio di ragionevolezza può essere ravvisata
soltanto quando le deroghe alle regole stabilite siano ingiustificate ed arbitrarie e non anche quando le scelte siano espressione della discrezionalità
del legislatore. Trattandosi, nella specie, di disciplina transitoria fisiologicamente destinata ad applicazione limitata nel tempo, il parametro di ragionevolezza dovrebbe essere individuato con riferimento alla sua astratta idoneità ad interrompere la consequenzialità logica dei principi affermati dal
legislatore, non rilevando le disparità di mero fatto venutesi in tal modo
occasionalmente a determinare e non potendo l’esistenza di antecedenti situazioni convenzionalmente scelte dalle parti paralizzare la discrezionalità
del legislatore relativamente ad un mutamento, per il futuro, delle regole
processuali, che valga per entrambe.
Ancora, nella vicenda che ha condotto alla prima pronuncia in cui la
Corte di cassazione si è confrontata con il dubbio de quo — ossia Cass.,
Sez. I, 16 febbraio 2007, n. 3696 — l’Avvocatura dello Stato aveva posto
in essere un ulteriore rilievo, non riproposto nel contesto del procedimento
che qui si commenta, facendo notare come « la parte di un contratto sussumibile fra quelli dell’art. 832 c.p.c., in procinto di provocare un giudizio
arbitrale (qualificabile internazionale), avuta conoscenza del disegno di
legge in gestazione in Parlamento, ovvero, più semplicemente nelle more
della sua entrata in vigore, avrebbe potuto accortamente ritardare la presentazione della domanda d’arbitrato ad un momento successivo all’entrata in
vigore della Legge n. 25/2004 cosı̀ impedendo alla controparte la possibilità di reagire a fronte di un lodo errato in diritto ».
La Corte di cassazione ha replicato a siffatte obiezioni sostenendo che
« da un lato, c’è da considerare che non necessariamente colui che avesse
ritardato la presentazione della domanda di arbitrato ne avrebbe potuto
trarre vantaggio, dal momento che egli bene avrebbe potuto risultare soccombente e, di conseguenza, in questo caso sarebbe stato lui a soffrire le
conseguenze dell’inimpugnabilità per ragioni di diritto; dall’altro lato c’è
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da considerare che, come vi era la possibilità di ritardare la proposizione
della domanda di arbitrato in attesa che la gestazione della nuova legge
fosse portata a compimento, di riflesso, per l’altra parte, c’era la possibilità
di affrettare la proposizione della domanda, proprio per evitare l’applicazione della nuova legge ». Ne è conseguita la declaratoria di manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale del quinto comma dell’art. 27 della Legge 5 gennaio 1994, n. 25.
3. Le motivazioni utilizzate dalla Suprema Corte per respingere i
dubbi di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, persuadono.
Per un verso, infatti, pare indiscutibile la sussistenza di un potere discrezionale del legislatore di introdurre nuove regole processuali valide pro
futuro (9), i.e. per i processi non ancora pendenti e, nella vicenda di cui qui
ci si occupa, i giudizi di impugnazione del lodo dinanzi al giudice statale
non erano ancora stati intrapresi.
Per altro verso nessuna violazione del diritto di difesa ai sensi dell’art.
24 ovvero dell’art. 111 Cost., cosı̀ come nessun « effetto sorpresa » sembra
ravvisabile, in quanto l’accordo volto ad escludere l’impugnazione per violazione di legge non deve necessariamente essere posto in essere al momento della conclusione del patto compromissorio ben potendo essere anche contenuto in un atto separato (10) e dunque anche successivo benché,
deve ritenersi, anteriore all’inizio del giudizio di impugnazione (11).
Cosı̀, considerato che successivamente alla stipula dell’accordo compromissorio il legislatore aveva introdotto una distinzione tra arbitrato domestico ed arbitrato internazionale e che l’innovazione avrebbe potuto
comportare delle conseguenze in ordine al regime di impugnazione del
lodo, le parti avrebbero potuto, di comune accordo, modificare il contenuto
dell’originario patto compromissorio cosı̀ da adeguarlo alla mutata realtà
normativa. Stante la possibilità di addivenire ad una sopravvenuta modifica
del patto arbitrale, la posizione di coloro che avevano stipulato un accordo
(9) Per ulteriori indicazioni in proposito v. CAPONI, Tempus regit processum. Un appunto sull’effıcacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc., 2006, 449 ss.
(10) MENCHINI, Impugnazioni del lodo « rituale », in questa Rivista, 2005, 843 ss.,
spec. 859, nota 34. A proposito della possibilità, per le parti, di porre in essere dei successivi
negozi modificativi dell’originario accordo arbitrale v. anche FESTI, La clausola compromissoria, in GABRIELLI - LUISO (a cura di), I contratti di composizione delle liti, II, Torino, 2005,
1021 ss.
(11) A quanto ci è dato sapere non sussiste giurisprudenza concernente quest’ultimo
aspetto. Si osserva altresı̀ che, non trattandosi di rinuncia all’impugnazione ma, piuttosto,
dell’ipotesi contraria, non dovrebbe assumere valore la regola secondo cui la rinuncia può
essere validamente posta in essere solo dopo la pronuncia del lodo. In proposito si veda, per
tutti, FRISINA, Sulla rinuncia preventiva all’impugnazione del lodo arbitrale, in questa Rivista, 1992, 276 ss.
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compromissorio prima dell’entrata in vigore della Legge n. 25/1994 non
sembra patire alcuna compressione del diritto alla tutela giurisdizionale. Né
tantomeno sembra trattarsi di una posizione deteriore rispetto a coloro che
tale patto posero in essere successivamente e che ebbero fin da subito la
possibilità di ammettere l’impugnativa per errores in judicando (12). Conseguentemente, non sembra possibile ravvisare neppure un presunto contrasto con l’art. 3 Cost.
Si potrà obiettare che sussiste discrasia tra la posizione di coloro che
instaurarono il giudizio di impugnazione prima dell’entrata in vigore della
Legge n. 25/1994 e che non ebbero necessità di porre in essere un’apposita
pattuizione onde ottenere l’impugnabilità del lodo per errori di giudizio e
coloro che lo intrapresero successivamente, i quali ne ebbero viceversa la
necessità.
Ciò, però, è imputabile alla sopravvenienza normativa la cui introduzione, come già si vide, è da reputarsi legittima.
Del resto, non si tratta di un unicum: la medesima situazione si è riproposta al momento dell’entrata in vigore del nuovo art. 829 c.p.c., il
quale risulta applicabile anche se la convenzione di arbitrato è stata stipulata antecedentemente al 2 marzo 2006 a condizione che il procedimento
arbitrale sia stato instaurato dopo tale data. Cosı̀, mentre per i procedimenti
arbitrali e le successive impugnazioni proposte prima del 2 marzo 2006
l’impugnazione per errores in judicando costituiva la regola, per quelle poste in essere dopo tale data (seppure sulla base di un accordo compromissorio anteriore) affinché essa sia possibile diviene necessaria la manifestazione di volontà delle parti. Quest’ultima, tuttavia, potrà essere prestata in
qualsiasi momento anteriore all’inizio del giudizio di impugnazione. Se si
fosse dato seguito alla tesi del ricorrente nella vicenda de qua, anche questa fattispecie non sarebbe risultata indenne da censura.
3. Quella stessa dottrina che aveva dubitato della conformità a Costituzione della disciplina transitoria sull’arbitrato internazionale, aveva altresı̀ invitato coloro i quali non ravvisassero simili ostacoli ad interrogarsi
ulteriormente circa la stabilità del vincolo compromissorio « illo tempore
(12) Non sembra idonea a confutare l’affermazione posta in essere nel testo, la constatazione per cui, una volta che il lodo sia stato emanato sarebbe maggiore la difficoltà a
raggiungere l’accordo per ottenere l’impugnativa sugli errores in judicando. Infatti, in primo
luogo potrebbe accadere che le parti, resesi conto che l’accordo compromissorio da loro stipulato riguarda(va) ormai un arbitrato internazionale, abbiano perfezionato tale patto prima
della pronuncia del lodo. E se non vi avevano provveduto perché non avevano percepito le
conseguenze del mutato assetto normativo imputent sibi. Inoltre, potrebbe darsi che tutte e
due le parti abbiano interesse a censurare il lodo per errores in judicando. Ma se anche cosı̀
non fosse, il dato empirico non pare rilevante: le medesime difficoltà potrebbero porsi al momento della stipula della convenzione arbitrale ove la parte, per principio, rifiuti di dare l’assenso ad un simile controllo.
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contratto, di fronte al factum principis successivo che ne altera di non poco
il contenuto » (13).
A nostro parere, la stabilità del vincolo compromissorio non è tuttavia
turbata dallo jus superveniens (nel caso di specie, la Legge n. 25/1994)
perché tale fenomeno, di per sé, non fa venir meno la volontà delle parti di
compromettere la controversia in arbitri, non essendovi dunque mutuo dissenso. D’altro canto, la fattispecie de qua non sembra neppure idonea ad
integrare alcuna delle fattispecie contemplate dal codice civile di patologico venir meno del vincolo contrattuale (nullità, annullamento, risoluzione, rescissione).
ELENA D’ALESSANDRO
(13) BRIGUGLIO, Chi ha paura dell’arbitrato internazionale?, cit., 728.
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TRIBUNALE DI PAOLA, Sez. I civile, sentenza 16 gennaio 2010, n. 12; BUFFARDO
G.U. ed Est. — Controversia tra il Comune X (avv. Luigi Crusco) e la Società Y (avv. Oreste Via).
Giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo - Eccezione di compromesso per
arbitrato irrituale - Improponibilità parziale della domanda proposta in
via monitoria.
Nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice, in
accoglimento della questione preliminare sollevata dall’opponente, dichiarava
l’improponibilità parziale della domanda svolta in via monitoria, per avere i litiganti devoluto la definizione di parte della res controversa ad un collegio arbitrale,
in virtù della clausola per arbitrato a modalità irrituale.
CENNI DI FATTO. — La Società Y agisce in via monitoria per il recupero dei
crediti vantati nei confronti del Comune X a fronte della fornitura del servizio di
raccolta indifferenziata e differenziata effettuata, in un determinato periodo, in esecuzione di due diverse convenzioni stipulate tra le parti, una delle quali contenente
la clausola per arbitrato a modalità irrituale.
MOTIVI DELLA DECISIONE — 1. Questioni preliminari. In via preliminare, in accoglimento dell’eccezione tempestivamente sollevata dal Comune X nell’atto di citazione in opposizione, va dichiarata, sia pure parzialmente, la improponibilità della
domanda avanzata dalla Società Y in sede monitoria, per avere le parti chiaramente
devoluto la definizione di parte della res controversa (segnatamente le controversie
attinenti la raccolta e la gestione dei rifiuti urbani ed assimilati in forma indifferenziata) alla cognizione di un collegio arbitrale, in virtù della clausola compromissoria contemplata dall’art. 17 della « Convenzione di servizio per la gestione della
raccolta e trasporto a smaltimento dei RSU e lavaggio cassonetti » conclusa in data
26 marzo 2002.
Invero, con detta clausola i contraenti hanno stabilito che « tutte le contestazioni che potessero sorgere in dipendenza della presente convenzione, e che non si
potessero dirimere consensualmente, saranno deferite ad un collegio di tre arbitri
irrituali amichevoli compositori... La decisione degli arbitri avrà tra le parti valore di contratto e non potrà essere impugnata ».
Si è in presenza, dunque, della classica ipotesi di eccezione di convenzione di
arbitrato irrituale che determina l’improcedibilità della giurisdizione in virtù di una
temporanea rinuncia della tutela giurisdizionale; in particolare, attraverso l’arbitrato
irrituale le parti vogliono ottenere un atto, di rilevanza sostanziale, che disciplini i
loro rapporti di modo che, finché tale atto non viene ad esistenza, il diritto fatto valere in sede giurisdizionale non è ancora « plasmato ».
Secondo la più antica impostazione giurisprudenziale, peraltro, le clausole
prevedenti l’arbitrato irrituale o la perizia contrattuale non costituivano clausole
vessatorie da approvare specificamente per iscritto ai sensi dell’art. 1341 comma 2
c.c., non importando esse, a differenza di quella per arbitrato rituale, deroga alla
competenza dell’autorità giudiziaria (cfr. per l’arbitrato rituale, Cass. n. 8788/2000
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e Cass. n. 10240/1992; per la perizia contrattuale Cass. n. 14302/1999 e Cass. n.
5832/1978); negli ultimi tempi, tuttavia, la giurisprudenza, con orientamento del
tutto condivisibile, ha mutato indirizzo sulla distinzione tra le due forme di arbitrato, assumendo che « l’arbitrato rituale, come quello irrituale, ha natura privata,
configurandosi sempre la devoluzione della controversia ad arbitri come la rinuncia
all’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato e come opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico, secondo il “dictum” di soggetti privati; pertanto, la distinzione tra l’arbitrato rituale ed arbitrato irrituale non può imperniarsi sul rilievo che nel primo le parti abbiano demandato alle parti una funzione sostitutiva di quella del giudice; la differenza va, invece, ravvisata nel fatto
che, nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile
di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.c., con l’osservanza del regime formale e del procedimento arbitrale; nell’arbitrato irrituale esse
intendono affidare all’arbitro la soluzione di controversie solo attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibili alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà » (cfr. Cass. n.
5527/2001; Cass., Sez. un. 527/2000; Cass., Sez. un. n. 9283/2002; Cass. n. 11976/
2002; Cass. n. 14182/2002; Cass. n. 16205/2004).
In questa nuova ottica, dunque, deve ritenersi che: a) la deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria si abbia in entrambe le ipotesi (arbitrato rituale ed
irrituale/perizia contrattuale), accomunate da questa rinuncia all’azione giudiziaria
ed alla giurisdizione dello Stato; b) la questione conseguente all’eccezione di compromesso attiene al merito e non alla competenza in senso proprio, considerato che
i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale e che il valore della clausola compromissoria consiste proprio
nella rinuncia alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria (cfr., ancora, Cass. 30 dicembre 2003, n. 19865, Cass. 19 febbraio 2003, n. 2501).
2. Questioni di merito. Orbene, rilevato che: 1) la Società Y ha agito in sede
monitoria per il recupero dei crediti vantati nei confronti del Comune X a fronte
della fornitura del servizio di raccolta indifferenziata e differenziata effettuata negli
anni 2001-2005 in esecuzione, rispettivamente, degli impegni assunti con la citata
Convenzione del 26 marzo 2002 e con la « Convenzione relativa all’affidamento ed
espletamento del servizio di raccolta differenziata nel territorio del Comune X »
sottoscritta il 10 aprile 2002 (cfr. documentazione allegata in atti); 2) in conseguenza della previsione contenuta nell’art. 17 della « Convenzione di servizio per
la gestione della raccolta e trasporto a smaltimento dei RSU e lavaggio cassonetti »
conclusa in data 26 marzo 2002, le controversie attinenti l’adempimento degli obblighi assunti per effetto della stessa risultano deferite ad un collegio arbitrale irrituale e sono, per le ragioni esposte, improponibili innanzi all’AGO.
(Omissis).
Alla luce delle esposte considerazioni, esclusa la cognizione di questo Giudice
con riferimento alle pretese di credito avanzate in sede monitoria dall’odierno opposto per la fornitura del servizio di raccolta indifferenziata, stante la vigenza di
una clausola compromissoria che determina l’improponibilità dell’azione, si ritiene
di poter condividere, alla luce degli atti e delle contestazioni sollevate dalle parti,
le conclusioni cui sono giunti i consulenti ritenendo sussistente al 31 dicembre
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2005, per il servizio di raccolta differenziata svolto negli anni 2001-2005, un residuo credito della società Y verso il Comune X per complessivi € Z.
(Omissis).
L’intramontabile fascino della c.d. « teoria unitaria » e l’ambiguità dell’arbitrato irrituale o libero.
1. Nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il
Tribunale di Paola, chiamato a pronunciarsi sull’eccezione di convenzione
d’arbitrato irrituale sollevata dall’opponente, dichiarava l’improponibilità
parziale della domanda svolta in via monitoria.
A parere del giudice adito, infatti, la sottoscrizione della convenzione
di arbitrato irrituale implica la temporanea rinuncia all’azione giudiziaria ed
alla giurisdizione dello Stato in favore di una pronuncia resa da soggetti
privati avente natura negoziale.
Da ciò discende il carattere vessatorio della relativa clausola contrattuale (e del patto per perizia contrattuale) e la necessità della specifica approvazione per iscritto, ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c.
Inoltre, considerato che il rapporto giudice statale/arbitro non opera
sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale, l’eccezione in parola
configura un’eccezione di merito in senso stretto e come tale non rilevabile
d’ufficio.
2. Prima di valutare la conformità della sentenza in commento al
dettato normativo, occorre dar conto, seppure brevemente (1), dell’evoluzione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale che ha aperto la strada alla
formulazione dell’art. 808-ter c.p.c. (2).
Al riguardo, l’arbitrato irrituale deve la propria (originaria) fortuna
alla prassi commerciale del c.d. « biancosegno », consistente nella sottoscrizione di un foglio in bianco da parte dei litiganti, il cui contenuto —
successivamente infuso ad opera di un soggetto terzo — rappresentava la
definitiva composizione negoziale dei diversi interessi confliggenti (3).
(1) Ragioni di economia dello scritto costringono all’esposizione sommaria delle diverse elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali, il cui richiamo, seppure per cenni, appare
comunque utile alla migliore comprensione delle conclusioni cui è giunto il Tribunale di
Paola nella sentenza in commento.
(2) Il citato articolo è stato inserito nel codice di procedura civile dal D.Lgs. n. 40/
2006.
(3) VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 11; BOVE, Ancora sull’arbitrato irrituale, in www.judicium.it. Sullo sviluppo della predetta prassi commerciale si
veda amplius LUISO, Diritto processuale civile, Vol. IV, Milano, 2007, 361 ss.
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D’altra parte, l’arbitrato rituale, cosı̀ come disciplinato dal codice di
procedura civile del 1942, culminava con una pronuncia che, in difetto
della successiva giurisdizionalizzazione del lodo, non era idonea a produrre
effetti vincolanti tra le parti (4).
Un sistema di tal fatta contrastava però con i principi della Convenzione di New York (5), che imponeva agli Stati aderenti, tra cui l’Italia, di
riconoscere nel proprio interno le sentenze arbitrali divenute « obbligatorie » nel paese che le aveva emanate (6).
Da un lato, infatti, l’efficacia negoziale dei lodi irrituali non consentiva la loro circolazione internazionale (7); dall’altro, l’efficacia vincolante
di quelli rituali era, invece, subordinata all’eventuale trasformazione del
lodo in una vera e propria sentenza (8).
Con le note riforme del 1983 e del 1994 (9), il legislatore, al fine di
garantire concreta attuazione alla richiamata Convenzione (10), svincolava
l’efficacia vincolante della pronuncia arbitrale dall’exequatur statale (11),
lasciando tuttavia aperta una questione di centrale importanza (12): il lodo
rituale e quello libero avevano eguale « forza vincolante »? (13).
Sul punto, il confronto tra la dottrina e la giurisprudenza approdava a
(4) VERDE, op. cit., Torino, 2006, 11-12. L’Autore rileva che, ai sensi dell’art. 825
c.p.c. ante riforma del 1994, la parte interessata aveva l’onere di depositare, entro un anno
dalla sua emissione, il lodo rituale presso la competente Pretura. Con l’avallo giurisdizionale,
il lodo veniva quindi trasformato in sentenza e spiegava effetti vincolanti tra le parti.
(5) La Convenzione di New York è un trattato internazionale multilaterale firmato
nell’ambito della Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a New York il 10 giugno 1958,
entrata in vigore il 7 giugno 1959 e ratificata dal Parlamento italiano con la Legge n. 62 del
19 gennaio 1968. Tale legge è entrata effettivamente in vigore in Italia il 1o maggio 1969.
(6) VERDE, op. cit., Torino, 2006, 13; BIAVATI, in AA.VV., Arbitrato (titolo VIII libro
IV codice di procedura civile - artt. 806-840), commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007,
166-167.
(7) VERDE, op. cit., Torino, 2006, 13; BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 167. L’Autore fa notare come la Convenzione si riferisse ad
una « efficacia vincolante » diversa da quella negoziale.
(8) VERDE, op. cit., Torino, 2006, 13. L’Autore rileva come, in seguito all’intervenuta
giurisdizionalizzazione, il lodo cessasse di esistere come tale, assumendo viceversa le vesti
formali della sentenza statale.
(9) Si tratta della Legge n. 28 del 9 febbraio 1983 e della Legge n. 25 del 5 gennaio
1994. Amplius, VERDE, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato rituale, a cura di VERDE, Torino,
2005, III ed., 14-18.
(10) In tal senso, si veda CASSANO, NISATI, Ancora sulla disputa tra aspetto negoziale
o giurisdizionale dell’arbitrato, in Giust. civ., 2005, 3147.
(11) VERDE, op. cit., Torino, 2006, 29-32. L’Autore precisa che, una volta emesso, il
lodo vincolava le parti ed il successivo ed eventuale exequatur statale rilevava solo a fini
esecutivi.
(12) Spunti in BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna,
2007, 167.
(13) VERDE, op. cit., Torino, 2006, 13.
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due diverse ed opposte ricostruzioni (14): la c.d. teoria unitaria e la c.d. teoria giurisdizionale.
3 (15). Anche sulla scorta della nota sentenza della Suprema Corte di
Cassazione a Sezioni unite n. 527 del 3 agosto 2000 (16), la dottrina prevalente era incline a riconoscere all’arbitrato, complessivamente inteso, struttura unitaria e negoziale, dal momento genetico sino a quello conclusivo (17).
In altre parole, entrambe le tipologie di arbitrato non avevano valenza
sostitutiva della giurisdizione, ma solo derogativa (18), importando, sia la
convenzione per arbitrato rituale, sia quella per arbitrato libero, una temporanea improcedibilità della domanda.
Da tale impostazione discendevano i seguenti corollari: a) all’arbitrato
irrituale potevano applicarsi le norme sul procedimento dettate dal codice
di procedura civile per l’arbitrato rituale, posto che in entrambi i casi veniva esaltato l’iter di formazione del lodo e la funzione decisionale dell’arbitro (19); b) l’eccezione di compromesso per arbitrato (libero o irrituale)
configurava un’eccezione di merito in senso stretto e, come tale, doveva
essere sollevata dalle parti nel primo scritto difensivo (20); c) non aveva
senso distinguere, ai fini della vessatorietà del compromesso ai sensi del-
(14) Per un’efficace sintesi si veda: BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto
da CARPI, Bologna, 2007, 161; VERDE, Arbitrato irrituale, in questa Rivista, 2005, 665-668.
(15) Tale tesi (c.d. teoria unitaria) era sostenuta, tra gli altri, dai seguenti Autori (in
ordine alfabetico): CARNACINI, Le controversie di lavoro e l’arbitrato irrituale come procedimento, in Riv. dir. proc., 1968, 638 ss.; CARPI, Il procedimento nell’arbitrato rituale, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1991, 389 ss.; FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano,
in Riv. dir. proc., 1968, 629 ss.; ID., L’arbitrato, Torino, 1997, 22 ss.; LA CHINA, L’arbitrato,
il sistema e l’esperienza, Milano, 1995, 9; LAUDISA, Arbitrato rituale e libero: ragioni del distinguere, in questa Rivista, 1998, 211 ss.; NOVIELLO, Lodo libero e impugnazione per errore
di diritto, in questa Rivista, 2002, 63 ss.; PUNZI, Arbitrato rituale e irrituale, in Enc. giur.
Treccani, II, Roma, 1988, ss.; ID., Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 63 ss.;
SASSANI, Intorno alla compatibilità tra tutela cautelare e arbitrato irrituale, in questa Rivista, 1995, 710 ss.; TOMMASEO, Arbitrato libero e forme processuali, in questa Rivista, 1991,
743 ss.; VIGORITI, Quale contraddittorio per l’arbitrato libero?, in questa Rivista, 1991,
559 ss.
(16) FAZZALARI, Una svolta attesa in ordine alla natura dell’arbitrato, in questa Rivista, 2000, 669 ss.; CONSOLO, Le Sezioni unite fanno davvero chiarezza sui rapporti tra arbitrato e giurisdizione?, in Corr. giur., 2001, 51 ss.; RICCI, La « natura » dell’arbitrato rituale
e del relativo lodo: parlano le Sezioni unite, in Riv. dir. proc., 2001, 254 ss.
(17) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 161.
(18) Spunti in TOTA, Ancora sulla natura dell’eccezione di compromesso (e sull’ammissibilità del regolamento di competenza avverso la sentenza del giudice ordinario che pronunci su di essa), in Giust. civ., 2003, 1601 ss.
(19) VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 13.
(20) Spunti in TOTA, op. cit., in Giust. civ., 2003, 1601 ss.
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l’art. 1341, comma 2, c.c., tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale (21); d)
la decisione con cui il giudice statale affermava o negava la propria giurisdizione ovvero la propria competenza non era impugnabile con i rimedi di
cui agli artt. 41, 42 e 43 c.p.c. (22).
La differenza tra i due tipi di arbitrato non risiedeva quindi nella natura della decisione o nella peculiarità del procedimento, bensı̀ nell’intenzione concreta delle parti di ottenere o meno un provvedimento idoneo ad
acquisire, sin da subito, efficacia esecutiva (23).
4 (24). Di tutt’altro avviso la contrapposta corrente dottrinaria, la
quale, pur muovendo dal fondamento negoziale dell’arbitrato in genere (25),
attribuiva siffatta efficacia solo ed esclusivamente al lodo irrituale.
(21) Sul punto la giurisprudenza non si era espressa univocamente, oscillando tra alcune pronunce che riconoscevano la vessatorietà della clausola per arbitrato (rituale e irrituale) ed altre — da ritenersi prevalenti — che, invece, la escludevano sul presupposto dell’inidoneità dell’istituto a derogare alla competenza del giudice ordinario. Amplius, VERDE,
op. ult. cit., Torino, 2006, 31. L’Autore richiama a sostegno della prima tesi la sentenza n.
898 resa dal Cons. Stato, Sez. IV, in data 28 febbraio 2006. A sostegno della seconda impostazione, l’Autore richiama, tra le altre: Cass. n. 12714 del 30 agosto 2002, Cons. Stato, Sez.
IV, n. 842 del 27 febbraio 2006; Cons. Stato, Sez. IV, n. 552 del 10 febbraio 2006; Cons.
Stato, Sez. IV, n. 385 del 3 febbraio 2006.
(22) Spunti in TOTA, op. cit., in Giust. civ., 2003, 1601 ss.
(23) PUNZI, Disegno sistematico, cit., I, Padova, 2000, 63 ss. Secondo l’Autore, a
nulla rilevava che il lodo rituale, a differenza di quello irrituale, acquisisse la stessa efficacia
di una sentenza, in quanto si trattava di un effetto del tutto eventuale ed ulteriore e comunque non idoneo ad incidere sulla natura negoziale dell’atto. In tal senso, FAZZALARI, L’arbitrato, cit., Torino, 1997, 22, 24 e 123.
(24) Tale tesi (c.d. teoria giurisdizionalista) era sostenuta, tra gli altri, dai seguenti
Autori (in ordine alfabetico): BOVE, Note in tema di arbitrato libero, in Riv. dir. proc., 1999,
688 ss.; CAVALLINI, Sulla « natura » del lodo rituale, in Riv. dir. proc., 2002, 942 ss.; CONSOLO, L’equo processo arbitrale nel quadro dell’art. 6, § 1, della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Studi in onore di C. Mandrioli, II, Milano, 1995, 893 ss., in part. 913-919;
ID., Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Le disposizioni generali, Bologna, 1998,
122-123; GRASSO, La nuova disciplina dell’arbitrato alla luce della l. 9 febbraio 1983, n. 28,
in L’arbitrato secondo la l. 28/1983, a cura di VERDE, Napoli, 1985, 15 ss.; spunti anche in
HERNANDEZ, Il problema dell’arbitrato e la disciplina in materia di lavoro, Padova, 1990, 40
ss.; MARINELLI, La natura dell’arbitrato irrituale. Profili comparatistici e processuali, Torino,
2002, 108; RICCI, L’effıcacia « vincolante » del lodo rituale dopo la Legge n. 25 del 1994, in
Riv. dir. trim. e proc. civ., 1994, 809 ss.; ID., La « funzione giudicante » degli arbitri e l’efficacia del lodo (un grand arrêt della Corte costituzionale), in Riv. dir. proc., 2002, 351 ss.;
TARZIA, Effıcacia del lodo e impugnazioni nell’arbitrato rituale ed irrituale, in Riv. dir. proc.,
1987, 26 ss.; VACCARELLA, Il coraggio della concretezza in una storica decisione della Corte
costituzionale, in Giust. civ., 2001, I, 2883 ss.; VERDE, Ancora sull’arbitrato irrituale, in questa Rivista, 1992, 425 ss. VERDE, op. ult. cit., Torino, 2006, in part. 11-16 e 29-38; VERDE, Arbitrato, cit., in questa Rivista, 2005, 665 ss.
(25) VERDE, op. cit., in questa Rivista, 2005, 665 ss.
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Al lodo rituale veniva, invece, riconosciuta una valenza analoga a
quella della sentenza statale, eccezion fatta per gli effetti esecutivi (26).
In tal modo, appariva netta la distinzione tra le due figure di arbitrato (27).
Quello rituale, proiettato verso la giurisdizione (28), era incentrato sul
peculiare procedimento a cui le parti intendevano conferire rilevanza (29),
con la conseguenza che la decisione arbitrale veniva emessa non in deroga,
bensı̀ in sostituzione di quella statale (30).
Di tale avviso, la Corte costituzionale che, con sentenza n. 376 del 28
novembre 2001 (31), aveva equiparato gli arbitri ai giudici c.d. « a quo »,
consentendo loro di sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi al Giudice delle leggi (32).
Pertanto, se sul piano sostanziale la clausola che prevedeva l’arbitrato
rituale necessitava quindi della doppia sottoscrizione ai sensi dell’art. 1341
c.c., sul piano processuale, l’eccezione del relativo patto compromissorio
determinava una pronuncia di rito, il cui regime pareva assimilabile (seppure con talune perplessità) (33) a quello della competenza (34).
L’arbitrato irrituale veniva, invece, costruito come un contratto di
transazione per relationem, regolato in ogni suo aspetto, ivi compreso
quello procedimentale, dal codice civile, attraverso l’applicazione delle
norme sull’arbitraggio, sul contratto d’opera professionale, sulla transazione e sui negozi in genere (35).
(26) BOVE, op. ult. cit., in Riv. dir. proc., 1999, 688 ss.
(27) LAUDISA, op. cit., in questa Rivista, 1998, 211 ss.
(28) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 665.
(29) VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 33. Secondo l’Autore, in tal caso l’ordinamento giuridico prende in considerazione e dà rilievo al lodo, non in quanto le parti lo abbiano voluto e fatto proprio, « ma in quanto le parti abbiano voluto e fatto proprio il procedimento attraverso il quale si è pervenuti al lodo ».
(30) Spunti in BRIGUGLIO, Le Sezioni unite ed il regime dell’eccezione fondata su accordo compromissorio, in questa Rivista, 2002, 515 ss.
(31) VACCARELLA, op. cit., in Giust. civ., 2001, I, 2883 ss.; BRIGUGLIO, Merito e metodo nella pronuncia della Consulta che ammette gli arbitri alla rimessione pregiudiziale
costituzionale, in questa Rivista, 2001, 657 ss.; RICCI, La « funzione giudicante », cit., in Riv.
dir. proc., 2002, 351; MONTELEONE, Le sezioni unite della Cassazione affermano la natura negoziale e non giurisdizionale del cosiddetto « arbitrato rituale », in Giust. civ., 2001, I,
761 ss.
(32) VERDE, op. ult. cit., Torino, 2006, in part. 15. L’Autore parla di fungibilità tra
giudizio degli arbitri rituali e gli organi della giurisdizione.
(33) LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano, 2007, 361 ss.; TOTA, op. cit., in Giust. civ., 2003,
1601 ss.
(34) Amplius, BOVE, Sul regime dell’eccezione di patto compromissorio rituale, in
questa Rivista, 2004, 247.
(35) BOVE, Ancora sull’arbitrato irrituale, cit., in www.judicium.it.; BOVE, La perizia
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In altre parole, le parti, ricorrendo all’arbitrato libero, chiedevano ai
giudici privati di riempire di contenuto il contratto di transazione — da esse
concluso « in bianco » (36) tramite la stipula del compromesso — che si
obbligavano ad accettare ed a far proprio (37).
I litiganti non intendevano quindi conferire rilevanza al procedimento
ed all’attività di giudizio posta in essere dagli arbitri liberi (38), bensı̀ all’atto finale ed ai suoi effetti negoziali (39).
Sotto il profilo processuale, la clausola per arbitrato irrituale determinava, pertanto, la temporanea improcedibilità della domanda dinanzi al
giudice statale preventivamente adito, in quanto finché il lodo libero non
veniva ad esistenza, il diritto fatto valere in giudizio non poteva ritenersi
(ancora) « plasmato » (40).
In altre parole, l’eccezione per compromesso irrituale era ritenuta dai
fautori della teoria in esame un’eccezione di merito e non di rito (41).
In ogni caso, l’impostazione giurisprudenziale prevalente (42) era incline ad escludere, attesa la natura pattizia della decisione e la temporanea
improponibilità della domanda, il carattere vessatorio del compromesso per
arbitrato irrituale (43).
5. Nonostante la dottrina sia divisa sugli effetti dell’ultima riforma
in tema di arbitrato libero (44), devono comunque esser dati per acquisiti
alcuni aspetti precedentemente controversi (45).
contrattuale, in I contratti di composizione delle liti, a cura di GABRIELLI, LUISO, Tomo II, Torino, 2005, 1249; VERDE, Arbitrato, cit., in questa Rivista, 2005, 665.
