10 FEBBRAIO Il giorno del ricordo Francesco Maria Feltri CONSAPEVOLEZZA MEMORIA Cittadinanza CONSAPEVOLEZZA MEMORIA Cittadinanza Percorsi e temi di storia, per sentirsi cittadini in Europa, in Italia e in Emilia Romagna A cura di Francesco Maria Feltri Elenco dei volumi Modulo 1: 1° maggio, La festa del movimento operaio Modulo 2: 4 novembre, La memoria della prima guerra mondiale Modulo 3: 28 ottobre 1922, La marcia su Roma Modulo 4: 8 settembre, Fascismo, guerra e armistizio Modulo 5: 8 maggio, La fine della seconda guerra mondiale Modulo 6: 25 aprile, La festa della liberazione Modulo 7: 27 gennaio, La giornata della memoria Modulo 8: 2 giugno, La nascita della Repubblica Modulo 9: 10 febbraio, Giorno del ricordo Modulo 10: 8 marzo, La festa della donna Modulo 11: 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne INTRODUZIONE GENERALE Un nuovo inizio per la comunità: gli eventi frattura radicale All’inizio del XVI secolo, Niccolò Machiavelli era convinto che la storia fosse una specie di grande illusione, un errore di prospettiva. I continui rivolgimenti, che investono il mondo della politica, potrebbero indurci a pensare che il mutamento sia l’aspetto più vero ed ultimo della vicenda umana; per il pensatore politico fiorentino, al contrario, in ultima analisi non c’è alcun cambiamento davvero sostanziale. Siamo di fronte a increspature provvisorie, prive di conseguenze radicali, non ad autentiche e decisive fratture storiche. Per Machiavelli, la storia non è molto diversa dalla realtà naturale: certo, ogni estate, nel campo si raccolgono spighe differenti da quelle degli anni precedenti. Il procedimento, però, è sempre quello, ciclico e ripetitivo, e non c’è spazio per alcuna significativa novità. Per usare un’altra metafora, si potrebbe pensare ad un palcoscenico: cambiano gli attori e le prime donne; mutano i fondali e le ambientazioni. Eppure, la commedia rappresentata è sempre la stessa: e per di più, secondo Machiavelli, non è una commedia, bensì una tragedia, i cui ritmi e movimenti sono dettati dalla spietata natura degli esseri umani, decisamente più inclinata verso il male che verso il bene. Nel corso del XIX secolo, comunità nazionali, Stati e associazioni politiche di diversa natura incominciarono ad appropriarsi del tempo. Fino ad allora, il tempo era stato monopolio della Chiesa, che lo aveva strutturato secondo un preciso calendario liturgico. A scadenze periodiche, il fedele incontrava delle precise ricorrenze e festività (Natale, Pasqua, Pentecoste…), che gli permettevano di fare memoria dei principali eventi della vita di Cristo o della Chiesa delle origini, e quindi di riscoprire con rinnovata freschezza la propria identità di cristiano. A partire dall’Ottocento, mentre si affermava la Nazione, come II INTRODUZIONE GENERALE nuova fonte di valori e destinatario di fedeltà assoluta (fino al martirio), accanto al calendario liturgico cristiano – e in certi casi contro di esso, in precisa e polemica alternativa – si impose una serie di festività civili, che scandivano l’anno e spingevano l’individuo a riflettere sulla sua identità di cittadino e/o di membro di una comunità nazionale. Sia la Chiesa che le moderne comunità nazionali del XIX-XX secolo si ispiravano ad una concezione della Storia e del tempo diametralmente opposta a quella di Machiavelli. Pur focalizzando la loro attenzione su questioni molto diverse, autorità ecclesiastiche e intellettuali sensibili al tema della nazione erano convinti che nella storia si producessero alcuni eventi frattura radicale, capaci spezzare l’opaca omogeneità della vicenda storica. Le comunità umane che avevano fatto esperienza di uno o più di tali eventi, da essi uscivano radicalmente trasformate. Proprio per questo, avevano bisogno di una festa, che ne conservasse la memoria. Potevano essere esperienze traumatiche o felici, drammatiche o gioiose: comunque, non potevano e non dovevano essere più dimenticate, perché era grazie a quelle sconfitte o quelle vittorie, a quelle passioni o quelle resurrezioni, che la comunità si definiva nella propria identità più autentica e duratura. Ma la festa, civile o religiosa che sia, nel momento in cui spinge a fare memoria, mette in moto un meccanismo che è diverso e molto più forte del puro non dimenticare. Nel suo sforzo di essere efficace di fronte alla vicenda storica decisiva, la memoria diventa attualizzante. In effetti, se l’evento ricordato è capace di spezzare la storia, esso continua ad agire per sempre: la sua onda lunga raggiunge anche noi, che viviamo anni o secoli dopo l’evento. Insomma, tra comunità (religiosa o civile) e Storia si crea un circolo: per definire se stessa, la comunità deve andare al passato e riscoprire l’importanza di quell’evento; l’obiettivo, però, non è puramente archeologico: al contrario, III INTRODUZIONE GENERALE grazie alla riflessione sul passato, si tratta di agire sul proprio presente, illuminandolo di nuova luce, o meglio di speranze e valori capaci di superare il tempo, di parlare ad ogni generazione e di ispirarne anche oggi l’azione, religiosa, morale o politica. Memoria e cittadinanza attiva Diritti e democrazia non sono affatto qualcosa di ovvio, di normale, di scontato. Per certi versi, anzi, nel terribile panorama della storia sono l’eccezione: realtà fragili che sono state conquistate dopo innumerevoli sforzi e che, soprattutto nel Novecento, sono state infrante da progetti totalitari di vario tipo e di vario genere. Malgrado tutte le difficoltà, le sconfitte e i ritorni all’indietro, non è vero che nella storia non è mai cambiato nulla. Anche se i grandi progetti utopici, di qualunque matrice ideologica, sono tutti falliti, dopo avere provocato milioni di morti e disastri materiali incalcolabili, non è stato tutto inutile. La storia non è solo un computo di vittime, di un tipo o dell’altro. Senza indulgere ad alcun facile ottimismo, o cedere all’ingenua concezione secondo cui saremmo giunti alla fine della Storia e al migliore dei mondi possibili, è comunque vero che i cittadini e le cittadine di oggi possono condurre un’esistenza più libera e ricca di opportunità, rispetto a coloro che sono vissuti in altre epoche storiche. Nulla va dato per scontato o per definitivamente acquisito. Diritti e democrazia – lo ripetiamo – sono conquiste fragili e deteriorabili. Proprio per questo, a nostro parere, necessitano di una sempre maggiore consapevolezza, che a sua volta può emergere solo dalla memoria, cioè dalla riflessione storica. Anche ai giorni nostri, tale memoria tende ad organizzarsi intorno a degli eventi di forte impatto emotivo e simbolico; le celebrazioni ufficiali, però, talvolta li ricoprono di retorica e li rendono distanti dai cittadini. Paradossalmente, insomma, le ri- IV INTRODUZIONE GENERALE correnze possono ottenere l’effetto opposto, rispetto al fine originario per cui sono nate. La riflessione storica vorrebbe essere più sobria, più obiettiva, più scarna; proprio per questo, forse, riuscirà a far emergere di nuovo il significato di svolta epocale di questo o quell’evento. Se non si trasforma in spregiudicato strumento ideologico (è questo, infatti, il principale limite del cosiddetto uso pubblico della Storia), la conoscenza storica può rendere il cittadino pienamente consapevole dei propri diritti e dei propri doveri, nella misura in cui la riflessione sul passato aiuta a comprendere quanto i diritti stessi e la democrazia (in tutti i suoi aspetti, regole comprese) sono il frutto di complesse (e quindi, spesso, persino contraddittorie) vicende storiche, di lotte e di tragedie, vissute (e subite) da chi ci ha preceduto. Sotto questo profilo, il dovere morale e civile di fare memoria, per mantenere viva l’importanza di tutte le libertà e le opportunità che ci è concesso di vivere come cittadini, oggi è ancora più necessaria che nei secoli passati. Moduli per riflettere su storia e cittadinanza Il lavoro che proponiamo consisterà in alcuni moduli, ognuno dei quali avrà la stessa struttura di base, anche se potrà variare la quantità di materiale da cui verrà costituito. Ogni modulo (materialmente, un libretto di un centinaio di pagine) tratterà un tema, o un problema, importante per la costruzione dell’identità collettiva e di una comune cittadinanza. Il principio di base che informa l’intero lavoro è lo sforzo di intrecciare costantemente tre piani d’analisi: la dimensione internazionale (l’Europa e, talvolta, il mondo intero), la dimensione nazionale (l’Italia), la dimensione locale (l’Emilia Romagna). Per ogni tema, ai tre livelli citati, si cercherà di individuare almeno una vicenda significativa, che si è impressa nella memoria V INTRODUZIONE GENERALE collettiva e che per un gruppo di cittadini è stata epocale, cioè decisivo, nel caratterizzare la loro esistenza. Scendendo in dettaglio, ogni modulo avrà la seguente struttura ideale: Dimensione internazionale Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Scheda Dimensione nazionale di apertura: Introduzione ad un tema Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Dimensione regionale Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Anche se, in linea di principio, ogni modulo è autonomo, autosufficiente, concluso in se stesso, ciascun elemento ovviamente dialoga con gli altri dai quali riceve ulteriore chiarezza e forza di significato. Buona lettura, a tutti i cittadini e le cittadine che vorranno seguirci nel nostro percorso. F. M. F. VI Indice Introduzione3 Dimensione internazionale: La politica della pulizia etnica nel ‘900 La seconda guerra mondiale in Jugoslavia 17 I progetti razziali nazisti 28 Turchi, Russi, Polacchi e Tedeschi 40 Dimensione nazionale: Il confine orientale italiano Italia e Jugoslavia nel primo dopo guerra 63 Repressione italiana e occupazione tedesca 72 Trieste, Tito e le foibe 88 Dimensione regionale: L’esodo dei profughi verso l’Italia Sospetti e diffidenze nei confronti dei profughi 109 Il villaggio San Marco a Fossoli 118 alla De Gasperi parla ce Pa Conferenza della 10 FEBBRAIO Il giorno del ricordo Introduzione N el 1945, l’Italia uscì sconfitta dalla seconda guerra mondiale. L’impegno delle forze partigiane e quello delle truppe regolari del Regno d’Italia, che il 13 ottobre 1943 aprì formalmente le ostilità contro la Germania, non cancellarono, agli occhi degli Alleati, le responsabilità del governo fascista, che era sceso in campo contro Francia e Inghilterra il 10 giugno 1940. La conferenza di pace che avrebbe dovuto definire i nuovi confini dell’Italia e precisare varie altre questioni (comprese quelle relative alle colonie e alle eventuali riparazioni di guerra) sì aprì nel maggio 1946, al palazzo del Lussemburgo, ma entrò nella sua fase più importante e decisiva il 29 luglio. De Gasperi, nella sua qualità di Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, prese la parola il 10 agosto 1946, di fronte ad una platea di delegati freddi e sostanzialmente ostili, con l’unica eccezione del Segretario di Stato americano James Francis Byrnes, il solo dei presenti a stringergli la mano dopo l’intervento: <<Volevo fare coraggio – scrisse Byrnes nelle sue memorie – a quest’uomo che aveva sofferto nelle mani di Mussolini, ed ora stava soffrendo nelle mani delle Nazioni alleate>>. La valutazione storica delle decisioni prese a Parigi dalle grandi potenze deve tener conto in primo luogo dell’eccezionale peso che l’URSS poteva ancora esercitare e del fatto che Jugoslavia e Unione Sovietica erano ancora in ottimi rapporti, per cui le pretese e le richieste dell’una erano pienamente sostenute dall’altra, perfettamente soddisfatta del fatto di poter spingere ulteriormente verso occidente la propria sfera di influenza in Europa. La completa sintonia di vedute e di prospettive tra Mosca e Belgrado ebbe notevoli e importanti risvolti politici all’interno dell’Italia. Il PCI, infatti, in quella prima delicata fase del dopoguerra, 3 10 FEBBRAIO sulla sua stampa e nei suoi interventi parlamentari, anche se le sinistre rivestivano ancora importanti incarichi nel governo italiano, non sostenne le proposte di De Gasperi, finalizzate a contenere il più possibile le cessioni territoriali sul confine orientale, bensì il punto di vista russo-jugoslavo. In particolare, la stampa moderata e conservatrice commentò in modo molto ostile l’incontro diretto di Togliatti con Tito, verificatosi nel novembre 1946. Durante questo vertice, il leader comunista italiano convinse quello jugoslavo a rinunciare a Trieste, offrendo in cambio Gorizia; sui giornali anticomunisti, la mediazione diretta di Togliatti fu duramente criticata, mentre la sua offerta fu bollata con l’infamante epiteto di <<nefasta proposta di baratto>>. Solo sulla questione del confine al Brennero Mosca assunse una posizione più favorevole all’Italia; infatti, mentre Inghilterra, Francia e Stati Uniti erano disponibili a sottrarre all’Italia l’Alto Adige, per concederlo all’Austria, il ministro russo Molotov si oppose categoricamente a questa ipotesi: non voleva certo, con un simile gesto, tendere una mano all’Italia (che agli occhi dei sovietici si era macchiata dell’imperdonabile colpa di aver collaborato con Hitler all’invasione dell’URSS), ma piuttosto punire l’Austria e impedire un suo rafforzamento. L’unico risultato che il ministro inglese Bevin riuscì a ottenere fu una clausola che imponeva all’Italia di trovare un accordo con l’Austria per la tutela delle minoranze di lingua tedesca presenti all’interno del territorio nazionale italiano. Anche la Francia dimostrò precisi intenti punitivi nei confronti dell’Italia, esigendo i territori attorno ai due villaggi di Tenda e di Briga e la zona intorno al Moncenisio. Inutilmente, il governo italiano fece notare che le centrali idroelettriche presenti in quelle zone fornivano energia a gran parte delle industrie liguri e piemontesi, oltre a garantire il 60 per cento del fabbisogno complessivo di Torino. Quanto alla sovranità, la Francia fu irremovibile; i territori in questione, dunque, divennero 4 IL GIORNO DEL RICORDO francesi, anche se all’Italia fu concesso un ampio diritto d’uso delle risorse energetiche. Quanto alle colonie, l’Italia rinunciò spontaneamente alle isole del Dodecanneso (conquistate nel 1912, durante la guerra italo-turca, ed ora cedute alla Grecia) e all’Etiopia, invasa da Mussolini nel 1935. De Gasperi sperava di poter conservare almeno l’Eritrea, la Somalia e la Libia (cioè le colonie del periodo pre-fascista), ma il trattato di pace obbligò invece l’Italia a concedere loro, sia pure in tempi più lunghi, e con la mediazione dell’ONU, la completa indipendenza. Il problema più spinoso era quello del confine orientale. Il trattato di pace, firmato il 10 febbraio 1947, sancì la sovranità italiana su Gorizia e sull’area di Monfalcone, ma la cessione alla Jugoslavia delle province di Pola, Fiume e Zara, insieme alle isole di Cherso e Lessino. L’area tra Duino e il fiume Quieto fu denominata Territorio libero di Trieste e divisa in due parti, denominate Zona A e Zona B: l’amministrazione della prima fu assegnata, in via provvisoria, agli Alleati, mentre la gestione della seconda fu data all’armata jugoslava. Più tardi, il 5 ottobre 1954, un Memorandum d’intesa siglato a Londra assegnò la Zona A (comprendente anche la città di Trieste) all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Solo nel 1975 (trattato di Osimo, firmato il 10 novembre) l’Italia avrebbe comunque riconosciuto in via definitiva il nuovo confine di Stato. L’esodo degli italiani (e di altri soggetti, non italiani, ma decisi a non vivere sotto un governo comunista come quello jugoslavo di Tito) in realtà avvenne a tappe. Un primo importante flusso di profughi (almeno 250.000) si registrò nel 1947, dai territori assegnati alla Jugoslavia con il trattato di pace del 10 febbraio 1947; un secondo gruppo se ne andò dalla Zona B nel 1954. D’altra parte, non bisogna dimenticare che numerosi italiani erano già fuggiti da Zara nel corso del 1944 (soprattutto a causa dei pesanti bombardamenti alleati) e da Fiume, nella primavera del 1945, all’arrivo del vittorioso esercito comunista jugoslavo. 5 , Parigi 10 Agosto 1946 aury Palazzo Luscembr IL GIORNO DEL RICORDO Legge 30 marzo 2004, n. 92 Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati Art. 1. 1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. 2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero. 3. Il «Giorno del ricordo» di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi dell’articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Esso non determina riduzioni dell’orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni 7 10 FEBBRAIO ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54. 4. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Art. 2. 1. Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l’Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004 all’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004 alla Società di studi fiumani. 2. All’onere derivante dall’attuazione del presente articolo, pari a 200.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero. 3. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Art. 3. 1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle provin- 8 IL GIORNO DEL RICORDO ce dell’attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati, nonché ai soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei limiti dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 7, comma 1. 2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l’anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono morti in combattimento. 3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia. Art. 4. 1. Le domande, su carta libera, dirette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, devono essere corredate da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la descrizione del fatto, della località, della data in cui si sa o si ritiene sia avvenuta la soppressione o la scomparsa del congiunto, allegando ogni documento possibile, eventuali testimonianze, nonché riferimenti a studi, pubblicazioni e memorie sui fatti. 2. Le domande devono essere presentate entro il termine di dieci anni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Dopo il completamento dei lavori della commissione di cui all’articolo 9 10 FEBBRAIO 5, tutta la documentazione raccolta viene devoluta all’Archivio centrale dello Stato. Art. 5. 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è costituita una commissione di dieci membri, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o da persona da lui delegata, e composta dai capi servizio degli uffici storici degli stati maggiori dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e dell’Arma dei Carabinieri, da due rappresentanti del comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da un esperto designato dall’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste, da un esperto designato dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché da un funzionario del Ministero dell’interno. La partecipazione ai lavori della commissione avviene a titolo gratuito. La commissione esclude dal riconoscimento i congiunti delle vittime perite ai sensi dell’articolo 3 per le quali sia accertato, con sentenza, il compimento di delitti efferati contro la persona. 2. La commissione, nell’esame delle domande, può avvalersi delle testimonianze, scritte e orali, dei superstiti e dell’opera e del parere consultivo di esperti e studiosi, anche segnalati dalle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati, o scelti anche tra autori di pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Art. 6. 1. L’insegna metallica e il diploma a firma del Presidente della Repubblica sono consegnati annualmente con cerimonia collettiva. 10 IL GIORNO DEL RICORDO 2. La commissione di cui all’articolo 5 è insediata entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e procede immediatamente alla determinazione delle caratteristiche dell’insegna metallica in acciaio brunito e smalto, con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», nonché del diploma. 3. Al personale di segreteria della commissione provvede la Presidenza del Consiglio dei ministri. Art. 7. 1. Per l’attuazione dell’articolo 3, comma 1, è autorizzata la spesa di 172.508 euro per l’anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero. 2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 3. Dall’attuazione degli articoli 4, 5 e 6 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. (Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004) 11 10 FEBBRAIO IL DISCORSO DI DE GASPERI A PARIGI I l 10 agosto 1946, Alcide De Gasperi tenne un importante discorso al palazzo del Lussemburgo, a Parigi, sede della Conferenza di pace che avrebbe deciso i nuovi confini dell’Italia dopo la guerra. Tutta la stampa – italiana ed estera – mise in luce la straordinaria dignità del Presidente del Consiglio italiano. Un giornale francese scrisse all’epoca che <<l’Italia non poteva avere un avvocato migliore>> e che essa <<è uscita più grande per questo discorso e per l’ingegno dell’oratore>>. I termini del trattato di pace, firmato il 10 febbraio 1947, furono comunque molto duri e pesanti, soprattutto sul confine orientale. Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato, è l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e interessi unilaterali? Signori è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire. 12 IL GIORNO DEL RICORDO Ebbene, permettete che vi dica colla franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo Trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro […]. Il carattere punitivo del Trattato risulta anche dalle clausole territoriali. E qui non posso negare che la soluzione del problema di Trieste implicava difficoltà oggettive che non era facile superare. Tuttavia anche questo problema è stato inficiato dall’inizio da una persistente psicologia di guerra, da un richiamo tenace ad un presunto diritto del primo occupante e dalla mancata tregua fra le due parti più direttamente interessate. Mi avete chiamato a Londra il 18 settembre 1945. Abbandonando la frontiera naturale delle Alpi e per soddisfare alle aspirazioni etniche jugoslave, proposi allora la linea che Wilson aveva fatto propria, il 23 aprile 1919 nella Conferenza della Pace a Parigi […]. La soluzione internazionale, dicevo, come è progettata, non accettabile. E specialmente l’esclusione dell’Istria occidentale fino a Pola causerà una ferita insopportabile alla coscienza nazionale italiana. La mia preghiera non ebbe risposta e venne messa agli atti. Oggi non posso che rinnovarla aggiungendo degli argomenti che non interessano solo la nostra nazione ma voi tutti che siete ansioni della pace del mondo. […] Voi avete dovuto aggiudicare l’81 per cento di territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi (e anche se ne lagnano come di un tradimento degli alleati e cercano di accaparrare il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del nuovo stato). Voi avete dovuto far torto all’Italia, rinnegando la linea etnica, avete abbandonato alla Jugoslavia la zona di Parenzo-Pola, senza ricordare la Carta Atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazioni sui cambiamenti territoriali, anzi ne aggravate le condizioni stabilendo che gli italiani della Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava, che opteranno per conservare la loro 13 10 FEBBRAIO cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e dovranno trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, la loro casa, i loro averi. Che più? I loro beni potranno venire confiscati e liquidati come appartenenti a cittadini italiani all’estero, mentre gli italiani che accetteranno la cittadinanza slava saranno esenti da tale confisca. L’effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione dal territorio libero, 180 mila italiani rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia (secondo il censimento del 1921) e che il totale degli italiani esclusi dall’Italia, calcolando quelli di Trieste, è di 446 mila; né per queste minoranze avete minimamente provveduto; mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una generosa revisione delle opzioni, ed è già stato raggiunto un accordo su una ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente. A qual prò dunque ostinarsi in una soluzione che rischia di creare molti guai, a qual prò voi chiuderete i vostri orecchi alle grida di dolore degli italiani dell’Istria? Ho presente un elenco degli italiani di Pola che sono pronti a partire, ad abbandonare terra e focolare, pur di non sottoporsi al nuovo regime. […] C’è sempre tempo per commettere un errore irreparabile. Il Trattato sta in piedi, anche se rimangono aperte alcune clausole territoriali. (A. De Gasperi, Difendo l’Italia, Roma, Magi-Spinetti, 1946, pp. 11-12. 18-19. 22. 