Condominio minimo (Giurisprudenza GIOVAGNOLI)

CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
CAPITOLO IV
GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO:
A) CONDOMINO APPARENTE;
B) IMPUGNAZIONE DELLE DELIBERE ASSEMBLEARI;
C) SUPERCONDMINIO; D) CONDOMINIO MINIMO
GUIDA 1. Il condomino apparente 1.1. Condizioni di operatività del principio di apparenza del
diritto 1.2. Il problema dell’applicabilità del principio dell’apparentia iuris in materia condominiale 1.3. Le ragioni a sostegno delle divergenti opinioni 1.4. L’intervento delle sez. un.: Cass. 8
aprile 2002, n. 5035 1.5. La sentenza della Cassazione, seconda Sezione civile, del 27 dicembre
2004, n. 23994 1.6. L’obbligo di convocare il condomino reale e non il condomino apparente:
Cassazione civile, sez. II, 9 febbraio 2005, n. 2616 2. Il regime di invalidità delle delibere condominiali 2.1. I termini del contrasto giurisprudenziale 2.2. Le valutazioni delle Sezioni Unite 2.3.
La sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, 7 marzo 2005, n. 4806 2.5. In materia di condominio la regola è l’annullabilità (mentre la nullità è l’eccezione) 3. Il Supercondominio 4. La disciplina applicabile al c.d. condominio minimo (Cass. sez. Un. n. 2046/2006) 4.1. I termini del contrasto giurisprudenziale 4.2. La soluzione del contrasto: Cass. sez. un. n. 2046/2006 4.3. La sentenza delle Sezioni Unite.
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
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z 1. Il condomino apparente
1.1. Condizioni di operatività del principio di apparenza del diritto.
Il principio di apparenza del diritto radica le ragioni del proprio riconoscimento giuridico nell’esigenza, nota all’ordinamento, di apprestare forme di tutela
e di garanzia dei rapporti giuridici complementari al sistema legale di pubblicità.
La ratio teleologica sottesa al riconoscimento del principio risiede nell’avvertita
necessità di agevolare la circolazione dei beni (e, dunque, della ricchezza), tutelando l’affidamento riposto dal terzo nella rispondenza della situazione di fatto
apparente alla situazione di diritto. Il principio dell’apparenza tende, dunque, a
colmare lo iato esistente tra fatto e qualificazione giuridica di esso, superando
l’eventuale distonia tra realtà fattuale e realtà giuridica, cosı̀ garantendo il terzo,
che abbia legittimamente risposto fiducia nella effettività giuridica dell’effettività
fenomenica, circa la corrispondenza della seconda alla prima. Attraverso una fictio iuris, la situazione di fatto percepita dal terzo, pur non corrispondendo a
quella di diritto, viene qualificata dall’ordinamento come se a quest’ultima corrispondente e, dunque, diviene produttiva degli stessi effetti che si sarebbero prodotti in ragione della sussunzione sub iure del fatto medesimo.
L’ambito di operatività del principio di apparenza del diritto corrisponde all’area delle situazioni giuridiche soggettive non cerziorate dall’ordinamento mediante la previsione di un meccanismo di pubblicità che consenta di verificare la
rispondenza della realtà fattuale al piano del diritto; e si affianca alle forme di
pubblicità (operanti nei casi e nei modi contemplati dalla legge) con effetto integrativo e di chiusura del sistema di garanzia e certezza delle situazioni giuridiche
soggettive valutate sotto il profilo dinamico dei rapporti di scambio.
L’ordinamento giuridico, al contempo, limita l’operatività del principio dell’apparentia iuris, condizionandone l’efficacia alla sussistenza di tre distinti requisiti:
l’apparenza c.d. semplice, l’affidamento e la buona fede.