(36) BOVE, op. cit., in I contratti di composizione delle liti, a cura di GABRIELLI, LUISO,
Tomo II, Torino, 2005, 1249.
(37) BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it.
(38) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 665.
(39) VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 33.
(40) LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano, 2007, 361 ss. Il termine « plasmato » è dell’Autore. Sul punto, parzialmente critico BOVE, op. cit., in I contratti di composizione delle liti, a
cura di GABRIELLI, LUISO, Tomo II, Torino, 2005, 1249. Amplius, BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it. L’Autore rileva come nel nostro ordinamento viga il principio di tipicità dei negozi
a contenuto processuale, con la conseguenza che nessun effetto processuale poteva essere ricondotto alla convenzione di arbitrato irrituale, operando la stessa esclusivamente sul piano
sostanziale. Il mancato rispetto della clausola compromissoria per arbitrato irrituale, configurando quindi un inadempimento contrattuale, poteva produrre effetti risarcitori e non invece
precludere al giudice statale preventivamente adito di pronunciarsi sul merito della questione.
(41) Cosı̀ LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano, 2007, 361 ss.; BOVE, op. ult. cit., in
www.judicium.it.
(42) Amplius, VERDE, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato rituale cit., a cura di VERDE,
Torino, 2005, III ed., 14-18.
(43) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 161.
(44) La norma parla di « arbitrato contrattuale ».
(45) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007,
161 ss.
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Se in passato, infatti, la disciplina dell’arbitrato irrituale veniva ricavata in positivo, attraverso i richiami alle norme del codice civile e, in negativo, marcando le differenze con l’arbitrato rituale, il legislatore del 2006
ha dapprima inteso regolare ex lege l’istituto in parola (46) per poi differenziarlo nettamente da quello rituale, almeno sotto il profilo della natura e
quindi degli effetti del lodo (47).
Tuttavia, l’ambiguità della formula normativa utilizzata ha originato
diverse letture dell’art. 808-ter c.p.c. (48).
Secondo parte della Dottrina (49), l’intento del legislatore è stato
quello di riavvicinare le due figure di arbitrato, assimilandole quanto al
procedimento (50), ma distinguendole quanto agli effetti (51).
In base a tale assunto, all’arbitrato irrituale possono oggi applicarsi le
norme che il codice di procedura civile detta per quello rituale (52), seppure
con l’esclusione di quelle relative all’impugnazione del lodo (53).
Al riguardo, è stato infatti osservato come l’art. 808-ter c.p.c. preveda
un’autonoma azione di impugnativa (54) — distinta e non soggetta alle regole generali delle impugnative negoziali del codice civile (55) — i cui motivi appaiono modellati sulla falsa riga dell’art. 829 c.p.c. (56).
Inoltre, l’atto conclusivo di una controversia « fondamentalmente pro-
(46) Critico in tal senso VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 34. Secondo l’Autore
« sarebbe preferibile che il legislatore non imponga le “nature giuridiche” degli istituti che
regola ». In senso favorevole, si veda SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, in questa Rivista, 2007, 42-43.
(47) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 162163.
(48) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 163,
nota 9.
(49) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 25 ss.; LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano,
2007, 361 ss.; TOTA, Appunti sul nuovo arbitrato irrituale, in questa Rivista, 2007, 555 ss.
Dello stesso avviso, seppure con talune perplessità, CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze
e dei lodi, Padova, 2008, 411-412.
MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I procedimenti speciali di cognizione e i giudizi
arbitrali, Vol. III, Torino. 2007, 398-399.
(50) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 28 e 29. L’Autore rileva come l’intervenuta « procedimentalizzazione » dell’arbitrato irrituale sia tra l’altro ravvisabile nella dizione del legislatore, il quale utilizza a tal riguardo i termini: « definizione della controversia », « pronuncia », « conclusioni », « eccezione », « procedimento », « contraddittorio ».
(51) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 162163.
(52) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 25 ss.
(53) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 25.
(54) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 28.
(55) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 30. Secondo l’Autore, « scema in tale
prospettiva la rilevanza dei vizi della volontà quali motivi di impugnativa negoziale ».
(56) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 29.
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cessualizzata nello svolgimento » (57) si impone quale decisione eteronoma (58), frutto dell’attività decisoria degli arbitri (59) e non (più) della volontà delle parti o dell’autonomia negoziale del terzo (60).
Altra e diversa parte della dottrina (61), pur dando atto del peso che la
diffusa adesione alla teoria unitaria ha avuto nella stesura dell’art. 808-ter
c.p.c. (62), ritiene invece che la riforma abbia sostanzialmente accolto la tesi
giurisdizionalista (63) e per tal via accentuato, in maniera netta, la distinzione tra le due figure di arbitrato.
Consegue che l’arbitrato libero, ancora oggi, può essere ricondotto
alla figura del contratto di transazione per relationem (64) e quindi disciplinato, anche dal punto di vista del procedimento, dalle norme del codice civile ed in particolare dall’art. 1349 c.c. (65).
Del resto, secondo tale teoria, i motivi di impugnativa di cui all’art.
808-ter, comma 2, c.p.c. appaiono compatibili con l’azione di annullamento
dei negozi giuridici e comunque non in grado di suffragare la c.d. « natura
processuale » dell’arbitrato irrituale (66).
Altri Autori (67) hanno, infine, rilevato la contraddittorietà o quantomeno la scarsa chiarezza di idee del legislatore, il quale sembrerebbe esser
partito dall’intento di fondo di distinguere le due figure di arbitrato per approdare ad una tendenziale sovrapposizione delle stesse (68).
(57) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 30.
(58) VERDE, Arbitrato cit., in questa Rivista, 2005, 665.
(59) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 673. Secondo l’Autore, il lodo irrituale non può in alcun modo rappresentare il prodotto della volontà negoziale delle parti o
del terzo, perché l’intervenuta procedimentalizzazione dell’istituto è incompatibile con l’art.
1321 c.c.
(60) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 30.
(61) BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it.
(62) BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it. Secondo l’Autore, l’ambigua formulazione della norma può far insorgere il dubbio, ma quest’ultimo sembrerebbe essere fugato
dalla ratio legis contenuta nella legge delega.
(63) Dello stesso avviso, ma solo parzialmente, si veda VERDE, op. ult. cit., in questa
Rivista, 2005, 665, il quale sottolinea che il legislatore, dopo aver riconosciuto al lodo rituale
efficacia di sentenza statale, « non sembra neppure dare ragione ai fautori del contratto per
relationem ». Critico SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 25 ss., secondo il quale il
compito del legislatore è quello di porre il diritto e non anche quello di dar ragione alle impostazioni dottrinarie.
(64) Amplius, BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it.
(65) Amplius, BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it.
(66) Per un esame analitico dei singoli motivi di impugnativa del lodo irrituale e
delle ragioni che escludono il carattere processuale dell’istituto in parola, si veda BOVE, op.
ult. cit., in www.judicium.it.
(67) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 665; VERDE, Lineamenti, cit., Torino,
2006, in part. 32-38.
(68) CONSOLO, op. cit., Padova, 2008, 409-410. A detta dell’Autore, sono confluiti
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Secondo tale ultima impostazione, la riforma del 2006, da un lato, ha
inopportunamente disciplinato nel codice di procedura un istituto di matrice
sostanziale (69); dall’altro, ha ecceduto (70) i limiti posti dalla legge delega
al Governo, la quale non conteneva alcun riferimento all’arbitrato irrituale (71).
Il dibattito dottrinario a cui si è appena accennato per esigenza di sintesi e — non invece per sottovalutarne la portata e la complessità (72) —
importa concrete conseguenze d’ordine pratico, destinate a misurarsi sul
piano degli effetti processuali.
Ammettere, infatti, che l’arbitrato irrituale si svolga nelle forme sostanzialmente proprie di quello rituale, significa riconoscere al relativo
patto compromissorio efficacia di deroga alla giurisdizione statale in favore
di un dictum privato che — pur avendo per espressa ed esplicita previsione
normativa (73) natura negoziale — rappresenta comunque il prodotto finale
di un procedimento sostitutivo di quello statale.
Se quindi l’attività degli arbitri — liberi e non — è analoga a quella
svolta dai giudici ordinari, l’eccezione di compromesso per arbitrato (rituale o irrituale che sia) non può non configurare un’eccezione di rito (74),
assimilabile, quanto al regime processuale, all’eccezione di incompetenza.
Conseguentemente, la decisione del giudice in ordine all’eccezione in
parola potrà essere impugnata ai sensi degli artt. 41, 42 e 43 c.p.c. (75).
Sul piano sostanziale, la convenzione di arbitrato rituale ed irrituale
deve essere sottoscritta ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c. a pena di invalidità (76).
D’altra parte, costruire (ancora oggi) l’arbitrato irrituale nei termini di
un contratto di transazione per relationem conduce alle opposte conclusio-
nell’art. 808-ter c.p.c. i due orientamenti opposti (di cui si è detto nel testo) ricostruttivi della
natura dell’arbitrato.
(69) VERDE, op. ult. cit., Torino, 2006, in part. 35.
(70) VERDE, Arbitrato cit., in questa Rivista, 2005, 676-678.
(71) Critico sulle considerazioni del VERDE, SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007,
42-43.
(72) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 162.
(73) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 162;
VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 676-678.
(74) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 34. Del resto, secondo l’Autore l’efficacia negativa (ossia l’obbligo di non adire il giudice statale) derivante dalla convenzione per
arbitrato irrituale « è in re ipsa, essendo condizione di pensabilità dello stesso fenomeno ».
(75) SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, 34.
(76) Unanime la posizione della dottrina sul punto. Al riguardo si veda: SASSANI, op.
cit., in questa Rivista, 2007, 34; BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI,
Bologna, 2007, 162; BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it.; VERDE, Lineamenti, cit., Torino,
2006, passim.
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ni (77), già esaminate con riferimento alla c.d. teoria « giurisdizionalista »
(§ 4 del presente contributo).
6. L’assenza nella legge delega (78) di qualsivoglia riferimento alla
modalità irrituale induce a dubitare che il legislatore abbia inteso assimilare, per struttura e funzione, le due tipologie di arbitrato (79).
D’altra parte non può essere revocato in dubbio come il D.Lgs. n. 40/
2006 abbia introdotto un « embrione di procedimento » (80) che finisce per
conferire rilevanza sia alla pronuncia conclusiva, sia all’attività decisionale
del terzo (81).
Ad ogni buon conto, bisogna leggere l’art. 808-ter c.p.c. nel senso che
il legislatore, sia pure con imprecisione terminologica, abbia voluto semplicemente porre fuori discussione l’efficacia negoziale del lodo libero e, al
contrario, ribadire con assoluta chiarezza l’efficacia di sentenza del lodo rituale (82).
Appare, pertanto, più aderente allo spirito della riforma configurare il
predetto istituto come il modo di regolare un conflitto di interessi raggiungendo una determinazione contrattuale attraverso un processo (83), integralmente regolato dalle norme del codice civile (84).
Al riguardo, è stato rilevato che per tal via si darebbe luogo ad una
sproporzione tra risultato raggiunto, la composizione negoziale, ed il metodo seguito, l’arbitrato « procedimentalizzato » (85).
Tuttavia, la prospettata chiave di lettura consente alle parti in lite di
vedersi riconosciuta dall’ordinamento, più che la « scelta tra due forme di-
(77) BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it.
(78) La citata Legge n. 80/2005 aveva attribuito al Governo il compito di prevedere
« che le norme in materia di arbitrato trovino sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale, fermi in ogni caso il rispetto del principio del contraddittorio, la
sindacabilità in via di azione e di eccezione della decisione per vizi del procedimento e la
possibilità di fruire della tutela cautelare ». Secondo BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it,
il senso della legge delega era chiarissimo. Di parere opposto, CONSOLO, op. cit., Padova,
2008, 409. Secondo tale ultimo Autore, la direttiva non era « certo nitidissima ».
(79) VERDE, Arbitrato cit., in questa Rivista, 2005, 671; BOVE, op. ult. cit., in www.judicium.it. I richiamati Autori rilevano che non a caso l’art. 808-ter c.p.c. utilizza la locuzione
« determinazione contrattuale ».
(80) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 671-674.
(81) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 674.
(82) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 674; BIAVATI, in AA.VV., op. cit.,
commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 167.
(83) Cosı̀ BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007,
164.
(84) VERDE, op. ult. cit., in questa Rivista, 2005, 674.
(85) Il termine è del VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 35.
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verse dello stesso fenomeno » (86), la scelta tra « due complessi normativi
diversi » (87).
Poste tali premesse, occorre chiedersi: la nuova disposizione normativa autorizza ex se l’applicazione in via analogica delle norme sull’arbitrato rituale? Più in particolare: può oggi parlarsi, con riferimento all’arbitrato di cui all’art. 808-ter c.p.c., di deroga alla giurisdizione, di eccezione
per compromesso irrituale in termini di eccezione di rito, di clausola vessatoria e di regolamento di competenza?
A parere di chi scrive, se le parti scelgono il lodo irrituale, non si applica il complesso di regole di cui agli artt. 806 ss. (88), attesa, ancora oggi,
la prevalente caratterizzazione negoziale dell’istituto in esame (89).
Sotto altro e diverso profilo, il rapporto arbitro libero e giudice statale
non può essere spiegato in termini di deroga alla competenza o di deroga
alla giurisdizione, in quanto nel nostro ordinamento vige il principio di tipicità dei negozi giuridici a contenuto processuale (90).
In altre parole, in difetto di una norma che attribuisca espressamente
al patto compromissorio per arbitrato irrituale una valenza processuale atta
a derogare alla giurisdizione, esso potrà operare esclusivamente sul piano
sostanziale nel rapporto tra le parti (91).
Pertanto, il giudice statale adito in violazione di tale compromesso
non potrà dichiarare neppure la temporanea improcedibilità della domanda,
ma dovrà, viceversa, conoscere il merito della questione (92).
Conseguentemente, la violazione del vincolo contrattuale in parola
sarà foriero di responsabilità per inadempimento e dell’eventuale condanna
al risarcimento danni (93).
Esclusa quindi l’applicabilità dei rimedi di cui agli artt. 41, 42 e 43
c.p.c. (94), qualche dubbio sulla vessatorietà della clausola in parola potrebbe derivare non sotto il profilo della deroga alla competenza, quanto in-
(86) L’espressione è del BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(87) Il corsivo è del BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(88) Di tale avviso, BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 164. Cosı̀ anche VERDE, Arbitrato cit., in questa Rivista, 2005, 674. L’Autore dichiara che sebbene a seguito della riforma risulti poco agevole continuare a pensare all’arbitrato irrituale in termini di contratto di transazione per relationem, non può comunque essere
esclusa l’applicabilità, all’istituto in parola, delle norme sui negozi giuridici.
(89) Spunti in BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(90) Cosı̀ LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano, 2007, 361 ss.; BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(91) BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(92) BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(93) BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(94) BOVE, op. cit., in www.judicium.it; cosı̀ LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano, 2007,
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vece sotto quello del disfavore del legislatore nei confronti dell’arbitrato irrituale (95).
L’inidoneità di tale ultimo istituto a conseguire, tramite un processo,
una soluzione negoziale inidonea a produrre effetti analoghi a quella della
sentenza statale — potendo tale ultimo effetto eventualmente scaturire solo
mediante altra, diversa e successiva azione giudiziaria (96) — fonda a carico delle parti onerosi aggravi procedurali, economici e temporali (97).
7. L’equiparazione compiuta dalla sentenza in commento tra arbitrato irrituale e perizia contrattuale — sotto il profilo del regime delle rispettive previsioni pattizie e della natura delle relative eccezioni — postula
l’esigenza di svolgere qualche riflessione in ordine al rapporto tra i richiamati istituti.
Al riguardo, autorevole Dottrina (98), già in epoca antecedente alla riforma del 2006, aveva costruito la perizia contrattuale in termini di « arbitrato rituale ad oggetto limitato » (99).
In altre parole, si riteneva che, mediante il ricorso al predetto istituto,
le parti intendessero devolvere al terzo, dotato di specifiche competenze
tecniche, la decisione, con efficacia vincolante, di « una questione, di fatto
o di diritto, rilevante per l’esistenza o il modo di essere di un rapporto
giuridico » (100).
Si osservava, in particolare, che se il principio di economia processuale condiziona la pronuncia del giudice statale all’esauriente trattazione
(95) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 171.
L’art. 808-ter c.p.c., introducendo una norma di chiusura del sistema, sancisce il favor del legislatore verso l’arbitrato rituale, posto che in difetto di un’esplicita attribuzione agli arbitri
liberi della res controversa si applicheranno le norme del titolo VIII del codice di procedura
civile. Ciò determina quindi un’inversione di tendenza rispetto al passato.
(96) LUISO, op. cit., Vol. IV, Milano, 2007, 361 ss.; BOVE, op. cit., in www.judicium.it.
(97) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 164;
VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 35-36.
(98) In ordine cronologico: BOVE, Perizia Contrattuale, in Codice degli arbitrati
delle conciliazioni e di altre ADR, Le leggi commentate, Vol. 11, a cura di BUONFRATE, GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 579 ss.; BOVE, op. cit., in I contratti di composizione delle
liti, a cura di GABRIELLI, LUISO, Tomo II, Torino, 2005, 1219 ss.; BOVE, Su alcuni problemi di
interpretazione e qualificazione giuridica tra arbitrato rituale, arbitrato libero e perizia contrattuale, in Giust. civ., 2003, 2363 ss.; BOVE, La perizia contrattuale, Torino, 2001, in part.
28 ss.; BOVE, La perizia arbitrale, in questa Rivista, 1996, 306 ss. Inoltre, spunti in BOVE,
Note in tema di arbitrato libero, in Riv. dir. proc., 1999, 688 ss.
(99) Spunti in LUISO, L’oggetto del processo arbitrale, in questa Rivista, 1996,
669 ss.
(100) BOVE, op. cit., in Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di altre ADR, Le
leggi commentate, Vol. 11, a cura di BUONFRATE, GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 580 e
583. Secondo l’Autore, la perizia contrattuale non è altro che un arbitrato rituale « ad oggetto
più piccolo » del normale, non essendovi quindi tra i richiamati istituti « una differenza di
sostanza, ma solo una differenza quantitativa ».
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di tutti i profili controversi del diritto azionato (101) — purché oggetto della
domanda giudiziale (102) — nell’arbitrato le parti possono invece ottenere
un lodo che decida anche solo una singola « questione » della res controversa (103).
Nonostante la varietà delle soluzioni proposte dalla dottrina (104) e
dalla giurisprudenza (105) — per lo più dirette a riconoscere natura autonoma alla perizia contrattuale ovvero natura di arbitrato irrituale — la tesi
prospettata (106) appariva sostanzialmente condivisibile (107).
D’altra parte, occorre chiedersi: l’introduzione nel nostro ordinamento
processuale dell’art. 808-ter c.p.c. e le diverse interpretazioni che ne sono
state fornite dagli studiosi della materia hanno mutato i termini del discorso?
Se si ritiene che l’arbitrato irrituale possa ancora oggi essere pensato
in termini di contratto di transazione per relationem, allora si deve ritenere
che esso sia altro dalla perizia contrattuale (108).
Mentre il primo istituto è, infatti, caratterizzato dalla cooperazione tra
le parti ed il terzo nella formazione di un rapporto giuridico sostanziale, il
secondo non opera nella fase di formazione dei rapporti, bensı̀ nella decisione di una questione rilevante per un rapporto giuridico già costituito (109). D’altra parte, l’eventuale coincidenza dei richiamati istituti non
spiegherebbe l’effetto impediente del patto per perizia contrattuale (110).
(101) BOVE, La perizia contrattuale, Torino, 2001, in part. 28 ss. L’Autore rileva
come oggetto dell’arbitrato ben possano essere le singole questioni del diritto azionato.
(102) Amplius VERDE, Profili del processo civile, Parte generale, Vol. 1, Napoli, 2008,
89 ss. Ciò in omaggio al principio del parallelo tra il chiesto ed il pronunciato.
(103) LUISO, op. ult. cit., in questa Rivista, 1996, 669 ss.; BOVE, op. cit., in I contratti
di composizione delle liti, a cura di GABRIELLI, LUISO, Tomo II, Torino, 2005, 1219 ss.
(104) VERDE, Lineamenti, cit., Torino, 2006, 23-24. Secondo l’Autore, l’arbitrato è altro dalla perizia contrattuale. RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Torino, 2005, 13
ss. Secondo tale ultimo Autore, la perizia contrattuale è riconducibile, a seconda delle circostanze, o all’arbitraggio, o all’arbitrato libero o all’arbitrato rituale.
(105) BOVE, op. cit., Torino, 2001, 32-33, note n. 68, 69, 70, 71 e 72. L’Autore riferisce un lungo elenco di pronunce giurisprudenziali che sostanzialmente tendono ad equiparare la perizia contrattuale all’arbitrato libero.
(106) In particolare BOVE, op. cit., Torino, 2001, passim.
(107) LUISO, op. ult. cit., in questa Rivista, 1996, 670-674.
(108) BOVE, op. cit., in Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di altre ADR, Le
leggi commentate, Vol. 11, a cura di BUONFRATE, GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 580581.
(109) BOVE, op. cit., in Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di altre ADR, Le
leggi commentate, Vol. 11, a cura di BUONFRATE, GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 580581.
(110) BOVE, op. cit., in Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di altre ADR, Le
leggi commentate, Vol. 11, a cura di BUONFRATE, GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 582;
BOVE, op. cit., in I contratti di composizione delle liti, a cura di GABRIELLI, LUISO, Tomo II,
Torino, 2005, passim.
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Opinando diversamente, ossia accogliendo l’idea secondo la quale
l’art. 808-ter c.p.c. ha posto in essere un’operazione di reductio ad
unum (111) delle due forme di arbitrato, non vi sarebbe ragione per distinguere la perizia contrattuale dall’arbitrato rituale o irrituale che sia (112).
In ultima analisi, anche accettando la ricostruzione dell’arbitrato irrituale (secondo la tesi qui accolta) come soluzione negoziale della lite tramite un processo, si deve comunque convenire con la speculazione che
equipara la perizia contrattuale all’arbitrato rituale. Se, infatti, nessun problema sussisterebbe con riferimento all’attività decisionale dell’arbitrato libero, che non coopera con le parti, ma decide la controversia (113), non si
riuscirebbe in ogni caso a spiegare l’effetto processuale impediente voluto
dalle parti con il patto per perizia contrattuale.
Consegue quindi che la pronuncia in commento è criticabile sotto un
duplice profilo: da un lato, infatti, il giudice adito ha errato nel configurare
l’eccezione per perizia contrattuale come eccezione di merito; dall’altro, ha
invece errato ritenendo che la relativa statuizione contrattuale non necessiti
della doppia sottoscrizione ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., perché
priva del carattere vessatorio.
8. Tirando le fila del discorso, occorre, in primo luogo, chiarire
come nel caso in esame, il creditore abbia proposto in sede monitoria non
una, bensı̀ due diverse e distinte domande, ciascuna astrattamente azionabile in un autonomo giudizio, ciascuna collegata alla rispettiva convenzione
sottoscritta dalle parti (114).
Non si tratta quindi di un unico credito derivante da un unico negozio, bensı̀ della somma di due distinti crediti (115).
Pertanto, il Tribunale di Paola, di fronte all’eccezione di compromesso
per arbitrato irrituale sollevata in riferimento ad una sola delle due convenzioni, avrebbe — semmai — dovuto dichiarare l’improponibilità di quella
domanda e decidere l’altra nel merito.
In secondo luogo, l’impianto complessivo della pronuncia in commento sembrerebbe recepire (116) pedissequamente le conclusioni a cui per-
(111) BOVE, op. cit., in I contratti di composizione delle liti, a cura di GABRIELLI,
LUISO, Tomo II, Torino, 2005, 1244.
(112) BOVE, op. cit., in Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di altre ADR, Le
leggi commentate, Vol. 11, a cura di BUONFRATE, GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino, 2006, 582.
(113) BIAVATI, in AA.VV., op. cit., commentario diretto da CARPI, Bologna, 2007, 164.
(114) LUISO, op. cit., Vol. I, Milano, 2007, 92. L’Autore parla di « cumulo incondizionato » delle domande.
(115) Spunti in GIORGETTI, Frazionamento della domanda giudiziale e unitarietà dell’arbitrato, in questa Rivista, 2009, 437 ss., in part. 439.
(116) A tal proposito, sembrerebbe decisivo, tra gli altri, il passaggio della sentenza
in cui si sancisce espressamente che: « la distinzione tra l’arbitrato rituale ed arbitrato irri-
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veniva in passato la c.d. « teoria unitaria », ormai in gran parte sconfessate
dalla riforma del 2006.
Peraltro, anche volendo aderire all’interpretazione dell’art. 808-ter
c.p.c. più prossima alla predetta « teoria unitaria » (117), il giudice statale
avrebbe dovuto, previa qualificazione dell’eccezione di compromesso per
arbitrato irrituale come eccezione di rito (e non di merito), dichiarare, in
luogo della parziale improponibilità della domanda, il proprio difetto di
competenza.
CHRISTIAN CORBI
tuale non può imperniarsi sul rilievo che nel primo le parti abbiano demandato alle parti
una funzione sostitutiva di quella del giudice ».
(117) Ossia quella secondo cui la norma di nuova fattura avrebbe sostanzialmente
posto in essere una sorta di reductio ad unum delle due tipologie di arbitrato. Per tutti si veda
SASSANI, op. cit., in questa Rivista, 2007, passim.
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II)
STRANIERA
Sentenze annotate
REGNO UNITO - HIGH COURT OF JUSTICE QUEEN’S BENCH DIVISION
COMMERCIAL COURT, sentenza 26 novembre 2008; Van Der Giessen-DeNoord Shipbuilding Division B.V. c. Imtech Marine & Offshore B.V.
Arbitrato inglese - Formazione del collegio arbitrale - Umpire - Interpretazione della Section 21 Arbitration Act 1996 - Intervento dell’umpire nella
procedura arbitrale solo nel caso di disagreement tra i party-appointed arbitrators - Impugnazione della sentenza arbitrale per serious irregularity.
L’Arbitration Act del 1996 attribuisce alle parti il compito di definire ruolo e
poteri dell’arbitro e, in particolare, la partecipazione al procedimento arbitrale
dell’umpire. Le parti possono esercitare tale autonomia nella convenzione arbitrale, ma anche in un atto separato e successivo, in cui rinunciano alla presenza
del terzo arbitro nel collegio arbitrale ab initio, e ne prevedono l’intervento solo
nel caso di stallo della procedura.
CENNI DI FATTO. — Nel luglio del 2000 la società Imtech Marine & Offshore
B.V. (Imtech) stipula con la società Van der Giessen de Noord Shipbuilding Division B.V. (GN), un contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione meccanica,
la linea di alimentazione, l’installazione nonché l’avviamento dell’impianto elettrico per una nave passeggeri, che la GN sta costruendo per la Brittany Ferries. Insorta una controversia tra le parti in riferimento al corrispettivo spettante alla società Imtech per alcuni lavori straordinari, le stesse provvedono alla nomina degli
arbitri, dando cosı̀ attuazione alla clausola compromissoria inserita nel contratto. La
convenzione arbitrale, in particolare, prevede che tutte le controversie insorte tra le
parti, riguardanti l’esecuzione del contratto, debbano essere deferite a un arbitro
unico nominato in accordo tra i contraenti ovvero, in assenza di accordo, da un tribunale arbitrale formato da due arbitri. Nell’ipotesi di disaccordo tra i due arbitri
nominati — in the event that they disagree — la controversia sarebbe risolta da un
umpire scelto dai party-appointed arbitrators, in conformità all’Arbitration Act del
1996 (1).
Le parti, nel dettare le regole da seguire per la formazione del Tribunale arbi-
(1 )
Cosı̀ era previsto nell’art. 10 del contratto stipulato tra le parti.
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trale, non hanno disciplinato l’intervento dell’umpire nella procedura arbitrale. Tuttavia, nella corripondenza successiva, hanno disposto la nomina di quest’ultimo
solo in caso di disagreement tra gli arbitri di parte. In pratica, con un atto integrativo della convenzione arbitrale, le parti hanno rinunciato alla presenza dell’umpire
nel collegio arbitrale, disponendone l’intervento solo nel caso di disaccordo tra gli
arbitri che lo compongono. Pertanto, il 20 marzo 2008, l’organo arbitrale formato
dai due soli arbitri di parte emette un lodo « comparatively short », in cui vengono
esaminate le sole questioni giuridiche essenziali sollevate dalle parti, in quanto affrontare « each and every point » sarebbe stato « impracticable ».
L’award emesso dal collegio duale viene, quindi, impugnato dinanzi alla High
Court of Justice ai sensi della Section 68 dell’Arbitration Act del 1996 per « serious
irregularity ». In particolare, a giudizio del ricorrente l’assenza dell’umpire nel tribunale arbitrale contrasta con il disposto della Section 21 dell’Arbitration Act del
1996 (2). Ulteriore motivo di impugnazione allegato dal ricorrente ha ad oggetto il
mancato esame da parte collegio duale di tutte le domande e le prove addotte dalle
parti a sostegno delle proprie argomentazioni. Tali vizi configurano, secondo il ricorrente, una irregolarità nella costituzione dell’organo giudicante provocando, in
tal modo, una sostanziale ingiustizia.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (...) Remedies: I am satisfied that the Tribunal’s
award in relation to four matters, namely (i) rate of interest; (ii) waiver/estoppel;
(iii) variations process; (iv) double counted additional works is affected by serious
irregularity in the respects identified above. GN submits that the failures upon
which they rely are such as to dent confidence in the arbitrators’ ability to reach a
fair decision and that I should simply set aside the award upon the footing that the
matter should be considered by a new Tribunal. Alternatively I should set aside the
offending parts and require the appointment of an umpire because (a) that is what
section 21 of the Act requires; (b) because, without one, the arbitrators may be, or
appear to be, under unnecessary pressure to reach agreement; and (c) because if the
arbitrators do disagree much expense will have been wasted if an umpire has not
sat with them on the re-hearing. (...). Article 10 of the agreement between the parties provided: « Any dispute or difference touching or concerning this Contract or
arising there from shall be referred to arbitration in London to a single arbitrator to
be appointed by agreement between the parties or, (...) to two arbitrators one to be
appointed by each party and in the event that they disagree: to an umpire chosen
by the two arbitrators so appointed. Any such reference shall be a submission to
arbitration in accordance with the Arbitration Act 1996 or any statutory variation,
modification or re-enactment thereof for the time being in force ». (...) Mr. (...), for
GN, submits that the parties have not agreed that an umpire shall only be selected
alter disagreement, and that, accordingly an umpire should have been chosen and
should be chosen now, and the umpire must, pursuant to section 21 (3) be allowed
to attend the proceedings and be supplied with all the materials, so that, in the event
(2) La disposizione stabilisce che, salvo che le parti dell’accordo compromissorio
non abbiano diversamente previsto, « the umpire shall attend the proceedings and be supplied with the same documents and other materiales as are supplied to the other arbitrators ».
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of disagreement he may enter upon the reference. Miss (...) submits that section 21
has no application. The parties have not agreed that there shall be an umpire; only
that the arbitrators may choose one. In any event an umpire need only be chosen
by the arbitrators in the event of a disagreement, which has not yet occurred. (...)
In my judgment the parties in the present case have « agreed that there is to be an
umpire » within the meaning of section 21, even though the umpire is to be appointed by the arbitrators, and even though bis authority to act is contingent on
disagreement contemplates that there will have been such an agreement even
though the umpire is not to replace the arbitrators with power to make decisions
until there is a disagreement between the arbitrators. In the present case the parties
have agreed when the umpire is to replace the arbitrators. But they have agreed
nothing about the attendance of the umpire at the proceedings. That lacuna is filled
by section 21 (1) with the result that the umpire is to attend the proceedings from
the start. The parties have not agreed that the umpire shall only be chosen once
there is a disagreement; only that he shall not enter upon the reference until the arbitrators disagree. The obligation to allow the umpire to attend the proceedings and
to supply him with the same materials as the arbitrators necessarily means that the
umpire has to be appointed before the proceedings start. Matters are, however, rendered more complicated by the fact that on 23rd September 2003 Mr. (...) for Imtech wrote to Mr. (...) stating that it might be prudent for the arbitrators to choose
an umpire. On 25th September 2003, Mr. (...), for GN, replied saying: « In our view
the choice of umpire is at this moment premature as there is no indication yet that
arbitrators might disagree. We suggest that the Tribunal should refrain from spending time to this until the issue of disagreement arises ». (...) Thereafter the question
of appointing an umpire appears to have passed from consideration. The parties
must be taken to have waived any requirement for an umpire to be present at the
hearing of the reference. (...) There remains for consideration whether I should remit the award to the tribunal for reconsideration or set it aside in part. The power
to remit for reconsideration is a power to remit to the arbitral tribunal. That, as it
seems to me, must mean the arbitral tribunal as in fact constituted, i.e. in the
present case the two arbitrators. If, however, the Award is set aside in part, the position is somewhat different. The subject matter of those parts of the Award that are
set aside will have to be considered afresh. Further, as it seems to me, any waiver
in respect of the absence of an umpire cannot apply. In determining what course to
take I bear in mind a number of considerations. Firstly, section 68(3) provides that
the court shall not exercise its power to set aside an award unless it is satisfied that
it would be inappropriate to remit the matters in question to the tribunal for reconsideration. Secondly, I regard it as desirable that there should be an umpire available to enter upon the reference in case of disagreement. That is, as I hold, the applicable default position. Moreover the additional expense involved in the appointment of an umpire is outweighed by the fact that there should have been an umpire
in the first place; that it is desirable, in the light of what has happened, that the arbitrators should not appear to be under any pressure to avoid disagreement; and because, if there is disagreement, costs will have been wasted for want of an umpire
in the first place. (...) Any fresh consideration of the subject matter of the parts of
the Award set aside must proceed with an umpire who shall attend the proceedings
and be supplied with the same documents and other materials as are supplied to the
other arbitrators, including such of the material as is already before them as relates
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to those parts of the Award that I have set aside. If necessary, I shall make a declaration to that effect. (...).