25-27) 14 r, Heinrich Himmle o delle SS em comandate supr Dimensione internazionale La politica della pulizia etnica nel ‘900 La 2a guerra mondiale in Jugoslavia N ell’Europa centrale e in quella sud-orientale (o balcanica), la disgregazione dell’impero austro-ungarico nel 1918 provocò un mutamento politico di importanza straordinaria. Là dove, per secoli, si era esteso un vasto organismo territoriale, capace di bilanciare la potenza del Reich tedesco e della Russia zarista (imperi che, a loro volta, furono travolti dal conflitto mondiale), i trattati di pace redatti a Parigi nel 1919 crearono una molteplicità di Stati di piccola o media grandezza. Il criterio fondamentale, ispiratore dei nuovi trattati, fu quello di nazionalità: a fronte di un impero come quello asburgico, in cui l’elemento tedesco (austriaco) e quello ungherese dominavano su innumerevoli popoli (cosicché in queste regioni, nel 1914, 60 milioni di persone vivevano sotto una qualche dominazione straniera), si cercò di costruire degli Stati nazionali, il più possibile omogenei sotto il profilo etnico e linguistico-culturale. Indubbiamente, si fecero dei notevoli progressi rispetto al passato; tuttavia, a causa della complessità della distribuzione delle popolazioni, all’interno di ogni nuovo Stato si vennero a trovare consistenti minoranze. La situazione, naturalmente, era differente in ogni singolo paese: resta che, anche con i nuovi confini disegnati nel 1919, circa 30 milioni di individui continuarono a vivere sotto dominazione straniera. La Jugoslavia fu uno dei numerosi nuovi stati nazionali che emersero dopo il grande terremoto del 1918. Essa nacque dall’unione, intorno al regno di Serbia, del Montenegro (un piccolo regno, indipendente prima del 1914), della Croazia (sotto dominio ungherese, prima della guerra), della Slovenia e 17 10 FEBBRAIO della Bosnia-Erzegovina (amministrate da Vienna, fino al 191418). Queste regioni erano tutt’altro che omogenee fra loro per sviluppo economico e ospitavano popolazioni molto diverse; croati e sloveni, ad esempio, erano cattolici ed utilizzavano l’alfabeto latino, mentre i serbi erano per lo più ortodossi e facevano uso dei caratteri cirillici (russi). In Bosnia e in Erzegovina, inoltre, esisteva una consistente minoranza di musulmani, cioè di abitanti che - pur parlando la stessa lingua dei serbi e dei croati - al tempo della dominazione degli ottomani avevano adottato la religione islamica. L’idea di uno Stato che raggruppasse in un’unica entità territoriale tutti gli jugoslavi (= slavi del Sud) era stata lanciata dagli intellettuali croati, all’inizio del Novecento, visto che gli ungheresi tendevano a cancellare l’identità linguistica e culturale delle popolazioni slave residenti nella porzione di impero asburgico amministrata da Budapest. Alla fine della guerra, tuttavia, quando lo Stato jugoslavo nacque realmente, i rapporti fra serbi e croati si deteriorarono molto in fretta. I serbi si consideravano vincitori della guerra (che croati e sloveni avevano combattuto sotto le bandiere dell’esercito austro-ungarico), e quindi autorizzati ad occupare tutte le principali posizioni di potere all’interno del governo, dell’esercito e della burocrazia statale. Per protesta, i croati rifiutarono di partecipare alla vita politica del paese, mentre l’atmosfera si surriscaldò progressivamente, al punto che l’assassinio politico, clamoroso e plateale, divenne una prassi corrente: il 20 giugno 1928, in pieno parlamento, un deputato montenegrino uccise il leader dell’opposizione croata Stjepan Radic; analogamente, il sovrano serbo Alessandro I fu assassinato il 9 novembre 1934 da un gruppo di terroristi croati, capeggiato da Ante Pavelic, che voleva la separazione da Belgrado. Il 28 ottobre 1940, l’Italia fascista dichiarò guerra alla Grecia. L’obiettivo di Mussolini era di tipo politico, cioè voleva mostrare 18 IL GIORNO DEL RICORDO che l’Italia non era una semplice pedina tedesca, bensì poteva condurre - in piena autonomia e proprie risorse - una guerra parallela, con obiettivi rispondenti solo agli interessi italiani. L’attacco fu condotto a partire dall’Albania, un piccolo regno che l’Italia aveva occupato nell’aprile del 1939, dopo che la Germania si era impadronita, in marzo, della Cecoslovacchia. Mussolini immaginava una campagna rapida, capace di portare gloria e prestigio al regime. All’opposto, incontrò una tenacissima resistenza greca, mentre sulle montagne i soldati italiani dovettero affrontare il freddo invernale con un equipaggiamento scadente e inadeguato. Insomma, l’insuccesso fu totale, e il risultato fu del tutto opposto a quello sperato. L’esercito italiano fu salvato dalla completa disfatta solo in virtù del tempestivo intervento tedesco nei Balcani, nell’aprile 1941. Per accedere alla Grecia, i tedeschi dovettero attraversare i territori della Bulgaria e della Jugoslavia. La prima accettò di collaborare, facilitò il transito dei tedeschi sulle proprie strade e fu ricompensata con l’annessione della Tracia e della Macedonia: due regioni che i greci avevano conquistato nel 1913, e che i bulgari rivendicavano come parte integrante del proprio territorio nazionale. La Jugoslavia, invece, tentò di opporsi alle richieste tedesche e fu punita con la completa disintegrazione politica. Quando il paese venne smembrato per volontà di Hitler, la parte settentrionale della Slovenia fu annessa al Reich, mentre Lubiana (in Slovenia) e la zona centrale della Dalmazia diventarono italiane; inoltre, nacque uno stato indipendente di Croazia, guidato dal movimento ultranazionalista degli ustascia (ribelli) di Pavelic. Il nuovo stato comprendeva, oltre la Croazia propriamente detta, anche la Bosnia-Erzegovina ed altre terre abitate da serbi. I musulmani furono considerati cittadini a pieno titolo del nuovo Stato; serbi, ebrei e zingari, invece, furono oggetto di una feroce politica di repressione, di deportazione e di massacro. Le cifre di queste violenze compiute dagli ustascia sono 19 10 FEBBRAIO enormi: la Croazia vide l’uccisione di 28 mila zingari e di un numero di serbi che, a seconda delle stime degli storici, oscilla fra le 300 mila e le 600 mila vittime. Alle forze degli invasori e degli ustascia si opposero due movimenti di resistenza, che non operarono mai insieme, ed anzi spesso si combatterono a vicenda. Il primo comprendeva i cosiddetti cetnici, partigiani nazionalisti serbi fedeli alla monarchia; il secondo invece, guidato dal croato Josip Broz (detto Tito), era di orientamento comunista e raccoglieva uomini di ogni gruppo etnico jugoslavo. 20 IL GIORNO DEL RICORDO VIOLENZA ED ESTREMISMO IN JUGOSLAVIA, NEGLI ANNI TRENTA E QUARANTA I l 20 giugno 1928, nell’aula del parlamento di Belgrado, fu ucciso il leader dell’opposizione croata Stjepan Radic. Si trattò dell’inizio di una rottura radicale fra serbi e croati, una frattura etnica e politica che avrebbe dato vita ad una tremenda spirale di violenza, culminata negli anni dell’occupazione tedesca e italiana. I funerali di Radic si trasformarono nella grandiosa manifestazione di un popolo intero [= i croati – n.d.r.] contro la dominazione straniera [serba – n.d.r.], e in una chiara dimostrazione della grave frattura ormai esistente tra Zagabria e Belgrado. Meno appariscente, ma forse ancor più significativa, fu la concorde decisione degli scrittori croati di ritornare alla versione tradizionale della lingua letteraria, marcando così la propria differenza con i serbi. Alessandro Karadjordjeic [sovrano del regno di Serbia e dell’intero Stato jugoslavo – n.d.r.] non seppe captare questi segnali di un progressivo distacco del popolo croato dalla realtà politica e statale da lui capeggiata; al contrario, pensò di risolvere ogni problema con la dittatura personale e la proclamazione ex cathedra di un patriottismo jugoslavo nuovo di zecca che non convinse nessuno, essendo il potere in mano ai personaggi più biechi dell’establishment serbo. In tale situazione riemerse il nazionalismo croato nella sua espressione più aggressiva e irrazionale: se ne fece portavoce […] Ante Pavelic, il quale nel ’29 fuggì all’estero per organizzare, sul modello dell’organizzazione terroristica macedone, un proprio nucleo di ribelli: gli ustascia. Il movimento ottenne 21 10 FEBBRAIO l’appoggio dell’emigrazione croata, di quella macedone, ma soprattutto dell’Italia mussoliniana e dell’Ungheria di Horthy [l’ammiraglio Miklos Horthy, a guida di un governo autoritario in Ungheria dal 1920 al 1944 – n.d.r.], decise a minare dall’interno la monarchia dei Karadjordjeic per accelerarne il crollo. E appunto in Italia e in Ungheria Pavelic poté organizzare campi di addestramento per i suoi fanatici seguaci col proposito di inviarli in Jugoslavia – come ormai lo stato si chiamava – per compiervi atti terroristici e attentare alla vita del re. Un primo tentativo, organizzato nel dicembre ’33 durante una visita di Alessandro a Zagabria, fallì miseramente; il secondo, attuato l’anno successivo all’inizio di un viaggio ufficiale del re in Francia, sarebbe stato invece coronato da successo. […] L’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse fu salutata da molti croati come una liberazione: quando le truppe della Wehrmacht entrarono a Zagabria il 10 aprile 1941, furono accolte in modo fin troppo trionfale: si videro ragazze lanciarsi a baciare le ruote dei camion tedeschi! Lo stesso giorno un seguace di Pavelic, il quale si trovava ancora in Italia, proclamò la nascita dello Stato indipendente croato, che avrebbe dovuto finalmente includere nelle sue frontiere, almeno ad est, tutto il territorio considerato proprio dai croati. Essi ottennero infatti l’intera Bosnia-Erzegovina, ma in cambio dovettero cedere all’Italia gran parte della Dalmazia, subendo inoltre l’onta di un re straniero imposto da Mussolini e scelto nella persona di un infelice e riluttante principe di casa Savoia: Aimone d’Aosta. Se con questa politica i fascisti s’illudevano di trasformare la Croazia in uno stato vassallo si sbagliavano però grossolanamente: la perdita della Dalmazia alienando agli ustascia molte 22 IL GIORNO DEL RICORDO simpatie dell’opinione pubblica croata, li spinse tra le braccia dei tedeschi, che a Pavelic e ai suoi sembrarono alleati più affidabili e maestri a cui guardare nella creazione dell’Ordine nuovo, non solo per la loro maggior efficienza militare, ma anche per la loro capacità di risolvere, una volta per tutte, la questione ebraica. La soluzione finale che avevano in mente gli ustascia, in verità, non riguardava tanto gli ebrei e gli zingari (sebbene anch’essi non fossero risparmiati), quanto piuttosto i serbi, il cui numero, con l’annessione della BosniaErzegovina allo stato indipendente croato, si accrebbe ulteriormente. Gli ustascia, animati dalla convinzione che, a parte i cattolici, non ci fosse posto nel loro stato se non per i musulmani (considerati […] di <<purissimo sangue croato>>), decisero di sbarazzarsi dei serbi, costringendo un terzo di essi all’esilio, massacrandone un altro terzo e ribattezzando gli altri secondo il rito cattolico per trasformarli in veri croati. Tali aberranti propositi furono messi in pratica con feroce determinazione e attraverso la creazione di lager di sterminio come quello terribile di Jasenovac, che si iscrissero nella mappa della moderna barbarie europea con lettere d’indelebile vergogna. Le masse popolari croate, quasi cloroformizzate da un imbelle partito contadino e da una Chiesa cattolica oscillante tra la collaborazione con gli ustascia e una resistenza fin troppo passiva ai loro crimini, rimasero a lungo assenti nella grande bufera che sconvolgeva il continente, lasciando ai serbi e ai pochi comunisti croati il compito di animare la resistenza. […] Nella primavera del ’45 Ante Pavelic e tutti coloro che negli anni della guerra s’erano compromessi con il suo regime cercarono scampo, quando furono in grado, in territori vicini occupati dagli anglo-americani. A centinaia di migliaia si riversarono 23 10 FEBBRAIO verso il Friuli e la Carinzia sperando di trovare, nel nome del comune anticomunismo, favorevole accoglienza presso gli occidentali. Questo calcolo non era del tutto sbagliato, poiché molti riuscirono a salvarsi e a riparare in Argentina, in Australia, negli Stati Uniti o in Canada grazie all’aiuto delle autorità inglesi, americane o vaticane; qualcosa si inceppò invece in Carinzia, dove, nel maggio del ’45, gli inglesi decisero, per ragioni che sono tuttora oggetto di discussione tra gli storici, di riconsegnare a Tito i collaborazionisti che si trovavano in quella regione di frontiera. Fingendo di volerli inviare in Italia, li caricarono su treni merci e li spedirono al di là delle Caravanche [catena montuosa al confine tra Slovenia e Austria – n.d.r.], dove li aspettavano truppe scelte incaricate della loro liquidazione; coloro che non furono ammazzati subito in Slovenia conobbero una via crucis che li portò tra inenarrabili sofferenze e umiliazioni in patria, dove la maggioranza perse la vita senza potersi difendere né subire regolare processo. Alle violenze commesse dagli ustascia (e dai loro alleati musulmani) contro i serbi e i partigiani, e da questi nei confronti dei collaborazionisti in genere, si aggiunsero così anche gli orrori perpetrati dai comunisti, dopo la vittoria, sui nemici interni. Il popolo croato ne uscì mutilato, traumatizzato da un’esperienza terribile, diviso come non era mai stato nella sua storia. Ai croati rimasti in patria si affiancò infatti una diaspora rabbiosa e bellicosa, niente affatto disposta a riconoscere i propri errori e a trarne qualche insegnamento ma decisa, al contrario, ad attendere il momento della rivincita. (J. Pirjevec, Serbi, croati, sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 107-112) 24 IL GIORNO DEL RICORDO IL REGIME DEGLI USTASCIA CROATI I n Jugoslavia, la seconda guerra mondiale innescò un devastante meccanismo di violenza etnica, allorché il movimento fascista degli ustascia fu posto a guida della Croazia, che Hitler decise di creare, dopo aver disgregato il Paese. C’è solo un altro caso di cancellazione totale di un’entità statale da parte del Führer, quello della Polonia. In entrambi i casi, si trattava di Stati sorti a seguito dell’odiato trattato di Versailles; per Hitler, distruggerne l’esistenza significava annullare le conseguenze della disfatta tedesca nel 1918. Lo stato croato è fondato sul principio dell’autorità assoluta del capo: il Poglavnik Pavelic concentra infatti tutti i poteri. Viene instaurato un regime a partito unico a vantaggio del movimento degli ustascia, affiancato dalla sua milizia armata. I contadini sono proclamati fondamento della vita nazionale e del potere dello stato, ma il partito contadino viene sciolto come gli altri partiti e il suo leader Macek è messo agli arresti domiciliari e poi internato nel campo di concentramento di Jasenovac dal 15 ottobre 1941 al 16 marzo 1942. Due decreti datati 30 aprile 1941 fissano le misure per la <<protezione del sangue ariano e dell’onore del popolo croato>> contro ebrei, serbi e altri. Un decreto del 17 aprile rende passibile di morte chiunque attenti all’autorità dello stato o ne abbia – anche senza conseguenze – l’intenzione e istituisce 34 tribunali speciali. La pena di morte è esecutiva nelle tre ore che seguono la sentenza. Lo stato ustascia è infatti in mano a un potere essenzialmente terroristico. Vengono aperti ventiquattro campi di 25 10 FEBBRAIO concentramento e il governo croato provoca diverse stragi tra la popolazione serba per croatizzarla e costringerla a convertirsi al cattolicesimo romano. Il 22 luglio 1941 il ministro dei Culti Mile Budak dichiara a Gospic [cittadina della Croazia centrale – n.d.r.]: <<Noi uccideremo una parte dei serbi, ne deporteremo un’altra e quella restante, che sarà costretta ad abbracciare la religione cattolica, si vedrà assorbita nell’elemento cattolico>>. Vengono impartite direttive perché non siano accettate le conversioni dei quadri sociali serbi (industriali, commercianti, intellettuali, contadini agiati); anche agli ebrei è vietato convertirsi. In compenso gli ustascia procedono a conversioni collettive nei confronti degli strati più bassi della popolazione serba degne delle persecuzioni dei dragoni di Luigi XIV contro i calvinisti francesi. Secondo diverse fonti tedesche sarebbero stati massacrati da 400.000 a 750. 000 serbi, tra cui 300 sacerdoti e 5 vescovi ortodossi. Tuttavia nella parte del paese occupata dalle loro truppe gli italiani svolgevano piuttosto il ruolo di protettori dei serbi e degli ebrei, che comunque furono quasi tutti sterminati. Gli stessi occupanti tedeschi finirono per trovare eccessivo questo regime di terrore (vi si opposero a partire dalla seconda metà del 1942), forse semplicemente perché esasperava la popolazione e allargava l’influenza della resistenza jugoslava, a capo della quale si trovava il croato Josip Broz detto Tito. Tra i responsabili dei campi di concentramento troviamo, non senza rimanerne sbigottiti, un discepolo del più <<non violento>> tra gli eletti della Chiesa cattolica, il francescano Miroslav Filipovic-Majstorovic, che aveva rinunciato al bigello [= saio – n.d.r.] monastico per l’uniforme ustascia. Il clero cattolico (con il vescovo di Zagabria monsignor 26 IL GIORNO DEL RICORDO Stepinac in testa) aveva dichiarato di <<salutare con gioia la proclamazione dello stato indipendente di Croazia>>. Tuttavia il presule di Zagabria aveva protestato con discrezione contro le conversioni forzate e ricordato nelle sue lettere pastorali il principio della libertà della conversione. Il numero di Natale 1941 del Giornale di Zagabria pubblicava tuttavia una poesia in onore del Poglavnik, frutto della penna dell’arcivescovo di Sarajevo Ivan Saric: <<Di una guida come te il popolo / croato ha bisogno come del pane… / La Croazia possiede in lui / la felicità del cielo / o tu, nostra guida adorata>>. Tutto ciò va un po’ oltre i ditirambi dei prelati francesi che tessevano le lodi della persona del maresciallo [Henri Philippe Petain – n.d.r.], il quale peraltro non conduceva una politica tanto determinata a favore della conversione al cattolicesimo. Sembra invece che il Vaticano abbia dato il suo appoggio al regime ustascia e al suo operato. Pio XII aveva ricevuto il Poglavnik in udienza privata nel maggio 1941, nonché una delegazione della milizia ustascia, guidata dal suo capo Dido Kvaternik; tutto questo mentre, come ha scritto Ernst Nolte, <<la Croazia si trasformava effettivamente durante la guerra in un grande battistero e allo stesso tempo in un gigantesco macello>> per mezzo degli ustascia, fascisti e collaborazionisti. (Y. Durand, Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa tedesca (1938-1945), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 135137. Traduzione di A. Romanello) 27 10 FEBBRAIO I progetti razziali nazisti N el settembre-ottobre 1939, l’esercito tedesco conquistò con notevole facilità la Polonia occidentale, mentre i sovietici invadevano le regioni orientali della Polonia stessa. I russi, inoltre, conquistarono anche le tre repubbliche baltiche: Lituania, Lettonia ed Estonia. In tali territori, caduti sotto controllo comunista, si trovavano numerosi Volksdeutsche, cioè tedeschi etnici, ovvero elementi di lingua e cultura germanica, che vivevano tuttavia fuori dall’area geografica a maggioranza tedesca (ovvero, nel 1939-1940, fuori dal Terzo Reich). Questa comunità era il lascito di una vasta infiltrazione, che si era spinta fino all’estremità orientale del Baltico nel corso del Medioevo, quando l’Europa visse una straordinaria stagione di incremento demografico e fu necessario trovare in Prussia, in Polonia e in Lituania (regioni scarsamente popolate, nel XIII secolo) terre e risorse per la popolazione tedesca in esubero. Spesso, i coloni si mossero sotto la protezione armata dei Cavalieri teutonici, un ordine monastico militare affine a quello dei Templari, che riuscì a costruire un piccolo stato territoriale nell’Europa del Nord, sul Baltico; la loro azione trovava giustificazione nel fatto che gran parte delle popolazioni di queste regioni di frontiera erano ancora pagane, cosicché le loro terre potevano essere conquistate senza troppi scrupoli, con il pretesto dell’evangelizzazione. Hitler si ripropose di rilanciare questa spinta verso est del popolo tedesco e il suo obiettivo supremo era la creazione di un vasto spazio vitale che garantisse alla razza ariana le risorse indispensabili alla sopravvivenza e allo sviluppo. L’invasione dell’URSS (iniziata il 22 giugno 1941) fu l’esito coerente di tali progetti imperiali a lunga scadenza: nell’immediato, però, Hitler e Himmler (il capo delle SS) si proposero di permettere ai tedeschi etnici delle regioni del Baltico di sfuggire alla dominazione comuni- 28 IL GIORNO DEL RICORDO sta sovietica. A questa motivazione politica immediata se ne aggiungeva un’altra, di tipo ideologico: i Volksdeutsche spesso erano idealizzati da Himmler, che li considerava portatori delle più pure doti razziali tipiche dei veri ariani; infatti, per non essere travolti dalla marea etnica circostante, nella quale erano inseriti e dalla quale volevano restare distinti, essi - così si diceva - si erano sempre sposati solo tra loro, rimanendo integri da qualsiasi contaminazione, mentre il contatto diretto con la terra e l’attività agricola li avevano preservati dal materialismo e dagli altri vizi connessi all’urbanesimo moderno e al processo di industrializzazione. L’operazione di emigrazione dei tedeschi etnici fu denominata Heim ins Reich (cioè A casa, nel Reich) e fu accolta con entusiasmo dagli interessati: in media, aderì l’80-90% di coloro che furono giudicati in possesso dei requisiti necessari per la partenza. Nel giro di pochi mesi, rientrarono in Germania circa 500.000 Volksdeutsche: 84.000 dalla Lettonia e dall’Estonia; circa 30.000 dalla Lituania; circa 180.000 dalle regioni polacche conquistate dall’Armata rossa; 400.000 dalla Romania e 60-70.000 dall’area di Bolzano, in Italia. Una volta completata l’operazione di ritorno, il problema vero fu quello di garantire a questi immigrati una dignitosa sistemazione all’interno del Reich; la prima decisione che venne presa fu quella di insediarli all’interno delle regioni più occidentali della Polonia: terre appena conquistate e annesse a tutti gli effetti al Reich (coi nomi di Gau Wartheland e Gau Danzica-Prussia Occidentale), mentre nel resto del territorio polacco dominato dai nazisti veniva creata una specie di colonia denominata Governatorato generale. L’idea che animava Hitler e Himmler era a un tempo radicale e feroce: l’intera popolazione polacca ed ebraica (8-9 milioni di persone) che viveva nei due distretti (Gau) del Wartheland e della Prussia Occidentale sarebbe stata spostata a forza, per lasciare posto ai nuovi arrivati. Anche per una simile soluzio- 29 10 FEBBRAIO ne, però, i problemi non mancavano, in quanto era giudicato comunque opportuno conservare un certo numero di polacchi, da sfruttare come braccianti nei campi e manodopera non qualificata nelle industrie; sul versante opposto, Hans Frank, a capo del Governatorato, dichiarò invece che il territorio da lui diretto era già sovrappopolato: soprattutto nelle città, immettere altre grandi masse avrebbe comportato gravi conseguenze di ordine alimentare e di tipo igienico (col rischio di epidemie). All’inizio del 1940, tutti gli ebrei polacchi furono rinchiusi in ghetti, all’interno delle città più importanti. Nel medesimo tempo, mentre a Berlino si pensava di svuotare il Wartheland e di rovesciare il suo contenuto etnico più <<scadente>> nel Governatorato, vennero valutate numerose ipotesi, finalizzate a liberare anche quest’ultimo, per far posto a chi sarebbe venuto dalle terre situate più ad occidente. È in questo contesto che nacque il progetto di costruire una riserva ebraica nella regione di Lublino e soprattutto che si lavorò al grande piano Madagascar, finalizzato a deportare tutti gli ebrei della Polonia in quella remota isola dell’Africa. Entrambi i progetti si rivelarono assolutamente impraticabili, ma l’idea di trovare nuovi spazi a oriente, che consentissero di riorganizzare l’intero assetto etnico e demografico (razziale, dicevano ovviamente i nazisti) dell’Europa tornò improvvisamente praticabile dopo le prime clamorose vittorie in URSS, nell’estate-autunno del 1941. Mentre pareva realistico deportare tutti gli ebrei nell’estremo est della Russia o in Siberia, si giunse allora ad elaborare il Piano generale orientale (Generalplan Ost), per la creazione del quale Himmler poté contare sul contributo di numerosi geografi, economisti ed agronomi. La versione più ampia e radicale del Piano risale al maggio 1942, in una fase in cui per gli ebrei si era già deciso di risolvere il problema della loro presenza mediante lo sterminio totale; il Generalplan Ost, pertanto, di fatto parla solo degli slavi, che a milioni avrebbero dovuto abbandonare l’Ucraina 30 IL GIORNO DEL RICORDO e le altre regioni occidentali dell’URSS, per lasciare posto ad una massiccia emigrazione di coloni tedeschi, che a quel punto avrebbero avuto lo spazio vitale sognato da Hitler. Di lì a pochi mesi, però, la disfatta di Stalingrado avrebbe rimesso in discussione le sorti della guerra e con essa, ovviamente, anche tutti i progetti di spostamenti di grandi masse di popolazione previsti da Himmler e dai suoi collaboratori. 