L’apparenza semplice rappresenta il presupposto oggettivo del principio, consistente in una situazione di fatto, conseguente a un comportamento o a una dichiarazione di un soggetto che si vincola per effetto del proprio comportamento
o della propria dichiarazione alla situazione artatamente prodotta e alle conseguenze che ne derivano secondo l’ordinamento giuridico.
Affinché l’apparenza semplice abbia rilievo giuridico è necessario che la situazione di fatto abbia ingenerato nel terzo un legittimo affidamento quanto alla
conformità della stessa alla realtà giuridica. La ‘‘legittimità’’ dell’affidamento
viene a mancare, oltre che in ipotesi di dolo del terzo, anche laddove il terzo
avrebbe potuto conoscere, usando l’ordinaria diligenza, la difformità della situazione apparente dalla quella reale-giuridica. Sul punto, è costante l’orientamento
giurisprudenziale nel richiedere che il giudizio che il terzo si forma in ordine alla
corrispondenza tra le due realtà ‘‘deve essere ragionevole, cioè non determinato
da un atteggiamento colposo, il quale va ravvisato ogni qual volta il terzo, non attenendosi ai dettami della legge o a quelli della normale diligenza, trascuri di accertarsi della realtà, facilmente controllabile e si fidi, invece, della mera apparenza, incorrendo in un errore inescusabile’’ (Cass. 6 novembre 1998, n. 11186).
Costituisce, infine, limite esterno dell’efficacia del principio di apparentia iuris
la pubblicità, dove la realtà giuridica risulta con certezza ed immediatezza, se-
Il principio
dell’apparentia
iuris
L’area di
operatività del
principio
Le condizioni di
operatività
dell’apparentia
iuris
L’apparenza c.d.
semplice
L’affidamento e la
buona fede
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condo le modalità di forma prescritte per il regime proprio delle diverse tipologie
di pubblicità.
1.2. Il problema dell’applicabilità del principio dell’apparentia iuris in materia
condominiale.
È applicabile il
principio
dell’apparenza ai
rapporti
condominiali?
Cosı̀ delineati i caratteri distintivi del principio dell’apparenza del diritto, resta
a verificare l’applicabilità di esso nei rapporti tra condomino e condominio, in relazione alle fattispecie connesse alla figura del c.d. condomino apparente.
Il problema concerne l’individuazione del soggetto tenuto all’adempimento
delle obbligazioni derivanti dalla titolarità dell’immobile, nei casi in cui il proprietario effettivo sia persona diversa dal soggetto che, regolarmente partecipando alle assemblee condominiali ed esercitando i diritti del condomino e, dunque, manifestandosi ai terzi uti dominus, ingenera l’affidamento negli altri condomini e nell’amministratore del condominio circa la sua qualità di proprietario.
Deve darsi applicazione al principio dell’apparenza, tutelando l’affidamento
dei terzi o deve prevalere il regime di pubblicità dei registri immobiliari?
E ancora, il principio di apparenza opera anche sul piano processuale, nel
senso che legittimato passivo dell’azione di recupero dei crediti condominiali è il
condomino apparente?
1.3. Le ragioni a sostegno delle divergenti opinioni.
La posizione
favorevole
all’applicazione
Cass. 4866/2001
Un primo orientamento, diffuso nella giurisprudenza meno recente, sostiene
che gli oneri condominiali debbano gravare sul condomino apparente, anziché
sul proprietario dell’immobile come risultante dai pubblici registri.
Tale orientamento opina che il regime di pubblicità e il principio di apparenza
non sono necessariamente in rapporto di alternatività e di reciproca esclusione,
specie ove il rapporto negoziale apparente non riguarda direttamente la situazione giuridica resa pubblica, ma si riconduce ad essa solo in via mediata (è il
caso dei rapporti relativi al pagamento delle spese condominiali, i quali non concernono in via primaria l’avvenuto trasferimento dell’unità immobiliare), potendosi verificare, in presenza di univoche circostanze, il superamento da parte
della realtà fattuale della situazione giuridica soggettiva risultante dai pubblici
registri: la realtà apparente acquista rilevanza giuridica, giustificando l’errore del
terzo in buona fede, e prevale su quella risultante dal sistema pubblicitario.