La Section 21 dell’Arbitration Act del 1996: un nuovo ruolo per l’umpire?
Nella sentenza in epigrafe, la High Court of Justice esamina le problematiche relative alla figura dell’umpire ed all’impugnazione per seria irregolarità, prevista dalla Section 68 dell’Arbitration Act del 1996.
La Corte sottolinea che la Section 21 dell’Arbitration Act garantisce
alle parti la libertà di definire il ruolo dell’umpire. Libertà che può essere
espressa nel compromesso, ma anche in un atto separato e successivo, con
cui le parti rinunciano alla presenza del terzo arbitro nel collegio arbitrale
ab initio. Dunque, il lodo emesso da un organo arbitrale formato dai due
soli arbitri di parte è validamente costituito e l’assenza del terzo arbitro durante la procedura arbitrale non è ex se causa di irregolarità e sostanziale
ingiustizia del lodo.
Le soluzioni a cui perviene la High Court of Justice, in tema di umpire ed impugnazione per seria irregolarità, costituiscono applicazione dei
tre princìpi fondamentali che l’Arbitration Act del 1996 enuncia e sui quali
si fonda l’intera disciplina in tema di arbitrato (3).
Il primo principio concerne lo scopo dell’arbitrato, individuato nella
« fair resolution of disputes by an impartial tribunal, without unnecessary
delay or expense ». A differenza del Codice di procedura civile italiano, la
legge inglese richiama espressamente la correttezza e l’imparzialità, quali
valori intrinseci e connaturati « al compito di giudicare l’altrui contesa » e
che devono applicarsi, dunque, « tanto al giudice statale quanto all’arbitro » (4). Il legislatore italiano, al contrario, non ha ritenuto opportuno fare
alcun riferimento diretto all’obbligo di imparzialità ed indipendenza degli
arbitri. Tali requisiti dell’organo giudicante vengono assicurati esclusivamente mediante lo strumento della ricusazione, disciplinato dall’art. 815
c.p.c. Il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, nonostante sia intervenuto sull’intera disciplina dell’arbitrato apportando rilevanti modifiche, non ha introdotto il britannico « duty to act impartially », ma si è limitato a modificare
l’istituto della ricusazione (5).
(3) « The provisions of this Part are founded on the following principles, and shall
be construed accordingly (...) ».
(4) E. FAZZALARI, L’etica dell’arbitrato, in questa Rivista, 1992, 2 ss.
(5) Il nuovo testo dell’art. 815 c.p.c. non contiene più il rinvio all’art. 51 c.p.c., dedicato all’astensione dei giudici statali, ma descrive dettagliatamente le singole ipotesi di ricusazione dell’organo arbitrale. In particolare, la riforma del 2006 ha introdotto una nuova
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Il secondo principio è quello dell’autonomia delle parti nella determinazione delle modalità di svolgimento dell’arbitrato, con il solo limite delle
« safeguards as are necessary in the public interest ». Il principio di libertà
delle forme, cosı̀ enunciato, attribuisce alle parti il potere di organizzare il
procedimento arbitrale svincolandolo dai modi e dalle cadenze tipiche del
processo giurisdizionale e modellandolo secondo le proprie esigenze. Ben
pochi sono i limiti che l’Act pone all’incondizionata volontà delle parti, che
può derogare a quasi tutte le regole dettate per il procedimento arbitrale e
può, per tal via, controllare « the cost and speed » della procedura (6). Il
principio dell’autonomia privata, racchiuso nel brocardo inglese « the parties are free to agree », si spinge sino ad ammettere la facoltà, riconosciuta
ai contraenti, di ampliare o minimizzare l’intervento sia del collegio arbitrale, che della giustizia ordinaria (7).
Il terzo principio, di cui alla Section 1 dell’Arbitration Act del
1996 (8) è quello dell’autonomia del procedimento arbitrale rispetto all’autorità giurisdizionale, il cui intervento è consentito solo nei casi espressamente previsti dalla legge.
1. Il principio di autonomia delle parti e la tutela del duty to act impartially hanno caratterizzato, in particolare, l’evoluzione e la disciplina
dell’umpire.
Tale figura trova la sua prima regolamentazione nell’Arbitration Act
del 1950 e nei minor amendments introdotti con l’Act del 1979. L’umpire
riveste il ruolo di terzo arbitro, nominato dai due party-appointed arbitrators e chiamato a decidere la controversia, quale giudice unico, qualora gli
arbitri nominati dalle parti incorrano in un disagreement.
L’umpire è una figura tipica dell’esperienza inglese, con delle peculiarità che la distinguono non solo dagli arbitri nominati dalle parti, ma anche
ipotesi di ricusazione degli arbitri consistente nell’essere « legato ad una delle parti, ad una
società da questa controllata, al soggetto che la controlla, o a società sottoposta a comune
controllo, da un rapporto di lavoro subordinato o da un rapporto continuativo di consulenza
o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l’indipendenza ». Per la prima volta, dunque, si attribuisce rilevanza anche ai « rapporti associativi ». La dizione è cosı̀ generale ed elastica da potervi comprendere non solo le associazioni professionali, ma anche quelle ideali, riconosciute o non.
(6) Cosı̀: ROSE D.A., The Challenges for Uniform Law in the Twenty-First Century,
in Uniform Law Review, 1996, I, 9 ss.; M. DI MEO, Brevi note in tema di clausola compromissoria nel diritto inglese, in Riv. not., 1998, f. 1-2, 101 ss. Tra le disposizioni definite
« mandatory » è compreso il general duty degli arbitri di condurre il processo in modo rapido e corretto anche determinando le regole processuali da seguire.
(7) C. MC DONALD, Maritime Arbitration in London - 1996 and beyond: a short
guide to the Arbitration Act 1996, in Int. ML., 1996, 9, 292 ss.
(8) « In matters governed by this Part the court should not intervene except as provided by this Part ».
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dall’arbitro unico o dal presidente di un collegio arbitrale. A differenza dei
party-appointed arbitrators, la nomina dell’umpire non promana dalle
parti, ma quest’ultimo riceve il suo incarico direttamente dagli arbitri di
parte, il che gli attribuisce una più accentuata terzietà e tiene lontana l’immagine e il timore di un « judge of his choice » (9). La fattispecie si discosta, inoltre, da quella del presidente del collegio o del chairman, poiché in
tale ipotesi il terzo è, di solito, nominato dalle parti e, comunque, ab initio
della lite.
All’umpire vengono riconosciuti doveri ancora più stringenti e standards di imparzialità più rigorosi di quelli imposti ai party-appointed arbitrators. Il terzo arbitro deve essere « strictly impartial » (10), non può sentire una parte in assenza dell’avversario, né ricevere dichiarazioni relative
al caso da uno dei due arbitri senza la contemporanea presenza del collega
ed è tenuto a prestare la stessa equa attenzione alle prospettazioni di entrambi gli arbitri di parte.
L’intervento dell’umpire è provocato dal verificarsi di un disagreement, dal realizzarsi ovvero di una situazione di stallo nella procedura arbitrale che non ne consenta la prosecuzione. Le corti inglesi ritengono sufficiente ai fini dell’intervento dell’umpire l’incapacità degli arbitri di parte
di concordare anche su un unico aspetto (issue), che potrà riguardare il merito della controversia ma anche la fase procedimentale (11), l’istruzione
probatoria (12) o semplicemente le spese del procedimento o le date di aggiornamento delle udienze. In pratica, una qualsiasi diversità di vedute che
impedisca la continuazione della procedura arbitrale è idonea a fondare la
chiamata in causa dell’umpire. Al verificarsi di tale evenienza, gli arbitri di
(9) Il tema dell’imparzialità dell’arbitro di parte è stato oggetto di un attento dibattito sollevato dalla dottrina italiana. In particolare, è stato considerato che l’imparzialità dell’arbitro di parte costituisce una vera e propria contraddizione in termini, sembra, infatti, irrealistico presupporre che la parte, nel momento in cui nomina il proprio arbitro, si aspetti
davvero un comportamento rigorosamente imparziale nel corso del procedimento arbitrale ed
in sede di decisione. Tale considerazione, secondo alcuni autori, induce ad esigere dall’arbitro di parte non che sia imparziale, bensı̀ solo « non disonesto ». Per tale via si ammette la
parzialità dell’arbitro di parte, ma si richiede che la stessa non sia eccessiva, e che non si trasformi, dunque, in scorrettezza o corruzione. M. TARUFFO, Note sull’imparzialità dell’arbitro
di parte, in questa Rivista, 1997, 481 ss.; L. SALVANESCHI, Sull’imparzialità dell’arbitro, in
Riv. dir. proc., 2004, 409 ss.; CONSOLO, La ricusazione dell’arbitro, in questa Rivista, 1998,
17.
(10) In tal senso WHITE - WALTON, Russel on Arbitration, ed. XVI, 1957, 141 ss.;
WALTON - VICTORIA, Russel on Arbitration, ed. XX, London, 1982, 233.
(11) Come nel leading case Winteringham v. Robertson, [1858] 27 L.J. Ex. 301; Iossifoglu v. Coumantaros, [1941] 1 K.B., 396; Cerrito v. North Eastern Timber Importers Ltd,
[1952] 1 Lloyd’s Rep. 330; R. MERKIN, Arbitration Act 1996. An annotated giude, London,
New York, Hong Kong, 1996, 175 ss.
(12) Cudliff v. Walters, [1839] 2 M. & Rob. 232; Re. Tunno and Bird, [1833] 3 B.
& Ad. 488.
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parte sono sollevati dai rispettivi uffici e non hanno più titolo per partecipare alla procedura. L’umpire diviene giudice unico della controversia.
Il principale problema che poneva e che pone ancora oggi la nomina
di un collegio tripartito caratterizzato dalla presenza di un umpire riguarda
la sua partecipazione alla procedura arbitrale sin dal suo inizio. Infatti, ammettere l’intervento dell’umpire solo nel caso e nel momento in cui si verifichi un disagreement, equivale a rendere possibile la risoluzione di una
controversia da parte di un arbitro che, non avendo partecipato alla procedura arbitrale, non abbia la minima cognizione dei fatti di causa.
L’assenza del terzo arbitro durante le fasi iniziali del procedimento e
il suo intervento successivo solo nel caso di disagreement tra i partyappointed arbitrators può richiedere la necessità di un completo rehearing
della causa e dunque essere motivo di « delay and expense ».
Tuttavia, le spese procedimentali e i ritardi nell’emissione del lodo
possono essere anche maggiori nel caso di immediata nomina dell’umpire,
nelle ipotesi in cui gli arbitri di parte concordino su ogni questione di diritto.
Diverse sono state le soluzioni adottate dal legislatore e dalle corti
britanniche a tale problematica. In particolare, l’Arbitration Act del 1950,
nella Section 8, prevedeva che quando la convenzione arbitrale deferiva la
risoluzione della controversia ad un organo giudicante formato da due arbitri, il primo dovere di questi, una volta nominati, era quello di provvedere alla designazione di un umpire. La disciplina era insoddisfacente e
nella prassi spesso gli arbitri finivano con il nominare l’umpire solo nel
caso di loro effettivo contrasto, evitando in questo modo inutili sprechi di
tempo e denaro. L’Act del 1979, nel tentativo di ovviare agli inconvenienti
provocati da tale norma, aveva previsto che gli arbitri non fossero più obbligati a nominare l’umpire immediately after their own appointment (13)
ma che potessero designarlo at any time o comunque dovessero provvedervi forthwith if they cannot agree (14). Inoltre, si specificava che al verificarsi del disagreement gli arbitri di parte venivano spogliati delle rispettive competenze e non avevano più titolo per partecipare alla procedura arbitrale.
In questo modo, si lasciava alle parti nella convenzione arbitrale o, nel
silenzio, agli arbitri dalle stesse nominati, la possibilità di determinare il
momento di intervento dell’umpire ed in particolare di disporne l’ingresso
successivo in un procedimento arbitrale gestito interamente dagli arbitri di
parte. In quest’ultima ipotesi, l’umpire fondava la propria decisione sulle
prove raccolte e sulle annotazioni redatte dagli arbitri di parte. Il terzo arbitro non aveva, dunque, altra possibilità che scegliere nel proprio dictum
(13)
(14)
V. Section 8 Arbitration Act del 1950.
V. Section 6 (1) Arbitration Act del 1979.
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tra le ricostruzioni di fatto e di diritto elaborate dai due party-appointed arbitrators, e, dunque, condividere una delle due soluzioni prospettate dai
giudici uscenti. Cosı̀ delineata, la funzione svolta dall’umpire non consisteva nel decidere la controversia oggetto di convenzione arbitrale, bensı̀
nel dirimere il disagreement insorto tra gli arbitri di parte.
Tale ruolo dell’umpire quale giudice dei due arbitri di parte subiva,
però, una deroga ogni volta che una delle parti esprimesse il proprio dissenso ad un lodo emesso sulla sola base delle conclusioni e delle annotazioni redatte dai primi arbitri. In tal caso, infatti, l’umpire era costretto a
procedere al completo rehearing della causa, all’istruzione probatoria, con
una consequenziale duplicazione delle spese della procedura arbitrale.
I rimedi elaborati dalla prassi inglese sono stati di due diversi tipi.
In molti casi, le parti, onde evitare il rischio di rehearing, convenivano la necessaria partecipazione dell’umpire alla procedura, in questo
modo garantendogli una diretta acquisizione dei fatti e degli elementi di
prova, e dunque di avere una propria posizione distinta da quella degli arbitri di parte. Tuttavia la volontà di ottenere il « saving of costs and time »
ha condotto, altresı̀, a percorrere un’altra strada, ovvero il proliferare dei
c.d. « arbitrator-advocates » (15).
In tali ipotesi, all’intervento dell’umpire non corrispondeva l’abbandono della procedura arbitrale da parte degli altri due arbitri. Gli stessi
continuavano a prendervi parte in veste di rappresentanti o di avvocati dei
contendenti, con il precipuo scopo di informare e istruire l’umpire circa i
fatti di causa, le prove raccolte e le deduzioni dei litiganti.
L’arbitro di parte diventava a tutti gli effetti l’avvocato della parte che
lo aveva nominato. Il party-appointed arbitrator aveva titolo, se pur non
l’obbligo, di continuare a partecipare alla procedura arbitrale e, se si avvaleva di tale titolo, le sue funzioni assumevano un contenuto diametralmente
opposto a quelle svolte sino al disagreement. In tal modo, l’arbitro perdeva
la sua judicial function per diventare partial, con funzioni pressoché identiche a quelle di un qualsiasi lawyer (16).
La procedura comportava un considerevole risparmio dei costi dello
strumento arbitrale, le parti, infatti, non dovevano provvedere alla nomina
di avvocati, né alla nomina di un umpire che presiedesse all’intera procedura, ma solo alla designazione di arbitri di parte. Nel caso di disagreement, gli stessi arbitri provvedevano alla nomina dell’umpire, che intervenuto nel procedimento, emetteva il lodo sulla base delle argomentazioni,
(15) Tale prassi si è diffusa soprattutto nel settore delle shipping and commodity disputes sul finire dell’Ottocento.
(16) MUSTILL - BOYD, Commercial Arbitration, London, 1989, 263 ss.
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delle prove e delle deduzioni esposte dagli arbitri di parte a sostegno ciascuno del proprio nominante (17).
Questa inversione dei ruoli da organo giudicante ad avvocato di parte
poneva in serio pericolo la « fairness and discretion » del tribunale arbitrale (18).
Già la difficoltà di garantire l’imparzialità, l’indipendenza e la neutralità dell’organo giudicante è insita nella struttura stessa dell’arbitrato, ed in
particolare nella matrice genetica del potere decisorio degli arbitri, che
trova il suo fondamento nel consenso delle parti. Ma il fisiologico sospetto
di parzialità dell’arbitro (19) diventa quasi una certezza di parzialità quando
si ammette la trasformazione dell’organo chiamato a decidere una controversia, in un avvocato di parte.
Per poter definire un organo giudicante imparziale, infatti, quest’ultimo deve: assicurare che « la causa di una delle parti non venga aprioristicamente privilegiata in base a considerazioni e motivi che nulla hanno a
che vedere con la fondatezza delle tesi espresse dalle parti » (20); essere
neutrale, ovvero trovarsi in una posizione di perfetta equidistanza ideologica e culturale dalle parti in causa; e infine, essere indipendente, ovvero
non legato da vincoli di dipendenza o da rapporti professionali autonomi
con una delle parti in causa, che possano in qualunque modo pregiudicarne
la sua libertà di giudizio (21).
(17) La legittimità di tale prassi è stata riconosciuta dalle corti britanniche in numerose sentenze, tra le quali: Wessamen’s Koniklijke Fabrieken NV v. Isaac Modiano, Bro &
Sons Ltd, [1960] 2 Lloyd’s Report 257; Rahcassi Shipping Co SA v. Blue Star Line Ltd,
[1967] 2 Lloyd’s Report 261; Russian Oil Products Ltd v. Caucasian Oil Co Ltd, [1928] 31
Lloyd’s Report 109.
(18) Nell’ordinamento giuridico italiano, l’articolo 55 del codice deontologico forense espressamente prevede al fine di assicurare il rispetto dei doveri di imparzialità ed indipendenza, che l’avvocato non possa assumere la funzione di arbitro quando abbia rapporti
professionali con una delle parti che possano pregiudicarne l’autonomia. In particolare all’avvocato è preclusa la possibilità di assumere la difesa della parte nello stesso procedimento in
cui ha svolto la funzione di arbitro. In tal senso si è espresso il Consiglio nazionale forense
nel parere 15 maggio 1996, n. 66, in Rass. forense, 1996, 664. Cfr. DANOVI, Commentario al
codice deontologico forense, Milano, 2004, 781 ss.
(19) EASTWOOD, A real danger of confusion? The English Law Relating to Bias in Arbitrators, in Arb. Int., 2001, vol. 17, n. 3, 292, evidenzia e spiega proprio le motivazioni che
rendono la posizione degli arbitri ancor più delicata di quella dei giudici statali: « There are
two intrinsic diffıculties in selecting an arbitrator which themselves may threaten the integrity
of the process. First, the method by which each party chooses one member of a three-member tribunal may cast doubt on the independence and impartiality of the nominee. Further,
and paradoxically, the very factors which may most recommend an individual as an appropriate arbitrator (familiarity with a particolar industry, or knowledge of a specialist legal or
technical area) may also leave him most vulnerable to a suspicion of bias ».
(20) BERNINI, Quale arbitrato?, Convegno AIA, L’arbitrato: un servizio per l’impresa, Torino, 10 ottobre 1991.
(21) Inter alias: E. RICCIARDI, La scelta degli arbitri e la costituzione del collegio ar-
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Tali requisiti, indispensabili per poter parlare di un’attività decisoria,
non si riscontrano nella prassi dell’arbitrator-advocate.
Il duty to act impartially (22) che, in Gran Bretagna, ha caratterizzato
l’evoluzione stessa dell’istituto compromissorio (23), fino ad assumere il significato di un vero e proprio dovere imposto all’organo arbitrale non solo
di essere « disinterested and unbiased », ma anche di apparire all’esterno
come tale, « to be seen to be impartial », risultava cosı̀ irrimediabilmente
compromesso. Né poteva dirsi ricostituito attraverso l’imposizione di una
netta distinzione dei ruoli e delle funzioni tipiche dell’advocacy e del judgement.
In realtà, accettando un simile sistema, le parti non solo rinunciavano
ad una decisione arbitrale emessa da un organo apparentemente imparziale,
ma finivano con il chiedere ed accettare qualcosa di molto diverso da una
judicial function. L’incarico deferito agli arbitri di parte non aveva più ad
oggetto la risoluzione imparziale della controversia insorta, bensı̀ di riuscire
bitrale: deontologia e prassi, in questa Rivista, 1992, 793 ss.; SALVANESCHI, Sull’imparzialità
dell’arbitro, in Riv. dir. proc., 2004, 409 ss. Come è stato sottolineato (GRANDE STEVENS, Una
finestra sul mondo della deontologia arbitrale, in Rass. forense, 1990, 285), le differenze tra
i concetti di imparzialità, neutralità ed indipendenza non sono definite in modo assoluto, « si
scopre che vi sono scambi e sovrapposizioni, sembrando incerte le frontiere tra i tre requisiti ».
(22) Nel diritto inglese la disqualification dell’organo giudicante è prevista non solo
nel caso di atteggiamenti di effettiva parzialità, actual bias, ma anche nel caso di circostanze
che possano determinare nei contendenti il sospetto di un pregiudizio o di una qualche prevenzione, potential bias. L’individuazione del criterio più opportuno per sindacare l’impressione e l’apparenza di imparzialità dell’arbitro ha visto contrapposti due diversi orientamenti
giurisprudenziali. Le authorities inglesi, in particolare, si sono divise circa la congruità del
« real likelihood test » ovvero del criterio del « reasonable suspicion ». Tale contrasto è poi
culminato nella sentenza R. v. Gough, in cui venne preferito il criterio della « reale probabilità » a quello del « reale pericolo » di parzialità dell’organo arbitrale.
L’Arbitration Act del 1996 sembra, però, allinearsi alla precedente elaborazione giurisprudenziale. Nella Section 24 è previsto, infatti, che costituisce valido motivo per richiedere alla Corte la rimozione dell’arbitro l’esistenza di « circumstances that give rise to justifiable doubts as to his impartiality ». Dunque, per ottenere la disqualification dell’arbitro,
nell’ordinamento inglese, è sufficiente la ragionevolezza del sospetto, ovvero la sensata prospettazione che il dubbio di parzialità potrebbe sorgere anche in chi non è parte in causa, secondo lo standard dell’uomo medio e corretto. Cosı̀, MUSTILL - BOYD, The Law and Practice
of Commercial Arbitration in England, London, 1982, 727; PARRIS, The Law and Practice of
Arbitrations, London, 1976, 145.
(23) Le prime regolamentazioni dell’istituto compromissorio in Inghilterra risalgono
alla fine del XVII secolo. Ma ancora prima, lo strumento arbitrale era conosciuto e largamente impiegato nella prassi dei mercanti inglesi, nella forma della c.d. voluntary submission
out of court. L’istituto era caratterizzato dalla mancanza di vincolatività dell’accordo arbitrale
e dalla revocabilità ad nutum della nomina degli arbitri ad opera delle parti, in qualunque
momento fino a che non fosse emesso l’award. La sua evoluzione ha portato all’attuale disciplina dell’arbitrato inglese. Inter alias, WALTON, voce Arbitration, in Halsbury’s Laws of
England, ed. 4, 1973, II, nn. 501-653.
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ad ottenere, per la parte che lo aveva nominato, il « best compromise result » (24).
La diffusione di tale prassi aveva reso manifesta la difficoltà, e, allo
stesso tempo, la necessità di disciplinare ex novo tutti gli aspetti della figura dell’umpire.
Cosı̀ il legislatore inglese, con l’Arbitration Act del 1996, recependo
le osservazioni del Department Advisory Committee on English International Commercial Arbitration (25), è intervenuto nuovamente sulla materia
adottando una soluzione liberale, ovvero lasciando alle parti il potere di determinare il ruolo e i poteri dell’umpire.
Infatti, nella Section 21, l’Act del 1996 attribuisce alle parti, qualora
ne abbiano convenuto l’intervento, il compito di delineare e definire i poteri, i doveri dell’umpire ed, in particolare, la sua partecipazione al procedimento arbitrale. Nel caso in cui le parti nella convenzione arbitrale nulla
abbiano disposto, l’Act, con una norma suppletiva (26), prevede che l’umpire partecipi all’intero procedimento e riceva gli stessi documenti ed elementi probatori che vengono assunti dagli altri arbitri.
I provvedimenti ordinatori e decisori vengono pronunciati dai partyappointed arbitrators, salvo che non intervenga un disagreement in relazione a una delle questioni inerenti l’arbitrato. In tal caso, essi sono tenuti
a darne immediata comunicazione scritta alle parti e all’umpire, il quale risulta da questo momento investito del giudizio arbitrale come arbitro unico.
Se gli arbitri non adempiono tale dovere, ciascuna delle parti può, con no(24) Tale diversa funzione dell’award è riconosciuta nel caso W. Naumann v. Edward
Nathan & Co. Ltd., [1930] 37 Lloyd’s Report 249; nonché in Re Enoch and Zaretsky, Bock
& Co., [1910] 1 K.B. 327.
(25) Il Comitato, istituito dal Governo britannico nel 1985 al fine di esaminare il
funzionamento della legislazione sull’arbitrato alla luce delle disposizioni della leggemodello Uncitral, si è espresso in tal senso nel Report on the Arbitration Bill del Febbraio
1996, riportato da R. MERKIN, Arbitration Act 1996. An annotated giude, London, New York,
Hong Kong, 1996, 175 ss.
(26) Le norme suppletive fanno parte del genus delle norme relative e devono intendersi come le norme « che provvedono a colmare le lacune lasciate dalle parti nella disciplina da loro stesse dettata », mentre quelle dispositive, anche esse parte del genus norme relative, « entrano in applicazione soltanto nell’ipotesi in cui manchi una disciplina delle
parti ». Le due norme possono distinguersi per « una diversità di grado », in quanto la norma
suppletiva « integra una insufficienza », mentre la norma dispositiva ripara una mancanza. Le
norme dispositive e suppletive non si distinguono per la particolare efficacia, ma « in base
alla composizione della fattispecie » che prevede tra gli altri elementi il fatto negativo della
mancanza o dell’insufficienza dell’accordo delle parti. La fattispecie delle norme dispositive
risulta dalla combinazione di almeno due fatti: il fatto costitutivo del rapporto disciplinato ed
il fatto negativo dell’assenza dell’accordo delle parti. La fattispecie della norma suppletiva
risulta dal combinato di almeno tre fatti: il fatto costitutivo del rapporto disciplinato, l’accordo delle parti, e il fatto negativo dell’insufficienza dell’accordo, ossia dell’assenza dell’accordo su taluni punti della disciplina. N. IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990, 88 s.
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tifica alle altre parti e agli arbitri, chiedere alla Corte (27) che ordini all’umpire di sostituire quest’ultimo (28).
Sebbene l’umpire debba ricevere gli stessi documenti e materiali che
ricevono i party-appointed arbitrators e partecipare al procedimento arbitrale insieme a questi ultimi, egli non ha alcun potere di decidere la controversia, in quanto è destinato ad assumerne la cognizione e la decisione solo
nell’eventualità in cui i due arbitri nominati dalle parti incorrano in un disaccordo.
Tuttavia l’Act del 1996, scegliendo la strada dell’autonomia delle
parti, non ha risolto i problemi concettuali posti dal ruolo dell’umpire ed il
serio rischio che il principio di imparzialità dell’organo giudicante sia compromesso.
Infatti, da un lato, il principio di autonomia consente ancora oggi alle
parti di prevedere un tribunale arbitrale caratterizzato dalla presenza di due
arbitri di parte, che nel caso di stallo della procedura provocato da un disaccordo, si trasformino in veri e propri difensori di parte e istruiscano la
causa dinanzi al terzo arbitro di nuova nomina. In questo modo, almeno
formalmente, si avalla la persistenza nei procedimenti arbitrali, del concetto
del « my arbitrator », ovvero di un arbitro-mandatario che curi gli interessi
della parte che lo ha nominato, una volta cessato il suo incarico di organo
giudicante (29). La legittimità di tale prassi è sostenuta dalla dottrina britannica sul presupposto che sia possibile distinguere nettamente i due ruoli,
per cui sui party-appointed arbitrators graverebbe il duty to act impartially
fino alla nomina dell’umpire. In seguito a tale momento la loro posizione
cambia in qualcosa di diverso: dovranno comportarsi « as advocate » (30).
(27) La Section 105 dell’Arbitration Act del 1996 contiene la definizione di
« Court »: « In this Act “the court” means the High Court or a county court subject to the
following provisions. (2) The Lord Chancellor may by order make provision: (a) allocating
proceedings under this Act to the High Court or to county courts; or (b) specifying proceedings under this Act which may be commenced or taken only in the High Court or in a county
court. (3) The Lord Chancellor may by order make provision requiring proceedings of any
specified description under this Act in relation to which a county court has jurisdiction to be
commenced or taken in one or more specified county courts. (...) ».
(28) In tal senso la Section 21 (5) dell’Arbitration Act del 1996: « If the arbitrators
cannot agree but fail to give notice of that fact, or if any of them fails to join in the giving
of notice, any party to the arbitral proceedings may (upon notice to the other parties and to
the tribunal) apply to the court which may order that the umpire shall replace the other arbitrators as the tribunal with power to make decisions, orders and awards as if he were sole
arbitrator ».
(29) In tal senso BERNSTEIN - TACKABERRY - MARRIOTT - WOOD, Handbook of arbitration practice, London, 1998, 205.
(30) Tali argomentazioni sono state sostenute nel caso MV Myron v. Tradax Export
SA, [1970], 1, Q.B. 527, 533 B; e in W. Naumann v. Edward Nathan & Co. Ltd, [1930], 37
Lloyd’s Report, 249, in cui l’arbitro di parte viene cosı̀ definito: « He is a negotiating advo-
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Dall’altro, l’Arbitration Act del 1996, nell’imporre che l’umpire partecipi all’intera procedura e che riceva la stessa documentazione fatta pervenire agli altri arbitri, ha eliminato le caratteristiche stesse della figura, che
finisce con il somigliare sempre più a un chairman. L’unica differenza riscontrabile tra le due fattispecie è che l’umpire o non delibera affatto o, se
delibera, lo fa da arbitro unico. Al contrario, il chairman partecipa sempre
alla deliberazione del lodo (31). Ma tale differenza è attenuata dalla Section
21, che trasforma l’umpire da arbitro virtuale, assente allo svolgimento
della causa, in terzo partecipe, che riceve i documenti, presenzia alle
udienze, si forma un proprio convincimento circa i fatti di causa. Dunque,
è inevitabile che lo stesso divenga fonte di consultazione e di riferimento
per gli arbitri di parte. Il principio per cui « the umpire could not become
involved in any decision-making » (32) difficilmente sarà rispettato in un sistema in cui il terzo arbitro siede insieme ai componenti del collegio duale.
La sentenza della High Court of Justice in esame rispecchia proprio
tali problematiche. Infatti, per un verso, consentendo alle parti la facoltà di
definire la partecipazione alla procedura arbitrale dell’umpire non solo nella
convenzione arbitrale, ma anche in un atto successivo, la Corte britannica
garantisce all’autonomia negoziale un ampio ambito di applicazione, che
potrebbe estendersi sino alla previsione di arbitrator-adovacates. Tuttavia,
la Corte considera preferibile la partecipazione dell’umpire alla procedura
arbitrale ab initio, affinché presieda alle udienze e riceva la stessa documentazione inviata agli arbitri di parte, avvicinando tale figura a quella di
un presidente del collegio arbitrale.
Sembra, comunque, che, nella Section 21 dell’Arbitration Act, il legislatore inglese del 1996 non abbia fatto altro che recepire l’evoluzione
stessa del ruolo dell’umpire. Tale figura, molto diffusa per il passato, nella
prassi è caduta in disuso (33), considerato che le parti che intendono sostenere le spese di un tribunale arbitrale tripartito provvedono alla nomina di
un chairman nelle vesti di presidente dell’organo giudicante, e non invece
di un umpire, il cui ruolo resta dai confini incerti.
cate, endeavouring to do the best he can for his client ». Tali tesi sono state, inoltre, condivise da SUTTON - GILL, Russel on arbitration, Sweet & Maxwell, 2003, 148.
(31) Come è stato evidenziato da ZUFFI, L’arbitrato nel diritto inglese: studio comparatistico sulla natura dell’arbitrato e sull’imparzialità dell’arbitrato in Inghilterra, Torino,
2008, 259 ss.
(32) Il principio che caratterizza il ruolo dell’umpire è stato enunciato nel caso Potter v. Newman, [1835] 4 Dowl, 504.
(33) B. HARRIS - R. PLANTEROSE - J. TECKS, The Arbitration Act 1996. A commentary,
ed. IV, Oxford, 2007, 113 ss., ove si pone in serio dubbio che la figura dell’umpire troverà
una rilevante applicazione nella prassi, eccezion fatta per quelle ipotesi in cui la sua presenza
sia prevista in clausole inserite in « standard contract forms ».
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2. La diffusione della figura del chairman e il lento declino dell’umpire è probabilmente da ricondursi anche ai dubbi che la sopravvivenza
della prassi dell’arbitrator-advocate solleva in tema di riconoscimento dei
lodi stranieri, in applicazione della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (34). L’articolo V della Convenzione sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere elenca in modo tassativo (35) i vizi
in presenza dei quali l’autorità giudiziaria dello stato di ricezione può rifiutare il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali. La prassi dell’arbitrator-advocate potrebbe, in particolare, integrare una violazione del
principio del contraddittorio ovvero di quello dell’imparzialità.