31 10 FEBBRAIO I PROBLEMI LEGATI AL RIMPATRIO DEI VOLKSDEUTSCHE I nizialmente, numerose delle decisioni più gravi del Terzo Reich furono legate alla scelta di richiamare in patria il maggior numero possibile di Volksdeutsche, i tedeschi che, in gran numero, vivevano fuori dai confini della Germania e soprattutto nei territori controllati dall’URSS. Si creò così una situazione paradossale in cui mancava sempre spazio per qualcuno e qualcun altro doveva essere – nei progetti nazisti – spostato e reinsediato <<più ad Est>>. Infine, si decise che, per gli ebrei, la soluzione più rapida era quella dello sterminio. All’inizio del mese di ottobre del 1939 Heinrich Himmler venne posto alla guida del RKFV (Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums – Commissariato del Reich per il rafforzamento della nazionalità tedesca), e senza perdere tempo avviò una politica di insediamenti e reinsediamenti di vasta portata, che da un lato mirava a espellere la popolazione autoctona di etnia polacca e gli ebrei dai territori annessi, dall’altro aveva come obiettivo il reinsediamento all’interno dei confini del Reich dei tedeschi del Baltico <<rientrati in patria>> e il trasferimento nei territori incorporati degli altri gruppi di tedeschi provenienti dall’Europa centro-orientale e orientale. Una politica, quella di Himmler, che era la conseguenza del ritorno, sancito dal trattato d’amicizia e di demarcazione dei confini tra Germania e l’Unione Sovietica siglato il 28 settembre 1939, delle minoranze tedesche che ricadevano nella sfera d’influenza di Mosca. Nei mesi successivi, il fatto di dover agire in fretta, che fu un’inevitabile conseguenza dell’intesa 32 IL GIORNO DEL RICORDO con l’Unione Sovietica <<voluta>> in pratica dallo stesso governo del Reich, avrebbe influenzato in modo determinante la politica in tema di questione ebraica. L’assoluta necessità di trovare nel giro di poco tempo abitazioni e posti di lavoro per diverse centinaia di migliaia di immigrati – cosa che si sarebbe dovuta ottenere mediante la confisca dei beni di proprietà di polacchi ed ebrei e il reinsediamento forzato dei contadini polacchi – fu un fattore che contribuì notevolmente all’intensificazione della persecuzione antiebraica, anche se le misure adottate furono dirette in primo luogo contro gli agricoltori, gli artigiani, i commercianti e i piccoli industriali polacchi. Il programma di reinsediamenti di Himmler funse quindi da catalizzatore al fine di accelerare l’eliminazione degli ebrei in primo luogo dai territori incorporati e in seguito dallo stesso Reich e dal Protettorato di Boemia e Moravia. Fino ad allora, i pianificatori dello SD [i servizi segreti delle SS – n.d.r.] non avevano preso in considerazione la possibilità di effettuare deportazioni su vasta scala, ma da quel momento in poi il ricorso a tale metodo si generalizzò, anche perché apparve il più ovvio per far uscire la soluzione della questione ebraica dalle secche in cui si trovava. L’effetto di radicalizzazione indotto dalla <<ricomposizione fondiaria>> su base etnica voluta da Himmler si manifestò anche nel fatto che gli uffici incaricati del reinsediamento dei Volksdeutsche non ebbero timore, per mettere a disposizione gli ospedali e gli ospizi necessari, di far ricorso all’<<eutanasia>>, ciò che fecero chiedendo l’intervento del personale impiegato nell’attuazione del programma T4 (dall’indirizzo di Berlino – Tiergartenstrasse 4 – dove avevano sede gli uffici preposti alle operazioni). Come Götz Aly ha mostrato, nel quadro del <<programma 33 10 FEBBRAIO di reinsediamento>> le SS eliminarono più di diecimila malati di mente, prima nella vasta zona comprendente le città portuali di Danzica, Swinemünde e Stettino e poi nel Warthegau. La stretta relazione fra le misure di eutanasia e il programma di reinsediamento è evidente, anche se i diretti interessati non hanno lasciato dietro di sé praticamente nulla di scritto, e inoltre manca, in merito alle misure adottate, un ordine formale. Nel periodo in questione, all’interno dei confini del Reich l’attuazione del programma di eutanasia era solo all’inizio, e tutto lascia ritenere che anche a questo riguardo la politica di reinsediamento abbia notevolmente contribuito alla sua accelerazione. Per preparare il previsto <<rientro in patria>> dei tedeschi del Baltico, il 30 ottobre 1939 Himmler ordinò l’espulsione di circa 500 mila ebrei e polacchi dal Warthegau, da Danzica e dalla Prussia occidentale. In base al suo ordine, gli ebrei avrebbero dovuto essere deportati in un non meglio precisato territorio di reinsediamento compreso tra la Vistola e il Bug, mentre tutte le misure finalizzate allo scopo avrebbero dovuto essere eseguite entro il febbraio del 1940. Entrambe le disposizioni si rivelarono del tutto inattuabili, dal momento che non c’erano sufficienti mezzi di trasporto disponibili e, soprattutto, spostamenti di popolazione di quest’ordine di grandezza non potevano essere attuati in tempi così rapidi. Heydrich [responsabile della polizia del Terzo Reich e suprema autorità delle SS, subito dopo Himmler – n.d.r.], quindi, si vide costretto a ridimensionare le direttive emanate, e il 28 novembre intervenne da Berlino ordinando, sotto forma di piano a breve termine, la deportazione nel Governatorato generale di 80.000 persone dalle province occidentali polacche già annesse. […] 34 IL GIORNO DEL RICORDO Götz Aly ha mostrato che l’operazione di trasferimento che ebbe luogo a Stettino tra il 12 e il 13 febbraio 1940 – operazione che coinvolse quasi tutta la locale comunità ebraica e più di 1.100 persone – venne concepita e portata a termine soprattutto con uno scopo: fare in modo che i Volksdeutsche potessero trovare una qualche occupazione legata al mare. Gli stessi treni già utilizzati per trasportare a Stettino i coloni furono impiegati anche per la deportazione degli ebrei, che ebbe luogo in condizioni a dir poco terribili e provocò un gran numero di vittime. Non molto diversamente andarono le cose un mese più tardi, quando si procedette alla deportazione di 160 ebrei da Schneidemühl. La crescente opposizione di Hans Frank alle deportazioni nel Governatorato generale impedì in pratica a Heydrich, che pure inizialmente aveva potuto contare sull’appoggio di Himmler, di attuare il secondo piano a breve termine, che prevedeva la deportazione di 220 mila ebrei e polacchi dai territori incorporati. I programmi ancora più ambiziosi che prevedevano nel lungo periodo la deportazione e il reinsediamento di circa tre milioni e quattrocentomila polacchi si rivelarono nient’altro che chimere. Se si eccettuano le deportazioni da Stettino e da Scheidemühl, il trasferimento nel Governatorato generale venne prima bloccato e alla fine anche vietato con un decreto di Göring del 23 marzo 1940 con cui la rinuncia al piano veniva messa in relazione con la concentrazione degli ebrei nella regione di Lublino. (H. Mommsen, La soluzione finale. Come si è giunti allo sterminio degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 104-107. Traduzione di E. Morandi) 35 10 FEBBRAIO I PIANI DI HIMMLER SUL NUOVO ORDINE A ORIENTE N el periodo compreso tra l’estate 1941 e l’autunno 1942, l’avanzata tedesca in URSS sembrò destinata alla vittoria (malgrado la battuta d’arresto subita dalla Wehrmacht nel dicembre 1941, davanti a Mosca). Himmler, pertanto, affidò ad una vera schiera di esperti il compito di ridisegnare l’assetto razziale del nuovo spazio vitale che sarebbe stato a disposizione del popolo tedesco per i mille anni a venire. Come durante l’occupazione della Polonia, un piccolo esercito di esperti accademici fu chiamato ad esprimersi sul destino dell’Unione Sovietica. Senza rivali nel darsi importanza, andavano e venivano nei corridoi del potere, esempio ridicolo e insieme spaventoso dell’adagio che poche cose sono più pericolose di <<un po’ di cultura>>, specialmente quando si accompagni al gusto egocentrico del protagonismo a buon mercato. Fu questo, senza dubbio, il caso dell’SS-Oberführer professor Konrad Meyer, un giovane agronomo particolarmente abile nel trasformare le stravaganti ruminazioni di Himmler in freddi schemi tecnocratici di pulizia etnica, anche se non va sottovalutato lo strato di autentica follia probabilmente nascosto, nell’uno e nell’altro, dietro una normalità di facciata. Si direbbe che per Himmler fosse rilassante chiacchierare con persone siffatte di spessore dei muri delle fattorie e di struttura dei villaggi contadini, dopo giorni e giorni di gestione di un tetro impero di polizia su scala continentale. Essendosi fatto un nome con l’espulsione di polacchi e ebrei dai territori annessi al Reich, Meyer fu incaricato di redigere un piano 36 IL GIORNO DEL RICORDO comprendente l’area assai più ampia conquistata nella fase iniziale dell’Operazione Barbarossa. Perfino tra le SS, la pianificazione era un settore sovraffollato. In un discorso inaugurale dell’ottobre 1941, a Praga, di fronte ad alti esponenti del regime, il nuovo Reichsprotektor Reinhard Heydrich illustrò la sua concezione degli insediamenti nell’est. Ci sarebbero stati due universi etnici: i popoli affini ai tedeschi, da trattare in modo relativamente decente; e più a oriente, una massa di iloti slavi che l’élite guerriera germanica avrebbe governato col pugno di ferro. Un po’ come in Olanda si era rubata terra al mare, lo spazio vitale germanico sarebbe stato strappato al mare della subumanità slava tramite una barriera esterna di agricoltorisoldati, e un anello successivo di insediamenti germanici in graduale espansione. Verso la fine del 1941, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich [diretto da Heydrich – n.d.r.], un’istituzione delle SS, preparò anch’esso un piano generale per l’est, il cui contenuto si può inferire dalle critiche a esso rivolte dal dottor Erhard Wetzel, il funzionario preposto alla politica razziale nell’OMi [Ostministerium o Ministero per l’Est: il fatto che due o più soggetti si occupassero in modo concorrenziale della stessa questione era un fenomeno tipico all’interno dell’amministrazione nazista, attraversata da furiosi conflitti di competenza e da lotte di potere, al punto che il regime stesso è denominato <<policrazia>> da numerosi storici – n.d.r] di Rosenberg. La sua realizzazione avrebbe richiesto, a guerra vinta, una trentina d’anni. […] I pianificatori delle SS pensavano a un trasferimento a est di una decina di milioni di coloni tedeschi, e al concomitante trasferimento in Siberia di un numero di indigeni compreso tra 31 e 45 37 10 FEBBRAIO milioni. Qui Wetzel corresse puntigliosamente l’aritmetica SS, il numero di 45 milioni apparendo sia troppo basso, sia inquinato da cinque-sei milioni di ebrei dei quali ci si sarebbe dovuti <<disfare>> prima della colonizzazione. Secondo Wetzel, gli abitanti interessati erano 60-65 milioni, dei quali da 46 a 51 milioni erano da trasferire. Inoltre, le deportazioni sarebbero avvenute in base a una percentuale dipendente dalla nazionalità. Così i polacchi, da 20 a 24 milioni di persone, erano da trasferire nella misura dell’80 per cento. Quanto alla destinazione, Wetzel scartò la Siberia (che ne avrebbe sofferto nella funzione di baluardo rispetto alla Russia interna), concedendo che <<non ci si può sbarazzare dei polacchi come degli ebrei>>. Optò quindi per l’invio dell’intellighenzia polacca in Brasile, in cambio del rimpatrio di polacchi di etnia tedesca, mentre il resto dei polacchi sarebbe finito in Siberia dove, insieme ad altri gruppi lì trasferiti, avrebbe formato un miscuglio etnico <<americanizzato>> e separato dalla popolazione di origine russa. Rimproverando le SS per la scarsità di proposte sull’etnia russa, Wetzel si profuse in consigli su come limitarne la fecondità. A una massiccia distribuzione di preservativi sarebbe dovuta seguire la <<riqualificazione>> delle ostetriche come abortiste e la dequalificazione programmata dei pediatri, la sterilizzazione volontaria e l’abbandono delle misure igieniche e profilattiche per la diminuzione della mortalità infantile. Gli evidenti errori statistici e le illogicità del piano dell’RSHA [= l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich – n.d.r.] indussero Himmler a rivolgersi al più pragmatico Meyer. In maggio questi consegnò il memorandum <<Generalplan-Ost: basi giuridiche, economiche e territoriali dello sviluppo all’est>>. Il piano, 38 IL GIORNO DEL RICORDO che ci è giunto solo sunteggiato, prevedeva la creazione di tre vaste marche di insediamento (Ingermanland, MemelNarew e Gotengau) con popolazione al 50 per cento tedesca, collegate col Reich a intervalli di 100 chilometri da 36 roccaforti d’insediamento con popolazione tedesca al 25 per cento. La realizzazione di questo piano avrebbe richiesto 25 anni, avrebbe coinvolto cinque milioni di coloni tedeschi e sarebbe costata 66 miliardi di Reichsmark. Himmler gradì la deliberata esclusione dell’OMi dalle decisioni sulle marche, ma voleva un calendario accorciato di cinque anni, l’inserimento di Alsazia-Lorena e Boemia-Moravia nel piano, e la germanizzazione accelerata del Governatorato Generale e di parte del Baltico. Meyer fu incaricato di stilare un nuovo progetto che recepisse tali modifiche. (M. Burleigh, Il Terzo Reich, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 607609. Traduzione di C. Capararo, S. Galli, M. Mendolicchio) 39 10 FEBBRAIO Turchi, Russi, Polacchi e Tedeschi È opinione ampiamente condivisa fra gli storici che le travagliate vicende dell’impero ottomano negli anni 1912-1920 siano state d’esempio e di modello per la politica successiva di numerosi altri stati, primi fra tutti i regimi totalitari nazista e comunista. Per quanto riguarda la pulizia etnica, va ricordato che, nell’ottobre del 1912, la Serbia decise di approfittare della difficile situazione in cui si trovava l’impero turco, impegnato contro l’Italia, determinata a conquistare la Libia. La Serbia si alleò con il Montenegro, la Grecia e la Bulgaria; uniti nella Lega balcanica, questi paesi attaccarono a loro volta l’impero ottomano, che fu pesantemente sconfitto. La Serbia vittoriosa conquistò il Kosovo, un territorio che ospitava numerosi monasteri ortodossi e migliaia di serbi, ma era abitato anche da moltissimi contadini albanesi, di religione musulmana. I kosovari albanesi furono eliminati a centinaia, in modo da ridurre drasticamente il loro numero, a vantaggio della popolazione serba. Secondo alcuni storici, la brutale operazione di pulizia etnica compiuta dai serbi in Kosovo nel 1912 è un chiaro segnale della violenza assoluta che, di lì a poco, avrebbe travolto l’intero continente. Ma – presagio ancora più fosco - quelle violenze furono un primo tentativo di soluzione violenta di problemi demografici, di lì a poco ampiamente imitato da numerosi altri soggetti, desiderosi di semplificare situazioni complesse, in cui molteplici etnie si intrecciavano. Per molti versi, pare lecito individuare nell’azione dei serbi il prototipo di quanto avrebbero fatto i turchi nei confronti degli armeni in Asia Minore (1915), i polacchi e i cechi nei confronti dei tedeschi (1945) e i comunisti jugoslavi nei confronti degli italiani in Istria e nella Venezia Giulia (1945). In Asia Minore, i turchi uccisero più di un milione di armeni; in questa sede, è però opportuno precisare che l’obiettivo primario del governo turco era quello di liberare da una potenziale quinta 40 IL GIORNO DEL RICORDO colonna un’area decisiva sotto il profilo strategico, ai confini del nemico russo. La morte di massa degli armeni avvenne dunque in concomitanza con una vasta operazione di trasferimento forzato: anzi, in ultima analisi, fu l’esito e l’atto conclusivo di questa azione, in larga parte condotta in modo affatto improvvisato, e per questo destinata a risolversi in catastrofe, anche nel caso in cui (e su questo punto la discussione storiografica è, a dir poco, incandescente) il massacro non fosse stato programmato in anticipo. Per molti aspetti, la deportazione degli armeni (compreso il suo tragico epilogo nei deserti della Siria) assomiglia all’operazione di liquidazione dei kulaki condotta da Stalin negli anni 1930-1931. Ovviamente, dobbiamo precisare che i contadini sovietici (sprezzantemente chiamati kulaki, cioè sfruttatori) non erano una nazione, un’etnia, bensì un gruppo sociale, una classe, nel linguaggio comunista del tempo. La procedura, però, fu per molti versi analoga: arresto in massa di intere famiglie (nel caso degli armeni, però, molti dei maschi adulti furono immediatamente fucilati), deportazione in zone periferiche e del tutto prive di strutture idonee alla ricezione dei nuovi arrivati, morte di massa per colpevole negligenza delle autorità, che si disinteressarono completamente di quanto accadeva ai deportati. Alcuni dei gravi crimini compiuti in URSS in età staliniana ebbero una connotazione nazionale decisamente più marcata, rispetto alla liquidazione dei kulaki, o per lo meno le motivazioni etniche si fusero e si intrecciarono con quelle politiche e/o sociali, secondo modalità che in parte si ritrovano anche nelle violenze compiute dai comunisti jugoslavi in Istria o a Trieste nel 1943 e nel 1945. Il caso più celebre è quello dell’uccisione di migliaia di ufficiali polacchi nel 1940 (i corpi di 4.500 di questi militari furono trovati nella foresta di Katyn, nel 1943), uccisi perché considerati a un tempo patrioti polacchi ed esponenti delle classi superiori: in una parola, nemici dell’URSS (in quanto polacchi) e avversari del comunismo (in quanto borghesi). 41 10 FEBBRAIO Questo micidiale intreccio di fattori si creerà di nuovo nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia, provocando l’uccisione di quei soggetti che erano ritenuti nemici irriducibili sia perché italiani, sia perché ostili al nuovo sistema comunista. In entrambi i casi, però, è del tutto fuorviante l’adozione della categoria concettuale del <<genocidio>>, in quanto l’obiettivo ultimo dell’azione criminale non era, in sé e per sé, l’eliminazione di tutti gli italiani o di tutti i polacchi dell’area che si cercava di sottomettere (la Polonia orientale, nel caso sovietico: ma il discorso può ampiamente valere anche per Lituania, Lettonia ed Estonia; l’Istria e la Venezia Giulia, nel caso del confine orientale italiano). Un carattere decisamente nazionale ebbe invece l’espulsione dei cittadini tedeschi, nell’immediato dopoguerra, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia occidentale; in quest’ultimo caso, si trattava di territori sotto sovranità tedesca, fino al 1945, ma assegnati dai vincitori alla Polonia, per compensarla della perdita della vasta area occupata ad oriente dall’Armata Rossa nel 1939. Pertanto, il confine est della Germania fu spostato fino alla linea rappresentata dai fiumi Oder e Neisse, mentre gran parte della Polonia storica, a est, passava sotto controllo sovietico (e infatti oggi è territorio sotto sovranità della Ucraina – si pensi alla città di Leopoli – a sud, e della Bielorussia, a nord). In tutte queste aree, furono effettuate operazioni di pulizia etnica più o meno radicali: pertanto, mentre i polacchi erano espulsi dalla regione della Galizia (entrata a far parte dell’Ucraina), i tedeschi vennero cacciati con estrema durezza da tutta la Polonia e la Cecoslovacchia, in modo da cancellare ogni presenza di minoranze germanofone. Anche in questo caso si può individuare un precedente nella storia turca: infatti, con il trattato di Losanna del 1920, Turchia e Grecia decisero di procedere ad un vero scambio di popolazione: tutti i greci che vivevano in Anatolia furono obbligati a trasferirsi in Europa, e tutti i turchi che risiedevano in territorio greco a spostarsi in Asia Minore 42 IL GIORNO DEL RICORDO LE VIOLENZE CONTRO I KOSOVARI ALBANESI NEL 1912 Q uando la Serbia, nell’autunno del 1912, riuscì ad impadronirsi del Kosovo, i kosovari albanesi furono considerati come degli intrusi e dei ladri, degli usurpatori che si erano impadroniti della terra altrui, grazie al sostegno di una potenza straniera non cristiana. Ne nacque una feroce pulizia etnica, anticipatrice dei numerosi stermini che avrebbero segnato il Novecento. Un giornalista che seguì la guerra, il corrispondente da Vienna del giornale ucraino Kievskaia Mysl, Lev Bronshtein (più noto nella storia con il nome di Lev Trotzkij), rimase impressionato dalle prove di atrocità da parte delle forze serbe e bulgare. Un ufficiale serbo gli disse che le peggiori furono commesse non dall’esercito regolare ma dai cetnici [= guerriglieri, partigiani - n.d.r.] paramilitari: <<Tra di loro vi erano intellettuali, uomini di pensiero, fanatici nazionalisti, ma si trattava di individui isolati. Per il resto erano solo delinquenti, ladri, che si erano uniti all’esercito per far bottino>>. Ma altre prove persuasero Trotzkij che l’uccisione degli albanesi e la distruzione dei loro villaggi fosse il risultato di qualcosa di più dell’iniziativa di qualcuno: concluse che <<i serbi della Vecchia Serbia>>, nel loro sforzo nazionale di correggere i dati delle statistiche etnografiche a loro non molto favorevoli, sono impegnati molto semplicemente nello sterminio sistematico della popolazione musulmana [= i kosovari albanesi - n.d.r. ]. [...] A gran parte dei giornalisti stranieri fu proibito di entrare in Kosovo, ma alcune notizie filtrarono: un giornalista danese 43 10 FEBBRAIO a Skopje riferì che 5.000 albanesi erano stati uccisi a Pristina dopo la cattura della città, e scrisse che la campagna serba aveva <<assunto il carattere di un orrendo massacro della popolazione albanese>>. Alcune informazioni raggiunsero il mondo esterno attraverso la Chiesa cattolica: fu da un prete cattolico locale che il Daily Telegraph apprese di un massacro a Ferizaj, dove il comandante serbo aveva invitato gli albanesi a ritornare alle loro case in pace: quelli che lo fecero (300-400) furono poi portati fuori e fucilati. Il resoconto più complesso e agghiacciante fu quello di Lazer Mjeda, arcivescovo cattolico di Skopie, in una relazione a Roma del 24 gennaio 1913. Scrisse che a Ferizaj solo tre albanesi musulmani di età superiore ai 15 anni erano stati lasciati in vita; la popolazione albanese di Gjilan era stata anch’essa massacrata, nonostante la città si fosse arresa senza combattere e Giacova era stata completamente saccheggiata. Ma il caso peggiore fu Prizren, che, come Gjilan, si era arresa pacificamente: <<La città sembra il regno della morte. Picchiano alle porte delle case albanesi, portano via gli uomini e sparano loro immediatamente. In pochi giorni il numero degli uomini uccisi ha raggiunto 400. Per quanto riguarda le devastazioni, i saccheggi e gli stupri, non occorre parlarne: d’ora innanzi l’ordine del giorno è: qualunque cosa è permessa contro gli albanesi - non solo permessa, ma voluta e ordinata. E nonostante tutti questi orrori, il comandante militare, Bozo Jankovic, ha obbligato i notabili della città, con la pistola in pugno, a spedire un telegramma di ringraziamento al re Pietro!>>. Nel complesso, l’arcivescovo calcolò che il numero totale di albanesi uccisi in Kosovo a questo punto fosse già 44 IL GIORNO DEL RICORDO di 25.000. Questo dato concordava con altri rapporti apparsi sulla stampa europea, che avevano fornito una stima di 20.000 ai primi di dicembre. Nel 1914, una commissione internazionale d’inchiesta istituita dal Carnegie Endownment pubblicò i propri risultati. Non azzardò una valutazione per quanto riguardava il numero totale di albanesi uccisi, ma concluse che era stato attuato qualcosa di simile a una politica sistematica: <<Case e interi villaggi ridotti in cenere, popolazioni disarmate e innocenti massacrate... questi furono i mezzi che vennero e sono tuttora utilizzati dai soldati serbo-montenegrini, con l’intenzione di trasformare del tutto il carattere etnico delle regioni abitate esclusivamente da albanesi>>. Una speciale caratteristica della politica serba e montenegrina fu la conversione forzata dei musulmani e cattolici all’ortodossia. Essa fu applicata con particolare vigore dai montenegrini, che controllavano la regione di Pec; nel maggio 1913, il console austriaco a Prizren riferì che 2.000 famiglie musulmane nella città di Pec erano state convertite e che quelli che rifiutavano venivano torturati o uccisi. [...] Il motivo immediato di tutte queste misure era, come lo si riconobbe chiaramente in alcuni resoconti citati prima, quello di cambiare le statistiche della popolazione e quindi di rafforzare la posizione diplomatica dei governi serbo e montenegrino per vedersi riconosciuto il diritto di incorporare queste terre conquistate. (N. Malcom, Storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1999, pp. 290-292. Traduzione di M. Pagliano, O. Putignano e M. W. Croce) 45 10 FEBBRAIO DINAMICA E MODALITÀ DELLA DEPORTAZIONE DEI KULAKI I l termine kulaki (sfruttatori) era un appellativo ingiurioso con cui furono designati i contadini più agiati ed intraprendenti, che negli anni Venti avevano saputo sfruttare le possibilità offerte loro dalla Nuova Politica Economica. Nel 1930, Stalin li deportò in gran numero, temendo che potessero costituire un pericoloso nucleo di opposizione politica alla sua linea economica, caratterizzata da un massiccio sfruttamento delle campagne e dallo sforzo di creare a tutti i costi in URSS un’industria pesante. In questo caso, la repressione staliniana non colpì un gruppo etnico particolare (anche se l’Ucraina patì, negli anni Trenta, più di altre regioni dell’URSS); si trattò comunque di un gigantesco spostamento forzato di grandi masse di persone, tipico della violenza totalitaria. Le idee guida [della politica di Stalin nei confronti delle campagne - n.d.r. ] erano quella di neutralizzare i contadini attraverso l’annientamento della loro élite (dekulakizzazione) e quella di costringere il maggior numero possibile di famiglie in relativamente poche, grandi unità collettive (collettivizzazione). La prima era da molti punti di vista una generalizzazione della formula applicata contro i cosacchi all’inizio del 1919, quando nei documenti del partito si era parlato della necessità di <<neutralizzare>> i cosacchi attraverso la spietata eliminazione della loro élite, una politica come sappiamo raffinata negli anni successivi in Kuban e nel governatorato di Tambov. Per quel che riguarda la seconda, si riteneva e non senza ragione che grazie ad essa sarebbe stato più 46 IL GIORNO DEL RICORDO facile estrarre le quantità di grano ritenute necessarie, fino ad allora oggetto di feroci dispute con milioni di piccoli e caparbi nuclei famigliari. [...] I documenti in nostro possesso provano che almeno la prima fase dell’attacco, e cioè la dekulakizzazione, ebbe successo e non solo per la brutalità e la decisione con cui fu condotta. Il fatto innegabile, per quanto sgradevole, è che [...] almeno in un primo momento essa riuscì a dividere le campagne, facendo leva sulle invidie e le disparità sociali esistenti nei villaggi. Implicitamente fu lasciato capire - o almeno questo capirono tutti - che i beni dei <<kulak>> erano a disposizione di chi si fosse fatto avanti a prenderli. Non a caso, come gli stessi rapporti OGPU oggi ci confermano, accanto ai pochi giovani entusiasti si mobilitò allora la feccia, il mondo criminale delle campagne: le brigate dei <<dekulakizzatori>>, formate in tutta fretta, furono così infestate da <<elementi sociali alieni e spesso criminali>> che <<cacciavano i dekulakizzati nudi nella strada (nell’inverno russo, AG), li malmenavano, organizzavano orge nelle loro case, gli sparavano appena al di sopra della testa, li obbligavano a scavarsi la fossa, denudavano le donne e le sottoponevano a perquisizioni personali, si tenevano per sé i valori e il denaro sequestrati, ecc.>>. A conferma di quanto Moshe Lewin aveva già dimostrato 30 anni fa, la dekulakizzazione fu quindi un saccheggio generalizzato e il suo già menzionato successo fu dunque politico, non certo economico. È possibile sostenere che la <<tradizione>> cui essa si riallacciava fosse quella dei pogrom, e in particolare dei pogrom istigati dallo stato. Ma profonda, e da più punti di vista, era anche la continuità col 1918-21 [gli anni del comunismo di guerra e delle 47 10 FEBBRAIO requisizioni granarie nelle campagne, al tempo della guerra civile - n.d.r. ]. [...] Il bilancio quantitativo ufficiale della dekulakizzazione parla di migliaia di repressi, e spesso fucilati, nelle prime settimane e di 381.000 famiglie con 1,8 milioni di membri deportate in regioni lontane tra il 1930 e il 1931. 64.000 di queste famiglie venivano dall’Ucraina, 52.000 dalla Siberia Occidentale, 30.000 dal Basso Volga e 28.000 dagli Urali. Esse finivano in genere in villaggi speciali (spec o trudposelenie ) la cui amministrazione fu affidata nel 1931 all’OGPU. Negli anni successivi venne deportato qualche altro centinaio di migliaia di contadini. [...] In tutto i deportati in regioni lontane furono perciò circa 2.250 milioni, cui va aggiunto un numero grosso modo equivalente di persone esiliate all’interno dei confini della loro regione d’origine (alcune di esse vennero poi rideportate in regioni lontane). Al totale vanno infine aggiunti i contadini rinchiusi nei lager veri e propri (ITL) del Gulag, circa 120.000 nel luglio 1932. Dai loro nuovi luoghi di residenza, i deportati spedirono a famigliari e autorità migliaia di strazianti lettere di protesta. Particolarmente terribile è leggervi della sorte dei bambini che, secondo un documento dell’Ufficio politico del gennaio 1931, morivano a un tasso che in certe regioni raggiungeva il 10% mensile . Un buon numero di queste lettere sono state di recente pubblicate insieme a quelle dei molti membri del partito che trovarono allora il coraggio di protestare contro uno stato che continuava a definirsi <<socialista>> mentre perpetrava simili orrori. Sappiamo inoltre che nel solo 1932-33 i morti tra i deportati furono circa 250.000. E sappiamo che nel 1930-31 le 48 IL GIORNO DEL RICORDO cose erano probabilmente andate ancora peggio, come suggerisce il triste fato dei bambini. [...] Diverse centinaia di migliaia di contadini e di nomadi morirono dunque prima che la grande carestia colpisse il paese nell’autunno 1932. La dekulakizzazione fu seguita a ruota dalla collettivizzazione, che raggiunse il suo primo picco nel febbraio 1930, quando vennero collettivizzate circa 8 milioni di famiglie. Ancora una volta violenze e terrore furono i metodi cui si fece generalmente ricorso. (A. Graziosi, La grande guerra contadina in Urss. Bolscevichi e contadini (1918-1933), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998, pp. 71-75) LE DEPORTAZIONI ETNICHE NELL’URSS STALINIANA M entre i kulaki furono considerati dei nemici di classe, a prescindere dalla loro nazionalità, in vari altri casi il regime staliniano tenne in maggior conto il fattore etnico. In certi casi (polacchi e baltici, ad esempio) esso fu considerato un elemento aggravante, che rendeva i potenziali nemici particolarmente inaffidabili: ciò provocò consistenti deportazioni, ma non misure generalizzate contro un intero popolo. In alcune regioni, invece, un’intera nazionalità fu considerata pericolosa per la sicurezza dello Stato sovietico e deportata in blocco. Gli <<specposelency>> – cioè le persone deportate in quanto componenti di un gruppo – hanno continuato ad 49 10 FEBBRAIO esistere anche dopo la dekulakizzazione e il trasferimento di 1,8 milioni di contadini ricchi. Negli anni Trenta e Quaranta gli <<specposelency>> erano i membri dei popoli puniti – usando un’espressione di Aleksandr Nekrich – che furono sradicati dai luoghi in cui vivevano e deportati in tutto, o in parte, in regioni lontane. Questi 3 milioni di persone circa erano colpevoli – e pertanto condannati alla deportazione – di appartenere a una nazione che il potere staliniano sospettava o accusava di antisocialismo. Il numero dei nuovi <<specposelency>> appare nelle liste stilate alla partenza e/o all’arrivo dal Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD), in cui sono indicati il luogo di provenienza e la destinazione di ognuno di essi. Perciò a volte è possibile calcolare solo le vittime morte durante gli spostamenti o nei primi tempi dell’insediamento. Questa politica di deportazione, che ha colpito dodici piccole nazionalità del territorio dell’URSS, oltre ad alcuni cittadini originari di nazioni occupate dai sovietici (paesi baltici, confini orientali della Polonia), è parte integrante del retaggio totalitario dello stalinismo. È stata denunciata come tale dal rapporto Chruscev al XX Congresso del PCUS del 1956, in cui veniva ricordata la <<deportazione di massa di intere nazioni>> e si precisava che la <<deportazione non era dettata da alcuna considerazione militare>>. […] Sebbene i 10.000 finnici della Carelia, trasferiti tra 1932 e 1934, siano stati le prime cavie di questa politica, essa viene avviata in modo sistematico con la deportazione in toto (171.000 persone) dei coreani dell’Estremo Oriente verso le steppe kazache nel corso del 1937. A partire dallo stesso anno, anche le popolazioni tedesche dell’Ucraina, del Don e del Volga iniziano a subire lo stesso destino; ma è soprattutto nell’estate 50 IL GIORNO DEL RICORDO del 1941, in piena offensiva dell’esercito nazista, che 950.000 tedeschi di quelle regioni vengono rinchiusi in 364 convogli ferroviari e trasferiti in pochi giorni, e in condizioni spaventose, verso il Kazakistan. In alcuni convogli la metà dei deportati non arriva nemmeno a destinazione, mentre quelli che vi giungono sono quasi sempre alloggiati in stalle o in capanni improvvisati. La grande guerra patriottica diventa così l’occasione per la maggior parte di queste punizioni e deportazioni: quella dei balti e dei polacchi innanzi tutto […]; poi quella dei popoli del Caucaso settentrionale, a partire dal marzo del 1943, quando il generale Ivan Serov, che aveva già diretto l’operazione contro i tedeschi, fa trasferire brutalmente 37.000 balcari in Kazakistan e in Kirghizistan; tra l’ottobre e il dicembre dello stesso anno tocca a 70.000 karaciai e a 90.000 calmucchi, spostati in Siberia, nell’Altaj, nella provincia di Omsk e in quella di Novosibirsk, dove alla fine vengono distribuiti in vari kolchoz [= le grandi aziende agricole create dopo la collettivizzazione delle campagne – n.d.r.], in cui non possono però trovare un lavoro adatto a loro, che sono pastori e allevatori per tradizione; rimangono quindi senza approvvigionamenti, con tutte le conseguenze che ciò comporta in pieno inverno. Nel febbraio del 1944, 120.000 uomini dell’NKVD dirigono una gigantesca operazione di deportazione: mezzo milione di ceceni e di ingusci sono caricati su 180 convogli diretti verso i kolchoz poverissimi del Kazakistan. Al dramma vissuto dai popoli del Caucaso, si aggiunge nel maggio del 1944 quello dei tatari di Crimea: ne vengono deportati 180.000 nella provincia di Samarcanda, e si calcola che il 46% di essi non sopravvisse. Infine, in luglio le regioni limitrofe alla Georgia sono ripulite dei loro 86.000 turchi messeti, curdi e kemsini, che si 51 10 FEBBRAIO ritrovano anch’essi in Asia centrale. Il caso della Polonia (occupata dai sovietici nel settembre del 1939) e quello dei paesi baltici (nel giugno del 1940) sono un po’ diversi dai precedenti, dato che le loro popolazioni sono state deportate parzialmente e non totalmente, come invece è accaduto alle altre appena elencate. Vengono deportate in primo luogo le classi dirigenti (membri dei partiti nazionalisti reazionari con le rispettive famiglie, ufficiali, poliziotti, funzionari, preti), ma anche, per estensione di classe, contadini agiati, proprietari terrieri, commercianti e imprenditori, in poche parole tutti coloro che una direttiva segreta del PCUS definisce <<elementi estranei alla società>>. Lituani, lettoni ed estoni sono deportati in tre riprese: nel giugno del 1941, tra 1944 e 1945 e infine nel 1949. Complessivamente, 158.000 persone – tra cui 58.000 donne e 35.000 minori di quindici anni – si ritrovano nella remota Siberia, assegnate per la maggior parte alle aziende di sfruttamento forestale. […] Ma su quali criteri si fondavano veramente le intenzioni dei sovietici nelle loro politiche che attentavano alla vita di tutti questi popoli? Alcuni autori (J. Otto Pohl, Francine Hirsch) hanno sottolineato che tutte le deportazioni erano parte integrante di una politica di sicurezza globale e rivestivano anche un ruolo piuttosto importante nella politica estera dell’URSS. Di fatto, chi colpiscono? Innanzi tutto i popoli situati in prossimità di frontiere sensibili (finnici, coreani) o in regioni strategiche difficili da difendere (Caucaso, Baltico, confini polacchi). In quest’ultimo caso, la deportazione di determinati popoli caucasici indebolisce ancor di più un’area già fragile, mentre l’eliminazione di elementi <<socialmente pericolosi>> ripulisce e rende più sicuro per l’esercito sovietico il futuro campo di battaglia dell’Europa 52 IL GIORNO DEL RICORDO orientale, da Leopoli a Riga. Le deportazioni colpiscono anche le diaspore nazionali (tedeschi, polacchi dell’Ucraina occidentale, turchi), che i sovietici credono essere legate ad un paese straniero ostile (la Germania nazista a partire dal 1936, la Polonia di Pilsudski, la Turchia del 1945). Infine alcuni popoli sono perseguitati perché in passato hanno opposto resistenza alla penetrazione dei russi prima (ceceni) e dei sovietici poi (calmucchi e ingusci hanno opposto resistenza alla collettivizzazione, balkari e calmucchi sono considerati traditori per aver collaborato con l’aggressore nazista). Bisogna sottolineare a questo proposito che, sia nella Russia zarista sia nell’Unione Sovietica, le ragioni di sicurezza restano prioritarie: 200.000 tedeschi erano già stati deportati tra 1915 e 1916 dalle regioni europee dell’impero, e solo la rivoluzione del 1917 aveva impedito che anche agli altri fosse riservata la stessa sorte. (B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 120-124. Traduzione di A. Flores d’Arcais) GLI SPOSTAMENTI DI POPOLAZIONE NEL SECONDO DOPOGUERRA N ell’immediato dopoguerra, l’Europa intera è stata caratterizzata da imponenti spostamenti di popolazione, che hanno posto fine a presenze storiche secolari. Molte città e stati, che fino al 1939 ospitavano molteplici popoli, furono artificialmente trasformate in entità omogenee, sotto il profilo etnico: le minoranze (che a volte erano già state liquidate durante la guerra) furono espulse o costrette a scegliere volon- 53 10 FEBBRAIO tariamente (per modo di dire) tra l’oppressione discriminante e la partenza verso uno Stato nazionale (la Germania, per i tedeschi espulsi dalla Polonia; l’Italia, per gli istriani e i giuliani; Israele per gli ebrei…). Il continente era un tempo un intricato arazzo di linguaggi, religioni, comunità e nazioni. Molte città – soprattutto quelle più piccole, all’intersezione dei vecchi e nuovi confini imperiali, come Trieste, Sarajevo, Salonicco, Czernowitz, Odessa o Vilnius – erano autentiche società multiculturali avant le mot [= possono essere definite così, anche se il termine è più recente – n.d.r.], dove cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei e altri ancora vivevano armoniosamente gli uni accanto agli altri. Non si deve però idealizzare. Quello che lo scrittore polacco Tadeus Borowski definì <<l’incredibile e quasi comico crogiuolo di popoli e nazionalità pericolosamente brulicanti nel cuore stesso dell’Europa>> era periodicamente lacerato da rivolte, massacri e pogrom: ma era reale ed è sopravvissuto nella memoria. Tra il 1914 e il 1945, tuttavia, quel mondo era stato frantumato e ridotto in polvere. La più compatta Europa formatasi, procedendo a balzi irregolari, nella seconda metà del ventesimo secolo aveva un minor numero di enclave labili. Grazie al conflitto, all’occupazione, al riaggiustarsi dei confini, alle espulsioni di massa e al genocidio, ora quasi tutti vivevano nel proprio paese, in mezzo alla propria gente. […] Ciò che stava accadendo nel 1945, e che era in corso già da almeno un anno, era dunque un’immensa operazione di pulizia etnica e trasferimento di popolazioni. Si trattava, in parte, dell’effetto di una separazione volontaria [= di una fuga di fatto inevitabile, e non di una espulsione 54 IL GIORNO DEL RICORDO vera e propria – n.d.r.]: gli ebrei che si sentivano insicuri e indesiderati, per esempio; o gli italiani che preferivano lasciare l’Istria piuttosto che finire sotto la Iugoslavia. Molte minoranze etniche che avevano collaborato con le forze di occupazione (italiani in Iugoslavia, ungheresi in Transilvania, già occupata e ora restituita alla Romania, ucraini nell’URSS occidentale, e altri ancora) fuggirono insieme alle armate della Wehrmacht in ritirata per evitare la vendetta delle maggioranze locali o l’avanzata dell’Armata Rossa, e non tornarono più nel loro paese. Anche se le autorità locali non avevano ordinato e imposto per legge la partenza, a queste minoranze non era rimasta praticamente altra scelta. Altrove, comunque, la politica si era già messa al lavoro ben prima che la guerra terminasse. Erano stati i nazisti, naturalmente, a dare l’esempio, con la deportazione e il genocidio degli ebrei e le espulsioni di massa di polacchi e altre popolazioni slave. Tra il 1939 e il 1943, sotto l’egida [= protezione – n.d.r.] tedesca, ungheresi e rumeni si scontrarono per il confine della disputata Transilvania. Le autorità sovietiche, a propria volta, organizzarono una serie di trasferimenti forzati tra Ucraina e Polonia: tra l’ottobre 1944 e il giugno 1946, un milione di polacchi fuggì o fu cacciato dalle proprie case in quella che divenne l’Ucraina occidentale, mentre 500.000 ucraini lasciarono la Polonia, trasferendosi in URSS. Nel giro di pochi mesi, quella che era stata una regione composita, nella quale avevano convissuto fedi, lingue e comunità estremamente diverse, venne trasformata in due territori separati e monoetnici. […] Analoghi trasferimenti si ebbero tra Polonia e Lituania e tra Cecoslovacchia e URSS; 400.000 abitanti della Iugoslavia meridionale furono fatti trasferire a nord per prendere 55 10 FEBBRAIO il posto dei 600.000 tedeschi e italiani che avevano abbandonato il territorio. Qui, come altrove, le popolazioni interessate non furono consultate; furono però i tedeschi a subire i maggiori contraccolpi. Quelli dell’Europa orientale sarebbero probabilmente fuggiti a occidente in ogni caso: nel 1945 non erano più bene accetti nei paesi in cui le famiglie avevano abitato per secoli. Schiacciate tra un autentico desiderio popolare di vendetta per le devastazioni della guerra e dell’occupazione e lo sfruttamento di questo sentimento da parte dei governi postbellici, le comunità germaniche di Iugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, della regione baltica e dell’URSS avevano il destino segnato e lo sapevano perfettamente. All’atto pratico, non fu lasciata loro alcuna possibilità di scelta. Già nel 1942 gli inglesi avevano privatamente accolto le richieste cecoslovacche per la loro rimozione dalla regione dei Sudeti, e un anno dopo anche americani e russi si erano dichiarati d’accordo. Il 19 maggio 1945, il presidente della Cecoslovacchia Edvard Benes proclamò: <<Abbiamo deciso di risolvere una volta per tutte il problema tedesco della nostra Repubblica>>. Le loro proprietà (esattamente come quelle degli ungheresi e di altri traditori) sarebbero state poste sotto il controllo dello Stato. Nel giugno 1945 vennero loro tolte le terre e, il 2 agosto dello stesso anno, anche la cittadinanza cecoslovacca. Nel corso dei successivi diciotto mesi furono rispediti in Germania quasi 3 milioni di profughi la maggior parte provenienti dalla regione dei Sudeti. Nel trasferimento morirono circa 267.000 persone [stima molto elevata, non accettata da tutti gli storici; molti studiosi avanzano cifre molto inferiori – n.d.r.]. Mentre negli anni Trenta i tedeschi avevano costituito il 29 per cento 56 IL GIORNO DEL RICORDO della popolazione della Boemia e della Moravia, nel 1950 si erano ridotti ad appena l’1,8 per cento. Dall’Ungheria ne furono espulsi 623.000, dalla Romania 786.000, dalla Iugoslavia circa 500.000 e dalla Polonia 1,3 milioni. Ma il numero maggiore arrivava dagli ex possedimenti orientali della stessa Germania: Slesia, Prussia, Pomerania e Brandeburgo orientali. […] L’Europa era stata ripulita della sua popolazione tedesca: come promesso nel settembre 1941, Stalin aveva riportato la <<Prussia orientale nella terra degli slavi, alla quale appartiene>>. (T. Judt, Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Milano, Mondadori, 2007, pp. 13 e 34-36 Traduzione di A. Piccato) L’ESPULSIONE DEI TEDESCHI DEI SUDETI I n Cecoslovacchia, la sconfitta delle armate naziste fu immediatamente seguita dall’espulsione forzata di circa tre milioni di tedeschi residenti nella regione dei Sudeti. In un incontro con Stalin del 16 dicembre 1943, Benes [presidente della Cecoslovacchia, prima dell’invasione tedesca – n.d.r.] affermò che intendeva risolvere il problema tedesco [ = il problema della presenza di tre milioni di tedeschi all’interno dei confini della Cecoslovacchia, concentrati soprattutto nella regione dei Sudeti – n.d.r.] una volta per tutte e creare uno Stato cecoslovacco libero da tedeschi e ungheresi: << La sconfitta della Germania ci 57 10 FEBBRAIO offre l’irripetibile occasione storica di espungere in modo radicale l’elemento tedesco dal nostro Stato. La futura repubblica dovrà essere uno Stato di cechi, slovacchi e carpazi ucraini. Dovrà essere uno Stato di nazioni slave. Dalla Cecoslovacchia dovrebbero essere cacciati a forza tutti gli insegnanti e i docenti tedeschi, i tipi alla SS, gli uomini della Gestapo, gli esponenti della gioventù hitleriana, tutti i membri attivi del movimento di Henlein [il capo del Partito tedesco dei Sudeti , sostenuto da Hitler - n.d.r. ] e l’intera borghesia tedesca, tutti i tedeschi ricchi. In questa e altre occasioni durante la guerra, Benes e i suoi consiglieri menzionarono la possibilità per alcuni tedeschi buoni di restare in Cecoslovacchia. Al termine del conflitto, tuttavia, nessun uomo o partito politico cecoslovacco poté resistere all’ondata montante del nazionalismo ceco antitedesco che gridava vendetta per gli insulti di Monaco, la perdita di sovranità e i terribili eventi della guerra stessa. [...] La propaganda del governo ceco alimentò deliberatamente i sentimenti antitedeschi nel paese. Il massacro di Lidice [località boema, vittima di una brutale rappresaglia, dopo l’uccisione a Praga di R. Heydrich, alto ufficiale delle SS e capo della Gestapo – n.d.r.] trovò vastissima eco sulla stampa. L’intero popolo tedesco è responsabile di Lidice, titolò un giornale. Certo, alcuni degli attacchi ai tedeschi erano fortemente interessati, dal momento che predatori cechi piombarono da altre regioni del paese per fare man bassa; ma la gran parte dei saccheggi fu perpetrata in nome dello Stato e del suo programma nazionalista. Un proclama del Partito comunista del 13 maggio 1945 incitava i suoi membri a <<ripulire la madrepatria dei responsabili di un 58 IL GIORNO DEL RICORDO tradimento senza uguali nella storia del nostro popolo!>>. Nel medesimo spirito di istigazione dei cechi alla violenza contro i tedeschi, il 18 agosto 1945 il Novo Slovo scrisse: <<Il tedesco è senz’anima, e le parole che capisce meglio sono – secondo Jan Masarik – le raffiche di un mitra>>. Prokop Drtina, leader del liberale Partito nazionalsocialista, [ ovviamente non ha nulla a che fare col partito di Hitler – n.d.r. ] dichiarò il 17 maggio 1945 che compito principale dei cechi era <<ripulire l’intera repubblica e in modo radicale dai tedeschi [...]