Sotto il primo profilo, il riconoscimento dell’award potrebbe essere
rifiutato in applicazione dell’articolo V (1) lett. b della Convenzione (36). Il
principio dell’audiatur et altera pars (37) si traduce, infatti, nella necessità
(34) La Convenzione di New York del 1958 ha lo scopo di favorire la recezione dei
lodi al di fuori dell’ordinamento in cui sono stati emessi. Presupposti fondamentali per l’applicazione della disciplina convenzionale sono: l’esistenza di una sentenza arbitrale e l’estraneità della decisione all’ordinamento nel quale viene domandato il riconoscimento e l’esecuzione. Il giudizio di exequatur non prevede alcuna possibilità per il giudice dell’esecuzione
di procedere ad una revisione nel merito della sentenza arbitrale. Il potere dell’autorità giudiziaria dello Stato di ricezione è limitato alla verifica della sussistenza delle condizioni previste dalla Convenzione ai fini del riconoscimento ed all’analisi delle eccezioni tassativamente indicate nell’articolo V. In particolare, il soggetto nei cui confronti è richiesto il riconoscimento o l’esecuzione del lodo può ottenere il rifiuto da parte del giudice, se eccepisce
e dimostra la sussistenza di una delle seguenti circostanze: l’incapacità delle parti, l’assenza
di una valida convenzione arbitrale, la violazione del principio del contraddittorio, l’esorbitanza del lodo dal patto compromissorio, l’irregolarità nella costituzione dell’organo o nella
procedura arbitrali e l’inefficacia della decisione. Il giudice dell’esecuzione potrà, inoltre, rifiutare il riconoscimento o l’esecuzione del lodo, laddove risulti l’incompromettibilità della
controversia oggetto della sentenza arbitrale ovvero la contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi
del secondo paragrafo dello stesso articolo V. BRIGUGLIO, L’Arbitrato estero: il sistema delle
convenzioni internazionali, Padova, 1999; ID., Arbitrato estero e giurisdizione italiana,
Roma, 2004, passim; ATTERITANO, Il « forum non conveniens » nei procedimenti di « enforcement » dei lodi arbitrali stranieri, in Riv. dir int. priv. e proc., 2005, 4, 1009 ss.
(35) La giurisprudenza è sul punto pacifica; tra le varie pronunce: App. Napoli, 20
febbraio 1975, in Rass. arb., 1978, 143 ss.; Areios Pagos 926/1973, in Yearb. Comm. Arb.,
I, 1976, 187 ss.
(36) La ratio della disposizione è ravvisata nella volontà di far derivare solo da una
seria violazione del giusto processo, che abbia compromesso la validità del giudizio in contraddittorio, un ground for refusal idoneo a bloccare l’enforcement, e non invece da ogni violazione concernente il diritto di difesa delle parti. In tal senso, ATTERITANO, L’enforcement
delle sentenze arbitrali del commercio internazionale. Il principio del rispetto della volontà
delle parti, Milano, 2009, 223 ss.
(37) Il principio del contraddittorio risponde all’esigenza riconosciuta in ambito internazionale che venga rispettato il paritario trattamento dei soggetti del processo, in quanto
il gioco dialettico posto in essere dalle parti è da considerarsi lo strumento migliore e più facilmente utilizzabile perché l’organo giudicante raccolga il materiale necessario all’emana-
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che la decisione venga pronunciata da un organo giudicante, sia esso un
giudice togato o un arbitro, che si trovi in una posizione di equidistanza e
di uguale predisposizione ad ascoltare le ragioni dei contendenti.
Tuttavia il favor verso il riconoscimento dei lodi stranieri ha indotto a
interpretare, nella maggior parte delle corti nazionali, l’eccezione della violazione del contraddittorio come un rimedio estremo, che consente di negare il riconoscimento solo per le violazioni e le limitazioni più gravi dell’« equal opportunity to be heard ». A tal fine, non è sufficiente la mera assenza di un dibattimento orale, ma è necessario che alle parti non sia stato
riconosciuto dall’organo arbitrale il diritto di essere informate degli argomenti e delle prove addotte dall’altro contendente e di controbattere a tali
deduzioni (38).
Interpretando la Convenzione secondo questa prospettiva, non sembra
che il procedimento arbitrale condotto da due arbitri, divenuti poi difensori
delle parti, generi solo per tale motivo un grave e concreto vulnus al principio del contraddittorio. Un simile collegio arbitrale appare, infatti, omogeneo e rappresentativo in egual misura degli interessi di tutte le parti in
causa.
Tuttavia l’enforcement del lodo potrebbe essere negato anche per violazione della lett. b del para. 2 dello stesso articolo V. Tale disposizione
prevede che il riconoscimento e la esecuzione di un lodo possano essere rifiutati se la competente autorità del Paese in cui lo si intende far valere lo
reputi contrario all’ordine pubblico (39).
zione del provvedimento più giusto. Cfr. VERDE, Profili del processo civile. 1. Parte generale,
Napoli, 2002, 106 ss.
(38) In tal senso, VAN DEN BERG, The New York Arbitration Convention of 1958, Deventer, 1981, 322 ss.
(39) Il significato da attribuire alla nozione di public policy, cioè se debba intendersi
quale ordine pubblico internazionale o interno ha dato vita ad un acceso dibattito dottrinale.
Il primo è concepito come un complesso di principi ispiratori dell’ordinamento nazionale
idonei a fungere da barriera all’ingresso di soluzioni giuridiche straniere contrarie. Il secondo, invece, come insieme di principi inderogabili che limitano la volontà negoziale dei
privati. Ai fini del riconoscimento delle sentenze straniere non è rilevante l’ordine pubblico
internazionale, c.d. ordine pubblico-limite, bensı̀ solo il c.d. ordine pubblico-barriera. Quest’ultimo è composto da principi base dell’ordinamento giuridico statale chiamato a ricevere
il lodo richiesto. Tali principi possono tuttavia esprimere valori di diversa intensità, in particolare valori relativi, ovvero sentiti come importanti in una determinata comunità statale, ma
non condivisi a livello internazionale, e valori assoluti, che godono di una trasversale condivisione nella Comunità internazionale. Solo questi ultimi compongono l’ordine pubblico internazionale e il loro rispetto rappresenta un limite al riconoscimento delle sentenze arbitrali.
Si ritiene infatti possibile il diniego di exequatur per violazione della public policy solo in
caso di compromissione delle « most basic notions of morality and justice ». Tra gli altri:
BADIALI, Ordine pubblico e diritto straniero, Varese, 1963; FERRI, Ordine pubblico, in Enc.
dir., XXX, Milano, 1980, 1051 ss.; ATTERITANO, L’enforcement delle sentenze arbitrali del
commercio internazionale, cit., 315 ss.; SILVESTRI, Riconoscimento ed esecuzione di sentenze
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Con l’espressione ordine pubblico si fa riferimento a quei valori riconosciuti fondamentali non solo in un data comunità statale, ma in ambito
internazionale, e che fungono da barriere all’ingresso per soluzioni giuridiche straniere contrarie. La compromissione dei principi posti a tutela di tali
valori essenziali per la Comunità internazionale può concernere sia il merito che la procedura arbitrale, si distingue perciò tra ordine pubblico processuale e ordine pubblico sostanziale.
La prassi dell’arbitrator-advocate potrebbe comportare una violazione
dell’ordine pubblico processuale, nel cui ambito applicativo si fanno rientrare, infatti, le violazioni o, comunque, le limitazioni del principio di imparzialità dell’organo giudicante.
In realtà, secondo un certo orientamento dottrinale, non si potrebbe
neanche parlare di un’attività decisoria nel caso in cui chi è chiamato ad
assolverla versi in una posizione di parzialità (40). Tuttavia, non tutte le limitazioni del principio di imparzialità e terzietà dell’organo giudicante realizzano una compromissione della public policy. Valido motivo di diniego
dell’exequatur è rappresentato solo dall’esistenza di una c.d. actual bias,
ovvero di un lodo emesso da un tribunale arbitrale la cui imparzialità sia
stata effettivamente compromessa (41).
L’esistenza di un legame dell’arbitro con uno dei contendenti, o meglio la trasformazione di un arbitro, in difensore della parte che lo ha nominato, non è che un indizio di parzialità, che potrebbe però ricevere una
radicale smentita da una condotta imparziale ed indipendente dell’organo
giudicante (42). In presenza di gravi e dimostrati interessi dell’arbitro o de-
arbitrali straniere negli Stati Uniti: esiste davvero il limite della « public policy »?, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1998, 607 ss.
(40) In senso conforme BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero tra Convenzione
di New York e codice di procedura civile, in questa Rivista, 2006, 21 ss., ove l’Autore riconosce al principio dell’imparzialità dell’organo arbitrale il rango di principio di ordine pubblico processuale, sancito dall’articolo 111 Costituzione, le cui violazioni legittimerebbero il
rifiuto del riconoscimento dei lodi esteri.
(41) L’orientamento maggioritario considera la regola dell’equidistanza dell’organo
giudicante dai contendenti come uno dei principi fondamentali del processo, la cui compromissione integra senza dubbio una violazione dell’ordine pubblico internazionale. A tal fine
si ritiene necessaria un’effettiva mancanza di equidistanza, non integrando un motivo di rifiuto dell’esecuzione la semplice possibile parzialità. V.: ZUFFI, L’arbitrato nel diritto inglese:
studio comparatistico sulla natura dell’arbitrato e sull’imparzialità dell’arbitrato in Inghilterra, Torino, 2008, 307 ss.; MARINELLI, Imparzialità dell’arbitro, ordine pubblico e circolazione dei lodi esteri, in Int’1 Lis, 2002, 1, 23 ss.
(42) Un’interpretazione ancor più rigorosa è offerta dalla giurisprudenza tedesca che
suggerisce al giudice dell’exequatur l’applicazione della c.d. local remedies rule. Tale principio subordina l’esperimento della tutela sovranazionale al previo esaurimento dei rimedi
offerti alla parte interessata dagli ordinamenti nazionali. Il giudice dell’esecuzione dovrebbe
dunque rigettare le istanze di opposizione al recepimento delle sentenze arbitrali in tutti i casi
in cui la parte opponente non si sia avvalsa dei mezzi di tutela riconosciuti dalla legge della
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gli arbitri in ordine all’esito della controversia si potrebbe riscontrare una
violazione dell’ordine pubblico tale da determinare il diniego di recezione
del lodo.
Tuttavia, anche in questo caso, non sembra che l’adozione della prassi
dell’arbitrator-advocate conduca sempre e necessariamente a una violazione del principio di imparzialità e per tal via al diniego di recezione del
lodo emesso.
3. Il principio dell’autonomia del processo arbitrale rispetto all’autorità giurisdizionale ha caratterizzato l’intera disciplina dei rimedi esperibili avverso un lodo arbitrale, e in particolare anche l’impugnazione per seria irregolarità, ai sensi della Section 68.
Prima della recente riforma, il ruolo di controllo sull’arbitrato esercitato dalle corti superiori era molto rigoroso e presente in ogni fase del procedimento arbitrale, ciò finiva per vanificare lo scopo primario dello strumento arbitrale, ossia quello di sottrarre la cognizione delle controversie
alla giurisdizione ordinaria.
La c.d. supervisory jurisdiction delle corti inglesi trovava la sua massima estensione nell’istituto della stated case procedure prevista dall’Arbitration Act del 1950. La Section 21 della suddetta legge disponeva che,
qualora una questione di diritto fosse intervenuta nel corso della procedura
arbitrale, ovvero in seguito alla pronuncia del lodo, ciascuno dei contendenti aveva la facoltà di chiedere all’arbitro che questa fosse decisa dall’High Court. L’arbitro poteva rifiutarsi di rimettere la decisione sulla questione di diritto alla Corte, ma in tal caso doveva concedere un termine alle
parti entro il quale rivolgersi alla High Court (43).
sede. La parzialità dell’organo arbitrale potrebbe rilevare in sede di enforcement dell’award
solo nell’ipotesi in cui la parte interessata non sia stata in grado di eccepire la doglianza nello
Stato della sede dell’arbitrato o l’abbia fatto senza successo. In quest’ultima ipotesi potrebbe
farsi rientrare la prassi dell’arbitrator-advocate, considerato che il diritto inglese, con la Section 21, ha ammesso, se pur tacitamente, la validità della trasformazione degli arbitri di parte
in difensori. Al riguardo non mancano opinioni contrarie, secondo cui non è vietato opporre,
in sede di esecuzione dei lodi stranieri, vizi che sarebbero stati deducibili con rimedi contemplati dalla legge dello Stato di riferimento. Le parti sarebbero infatti libere di scegliere se
eliminare in toto il lodo nel paese d’origine esperendo i local remedies, ovvero di intraprendere una strategia difensiva meno radicale, lasciando in vita il lodo nell’ordinamento di
emissione, ma impedendone la circolazione extramunicipale. Cfr. MARINELLI, Imparzialità
dell’arbitro, ordine pubblico e circolazione dei lodi esteri, in Int’l Lis, 2002, 1, 23 ss.; ZUFFI,
Peculiarità inglesi in tema di composizione dell’organo arbitrale (specie se integrato da un
umpire) e riconoscimento dei lodi, ibidem, 2005, 1, 33 ss.
(43) Il sistema era però congegnato in modo tale che l’arbitro difficilmente arrivava
a rigettare l’istanza di special case. Infatti, per un verso il diritto delle parti di ricorrere a tale
procedura era considerato di ordine pubblico e non poteva essere convenzionalmente escluso
dalle parti. Per altro verso, qualsiasi questione di diritto poteva formare oggetto di uno spe-
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L’esigenza di restringere i poteri di intervento del giudice ordinario
sul lodo al fine di garantire la stabilità dei lodi emessi è stata recepita nell’Arbitration Act del 1996.
In particolare, l’Act del 1996 nella Section 68 consente ai litiganti di
impugnare un lodo dinanzi al giudice ordinario, nei soli casi di serie irregolarità (44) ed elenca in modo tassativo le irregolarità procedurali che possono definirsi gravi. Tale rimedio è comunque subordinato al previo esaurimento delle procedure di correzione del lodo e alla consumazione dei
mezzi arbitrali di review o di appello eventualmente previsti nella convenzione arbitrale (45).
L’intervento del giudice ordinario risulta ulteriormente ridotto dall’ulteriore requisito, previsto dalla Section 68, per cui la grave irregolarità deve
aver generato una « sostanziale situazione di ingiustizia ». La tutela cosı̀ riconosciuta alle parti deve essere considerata come rimedio applicabile dal
giudice ordinario solo in casi assolutamente eccezionali, in cui « quanto
accaduto diparte in misura grave da ciò che ragionevolmente si attende da
un processo arbitrale » (46).
Un’ulteriore dimostrazione della tendenza a preservare la validità e
l’esistenza del lodo arbitrale è la facoltà del giudice ordinario, adito ex
Sect. 68, di emettere due tipi di provvedimenti: di remissione del lodo al
tribunale arbitrale per la sua riforma ovvero di annullamento del lodo.
Allo strumento della c.d. remission, le corti britanniche ricorrono laddove il lodo sia censurabile sotto il profilo rilevato dalle parti, ma non in
maniera tale da necessitare di un provvedimento di completo annullamento.
cial case, con la conseguenza che lo strumento finiva con l’essere utilizzato anche solo allo
scopo di ritardare il corso dell’arbitrato o l’esecuzione del lodo. Per effetto di tale procedura,
i lodi su questioni di diritto non potevano mai essere definitivi, poiché in virtù della giurisdizione di supervisione, tali questioni potevano sempre essere riesaminate dalle corti britanniche. Cfr. SCHMITTHOFF, The Supervisory Jurisdiction of the English Courts, in International
Arbitration liber amicorum for Martin Domke, The Hague, 1967, 289 ss.; BRUNELLI, La nuova
disciplina dell’arbitrato in Inghilterra, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1985, 2, 351; SANDERS,
Should England maintain the court control by means of the special case stated?, in Rass. arbitrato, 1964, 1 ss.
(44) Il concetto di « serious irregularity » è stato introdotto dall’Arbitration Act del
1996 per sostituire l’espressione « misconduct », che comprendeva anche i semplici errori od
omissioni procedurali commesse dal tribunale nella conduzione dell’arbitrato. Cfr. ZUFFI,
L’arbitrato nel diritto inglese: studio comparatistico sulla natura dell’arbitrato e sull’imparzialità dell’arbitrato in Inghilterra, Torino, 2008.
(45) Cosı̀ è espressamente disposto nella Section 70 dell’Arbitration Act del 1996.
(46) In tal senso si esprime il Department Advisory Committee nel DAC’s Report on
Arbitration Bill, in B. HARRIS - R. PLANTEROSE - J. TECKS, The Arbitration Act 1996. A commentary, ed. IV, Oxford. Il principio è stato condiviso anche dalle corti britanniche, in particolare nel caso Conder Structures v. Kvaerner, [1999] ADRLJ 305, in cui si è precisato che
« (...) a challenge on the ground of serious irregularity is only intended to be available in
cases where the arbitral procedure has so far departed from what might reasonably have
been expected as to justify the corrective intervention of the court ».
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La rimessione avviene a favore dell’arbitro o del collegio arbitrale che
aveva pronunciato il lodo impugnato, in quanto « the essence of the power
is reconsideration and not afresh consideration by a new arbitrator » (47).
In tale ipotesi viene concessa all’organo arbitrale una vera e propria « seconda possibilità » (48): il tribunale arbitrale, pertanto, dovrà provvedere ad
una riconsiderazione della questione secondo le direttive contenute nel
provvedimento giudiziale, e comunque nel termine di tre mesi o nel diverso
termine indicato dalla stessa autorità giudiziaria (49).
Tale procedura, nel consentire la trasformazione di un giudizio di impugnazione in un procedimento di correzione od integrazione da parte dello
stesso collegio arbitrale, dimostra il favor e la fiducia riconosciuta dall’ordinamento inglese all’arbitrato, quale strumento alternativo e definitivo di
risoluzione delle controversie (50).
Il giudizio di impugnazione del lodo può, altresı̀, concludersi con un
provvedimento di setting aside. L’ordine di annullamento ha un’efficacia
retroattiva e priva il lodo di ogni effetto legale che di fatto, pertanto, dovrà
ritenersi tamquam non esset (51).
A differenza della previgente normativa, il provvedimento di annullamento non deve, però, necessariamente avere ad oggetto l’intera sentenza
arbitrale, ma può anche limitare la propria indagine a quelle parti che ritiene viziate, lasciando immutata la validità e l’efficacia delle restanti.
In questo modo, la novella ha trasformato l’intervento del giudice ordinario da un controllo rigoroso e pregnante sullo strumento arbitrale, ad un
(47) RHIDIAN THOMAS, The law and practice relating to appeals from arbitration
awards: a thematic analysis of the arbitration act 1979, London, 1994, 215 ss.
(48) MARINUCCI, Esito ed effetti dell’impugnazione giudiziaria del lodo arbitrale: note
di diritto comparato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 1334.
(49) Section 71 dell’Arbitration Act del 1996.
(50) Qualora la rimessione abbia ad oggetto solo alcune delle questioni sollevate dinanzi agli arbitri, quest’ultimi, anche se sono chiamati ad emettere un « fresh award » che
copra l’intera materia del contendere, non possono modificare la decisione sui punti lasciati
intatti dalla Corte e dovranno limitarsi a ripetere quanto già statuito inizialmente.
(51) Dubbi sono stati sollevati in dottrina circa l’efficacia ablativa del provvedimento
di setting aside. In particolare, talvolta, si è sostenuto che il provvedimento di annullamento
determina un regresso dell’arbitrato allo stadio immediatamente precedente alla pronuncia
del lodo, sul presupposto che l’arbitro originario rimane comunque investito del potere giurisdizionale sulla causa; talaltra si è affermato che il provvedimento colpisce l’intero procedimento arbitrale, con la conseguenza che la controversia ricadrebbe nella giurisdizione delle
Corti statali, con limitazione della volontà dei compromittenti; ancora si è osservato che
l’annullamento non solo colpisce il lodo, ma anche il potere decisorio degli arbitri, i quali
saranno in tal modo spogliati della loro investitura, cosı̀ da rendere necessaria una nuova
convenzione ed un nuovo procedimento arbitrale. Nel silenzio della legge sul tema, la dottrina quasi unanime sembra escludere la persistenza del patto arbitrale solo laddove il vizio
censurato vi inerisca, in caso contrario la convenzione arbitrale rimane efficace e valida tra
le parti. MUSTILL - BOYD, Commercial Arbitration, cit., 565 ss.
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vero e proprio supporto per l’arbitrato, affinché lo stesso mantenga « its
good reputation » (52).
Ulteriore manifestazione del favor riconosciuto nell’Act del 1996 per
l’autonomia dell’arbitrato e la stabilità dell’award, si riscontra nella previsione per cui il potere di annullare in tutto o in parte un lodo deve essere
usato con moderazione dalle corti britanniche. Tale rimedio non può essere
utilizzato solo perché il tribunale arbitrale è incorso in un errore di fatto o
di diritto, o perché gli arbitri non hanno affrontato tutte le questioni giuridiche sollevate dai contendenti, ma solo laddove il tribunale arbitrale abbia
tenuto una condotta « unfair » tale da causare una « substantial injustice »,
che non renda sufficiente la mera rimessione del lodo allo stesso organo arbitrale per una riconsiderazione.
Il silenzio del legislatore inglese sulla figura dell’umpire e sulla legittimità della prassi degli arbitrator-advocates, l’ampio potere di autonomia
riconosciuto alle parti e la limitazione dei poteri di intervento del sistema
giudiziale locale sull’arbitrato, sono tutte manifestazioni del favor riconosciuto allo strumento arbitrale, che conferiscono al territorio inglese la caratteristica di territorio arbitrale neutrale e ambita sede degli arbitrati internazionali.
RITA TUCCILLO
(52) « The court’s power is essentially designed to be supportive of arbitration in the
sense maintaining its good reputation by being available to rectify glaring and indefensible
irregularities that would occasion injustice », in tal senso si è espressa la giurisprudenza inglese nel caso Indian Oil Corporation v. Coastal (Bermuda) Ltd, [1990] 2 Lloyd’s Report
407.
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STATI UNITI - UNITED STATES COURT OF APPEALS, Second Circuit; sentenza del 24 giugno 2009-14 gennaio 2010 — T.Co. Metals, LLC v. Dempsey
Pipe & Supply, Inc.
Correzione del lodo - Potere dell’arbitro definito dal regolamento arbitrale Interpretazione del regolamento ad opera dell’arbitro - Sindacabilità in
sede di impugnazione (eccesso di potere) - Esclusa.
Non è impugnabile per eccesso di potere la decisione con la quale l’arbitro
abbia corretto errori contenuti nel lodo in base all’art. 30(1) del Regolamento dell’International Centre for Dispute Resolution dell’American Arbitration Association. Anche allorché la correzione non riguardi meri errori materiali, ma comporti
una riconsiderazione delle prove e un riesame della decisione, l’interpretazione del
Regolamento arbitrale riguardo ai poteri dell’arbitro in ordine alla correzione del
lodo è insindacabile in sede di impugnazione.
CENNI DI FATTO. — Nel 2006 T.Co. Metals, LLC inizia un procedimento arbitrale nei confronti di Dempsey Pipe & Supply, Inc. sulla base delle clausole compromissorie contenute in due contratti conclusi tra le parti l’anno precedente che
prevedono la soluzione delle eventuali controversie in conformità alle ICDR Rules.
Il 20 aprile 2007 l’arbitro unico pronuncia il lodo finale, nel quale egli accoglie parzialmente le rispettive pretese delle parti, condannando Dempsey Pipe &
Supply, Inc. al pagamento del saldo del prezzo e T.Co. Metals al risarcimento dei
danni derivanti dalla difettosità dei prodotti.
Entrambe le parti lamentano errori nel lodo finale e ne chiedono la correzione
in base all’art. 30(1) delle ICDR Rules. L’arbitro corregge diversi errori contenuti
nel lodo attraverso un’ordinanza, che riduce la somma attribuita a Dempsey Pipe
& Supply, Inc. a seguito di un riesame delle prove. Il contenuto dell’ordinanza è
successivamente incorporato in un « Amended Award ».
Entrambe le parti impugnano il lodo corretto davanti alla District Court.
L’impugnazione di T.Co. Metals, LLC, fondata sul « manifest disregard of the
law », per avere il lodo riconosciuto a Dempsey il diritto al risarcimento dei danni
da mancato profitto in asserita violazione dei due contratti, è rigettata. L’impugnazione di Dempsey Pipe & Supply, Inc. è invece fondata sull’eccesso di potere dell’arbitro unico nel correggere i presunti « errori » contenuti nel lodo originario e su
presunte « material miscalculations » nel computo dei danni. La Corte distrettuale
rigetta l’impugnazione di Dempsey Pipe & Supply, Inc. sotto quest’ultimo profilo
ma la accoglie sotto il profilo dell’eccesso di potere, in quanto gli errori corretti
dall’arbitro unico non costituiscono errori materiali ai sensi dell’art. 30 delle ICDR
Rules, ma comportano il riesame delle prove.
T.Co. Metals impugna la decisione della Corte distrettuale davanti alla Corte
d’appello del Secondo Circuito, la quale accoglie l’impugnazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Discussion. — (Omissis).
III. Whether the Arbitrator Exceeded his Powers in Reconsidering the Original Award.
The FAA allows parties to petition the district court for an order vacating an
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arbitration award « where the arbitrators exceeded their powers ». This Court has
« “consistently accorded the narrowest of readings” to the FAA’s authorization to
vacate awards pursuant to § 10(a)(4) » (Banco de Seguros del Estado v. Mut. Marine Office, Inc., 344 F.3d 255, 262 (2d Cir.2003) (quoting Westerbeke Corp. v.
Daihatsu Motor Co., 304 F.3d 200, 220 (2d Cir.2002)). Our power under § 10(a)(4)
is strictly limited « in order to facilitate the purpose underlying arbitration: to provide parties with efficient dispute resolution, thereby obviating the need for protracted litigation ». ReliaStar, 564 F.3d at 85; accord Synergy Gas Co. v. Sasso, 853
F.2d 59, 63 (2d Cir.1988); Amicizia Società Navegazione v. Chilean Nitrate & Iodine Sales Corp., 274 F.2d 805, 808 (2d Cir.1960).
To demonstrate that the arbitrator exceeded his powers by revising the arbitral
award in T.Co’s favor, Dempsey relies primarily on the doctrine of functus officio
and on this Court’s application of that doctrine in Hyle v. Doctor’s Associates, Inc.,
198 F.3d 368 (2d Cir.1999). The functus officio doctrine dictates that, once arbitrators have fully exercised their authority to adjudicate the issues submitted to them,
« their authority over those questions is ended, » and « the arbitrators have no further authority, absent agreement by the parties, to redetermine th[ose] issue[s] ».
Trade & Transp., Inc. v. Natural Petroleum Charterers Inc., 931 F.2d 191, 195 (2d
Cir.1991). An arbitrator is not rendered powerless by the completion of his duties,
however. In Hyle, this Court explained that, even after becoming functus officio,
« an arbitrator retains limited authority to “correct a mistake which is apparent on
the face of [the] award” ». Hyle, 198 F.3d at 370 (alteration in original) (quoting
Colonial Penn Ins. Co. v. Omaha Indem. Co., 943 F.2d 327, 332 (3d Cir.1991)).
This inherent authority applies narrowly « to clerical mistakes or obvious errors in
arithmetic computation ». Id. (quoting Colonial Penn, 943 F.2d at 332) (internal
quotation mark omitted). Dempsey argues, and the district court agreed, that these
limitations on an arbitrator’s inherent power to correct facially apparent mistakes
preclude revisions such as those contained in the Amended Award.
In reaching this conclusion, Dempsey and the district court ignore an important caveat to the functus officio doctrine: that it only applies « absent an agreement
by the parties to the contrary ». Id.; accord Trade & Transp., Inc., 931 F.2d at 195.
Arbitration is « a matter of contract », ReliaStar, 564 F.3d at 85 (quoting PaineWebber Inc. v. Bybyk, 81 F.3d 1193, 1198 (2d Cir.1996)) (internal quotation mark
omitted), and parties are certainly free to empower their arbitrators to reconsider an
award. See Glass, Molders, Pottery, Plastics & Allied Workers Int’l Union, Local
182B v. Excelsior Foundry Co., 56 F.3d 844, 848 (7th Cir.1995) (Posner, C.J.)
(« Functus officio is merely a default rule, operative if the parties fail to provide
otherwise. There is no legal bar to authorizing arbitrators to reconsider their decisions, and some rules for arbitrators do authorize reconsideration. »); see also Veliz
v. Cintas Corp., 273 Fed.Appx. 608, 609 (9th Cir.2008) (concluding that the district court erred in applying the functus officio doctrine to bar an arbitrator from revisiting issues previously decided, because a number of arbitration agreements at
issue « include[d] clauses permitting the arbitrator to reconsider a prior decision »).
By definition, the functus officio doctrine is applicable only once the arbitrator’s
assigned duties have come to an end. See, e.g., Hyle, 198 F.3d at 370. The arbitrator in this case was empowered by both parties to consider requests for revisions to
be made in the arbitration award by virtue of the fact that the parties had agreed
the arbitration would be conducted pursuant to the ICDR Articles. Here, the arbi364
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trator interpreted ICDR Article 30(1) to permit him to make some corrections to the
Original Award and to bar him from making others. The arbitrator thus relied not
upon his inherent power to correct facial errors, but upon his interpretation of the
corrective authority bestowed upon him by the ICDR Articles, which the parties
expressly designated as the rules governing their arbitration. To decide whether the
arbitrator exceeded his authority by correcting the Original Award, then, we must
ascertain whether the arbitrator acted within his authority in determining that his
revisions fell within his power under ICDR Article 30(1) to correct « clerical, typographical or computation errors ».
While the district court recognized that the arbitrator derived his corrective
powers « in part » from the ICDR Articles, see T. Co. Metals LLC, No. 07-civ7747, slip op. at 8 n. 6, it erred by failing to distinguish ICDR Article 30(1) as a
source of authority separate from the arbitrator’s inherent power to correct facial
errors. Dempsey avoids this mistake by directly addressing the scope of ICDR Article 30(1) in its brief, positing that Article 30(1) is best interpreted as having the
same limited scope as the corrective power recognized as an exception to the functus officio doctrine. But this Court cannot analyze the meaning of ICDR Article
30(1) in a vacuum. Before considering this interpretive issue, we must first determine the level of deference, if any, that should be accorded to the arbitrator’s construction of ICDR Article 30(1). The answer to this question, in turn, depends on
whether the scope of ICDR Article 30(1) is an issue to be decided primarily by a
court or by the arbitrator. See First Options of Chi., Inc. v. Kaplan, 514 U.S. 938,
942-43, 115 S.Ct. 1920, 131 L.Ed.2d 985 (1995). If we determine that the parties
intended to submit this question to the arbitrator, this Court « should give considerable leeway to the arbitrator, setting aside his or her decision only in certain narrow circumstances ». Id. at 943, 115 S.Ct. 1920. If, on the other hand, we decide
that the parties anticipated having a court decide the scope of ICDR Article 30(1),
we would review the arbitrator’s analysis of this issue « independently ». See id.
To determine whether the parties intended to submit a given matter to arbitration, the general rule is that courts « should apply ordinary state-law principles that
govern the formation of contracts ». Id. at 944, 115 S.Ct. 1920. Under certain circumstances, however, the court is to apply a presumption either in favor of or
against arbitration of a given issue. First, « [t]he question whether the parties have
submitted a particular dispute to arbitration, i.e., the “question of arbitrability,” is
“an issue for judicial determination [u]nless the parties clearly and unmistakably
provide otherwise” ». Howsam v. Dean Witter Reynolds, Inc., 537 U.S. 79, 83, 123
S.Ct. 588, 154 L.Ed.2d 491 (2002) (second alteration in original) (quoting AT & T
Techs., Inc. v. Commc’ns Workers of America, 475 U.S. 643, 649, 106 S.Ct. 1415,
89 L.Ed.2d 648 (1986)); accord First Options, 514 U.S. at 944, 115 S.Ct. 1920.
Questions of arbitrability arise in « limited instances » involving « certain gateway
matters, » which are « typically of a kind that “contracting parties would likely
have expected a court” to decide. » Green Tree Fin. Corp. v. Bazzle, 539 U.S. 444,
452, 123 S.Ct. 2402, 156 L.Ed.2d 414 (2003) (plurality opinion) (quoting Howsam,
537 U.S. at 83, 123 S.Ct. 588). On the other hand, procedural questions that
« “grow out of the dispute and bear on its final disposition” are presumptively not
for the judge, but for an arbitrator, to decide ». Howsam, 537 U.S. at 84, 123 S.Ct.
588 (quoting John Wiley & Sons, Inc. v. Livingston, 376 U.S. 543, 557, 84 S.Ct.
909, 11 L.Ed.2d 898 (1964)).
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In the present case, we need not decide whether the scope of the arbitrator’s
corrective powers under ICDR Article 30(1) is a question presumptively for the arbitrator or for the courts because we conclude that the parties displayed clear and
unmistakable intent to submit the question to the arbitrator. Both T.Co and Dempsey made this intention clear by directly petitioning the arbitrator to amend the
Original Award; there is no indication that either party anticipated the ICDR Article
30(1) interpretive question being preserved for consideration by a judicial body.
Moreover, the ICDR Articles themselves contemplate the arbitrator making such
interpretive decisions in the first instance. ICDR Article 36 provides that « [t]he tribunal shall interpret and apply these Rules insofar as they relate to its powers and
duties ». Thus, even if the scope of ICDR Article 30(1) were considered a « question of arbitrability, » the parties’ adoption of the ICDR Articles, including Article
36, in their arbitration agreements provides a « clear and unmistakable » expression
of their intent to allocate to the arbitrator the task of interpreting the scope of his
powers and duties under Article 30(1). See Contec Corp. v. Remote Solution Co.,
398 F.3d 205, 208 (2d Cir.2005) (« We have held that when, as here, parties
explicitly incorporate rules that empower an arbitrator to decide issues of arbitrability, the incorporation serves as clear and unmistakable evidence of the parties’
intent to delegate such issues to an arbitrator »); PaineWebber Inc., 81 F.3d at 1202.