. Ciascuno di noi deve contribuire a ripulire la madrepatria>>. Finanche la Chiesa cattolica ceca fece sentire la propria voce. Monsignor Bohumil Stasek, canonico di Vysehrad, dichiarò: <<Dopo mille anni è giunto il momento di regolare i conti con i tedeschi, che sono malvagi e per i quali il comandamento “Ama il prossimo tuo” non si applica>>. Imbevuti di un tal genere di propaganda, via via che l’esercito tedesco batteva in ritirata incalzato dall’avanzata sovietica, la milizia ceca (molti dei cui membri reclutati a Praga dopo l’insurrezione), gruppi d’azione comunisti e il cosiddetto esercito Svoboda invasero le aree tedesche e si scagliarono contro i civili, in strada o irrompendo nelle case, facendo ben poca distinzione tra tedeschi antifascisti, comuni contadini o simpatizzanti henleinisti. In un parossismo di violenza che lasciò sconvolti finanche esperti comandanti e funzionari politici sovietici, i cechi pestarono a sangue i tedeschi, li fucilarono, li obbligarono a svolgere lavori umilianti e pericolosi senza mai mostrare un briciolo di pietà nei loro confronti. I villaggi vennero messi a ferro e fuoco, la gente uccisa a casaccio; molti vennero appesi agli alberi a testa in giù, cosparsi di petrolio e bruciati vivi. Nel corso 59 10 FEBBRAIO di veri e propri pogrom, la milizia rastrellò città e villaggi sparando e uccidendo tedeschi all’impazzata. Migliaia di rifugiati tedeschi dei Sudeti documentarono in seguito molto accuratamente questi atti di brutalità gratuita, sebbene solo in pochissimi casi mostrassero di comprendere i motivi dei comportamenti dei cechi. [...] Il 30 maggio 1945, nel corso della famosa marcia della morte di Bruenn (Brno), l’intera popolazione tedesca, circa 300.000 persone, venne cacciata da casa propria e picchiata selvaggiamente durante la marcia verso i campi al confine con l’Austria. Circa 1.700 tedeschi morirono durante il tragitto. Secondo fonti dei tedeschi dei Sudeti, circa 272.000 tedeschi (circa l’8 per cento dell’intera popolazione tedesca in Cecoslovacchia) morirono durante le operazioni di sfratto coatto dalle loro case, ivi incluso l’altissimo numero di persone rientranti nella categoria degli scomparsi. Questa cifra è stata contestata dagli storici cechi e tedeschi, i quali la considerano fortemente esagerata e sostengono che solo un decimo di tale numero morì in conseguenza del trasferimento in Germania. La commissione storica cecotedesca di recente istituita, ad esempio, sostiene che il numero di vittime va dalle 19.000 alle 30.000 unità. [...] Le cifre dipendono spesso dal criterio di calcolo [...] e da come vengono considerati gli scomparsi. Il fattore più micidiale in assoluto fu la malattia: molti tedeschi perirono durante il viaggio o una volta giunti nella Germania occupata, stroncati da una varietà di malattie. Suicidi, inedia ed esposizione alle intemperie imposero anch’essi un prezzo altissimo. In altre parole, le cifre più basse indicano forse il numero dei tedeschi dei Sudeti assassinati e uccisi 60 IL GIORNO DEL RICORDO durante la deportazione, mentre quelle più alte includono quanti morirono per altre cause durante il processo di sfratto, detenzione, trasferimento e reinsediamento. (N. M. Naimark, La politica dell’odio. La pulizia etnica nell’Europa contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 135-137 e 141-142. Traduzione di S. Minucci) 61 i e guerre mondial du le tra ia av sl e Jugo l 1924). Il confine tra Italia 20 e di Roma de 9 1 l de llo pa Ra (Trattati di carta, a di Zara, fuori at lm da ttà ci la Anche l’Italia. viene annessa al Dimensione nazionale Il confine orientale italiano Italia e Jugoslavia nel primo dopo guerra N el momento in cui il governo italiano stipulò il Patto di Londra (26 aprile 1915), impegnandosi ad entrare in guerra con Francia e Gran Bretagna contro l’Austria-Ungheria, nessuno degli statisti europei credeva che una sconfitta austriaca avrebbe provocato la totale disgregazione dell’impero asburgico. Nel 1915, la prospettiva non era quella di una dissoluzione dell’entità multinazionale austro-ungarica e della sua sostituzione con una pluralità di Stati organizzati su base etnica. L’Italia, semplicemente, sperava in un arretramento dell’Austria-Ungheria verso est, in modo che regioni dominate fino ad allora dall’impero di Vienna passassero sotto amministrazione e controllo italiani. Per questo motivo l’Italia, nel Patto di Londra, non si limitò a rivendicare Trento e Trieste (regioni di cultura e tradizione italiane), bensì chiese per sé, in caso di vittoria, anche la Dalmazia (cioè la costa orientale dell’Adriatico), sebbene essa fosse abitata prevalentemente da slavi. Viceversa, il Patto di Londra non menzionava esplicitamente il porto di Fiume, sul cui destino dunque, prima della guerra, non si era deciso assolutamente nulla. Le prime difficoltà per il governo italiano nel dopoguerra sopraggiunsero nell’ottobre 1918: la città di Fiume, infatti, dichiarò la sua volontà di essere annessa al Regno d’Italia. Tale dichiarazione pose un grave problema di strategia diplomatica alla delegazione italiana alla Conferenza di pace di Parigi, spingendola ben presto in un vicolo cieco. Poiché l’impero austro-ungarico si era dissolto, e al suo posto erano sorti vari Stati nazionali (Jugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia, Austria, 63 10 FEBBRAIO Ungheria), le rivendicazioni italiane sulla costa adriatica (slava) perdevano ogni significato. La logica avrebbe voluto che l’Italia rinunciasse alla Dalmazia (in nome del principio di nazionalità) e, sulla base del medesimo criterio, si accontentasse di Trento, Trieste e Fiume. Invece, la delegazione italiana tenne un atteggiamento a un tempo rigido e ambiguo, chiedendo sia Fiume (in nome del principio di nazionalità), sia la Dalmazia (in nome del Patto di Londra). Di fronte alla netta opposizione degli Alleati (e, soprattutto, del presidente americano Wilson) il 24 aprile 1919 la delegazione italiana abbandonò Parigi in segno di protesta. Nella primavera del 1919, Gabriele D’Annunzio lanciò una formula destinata a colpire profondamente l’immaginazione degli italiani e, ancor più, quella degli ex-combattenti. Secondo il poeta abruzzese, quella ottenuta dall’Italia sarebbe stata una <<vittoria mutilata>>, cioè un grande trionfo che, a causa dell’egoismo e dello strapotere delle altre nazioni vincitrici, non avrebbe comunque portato alcun profitto reale in termini di allargamento territoriale e di rafforzamento di prestigio. D’Annunzio, però, non si limitò a coniare quel fortunato slogan. Il 13 settembre 1919, anzi, passò all’azione effettiva, ponendosi a guida di alcuni reparti dell’esercito che, dopo aver disobbedito agli ordini del governo italiano, si impadronirono militarmente di Fiume. Il 12 novembre 1920, il governo presieduto da Giovanni Giolitti trovò un accordo con la Jugoslavia (Trattato di Rapallo): l’Italia poté almeno annettersi l’Istria, mentre Fiume (che D’Annunzio fu obbligato ad abbandonare) fu dichiarata città libera. Anche se la situazione internazionale si era finalmente chiarita, il clima politico rimase teso. Nelle regioni che si affacciano sull’Adriatico settentrionale, infatti, la popolazione era tutt’altro che omogenea, con una percentuale di italiani e di slavi (sloveni o croati, a seconda delle zone) molto variabile nelle differenti 64 IL GIORNO DEL RICORDO aree. In molti casi (ma non sempre), le campagne erano abitate da contadini slavi, mentre i centri urbani presentavano una forte presenza italiana, che dava vita ad un vivace ceto borghese di imprenditori e commercianti; all’interno delle città, tuttavia, spesso esistevano sia importanti concentrazioni di operai italiani, sia nuclei molto attivi di borghesia slovena o croata. In Istria, infine, oltre al gruppo dei grandi proprietari terrieri, era ben radicato sul territorio anche un significativo gruppo di agricoltori italiani, che coltivavano piccoli fondi di loro proprietà. Dopo la guerra, tutta l’area di recente annessione sperimentò gravi problemi economici, provocati in primo luogo dalla perdita di prestigio e importanza strategica del porto di Trieste. Fino al 1914, esso era stato il principale sbocco sul mare di un vasto stato unificato, e quindi era stato un vivacissimo centro di importazioni ed esportazioni. Nel sistema economico italiano, al contrario, Trieste era periferica e del tutto ininfluente; mai come nel caso triestino, aspirazioni politiche ed interessi economici erano entrati in collisione in modo più clamoroso: da un lato, l’annessione allo stato unitario italiano era percepito da molti italiani come il coronamento del sogno risorgimentale; dall’altro, il collasso dell’impero asburgico e l’inserimento nello stato nazionale di riferimento danneggiarono in modo gravissimo i traffici commerciali e l’economia cittadina. Il nazionalismo italiano assunse presto, nelle nuove regioni annesse, tinte e sfumature estreme, al punto che Trieste vide il rapido sviluppo di un movimento fascista radicale, ferocemente antislavo (e denominato da alcuni storici fascismo di confine). Una delle prime azioni dello squadrismo organizzato, il 13 luglio 1920, portò alla distruzione del centro di ritrovo Casa della Nazione (Narodni Dom) - simbolo della presenza slava a Trieste – e dell’Hotel Balkan, situato nello stesso edificio. Dopo il 1924, quando il regime fascista si fu pienamente insediato, il governo fece proprio un orientamento già assunto dallo squa- 65 10 FEBBRAIO drismo locale e tentò di cancellare ogni traccia della presenza culturale slava. Tutte le associazioni slovene e croate furono sciolte, i giornali in lingua diversa dall’italiana vennero proibiti, mentre l’istruzione scolastica fu impartita solo nella lingua ufficiale. Infine, mentre i nomi delle località furono italianizzati fin dal 1923, dal 1927 scattò l’offensiva contro i cognomi stranieri (sostituiti d’ufficio con altri dal suono più italico), accompagnata dal divieto di porre ai propri figli nomi di battesimo slavi 66 IL GIORNO DEL RICORDO NAZIONALISMO E SQUADRISMO A TRIESTE NEL PRIMO DOPOGUERRA S e in Emilia Romagna e in altre zone dell’Italia la violenza fascista si indirizzò in prevalenza contro i socialisti, a Trieste e in altri centri vicini al confine con la Jugoslavia furono gli slavi il nemico anti-nazionale da abbattere e da schiacciare. Il fascismo nascente, però, fu considerato da molti soggetti istituzionali (primi fra tutti i militari) non come un movimento criminale, pericoloso per lo Stato liberale e per le sue istituzioni, bensì come un utile strumento capace di contrastare i sovversivi e i nemici della nazione. L’azione più clamorosa attribuibile al primo fascismo fu l’incendio a Trieste del Balkan, il 13 luglio del 1920, seguito agli incidenti di Spalato. Il centro dalmata [Spalato, appunto – n.d.r.] non era incluso nei compensi italiani previsti nel Patto di Londra. In ogni caso, l’ammiraglio Millo, appoggiato in ciò dal capo di stato maggiore della marina, l’ammiraglio Thaon de Revel, aveva fatto stazionare l’incrociatore Puglia nel porto spalatino, ritenendo, in questo modo, di rafforzare la posizione negoziale dell’Italia a Parigi. La presenza del Puglia venne registrata con notevole nervosismo dalla maggioranza croata di Spalato e venne a determinarsi una situazione di tensione tra l’equipaggio italiano e la componente nazionalista croata della popolazione. La tensione crebbe in seguito al manifesto appoggio di Millo e degli alti comandi della marina all’impresa fiumana, sfociata nell’illegale occupazione di Traù, sotto controllo delle truppe americane. In questa particolare atmosfera, la sera dell’11 luglio 1920, 67 10 FEBBRAIO alla vigilia del genetliaco di re Pietro di Jugoslavia, il capitano serbo Lovric teneva a Spalato un acceso comizio in chiave antitaliana. Gli incidenti ebbero origine dal gesto di due ragazzi che, secondo il rapporto del comandante statunitense Philipp Andrew, innalzarono nei pressi del Puglia una bandiera jugoslava. Due sottufficiali italiani sequestrarono la bandiera e la portarono sul Puglia. In seguito a ciò ci fu un assalto contro il locale frequentato dalla borghesia spalatine italiana con distruzione delle insegne. Due ufficiali del Puglia vennero aggrediti dalla folla e feriti. Un altro ufficiale, inviato con una lancia [= imbarcazione di piccole dimensioni – n.d.r.] a recuperare i commilitoni, venne coinvolto in scontri con armi da fuoco. Ci fu quindi un ulteriore spedizione dal Puglia sulla terraferma, nel tentativo di riportare a bordo gli ufficiali coinvolti negli scontri. Mentre erano in corso le trattative tra il capo della polizia di Spalato e il capitano Tommaso Gulli, una bomba esplose nel porto vicino alla sede della Jadranska Banka. La violenza dilagò: il capitano Gulli venne ucciso, due altri membri dell’equipaggio feriti gravemente, uno dei quali morì poco dopo. La bomba aveva fatto sulla riva diversi feriti e un morto. Si trattava di uno di quegli incidenti dalla dinamica oscura, frequenti nelle zone contese del primo dopoguerra, mai definitivamente chiariti e in cui assai verosimilmente giocava un ruolo non marginale la provocazione politica da parte di forze di intelligence più o meno ufficiali. È interessante rilevare che il governo italiano aveva perduto allora ogni controllo sulla situazione dalmata. Secondo il comandante Andrews, l’ammiraglio Resio, con cui ebbe un incontro dopo gli incidenti, era privo di istruzioni, sia da parte del governo che da parte di Millo, allora manifestamente dalla parte degli ammutinati di Fiume. 68 IL GIORNO DEL RICORDO Gli incidenti di Spalato venivano resi noti a Trieste il 13 luglio. Le forze nazionaliste convocavano un’assemblea pubblica in piazza Unità a cui partecipavano circa 2.000 persone. L’avvocato fascista Francesco Giunta arringava la folla con toni da grand-guignol [= macabri, cruenti – n.d.r.], incitando a far scorrere il sangue per vendicare Gulli. Nel corso del comizio venivano pugnalati due giovani in circostanze oscure. Uno di questi moriva sul colpo. Si gridava quindi all’ulteriore provocazione slava, in quanto il morto era ritenuto fascista. I più esagitati tra i dimostranti si dirigevano verso la sede della rappresentanza serba: la bandiera jugoslava era tolta dal balcone e calpestata dalla folla. Una cinquantina di persone si dirigeva poi verso il Balkan. Il Narodni Dom degli slavi di Trieste, inaugurato nel 1905, era un imponente edificio in stile Sezession, progettato dall’architetto Max Fabiani. Era dislocato nel centro cittadino, a simboleggiare e testimoniare la presenza slava fin nel cuore della città. Vi avevano sede le più importanti associazioni politiche e culturali, non solo slovene, ma anche ceche, croate e serbe. L’edificio prendeva il nome dall’albergo che ospitava (Balkan). Vi erano locati anche diversi studi di professionisti slavi e abitazioni private. Da un balcone dell’edificio una bomba veniva gettata sulla folla, ferendo in modo grave un tenente. Testimoni affermavano che la bomba era stata seguita da una fitta sparatoria sui manifestanti. Asseritamente [= secondo quanto asserisce, cioè sostiene, questa versione dei fatti – n.d.r.], i manifestanti e la forza pubblica (polizia e carabinieri, ma anche militari) davano alle fiamme l’edificio in seguito a tali atti. In realtà le testimonianze sull’accaduto sono reticenti e contraddittorie, non si trovarono prove 69 10 FEBBRAIO certe né della sparatoria, né dell’esistenza di un arsenale esplosivo che avrebbe dovuto trovarsi dentro l’edificio. A causa dell’assalto un padre e una figlia, ospiti dell’albergo, si gettarono dalla finestra per sfuggire alle fiamme. Il padre morì e la figlia rimase gravemente invalida. Tutta la vicenda continua a presentare diversi lati oscuri e la maggior parte degli storici propende per l’ipotesi della provocazione premeditata. Certo è che le devastazioni videro all’opera inedite forme di cooperazione tra militari e fascisti e segnarono una cesura nell’ascesa del fascismo al confine orientale: non solo i fasci erano ora l’elemento propulsivo della reazione violenta antislava e antisocialista, cui si accodavano militari, carabinieri e le stesse autorità civili. Essi erano riusciti anche ad acquisire una posizione di preminenza e a definire meglio la loro fisionomia rispetto alla nebulosa nazionalista delle origini. La giornata del 13 luglio 1920 vide altre devastazioni di proprietà slave, tutte avvenute alla presenza della forza pubblica che non ritenne di intervenire in alcun modo. […] Nei mesi successivi le azioni intimidatorie, compiute con l’appoggio dell’elemento militare, si moltiplicarono e si accrebbero di intensità. I fascisti arrivarono addirittura a sparare in una chiesa nel centro di Trieste contro un sacerdote colpevole di recitare alcune preghiere in sloveno. (M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale: 1866-2006, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 141-145) 70 IL GIORNO DEL RICORDO LA LOTTA DEL FASCISMO DI CONFINE CONTRO L’USO DELLE LINGUE SLAVE I l proclama seguente fu emesso dagli squadristi di Dignano, vicino a Pola, in Istria, nel 1921, per intimidire i croati. L’obiettivo della politica fascista era di cancellare la presenza culturale slava. In un’ottica nazionalista, quella italiana era l’unica vera forma di civiltà: giudicate barbare e inferiori, le altre culture dovevano riconoscere la superiorità di Roma, cederle il passo e, di fatto, scomparire. P.N.F. – Comando Squadristi – Dignano Attenzione! Si proibisce nel modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade di Dignano si canti o si parli in lingua slava. Anche nei negozi di qualsiasi genere deve essere una buona volta adoperata SOLO LA LINGUA ITALIANA Noi Squadristi, con metodi persuasivi, faremo rispettare il presente ordine. Gli Squadristi (R. Pupo, Il lungo Esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005, p. 160) 71 10 FEBBRAIO Repressione italiana e occupazione tedesca D opo l’occupazione italiana, in Slovenia si creò in breve tempo una forte guerriglia comunista, parallela a quella guidata da Tito in altre zone del paese. Nel 1941, alla fine di novembre, i partigiani erano già riusciti a compiere numerose azioni di sabotaggio contro treni, strutture ferroviarie, linee del telegrafo. Inoltre, a Lubiana, la popolazione spesso dava eloquenti segni di disapprovazione della presenza italiana, mediante l’abbandono concordato, ad una data ora, di tutte le strade e i locali. Riunitosi a Trieste, il Tribunale speciale italiano decretò nove condanne a morte e 666 anni di carcere a esponenti politici e a intellettuali sloveni: quattro di essi furono infine graziati da Mussolini, ma cinque sentenze capitali furono eseguite a Opicina, nei pressi di Trieste, il 15 dicembre. Dal gennaio 1942, man mano che la guerriglia si faceva più efficace e più pericolosa, l’esercito italiano fece ricorso a strumenti sempre più brutali, che vari storici definiscono coloniali. In pratica, ciò significava fucilazione di ostaggi, distruzione di villaggi e deportazione di tutti i sospetti in campi situati in Italia (il più importante divenne Gonars, in provincia di Udine) o nell’isola di Arbe (o Rab, nella Dalmazia settentrionale), tristemente famosa per le sue pessime strutture logistiche. Ad Arbe furono deportate diverse migliaia di persone: a causa del freddo e delle infezioni intestinali, solo nel settembre-ottobre 1942 ne morirono 209; in totale, secondo la stima dello storico Tone Ferenc, i decessi furono 1.400 (molti di più, secondo la valutazione di altri studiosi). In vari casi, le direttive e le pratiche antiguerriglia adottate assomigliano molto a quelle che i tedeschi applicarono sistematicamente in URSS, in Serbia e poi dal settembre 1943, perfino in Italia; l’impressione complessiva, però, è che le truppe italiane agissero spesso di malavoglia, 72 IL GIORNO DEL RICORDO senza condividere un preciso disegno imperialista o razzista. Giorgio Rochat – specialista di storia militare – dopo aver notato che il contingente italiano impegnato nei Balcani era un’imponente forza di 600-650.000 uomini, osserva acutamente che, pur essendo attivo un numero così alto di soldati, i diari e le opere di memoralistica pubblicati sono pochissimi; è un altro segno che questa guerra balcanica, fatta di rappresaglie e di fucilazioni, più che di azioni militari vere e proprie, fu vissuta con scarsa partecipazione dai soldati, che infine preferirono far dimenticare la loro esperienza, invece di renderla di pubblico dominio. Nel settembre 1943, il completo collasso dell’esercito italiano permise alle truppe di Tito non solo di impadronirsi di grossi quantitativi di materiale, armi e munizioni, ma addirittura di assumere il controllo dell’Istria. L’occupazione militare jugoslava fu accompagnata da una lunga serie di rappresaglie e di violenze, dirette nei confronti di tutti coloro che, in Istria, rappresentavano lo Stato italiano: carabinieri, insegnanti, messi comunali, impiegati postali… Alcune centinaia di queste persone (tra le 500 e le 700, a seconda delle stime) furono arrestate e uccise nei pressi di particolari cavità naturali carsiche, dette foibe, nelle quali infine furono gettati i loro cadaveri. Questa prima esplosione di violenza fu un’esperienza traumatica, per gli italiani residenti in Istria, una regione che fino ad allora non era stata toccata dalla guerriglia partigiana e dalle rappresaglie; pertanto, gli italiani si erano abituati a considerare innocui i contadini slavi e non si aspettavano un attacco così duro e così sistematico. L’intervento delle forze tedesche obbligò i partigiani di Tito a ritirarsi. I nazisti insediarono il loro comando a Trieste, all’interno della cosiddetta Risiera di San Sabba, un tetro edificio che in precedenza era servito per l’essiccazione del riso. In breve 73 10 FEBBRAIO tempo la risiera divenne un centro di transito per prigionieri destinati alla deportazione in Austria, in Germania o in Polonia e un luogo di esecuzione dei partigiani catturati. A guida dell’apparato repressivo tedesco furono posti Odilo Globocnik e i suoi più stretti collaboratori (ricordiamo ad esempio Christian Wirth e Franz Stangl), che fino a quel momento avevano diretto la cosiddetta Aktion Reinhard, cioè lo sterminio degli ebrei polacchi nei centri di Belzec, Sobibor e Treblinka. Nella Risiera di San Sabba transitarono circa 20.000 prigionieri: la maggioranza di essi fu deportata in campi di concentramento situati all’interno del Reich; tuttavia, è possibile che 3-4.000 persone siano state uccise all’interno del campo, che si era dotato di un proprio forno crematorio. Anche se si verificò il decesso di numerosi ebrei rastrellati (e in verità destinati alla deportazione), per la grande maggioranza i morti della Risiera furono partigiani e ostaggi croati e sloveni, che venivano per lo più impiccati, di notte. Sul confine orientale italiano (da loro ribattezzato Zona di operazioni del Litorale Adriatico), i tedeschi non dovettero confrontarsi mai, neppure a livello formale, con le autorità della Repubblica Sociale Italiana, in quanto le province di Udine, Trieste, Gorizia, Fiume, Pola e Lubiana furono sottratte alla sovranità italiana e di fatto incorporate nel Terzo Reich. In pratica, ignorando completamente le proteste di Mussolini, Hitler, come aveva già fatto in Polonia, anche in Italia si sforzò di cancellare completamente le conseguenze della disfatta degli Imperi centrali nel 1918. Libero di agire nel modo che riteneva più efficace, al fine di schiacciare l’azione delle forze partigiane Globocnik introdusse procedure di repressione violenta e indiscriminata, in tutto e per tutto simili a quelle adottate fin dal 1941 sul fronte orientale. Tuttavia, grazie alle risorse abbandonate dall’esercito italiano (e ai cospicui rifornimenti inglesi), i guerriglieri jugoslavi riuscirono a tener testa ai tedeschi fino all’arrivo dell’Armata Rossa, 74 IL GIORNO DEL RICORDO insieme alla quale entrarono a Belgrado il 20 ottobre 1944. Pochi giorni prima di questa vittoria, il leader comunista italiano Palmiro Togliatti si incontrò con alcuni delegati di Tito e decise di sostenerne pienamente la politica. Alla fine di dicembre, in nome del comune ideale comunista, i partigiani della brigata Garibaldi Natisone (forte di ben 2.000 uomini) passarono sotto il comando del IX corpus sloveno, che prendeva ordini dall’Esercito popolare di liberazione jugoslavo guidato da Tito 75 10 FEBBRAIO LA REPRESSIONE DELLA GUERRIGLIA IN SLOVENIA P resentiamo alcuni passi di un bando emanato dal generale Mario Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata, e datato 18 luglio 1942. Il bando offre concreta esemplificazione di una precedente ordinanza emanata dal Comando. I termini usati dai generali italiani sono spesso molto duri: le truppe, frequentemente, sono esortate ad essere spietate e a non lasciarsi prendere dai sentimenti. a) Le misure di cui al n. II e III dell’ordinanza debbono essere applicate con la massima energia e senza pietà. b) chi compia comunque atti di ostilità alle autorità o truppe italiane; chi venga trovato in possesso di armi, munizioni ed esplosivi; chi favorisce comunque i rivoltosi; chi venga trovato in possesso di passaporti, carta di identità e lasciapassare falsificati, deve essere passato per le armi. Non ammetto che gente colpevole di quanto sopra venga deferita ai tribunali od internata; deve essere soppressa. c) gli edifici da cui partano offese alle autorità e truppe italiane; gli edifici in cui vengano trovate armi, munizioni ed esplosivi o materiali bellici; le abitazioni i cui proprietari abbiano volontariamente dato ospitalità ai rivoltosi (e per logica conseguenza – ancora di più le abitazioni appartenenti a ribelli) debbono essere inesorabilmente distrutte. d) le misure di cui sopra non si applicano solo nella zona in cui operano le truppe mobili, ma nell’intera provincia di Lubiana. e) la misura ultima del n. II dell’ordinanza (<<...saranno passati per le armi... i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento – senza giustificato motivo – nella 76 IL GIORNO DEL RICORDO zona di combattimento>>) deve essere intesa nel modo seguente: 1) I maschi validi trovati, in qualsiasi atteggiamento, durante le azioni di combattimento, in aperta campagna, dall’avanti sino alla linea di schieramento delle artiglierie, non possono essere considerati (per ovvi motivi) che come ribelli o favoreggiatori dei ribelli. E pertanto saranno passati per le armi. 2) I maschi trovati in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, sempre quando non siano rei degli atti contemplati nei precedenti articoli del n. II della ordinanza, saranno tutti arrestati. Quelli fra essi che non siano del luogo saranno passati per le armi come quelli incontrati in aperta campagna. 3) Saranno pure arrestati i maschi validi che affluiscono in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, dopo la nostra occupazione. Quelli tra essi che non risulteranno del posto, o che non rientrino con le proprie famiglie (circostanza questa che giustificherebbe la loro assenza al momento della nostra occupazione) saranno passati per le armi. 4) La procedura di cui ai nn. 1-2 e 3 sarà eseguita anche nel caso che gli abitanti nel loro complesso accolgano favorevolmente le truppe. (E. Collotti, La seconda guerra mondiale, Torino, Loescher, 1985, pp. 110-111) 77 10 FEBBRAIO IL COMPORTAMENTO DELLE TRUPPE ITALIANE NEI BALCANI L ’occupazione italiana di alcune regioni della Jugoslavia e della Grecia fu brutale e spietata. Come nel caso delle colonie, gli italiani non furono affatto <<brava gente>>. Le procedure applicate per reprimere le azioni dei partigiani non sono molto diverse da quelle adottate dai tedeschi. Nella pratica della repressione, la fenomenologia e la tipologia delle azioni concrete previste e realizzate dalle forze italiane non furono diverse da quelle riscontrabili nella Wehrmacht, nelle forze delle SS e della polizia tedesca coinvolte in operazioni analoghe. Negli ordini emanati da autorità italiane per la lotta contro le bande partigiane e per spezzare l’appoggio della popolazione ai partigiani fu presente una vasta gamma di misure, comprendenti la presa di ostaggi, la distruzione e l’incendio di intere località, le rappresaglie sulle famiglie di semplici sospetti, lo sgombero di larghe zone abitate in determinate aree, il disboscamento di quelle considerate particolarmente ricettive per le formazioni partigiane, la deportazione di larghi nuclei della popolazione locale, la distruzione e il saccheggio del bestiame, l’impunità per gli eccessi compiuti. [...] Il tipo di repressione degli italiani nei Balcani (ma non in Francia) s’ispirò decisamente all’esperienza coloniale in Africa. Fu proprio nelle colonie che gli italiani sperimentarono repressioni, deportazioni e internamenti di massa. Ricordiamo che, in Etiopia, Mussolini impartì un <<salutare monito>> alle popolazioni autoctone, inviando un fonogramma nel quale impose che <<ogni civile o 78 IL GIORNO DEL RICORDO religioso, uomo o donna, sospetto di aver favorito l’attentato [contro le truppe italiane] doveva essere immediatamente fucilato senza processo e senza indugio>>. Il 5 giugno 1936 telegrafò in Etiopia che <<tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi>> e, un mese dopo, l’8 luglio, autorizzò <<a condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici>>, poiché <<senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile>>. [...] Per quanto riguarda la repressione nei territori jugoslavi è indispensabile fare riferimento alla ben nota circolare << 3C >> del 1° marzo 1942, concepita dal generale Mario Roatta, comandante della II Armata. Nelle pagine che seguono essa sarà esaminata come paradigma della normativa repressiva nei confronti delle popolazioni civili e punto di partenza della radicalizzazione della lotta antipartigiana. È fondamentale rilevare che fu redatta prima che il sistema d’occupazione fosse in uno stato di precarietà permanente a causa delle azioni dei partigiani. Il generale Roatta scrisse esplicitamente che la lotta in corso era di tipo coloniale e che bisognava impiegare, in forza massiccia, mezzi potenti anche contro obiettivi sproporzionati. Questo perché [...] la circolare non si limitò a descrivere i metodi necessari a mantenere l’ordine e a reprimere i primi e, tutto sommato, contenibili atti di ribellione organizzata, ma avrebbe dovuto servire anche determinati scopi politici. I metodi da applicare nella repressione oltrepassarono chiaramente le esigenze militari, le necessità di lotta, entrando nel campo della politica. L’internamento di massa e la politica della terra bruciata furono dettati dall’esigenza di <<sbalcanizzazione>> e di <<bonifica etnica>> e, 79 10 FEBBRAIO almeno per quanto riguarda i territori annessi, obbedirono allo scopo di un’imminente colonizzazione italiana. [...] Le località occupate furono distinte tra zone in situazione normale zone in situazione anormale (centri abitati e campagne dove erano in atto operazioni belliche contro formazioni armate ribelli). Nelle località in situazione anormale, l’autore della circolare ordinò l’internamento di tutte le famiglie da cui fossero mancati, senza chiaro e giustificato motivo, maschi validi d’età compresa fra i 16 e i 60 anni, avviandole ad altra sede. L’internamento di massa era una misura che il generale giustificò con la natura delle azioni dei ribelli. In ogni zona in situazione anormale si sarebbe designata la parte sospetta della popolazione e fra questa sarebbero stati tratti e mantenuti in arresto ostaggi che avrebbero risposto colla loro vita di aggressioni proditorie a militari, nel caso che non fossero stati identificati entro 48 ore gli aggressori. Gli abitanti di case prossime al punto in cui fossero stati attuati sabotaggi a linee ferroviarie, opere d’arte stradali, linee telefoniche e depositi di materiali militari, furono considerati corresponsabili dei sabotaggi stessi e, se trascorse 48 ore non fossero emersi i responsabili, essi sarebbero stati internati, il loro bestiame confiscato e le loro case distrutte. [...] Nel Rapporto di Gorizia del 31 luglio 1942, Mussolini <<benedisse>> la politica attuata in Slovenia e in Dalmazia: <<Io penso che sia meglio passare dalla maniera dolce a quella forte piuttosto che essere obbligati all’inverso. Si ha in questo secondo caso la frattura del prestigio. Non temo le parole. Sono convinto che al terrore dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali 80 IL GIORNO DEL RICORDO incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. Come avete detto [è riferito al generale Roatta], è incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. [...] Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze. [...] Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni. [...] Considerate senza discriminazione i comunisti: sloveni o croati, se comunisti vanno trattati allo stesso modo>>. (D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati-Boringhieri, 2003, pp. 398-405) IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI ARBE A lcuni degli episodi più gravi della violenza compiuta dagli italiani in Jugoslavia si svolsero in Slovenia. Allorché Mussolini decise di trasformare Lubiana in una provincia a tutti gli effetti italiana, migliaia di sloveni furono condotti nell’isola di Arbe e internati in un campo di concentramento. All’inizio dell’estate 1942, tra gli alti comandi militari italiani era ormai diffusa l’idea che fosse necessario compiere il “salto qualitativo” che avrebbe dovuto trasformare le deportazioni parziali in “sgombero totalitario” della popolazione della “Provincia di Lubiana”. Anche per questo sull’isola di Rab (per gli italiani Arbe), da poco tempo 81 10 FEBBRAIO annessa all’Italia, si stava predisponendo un enorme lager che avrebbe dovuto accogliere 16.000 internati. L’occasione per la presentazione al duce dell’imponente programma di deportazione fu data dal summit politico-militare tenutosi il 31 luglio 1942 a Gorizia. In quella occasione, parlando alla folla dal palazzo del Comando militare, Mussolini dichiarò apertamente guerra alla popolazione slovena, minacciandola di deportazione e di sterminio. Poco dopo il generale Robotti riferiva agli ufficiali che il progetto era stato superiormente approvato e che, quindi, si sarebbe dovuto “allargare il più possibile la macchia d’olio del dominio italiano”, avviando “tutti gli uomini validi” nel campo di concentramento di Arbe. [...] La realizzazione del campo di Arbe era stata intrapresa alla fine di giugno del 1942 con l’allestimento, su un terreno paludoso in località Kampor, di una tendopoli capace di “alloggiare” 6.000 internati. Altri settori (complessivamente ne erano previsti quattro, oltre al cimitero), costituiti da baracche e capaci di accogliere altre 10.000 persone, dovevano essere realizzati prima del sopraggiungere della stagione invernale. I civili deportati ad Arbe non furono sottoposti al lavoro obbligatorio; tuttavia la fame, le pessime condizioni igienico-sanitarie, il dormire sotto piccole tende a contatto col nudo terreno e la mancanza di qualsiasi tutela internazionale, resero la loro prigionia estremamente penosa. Secondo i dati forniti dal Supersloda, dall’apertura del campo sino alla metà di dicembre del 1942, erano già morti 502 deportati. Il nunzio papale presso il governo italiano, Monsignor Francesco Borgognini Duca, che pure visitò quasi tutti i campi di internamento della penisola, per i rischi connessi 82 IL GIORNO DEL RICORDO ad un eventuale lungo viaggio da Roma al golfo del Quarnero, non si recò dagli internati di Arbe. Lo fece, invece, monsignor Giuseppe Srebrnic, vescovo della vicina isola di Veglia (Krk), che rimase estremamente impressionato da quanto visto. <<Ad Arbe, nel territorio della mia diocesi, ove all’inizio del mese di luglio 1942 si aprì un campo di concentramento nelle condizioni più miserabili che si possono immaginare – scriveva il prelato il 5 agosto 1943 -, morirono fino al mese di aprile dell’anno corrente, in base agli esistenti verbali, più di 1.200 internati; però testimoni vivi ed oculari, che cooperavano alle sepolture dei morti, affermano decisamente che il numero dei morti per il detto periodo ammonta almeno a 3.500, più verosimilmente a 4.500 e più...>>. La storiografia jugoslava ha definito <<di sterminio>> il campo fascista di Arbe; quella italiana, invece, avendolo quasi completamente ignorato, non si è posta alcun problema di definizione. Di fatto, i deportati vi cominciarono a morire numerosi già nell’ottobre 1942, e il tasso di mortalità andò aumentando sino al gennaio dell’anno successivo. Il fatto che, sin dall’inizio, vi fosse stato predisposto un ampio terreno per le sepolture (gli internati del campo lo definirono <<quinto settore>>), dimostra, ad ogni modo, che un’alta mortalità tra i prigionieri rientrava tra le previsioni dell’Esercito italiano. Da regolamento, il vitto avrebbe dovuto garantire ad ogni deportato 1.000 calorie al giorno; di fatto, però, esso ne offriva meno della metà. Particolarmente grave fu la condizione delle partorienti, che molto frequentemente diedero alla luce bambini già morti. All’inizio di novembre 130 internati avevano un’età inferiore ai dieci anni, e nel 83 10 FEBBRAIO volgere di un mese il numero dei minorenni aumentò ad alcune centinaia. La notte del 29 ottobre 1942, nel corso di un violento nubifragio, un vicino torrente inondò il campo e spazzò via moltissime tende. Negli ultimi mesi dell’anno, tra i deportati di Arbe la mancanza di cibo era così grave e diffusa che anche i giovani in pieno vigore fisico subivano in poco tempo il dimezzamento del proprio peso corporeo: centinaia di figure scheletriche, sfinite dalla fame si trascinavano quotidianamente per il campo nell’improbabile ricerca di qualcosa da poter mangiare. (C. S. Capogreco, <<Internamento e deportazione dei civili jugoslavi (1941-’43)>>, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 149-151) TOGLIATTI, TRIESTE E I COMUNISTI JUGOSLAVI A lla metà di ottobre del 1944, il leader comunista italiano Palmiro Togliatti incontrò Edvard Kardeli e altri due dirigenti comunisti jugoslavi. Qualche giorno più tardi, il 19 ottobre, Togliatti comunicò a Vincenzo Bianco, un altro dirigente del partito, le decisioni prese durante quella riunione. Nel testo, Togliatti esprime giudizi molto pesanti sulle prospettive politiche che gli inglesi – a suo giudizio – avrebbero imposto all’Italia dopo la fine della guerra. A suo giudizio, pertanto, per Trieste e la Venezia Giulia, sarebbe stato meglio passare sotto sovranità jugoslava. In questa circostanza, nella valutazione politica del leader comunista, l’idea di nazione (e, quindi, il principio della italianità di Trieste) fu completamente 84 IL GIORNO DEL RICORDO subordinato al principio marxista dell’internazionalismo proletario. 1) Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. Questo infatti significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell’Italia, si creerà una situazione democratica, in cui sarà possibile distruggere a fondo il fascismo e organizzare il popolo tanto per la continuazione della guerra contro gli invasori tedeschi, quanto per la soluzione di tutti i suoi problemi vitali. 2) Il nostro Partito deve partecipare attivamente, collaborando con i compagni jugoslavi nel modo più stretto, alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito (e anche prima di questa liberazione) e in cui esista una popolazione italiana, attraverso i suoi rappresentanti democraticamente scelti, agli organi di potere popolare che si creeranno in queste regioni. Esso lavorerà e lotterà per evitare che sorgano conflitti tra la popolazione italiana e le popolazioni slave, e per ottenere che italiani e slavi collaborino nel modo più stretto alla soluzione dei compiti comuni immediati dei due popoli, che sono: la sconfitta tedesca definitiva, la distruzione del fascismo e la creazione di un regime democratico e progressivo. 3) Questa direttiva vale anche e soprattutto per la città di Trieste. Noi non possiamo ora impegnare una discussione 85 10 FEBBRAIO sul modo come sarà risolto domani il problema di questa città, perché questa discussione può oggi soltanto servire a creare discordia tra il popolo italiano e i popoli slavi. Quello che dobbiamo fare è, d’accordo con i compagni slavi e nella particolare situazione che si sta creando in quella regione, portare il popolo di Trieste a prendere nelle sue mani la direzione della vita cittadina, garantendo che alla testa della città vi siano le forze democratiche e antifasciste più decise e disposte alla collaborazione più stretta con il movimento slavo e con l’esercito e l’amministrazione di Tito. I nostri compagni devono comprendere e fare comprendere a tutti i veri democratici triestini che una linea diversa si risolverebbe, di fatto, in un appello alla occupazione di Trieste da parte delle truppe inglesi con tutte le conseguenze che ciò avrebbe (cioè: disarmo dei partigiani, nessuna misura seria contro il fascismo, instaurazione di un’amministrazione reazionaria, nessuna democratizzazione, ecc.)… 4) Dovete reclutare nel modo più largo operai, contadini, intellettuali italiani nelle unità partigiane le quali, mantenendo il loro carattere nazionale, faranno parte integrante dell’esercito di Tito. Questo, tra l’altro, è il solo mezzo che permetta il disarmo di queste unità dopo la cacciata dei tedeschi. 5) Il Partito è tenuto, in tutta l’Italia settentrionale e in tutte le regioni già libere, a sviluppare un’ampia campagna di solidarietà e per la collaborazione più stretta coi popoli della Jugoslavia e col loro governo ed esercito nazionale, popolarizzando [= divulgando tra le masse popolari – n.d.r.] le conquiste democratiche di questi popoli, il carattere nuovo del potere che essi hanno creato e soprattutto insistendo sulla necessità della permanente amicizia tra il popolo 86 IL GIORNO DEL RICORDO italiano e i popoli slavi… 6) Per quanto riguarda il futuro, dimostrare che la nostra politica di collaborazione più stretta coi popoli della Jugoslavia nel momento presente crea le condizioni in cui tutte le questioni che possano esistere e sorgere tra l’Italia e la Jugoslavia potranno essere risolte in conformità con gli interessi dei due Paesi e con la volontà popolare, su una base democratica e di stretta collaborazione, anche per l’avvenire, nell’interesse comune di due Paesi che non vogliono più essere la vittima e la preda di nessun imperialismo. (P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. 8. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 437-438) 87 10 FEBBRAIO Trieste, Tito e le foibe I l 7 febbraio 1945, a Porzus, un gruppo di comunisti uccise una ventina di partigiani democratico-cristiani della brigata Osoppo, dopo averli accusati di tradimento. Questo scontro tra cattolici e comunisti in Venezia Giulia è il sintomo, a livello locale, della situazione che di lì a poco si sarebbe creata a livello internazionale: venuto meno il comune nemico, l’alleanza antinazista si sarebbe immediatamente sgretolata e avrebbe lasciato il posto a relazioni sempre più fredde e ostili tra americani e sovietici. Inoltre, l’eccidio di Porzus può essere considerato come il preludio di una serie ancora più grave di violenze, che furono compiute nei confronti degli italiani nell’area di Trieste, allorché i partigiani comunisti jugoslavi riuscirono a riconquistare l’intera Istria e ad entrare nel capoluogo giuliano, prima degli Alleati (1° maggio). Tito era un comunista convinto, ma era animato anche da un marcato nazionalismo slavo, e pertanto riteneva necessario allargare i confini della nuova Jugoslavia che stava costruendo; al confine italiano, non nascose mai il proprio obiettivo di annettere l’intera Venezia Giulia, spostando la frontiera con l’Italia al fiume Tagliamento. Nelle aree occupate, le violenze del 1943 si ripeterono su scala ancora maggiore, in modo da eliminare tutti coloro che potessero ostacolare o contrastare il controllo slavo della Venezia Giulia. Per la seconda volta, i cadaveri della maggioranza degli italiani uccisi furono gettati nelle foibe: e poiché esse erano spesso usate, dalla gente del luogo come discariche, questo comportamento assunse anche un potente significato simbolico. È difficile fornire un bilancio preciso di questi massacri, finalizzati ad imporre con la violenza, in regioni tradizionalmente italiane, il nuovo ordine politicosociale, a un tempo slavo e comunista. Allo stato attuale degli studi, pare corretto parlare di 4-5.000 vittime per il periodo 88 IL GIORNO DEL RICORDO compreso tra l’occupazione jugoslava (1° maggio) e l’ingresso a Trieste delle truppe inglesi (12 giugno 1945). L’operazione di repressione travolse centinaia di militari della RSI, ma anche, più in generale, chiunque apparisse una minaccia per il potere comunista jugoslavo. Pertanto, furono colpiti anche numerosi antifascisti italiani, che avevano combattuto contro i tedeschi, ma ora – a guerra finita – rifiutavano il progetto annessionista di Tito. Insieme agli esponenti della borghesia giuliana, anch’essi furono dichiarati reazionari e nemici del popolo, e di conseguenza giustiziati in modo sommario. L’obiettivo, comunque, non era di ripulire l’intera area contesa da qualsiasi presenza italiana. Anzi, nel 1947, un gruppo di 2.000-2.500 operai provenienti da Monfalcone e da altri centri della valle dell’Isonzo, furono accolti con grande entusiasmo, allorché decisero di trasferirsi a Fiume. Ovviamente, il fatto che essi fossero di nazionalità italiana passava in secondo piano rispetto ad altri due elementi decisivi: non erano di estrazione borghese e, soprattutto, erano comunisti convinti, affascinati dall’idea di poter vivere in un paese che aveva lasciato alle proprie spalle il capitalismo. Come scrive R. Pupo, l’avventura di questi operai italiani (che avevano <<abbandonato la patria della nazione per quella del socialismo e finirono per ritrovarsi senza l’una né l’altra>>) si concluse in un <<cimitero di illusioni>>. Nel 1948, infatti, Tito entrò in contrasto con Stalin, dopo aver lanciato l’idea di dar vita ad una federazione balcanica che comprendesse anche la Bulgaria e l’Albania. Poiché il dittatore russo vide in questa proposta una sfida alla completa egemonia che, nella sua concezione, l’Unione Sovietica doveva esercitare su tutti i partiti e gli Stati comunisti, il 28 giugno 1948, il partito comunista jugoslavo venne espulso dal Cominform, la nuova versione dell’Internazionale comunista sorta poco tempo dopo la guerra. Per circa trent’anni, la Jugoslavia si trovò in una posizione stra- 89 10 FEBBRAIO na e difficile: in quanto repubblica comunista, era guardata con sospetto dagli Stati Uniti; nel medesimo tempo, rifiutava di allinearsi, cioè di sottomettersi, alla potenza sovietica. Questa situazione permise a Tito di cementare l’unità di un paese diviso e poco omogeneo. L’insistenza sul marxismo (con il suo motto <<Proletari di tutto il mondo unitevi!>>) permetteva di dare scarsa rilevanza alle varie nazionalità che esistevano sul territorio jugoslavo e che spesso erano in contrasto tra loro da lungo tempo. In secondo luogo, il pericolo di uno scontro armato (sia con le potenze capitalistiche sia con l’URSS) permetteva di insistere sull’unione, sulla concordia interna, per la sopravvivenza comune. Tito comunque, che era croato, conosceva bene il nazionalismo dei serbi: anzi, poiché lo temeva, prese una serie di misure finalizzate a contenerlo. Innanzi tutto, la nuova Repubblica di Jugoslavia fu costruita su base federale e organizzata in sei repubbliche (Slovenia, Croazia, BosniaErzegovina, Macedonia, Serbia e Montenegro). La Serbia, poi, fu notevolmente indebolita, quanto a estensione territoriale, in quanto perse la Macedonia (costituita in repubblica separata) e il Kosovo (dichiarato nel 1974 provincia autonoma). Le cariche pubbliche e di partito, invece, furono distribuite in modo equo, senza privilegiare alcuna nazionalità. Le rivendicazioni serbe emersero subito dopo la morte di Tito (1980) e si fecero sempre più acute nel corso degli anni seguenti. Man mano che la situazione economica, in Jugoslavia come in tutti gli altri paesi comunisti, si faceva sempre più critica, in Serbia ripresero vigore le vecchie ambizioni egemoniche. Il 28 giugno 1989, il leader nazionalista serbo Slobodan Milosevic annunciò la revoca dell’autonomia del Kosovo. Per reazione, in Slovenia e in Croazia - regioni settentrionali, più sviluppate dal punto di vista industriale - si fece strada l’idea di una secessione dalle più arretrate repubbliche del Sud (Serbia, Montenegro, Bosnia, Macedonia). Il 25 giugno 1991, Slovenia e Croazia dichiararono 90 IL GIORNO DEL RICORDO la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. Le due regioni, però, erano molto diverse tra loro, in quanto la Slovenia era più omogenea della Croazia sotto il profilo etnico: in pratica, entro i propri confini ospitava solo una piccola minoranza, formata dai pochi italiani che non erano fuggiti nel 1947. In Croazia, invece, si trovavano moltissimi serbi, che oltre tutto furono quasi subito oggetto di discriminazione. Costoro quindi (appoggiati e sostenuti dall’esercito della Repubblica di Serbia) si organizzarono in formazioni armate, per ottenere a loro volta l’indipendenza dalla Croazia, dando inizio ad una sanguinosa guerra che durò fino al 1995 91 10 FEBBRAIO LE FOIBE R iportiamo due testimonianze relative alla tragica vicenda delle foibe, verificatasi in Istria e nella zona di Trieste. Il primo testo consiste nella dichiarazione rilasciata agli angloamericani da un maresciallo dei vigili del fuoco, incaricato di recuperare dalla foiba istriana di Vines i corpi delle persone uccise nel settembre 1943. Il secondo passo riguarda invece il pozzo minerario di Basovizza, vicino a Trieste: si tratta di un rapporto steso dagli Alleati, sulla base di interviste e testimonianze raccolte nell’estate del 1945. LA FOIBA DI VINES 16 ott. ’43 – Foiba di Vines Esplorata in mattinata la foiba di Cregli i cui lavori devono essere sospesi perché la corda disponibile non basta per raggiungere il fondo, il personale designato dall’Autorità provinciale di Pola si reca nei pressi di Vines, alla foiba denominata <<dei colombi>> ove, secondo la denunzia di tale Monti da Albona, vi sarebbero dei cadaveri. Iniziano immediatamente i lavori, organizzati come segue: PERSONALE: Maresc. Harzarich caposquadra Vigile Prinz Giuseppe Vigile Biluccaglia Giordano Vigile Dellore Giovanni Vigile de Angelini Mario Tutti del 41° Corpo VV.FF. di Pola. 92 IL GIORNO DEL RICORDO SCORTA Per tema [= timore – n.d.r.] di attacchi da parte dei partigiani, ogni spedizione del genere ha una scorta armata che nella presente è rappresentata da 25 uomini forniti dalla PS [Pubblica Sicurezza – n.d.r.] di Pola. [...] OPERAZIONE Terminata l’impalcatura [...] il Mar. Harzarich scende. Alla profondità di 66 metri, sopra un piano fortemente inclinato, trova alcuni indumenti di vestiario maschili e femminili e due salme che vengono immediatamente portate alla luce. Il direttore delle Miniere Carbonifere dell’ARSA, presente, riconosce i due per: 1.Stossi Bruno, di Giovanni, di anni 39, elettricista da Pola, operaio nelle miniere dell’ARSA [...] 