In fact, ICDR Article 15(1) more specifically empowers the arbitrator to decide
questions of arbitrability, extending to the arbitrator « the power to rule on [his]
own jurisdiction, including any objections with respect to the existence, scope or
validity of the arbitration agreement ». In Contec Corp. v. Remote Solution Co., we
concluded that an arbitration agreement’s incorporation of a rule containing substantially equivalent language constituted clear and unmistakable evidence of the
parties’ intent to arbitrate questions of arbitrability. See 398 F.3d at 208, 210-11.
Based on this extensive evidence of the parties’ intent that the scope of ICDR Article 30(1) be submitted to the arbitrator for consideration, this Court must afford
significant deference to the arbitrator’s interpretation of that rule. See First Options,
514 U.S. at 943, 115 S.Ct. 1920.
The structural and policy arguments Dempsey offers against deferring to the
arbitrator’s interpretation of ICDR Article 30(1) are unpersuasive. In its brief,
Dempsey cautions that « [i]f Arbitrators’ interpretations of [Article] 30(1) (and
similar rules) were entitled to deference, then on a case-by-case basis they could
expand their powers to permit re-consideration of their initial decisions. » Appellee’s Br. 32 n. 13. This may be so, but it is hardly controversial to acknowledge
that the FAA allows arbitrators to operate with considerable autonomy. The kidgloved approach we take to reviewing arbitration awards enables the parties to obtain the efficient dispute resolution they bargained for, while affording them the
freedom to design the kind of adjudicative proceedings that will best suit their
needs. Given that the FAA permits parties to authorize an arbitrator to determine
the scope of his own jurisdiction, we see no justification for this Court interfering
with the power granted to an arbitrator to interpret his powers of reconsideration
under the applicable arbitral rules of procedure. The remedy for unduly broad arbitral powers is not judicial intervention: it is for the parties to draft their agreement to reflect the scope of power they would like their arbitrator to exercise.
In supplemental briefing before this Court, Dempsey contends that permitting
an arbitrator to exercise broad reconsideration powers could result in « two incon366
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sistent awards, both entitled to confirmation. » Letter of Appellee 2 (June 30, 2009).
Observing that nothing in the FAA or the ICDR Articles provides that an amended
award ipso facto supercedes or invalidates an original award, Dempsey opines that
both the original award and amended award are subject to confirmation unless
modified or vacated under 9 U.S.C. §§ 10-11. If one party were to petition a court
to confirm the original award, the court’s ability to modify that award to reflect the
changes in the amended award would be strictly limited. See, e.g., id. § 11(a) (permitting modification to correct « an evident material miscalculation of figures or an
evident material mistake in the description of any person, thing, or property referred to in the award »). Therefore, if deference were due to an arbitrator’s use of
broader modification powers when issuing an amended award, a court might be
unable to correspondingly modify the original award, while simultaneously lacking
the ability to vacate the amended award as exceeding the arbitrator’s powers. Permitting a scenario in which inconsistent awards might conceivably result, Dempsey contends, would undermine the FAA’s policy of achieving a final and definite
resolution of disputes.
While undoubtedly clever, this structural argument is ultimately unpersuasive.
First, if the substance of an award is subsequently changed by a valid amended
award, it stands to reason that the finality and import of the original award would
be rendered sufficiently ambiguous that a court might justifiably resist confirming
the original award, at least absent remand for clarification by the arbitrator. See
Bell Aerospace Co. Div. of Textron, Inc. v. Local 516, Int’l Union, UAW, 500 F.2d
921, 923 (2d Cir.1974) (« Courts will not enforce an award that is incomplete, ambiguous, or contradictory. »); see also Trade & Transp., Inc., 931 F.2d at 195 (noting « the general rule that an arbitral determination is not final unless it conclusively decides every point required by and included in the submission of the parties »); cf. 9 U.S.C. § 10(a)(4) (permitting award to be vacated where arbitrators
« so imperfectly executed the[ir powers] that a mutual, final, and definite award
upon the subject matter submitted was not made »). In addition, Dempsey’s argument carries the logical consequence of categorically precluding parties from assigning their arbitrators powers of reconsideration beyond those available to a court
when vacating or modifying an arbitration award. Such a result finds no support in
the text of the FAA, and we see no reason for interpreting the statute as silently
placing such significant constraints on the freedom of parties to bargain for the arbitral procedures of their choice. Cf. Clark v. Martinez, 543 U.S. 371, 380, 125
S.Ct. 716, 160 L.Ed.2d 734 (2005) (« [W]hen deciding which of two plausible
statutory constructions to adopt, a court must consider the necessary consequences
of its choice. »).
Thus, Dempsey provides this Court no ground on which we could justify
shirking our obligation to grant deference to the arbitrator’s interpretation of the
scope of ICDR Article 30(1). Given our conclusion that the parties intended to
submit this question to the arbitrator, First Options dictates that we « should give
considerable leeway to the arbitrator, setting aside his or her decision only in certain narrow circumstances, » such as those outlined under 9 U.S.C. § 10(a)(4). First
Options, 514 U.S. at 943, 115 S.Ct. 1920. Ordinarily, our limited inquiry under
§ 10(a)(4) « focuses on whether the arbitrators had the power, based on the parties’
submissions or the arbitration agreement, to reach a certain issue, not whether the
arbitrators correctly decided that issue. » Westerbeke Corp., 304F.3d at 220 (quot367
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ing DiRussa v. Dean Witter Reynolds Inc., 121 F.3d 818, 824 (2d Cir.1997)) (internal quotation mark omitted); accord Banco de Seguros del Estado, 344 F.3d at
262. In other words, once we determine that the parties intended for the arbitration
panel to decide a given issue, it follows that « the arbitration panel did not exceed
its authority in deciding that issue-irrespective of whether it decided the issue correctly. » Stolt-Nielsen SA, 548 F.3d at 101; see also DiRussa, 121 F.3d at 824
(« DiRussa’s real objection appears to be that the arbitrators committed an obvious
legal error in denying him attorney’s fees. Section 10(a)(4) was not intended to apply to such a situation. »). As our previous analysis demonstrates, the parties’ arbitration agreement empowered the arbitrator to determine for himself the scope of
his reconsideration authority under ICDR Article 30(1). Therefore, even assuming
that we viewed the arbitrator’s construction of Article 30(1) to be erroneous-and we
reach no such conclusion here-the Amended Award cannot be vacated under
§10(a)(4) merely on that ground.
Because we conclude that the arbitrator did not exceed his powers by revising the Original Award in a way consistent with his interpretation of his reconsideration authority under ICDR Article 30(1), we reverse the district court’s decision
to vacate the Amended Award on § 10(a)(4) grounds. Moreover, given our holding
that the arbitrator’s revision of the Original Award must be upheld, we also vacate
the district court’s ruling confirming the Original Award. We remand with instructions that, upon application, the Amended Award should be confirmed.
Conclusion. — For the foregoing reasons, we hereby affirm in part, reverse in
part, and vacate in part the judgment of the district court, and we remand for further proceedings consistent with this opinion.
La correzione del lodo: potere insindacabile degli arbitri di accertarne
i presupposti?
1. Il potere degli arbitri di correggere errori materiali contenuti nel
lodo, su iniziativa delle parti o d’ufficio, è comunemente previsto dalle moderne legislazioni nazionali e dai regolamenti arbitrali (1). La tipicità e la
tendenza all’interpretazione restrittiva dei motivi d’impugnazione, da un
lato, e il diffuso divieto di riesame del lodo nel merito dall’altro hanno favorito il frequente ricorso ad istanze di correzione, spesso oltre l’ambito
della rettifica degli errori materiali cui esse dovrebbero essere rigorosamente limitate (2).
(1) V. art. 33 della legge modello UNCITRAL; art. 826 c.p.c.; art. 1058 della Zivilprozessordnung tedesca; art. 57 dell’Arbitration Act inglese; art. 29 del Regolamento ICC;
art. 27 del Regolamento della LCIA; art. 41 del Regolamento dell’Istituto arbitrale della Camera di commercio di Stoccolma; art. 38 del Regolamento UNCITRAL; art. 28 del Regolamento del Singapore International Arbitration Centre.
(2) Sottolineano il rischio del ricorso abusivo allo strumento della correzione, dal
368
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La vicenda che si commenta dimostra che un tale ricorso abusivo allo
strumento dell’istanza di correzione, che comporta spesso un significativo
allungamento dei tempi e un aggravio dei costi del procedimento, lungi
dall’essere scoraggiato, è talvolta premiato dall’atteggiamento di arbitri
poco sensibili alla distinzione tra errori materiali ed altri difetti della decisione e di corti eccessivamente rispettose del potere discrezionale degli arbitri a questo riguardo.
La Corte d’appello del Secondo Circuito ha parzialmente accolto l’impugnazione della decisione di prima istanza della Corte distrettuale (Southern
District of New York), la quale aveva annullato un « Amended Award » reso
sotto l’egida dell’International Centre for Dispute Resolution (« ICDR ») dell’American Arbitration Association. La Corte distrettuale aveva pronunciato
l’annullamento del lodo per eccesso dei poteri dell’arbitro unico (art. 10(a)(4)
del Federal Arbitration Act, « FAA »), il quale, anziché limitarsi alla correzione di errori materiali, tipografici o di calcolo (come previsto dall’art. 30
delle Rules dell’ICDR) (3), aveva modificato la decisione a seguito di un riesame delle prove. La Corte d’appello ha ritenuto che la decisione dell’arbitro
di correggere il lodo fosse il frutto dell’esercizio di un potere discrezionale
che gli compete nell’interpretazione ed applicazione della norma regolamentare, erroneamente censurato dal giudice di prima istanza.
2. La controversia ha origine in due contratti di compravendita di
tubazioni conclusi nel febbraio/aprile 2005 da T.Co Metals, LLC (« T.Co
Metals ») e Dempsey Pipe & Supply, Inc. (« Dempsey »). Nel 2006, T.Co
Metals diede avvio al procedimento arbitrale ICDR previsto dalle clausole
arbitrali contenute nei contratti lamentando il mancato pagamento di una
parte del prezzo da parte di Dempsey. Nel lodo finale del 20 aprile 2007
l’arbitro unico accolse parzialmente le rispettive pretese delle parti condannando Dempsey al pagamento del saldo del prezzo e T.Co Metals al risarcimento dei danni derivanti dalla difettosità del prodotto.
Entrambe le parti chiesero la correzione del lodo in base all’art. 30(1)
delle ICDR Rules. Nel maggio 2007 l’arbitro unico pronunciò un’ordinanza
(« Amendment Order ») che, benché dichiaratamente destinata solo a correggere diversi « clerical errors », si risolse in una riduzione della somma
attribuita a Dempsey (4). Il contenuto nell’ordinanza fu successivamente
incorporato in un « Amended Award », in cui l’arbitro unico riconobbe che,
punto di vista del Regolamento ICC, CRAIG, PARK, PAULSSON, International Chamber of Commerce Arbitration, New York, 2000, 407-408.
(3) Art. 30(1) del Regolamento ICDR: « Within 30 days after receipt of an award,
any party [...] may request the tribunal to interpret the award or correct any clerical, typographical or computational errors ».
(4) L’arbitro unico ridusse il valore del prodotto ritenuto non difettoso da US$ 1,000
per tonnellata (come indicato nel lodo originario) a US$ 950 per tonnellata.
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nella sua formulazione originaria, il lodo aveva: (i) « misread » une delle
fatture rilevanti; (ii) considerato un’altra fattura relativa a prodotti diversi
da quelli oggetto della controversia; e (iii) omesso di distinguere fatture relative a diversi tipi di prodotto. L’arbitro si dichiarò pienamente consapevole che le correzioni in questione andassero ben oltre « a mere computational issue » e che esse « necessarily involve the same appreciation of the
evidence before the Arbitrator ». Ciononostante, egli si ritenne autorizzato
a procedervi in base ad un’ampia interpretazione dell’art. 30 delle ICDR
Rules, che consentirebbe di correggere errori contenuti nel testo del lodo
« even where such correction process entails an exercise of judgment
beyond rote computation ».
Entrambe le parti impugnarono l’Amended Award davanti alla District
Court in base all’art. 10 FAA (5). Per quanto qui interessa, Dempsey lamentò l’eccesso di potere dell’arbitro unico nel correggere i presunti « errori » contenuti nel lodo originario. La Corte distrettuale accolse l’impugnazione sotto questo profilo (6). Pur riconoscendo la « great deference »
nei confronti dei lodi arbitrali e la natura limitata del controllo cui le corti
federali sono tenute, la Corte ritenne che nel caso di specie l’arbitro unico
avesse ecceduto i propri poteri assumendo una nuova decisione sulla controversia allorché egli era già functus offıcio per aver pronunciato il lodo finale. Secondo la Corte distrettuale, l’unica eccezione al principio secondo
cui l’arbitro è privato dei poteri decisori dal momento della pronuncia del
lodo finale è rappresentata dal potere di correggere errori materiali che risultino evidenti ad un esame sommario del lodo. Ogni correzione di « nonobvious errors » si risolverebbe in una violazione della « functus offıcio
doctrine ». Trattandosi di errori di calcolo, il requisito sarebbe soddisfatto
solo in caso di « obvious errors in mathematical computations ». Nel caso
di specie, la Corte concluse che nessuno degli errori corretti dall’arbitro
unico costituiva mero errore materiale ai sensi dell’art. 30 del Regolamento
ICDR, dal momento che tutti « required interpretation, analysis, and reference to extrinsic evidence », compresa la riconsiderazione di prove già
esaminate, e si risolvevano in « reinterpretations of the record [...] used by
the Arbitrator to modify his conclusions ».
T.Co. Metals impugnò la decisione della Corte distrettuale davanti alla
Corte d’appello del Secondo Circuito. I giudici di seconda istanza accolsero
l’impugnazione ritenendo che il principio secondo il quale, una volta pronunciato il lodo finale, l’arbitro è functus offıcio ed è soggetto al diverso
(5) T.Co. Metals impugnò il lodo sul presupposto del « manifest disregard of the
law », per aver esso riconosciuto a Dempsey il diritto al risarcimento dei danni da mancato
profitto in violazione dei contratti. La Corte distrettuale rigettò integralmente l’istanza.
(6) V. T.Co. Metals, LLC v. Dempsey Pipe & Supply, Inc., S.D.N.Y 8 luglio 2008.
Dempsey lamentava anche « material miscalculations » nel computo dei danni nell’Amended
Award. La Corte distrettuale non accolse questo motivo di impugnazione.
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accordo delle parti. Nel caso di specie, la Corte ha ravvisato tale diverso
accordo nel riferimento al Regolamento ICDR, che autorizza gli arbitri a
riconsiderare la propria decisione (art. 30) e ad interpretare la portata dei
propri poteri e doveri in base allo stesso Regolamento (art. 36) (7). Ne consegue che il giudizio degli arbitri circa l’ampiezza del proprio potere di
correggere il lodo in base all’art. 30 del Regolamento è insindacabile e sottratto al controllo dei giudici. La Corte si è anche riferita al potere degli arbitri di determinare la portata della propria competenza in base al FAA, che
escluderebbe ogni interferenza delle corti circa la correttezza di tale giudizio (8).
3. Il potere degli arbitri di correggere il lodo è unanimemente interpretato in senso restrittivo, limitato alla rettifica di errori manifesti e materiali, e pacificamente esclude il riesame del materiale istruttorio e della decisione (9). Una diversa interpretazione sarebbe in conflitto con il principio
di definitività dei lodi (10).
Nel caso in esame, appare indiscutibile che l’arbitro aveva ecceduto
tali limiti procedendo ad una rivalutazione delle prove e a una modifica
delle parti del lodo che ad un più attento esame non apparivano sostenute
dalle risultanze probatorie. Cosı̀ facendo, egli aveva tentato di rimediare ai
palesi difetti del lodo originario, ma aveva manifestamente (e consapevolmente) ecceduto i propri poteri. L’arbitro aveva tentato di ricondurre il proprio intervento nell’alveo dell’art. 30 del Regolamento ICDR, affermando
l’applicabilità di questa norma anche ad errori contenuti nella motivazione
del lodo che necessariamente si riflettano sul dispositivo. Questo argo-
(7) In base all’art. 36 delle ICDR Rules, l’arbitro « shall interpret and apply these
Rules insofar as they relate to its powers and duties ».
(8) V. la decisione della Court of Appeals: « Given that the FAA permits parties to
authorize an arbitrator to determine the scope of his own jurisdiction, we see no justification
for this Court interfering with the power granted to an arbitrator to interpret his power of
reconsideration under the applicable rules of procedure [...] once we determine that the parties intended for the arbitration panel to decide a given issue, it follows that the arbitration
panel did not exceed its authority in deciding that issue — irrespective of whether it decided
the issue correctly ».
(9) V. BORN, International Commercial Arbitration, Alphen aan den Rijn, 2009, 2522
e 2533, secondo il quale la funzione delle disposizioni legislative e regolamentari relative alla
correzione dei lodi « consists in correcting unintended errors in the tribunal’s expression of
the relief it has granted in the award, as opposed to modifying the tribunal’s reasoning or
altering its findings »; FOUCHARD, GAILLARD, GOLDMAN, On International Commercial Arbitration, The Hague, Boston, London, 1999, par. 1416, che affermano che tali norme « cannot be
used to alter the meaning of the decision »; DALY, Correction and Interpretation of Arbitral
Awards under the ICC Rules of Arbitration, in ICC Court Bulletin, 2002, n. 1, 63 (« to allow
tribunals to express more clearly the substantive findings set forth in the award, not to
change findings or make new findings »).
(10) DALY, op. cit., 63.
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mento, di per sé incontestabile, trascura tuttavia la natura dei difetti cui
l’Amended Award mirava a porre rimedio nel caso di specie, che palesemente andavano oltre mere sviste di carattere « clerical, typographical or
computational ».
Un ruolo centrale in questo ragionamento sembra aver avuto il presunto obbligo di « deference » del giudice dell’impugnazione nei confronti
del potere decisorio degli arbitri, che secondo la Corte d’appello escluderebbe ogni potere di riconsiderare il giudizio degli arbitri in merito ai fatti,
al diritto, alla competenza del tribunale arbitrale o all’interpretazione delle
regole procedurali, che le parti abbiano devoluto all’apprezzamento degli
arbitri. Con ciò, tuttavia, la Corte sembra confondere sia il ruolo del giudice in sede di impugnazione sia il ruolo dell’arbitro nell’applicazione delle
regole procedurali scelte dalle parti.
Sotto il primo profilo, l’art. 10 FAA (al pari di analoghe norme sui
motivi di impugnazione contenute in ogni ordinamento) prevede alcune
cause tassative di nullità del lodo, tra le quali non figura l’eventuale errore
circa il merito della controversia deciso dall’arbitro ed è invece compreso
l’eccesso di potere. Nel giudizio di impugnazione, che è di natura oggettiva, la nozione di « deference » all’operato degli arbitri non sembra avere
alcuno spazio e costituisce al più l’espressione di un generico atteggiamento di rispetto nei confronti della valutazione degli arbitri. In altri termini, al giudice dell’impugnazione è precluso l’annullamento del lodo per
errori di fatto o di diritto, non già in virtù di un dovere di rispetto del relativo giudizio dell’arbitro, ma semplicemente perché tali errori non figurano tra i motivi di impugnazione (11).
Dal punto di vista delle norme regolamentari applicabili, il potere degli arbitri di interpretare il Regolamento è indubbio e in certo senso inerente alla stessa funzione arbitrale (12). L’esistenza di questo potere tuttavia
non esclude l’annullabilità del lodo quando gli arbitri abbiano ecceduto i
limiti della propria autorità in base ad un’erronea interpretazione delle
norme regolamentari. È appunto il caso in cui il tribunale arbitrale si sia a
torto ritenuto autorizzato a riesaminare le prove e a correggere il lodo già
pronunciato. Quando ciò avviene, ricorre uno dei motivi che consentono
l’annullamento in base all’art. 10 FAA, il quale non impone (e neanche
(11) KIRBY, T.Co Metals, LLC v. Dempsey Pipe & Supply, Inc.: Are There Really No
Limits on What an Arbitrator Can Do in Correcting an Award ?, in Journal of International
Arbitration, 2010, 519 ss., spec. 525-526.
(12) V., nel Regolamento ICDR applicabile nel caso di specie, il già citato art. 36; v.
anche BORN, op. cit., 1759, secondo cui « [a]n inherent characteristics of the arbitral process
is the tribunal’s adjudicative role and responsibility for establishing and implementing the
procedures necessary to resolve the parties’ dispute. The tribunal’s procedural authority is an
implicit part of the parties’ agreement to arbitrate ».
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consente) al giudice di rimettersi all’interpretazione dell’arbitro circa i propri poteri in base al regolamento applicabile.
4. Queste conclusioni non sono contraddette dal riferimento del Second Circuit al giudizio dell’arbitro circa la propria competenza, che al
contrario sembrano confermarne la fondatezza. La generalità delle fonti riconosce il potere degli arbitri di decidere della propria competenza (kompetenz-kompetenz) (13), ma ciò non sottrae il relativo giudizio al controllo
del giudice in sede di impugnazione. Al contrario, allorché l’arbitro si sia a
torto dichiarato competente (per esempio in caso di invalidità o inesistenza
dell’accordo compromissorio), il lodo è censurabile sotto il profilo del difetto di giurisdizione o (come nel caso dell’art. 10 FAA) sotto il profilo
dell’eccesso di potere, senza che il giudice dell’impugnazione sia in alcun
modo vincolato al relativo giudizio dell’arbitro.
A sostegno della propria posizione, la Corte d’appello si è riferita al
precedente della Corte Suprema nel caso First Options (14), che tuttavia
non appare del tutto pertinente, in quanto relativo unicamente alla competenza degli arbitri sulla propria competenza, e non al potere di interpretare
le regole procedurali. Inoltre, in First Options, la Corte Suprema non ha
escluso in linea di principio l’annullabilità del lodo per eccesso dei poteri
dell’arbitro che si sia a torto dichiarato competente sul merito. Al fine di
escludere il controllo giudiziale, essa ha preteso « clear and unmistakable
evidence » che le parti avessero riservato all’organo arbitrale l’accertamento della propria competenza (15).
5. Il principio affermato dalla Corte d’appello del Secondo Circuito
nel caso che si commenta è assai sorprendente e comporta rischi significativi per la stabilità dei lodi. Come a ragione sottolineato dalla società resistente nel giudizio davanti alla Court of Appeals, esso equivale a conferire
« carta bianca » all’arbitro nell’interpretazione delle disposizioni che consentono la correzione degli errori materiali del lodo, in sostanza permettendogli di modificare il decisum sulla base di un’erronea ed oltremodo ampia
interpretazione dei propri poteri di correzione, insindacabile in sede di impugnazione (16).
(13) V. art. 6(2) del Regolamento ICC; art. 15(1) del Regolamento ICDR; art. 23 del
Regolamento UNCITRAL.
(14) First Options of Chicago, Inc. v. Kaplan (514 U.S. 938, 1995).
(15) Ibidem, 943: « the court’s standard for reviewing the arbitrator’s decision about
that matter should not differ from the standard courts apply when they review any other matter that parties have agreed to arbitrate. That is to say, the court should give considerable
leeway to the arbitrator, setting aside his or her decision only in certain narrow circumstances ».
(16) V. KIRBY, op. cit., 519-520 e 528.
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La decisione si pone inoltre in netto contrasto con il principio che, dal
momento della pronuncia del lodo, l’arbitro è functus offıcio, rimettendo
incongruamente la valutazione di questo limite esterno alla competenza arbitrale al libero apprezzamento dello stesso arbitro.
La città di New York è frequentemente scelta come sede di arbitrati
internazionali (17) e la giurisprudenza del Secondo Circuito è generalmente
considerata tra le più favorevoli all’effettività degli accordi compromissori
e dei lodi (18). La decisione commentata potrebbe essere considerata espressione estrema di tale favor arbitrati, nella misura in cui tende ad ampliare
al massimo grado l’insindacabilità del giudizio dell’arbitro da parte dell’autorità giudiziale. Nel perseguire questo obbiettivo, il Secondo Circuito sembra tuttavia essersi spinto troppo oltre, sino a provocare un effetto contrario alle intenzioni. Con l’affermare la pressocché totale incensurabilità del
giudizio dell’arbitro circa gli stessi presupposti della revisione dei lodi, la
pronuncia in esame sembra mettere a repentaglio una delle principali conquiste del moderno diritto dell’arbitrato, consistente nella definitività e
inappellabilità del lodo (19).
ANDREA CARLEVARIS
(17) V. le statistiche relative al 2008 in ICC Court Bulletin, 2009, n. 1, 12, che annovera New York tra le prime 10 sedi di arbitrati ICC.
(18) Sottolineano che la decisione si colloca in linea di continuità con il favor arbitrati e la tutela dell’autonomia delle parti che caratterizzano la giurisprudenza del Secondo
Circuito, BERGER (J.E.), Second Circuit Decision Clarifies and Bolsters Arbitrators’ Authority,
disponibile all’indirizzo internet www.paulhastings.com/assets/publications/1507.pdf., e T.Co.
Metals, LLC v. Dempsey Pipe & Supply, Inc.: reaffırming manifest disregard and party autonomy in international arbitration, International Arbitration Newsletter, disponibile all’indirizzo internet www.dlapiper.com/t-co-metals-v-dempsey-pipe-&-supply.
(19) Giova ricordare conclusivamente ad abundantiam che le clausole arbitrali in
base alle quali era stato pronunciato il lodo non davano adito a dubbi quanto alla natura finale e all’inappellabilità del lodo: « The award of the Arbitration tribunal will be final and
subject to no appeal ».
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
ITALIANA
Lodi annotati
COLLEGIO ARBITRALE (Bonivento Pres., Durante, Longo); nella controversia
tra Società X e Società Y; lodo reso in Milano il 2 settembre 2009.
Arbitrato - Clausola arbitrale - Oggetto - Contratto di appalto - Richiesta di
adempimento dell’obbligo di pagare il corrispettivo dovuto al committente - Compromettibilità - Sussistenza.
Arbitrato - Clausola arbitrale - Intimazione di pagamento - Ricorso per decreto ingiuntivo - Eccezione di compromesso - Fondatezza.
Arbitrato rituale - Clausola arbitrale - Mancanza della specifica approvazione
per iscritto ex art. 1341 c.c. - Nullità della clausola arbitrale - Rilevabilità
d’ufficio.
Arbitrato irrituale - Clausola arbitrale - Mancanza della specifica approvazione per iscritto ex art. 1341 c.c. - Validità della clausola arbitrale.
In presenza di una clausola arbitrale ove le parti rimettano agli arbitri tutte
le controversie derivanti dal contratto di appalto, comprese quelle relative alla sua
esecuzione, la richiesta di adempimento dell’obbligo del committente di pagare il
corrispettivo in denaro per il compimento del servizio reso dall’appaltatore rappresenta l’essenza del sinallagma contrattuale, e la relativa controversia risulta quindi
pienamente compromettibile in arbitri.
La clausola compromissoria non esclude la possibilità di introdurre la domanda con ricorso per decreto ingiuntivo, né osta all’adozione di tale provvedimento, ferma però restando la facoltà dell’intimato di chiedere ed ottenere la dichiarazione di quella improponibilità dal giudice dell’opposizione.
La mancanza della specifica approvazione per iscritto di una clausola compromissoria rituale, richiesta dall’art. 1341, comma 2, c.c., determina la nullità
assoluta della clausola stessa, che è rilevabile d’uffıcio e può essere fatta valere
anche dal predisponente.
Deve escludersi la necessità della specifica approvazione per iscritto ove,
come nella specie, la clausola compromissoria sia istitutiva di arbitrato irrituale,
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difettando in tale caso il carattere compromissorio o comunque derogabile della
competenza dell’autorità giurisdizionale.
CENNI DI FATTO. — Con domanda di arbitrato depositata presso la Camera Arbitrale Nazionale e Internazionale di Milano, la Società X riferisce di aver stipulato
con la convenuta Società Y un contratto di appalto avente ad oggetto la prestazione
di servizi di consulenza informatica; di aver eseguito — senza contestazioni da
parte della Società Y — le prestazioni oggetto del contratto; di aver emesso, a
fronte della prestazione dei suddetti servizi le fatture relative al compenso dovuto;
e, pur tuttavia, di non aver mai ricevuto dalla Società Y il pagamento del suddetto
importo.
La Società X dichiara, quindi, di volersi avvalere della clausola di cui all’art.
17 del predetto contratto di appalto, ove le parti concordemente hanno pattuito che
« tutte le controversie derivanti dal presente contratto, comprese quelle relative
alla sua validità, interpretazione, esecuzione e risoluzione, saranno deferite ad un
Collegio Arbitrale composto da tre arbitri, uno dei quali con funzioni di Presidente,
ed i primi due nominati ciascuno dalle parti in conformità al Regolamento della
Camera Arbitrale Nazionale e Internazionale di Milano, che le parti dichiarano di
conoscere e accettare integralmente. Gli arbitri decideranno in via irrituale e secondo diritto ».
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 2. Le eccezioni circa la validità e l’oggetto della
clausola compromissoria. — Preliminare rispetto ad ogni altra questione appare
l’esame delle eccezioni sollevate da Società Y relativamente alla validità della
clausola compromissoria ed alla riconducibilità della presente controversia alla
clausola medesima.
Società Y ha dedotto infatti:
— l’inefficacia della clausola arbitrale (omissis) per mancanza di sua approvazione specifica (omissis);
— l’inapplicabilità della clausola arbitrale alla presente controversia, che non
riguarderebbe il contratto di appalto, ma esclusivamente « il pagamento di fatture »
(omissis).
Le eccezioni sono infondate e non meritano accoglimento.
Il contratto di appalto per il quale è causa e la clausola compromissoria in
esso contenuta appaiono validamente stipulati dalle parti mediante scambio di proposta ed accettazione, secondo lo schema di cui all’art. 1326 c.c.
Dagli atti del procedimento risulta infatti che:
— La proposta contrattuale è stata formulata dalla stessa Società Y, la quale
con lettera in data 30 maggio 2007 (omissis) ha invitato Società X a renderle copia del regolamento contrattuale allegato, sottoscritta per accettazione.
— Società X ha quindi sottoscritto il regolamento contrattuale (omissis) per
« presa visione della proposta contrattuale » ed accettazione della medesima;
— L’accettazione di Società X è stata successivamente comunicata a Società
Y; di ciò vi è indiretta evidenza negli ordini (omissis) nei quali Società Y fa riferimento al contratto di appalto in essere tra le parti.
Tali circostanze non sono del resto oggetto di contestazione da parte di So376
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cietà Y, la quale ha anzi espressamente asserito che « non vi è stata mai contestazione alcuna sul contratto ».
Società Y eccepisce invece, in primo luogo, la mancanza di specifica approvazione della clausola compromissoria contenuta all’art. 17 del contratto medesimo.
Tale sottoscrizione sarebbe stata necessaria, secondo la convenuta, ai sensi
dell’art. 1341 c.c.:
« Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono
effıcaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza.
In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per
iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, [...]
clausole compromissorie ».
A ciò Società X ha obiettato che la norma in questione, posta a tutela dell’interesse del contraente non predisponente, sarebbe invocabile da questi soltanto. Sostiene dunque l’attrice che:
« la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie è requisito
per l’opponibilità delle stesse al contraente aderente [...] esse sono automaticamente effıcaci nei confronti del soggetto che le ha predisposte ».
Conseguentemente Società Y non avrebbe il diritto di invocare la tutela di cui
all’art. 1341 c.c., poiché:
« il documento contrattuale disciplinante i rapporti tra le parti è stato indubbiamente predisposto dalla società convenuta ».
Tale circostanza, mai contestata da Società Y, emerge in effetti con chiarezza
dai documenti prodotti in giudizio, ed in particolare da:
1) le indicazioni in calce al contratto di appalto, doc. 1 Società X, laddove si
specifica che l’appaltatore Società X (i) sottoscrive il documento per « presa visione » — evidenza del fatto che il documento non era a lui noto prima dell’invio
dello stesso da parte di Società Y —, e (ii) « approva specificamente ai sensi e per
gli effetti di cui agli artt. 1341 e 1342 Codice Civile » gli artt. 5, 7, 9, 10 e 15 del
regolamento contrattuale — evidenza del fatto che l’appaltatore fosse considerato
quale parte non predisponente;
2) la lettera accompagnatoria della proposta contrattuale nella quale Società Y
definisce il regolamento contrattuale inviato a Società X « Condizioni Generali »;
3) il tenore del regolamento contrattuale, che pare atto ad essere applicato ad
un numero indefinito di contratti di appalto.
La questione del carattere, assoluto o relativo della nullità o inefficacia comminata dall’art. 1341 c.c. in caso di mancata sottoscrizione è stata oggetto di ampio dibattito in giurisprudenza, con soluzioni diverse e talvolta opposte.
In relazione alle clausole di deroga alla competenza, ed alle clausole arbitrali,
la soluzione adottata dalla Corte di Cassazione è stata tuttavia particolarmente rigorosa; secondo le sezioni unite della Suprema Corte, infatti:
« la clausola [...] di deroga della competenza giudiziale, inserita in un modulo
a stampa, è nulla se manca l’approvazione specifica per iscritto e la nullità, avendo
carattere assoluto, può esser fatta valere da entrambi i contraenti » (Cass., Sez. un.
n. 3508/1974).
In tempi più recenti la Suprema Corte ha ribadito tale interpretazione, con
specifico riferimento alle clausole compromissorie, affermando che:
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« La mancanza della specifica approvazione per iscritto di una clausola compromissoria, richiesta dall’art. 1341, comma 2, c.c., determina la nullità assoluta
della clausola stessa, che è rilevabile d’uffıcio e può essere fatta valere anche dal
predisponente » (Cass. civ., Sez. II, 15 febbraio 1995, n. 1606).
Tale orientamento, tuttavia, si è formato in materia di clausole arbitrali rituali,
considerate vessatorie in ragione della deroga, in esse disposta, rispetto alla competenza del giudice ordinario.