2.Chersi Mario, fu Andrea, capo Operaio nelle miniere dell’ARSA, da Albona. [...] Il giorno successivo, il riconoscimento delle salme viene confermato dai famigliari accorsi. L’interrogato [Harzarich stesso, che sta descrivendo agli angloamericani l’operazione di recupero delle salme – n.d.r.] non è in grado di fornire particolari sulle eventuali colpe dei due che hanno indotto i partigiani slavi a prelevarli nelle loro case nella prima quindicina del settembre 43, per gettarli nell’abisso. I polsi dei disgraziati sono legati con filo di acciaio stretto da pinze. I corpi fissati, spalla contro spalla, da un altro cavo d’acciaio lungo circa 20 mt. e dello spessore di 5/6 mm. Il lavoro viene sospeso a sera. 93 10 FEBBRAIO 17 ott. ’43 I lavori riprendono di buon mattino Con materiale e personale messo a disposizione dalla direzione delle miniere dell’ARSA, viene costruita un’impalcatura più idonea [...], dopodiché l’Harzarich scende a 146 metri per trovare un secondo piano. La visione è delle più macabre: il piano è pieno di cadaveri. (R. PUPO – R. SPAZZALI, Foibe, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 52-54) LA FOIBA DI BASOVIZZA N ell’area di Basovizza una cavità, chiamata Pozzo della Miniera, fu usata dai partigiani jugoslavi, in particolare tra il 3 e il 7 maggio 1945, per l’eliminazione di numerosi italiani. Tre testimoni oculari hanno dichiarato che gruppi da 100 a 200 persone sono stati precipitati o fatti saltare di sotto. Le vittime dovevano saltare oltre l’apertura della foiba (larga circa dodici piedi) e veniva detto loro che avrebbero avuto salva la vita se ce l’avessero fatta. I testimoni riferiscono che, sebbene qualcuno fosse riuscito nel salto, più tardi fu ugualmente fucilato e scaraventato di sotto. Si dice che un commissario [= funzionario del partito comunista, che accompagnava le forze armate – n.d.r.] jugoslavo abbia dichiarato che più di 500 persone sono state precipitate nel pozzo ancora vive. Successivamente sono stati gettati dentro i corpi di circa 150 tedeschi uccisi in combattimento nei dintorni, e così pure 94 IL GIORNO DEL RICORDO circa 15 cavalli morti. Nella cavità furono poi gettati degli esplosivi. La verità di queste affermazioni fu confermata durante una chiacchierata con alcuni bambini del posto: una di loro, dopo aver descritto quello che aveva visto, aggiunse compiaciuta <<e in che modo i fascisti urlavano>>. Una donna anziana, parlando delle esecuzioni, affermò che, dal suo punto di vista, era stato un vero peccato sprecare dei vestiti così buoni e che avrebbero dovuto far spogliare i fascisti prima di precipitarli di sotto. (R. PUPO – R. SPAZZALI, Foibe, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 72) LA VIOLENZA CONTRO GLI ITALIANI NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA È difficile operare un confronto tra le violenze operate contro gli italiani nel 1945 e altre azioni di pulizia etnica o di brutale riorganizzazione della fisionomia della popolazione che viveva in un territorio. In linea di principio, gli jugoslavi erano disposti a tollerare la presenza di nuclei di italiani: tuttavia, questi avrebbero dovuto sottomettersi completamente ai progetti di riorganizzazione sociale previsti dal regime e accettare passivamente l’annessione alla Jugoslavia di Trieste e dell’Istria. Gli jugoslavi arrivarono nella Venezia Giulia con un progetto ben preciso, a differenza degli anglo-americani, che vi giunsero principalmente sull’onda di valutazioni di ordine militare. Era un progetto che saldava in maniera inestricabile motivazioni nazionali e ideologiche; era 95 10 FEBBRAIO compiutamente totalitario, perché ambiva a controllare tutti gli aspetti della realtà locale, ed era rivoluzionario. Fu questo progetto a costituire la base dei comportamenti repressivi tenuti dalle autorità jugoslave nella primavera-estate del 1945 nell’area giuliana, per designare i quali, come per le stragi dell’autunno 1943, viene comunemente usata l’espressione foibe. Una dizione questa, non va dimenticato, da intendersi principalmente nel suo significato simbolico, dal momento che buona parte delle vittime delle uccisioni di massa (probabilmente alcune migliaia) non trovò la morte nelle cavità carsiche, ma in circostanze diverse o durante la prigionia. L’ondata di violenze coprì tutta la regione, e in Istria apparve come una brutale ripresa della logica di sangue interrotta nell’ottobre 1943. Tuttavia, arresti e uccisioni si concentrarono questa volta [= nel 1945 - n.d.r.] soprattutto nei centri urbani, che due anni prima ne erano rimasti immuni in quanto prontamente occupati dai tedeschi, e in particolare a Trieste e nel Goriziano. Quanto ai fatti, basterà qui ricordare che appena cessarono i combattimenti tra le truppe jugoslave e quelle nazifasciste, centinaia di militari della RSI caduti prigionieri dei soldati di Tito furono passati per le armi (lo stesso accadde anche ai tedeschi) e migliaia di altri furono avviati verso i campi di prigionia, dove fame, violenze e malattie mieterono un gran numero di vittime. Contemporaneamente, le autorità jugoslave diedero il via a un’ondata di arresti che seminò il panico nella popolazione italiana. Parte degli arrestati venne subito eliminata, molti di più vennero deportati in campi diversi da quelli in venivano concentrati i militari, ma il cui trattamento non era certo migliore. Obiettivo delle violenze furono le persone più diverse, 96 IL GIORNO DEL RICORDO accomunate dal fatto di costituire una minaccia per il potere. Furono colpiti membri dell’apparato repressivo nazifascista, quadri del fascismo e in particolare dello squadrismo giuliano, elementi collaborazionisti (italiani e slavi), ma anche partigiani italiani che non accettavano l’egemonia del movimento di liberazione jugoslavo e alcuni esponenti del CLN giuliano, insieme a sloveni anticomunisti e a molti cittadini privi di particolari ruoli politici, ma di chiaro orientamento filoitaliano e anticomunista. A parte i casi evidenti di giustizia sommaria, sia gli arresti che le eliminazioni non avvennero tanto sulla base delle responsabilità personali quanto dell’appartenenza, mirando, più che a punire colpevoli, a mettere in condizione di non nuocere intere categorie di persone considerate pericolose. La repressione quindi, più che giudiziaria, fu politica, una sorta di epurazione preventiva diretta a eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, al progetto del nuovo potere: un progetto che era al tempo stesso nazionale e politico, dal momento che consisteva nell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista. Nel 1945 dunque, nei grandi entri urbani come Trieste, Gorizia, Pola e Fiume non si ebbero in genere forme di violenza spontanea da parte della popolazione slava contro quella italiana, bensì una repressione dall’alto, anche se essa si verificò in un clima di resa dei conti per le violenze del fascismo e della lotta antipartigiana. Ancora una volta, più confusa invece fu la situazione in Istria. In ogni caso, protagonista dell’azione di sangue fu un movimento rivoluzionario che si affermava con i modi propri delle rivoluzioni e che, nel momento in cui conquistava il potere, si trasformava in un regime di tipo stalinista, convertendo 97 10 FEBBRAIO in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani. […] Sia il disegno complessivo di cui i comunisti jugoslavi erano portatori (e cioè la presa del potere), che gli strumenti utilizzati per realizzarlo (la violenza rivoluzionaria) non differivano sostanzialmente da quelli messi in atto nel resto della Jugoslavia. Il significato però che essi assunsero nella Venezia Giulia fu ovviamente in parte diverso, perché si trattava di un’area a nazionalità mista, appartenente ad altro Stato e oggetto di rivendicazione. Nell’Istria come a Fiume, a Trieste come a Gorizia, nella primavera del 1945 per le autorità jugoslave il problema principale non era quello di eliminare sic et simpliciter gli italiani, ma di ripulire il territorio da tutti i soggetti che potevano mettere in discussione la saldezza del nuovo dominio e incrinare l’immagine di compattezza della partecipazione popolare agli obiettivi dei nuovi poteri. […] Sloveni e croati non vennero trattati meglio degli italiani, quando si trovarono sospettati di non aderire al nuovo ordine; ma il punto è che gli italiani accusati di tale crimine, e quindi perseguitati e, assai spesso, liquidati, furono nell’area giuliana infinitamente di più. Ciò avvenne per molteplici ragioni, ma soprattutto per una motivazione strutturale: fra gli sloveni e i croati le parole d’ordine annessioniste fatte proprie dal movimento di liberazione jugoslavo avevano consentito di superare in larga misura la diffidenza nei confronti dei comunisti […]. Al contrario, il rifiuto delle rivendicazioni territoriali jugoslave, che riproponevano in toto le tradizionali richieste del nazionalismo sloveno e croato, era patrimonio comune della popolazione italiana, comprese le forze antifasciste, a esclusione – non senza qualche perplessità – della componente comunista. Dal punto di vista dei nuovi 98 IL GIORNO DEL RICORDO poteri quindi, nei confronti della popolazione non slava la pulizia doveva essere assai più larga, dal momento che, se anche essere etnicamente italiani di per sé non veniva considerato una colpa, essere politicamente filoitaliani lo era senz’altro. […] Da parte della dirigenza jugoslava, il gruppo nazionale italiano della Venezia Giulia era ritenuto nella sua globalità, se non automaticamente nemico, perlomeno altamente sospetto, a meno che i suoi membri non fossero in grado di dimostrare il contrario con la militanza nel movimento di liberazione jugoslavo. (R. Pupo, Il lungo Esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 98-102) LA VICENDA DELLE FOIBE: UN INQUIETANTE NODO STORIOGRAFICO P er molti anni, i crimini compiuti dai partigiani jugoslavi in Istria e in Venezia Giulia sono stati ignorati o minimizzati dalle sinistre italiane. Altrettanto scorretta, tuttavia, fu la strumentalizzazione delle foibe effettuata a lungo dai neo-fascisti, che si servirono delle atrocità comuniste per far dimenticare tutte le violenze commesse, a Trieste, in Istria e in Slovenia, prima dagli squadristi e poi dall’esercito italiano. Quella delle foibe è una vicenda complessa: un microcosmo che riassume tutte le tragiche contraddizioni del Novecento. Nulla sarebbe più sbagliato del credere che delle foibe si sia cominciato a parlare solo di recente. Al contrario, l’argomento è stato frequentissimo, non solo nella 99 10 FEBBRAIO pubblicistica [= sui giornali e, più in generale, sulla stampa destinata ad un vasto pubblico – n.d.r.], che nel corso di un cinquantennio ha dedicato al problema un vero diluvio di interventi, ma anche nella storiografia, seppur in misura nettamente minore. Piuttosto, c’è da chiedersi come mai i contributi sul tema delle foibe abbiano trovato un’enorme difficoltà a uscire da ambiti molto circoscritti: essenzialmente quello locale giuliano e quello, del tutto speciale, degli esuli giuliano-dalmati. Per tentare una risposta, conviene partire dalla constatazione che scarso interesse a livello nazionale non è stato suscitato solo dal dramma delle foibe ma, più in generale, da quasi tutte le vicende legate alla storia della frontiera orientale italiana dopo la prima guerra mondiale. [...] Dietro tali rimozioni incrociate sta probabilmente il fatto che la storia del confine orientale per un verso ha potentemente favorito la nascita di veri e propri miti politici e storiografici, per l’altro, se rigorosamente investigata, offre pure tutti gli elementi per mettere in crisi quei medesimi miti, oramai consolidatisi nelle diverse culture politiche del nostro paese. Ciò vale, per esempio, per il mito del buon italiano, che può uscire alquanto ridimensionato dalla conoscenza critica delle esperienze di occupazione italiane nei territori ex jugoslavi, oppure per quello dell’innocenza della classe dirigente italiana della Venezia Giulia e soprattutto di Trieste nei confronti del potere germanico nel biennio 1943-1945, se si tiene conto della rete di silenzi e complicità di cui i nazisti poterono avvalersi per portare a compimento il loro disegno di morte. Ma ombre tutt’altro che lievi non possono che addensarsi anche sul mito del Movimento di liberazione jugoslavo, a lungo considerato un esempio per tutti i 100 IL GIORNO DEL RICORDO movimenti resistenziali europei, di fronte all’osservazione delle violenze di massa – come, appunto, quella delle foibe – attraverso le quali esso raggiunse i suoi obiettivi, e cioè l’indipendenza del paese, l’annessione di territori rivendicati ai confini e la costruzione del comunismo: passaggi tutti di un progetto rivoluzionario che avrebbe condotto alla formazione di un regime stalinista, anche se destinato a scontrarsi con Stalin, al quale fra l’altro va addebitata l’espulsione degli italiani dall’Istria. [...] Nella primavera del 1945, a venire presi di mira non furono tanto gli elementi di etnia italiana – che potevano venire considerati buoni e onesti italiani se aderivano all’annessione alla Jugoslavia – quanto tutti coloro che, a prescindere dalle loro origini etniche, si sentivano politicamente italiani, vale a dire desideravano il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Secondo la medesima logica vennero perseguiti pure gli sloveni e i croati contrari al comunismo. Anche la formula rituale pertanto, secondo la quale molte delle vittime delle foibe furono uccise soltanto perché italiane, risulta sostanzialmente ambigua: poco fondata, specie per quanto riguarda il 1945, se riferita all’origine etnica, appare invece molto più significativa se declinata sul piano politico, con l’avvertenza aggiuntiva che per <<italiani>> vanno intesi non solo e non tanto quanti riconoscevano come italiana la loro identità nazionale (lo facevano anche i comunisti che si battevano per la Jugoslavia socialista) quanto piuttosto coloro che volevano l’Italia, con una scelta politica in cui preminente era la dimensione statuale. (R. Pupo – R. Spazzali, Foibe, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 108-113) 101 10 FEBBRAIO TITO, IL COMINFORM E I LAVORATORI COMUNISTI ITALIANI L ’andamento delle relazioni tra Jugoslavia e Unione Sovietica ebbe drammatici risvolti per un gruppo di operai italiani che, nel dopoguerra, scelsero di trasferirsi a Fiume per costruire il socialismo. Dopo la rottura fra Tito e Stalin, molti di loro restarono legati al Cominform, assunsero posizioni critiche nei confronti del Partito jugoslavo e quindi furono discriminati o incarcerati. Dopo anni di isolamento o dura reclusione, furono rimandati in Italia, ma non poterono pubblicamente descrivere le loro sofferenze perché Mosca, nel frattempo, si era riconciliata con Belgrado: quindi, anche il PCI non aveva più interesse a offrire un’immagine negativa della situazione jugoslava. [Nel 1947] a Fiume si trasferirono fra i 2.000 e i 2.500 operai isontini [= provenienti da Monfalcone e da altri centri della valle dell’Isonzo – n.d.r.], che occuparono i posti di maggior responsabilità nelle officine del siluruficio, della Torpedo e della raffineria abbandonati dai lavoratori locali [= italiani fuggiti dall’Istria – n.d.r.], ma non furono i soli italiani a giungere in città: nel medesimo periodo fece infatti il suo arrivo anche un buon numero di intellettuali regnicoli [= originari del Regno (o meglio ex-Regno, nel 1947) d’Italia – n.d.r.], provenienti cioè da varie parti d’Italia, con una forte percentuale di meridionali. Erano insegnanti, giornalisti, attori e artisti d’ogni genere, tanto che nel 1948 a Fiume l’intera orchestra dell’Opera, buona parte dei cantanti, attori e registi del Teatro del Popolo, quasi tutti i giornalisti del quotidiano la Voce del Popolo e delle altre 102 IL GIORNO DEL RICORDO pubblicazioni in lingua italiana, molti maestri e insegnanti di scuola media erano immigrati non giuliani. Per qualche momento insomma, a Fiume si costituì una nuova, singolare comunità italiana, non autoctona, giustapposta a quel che restava di una società locale in via di rapida sparizione, le cui logiche e passioni risultavano incomprensibili per i nuovi arrivati, al di là del disagio dovuto alle sempre più serrate partenze che, dall’oggi al domani, troncavano rapporti appena allacciati e mutavano il volto della città. Quasi accampata in una Fiume ormai largamente jugoslavizzata e terribilmente immiserita, questa nuova comunità italiana era assai variegata per composizione, ma unita nell’entusiasmo di chi voleva costruirsi una vita nuova in un mondo che avrebbe dovuto consentire la realizzazione degli ideali socialisti e internazionalisti. In questo senso, anche se solo per pochi mesi, Fiume rappresentò per quel grappolo di italiani respinti dalla storia del loro Paese, una sorta di luogo dell’utopia, o meglio dell’illusione. La durezza della politica del dopoguerra, l’intollerante rigidità dei rapporti gerarchici nel mondo comunista dominato dall’Unione Sovietica e l’altrettanto intollerante fermezza del regime stalinista jugoslavo stroncarono rapidamente quella breve stagione. Quando la risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948 scomunicò il partito comunista jugoslavo invitando gli <<elementi sani>> a destituire i propri dirigenti, i monfalconesi vennero a trovarsi in una situazione impossibile. I comunisti italiani si riconobbero immediatamente nelle critiche che la risoluzione rivolgeva al partito jugoslavo: prevalenza degli elementi nazionalisti, scarsa democrazia interna, metodi militari di direzione, incapacità di rifornire di generi alimentari la popolazione urbana eccetera. Erano 103 10 FEBBRAIO rilievi che esprimevano al meglio le perplessità che gli operai isontini avevano già maturato nei mesi trascorsi a contatto con la dirigenza croata […]. Ma se anche così non fosse stato, la fedeltà dei comunisti giuliani a Stalin era indiscussa ed essi, con incredibile ingenuità, la manifestarono in maniera esplicita e clamorosa. A centinaia, i monfalconesi parteciparono a riunioni e comizi pro Cominform e, quando la dirigenza comunista jugoslava convocò un’assemblea in un teatro cittadino, per spiegare le ragioni di Tito, accadde l’irreparabile: i relatori ufficiali furono sommersi dai fischi, mentre i monfalconesi prendevano la parola attaccando la politica del partito a Fiume. Alla fine, il loro leader, Ferdinando Marea, intonò l’Internazionale e tutti i presenti si unirono al canto, abbandonarono la riunione e formarono un corteo che sfilò per le vie della città. A dire il vero la repressione non fu immediata. La dirigenza jugoslava organizzò con gli esponenti monfalconesi una serie di riunioni che misero però maggiormente in luce l’abisso politico che si stava aprendo: alle accuse di deviazionismo rivolte al partito jugoslavo, i monfalconesi si sentirono rispondere che <<la patria si ama anche quando non è socialista>>. Ma quella patria non era la loro, non era riuscita a diventarlo, e l’Italia del resto non lo era più perché era stata rifiutata. La portata del dramma perciò fu ben più ampia di quanto non lasci intendere il numero di quanti furono colpiti dai più gravi provvedimenti di polizia: solo una quarantina di monfalconesi subirono la deportazione nel campo di rieducazione di Goli Otok – l’inferno attraverso il quale il regime cercava di piegare i cominformisti –, cui vanno aggiunti i membri di una cellula clandestina di militanti italiani, costituitasi a Fiume indipendentemente dalle 104 IL GIORNO DEL RICORDO vicende dei monfalconesi al fine specifico di contribuire al rovesciamento di Tito, ma ben presto individuata dall’UDBA, la polizia politica. Al di là però della sorte terribile di una cinquantina di elementi più esposti, l’intera esperienza delle migliaia di lavoratori italiani emigrati in Jugoslavia perse di colpo ogni senso. Il clima era cambiato, l’esistenza stessa del socialismo nel Paese di elezione era messa radicalmente in dubbio, i comunisti italiani erano divenuti complessivamente sospetti e sottoposti a licenziamenti, angherie, isolamento. Alla spicciolata quindi, piegati dalla delusione, cominciarono a tornare in un’Italia che li accolse tutt’altro che volentieri, ritrovandosi senza lavoro e spesso senza casa. <<Quel marchio della Jugoslavia ce lo portiamo ancora sulle spalle, perché siamo tornati con la coda fra le gambe, ce la siamo cavata solo grazie alla tenacia>>, ha raccontato un testimone, ma la tenacia non bastò per tutti, e molti, senza patria e senza risorse, dovettero emigrare nuovamente, in Francia, in Svizzera, in Svezia. Ancor peggio, se possibile, andò agli oppositori più convinti del regime di Tito: liberati alla metà degli anni Cinquanta dopo una durissima detenzione, tornarono in Italia quando ormai si era avviato il processo di destalinizzazione e i rapporti fra Tito e il PCUS stavano migliorando. Il ricordo perciò della loro lotta e della loro sofferenza divenne scomodo e fu cacciato anch’esso nel grande armadio delle memorie dimenticate del Novecento, colmo di spezzoni di vite bruciate, di drammi ignorati, di terre perdute e di ideali infranti, che solo negli anni Novanta ha cominciato a schiudere le sue ante. (R. Pupo, Il lungo Esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 132-134) 105 a annette alcuni goslavia del 1941, l’Itali Ju a all ne sio res gg e croati, l’a Dopo la provincia di Lubiana, re tui sti co a o nn va e ch territori sloveni, ri carta). lmazia (questi ultimi fuo Da in e me Fiu di ni tor nei din orienano a cavallo delle Alpi cre i ch es ted i , 43 19 re le province Dopo l’8 settemb adriatico, comprendente ale or Lit ni zio era op di na tali la zo Lubiana, a, Trieste, Pola, Fiume e italiane di Udine, Gorizi RSI è di fatto sospesa in cui la sovranità della la Venezia jugoslavi occupano tutta gli 45 19 io gg ma di i Ai prim e la parte se devono abbandonar Giulia, ma dopo un me iso in due ritorio viene pertanto div ter Il e. ion reg lla de e oriental n: la zona A parate dalla linea Morga verno zone di occupazione, se e di Pola) retta da un go lav nc l’e e ch an nte de o (compren governo militare jugoslav un tto so B, na zo la e militare alleato, odena ssoli – Carpi - M L’ex Campo di Fo Dimensione regionale L’esodo dei profughi verso l’Italia Sospetti e diffidenze nei confronti dei profughi G li italiani che, dopo il trattato di pace del 10 febbraio 1947 (e poi, più tardi, dopo l’intesa siglata a Londra il 5 ottobre 1954) abbandonarono l’Istria e gli altri territori passati sotto sovranità jugoslava non furono espulsi con la violenza. Da questo punto di vista, la situazione fu molto diversa da quella dei tedeschi cacciati a forza dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia, prelevati casa per casa e obbligati con la minaccia delle armi ad abbandonare il Paese. Tuttavia, è del tutto fuorviante definire <<spontanea>> la partenza di questi 250-300 mila italiani, in quanto le violenze si erano già verificate nel 1945 e il nuovo sistema politico era percepito da essi come una minaccia permanente, che incombeva sulla loro identità culturale e nazionale, oltre che sulla loro sicurezza personale. Paura, angoscia per il futuro e consapevolezza di un cambiamento irrimediabile, che aveva mutato in peggio la loro condizione di vita, furono moventi che si intrecciarono, si rafforzarono e infine spinsero migliaia di persone ad andarsene. L’Italia della fine degli anni Quaranta, però, era un paese ancora molto provato dall’esperienza della guerra: macerie e rovine erano ancora parte integrante del paesaggio cittadino, mentre le risorse e il lavoro scarseggiavano sia per gli abitanti della penisola sia per i numerosi altri profughi (dalle ex colonie africane o dalle isole del Dodecanneso) e rifugiati (ex prigionieri di guerra ed ex deportati, ad esempio) che a ondate arrivavano in Italia. L’arrivo dei profughi istriani e dalmati provocò numerosi problemi particolari e delicati, in primo luogo di natura politica. 109 10 FEBBRAIO Spesso, la stampa comunista li presentò in blocco come fascisti o nazionalisti: comunque, agli occhi dei giornali legati al PCI, si trattava di elementi infidi e pericolosi, che erano fuggiti da un paese socialista, di cui si erano rifiutati a priori di condividere il progetto di una società più giusta, perché esso avrebbe limitato i loro privilegi. Secondo un articolo pubblicato sul L’Unità il 30 novembre 1946, era vero che nelle città italiane arrivavano anche migliaia e migliaia di <<italiani onesti, veri fratelli nostri>>, definiti <<vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato… indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte>>. Tuttavia, il resto dell’articolo insisteva sul fatto che, insieme ad essi, erano partiti anche moltissimi gerarchi fascisti, <<briganti neri>> e profittatori, oppure individui reazionari <<impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori>>. Costoro, concludeva l’articolo, <<non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che già sono così scarsi>>. Articoli di questo tipo lanciavano di fatto un duplice messaggio: da una parte cercavano di minimizzare o negare le violenze che avevano trovato nelle foibe il proprio simbolo e il proprio principale strumento di realizzazione concreto; dall’altro, lasciavano intendere che non era per nulla facile distinguere i profughi <<buoni>> (vittime da compatire) da quelli <<neri e reazionari>>, che non meritavano alcun tipo di assistenza e aiuto, perché semplicemente cercavano di sfuggire al <<giusto castigo della giustizia popolare jugoslava>>. Alla luce di questo orientamento di massima, si spiega come mai, alla stazione di Bologna, il 18 febbraio 1947 un treno di profughi (provenienti da Pola e diretti a La Spezia) sia stato accolto con durezza e ostilità sia dalla gente che dai ferrovieri, che bloccarono la distribuzione dei pasti caldi preparati dalla Croce Rossa 110 IL GIORNO DEL RICORDO e dalla Pontificia Opera di Assistenza; ai viaggiatori fu persino impedito di scendere per bere e fare provvista di acqua per il resto del tragitto: <<C’era gente che faceva il pugno chiuso così – ricorda Giovanna B., che all’epoca era bambina – e ci diceva fascisti e non si poteva neanche scendere dal treno, ma noi avevamo bisogno di bere un po’ d’acqua e non ci lasciavano scendere. Allora mia madre mi ha detto: “Ma vai tu che forse, visto che sei bambina ti fanno andare”, e infatti mi ha accompagnato anche un ragazzino e ci han lasciato venire con l’acqua sul treno. Ci hanno fermato una notte intera, avevamo fame e sete e gli uomini non li lasciavano scendere, è stata una cosa tremenda>>. Nello stesso febbraio 1947, una circolare inviata dalla direzione centrale a tutte le federazioni del Partito cercò di cambiare la linea iniziale, esortò a <<non gettare fra le braccia della reazione>> i profughi e dichiarò che <<il nostro partito e le organizzazioni democratiche di massa non possono disinteressarsi di questi nostri connazionali>>, la maggior parte dei quali non era per nulla fascista, ma semmai cattolica e, quindi, democristiana. De Gasperi si rese conto della complessità e della delicatezza della situazione; quindi cercò di far gestire a uomini di sua assoluta fiducia le più urgenti questioni di assistenza e sistemazione. Sospetti e diffidenze, in realtà, non circolavano solo tra i comunisti: basti pensare che, nel 1949, il ministro dell’Interno Mario Scelba (democristiano noto per la sua intransigenza contro gli scioperanti) ordinò che a tutti i profughi che chiedevano il rinnovo dei documenti di identità fossero obbligati a depositare presso le autorità di polizia le proprie impronte digitali. In pratica, anche il governo – malgrado gli sforzi personali di De Gasperi e dei suoi diretti collaboratori (il provvedimento sulle impronte, infatti, fu rapidamente revocato) – considerava gli esuli come soggetti potenzialmente pericolosi, da tenere sotto stretta sorveglianza, piuttosto che sventurati connazionali bisognosi di 111 10 FEBBRAIO solidarietà e di sostegno materiale e morale. Solo col passar del tempo fu possibile procedere ad un vasto programma specifico di case popolari destinate ai giuliano-dalmati, che in 39 province complessive costruì 7.000 alloggi. Tuttavia, nell’estate del 1963, 8.493 profughi giuliano-dalmati risultavano ancora residenti in 15 dei 120 campi di accoglienza allestiti negli anni Quaranta e Cinquanta 112 IL GIORNO DEL RICORDO LE RAGIONI DELL’ESODO N el senso più stretto del termine, gli italiani non furono espulsi con la violenza dall’Istria e dagli altri territori passati sotto sovranità jugoslava. Tuttavia, il mondo in cui erano nati e cresciuti era completamente scomparso, al punto da rendere impossibile la permanenza in quello che ormai era per loro un paese straniero ed ostile. La paura costituì senza dubbio una spinta importante e spesso decisiva per l’Esodo, ma non fu la sola: in questa direzione vi è stato piuttosto uno sbilanciamento della memoria istriana e delle ricostruzioni che si sono limitate a riprodurne i contenuti, mentre il problema presenta dimensioni più ampie, in buona misura connesse ai cambiamenti sostanziali, di natura cioè rivoluzionaria, registrati dalla società istriana nel dopoguerra. Pur con le molte varianti legate alla diversità dei contesti, i processi cui le comunità italiane furono sottoposte presentano infatti tratti marcatamente comuni: l’impoverimento generale, la scrematura politica, il sovvertimento delle tradizionali gerarchie – a un tempo nazionali e sociali – che avevano visto gli italiani storicamente egemoni in Istria, e il ribaltamento dei rapporti di potere fra città e campagna. Ma accanto a tali elementi, riferibili alla sfera dell’economia e della politica, ve ne erano altri, che coinvolgevano la quotidianità dell’esistenza e davano la misura di una trasformazione che finiva per venir percepita come un rivolgimento dell’ordine naturale delle cose. I valori cardine della società venivano messi radicalmente in discussione, le abitudini consolidate da generazioni dovevano essere abbandonate, tutte le 113 10 FEBBRAIO certezze scomparivano e le nuove regole (dalla necessità di imparare la lingua di popoli da sempre considerati senza cultura, al tentativo di forzare la terra ai ritmi di una pianificazione irrispettosa dei tempi della natura e della tradizione, all’impostazione di nuovi criteri di misura del lavoro e del prestigio sociale) apparivano frutto di una volontà insensata e malevola, alla fine insondabile. Ancor più nere erano le prospettive per il futuro, e le sofferenze del presente si sommavano all’angoscia per il destino dei figli. In alcuni casi, fu proprio la preoccupazione per il modo in cui le nuove generazioni sarebbero cresciute nelle maglie del regime a far pendere la bilancia verso l’Esodo. […] Per gli italiani il cambiamento era totale, e si trovarono a dover vivere un passaggio così traumatico nelle peggiori condizioni possibili: isolati, impotenti e progressivamente privati dei loro usuali punti di riferimento, a seguito dell’eliminazione della classe dirigente, della scomparsa dei soggetti sociali più rappresentativi e dell’allontanamento delle figure chiave della società locale. I religiosi e gli insegnanti vennero infatti sostituiti dalle organizzazioni del regime e da un sistema formativo che anche quando si svolgeva in lingua italiana […] era comunque orientato verso l’attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con la madrepatria e verso la denigrazione dell’Italia, considerata irrimediabilmente fascista e imperialista. Ecco allora che per gli italiani dell’Istria i mutamenti, generalmente in negativo, delle loro condizioni di vita costituivano soltanto uno degli aspetti di un profondo disagio, che prese la forma di una vera e propria crisi collettiva di identità. È su quest’ultimo aspetto che la storiografia più recente ha insistito con particolare attenzione, allargando 114 IL GIORNO DEL RICORDO significativamente il campo delle fonti attraverso il recupero di quelle della memoria, dalla memorialistica tradizionale alla scrittura popolare, dalle elaborazioni letterarie al patrimonio di ricordi e riflessioni portato alla luce dalle raccolte di storie di vita. Seguendo tale percorso si è arrivati a leggere l’Esodo come il rifiuto collettivo, espresso con una scelta estrema, di un processo di modernizzazione accelerata e violenta condotto dal potere statale comunista. Si tratta di un giudizio che certamente coglie una delle dimensioni centrali del rapporto traumatico instauratosi fra il regime, e la popolazione residente, soprattutto nelle aree rurali o nelle cittadine istriane dove il tempo della storia scorreva lento, ma che non pare assolutamente generalizzabile a tutta l’Istria. Una regione, come si è visto, assai variegata, entro la quale situazioni che per certi aspetti potremmo definire premoderne, convivevano con la realtà di centri come Fiume e Pola – la seconda, addirittura, creazione artificiale della politica asburgica tardo-ottocentesca – che pure vennero massicciamente coinvolti dal fenomeno dell’Esodo. Più produttiva invece si sta rivelando la categoria dello spaesamento, che è divenuta la chiave interpretativa privilegiata cui far ricorso per comprendere l’atmosfera in cui furono costretti a vivere gli istriani di lingua, cultura e sentimenti italiani, i quali, anche quando resistettero più a lungo alle ondate repressive e alle pressioni politiche del regime, finirono per ritrovarsi in una terra diversa, dove altre presenze, altri costumi, altri meccanismi di integrazione sociale, altri orizzonti di vita facevano sì che quella medesima terra, in cui pure erano nati, non sembrasse più la loro. Sentirsi <<stranieri in patria>> – secondo un’espressione ricorrente nelle fonti – è una condizione lacerante, che getta 115 10 FEBBRAIO le fondamenta psicologiche per la scelta dell’abbandono. Una scelta che si rafforza perché accanto alla crescente estraneità nei confronti del luogo d’origine – divenuto luogo del dolore, dell’umiliazione e dell’incomprensione – prende corpo l’immagine alternativa di una patria interiorizzata e idealizzata, lontana dalla comunità reale, ormai stravolta e irriconoscibile. Era l’immagine di un’Italia che forse non esisteva, ma costituiva il possibile altrove, in cui era legittimo sperare di realizzare quanto nella realtà dell’Istria jugoslava era stato irreversibilmente negato. La scelta dell’Esodo pertanto, che – a parte le fughe individuali legate a situazioni di emergenza – fu in genere scelta collettiva, capace di svuotare interi paesi o addirittura intere città come Pola, si pose come punto di arrivo di un lungo processo di destrutturazione e di atomizzazione delle comunità italiane. Attraverso una molteplicità di itinerari e di sofferenze esse furono condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale – intesa nel suo senso forte, come complesso di modi di vivere e di sentire secolarmente sedimentati, ben al di là della sola dimensione politico-ideologica – nelle condizioni proposte dallo Stato jugoslavo. È solo muovendo da tale conclusione che ha senso porsi in maniera non astratta il problema dell’effettiva libertà di scelta di cui poterono disporre gli italiani di Fiume e dell’Istria, al di là del riconoscimento formale del diritto di opzione. Il punto infatti è costituito dalla valutazione delle alternative concrete a disposizione di chi, in una situazione specifica, era restio a prendere la via dell’esilio, e in questo senso con grande chiarezza si è espresso nel 1967 Theodor Veiter: <<La fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare un’espulsione di massa. È vero 116 IL GIORNO DEL RICORDO che tale fuga si configura come un atto apparentemente volontario, ma […] colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dell’emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio paese>>. (R. Pupo, Il lungo Esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 200-204) 117 10 FEBBRAIO Il villaggio San Marco a Fossoli G li impianti che vennero attivati sul territorio nazionale, per far fronte all’emergenza dell’esodo dei profughi giuliano-dalmati, in larga misura furono strutture di risulta (ex caserme, ex conventi, ex manicomi…). In provincia di Modena, si decise di utilizzare ancora una volta l’area dell’ex campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi. La decisione di usare strutture già impiegate, in tempo di guerra, come campi di prigionia non riguardò solo Fossoli: a Laterina, in provincia di Arezzo, l’area che ospitò i profughi aveva già visto rinchiusi al suo interno dapprima soldati inglesi e americani, e poi militi della RSI e soldati tedeschi. Complessivamente, la regione Emilia Romagna ospitò 5.159 profughi, una cifra pari alla 0,142% dell’intera popolazione della regione stessa. Bologna ne accolse il numero maggiore (1.937), seguita da Modena (810), Forlì (714), Ravenna (534), Ferrara (395), Parma (384), Reggio Emilia (251) e Piacenza (134). Lo scarso numero di soggetti accolti si spiega soprattutto con il prevalente orientamento rosso della regione, e quindi con la diffidenza nutrita da gran parte della popolazione e delle amministrazioni nei confronti di individui spesso bollati in blocco e in modo acritico come fascisti, in fuga da una meritata punizione o comunque incapaci di comprendere i mutamenti in atto nella nuova Jugoslvia comunista. La maggior parte degli esuli che furono indirizzati a Carpi proveniva da Pola e arrivò nel periodo febbraio-maggio 1947. Alcuni di essi, in verità, erano polesani solo in senso lato: si trattava, piuttosto, emigrati di ritorno, che si erano recati a Pola per lavorare nel 1939-1940, dopo che la Cooperativa muratori e braccianti di Carpi aveva vinto un importante appalto per la costruzione delle infrastrutture finalizzate a potenziare il porto della città istriana. In questo primo periodo immediatamente seguente la stipula- 118 IL GIORNO DEL RICORDO zione del trattato di pace, che mette in moto l’esodo nella sua forma più acuta e numericamente importante, Fossoli era utilizzato come campo di raccolta per profughi stranieri (provenienti dalla Germania, dall’Austria o dall’Europa centro-orientale) sospettati di essere colpevoli di crimini o reati, e come tali tenuti sotto stretta sorveglianza. Nel frattempo (dal maggio 1947 all’agosto 1952) diverse strutture di Fossoli diedero ospitalità a don Zeno Saltini, che aveva fondato la comunità di Nomadelfia, finalizzata al sostegno dei bambini orfani, bisognosi e senza famiglia, presenti in gran numero sul territorio carpigiano, a seguito della guerra e dei problemi della lenta ricostruzione postbellica. Trovatasi in gravi difficoltà economiche, la comunità fu obbligata dapprima a sgomberare il campo, e poi costretta a trasferirsi in provincia di Grosseto; a quel punto, Fossoli divenne disponibile per altri usi, e quindi iniziò ad ospitare un nucleo di profughi istriani, che diedero vita al cosiddetto Villaggio San Marco e sarebbero rimasti in quell’area dal 1954 al 1970. I profughi che si insediarono a Fossoli appartenevano, per così dire, alla seconda ondata, quella che si mise in moto dopo il Memorandum d’intesa siglato a Londra da Italia e Jugoslavia il 5 ottobre 1954, che assegnò in via definitiva la Zona A del Territorio Libero di Trieste (comprendente la città stessa) all’Italia, ma rese di fatto irrevocabile anche la sovranità jugoslava su Capodistria, Pirano e altri centri (Umago e Buie, ad esempio) situati sulla costa e nell’immediato entroterra istriani (Zona B). Diversi di questi esuli abbandonarono le loro case ancor prima della firma ufficiale dell’accordo, trovando un primo alloggio nel campo di smistamento di Udine. Il progetto del Villaggio San Marco viene elaborato dal prefetto di Modena d’intesa con il Ministero dell’Interno (che si farà carico dell’acquisto dell’area dell’ex campo di concentramento); sul piano finanziario (ma il discorso, in verità, investe anche lo status e la dignità stessa dei rifugiati) il progetto prevede che gli ospiti non vengano sempli- 119 10 FEBBRAIO cemente assistiti, bensì aiutati soprattutto a trovare un lavoro sul territorio e quindi nel più breve tempo possibile diventino famiglie autonome e autosufficienti. Il progetto incontrò l’opposizione di un nutrito gruppo di abitanti della frazione di Fossoli, ma tale protesta fu di fatto ignorata, cosicché il prefetto di Modena annunciò la formale istituzione del villaggio il 12 maggio 1954. Le prime sette famiglie di profughi arrivarono alla stazione di Carpi il giorno 7 giugno; alla cerimonia di accoglienza erano presenti il parroco di Fossoli, il vescovo di Carpi e un deputato democristiano, ma non il sindaco (comunista) della città di Carpi: con le sue presenze e le sue assenze, di forte impatto e significato simbolico, questo episodio è una sorta di microcosmo di una situazione più generale, che da solo mette in luce l’opposto atteggiamento assunto dalla DC e dal PCI di fronte all’intera vicenda dell’esodo. Nei 16 anni in cui funzionò, i rapporti tra il villaggio e il territorio in cui era inserito, ovvero tra profughi e abitanti del comune di Carpi, non registrarono mai violenze o episodi drammatici; tuttavia, l’incomprensione dei carpigiani nei confronti dei nuovi venuti fu tenace e difficile da scalfire, complice una serie di differenti e complementari fattori: la già più volte citata equazione tra esuli e fascismo; l’assoluta disinformazione sulle ragioni della fuga e sulle terre da cui i fuggiaschi provenivano; il timore che i nuovi arrivati fossero dei privilegiati, capaci di togliere case e lavoro agli abitanti del luogo. Nel 1956, il villaggio ospitava circa 400 persone, che diminuirono col passar del tempo, fino a che gli ultimi 100-150 abitanti, nel 1970, non trovarono sistemazione in alloggi popolari appositamente allestiti per loro 120 IL GIORNO DEL RICORDO IL RAPPORTO TRA IL VILLAGGIO SAN MARCO E IL TERRITORIO CIRCOSTANTE L a maggioranza delle testimonianze ricorda la vita nel Villaggio San Marco come accettabile e dignitosa, sotto il profilo materiale. Per quanto gli alloggi fossero stati recuperati dalle strutture di un ex campo di concentramento, due donne di Fossoli, dopo essersi sposate con due esuli, scelsero di vivere all’interno del villaggio. Nel complesso, comunque, l’integrazione tra esuli e abitanti del luogo fu difficile e problematica: i nuovi venuti furono a lungo guardati con sospetto e trattati con diffidenza. Se il giudizio complessivo sull’assistenza e sull’abitazione è positivo, lo stesso non si può dire per l’integrazione dei profughi giuliani nella cittadina di Carpi e a Fossoli: l’inserimento infatti, soprattutto all’inizio, non è stato indolore, ma anzi piuttosto difficoltoso. Innanzitutto perché la popolazione inconsciamente continua a collegare il Campo con le idee di fascismo, nazismo, minaccia, repressione, violenza: una realtà ostile e pericolosa. Tutte le successive destinazioni nel tempo, infatti, hanno in qualche modo rappresentato un pericolo per Fossoli: anche quando la fornitura di cibo e di servizi a internati e custodi era un’importante fonte di reddito, gravava su di loro [= sugli abitanti di Fossoli – n.d.r.] la minaccia di esservi internati per la minima mancanza, per un sospetto o una delazione malevola. Gli stessi internati, poi, hanno rappresentato un pericolo per la popolazione locale, suscitandone l’ostilità, in particolare nel periodo 1945-47, quando era attivo il Centro di raccolta profughi stranieri: la stampa dell’epoca 121 10 FEBBRAIO dedica ampio spazio ad articoli scandalistici di fughe, furti, disordini all’interno e all’esterno del campo, e di dichiarazioni allarmate dei residenti nelle zone limitrofe. Nemmeno il periodo di Nomadelfia è stato scevro da problemi per la popolazione locale, per i contrasti sorti tra i nomadelfi e alcuni esponenti della Democrazia cristiana di Carpi, e per la disinvoltura della gestione economica, che ha suscitato amarezza in molti creditori. Se a questa realtà, già di per sé critica, si aggiunge, da un lato, il contesto del dopoguerra con le sue esasperate tensioni politiche, dall’altro il fatto che i profughi giuliani vengono indiscriminatamente etichettati come fascisti, non risulterà difficile comprendere quanto negativamente abbia influito il connubio tra i sentimenti antifascisti generati dai fatti avvenuti nel Campo e l’erronea equazione “profughi = fascisti” riferita ai suoi nuovi abitanti. Probabilmente il sentire comune degli abitanti di Fossoli s’informa a una sensazione d’accerchiamento e di rinnovato pericolo: si arriva a pensare che i nuovi gestori del campo, equiparati senza vie di mezzo alle vecchie autorità fasciste, si comporteranno esattamente come i loro predecessori, <<…la faranno da padroni>>, insomma, per usare le parole di Bruno, ex profugo istriano. Non contribuisce a rassicurare gli animi dei carpigiani il fatto che i profughi godano della protezione dello Stato, in particolare di Scelba, di cui è noto l’impegno anticomunista e che tutti associano alla repressione antioperaia tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, in particolare alla strage delle Fonderie riunite di Modena del 9 gennaio 1950: ancora un sillogismo mentale ingiustificato, che porta a considerare con ostilità i profughi giuliani, genera nei loro confronti sentimenti d’astio e di risentimento. […] 122 IL GIORNO DEL RICORDO Ma l’elemento fondamentale che ostacola lo stabilirsi di rapporti equilibrati tra le due parti e, di riflesso, anche l’integrazione dei profughi, è sicuramente l’assoluta mancanza d’informazione ufficiale della popolazione del luogo sulla questione giuliana. Questa totale disinformazione è confermata da tutti gli ex profughi intervistati: <<Guardi tutti cadevano un po’ giù dalle nuvole, perché adesso poi… cadono giù dalle nuvole ancor di più; ma secondo loro… non riuscivano a capire il perché, forse bisognava esserci per capirlo>>; o ancora: <<No, allora, allora, a spiegarglielo in tutte le lingue… non sono mai riusciti a capire niente, mai, mai, mai>>. Si tratta di ignoranza, in primo luogo, geografica. L’Istria è un non-luogo, per molti: forse a nord, forse a nord-est, abitata non si sa bene da chi, e governata da autorità non identificate. Solo dopo gli anni Settanta del Novecento le vacanze di massa hanno insegnato a parecchi le strade per raggiungere le sue spiagge, ma non hanno contribuito a far conoscere l’orizzonte storico e umano di chi ha vissuto in quei luoghi e li ha poi abbandonati. […] Oltre alla disinformazione, un altro fattore che ha frenato considerevolmente l’integrazione con la popolazione locale è stato il fatto che quest’ultima vedeva i profughi come concorrenti nei diritti al lavoro e alla casa. In un ambiente povero, caratterizzato da difficoltà economiche e sociali e da tensioni proprie di un’epoca di transizione, in cui il Paese – conclusa la prima fase di ricostruzione dei disastri della guerra – si sta avviando sulla strada di un nuovo benessere, accade che i giuliani vengano visti negativamente perché considerati coloro che sono venuti a “portare via” il lavoro e la casa agli abitanti del luogo; una situazione, questa, 123 10 FEBBRAIO che si verifica non solo a Fossoli, ma anche a Trieste e in diverse parti d’Italia. Ricordiamo, nel caso locale, la petizione del gennaio 1954, in cui una parte degli abitanti fossolesi rivendica a sé l’utilizzo del compendio immobiliare dell’ex città di Nomadelfia per destinarlo ad abitazioni per gli indigenti e i disoccupati della frazione. Sono gli stessi profughi ad avvertire questa situazione, soprattutto in riferimento al lavoro: <<La popolazione che avevamo intorno ci ha preso molto male, perché noi gli portavamo via posti di lavoro>>. Maria ricorda che nell’ambiente di lavoro le era stato provocatoriamente chiesto come mai, lei che non era comunista, lavorasse per il Comune, sottintendendo che stesse sottraendo il posto di lavoro a un carpigiano in linea con la tradizione amministrativa della città. (M. L. Molinari, Villaggio San Marco. Via Remesina 32, Fossoli di Carpi. Storia di un villaggio per profughi giuliani, Torino, EGA Editore, 2006, pp. 96-102) 124 IL GIORNO DEL RICORDO 125 10 FEBBRAIO INDICE ICONOGRAFICO Immagine: 10 agosto1946, Parigi Palazzo Luscembraury, De Gasperi parla alla Conferenza della Pace Fonte: Fondazione Alcide De Gasperi - Roma www.fondazionedegasperi.it Per concessione: Fondazione Alcide de Gasperi, Via Pavia, n. 1- Roma Immagine: 10 agosto 1946, Parigi Palazzo Luscembraury, la Conferenza della Pace Fonte: Fondazione Alcide De Gasperi - Roma www.fondazionedegasperi.it Per concessione: Fondazione Alcide de Gasperi, Via Pavia, n. 1- Roma Immagine: Heinrich Himmler, comandante supremo delle SS. Fonte: La seconda guerra mondiale : immagini dal fronte / testi di David Boyle. - Vercelli : White Star, 1999. - 598 p. : in gran parte ill. ; 31 cm. (Traduzione e ampliamento del testo a cura di Fabio Bourbon) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Cartina: Il confine tra Italia e Jugoslavia tra le due guerre mondiali (Trattati di Rapallo del 1920 e di Roma del 1924). Anche la città dalmata di Zara, fuori carta, viene annessa all’Italia. Fonte: Il confine scomparso : saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento / Raoul Pupo. - Trieste : IRSML, 2007. - 229 p. : ill. ; 21 cm. (In testa al front.: Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Cartina: Dopo l’aggressione alla Jugoslavia del 1941, l’Italia annette alcuni territori sloveni, che vanno a costituire la provincia di Lubiana, e croati, nei dintorni di Fiume e in Dalmazia (questi ultimi fuori carta). Fonte: Il confine scomparso : saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento / Raoul Pupo. - Trieste : IRSML, 2007. - 229 p. : ill. ; 21 cm. (In testa al front.: Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna 126 IL GIORNO DEL RICORDO Immagine: Cartina: Dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi creano a cavallo delle Alpi orientali la zona di operazioni Litorale adriatico, comprendente le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, in cui la sovranità della RSI è di fatto sospesa Fonte: Il confine scomparso: saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento / Raoul Pupo. - Trieste : IRSML, 2007. - 229 p. : ill. ; 21 cm. (In testa al front.: Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Cartina: Ai primi di maggio 1945 gli jugoslavi occupano tutta la Venezia Giulia, ma dopo un mese devono abbandonare la parte orientale della regione. Il territorio viene pertanto diviso in due zone di occupazione, separate dalla linea Morgan: la zona A (comprendente anche l’enclave di Pola) retta da un governo militare alleato, e la zona B, sotto un governo militare jugoslavo. Fonte: Il confine scomparso : saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento / Raoul Pupo. - Trieste : IRSML, 2007. - 229 p. : ill. ; 21 cm. (In testa al front.: Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: L’ex Campo di Fossoli – Carpi - Modena Fonte: IBC - Istituto per i beni culturali - Regione Emilia-Romagna Per concessione: Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Via Galliera, 21,cap. 40121-Bologna Immagine: L’ex Campo di Fossoli – Carpi - Modena Fonte: IBC - Istituto per i beni culturali - Regione Emilia-Romagna Per concessione: Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Via Galliera, 21,cap. 40121-Bologna 127 10 FEBBRAIO 128 IL GIORNO DEL RICORDO 129 © Regione Emila-Romagna - Assemblea Legislativa Progetto grafico: lucignolo progetti grafici (Bo) I° edizione - finito di stampare il xx Xxxxxx 2011 stampa a cura di XXXXXXX Francesco Maria Feltri insegna Italiano e Storia presso l'ITAS "Francesco Selmi" di Modena. E' autore di numerosi manuali di Storia per la Scuola Superiore, tra cui ricordiamo "I giorni e le idee" (SEI, Torino, 2001) e "Chiaroscuro" (SEI, Torino, 2011). In qualità di studioso della Shoah, ha collaborato con la Fondazione Anne Frank di Amsterdam e con il Museo Yad Vashem di Gerusalemme. Per l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, ha curato il sussidio didattico on line "Viaggio visivo nel Novecento totalitario". CONSAPEVOLEZZA MEMORIA LucignoloProgettiGrafici Cittadinanza