Il presente procedimento è invece per arbitrato irrituale, come chiaramente disposto dal summenzionato art. 17 del contratto di appalto; il che non è oggetto di
contestazione tra le parti.
Per costante giurisprudenza di legittimità, le clausole compromissorie in arbitrato irrituale sono sottratte alla necessità di doppia sottoscrizione di cui all’art.
1341 c.c..
Si veda in tal senso Cass. civ., Sez. III, 4 novembre 2004, n. 21139, secondo
cui:
« Deve [...] escludersi la necessità della specifica approvazione per iscritto
ove, come nella specie, la clausola compromissoria sia istitutiva di arbitrato irrituale, difettando in tale caso il carattere compromissorio o comunque derogabile
della competenza dell’autorità giurisdizionale » (nello stesso senso, Cass. 28 giugno 2000, n. 8788; Cass. 3 settembre 1992, n. 10240).
In ossequio al summenzionato principio giurisprudenziale deve dunque escludersi, nel caso di specie, la necessità di doppia sottoscrizione ai sensi dell’art. 1341
c.c.; conseguentemente, la clausola de qua appare validamente stipulata, e pienamente efficace.
3. Segue. — Si consideri ora la seconda delle summenzionate eccezioni preliminari di Società Y, riguardo la presunta inapplicabilità della clausola arbitrale di
cui all’art. 17 del contratto di appalto alla presente controversia.
Società Y sostiene che:
« [non] sussista materia per la decisione arbitrale in quanto non vi è mai
stata contestazione alcuna sul contratto e che l’arbitrato risulterebbe promosso
solo per ottenere il pagamento di fatture, procedura attuabile con ordinario giudizio monitorio ove ne ricorressero i presupposti. Si noti infatti che la stessa parte
ricorrente, nel suo atto introduttivo ha delineato la irritualità della presente procedura e come tale la stessa non può avere priorità, a fronte della contestazione di
Società Y, sul Magistrato Ordinario [...].
In ogni caso si osserva come la fase contrattuale per cui è lite fosse pienamente definita e la sola contestazione era relativa solo ad una delle obbligazioni
accessorie, cioè al pagamento, non sussistendo alcuna contestazione o eccezione
interpretativa o esecutiva del contratto (il pagamento non è mai attinente all’esecuzione) ».
Pare a questo Collegio di poter individuare, nel passaggio citato, due diversi
argomenti;
— il primo riguarda la portata della clausola arbitrale, nel cui ambito non
rientrerebbero — secondo la tesi della convenuta — le controversie circa il pagamento dei corrispettivi contrattuali;
— il secondo argomento attiene al rapporto tra arbitri ed autorità giudiziaria
ordinaria; spetterebbe a quest’ultima, secondo Società Y, conoscere in via prioritaria della controversia, stanti (i) la natura irrituale (quindi non derogatoria della
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competenza dell’autorità giudiziaria) dell’arbitrato previsto in contratto, e (ii) la
possibilità per Società X di ricorrere alla procedura monitoria per il pagamento di
fatture.
I due argomenti non possono essere condivisi.
Deve in primis ricordarsi come la clausola arbitrale azionata da Società X investa questo Collegio del mandato a conoscere, secondo diritto, di « tutte le controversie derivanti dal presente contratto, comprese quelle relative alla sua [...]
esecuzione ».
Nel caso di specie, la controversia riguarda l’essenza stessa del sinallagma
contrattuale, ovvero la richiesta di adempimento dell’obbligo del committente di
pagare il corrispettivo in denaro per il compimento del servizio reso dall’appaltatore.
Non vi è, in effetti, dubbio alcuno (né contestazione) in merito al fatto che le
fatture azionate da Società X siano state da quest’ultima emesse a fronte dello
svolgimento delle prestazioni convenute in contratto.
Ciò è evidente dal riferimento, in esse contenuto, al contratto di appalto, nonché ai singoli ordini di Società Y, a loro volta richiamanti il contratto di appalto.
Oggetto della controversia è dunque l’inadempimento, o per meglio dire, visto il pagamento della sorte capitale delle predette fatture intervenuto nel corso del
presente procedimento, il ritardo nell’adempimento delle proprie obbligazioni da
parte di Società Y; oggetto che, com’è evidente dalla lettera dell’art. 17 del contratto di appalto, rientra appieno nell’ambito di operatività della clausola compromissoria.
Si consideri in secondo luogo quanto affermato da Società Y a proposito dell’asserita « priorità » del Giudice Ordinario rispetto agli arbitri irrituali, e alla conseguente possibilità per Società X di agire in via monitoria.
L’osservazione non pare poter smentire la competenza di questo Collegio a
conoscere della presente controversia.
Se infatti è vero che la giurisprudenza ritiene ammissibile, anche in presenza
di clausola compromissoria, la proposizione di domande di pagamento nella forma
del ricorso per decreto ingiuntivo, è altrettanto vero che ciò costituisce una mera
facoltà, e non un obbligo per il creditore.
Deve inoltre osservarsi, per completezza, che il creditore che decida di adire
l’Autorità Giudiziaria (in via monitoria o ordinaria) anziché gli arbitri, si espone al
concreto rischio che il debitore formuli un’eccezione di compromesso; ciò che
comporta, in presenza di una clausola per arbitrato irrituale, l’immediata dichiarazione di improponibilità delle domande spiegate.
In tal senso, tra le molte, si veda Cass. civ., Sez. I, 9 luglio 1989, n. 3246, secondo cui:
« L’improponibilità della domanda, in conseguenza di compromesso per arbitrato irrituale, è rilevabile solo in presenza di eccezione della parte convenuta.
Detto compromesso, pertanto, non esclude la possibilità di introdurre la domanda
con ricorso per decreto ingiuntivo, né osta all’adozione di tale provvedimento,
ferma però restando la facoltà dell’intimato di chiedere ed ottenere la dichiarazione di quella improponibilità dal giudice dell’opposizione ».
Deve dunque concludersi che Società X, dando inizio alla presente procedura,
ha esercitato un suo incontestabile diritto. Non solo; agendo diversamente l’attrice
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si sarebbe esposta al rischio di veder respinte le sue domande per improponibilità
delle medesime.
Rigettate dunque le eccezioni preliminari formulate dalla convenuta Società Y,
deve confermarsi la competenza di questo Collegio a decidere, in via irrituale e secondo diritto, della domanda di condanna spiegata da Società X.
4. Il merito delle domande di Società X. — Successivamente al pagamento
della sorte capitale delle fatture de quibus, Società X ha limitato le sue domande
« all’immediato pagamento in favore della Società X S.r.l., tenuto conto del ritardo
dei pagamenti effettuati in ragione delle fatture oggetto del procedimento arbitrale,
di quanto dovuto a titolo di interessi ai sensi delle disposizioni di cui al D.Lgs. n.
231/2002 dal dovuto al saldo », oltre alla condanna di Società Y alla rifusione delle
spese del presente procedimento, per la cui quantificazione l’attrice si è rimessa a
questo Collegio.
La domanda, come si è detto supra, rientra appieno nella competenza di questo Collegio in quanto relativa al ritardato adempimento dell’obbligazione di pagamento derivante, in capo a Società Y, dal contratto di appalto, rispetto alla quale la
corresponsione degli interessi di mora costituisce obbligazione accessoria.
Il ritardo nei pagamenti è pacifico in atti.
[Omissis].
Per un totale di € [omissis], che Società Y dovrà corrispondere all’attrice Società X.
5. Le spese di difesa e del procedimento. — Il Collegio ritiene infine che ricorrano giusti motivi per disporre, nonostante la soccombenza di Società Y, una
parziale compensazione delle spese di lite.
Ciò in considerazione della condotta della convenuta, la quale ha, sin dal
principio del presente procedimento, ammesso il proprio debito e dichiarato la propria intenzione di corrispondere quanto dovuto (omissis), corroborando tale dichiarazione con il contestuale pagamento delle fatture nn. [omissis], per € [omissis];
pagamento cui sono seguiti, in data 12 gennaio 2009 (ancor prima della costituzione di questo Collegio, avvenuta il omissis), la liquidazione delle fatture nn.
[omissis], per € [omissis], quindi il saldo di quanto dovuto (omissis).
Di tali pagamenti questo Collegio ha appreso in maniera compiuta soltanto
con il deposito della predetta memoria Società X del (omissis), con la quale l’attrice ha infine modificato le sue domande. Tale circostanza ha comportato maggiore
attività processuale e conseguenti maggiori spese di procedura, che non possono
essere poste interamente a carico della convenuta.
Si rileva inoltre come la questione in diritto posta da Società Y circa la validità della clausola arbitrale non specificamente sottoscritta ai sensi dell’art. 1341
c.c. non fosse di facile soluzione, stante l’articolata e non sempre univoca posizione
della giurisprudenza sul punto.
Per tutti questi motivi, il Collegio ritiene di dover procedere alla compensazione delle spese di lite, nella misura di un terzo, ponendole per la rimanente parte
a carico della parte soccombente.
Il Collegio ritiene infine di dover liquidare le spese di lite sulla base del valore iniziale della domanda, e non di quello della somma in concreto attribuita all’attrice, in considerazione del costante orientamento della giurisprudenza sul punto
(tra le tante, Corte di Cassazione a Sezioni unite 11 settembre 2007 n. 19014).
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P.Q.M. — Il Collegio:
1) Respinge le eccezioni di inefficacia/invalidità della clausola compromissoria mosse dalla convenuta Società Y e dichiara, per l’effetto, la propria competenza
a decidere della presente controversia.
2) Condanna la convenuta Società Y al pagamento, in favore dell’attrice, degli interessi di mora sugli importi portati dalle fatture nn. [omissis] emesse da Società X, dal dı̀ del dovuto sino all’effettivo pagamento, che quantifica in complessivi € [omissis];
3) Dichiara, per i motivi esposti in narrativa, le spese legali incorse per la difesa nel presente giudizio e le spese del presente procedimento arbitrale compensate nella misura di un terzo, ponendone la rimanente parte a carico della convenuta Società Y, che condanna per l’effetto:
— alla refusione all’attrice di due terzi delle spese legali da essa sostenute per
la difesa nel presente giudizio (complessivamente quantificabili, secondo la Tariffa
Forense, in € [omissis]), per un totale di € [omissis] (di cui € [omissis] per onorari, € [omissis] per diritti, ed € [omissis] per spese), oltre accessori di legge;
— alla refusione all’attrice di due terzi delle spese del presente procedimento
arbitrale, per un totale di € [omissis] (pari a due terzi della somma di € [omissis]
liquidata, ai sensi dell’art. 40 del Regolamento, dal Consiglio Arbitrale (omissis),
ed integralmente corrisposta da Società X).
Cosı̀ deliberato all’unanimità dagli arbitri, all’esito della riunione del 2 settembre 2009.
[omissis].
La giurisprudenza arbitrale esclude la vessatorietà della clausola d’arbitrato irrituale.
1. Il lodo irrituale in esame, muovendo dalle eccezioni sollevate
dalle parti, affronta e risolve due interessanti questioni afferenti, l’una, all’inefficacia della clausola arbitrale irrituale per mancanza della sua specifica approvazione, l’altra, all’inapplicabilità della clausola arbitrale alla
controversia oggetto dell’arbitrato, il quale riguarderebbe il « contratto di
arbitrato », e non già il « pagamento di fatture » cosı̀ come, invece, preteso
dalla Società X con la proposizione della domanda di arbitrato.
2. La seconda contestazione delle due appena enunciate è agilmente
respinta dal Collegio arbitrale milanese in forza dell’assunto che la controversia de qua, incentrandosi sulla richiesta di adempimento del corrispettivo in denaro per il pagamento del servizio reso all’appaltatore, riguarda
l’essenza stessa del sinallagma contrattuale e, dunque, in quanto tale essa è
da ritenersi pienamente compresa nell’oggetto della clausola arbitrale. Né
varrebbe a smentire tale conclusione l’ulteriore argomentazione di parte,
volta a criticare la competenza del Collegio arbitrale attesa la presunta prevalenza che — nel caso di specie — si dovrebbe riconoscere alla procedura
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monitoria per decreto ingiuntivo esperibile in via esclusiva innanzi al giudice ordinario. Il Collegio arbitrale giudica del tutto ininfluente tale eccezione, in quanto — secondo le regole processuali — la proposizione di domande di pagamento in forma di decreto ingiuntivo costituisce una mera
facoltà e non certo un obbligo per il creditore. Da questa premessa discende
altresı̀ che, qualora il creditore avesse deciso di adire l’Autorità giudiziaria
in via monitoria, si sarebbe esposto al concreto rischio che la controparte
debitrice formulasse una (fondata) eccezione di compromesso.
3. Degna di maggiore approfondimento è l’altra questione vagliata
dagli arbitri, relativa alla problematica della vessatorietà della clausola
d’arbitrato irrituale.
In replica alla preliminare critica della Società committente X, che
contestava la carenza di interesse della Società appaltatrice Y a sollevare la
questione de qua, avendo ella medesima approntato il contenuto della clausola arbitrale, il lodo ripercorre innanzitutto la giurisprudenza formatasi
sulla natura dell’eccezione ex art. 1341 c.c., la quale — secondo l’orientamento maggioritario — sarebbe da intendersi di tipo assoluto, ovvero indifferentemente rientrante nella disponibilità di entrambi i contraenti (1).
Tuttavia, nel procedimento arbitrale de quo, sebbene l’eccezione di
vessatorietà fosse stata in linea di principio ammissibilmente sollevata dalla
Società Y, e cioè dalla stessa parte che ne aveva predisposto il contenuto (2), ad ogni modo la necessità di doppia sottoscrizione sarebbe comunque da escludersi in considerazione della natura irrituale (3) dell’arbitrato
prescelto, per iscritto, dalle parti.
(1) In relazione alle clausole di deroga alla competenza, ed alle clausole arbitrali, la
soluzione adottata dalle sezioni unite della Suprema Corte è stata piuttosto rigorosa: « la
clausola [...] di deroga della competenza giudiziale, inserita in un modulo a stampa, è nulla
se manca l’approvazione specifica per iscritto e la nullità, avendo carattere assoluto, può
esser fatta valere da entrambi i contraenti » (Cass., Sez. un. n. 3508/1974). In tempi più recenti la Suprema Corte ha ribadito tale interpretazione, con specifico riferimento alle clausole compromissorie, affermando che: « la mancanza della specifica approvazione per
iscritto di una clausola compromissoria, richiesta dall’art. 1341, comma 2, c.c., determina
la nullità assoluta della clausola stessa, che è rilevabile d’uffıcio e può essere fatta valere
anche dal predisponente » (Cass., Sez. II, 15 febbraio 1995, n. 1606). Tale orientamento, tuttavia, si è formato in materia di clausole arbitrali rituali, considerate vessatorie in ragione
della deroga, in esse disposta, rispetto alla competenza del giudice ordinario.
(2) In adesione alla giurisprudenza riferita alla precedente nota, che attribuisce natura assoluta alla nullità della clausola arbitrale determinata dall’omessa specifica sottoscrizione, il collegio arbitrale ha, cioè, respinto la contestazione della società appaltatrice in ordine all’inammissibilità dell’eccezione di vessatorietà della clausola d’arbitrato irrituale sollevata dalla società committente medesima, che l’aveva predisposta inserendola nel regolamento contrattuale, definito dalla stessa in termini di « condizioni generali ».
(3) Si veda in tal senso Cass. civ., Sez. III, 4 novembre 2004, n. 21139, secondo cui:
« deve [...] escludersi la necessità della specifica approvazione per iscritto ove [...] la clau-
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Ad avviso del Collegio arbitrale milanese, poiché l’irritualità della
clausola arbitrale non determinerebbe la deroga alla competenza del giudice
statale, deve negarsi il carattere vessatorio di detta clausola.
4. Tale conclusione, per lo più pacifica in giurisprudenza, ha incontrato forti resistenze in dottrina, la quale ha invece sostenuto l’applicabilità
anche alla clausola d’arbitrato irrituale della regola dell’art. 1341 c.c. argomentando, in primis, dal dato testuale della norma secondo cui « non hanno
effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che
stabiliscono, a favore di chi le ha predisposte, clausole compromissorie o
deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria », ove il riferimento alle
« clausole arbitrali » appare generico, e dunque indistintamente valevole
sia per una clausola arbitrale rituale che per una irrituale (4).
Altro significativo elemento testuale in tal senso sarebbe stato desumibile, questa volta in tema di clausole abusive nei contratti stipulati con i
consumatori, dal recepimento della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio del
5 aprile 1993 ove, in base al combinato disposto dell’art. 3 e dell’allegato
q), opera un meccanismo di presunzione di abusività per le clausole volte
a sopprimere o limitare l’esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore, in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente a « una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni
giuridiche », cioè — secondo l’interpretazione decisamente prevalente (5)
— ad un arbitrato di tipo irrituale. La nostra disciplina interna, però, ha
omesso di riprodurre questo specifico punto della Direttiva comunitaria, ed
ha consacrato — dapprima all’(oggi soppresso) art. 1469-bis c.c., poi al
nuovo art. 33 del Codice del Consumo (D.Lgs. n. 206/2005) — come vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che hanno, per oggetto o per effetto, di « escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista » (lett.
b), di « sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’adduzione di prove, inversioni o modificazioni delsola compromissoria sia istitutiva di arbitrato irrituale, difettando in tale caso il carattere
compromissorio o comunque derogabile della competenza dell’autorità giurisdizionale ».
(4) Si sono espressi in questo senso: PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, I, 209; RUFFINI, Clausola compromissoria irrituale che riservi ad organi di giustizia interna la composizione in via definitiva delle controversie sorte all’interno di un
gruppo associativo e tutela ex art. 700 c.p.c., in Giuri mer., 1986, 16.
(5) Trib. Roma, 8 maggio 1998, in Giur. it., 1999, I, 265 ss. con nota di D’ALESSANDRO, Clausola compromissoria e arbitrato irrituale e azione inibitoria nei confronti dei consumatori; Trib. Roma, 28 ottobre 2000, in Contratti, 2001, 441 s. con nota di SCARPELLO,
Clausole abusive nei contratti di assicurazione del consumatore e in Giur. it., 2001, 743 ss.
con nota di ZUCCARO, Riflessioni in tema di tutela del consumatore e clausole abusive.
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l’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i
terzi » (lett. t); di « stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore » (lett. u). La scelta del legislatore interno di non inserire l’espresso
riferimento alle clausole che impongono al consumatore « una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni giuridiche » ha mantenuto aperta la problematica, palleggiata tra le due opposte opzioni esegetiche, a cui inesorabilmente soggiace l’indeterminatezza dell’appena ricordata normativa interna (6).
Di maggiore spessore interpretativo appare, poi, l’altro assunto che
muove dalla premessa equiparazione dell’arbitrato irrituale all’arbitrato rituale in ordine al profilo dell’analoga efficacia derogatoria della competenza dell’autorità giudiziaria (7). L’arbitrato irrituale, cioè, rappresenterebbe — cosı̀ come l’arbitrato rituale — una forma di giustizia privata (8),
a tutti gli effetti alternativa rispetto a quella offerta dallo Stato e bisognevole, pertanto, di un più accurato controllo dell’effettiva volontà compromissoria ove essa risulti manifestata in un modello contrattuale contenente
condizioni generali predisposte da uno dei contraenti.
Tale tesi appare oggi altresı̀ avvalorata dall’ultima riforma della disciplina arbitrale, risalente alla Legge n. 40/2006 che, introducendo all’art.
808-ter c.p.c. la necessità della forma scritta per l’impiego dell’arbitrato irrituale (9), sembrerebbe — di fatto — aver confermato la soluzione della
dottrina. Più precisamente, premesso che alle parti è richiesta l’esplicitazione in forma scritta della volontà compromissoria per arbitrato irrituale,
(6) Ex multis, in riferimento all’abrogato testo dell’art. 1469-bis c.c., affronta la questione, PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 211-213.
(7) Si ricordi, peraltro, che la dottrina più antica, allora convinta della rigida contrapposizione tra arbitrato rituale e irrituale sosteneva che la stipula della convenzione d’arbitrato irrituale non dovesse ritenersi idonea a determinare un vero e proprio spostamento
della competenza, bensı̀ « una rinuncia, anche se, per alcuni aspetti, temporanea alla tutela
giurisdizionale »: VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, Milano, 1971, 301.
(8) Cosı̀ D’ALESSANDRO, Clausola compromissoria « irrituale »: vessatoria ex art.
1341, comma II, e art. 1469-bis n. 18 c.c., in questa Rivista, 1998, 270-271. CECCHELLA, in
AA.VV., L’arbitrato, a cura di CECCHELLA, Torino, 2005, 57, precisa che la clausola d’arbitrato irrituale, pur non comportando una deroga a tutti i gradi di giurisdizione, « incide necessariamente su di essa, impedendo l’azione giudiziaria sin tanto che gli arbitri non abbiano
sul piano convenzionale giudicato, con risultati destinati, quanto al controllo di forme e contenuti davanti al giudice dello Stato, ad effetti di ben maggiore stabilità rispetto al lodo rituale ».
(9) Prima della menzionata riforma, la giurisprudenza negava che, in generale, la
previsione di un arbitrato irrituale richiedesse la forma scritta a pena di nullità, in quanto tale
forma era prevista dalla legge per il solo arbitrato rituale, cosı̀ come disposto all’art. 807
c.p.c. (Cass., Sez. un., 14 maggio 1997, n. 4258, in Giust. civ., 1998, I, 2001; Cass., 4 novembre 2004, n. 21139), con la precisazione che il rispetto della forma scritta sarebbe risultato imprescindibile anche per la clausola d’arbitrato irrituale, ove essa avesse riguardato una
delle ipotesi di cui all’art. 1350 c.c.
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pena la presunzione di ritualità, e premesso che, nel caso dell’arbitrato rituale, la relativa clausola compromissoria soggiace al regime legale delle
clausole vessatorie ex art. 1341 c.c., appare irragionevole non ritenerne
l’applicazione anche per quella d’arbitrato irrituale (10).
ELENA OCCHIPINTI
(10) Cosı̀ BOVE, Art. 808-ter - Arbitrato irrituale, in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, 2010, Padova, 81. Anche secondo SASSANI, L’arbitrato a modalità
irrituale, in questa Rivista, 2007, 33, poiché la qualità intrinseca di clausola compromissoria
non potrebbe essere negata alla convenzione d’arbitrato irrituale, ad essa deve applicarsi la
disciplina dell’art. 1341 c.c.
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RASSEGNE E COMMENTI
I meccanismi di soluzione delle controversie
nel quadro del Trattato sulla Carta dell’Energia
LAURENT GOUIFFÈS - CHRISTIAN DI MAURO
1.
Introduzione.
Il Trattato sulla Carta dell’Energia (« Trattato ») è un accordo multilaterale sottoscritto a Lisbona nel 1994 da cinquantuno Parti Contraenti (1) (2) (tra cui i Paesi dell’ex Unione Sovietica, i Paesi dell’Europa centrale e orientale, il Giappone, l’Australia e gli Stati membri delle Comunità
europee) ed è entrato in vigore, insieme al Protocollo sull’Efficienza Energetica e i Connessi Aspetti Ambientali (« PEEREA ») (3), il 16 aprile 1998,
al raggiungimento delle prime trenta ratifiche.
(1) Albania, Armenia, Australia, Austria, Azerbaijan, Bielorussia (applica il Trattato
in via provvisoria ex art. 45), Belgio, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Ungheria,
Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Liechtenstein, Lituania,
Lussemburgo, Malta, Moldavia, Mongolia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Federazione Russa, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Repubblica ex Jugoslava di Macedonia, Turchia, Turkmenistan, Ucraina, Regno Unito, Uzbekistan, Comunità Europee.
Australia, Bielorussia, Islanda, Norvegia non hanno ancora depositato lo strumento di
ratifica.
In data 20 agosto 2009 la Federazione Russa ha ufficialmente reso nota al Depositario la propria decisione di non essere Parte Cotraente dell’ECT né del PEEREA. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 45(3(a)) dell’ECT, la Federazione Russa non è più parte né dell’ETC né del PEEREA a far data dal 19 ottobre 2009.
(2) Il trattato sulla Carta europea dell’energia è stato reso esecutivo dall’Italia con la
L. 10 novembre 1997, n. 415 ed è entrato in vigore il 16 dicembre dello stesso anno.
(3) Il Protocollo della carta dell’energia sull’efficienza energetica e sugli aspetti ambientali correlati è stato negoziato, aperto alla firma ed è entrato in vigore contemporaneamente al Trattato. Gli obiettivi del PEEREA sono: a) la promozione di politiche di efficienza
energetica compatibili con lo sviluppo sostenibile; b) la creazione di condizioni quadro che
inducano i produttori ed i consumatori ad utilizzare l’energia per quanto possibile in maniera
economica, efficiente e rispettosa dell’ambiente, in particolare mediante l’organizzazione di
mercati dell’energia efficienti e una maggiore considerazione dei costi e dei vantaggi ambientali; e c) l’incoraggiamento della cooperazione nel settore dell’efficienza energetica.
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Il principale obiettivo che si è inteso realizzare con la stipula del Trattato, il quale ripropone in forme giuridiche vincolanti i principi enunciati a
livello politico dalla Carta europea dell’Energia (4), è quello di agevolare la
cooperazione nel settore energetico e di creare un quadro giuridico stabile
che contribuisca, da un lato, a promuovere lo sviluppo dei Paesi dell’Est
europeo, anche attraverso investimenti privati e, dall’altro, ad assicurare un
rifornimento stabile e un accesso sicuro alle risorse energetiche per i Paesi
occidentali.
Il Trattato rappresenta il primo accordo multilaterale vincolante in
materia di protezione degli investimenti, che contempla nello stesso tempo
regole per la promozione e lo sviluppo di un mercato aperto e competitivo
per i materiali e prodotti energetici, nonché la prima applicazione delle regole di transito alle reti energetiche.
È proprio attraverso meccanismi vincolanti di composizione delle vertenze internazionali che si è inteso assicurare un’effettiva applicazione delle
norme del Trattato, al fine di creare un clima favorevole per lo sviluppo
dell’attività d’impresa e per il flusso degli investimenti e delle tecnologie
attraverso l’attuazione dei principi di mercato.
In considerazione del ruolo fondamentale che gli investimenti privati
hanno nel settore energetico e dell’importanza in questo campo della soluzione di eventuali controversie, si analizzeranno i meccanismi previsti dal
Trattato per la soluzione delle controversie derivanti dalla violazione delle
norme sulla promozione e tutela degli investimenti di cui alla Parte III del
Trattato, al fine di valutare quale tutela tali meccanismi offrano all’investitore privato.
Dopo un breve excursus sulle norme di diritto sostanziale del Trattato
con particolare riferimento ai diritti fondamentali riconosciuti agli investitori esteri per la protezione degli investimenti effettuati in uno Stato ospite
(paragrafo 2), si focalizzerà l’attenzione sulle principali forme di risoluzione obbligatoria delle controversie internazionali tra investitore privato e
Stato ospite (paragrafo 3.1) e tra Parti Contraenti del Trattato (paragrafo
3.2), per poi concludere con una breve rassegna delle più interessanti pronunce arbitrali adottate in applicazione delle norme del Trattato (paragrafo 4).
(4) La Carta europea dell’Energia, adottata nel documento conclusivo della Conferenza dell’Aia sulla Carta europea dell’energia il 17 dicembre 1991, è un accordo politico legalmente non vincolante sulla cooperazione est-ovest in materia energetica che è stato sottoscritto da 52 Stati fra i quali le Comunità Europee, i Paesi dell’Europa occidentale ed orientale, i Paesi membri dell’ex URSS e altri Paesi non europei membri dell’OCSE, quali il
Giappone e l’Australia. Il testo della Carta è riprodotto nella pubblicazione dell’Energy
Charter Secretariat, 2004.
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2.
La promozione e la tutela degli investimenti.
Sebbene, come già evidenziato, il Trattato disciplini diversi ambiti
collegati al settore dell’energia (5), l’indagine si concentrerà sull’esame
delle norme in materia di investimenti.
La Parte III dedicata agli investimenti rappresenta il cornerstone dell’intero Trattato. Le norme in essa contenute sono volte alla promozione e
protezione degli investimenti esteri negli Stati membri. A tal fine, il Trattato riconosce una serie di diritti in capo agli investitori esteri che effettuano investimenti in uno Stato ospite, la cui effettiva attuazione è garantita, come si vedrà meglio nel prosieguo, attraverso i meccanismi di soluzione obbligatoria delle controversie internazionali cui possono fare ricorso
non soltanto le Parti Contraenti, ma anche gli investitori privati.
Com’è noto, le scelte degli investitori esteri sono fortemente influenzate dalla loro percezione dei rischi di natura politica connessi agli investimenti da effettuare in uno Stato ospite. Più è basso il rischio percepito,
maggiori saranno i capitali investiti e più elevati saranno i vantaggi che lo
Stato ospite potrà trarre da tali investimenti. Per tale ragione, il Trattato
prevede delle forme di tutela contro i più importanti rischi di natura politica cui possono andare incontro gli investitori esteri, quali la discriminazione, l’espropriazione e la nazionalizzazione, la violazione dei contratti di
investimento individuali, i danni subiti a causa di guerre, di altri conflitti
armati o di altri eventi analoghi e le ingiustificate restrizioni al trasferimento di fondi.
Il Trattato rappresenta, dunque, un importante strumento per accrescere la fiducia degli investitori stranieri e contribuire a incrementare il
flusso internazionale di capitali.
Ciò vale a più forte ragione per gli investitori italiani, per i quali le
norme sulla promozione e tutela degli investimenti di cui alla Parte III del
Trattato rappresentano l’unico strumento di tutela con riferimento agli investimenti effettuati in alcuni Stati Parti Contraenti del Trattato con i quali
l’Italia non ha stipulato alcun accordo bilaterale per la tutela degli investimenti in nessun settore (6).
(5) Oltre al settore degli investimenti e della risoluzione obbligatoria delle controversie internazionali, il Trattato prevede specifiche norme in materia di: (i) commercio di
energia, prodotti energetici ed equipaggiamenti e strumenti collegati all’energia (v. Parte II,
artt. 3, 4 e 5; v. anche Il Trade Amendment entrato in vigore, ai sensi degli artt. 42 e 44 del
Trattato, il 21 gennaio 2010, essendo stato ratificato da 35 Parti Contraenti; per il testo dell’Emendamento e per lo stato delle ratifiche si veda il sito web www.encharter.org); (ii) concorrenza (v. Parte II, art. 6); (iii) transito di materiale e prodotti energetici (v. Parte II, art. 7);
(iv) trasferimento di tecnologia (v. Parte II, art. 8); (v) accesso al capitale (v. Parte II, art. 9);
(vi) aspetti ambientali (v. Parte IV, art. 19).
(6) Ad esempio l’Italia non ha stipulato alcun accordo bilaterale per la tutela degli
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Le norme del Trattato sugli investimenti si rifanno ampiamente alla
tradizione degli accordi bilaterali sugli investimenti (Bilateral Investment
Treaties o BITs) e recepiscono principi e regole riconosciuti universalmente (7). Nel paragrafo che segue si esamineranno alcune delle principali
norme contenute nella Parte III del Trattato.
2.1. Definizione di Investimento e investitore (8). — Com’è tradizione anche nei BITs, la definizione di investimento adottata è molto ampia. Ai sensi dell’art. 1 (6) del Trattato, si considera investimento « ogni
tipo di attività, detenuta o controllata direttamente o indirettamente da un
investitore ».
Tale definizione include espressamente ogni proprietà su beni materiali o immateriali e ogni altro diritto, quali l’affitto, il mutuo, il pegno e
l’ipoteca; un’impresa o partecipazioni azionarie o quote in una società, obbligazioni o altri debiti di una impresa o società; crediti di denaro o diritto
alle prestazioni derivanti da contratto collegato a un investimento; proprietà
intellettuale e i redditi di impresa; ogni diritto conferito da un contratto o
da licenze e permessi di intraprendere attività nel settore dell’energia ottenuti in virtù di una legge.
Ampia è pure la definizione di investitore, mutuata anch’essa dalla
tradizione dei BITs. L’art. 1(7) del Trattato definisce investitore una persona
fisica che ha la cittadinanza o la nazionalità, o è permanentemente residente
in una Parte Contraente, nonché una società o altra organizzazione costituita in conformità al diritto applicabile in una Parte Contraente. Questa
definizione è applicabile anche a persone fisiche e giuridiche di Stati terzi.
2.2. Il trattamento degli investitori esteri. — Il Trattato è volto ad
assicurare un livello standard nel trattamento degli investitori stranieri. Ai
sensi dell’art. 10 (1) del Trattato, ciascuna Parte Contraente deve incoraggiare e creare condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti per gli investitori che effettuano investimenti nella propria area. Tali condizioni comprendono l’impegno ad accordare in ogni occasione un trattamento giusto
investimenti con: Giappone, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan. Un elenco, aggiornato al
giugno 2009, di tutti i trattati bilaterali sugli investimenti, è disponibile sul sito www.unctadxi.org.
(7) Sul tema degli accordi bilaterali sugli investimenti, si veda: UNCTAD, Bilateral
Investment Treaties in the Mid-1990s, 1998; Sacerdoti G., Bilateral Treaties and Multilateral
Instruments on foreign Investment Protection, Recueil des Cours, vol. 269, 1997, 251-460.
(8) Per un’analisi dell’interpretazione della nazione di investimento e investitore ai
sensi del Trattato, si veda A. TURINOV, « Investment » and « Investor » in Energy Charter
Treaty Arbitration: Uncertain Jurisdiction, in Journal of International Arbitration, The Hague, 2009, Vol. 26, n. 1, 1-23.
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ed equo agli investimenti di investitori di altre Parti Contraenti (9). Gli investimenti dovranno inoltre godere di una piena tutela e in nessun caso potranno essere sottoposti ad un trattamento meno favorevole di quello prescritto dal diritto internazionale, compresi gli obblighi pattizi.
2.3. Il principio di non discriminazione: a) il trattamento riservato
ad investimenti già realizzati. — La protezione contro la discriminazione è
uno degli aspetti più importanti al fine di creare un clima favorevole per gli
investimenti. L’art. 10 (7) del Trattato impone allo Stato ospite di riservare
agli investimenti realizzati da investitori di altre Parti Contraenti e alle loro
attività connesse — compresi la gestione, il mantenimento, l’uso, il godimento o l’alienazione — un trattamento non meno favorevole di quello accordato agli investimenti dei propri investitori ovvero degli investitori di
qualsiasi altra Parte Contraente o di qualsiasi Stato terzo (c.d. trattamento
nazionale e trattamento della nazione più favorita - Most Favoured Nation
o MFN) (10). Per esempio, una licenza all’esportazione non può essere concessa solo a investitori locali o solo a investitori di alcuni Stati esteri, se gli
altri investitori esteri si trovano nelle medesime condizioni richieste per il
rilascio di tale licenza.
Alle Parti Contraenti non è consentito sollevare eccezioni al principio
di non discriminazione per quanto riguarda gli investimenti già realizzati.
Esistono, tuttavia, alcuni settori in cui il principio di non discriminazione
non trova piena applicazione, ossia la materia fiscale (11), le sovvenzioni o
altre forme di assistenza finanziaria, i contratti di ricerca e sviluppo nel settore energetico (12), i diritti di proprietà intellettuale (13).
(9) Sul tema dei singoli obblighi di trattamento degli investimenti provenienti da altre Parti Contraenti si veda: T.W. WÃLDE, Investment Arbitration under the Energy Charter
Treaty: An Overview of Selected Key Issues based on Recent Litigation Experience, in Transnation Dispute Management, Vol. I, n. 02, 2004. In particolare, p. 381 ss., per il trattamento
nazionale e non discriminatorio; p. 385 ss., per il fair and equitable treatment; p. 392 ss., per
il rispetto delle obbligazioni contrattuali assunte con gli investitori; 400 ss., per il trattamento
non meno favorevole di quanto richiesto dal diritto internazionale, ivi compreso il diritto internazionale pattizio; p. 402, per le misure di effetto equivalente a una espropriazione; R.
HAPP, Dispute Settlement Under the Energy Charter Treaty, in German Yearbook of International Law, Vol. 45, 2002.
(10) Si vedano sul punto: A. NEWCOMBE, L. PARADELL, Chapter 5 - Most-favouredNation Treatment, Law and Practice of Investment Treaties: Standards of Treatment, The
Hague 2009, 193-232; E. GAILLARD, Establishing Jurisdiction through a Most-FavoredNation Clause, in New York Law Journal, 2005, 233; S. FIETTA, Most Favoured Nation
Treatment and Dispute Resolution under Bilater Investmnent Treaties, in International Arbitration Law Review, 2005, 131; T.W. WÃLDE, op. cit.
(11) Cfr. art. 21 del Trattato.
(12) Cfr. art 10(8) del Trattato.
(13) Cfr. art 10(10) del Trattato.
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b) la realizzazione di investimenti. — L’obbligo di garantire un trattamento non discriminatorio si riferisce esclusivamente a investimenti già effettuati (c.d. « post-establishment phase »), sebbene in sede di negoziati si
sia discusso ampiamente circa l’opportunità di estendere l’applicazione del
principio di non discriminazione anche alla fase di realizzazione dell’investimento. In questo modo, si sarebbe garantita agli investitori esteri la medesima posizione sotto il profilo giuridico dei concorrenti locali in relazione
all’ottenimento di qualsiasi forma di autorizzazione da parte dello Stato
ospite necessaria per effettuare l’investimento.
L’applicazione del principio di non discriminazione alla fase di realizzazione dell’investimento ha un’importanza particolare nel settore dell’energia, dove spesso sono richieste licenze o concessioni da parte dello
Stato ospite affinché l’investitore possa realizzare il proprio investimento.
Tale ambizioso obiettivo purtroppo non è stato raggiunto nei tre anni
di negoziati.
Si è riusciti tuttavia ad adottare una soluzione intermedia. Invero,
l’art. 10 (2) del Trattato contempla l’impegno delle Parti Contraenti ad
adoperarsi per concedere agli investitori di altre Parti Contraenti un trattamento non discriminatorio anche per quanto riguarda la realizzazione di investimenti. Inoltre, ai sensi dell’art. 10 (5) del Trattato, le Parti Contraenti
dovranno adoperarsi, con riferimento alla realizzazione di investimenti
nella propria area, al fine di limitare al minimo le eccezioni al trattamento
non discriminatorio e di sopprimere progressivamente le restrizioni in atto
pregiudizievoli agli investitori di altre Parti Contraenti (14).
Il Segretariato (15) ha curato la compilazione del c.d. « Blue Book »,
contenente tutte le eccezioni al principio di non discriminazione con riferimento alla realizzazione di investimenti esteri nel settore energetico che
sono state segnalate dalle Parti Contraenti (16).
2.4. Espropriazione. — La protezione degli investitori esteri in caso
di espropriazione è un elemento fondamentale degli accordi di investimento. Sebbene il rischio di espropriazioni dovute a ragioni politiche si sia
ridotto sensibilmente nel corso degli ultimi decenni, nei quali si è registrata
la tendenza opposta alla denazionalizzazione e alla privatizzazione, tale rischio non è ancora del tutto scomparso. Inoltre, vi è sempre la possibilità
(14) Sul punto si veda: A.E.L. TUCKER, The Energy Charter Treaty and « compulsory » international state, in Leiden Journal of International Law (1998), vol. 11, n. 3, 513526.
(15) Si tratta di uno degli organi istituzionali previsti dal Trattato. V. art. 35 del Trattato.
(16) Una copia del Blue Book, aggiornata al novembre 2009, è disponibile sul sito
web www.encharter.org (con riferimento all’Italia si veda, pp. 87 e 88).
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che delle misure espropriative vengano disposte per ragioni non politiche
(e.g. costruzione di una nuova strada o di un nuovo edificio).
Ai sensi dell’art. 13 del Trattato, gli investimenti di un investitore di
una Parte Contraente nell’area di un’altra Parte Contraente non possono essere nazionalizzati, espropriati o sottoposti a misure di effetto equivalente
tranne nel caso in cui l’espropriazione sia: a) dovuta a scopo di pubblico
interesse; b) non discriminatoria; c) compiuta con procedura conforme alla
legge, e d) accompagnata dalla corresponsione di un indennizzo tempestivo, congruo ed effettivo che sia pari all’equo valore di mercato che l’investimento espropriato aveva immediatamente prima dell’espropriazione o
al momento in cui l’imminente espropriazione è diventata nota. L’investitore può richiedere che l’indennizzo sia espresso in una valuta liberamente
convertibile in base al tasso di cambio vigente sul mercato per tale valuta,
alla data di stima. Inoltre, ai sensi dell’art. 13 (2) del Trattato, l’investitore
ha diritto ad un sollecito esame della stima del suo investimento e del pagamento dell’indennizzo ad opera di un organo giurisdizionale o di altro
competente organo indipendente dello Stato ospite e in base alla legge di
detto Stato (17).
2.5. Contratti individuali di investimento. — L’art. 10 (1) del Trattato, ultima frase, prevede che ciascuna Parte Contraente è tenuta ad adempiere agli obblighi assunti nei confronti di un investitore o con riferimento
ad un investimento effettuato da un investitore di una qualsiasi altra Parte
Contraente. Tale norma si riferisce a ciascun contratto stipulato dallo Stato
ospite con una società consociata dell’investitore estero che ha sede nello
Stato ospite, o con la società capo gruppo (c.d. umbrella clause) (18).
Ai sensi dell’art. 10 (1) del Trattato la violazione di un contratto di investimento individuale da parte dello Stato ospite determina automaticamente
la violazione del Trattato. Ne consegue che l’investitore estero e il proprio
Stato di origine potranno far valere tale violazione facendo ricorso ai meccanismi di soluzione obbligatoria delle controversie previsti dal Trattato.
Tuttavia, si segnala che l’art. 26 (3)(c) del Trattato riconosce il diritto
delle Parti Contraenti di escludere il ricorso all’arbitrato internazionale in
alcuni specifici casi. Quattro Stati hanno adottato tale soluzione (19).
(17) Si veda sul punto: C. SCHREUER, The concept of expropriation under the Energy
Charter Treaty and other investment protection treaties, in Investment arbitration and the
Energy Charter Treaty. Proceedings of the conference, Stockholm, 2005; T.W. WÃLDE, op. cit.
402; R. HAPP, op. cit., 342-344.
(18) Sul tema si veda: T.W. WÃLDE, The « Umbrella » Clause on Investment Arbitration — A Comment on Original Intentions and Recent Cases, in The Journal of World Investment & Trade, Vol. 6, n. 2, 2005; R. HAPP, op. cit., 344-347.
(19) Tali Stati (Australia, Canada, Ungaria e Norvegia) sono indicati all’Allegato IA
del Trattato.
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2.6. Non applicazione della Parte III in talune circostanze. — L’art.
17 del Trattato riconosce il diritto delle Parti Contraenti di rifiutare l’applicazione delle norme sugli investimenti in due casi.
L’art. 17 (1) riguarda le c.d. « mailbox companies », ossia le società
che non hanno attività commerciali rilevanti nell’area della Parte Contraente in cui sono organizzate. Dunque alla Parte Contraente è consentito
di non riconoscere l’applicazione della Parte III del Trattato nei confronti
delle suindicate società, qualora le stesse siano di proprietà di o controllate
da persone aventi la cittadinanza o la nazionalità di uno Stato terzo.
L’art. 17 (2) si riferisce agli investimenti indiretti che riguardano alcune tipologie di Stati terzi. Tale norma si applica se la Parte Contraente
che oppone il diniego non intrattiene relazioni diplomatiche con lo Stato
terzo o adotta o mantiene misure che vietano operazioni con investitori di
detto Stato.
3.
La risoluzione obbligatoria delle controversie internazionali (20).
Il Trattato contempla un complesso sistema di risoluzione delle controversie internazionali, che è stato previsto poiché al tempo dei negoziati
alcuni Stati contraenti non erano ancora dotati di un sistema giudiziario interno sufficientemente sviluppato. Vi era, e vi è tuttora, la preoccupazione
che i tribunali di tali Stati non garantiscano sufficiente neutralità, professionalità, competenza ed efficienza, nonché il rispetto delle norme di legge.
Attraverso la previsione di un meccanismo che rimetta la soluzione delle
controversie a dei tribunali internazionali, il Trattato ha inteso incrementare
la fiducia degli investitori al fine di promuovere il flusso degli investimenti
e degli scambi commerciali tra gli Stati membri. Come già osservato, la
previsione di un sistema di soluzioni alternative delle controversie ha particolare rilievo nel settore energetico, dove le controversie possono essere
spesso molto complesse e comportare un notevole esborso di denaro.
Il Trattato prevede diversi meccanismi di soluzione delle controversie
che si applicano ai vari settori dallo stesso disciplinati. In particolare, sono
previste due forme di risoluzione obbligatoria delle controversie: (i) l’arbi-
(20) Sul tema si vedano: B.M. CREMADES, Arbitration under the Energy Charter
Treaty and other investment protection treaties: parallel arbitration tribunals and awards, in
Transnational Dispute Management, 2, 2005; H. COREU, G. LOOP, L. GOUIFFÈS, Introduction
to the Energy Charter Treaty - Investment Arbitration and the Energy Charter Treaty, in Juris Publishing 2006. E. GAILLARD, Energy Charter Treaty: international centre for settlement
decision, in New York Law Journal, 2005, 66, 1-2; R. HAPP, Dispute settlement under the
Energy Charter Treaty, op. cit.; K.J. VANDEVELDE, Arbitration provisions in the BITs and the
Energy Charter Treaty, in T.W. WÄLDE, The Energy Charter Treaty. An East-West gateway for
investment and trade, London, 1996, 409; T.W. WÄLDE, Investment arbitration under the
Energy Charter Treaty, in Arbitration International, 1996 4, 429-467.
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trato tra Parti Contraenti, ai sensi dell’art. 27, strumento al quale è possibile ricorrere in relazione a tutte le controversie derivanti dalla violazione
delle norme del Trattato ad eccezione delle controversie in materia di concorrenza (21) e questioni ambientali (22), e (ii) i meccanismi di soluzione
delle controversie tra investitore privato e Stato ospite ai sensi dell’art. 26
del Trattato.
Norme particolari sono poi previste per la risoluzione delle controversie tra Parti Contraenti in materia di commercio (23) e transito (24) dei prodotti energetici che derogano alle norme sulle controversie tra Parti Contraenti di cui all’art. 27.
Come anticipato, di seguito si analizzeranno i meccanismi di soluzione delle controversie previsti agli artt. 26 e 27 del Trattato.
3.1. Controversie tra investitori privati e Parti Contraenti ex art. 26
del Trattato. — Preliminarmente occorre osservare che la procedura di cui
all’art. 26 del Trattato si applica solo alle controversie derivanti dalla violazione degli obblighi previsti nella Parte III del Trattato in tema di promozione e tutela degli investimenti. L’ambito di applicazione dell’art. 26 è,
dunque, limitato e gli investitori non potranno far valere nei confronti dello
Stato ospite la violazione di altre disposizioni del Trattato. La questione
dell’ambito di applicazione dell’art. 26 del Trattato è stata sollevata nel
caso Nykomb Synergetics Technology Holding AB (Sweden) c. Lettonia (25)
nel quale l’investitore privato ha invocato l’applicazione di una norma non
contenuta nella Parte III del Trattato, ossia l’art. 22 in materia di imprese
statali privilegiate. In tale circostanza, il Tribunale arbitrale, pur statuendo
sulla richiesta formulata ai sensi dell’art. 22 del Trattato, ha applicato, in
luogo della norma invocata, la consuetudine internazionale.
a) consultazioni amichevoli. — Ai sensi dell’art. 26 (1) del Trattato,
ogni controversia deve, se possibile, essere risolta amichevolmente. A tal
fine, il Trattato prevede un periodo di tre mesi di consultazioni nel corso
delle quali le parti devono cercare di raggiungere una soluzione amichevole. A quanto risulta e contrariamente a ciò che accade nell’ambito di altri accordi di protezione degli investimenti, dove le parti spesso notificano
la domanda di arbitrato senza attendere il decorso del termine previsto per
(21) V. art. 6 (7) del Trattato, il quale non prevede procedure arbitrali vincolanti ma
dei meccanismi di consultazione e conciliazione tra gli Stati.
(22) V. art. 27 (2) del Trattato, il quale non prevede procedure arbitrali vincolanti ma
dei meccanismi di consultazione e conciliazione tra gli Stati.
(23) V. art. 29 e Allegato D al Trattato.
(24) V. art. 7 del Trattato.
(25) V. infra nota 36.
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le consultazioni, nelle procedure di cui all’art. 26 le parti hanno rispettato
il termine di tre mesi.
b) scelta tra i meccanismi di soluzione delle controversie domestici o
internazionali. — In caso di mancato raggiungimento di una soluzione
amichevole, l’investitore potrà scegliere di fare ricorso:
(i) alle corti o ai tribunali amministrativi della Parte Contraente, che è
parte della controversia;
(ii) alle procedure di risoluzione precedentemente convenute (e.g.
meccanismi di risoluzione previsti dai BITs);
(iii) alle procedure indicate all’art. 26 del Trattato.
Ai sensi dell’art. 26, paragrafo 3, lett. a) del Trattato, ciascuna Parte
Contraente presta il proprio consenso incondizionato a sottoporre una controversia all’arbitrato o alla conciliazione internazionale in conformità alle
disposizioni del Trattato. Esistono, tuttavia, alcune eccezioni.
La prima eccezione è prevista all’art. 26, paragrafo 3, lett. b), il quale
prevede che gli Stati indicati all’Allegato ID, tra cui figurano l’Italia e circa
la metà degli Stati firmatari del Trattato, non consentono a un investitore di
sottoporre la stessa controversia ad arbitrato internazionale dopo aver fatto
ricorso alle corti o ai tribunali amministrativi nazionali o a procedure di
composizione della controversia precedentemente convenute. Tale riserva,
da un lato consente agli Stati di evitare che una decisione dei propri tribunali possa essere ribaltata o superata da una successiva sentenza arbitrale
internazionale e, dall’altro, tende a scoraggiare gli investitori a far ricorso
ai tribunali interni dello Stato ospite.
La seconda eccezione è prevista alla lettera c) dell’art. 26, paragrafo
3 del Trattato. Tale norma prevede che gli Stati indicati all’Allegato IA del
Trattato non prestano il proprio consenso incondizionato rispetto ad una
controversia sorta in merito agli obblighi contrattuali assunti nei confronti
di un investitore o con riferimento a un investimento effettuato da un investitore in una qualsiasi altra Parte Contraente. Tale eccezione, che sembrerebbe di ampia applicazione, nella prassi risulta di scarsa rilevanza applicativa, poiché, come già osservato (26), sono solo quattro gli Stati indicati
nell’Allegato IA (Australia, Canada, Ungheria e Norvegia).
c) scelta tra i diversi fori arbitrali internazionali. — Nel caso in cui
un investitore decida di far ricorso all’art. 26, dovrà notificare per iscritto il
proprio consenso a che la controversia sia sottoposta a uno dei tre fori arbitrali elencati nell’art. 26 (4) del Trattato. In particolare:
(i) Il Centro per la soluzione delle controversie in materia di investimenti (International Centre for Settlement of Investment Disputes, ICSID)
(26) V. supra nota 19.
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istituito dalla Convenzione di Washington del 1965. È possibile ricorrere
all’arbitrato ICSID solo nelle ipotesi in cui sia lo Stato di origine dell’investitore, sia lo Stato ospite, siano parti di tale Convenzione — ferma restando la necessità di un consenso specifico delle parti all’arbitrato. In caso
contrario, l’investitore potrà invocare le Additional Facility Rules previste
dalla Convenzione di Washington che si applicano solo nel caso in cui o lo
Stato di origine dell’investitore o quello ospite siano parti di tale Convenzione;
(ii) L’arbitro unico o il tribunale arbitrale ad hoc istituito ai sensi del
Regolamento Arbitrale Uncitral;
(iii) l’arbitrato dell’Arbitration Institute della Camera di Commercio
di Stoccolma.
Occorre evidenziare che tra i suindicati fori arbitrali esistono differenze rilevanti sotto il profilo della procedura e che la scelta dell’uno o dell’altro foro potrebbe essere motivata da ragioni di strategia difensiva. In alcune circostanze potrebbe risultare più opportuno ricorrere ad un arbitrato
amministrato (quale quello dell’ICSID o l’arbitrato previsto dall’Arbitration Institute of the Stockholm Chamber of Commerce) piuttosto che un arbitrato ad hoc secondo le regole Uncitral.
d) legge applicabile e la non impugnabilità delle sentenze arbitrali.
— Il Tribunale costituito a sensi dell’art. 26 (4) del Trattato deciderà la
controversia in conformità alle norme del Trattato e secondo le regole e i
principi del diritto internazionale. Le sentenze saranno definitive e vincolanti per le parti in controversia.
e) esecuzione delle sentenze arbitrali. — Con riferimento all’esecuzione delle sentenze arbitrali, l’art. 26 (8) del Trattato prevede che ciascuna
Parte Contraente debba provvedere senza indugio all’esecuzione del lodo
arbitrale e adottare tutte misure idonee a rendere esecutivo tale lodo nel
proprio territorio.
In proposito, occorre segnalare che la Convenzione di New York del
1958 sul riconoscimento e l’esecuzione dei lodi arbitrali prevede che gli
Stati parti della Convenzione sono tenuti a dare esecuzione alle sentenze
arbitrali nelle proprie giurisdizioni (27). Tale obbligo è stato limitato da
molti Stati alle sole sentenze arbitrali che siano state pronunciate in uno
Stato membro della Convenzione. Per tale ragione, l’art. 26 del Trattato
precisa che ogni arbitrato ai sensi del predetto articolo ha luogo, su richiesta di qualsiasi parte della controversia, in uno Stato che è parte della Con-
(27) Sul tema dell’esecuzione dei lodi arbitrali si veda: A. ATTERITANO, L’enforcement
delle sentenze arbitrali del commercio internazionale - Il principio del rispetto della volontà
delle parti, Milano, 2009.
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venzione di New York. Inoltre, poiché molti Stati hanno limitato l’applicazione della Convenzione di New York alle sole controversie commerciali,
il Trattato ha inteso ulteriormente garantire il diritto delle parti all’esecuzione della sentenza arbitrale stabilendo, ai sensi dell’art. 26, paragrafo 5,
lett. b) che le domande dedotte in arbitrato si considerano derivanti da una
relazione commerciale, ai sensi e ai fini dell’art. 1 di tale Convenzione.
Infine, nelle ipotesi in cui l’investitore decida di sottomettere la controversia all’ICSID, la possibilità di eseguire il lodo arbitrale sarà altresı̀
garantita dalla Convenzione di Washington la quale obbliga gli Stati contraenti a riconoscere le sentenze arbitrali come se fossero delle sentenze
rese da organi giurisdizionali nazionali, il che implica che il lodo arbitrale
ICSID non necessiterà di exequatur.
3.2. Controversie tra Parti Contraenti ex art. 27 del Trattato. —
L’articolo 27 del Trattato prevede un meccanismo di soluzione delle controversie tra Parti Contraenti derivanti dall’interpretazione e applicazione di
gran parte delle disposizioni del Trattato (28).
L’ambito di applicazione ratione materiae dell’art. 27 del Trattato è
dunque più ampio rispetto a quello dell’art. 26, il quale, come sopra evidenziato, trova applicazione solo con riferimento alle controversie tra investitori e Parti Contraenti aventi ad oggetto la violazione delle norme sulla
promozione e tutela degli investimenti di cui alla Parte III del Trattato.
L’articolo 27 prevede in primo luogo l’obbligo delle Parti Contraenti
di adoperarsi « affınché le controversie riguardanti l’interpretazione o l’applicazione del Trattato siano risolte attraverso i canali diplomatici ». Solo
se la controversia non è stata risolta entro « un periodo ragionevole » una
parte può sottoporre la questione a un tribunale arbitrale ad hoc. Tale
norma si differenzia dall’art. 26 del Trattato il quale prevede l’obbligo delle
Parti Contraenti di tentare di risolvere preliminarmente la controversia in
via amichevole per un periodo non superiore a tre mesi.
Se la controversia tra le Parti Contraenti non può essere risolta per le
vie diplomatiche, una Parte Contraente, previa notifica per iscritto all’altra
Parte Contraente, può sottoporre la questione ad un tribunale arbitrale ad
hoc.
(28) Come già evidenziato, le poche eccezioni all’applicazione dell’art. 27 riguardano: (i) le controversie in materia di concorrenza di cui all’art. 6 e di questioni ambientali
di cui all’art. 19, per le quali sono previsti specifici meccanismi di conciliazione, (ii) le controversie concernenti le misure relative agli investimenti che incidono sugli scambi commerciali, salvo diverso accordo delle Parti Contraenti e (iii) le controversie che coinvolgono un
limitato elenco di Stati indicato all’Allegato IA (Australia, Canada, Ungheria e Norvegia)
concernenti gli obblighi contrattuali assunti riguardo ad un investitore o un investimento effettuato da un investitore in una qualsiasi altra Parte Contraente, di cui all’art. 10 (1) ultima
frase.
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In proposito, l’art. 27 del Trattato prevede che in caso di mancato accordo tra le Parti Contraenti sulla nomina del terzo membro del tribunale
arbitrale, tale nomina è effettuata dal Segretario generale della Corte Permanente di Arbitrato.
Salvo diverso accordo tra le Parti Contraenti parti della controversia,
il tribunale ha sede a L’Aia, utilizza i locali e i servizi della Corte Permanente di Arbitrato. e applica il regolamento Uncitral, ferma restando la possibilità per le parti della controversia o per gli arbitri di discostarsene.
Come per le controversie di cui all’art. 26 del Trattato, il tribunale decide in conformità al Trattato e alle norme e dei principi applicabili del diritto internazionale e il lodo arbitrale ha carattere inappellabile e vincolante
per le parti della controversia.
Il suindicato meccanismo di composizione delle controversie tra Parti
Contraenti non ha ancora trovato applicazione. Ad oggi si conosce di una
sola controversia tra Slovenia e Croazia insorta in merito al trasporto di
olio tra i due Paesi, che è stata tuttavia risolta in sede diplomatica.
Interessanti questioni, sotto il profilo dell’interpretazione e applicazione del Trattato, si porrebbero in relazione al caso in cui uno Stato membro dell’Unione Europea (che sia anche Parte Contraente del Trattato) faccia ricorso alla procedura di cui all’art. 27 del Trattato per la soluzione di
una controversia insorta nei confronti di un altro Stato membro dell’Unione
Europea (anch’esso Parte Contraente). In tale ipotesi potrebbe sorgere un
conflitto di giurisdizione rispetto alla competenza della Corte di Giustizia
delle Comunità Europee. In proposito, il caso Mox Plant può offrire qualche interessante spunto di riflessione. In questo caso, l’Irlanda ha agito
contro il Regno Unito per far valere l’illegittimo smaltimento di scorie radioattive nel mare irlandese da parte della piattaforma Mox, sottoponendo
la controversia al Tribunale Arbitrale costituito ai sensi della Convenzione
delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Il Regno Unito ha eccepito la competenza esclusiva della Corte di Giustizia delle Comunità Europee ai sensi dell’art. 292 del Trattato CE. La Corte di Giustizia è intervenuta, su ricorso della Commissione Europea (29), e ha accertato che l’Irlanda aveva violato le norme del Trattato CE in materia di risoluzione delle
controversie (30). In realtà, nel caso di specie non si presentava un vero e
proprio conflitto tra trattati internazionali poiché la convenzione UNICLOS
prevede la possibilità di risolvere le controversie a livello locale. Tuttavia,
la potenziale interazione tra il diritto comunitario e il Trattato resta, e non
(29) Commissione delle Comunità europee c. Irlanda; causa C-459/03.
(30) La Corte ha statuito che « Intentando un procedimento di risoluzione delle controversie contro il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare relativamente allo stabilimento MOX ubicato nel sito di Sellafield (Regno Unito), l’Irlanda è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 10 CE, 292 CE, 192 EA e 193 EA ».
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è ancora chiaro quali soluzioni interpretative potranno essere adottate. Ciò
è ancora più vero alla luce della disposizione dell’art. 16 del Trattato, ove
si prevede che in caso di più accordi internazionali si applica l’accordo internazionale più favorevole all’investitore, il che sembra suggerire che il
Trattato possa prevalere sul diritto comunitario. Sebbene la Corte di Giustizia tenda ad assumere una posizione rigorosa, come nel caso Mox Plant,
occorre tenere presente che la Comunità Europea è parte del Trattato e che
qualora la Corte dovesse ritenere che il diritto comunitario prevale sul
Trattato e affermare la propria giurisdizione esclusiva, ciò porrebbe un problema di violazione delle norme del Trattato da parte di una delle Parti
Contraenti. Allo stato è difficile immaginare come tale questione potrà essere risolta nella prassi (31).
Tale questione si ripropone a più forte ragione in seguito all’entrata in
vigore, l’1 dicembre 2009, del Trattato di Lisbona, il quale ha incluso nella
politica commerciale comune anche gli investimenti esteri diretti (Foreign
Direct Investment o FDI) (32) assegnando alla Commissione competenze
esclusive, con conseguente giurisdizione della Corte di Giustizia sugli atti
emanati dalla Commissione.
Al fine di valutare quale rilievo possa avere per la tutela degli investimenti e degli investitori privati il ricorso da parte degli Stati al sistema
di composizione delle controversie tra Parti Contraenti di cui all’art. 27 del
Trattato, è interessante rilevare quanto segue.
Sebbene esistano casi in cui gli Stati hanno fatto ricorso a procedure
arbitrali nei confronti di altri Stati facendo valere il diritto alla « protezione
diplomatica dei propri cittadini », (33) i sistemi di tutela diretta degli inve-
(31) La questione dell’applicabilità agli Stati membri dell’UE di trattati internazionali sulla promozione e protezione degli investimenti conclusi tra gli stessi Stati si è già posta con riferimento all’applicabilità dei BITs. Si veda in proposito il caso Easter Sugar B.V.
(Netherlands) c. The Czech Republic, SCC no. 088/2004, Lodo partziale del 27 marzo 2007
(pres. Karrer, Volterra e Gaillard arbitri), reperibile sul stio web www.ita.law.uvic.ca.
(32) Cfr. art. Articolo 207 (ex articolo 133 del TCE).
(33) V. Caso Tinoco (Regno Unito c. Costa Rica), decisione del 18 ottobre 1923, 1
RIAA 375 (1923) concernente le conseguenze negative per certi investitori britannici in Costa Rica della breve vita del Governo Tinoco; Caso Martini del 1903, United Nations Reports
of International Arbitration Awards X, 644-669, riguardante la discriminazione contri alcuni
investimenti fatti da Martini in Venezuela. La Convenzione di Washington del 18 marzo
1965, ratificata dall’Italia con Legge 10 maggio 1970, n. 1093 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12 gennaio 1971, n. 8), limita il ricorso alla protezione diplomatica. In particolare
l’art. 27 prevede che « Nessuno Stato Contraente accorderà la protezione diplomatica o
avanzerà rivendicazioni internazionali in relazione ad una controversia che uno dei suoi cittadini ed un altro Stato Contraente hanno convenuto di sottoporre o hanno sottoposto ad arbitrato nel quadro della presente Convenzione, salvo il caso in cui l’altro Stato Contraente
non si conformi alla sentenza resa rispetto a tale controversia. 2. Agli effetti del par. 1, la
protezione diplomatica non comprende quei passi diplomatici informali che abbiano il solo
scopo di facilitare la soluzione della controversia ».
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stitori, previsti dai BITs stipulati dai vari Stati a partire dal 1959, con il
conseguente crescente ricorso alle procedure dell’ICSID da parte di investitori privati, hanno fatto sı̀ che gli Stati sentissero sempre meno la necessità di invocare la protezione diplomatica per i propri cittadini.
Va tuttavia rilevato che gli accordi internazionali per la protezione degli investimenti continuano a prevedere procedure di composizione delle
controversie tra gli Stati firmatari, spesso in termini non diversi da quelli di
cui all’art. 27 del Trattato. Per esempio, il NAFTA (North American Free
Trade Agrement) prevede meccanismi per la composizione non solo delle
controversie Stato investitore, ma anche di quelle tra Stati firmatari. In particolare, il trattato NAFTA prevede che, se la fase di negoziazione iniziale
tra governi seguita da un incontro della Free Trade Commission a livello
ministeriale non ha successo, la controversia fra Stati potrà essere sottoposta a un tribunale arbitrale composto da 5 membri.
Esistono nell’ambito del NAFTA casi in cui gli Stati membri hanno
fatto ricorso a tali rimedi: nel 1996 gli Stati Uniti hanno promosso una procedura arbitrale nei confronti del Canada con riferimento alle tariffe applicate dal Canada a certi prodotti agricoli provenienti dagli USA e gli stessi
Stati Uniti sono stati condannati due volte per le misure di salvaguardia
adottate nei confronti delle importazioni dal Messico. In tali casi, le decisioni del panel arbitrale costituito ai sensi dell’accordo NAFTA costituiscono delle mere raccomandazioni, con la previsione di sanzioni economiche nel caso la situazione non si fosse risolta. In tale meccanismo manca,
pertanto, il carattere definitivo e vincolante che si riscontra nelle decisioni
che possono essere adottate ai sensi dell’art. 27 del Trattato.
Anche l’accordo multilaterale ASEAN (Agreement for the promotion
and protection of investments) per la promozione e la protezione degli investimenti prevede dei meccanismi di soluzione delle controversie tra Stati
aggiunti al trattato nel 1996.
La prassi, riscontrata nell’ambito di altri trattati per la tutela degli investimenti, del ricorso — sia pure non frequente — a meccanismi di composizione delle controversie tra Stati firmatari, consente qualche riflessione
in merito agli eventuali sviluppi applicativi dell’art. 27 del Trattato ed in
particolare alla possibilità che tale strumento di composizione delle controversie tra Parti Contrattuali possa avere una qualche incidenza e ruolo diretto nella risoluzione delle controversie tra investitori e Stati. Invero, dal
punto di vista dell’investitore, l’esistenza del meccanismo di cui all’art. 27
del Trattato potrebbe rappresentare uno strumento di pressione politica, soprattutto in un settore cosı̀ strategico per l’economia di un Paese come
quello dell’energia. La possibilità per lo Stato di appartenenza dell’investitore di ricorrere allo strumento arbitrale nei confronti dello Stato ospite potrebbe giocare un ruolo importante anche al fine di agevolare l’esecuzione
dei lodi arbitrali.
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4.
Breve rassegna della giurisprudenza.
Il Trattato è entrato in vigore nel 1998 e solo nell’ultimo quinquennio
si è registrato un aumento del numero di controversie tra Parti Contraenti e
investitori privati sottoposte ad arbitrato ai sensi dell’art. 26 del Trattato.
Tuttavia, dei ventisette procedimenti noti solo quattro si sono conclusi con
una sentenza di merito (34), mentre in relazione ad altri cinque casi il Tribunale arbitrale si è pronunciato sulla giurisdizione o su altre questioni
preliminari (35).
Non potendo in questa sede svolgere un’analisi approfondita di tutti i
casi, ci si limiterà a passare in rassegna quelli che sono stati decisi nel merito e alcune decisioni, sulla giurisdizione o su altre questioni preliminari
che presentano i profili interpretativi e applicativi più interessanti.
4.1. Nykomb Synergetics Technology Holding AB (Sweden) c. Lettonia (36). — È il primo caso conclusosi con un lodo arbitrale che ha statuito
nel merito.
Si tratta di una controversia insorta tra la società svedese Nykomb
Synergetics technology Holding AB (« Nykomb ») e la Repubblica di Lettonia in relazione al mancato pagamento da parte di una società di proprietà
del governo lettone, Latvenergo, del prezzo dell’energia prodotta dalla società SIA Windau (controllatata da Nykomb) con applicazione della doppia
tariffa, cosı̀ come previsto dal contratto, stipulato dalle società per la realizzazione di un impianto di cogenerazione in Bauska, conformemente alla
legge al tempo vigente in Lettonia.
Una questione interessante sollevata nel caso Nykomb riguarda la possibilità per l’investitore di invocare la violazione di una norma non contenuta nella Parte III del Trattato.
(34) Nykomb Synergetics Technology Holding AB (Sweden) c. Latvia; Plama Consortium Ltd. (Cyprus) c. Bulgaria; Petrobart Ltd. (Gibraltar) c. Kyrgyzstan; Amto (Latvia) v.
Ukraine; Europe Cement Investment and Trade S.A. (Poland) c. Republic of Turkey. Per ulteriori indicazioni sulle controversie ex art. 26 del Trattato si veda il sito web www.encharter.org.
(35) Yukos Universal Ltd. (UK - Isle of Man) c. Russian Federation; Hulley Enterprises Ltd. (Cyprus) c. Russian Federation; Veteran Petroleum Trust (Cyprus) c. Russian Federation; Ioannis Kardassopoulos (Greece) c. Georgia; Azpetrol International Holdings B.V.,
Azpetrol Group B.V. and Azpetrol Oil Services Group B.V. (the Netherlands) c. Azerbaijan.
Per ulteriori indicazioni sulle controversie ex art. 26 del Trattato si veda il sito web www.encharter.org.
(36) Procedimento instaurato l’11 dicembre 2001. Foro: Arbitration Institute della
Camera di Commercio di Stoccolma (causa n. 118/2001). (Pres.) Bjørn Haug (arbitri) Rolf
A. Schütze e Johan Gernandt. Lodo reso il 16 dicembre 2003. Per il testo del lodo si veda
il sito web www.encharter.org. Si vedano sul procedimento i rilievi svolti da T.W. WÄLDE, K.
HOBÉR, The First Energy Charter Treaty Arbitral Award, in Journal of International Arbitration (The Hague, 2005, Vol. 22, n. 2) 83-103.
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Nykomb ha, infatti, fatto valere la responsabilità della Lettonia per le
azioni dell’azienda statale Latvenergo ai sensi dell’art. 22 (1) del Trattato (37). La Repubblica della Lettonia ha eccepito che tale norma, non essendo contenuta nella Parte III del Trattato, esula dall’ambito di competenza del tribunale arbitrale.
Purtroppo il Tribunale ha preferito non pronunciarsi sulla specifica
questione dell’invocabilità da parte degli investitori privati di norme non
contenute nella Parte III del Trattato e si è pronunciato sulla domanda di
Nykomb applicando non l’art. 22 del Trattato ma i principi della consuetudine internazionale. In particolare, il collegio arbitrale ha concluso che la
responsabilità per la condotta della società Latvenergo dovesse essere attribuita alla Repubblica di Lettonia poiché l’azienda statale non aveva agito
quale soggetto commerciale e non vi erano state trattative per la stipula del
contratto con SIA Windau, che era stato concluso a seguito di interventi legislativi e di governo. Pertanto, la Repubblica di Lettonia doveva rispondere direttamente degli obblighi assunti da Latvenergo.
Nel merito, il tribunale arbitrale, pur non accogliendo la tesi di
Nykomb secondo cui il mancato pagamento delle tariffe previste dal contratto corrispondeva a una sorta di provvedimento espropriativo, ha ritenuto
che la Repubblica della Lettonia avesse riservato alla società straniera un
trattamento discriminatorio rispetto alle società nazionali, alle quali era
stato accordato il pagamento della doppia tariffa, in tal modo violando la
regola del « trattamento nazionale ».
Pur avendo riconosciuto la responsabilità della Repubblica di Lettonia,
in sede di liquidazione dei danni, il collegio arbitrale ha adottato una soluzione di compromesso e di bilanciamento degli interessi contrapposti, riconoscendo l’obbligo di Latvenergo al pagamento della doppia tariffa solo per il
futuro, quantificando i danni subiti da Nykomb per il pregresso nella misura
di un terzo dell’importo dovuto. L’approccio particolarmente prudente adottato dal Tribunale arbitrale in questo caso è probabilmente motivato dal fatto
che, trattandosi del primo lodo arbitrale pronunciato ai sensi del Trattato, non
vi erano precedenti ai quali riferirsi in tema di liquidazione del danno.
4.2. Petrobart Ltd. (Gibilterra) c. Kirghizistan (38). — Si tratta di
una controversia insorta tra la società di diritto inglese con sede in Gibil-
(37) L’art. 22, paragrafo 1 del Trattato prevede che « Ciascuna Parte contraente assicura che, qualsiasi impresa statale essa costituisca o tenga in essere svolga la propria attività, relativamente alla vendita o alla fornitura di beni e servizi nella sua area, in maniera
conforme agli obblighi della Parte contraente ai sensi della parte III del presente Trattato ».
(38) Procedimento instaurato il 1o settembre 2003. Foro: Arbitration Institute della
Camera di Commercio di Stoccolma (causa n. 126/2003). Arbitri: Hans Danelius (presidente), Jeroen Smets, Professor Ove Bring. Sentenza resa il 29 marzo 2005. Per il testo della
sentenza si veda il sito web www.encharter.org.
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terra, Petrobart Limited (« Petrobart ») e la Repubblica del Kirghizistan in
merito al mancato pagamento da parte della società Kyrgyzgazmunaizat
(« KGM »), di proprietà del Governo del Kirghizistan, di importi dovuti a
Petrobart in forza di un contratto di fornitura di gas.
Il caso Petrobart è interessante in relazione alla definizione che il Tribunale arbitrale dà di investimento.
Nel caso di specie la Repubblica del Kirghizistan ha eccepito che la
società Petrobart non poteva essere considerata investitore ai sensi del Trattato, senza tuttavia fornire compiute argomentazioni a riguardo. In altri termini, l’interrogativo che è stato posto riguarda la possibilità di definire un
contratto di fornitura di gas come investimento ai sensi del Trattato.
In proposito, il Tribunale accerta che il contratto sul quale la società
Petrobart fonda le proprie pretese non implica il trasferimento di fondi o di
capitali in un’impresa del Kirghizistan ma è piuttosto un contratto di vendita di beni a un prezzo concordato (39), precisando che la valutazione circa
la natura di investimento del contratto oggetto della controversia debba essere fatta alla luce del Trattato e non di altre convenzioni internazionali in
materia di investimenti.
Il Tribunale prende in esame le disposizioni di cui agli artt. 1 (6)
(f) (40) e 1 (5) (41) e osserva che il gas condensato venduto da Petrobart
rientra nella definizione di « materiali e prodotti energetici » e non è compreso tra le eccezioni di cui all’Allegato NI del Trattato e che il diritto derivato dal contratto di fornitura del gas di intraprendere un’attività economica riguardante la vendita di gas condensato deve essere considerato come
un investimento ai sensi del Trattato. Il Tribunale conclude quindi che la
società Petrobart può essere considerata quale investitore e che il rapporto
contrattuale dalla stessa invocato rientra nella definizione di investimento.
Sebbene la definizione di investimento contenuta nel Trattato sia già
piuttosto ampia, nel caso in esame il Tribunale sembra avere dato un’interpretazione particolarmente estensiva, che si discosta peraltro dai precedenti
(39) Cfr. Petrobart Ltd. (Gibilterra) c. Kirghizistan, 69 « The Arbitral Tribunal further notes that the Contract did not involve any transfer of money or property as capital in
a business in the Kyrgyz Republic but was a sales contract. It concerned the sale of goods
at an agreed price. The arbitral tribunal in the Uncitral Arbitration found that this did not
constitute a foreign investment under the Foreign Investment Law ».
(40) Ai sensi dell’art. 1, paragrafo 6, lett. f) del Trattato, si considera investimento
« qualsiasi diritto conferito per legge o contratto o derivante da qualsiasi licenza e autorizzazione concesse conformemente alla legge a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia ».
(41) Ai sensi dell’art. 1, paragrafo 5 del Trattato, per attività economica nel settore
dell’energia deve intendersi « un’attività economica riguardante le attività di esplorazione,
estrazione, raffınazione, produzione, immagazzinamento, trasporto terrestre, trasmissione,
distribuzione, commercio, marketing o vendita di materiali e prodotti energetici, tranne quelli
di cui all’allegato NI o riguardanti la distribuzione del calore ad una pluralità di immobili ».
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rinvenuti dallo stesso Tribunale, sino a comprendere anche dei meri contratti di vendita di prodotti energetici. Occorrerà verificare se tale interpretazione forse eccessivamente ampia della nozione di investimento ai sensi
del Trattato sarà confermata anche in altri casi.
4.3. Amto (Lettonia) c. Ucraina (42). — Si tratta di una controversia
insorta tra la società lettone Limited Liability Company AMTO
(« AMTO ») e la Repubblica dell’Ucraina, in relazione all’investimento effettuato da AMTO in una società ucraina EYUM-10 operante nel settore
dell’energia nucleare, attraverso l’acquisizione delle quote di detta società.
Prima dell’acquisizione da parte di AMTO, EYUM-10 aveva istaurato
rapporti commerciali con una società di proprietà statale Energoatom, in
relazione ai quali aveva maturato rilevanti crediti nei confronti della stessa.
AMTO, pur in presenza di una sentenza di condanna definitiva del Tribunale ucraino nei confronti di Energoatom, non aveva potuto esigere il pagamento dei propri crediti a causa del fallimento di detta società.
Il 31 ottobre 2005, AMTO formula domanda di arbitrato ai sensi dell’art. 26 del Trattato, lamentando la violazione da parte della Repubblica di
Ucraina delle disposizioni di cui agli artt. 10 (1), 12 e 22 (1) del Trattato.
Il Tribunale, dopo avere dichiarato la propria giurisdizione, rigetta nel
merito le domande formulate da AMTO.
In primo luogo, il Tribunale arbitrale è stato chiamato a pronunciarsi
incidenter tantum su una questione di potenziale conflitto di giurisdizione
tra la Corte Europea dei diritti dell’uomo, adita dalla società ETUM-10 in
relazione alla violazione da parte della Repubblica di Ucraina delle disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, e il Tribunale arbitrale adito ai sensi del Trattato dalla società AMTO. In proposito, la Repubblica di Ucraina aveva eccepito la litispendenza internazionale e chiesto la sospensione del procedimento arbitrale in attesa della decisione della Corte Europea. Il Tribunale
rigetta tale richiesta precisando che tra i due procedimenti non vi è né
identità di parti (AMTO è parte della procedura arbitrale ma non del giudizio innanzi alla Corte Europea e, viceversa, ETUM-10 è parte di quest’ultimo giudizio ma non della procedura arbitrale), né identità di causa petendi, poiché, mentre nel giudizio arbitrale si fa valere la violazione delle
norme del Trattato, nel giudizio innanzi alla Corte Europea si contestano
violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
(42) Procedimento instaurato nel novembre 2005. Foro: Arbitration Institute della
Camera di Commercio di Stoccolma. Arbitri: Bernardo Cremades (presidente), Per Runeland,
Christer Söderlund. Sentenza resa il 26 marzo 2008. Per il testo della sentenza si veda il sito
web www.encharter.org.
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Con riferimento al merito, il Tribunale rigetta le domande di AMTO,
precisando che la circostanza che la società di proprietà statale fosse inadempiente agli obblighi di pagamento accertati dai giudici ucraini sulla
base del diritto interno, non rappresenta un fondato argomento per affermare la violazione da parte della Repubblica di Ucraina degli artt. 10 e 22
del Trattato.
Il Tribunale rigetta anche la domanda, formulata in via riconvenzionale dalla Repubblica di Ucraina, di rimborso dei costi dell’arbitrato e di
risarcimento dei danni alla reputazione subiti in conseguenza dell’infondata
azione esperita da AMTO. In proposito, la Repubblica di Ucraina precisa
che la propria domanda si fonda sull’art. 21 del Regolamento dell’Istituto
di Arbitrato della Camera di Commercio di Stoccolma il quale prevede che
il convenuto possa formulare domande riconvenzionali (43).
La pronuncia del Tribunale appare piuttosto sintetica e poco argomentata su tali punti. Invero, il collegio arbitrale, dopo avere osservato che la
competenza del tribunale arbitrale a conoscere della domanda riconvenzionale formulata dal convenuto ai sensi di un trattato sugli investimenti, dipende dalle disposizioni in materia di risoluzione delle controversie in esso
previste, dalla natura della domanda e dal rapporto tra la domanda riconvenzionale e la domanda principale formulata in arbitrato, si limita a rigettare la domanda affermando che tale questione doveva essere decisa ai
sensi del Trattato e delle norme e dei principi applicabili del diritto internazionale e che la parte convenuta non aveva indicato su quale fondamento
ai sensi del Trattato o delle norme e dei principi del diritto internazionale
basava la propria. Il Tribunale, dunque, non compie alcuna valutazione in
ordine alla natura della domanda riconvenzionale e al rapporto tra la stessa
e la domanda principale. La scarna motivazione fornita dal Tribunale in
merito al rigetto della domanda riconvenzionale riflette probabilmente la
difficoltà che spesso si incontra anche in sede civile ad accertare e quantificare un’eventuale danno all’immagine o alla reputazione.
4.4. Plama Consortium Ltd. (Cipro) c. Bulgaria (44). — Si tratta di
una controversia insorta tra la società cipriota Plama Consortium Limited
(43) L’art. 21 del Regolamento dell’Istituto di Arbitrato della Camera di Commercio
di Stoccolma, prevede che: « [...] 2) The Respondent shall, within the period of time determined by the Arbitral Tribunal, submit a Statement of Defence, which, unless previously provided in the case, shall include: [...] iii) any counterclaim or set-off claim and the grounds
on which it is based [...] ». Si noti che il citato regolamento è stato modificato nel 2007 e da
ultimo nel gennaio 2010. Tutte le versioni del regolamento sono disponibili sul sito web
www.sccinstitute.com.
(44) Procedimento instaurato il 19 agosto 2003. Foro: ICSID (causa n. ARB/03/24).
Arbitri: Carl F. Salans (presidente); Albert Jan van den Berg; V.V. Veeder. Sentenza resa il 27
agosto 2008. Per il testo della sentenza si veda il sito web www.encharter.org.
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(« Plama ») e la Repubblica di Bulgaria in relazione ad alcuni debiti della
società Nova Plama AD, proprietaria di una raffineria in Bulgaria, controllata da Plama.
Il 24 dicembre 2002 Plama formula una domanda di arbitrato ai sensi
dell’art. 26 (4) (a) (i) del Trattato. In breve, Plama contesta che, nonostante
le promesse fatte dal Governo Bulgaro prima dell’acquisizione da parte di
Plama della società Nova Plama AD, gli organi legislativi, giurisdizionali e
amministrativi bulgari avevano fatto svanire le prospettive di successo di
Nova Plama AD.
Avendo preliminarmente accertato la propria giurisdizione, il Tribunale arbitrale rigetta integralmente le domande di Plama.
Nel caso Plama il tribunale arbitrale, statuendo sulla giurisdizione, si
è pronunciato sull’applicabilità dell’art. 17 (1) del Trattato senza tuttavia
entrare nel merito della definizione di società c.d. mailbox ossia di società
che non svolge attività commerciali rilevanti nello Stato ospite (45).
Per vero, il collegio arbitrale, pur condividendo le argomentazioni
svolte dalla Repubblica di Bulgaria in merito alla mancanza di adeguata
prova circa la cittadinanza o nazionalità della società Plama, si limita a osservare che l’art. 17 non può essere invocato per contestare la giurisdizione
del Tribunale arbitrale e in ogni caso afferma che la Parte Contraente può
far valere il diritto di cui all’art. 17 solo prima che insorga una controversa,
il che esclude la possibilità per la Repubblica di Bulgaria di sollevare tale
eccezione in sede di arbitrato. Tale pronuncia, pur statuendo in merito all’importante principio secondo cui l’art. 17(1) non può rappresentare uno
strumento di difesa per la Parte Contraente convenuta per contestare la
competenza del Tribunale arbitrale, non si sofferma sull’esame nel merito
delle condizioni di applicabilità della predetta norma e in particolare sui
presupposti al ricorrere dei quali si può ritenere che la società che invoca
le norme del Trattato rientri nella definizione di cui all’art. 17(1).
Altra questione interessante sulla quale si è pronunciato il Tribunale
arbitrale nella sentenza di merito riguarda le argomentazioni svolte da
Plama con riguardo alla circostanza che la modifica della legge per la protezione dell’ambiente approvata dal Parlamento bulgaro avesse determinato
le medesime conseguenze negative per Plama di un provvedimento espropriativo adottato in violazione dell’art. 13 del Trattato. Infatti, a seguito
dell’entrata in vigore della nuova legge, Plama era stata costretta a chiudere
la raffineria e non aveva potuto godere dei benefici economici del proprio
investimento. Sul punto, il Tribunale arbitrale ha precisato che il Trattato
non protegge gli investitori in tutte le ipotesi di cambiamenti del sistema
normativo dello Stato ospite. In conformità al principio del trattamento
equo e favorevole, l’investitore può ricevere tutela solo se è possibile di(45)
V. supra al paragrafo 2.6 quanto osservato in merito all’art. 17 (1) del Trattato.
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mostrare una legittima e giustificata aspettativa dello stesso a che tale sistema normativo rimanga immutato.
Un breve cenno meritano anche altre pronunce rese in materia di giurisdizione o in relazione ad altre questioni preliminari.
4.5. Hrvatska Elektropriveda d.d. (HEP) (Croatia) c. Repubblica di
Slovenia (46). — Si tratta di una controversia insorta tra HEP, consorzio di
proprietà dello Stato croato formato da 119 organizzazioni indipendenti
operanti nel settore energetico, e la Repubblica di Slovenia in merito all’interpretazione di un accordo stipulato tra Croazia e Slovenia per lo sfruttamento congiunto del sito produttivo KrÜko NPP realizzato con finanziamenti di entrambi gli Stati. Sebbene la causa sia ancora pendente e il Tribunale non si sia ancora pronunciato nel merito, sono già intervenute alcune pronunzie di un certo interesse che meritano qualche commento. Ci si
riferisce, in particolare, alla decisione resa dal collegio arbitrale in data 6
maggio 2008 (47) in tema di indipendenza e imparzialità del collegio arbitrale.
La fattispecie è alquanto atipica e riguarda i profili di non indipendenza e imparzialità del collegio arbitrale sollevati dall’attore, successivamente alla costituzione del collegio arbitrale, in seguito alla nomina da
parte della convenuta di un membro aggiuntivo del proprio collegio di difesa il quale risultava essere membro della stessa Barristers’ Chamber del
Presidente del collegio arbitrale. La particolarità della questione sottoposta
al vaglio del collegio si rinviene proprio nel tipo di provvedimento richiesto dagli attori: un ordine del collegio arbitrale con il quale si obblighi la
convenuta a non avvalersi della consulenza del consulente in questione.
Nell’accogliere la richiesta dell’attore di interdire al consulente della
convenuta di assisterla nel procedimento, il Tribunale arbitrale ha preso in
esame da un lato le norme della Convenzione di Washington e del Regolamento ICSID che non contemplano il potere del Collegio arbitrale di escludere i consulenti nominati dalle parti e dall’altro il principio fondamentale
di immutabilità del Tribunale arbitrale propriamente costituito, sancito dall’art. 56 (1) della Convenzione ICSID. Inoltre, il collegio ha richiamato il
potere di gestione della procedura riconosciuto agli arbitri dagli artt. 44
della Convenzione ICSID e 14 del Regolamento ICSID e alla luce del consolidato principio che riconosce il potere del giudice internazionale di de(46) Procedimento instaurato il 28 dicembre 2005. Foro: ICSID (causa n. ARB/05/
24). Arbitri: David A. R. Williams (presidente); Charles N. Brower; Jan Paulsson. Lodo parziale del 6 maggio 2008, inedito. Per il testo di altre decisioni pronunciate nell’ambito di
questa procedura si veda il sito web www.encharter.org. Laurent Gouiffès è stato membro del
collegio di difesa della Slovenia.
(47) Hrvatska Elektropriveda d.d. (HEP) (Croatia) c. Repubblica di Slovenia, lodo
parziale del 6 maggio 2008, inedito.
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cidere su tutte le questioni relative ad una causa che rientra nella propria
giurisdizione.
La pronuncia resa nel caso HEP c. Repubblica di Slovenia non è rimasta isolata. Recentemente, è intervenuta una decisione adottata da un altro collegio arbitrale nell’ambito di un’altra procedura arbitrale ICSID (48).
In questo caso, il Tribunale arbitrale ha escluso che la fattispecie sottoposta al suo esame (uno dei legali dell’attore aveva collaborato in passato
nello stesso studio legale insieme all’arbitro scelto dall’attore stesso) potesse costituire « a real possibility that the tribunal was biased » (49). In
questo caso, il Tribunale arbitrale richiama da un lato il principio di indipendenza e imparzialità del collegio arbitrale (unitamente a quello di immutabilità del collegio arbitrale regolarmente costituito) e dall’altro il diritto di ciascuna parte di essere rappresentata da consulenti liberamente
scelti (entrambi i suindicati principi sanciti dall’art. 6 della Convenzione
Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e conclude che rientra nei doveri del Tribunale arbitrale effettuare un
equo contemperamento degli interessi contrapposti.
La questione presenta interessanti profili non ancora del tutto risolti
che potranno riproporsi in future controversie.
Altra decisione interessante, sotto il profilo dell’applicazione delle
norme di diritto internazionale pubblico in materia di interpretazione dei
trattati internazionali, è quella adottata dal collegio arbitrale nell’ambito
della medesima procedura in data 12 giugno 2009 (50). Il Tribunale arbitrale
è stato chiamato a pronunciarsi su alcune divergenze insorte tra le parti
sull’interpretazione dell’accordo stipulato tra Croazia e Slovenia per la realizzazione del sito produttivo KrÜko NPP. Nel risolvere tali divergenze il
Tribunale arbitrale ha applicato gli artt. 31 e 32 della Convezione di Vienna
sul diritto dei Trattati tra Stati del 1969 (51).
4.6. Azpetrol International Holdings B.V., Azpetrol Group B.V. and
Azpetrol Oil Services Group B.V. (Paesi Bassi) c. Azerbaijan (52). — La
particolarità del caso Azpetrol sta nel fatto che il Tribunale arbitrale, costi(48) Cfr. The Rompetrol Group N.V. c. Romania; causa ICSID n. ARB/06/3, decisione del 14 gennaio 2010, repereibile sul sito www.ita.law.uvic.ca.
(49) Cfr. The Rompetrol Group N.V. c. Romania; causa ICSID n. ARB/06/3, decisione del 14 gennaio 2010, paragrafo 26, 12.
(50) Hrvatska Elektropriveda d.d. (HEP) (Croatia) c. Repubblica di Slovenia, lodo
parziale del 6 maggio 2008, reperibile sul sito www.encharter.org.
(51) Convenzione sul Diritto dei Trattati adottata a Vienna il 23 maggio 1969 ed eseguita in Italia con legge 12 febbraio 1974, n. 112.
(52) Procedimento instaurato il 30 agosto 2006. Foro: ICSID (causa n. ARB/06/15).
Arbitri: Florentino P. Feliciano (presidente); Prof. Christopher Greenwood QC CMG; Giudice Charles N. Brower. Sentenza resa il 27 agosto 2009. Per il testo della sentenza si veda
il sito web www.encharter.org. Laurent Gouiffès è stato membro del collegio di difesa dell’Azerbaijan.
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tuitosi in seno all’ICSID, è stato chiamato a pronunciarsi non sulla violazione di una norma del Trattato, bensı̀ sulla valida conclusione di un accordo transattivo intervenuto tra le parti ai sensi della legge inglese.
Le attrici, tutte società di diritto nederlandese, hanno formulato una
domanda di arbitrato contro l’Azerbaijan allegando che il trattamento riservato dallo Stato dell’Azerbaijan agli investimenti dalle stesse realizzati
consisteva in una forma di espropriazione in violazione dell’art. 13 del
Trattato e contestando altresı̀ la violazione degli artt. 10, 14 e 22 del Trattato.
Successivamente alla costituzione del Tribunale arbitrale, le parti, pur
avendo raggiunto un accordo di massima sul merito della controversia,
mantenevano posizioni divergenti in ordine alla portata di tale accordo
transattivo. Per tale ragione, le parti decidevano di deferire agli arbitri l’accertamento, ai sensi della legge inglese, dell’effettiva stipula dell’accordo
transattivo nonché la sua portata.
4.7. Yukos Universal Ltd. (Regno Unito — isola di Man) c. Federazione Russa Hulley Enterprises Ltd. (Cipro) c. Federazione Russa — Veteran Petroleum Trust (Cipro) c. Federazione Russa (53). — Si tratta di una
controversia insorta tra le società Yukos Universal Ltd., Hulley Enterprises
Ltd. e Veteran Petroleum Trust e la Federazione Russa.
Le suddette società hanno promosso tre separati procedimenti arbitrali
contestando che le misure adottate dalla Federazione Russa nei confronti di
Yukos e delle proprie consociate avrebbero determinato il fallimento di
Yukos nell’agosto del 2006 e pertanto pregiudicato gli investimenti dalla
stessa realizzati.
Il 30 novembre 2009, il collegio arbitrale ha pronunciato, nell’ambito
di tutte e tre le procedure arbitrali pendenti, un lodo parziale sulla giurisdizione che merita alcuni commenti soprattutto con riferimento alla questione
dell’applicazione provvisoria del Trattato ai sensi dell’art. 45 (54) da parte
(53) Procedimento instaurato il 3 febbraio 2005. Foro: Tribunale ad hoc secondo il
Regolamento Uncitral. Arbitri: L. Yves Fortier (presidente); Charles Poncet; Stephen Schwebel. Decisione resa il 30 novembre 2009. Per il testo della decisione si veda il sito web
www.encharter.org.
(54) L’art. 45 del Trattato prevede che « 1. Ciascun firmatario conviene di dare applicazione provvisoria al presente Trattato, nei limiti in cui detta applicazione provvisoria
non sia incompatibile con la sua costituzione, le proprie leggi o i propri regolamenti, prima
della sua entrata in vigore ai sensi dell’articolo 44. 2. a) Fatto salvo il disposto del paragrafo 1, ogni firmatario, al momento della firma, può consegnare al depositario una dichiarazione secondo cui non può accettare l’applicazione provvisoria. L’obbligo di cui al paragrafo 1 non si applica ad un firmatario che effettua detta dichiarazione. Detto firmatario può,
in qualsiasi momento, revocare mediante notifica per iscritto al depositario la propria dichiarazione. [...] Qualora un firmatario ponga fine alla sua applicazione provvisoria del pre-
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della Federazione Russa. In proposito, il Tribunale arbitrale ha accertato
che il principio di applicazione provvisoria del Trattato non è contrario alla
Costituzione, alle leggi e regolamenti della Federazione Russa. Parimenti
ha escluso che gli artt. 26, 1(6) e 1(7) del Trattato siano contrari alla Costituzione, alle leggi e regolamenti della Federazione Russa. Il Tribunale
arbitrale ha dunque concluso che il Trattato deve ritenersi applicabile in via
provvisoria alla Federazione Russa sino al 10 ottobre 2009 e che le Parti
III e V del Trattato stesso troveranno applicazione, ai sensi dell’art. 45(2)
sino al 19 ottobre 2029. Il decisum del collegio arbitrale al riguardo assume
particolare rilievo per la tutela degli investitori esteri che hanno effettuato
investimenti nella Federazione Russa sino al 19 ottobre 2009 e che, sebbene la stessa a decorrere da tale data non sia più parte del Trattato,
potranno comunque avvalersi degli strumenti di tutela previsti dal Trattato
stesso.
5.
Conclusioni.
Alla luce dell’analisi svolta, si può concludere che il Trattato rappresenta un valido strumento di tutela e promozione degli investimenti, non
soltanto sotto il profilo dei diritti sostanziali riconosciuti agli investitori
esteri, ma anche dal punto di vista della tutela offerta dai meccanismi di
soluzione delle controversie previsti dal Trattato stesso, il che sembrerebbe
confermato dall’incremento dei procedimenti arbitrali instaurati ai sensi
dell’art. 26 del Trattato.
sente Trattato, ai sensi della lettera a), l’obbligo del firmatario ai sensi del paragrafo 1 di
applicare le parti III e V a qualsiasi investimento effettuato nella sua area da investitori di
altri firmatari permane pur sempre valido rispetto a questi investimenti per i venti anni successivi alla data effettiva di cessazione, salvo se altrimenti stabilito alla lettera c) [...] ».
Sempre con riferimento al tema dell’applicazione provvisoria del Trattato si veda il lodo parziale reso sulla giurisdizione nel caso Ioannis Kardassopoulos (Grecia) c. Georgia, consultabile sul sito web www.encharter.org.
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DOCUMENTI E NOTIZIE
Notizie libri
MARIANELLA LEDESMA NARVÁEZ, Jurisdicciòn y arbitraje, Lima Fondo editorial
de la Pontificia Universidad Catòlica del Perù 2009, 1-234.
1. La natura dell’arbitrato, gli effetti del lodo ed i rapporti con la giurisdizione statale sono problemi comuni a tutti gli ordinamenti, come mostra il libro
della L.N., che è dedicato ai rapporti fra giurisdizione ed arbitrato nell’ordinamento
peruviano. Ed è significativo che — pur in presenza di sistemi normativi, come vedremo, anche profondamente diversi — il risultato finale poi non presenti divergenze di rilievo.
Il lavoro si occupa appunto delle interferenze fra giurisdizione ed arbitrato,
partendo dall’esame della vexata quaestio relativa alla natura dell’arbitrato. Al qual
proposito, l’A. nella introduzione ribadisce con forza la natura contrattual-privatistica dello stesso, pur in presenza di una norma della Costituzione peruviana (l’art.
139) che, affermando il principio dell’unità della giurisdizione, vieta l’istituzione di
giurisdizioni speciali con excepciòn de la militar y la arbitral. Con ciò quindi ponendo una presunzione, sia pur iuris tantum, di appartenenza dell’arbitrato al complessivo sistema giurisdizionale: appartenenza ribadita anche da una importante decisione del Tribunale constitucional del 28 febbraio 2006.
2. Nei capitoli successivi l’A. si occupa partitamente delle fattispecie, nelle
quali si ha un’interferenza della giurisdizione sull’arbitrato: il secondo capitolo è
dedicato alla nomina degli arbitri ed alle vicende patologiche relative alla costituzione ed alla dissoluzione del collegio arbitrale; il terzo capitolo è dedicato all’attività istruttoria svolta in sede arbitrale; il quarto capitolo è dedicato alla tutela cautelare, che la legge peruviana sull’arbitrato (D.Leg. n. 1071) affida (anche) agli arbitri.
Segue il capitolo quinto, dedicato alla impugnazione del lodo il quale, nella
legge peruviana, è soggetto all’appello (ma le parti possono preventivamente stabilire che tale mezzo di impugnazione non sia spendibile) ed al recurso de anulaciòn,
non rinunciabile ed utilizzabile solo per errores in procedendo.
Di particolare interesse è il sesto ed ultimo capitolo, nel quale si tratta della
« esecuzione » del lodo. La legge peruviana, infatti, prevede che gli arbitri possano
ejecutar sus laudos y decisiones, sempre che ciò sia previsto dalle parti o dal regolamento arbitrale applicabile (art. 57.1 del D.Leg. n. 1071). Come ha cura di precisare l’A., si tratta tuttavia di un’esecuzione non forzata, poiché quest’ultima presuppone la sussistenza di un potere autoritativo (anche se non necessariamente giurisdizionale, come invece afferma l’A.), di cui gli arbitri mancano.
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3. La vigorosa riaffermazione della natura contrattual-privatistica dell’arbitrato, coerentemente costituita dalla L.N. a filo rosso della sua indagine, è convincente anche a fronte di norme — come l’art. 139 Cost. — che sembrerebbero deporre in senso opposto.
Ciò che non convince è il salto logico (del resto comune anche a parte della
nostra dottrina) costituito dal sillogismo: l’attività giurisdizionale (dichiarativa)
produce la cosa giudicata; l’attività dell’arbitro non è giurisdizionale; ergo, il lodo
non produce la cosa giudicata. Il sillogismo è infatti errato, perché, per essere corretto, la premessa maggiore del sillogismo dovrebbe esprimersi nei seguenti termini: « solo l’attività giurisdizionale produce la cosa giudicata », e questo non è
vero, perché niente impedisce al legislatore di prevedere (come infatti prevede l’art.
59.2 del D.Leg. n. 1071, secondo il quale el laudo produce efectos de cosa juzgada)
che atti diversi producano lo stesso effetto.
Proprio questo errore conduce l’A. ad affermare che il lodo requiere de un
control previo y de una declaraciòn espresa de la jurisdicciòn en conflicto para
gozar del efecto de la cosa juzgada e quindi ad auspicare l’introduzione di un meccanismo di omologazione del lodo, attualmente assente nel diritto peruviano: il che
non è condivisibile, perché — ipotizzando che il lodo non sia idoneo a produrre la
cosa giudicata — non è certo un timbro apposto dal giudice a poterlo munire degli effetti propri della sentenza. La giurisdizione è cosa troppo seria per essere ridotta all’intervento magico di chi, fornito di poteri superiori, toccando il lodo con
la propria bacchetta lo trasforma in oro. [Francesco P. Luiso].
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