In conseguenza di ciò, legittimato passivo nell’azione di recupero del credito
vantato dal condominio nei confronti del proprietario è riconosciuto essere il
condomino apparente.
‘‘Il mancato controllo nei pubblici registri della posizione di proprietario del presunto condomino, da parte dell’amministratore condominiale, non è di ostacolo all’invocabilità del principio dell’apparenza del diritto, giacché questa può essere fatta
valere anche quando la situazione apparente non coincide con quella risultante dai
pubblici registri, ove non viene in rilievo direttamente, ma solo come presupposto di
una fattispecie complessa, rilevante autonomamente sul piano giuridico, addotta
per giustificare l’errore del terzo di buona fede. La pretesa fatta valere dall’ammini-
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
stratore, infatti, riguarda l’adempimento di una obbligazione pecuniaria connessa
con la titolarità del diritto di proprietà, e non questo diritto di per sé, o nei suoi riflessi reali. In altri termini, i rapporti relativi al pagamento delle spese condominiali
per l’utilizzazione delle parti comuni che accedono all’unità immobiliare di proprietà individuale non concernono in via primaria e diretta l’avvenuto trasferimento
della predetta unità immobiliare, sicché le risultanze dei registri immobiliari sono
rilevanti solo in via mediata, perdendo quel carattere determinante dal quale deriva
l’onere dell’accertamento che può anche risultare ultroneo rispetto alle esigenze
della gestione delle spese condominiali’’ (Cass., 3 aprile 2001, n. 4866)
L’opposto orientamento, che ha trovato il favore delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 8 aprile 2002, n. 5035), sostiene, invece, che ‘‘in tema di ripartizione delle spese condominiali è passivamente legittimato, rispetto all’azione giudiziale per il recupero della quota di competenza, il vero proprietario della porzione
immobiliare e non anche chi possa apparire tale, difettando nei rapporti tra il condominio e i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l’operatività del principio
dell’apparenza del diritto, coessenziale alla tutela di terzi in buona fede’’ (Cass. 8
luglio 1998, n. 6653).
Argomento principale di tale orientamento è l’alternatività di pubblicità e apparenza: tali istituti, infatti, si completano l’un l’altro, rispondono alle medesime
finalità di tutela dei terzi di buona fede; ma proprio perché tendenti alla soddisfazione delle stesse esigenze pratiche, laddove opera la prima non ha più ragione di operare la seconda. Secondo i principi di carattere generale elaborati in
tema di tutela dell’apparenza del diritto, pubblicità e apparenza sono strumenti
concorrenti di tutela giuridica di una medesima esigenza, in relazione alla quale
l’apparenza assume la funzione di mezzo complementare, per cui laddove la
pubblicità si attua pienamente e compiutamente, deve escludersi ogni autonoma
tutela dell’apparenza, comunque intesa.
Del resto, anche sotto un profilo di giustizia sostanziale, la tutela dell’apparenza non può tradursi in un indebito vantaggio per chi abbia trascurato di accertarsi della realtà delle cose, preferendo affidarsi alla parvenza dei fatti.
Inoltre, nel rapporto che si instaura tra condominio e singolo condomino non
sussiste in radice l’esigenza di tutelare l’affidamento incolpevole sulla situazione
apparente, atteso che il condominio (quale ente di gestione) non è terzo, ma
parte del rapporto e, dunque, non sussiste ragione per l’applicazione del principio dell’apparentia iuris.
Inoltre, non sono ravvisabili neppure ulteriori ragioni che giustifichino la necessità di collegare effetti giuridici ad una situazione apparente, atteso che il rapporto giuridico tra il condominio e l’effettivo singolo condomino, poprietario
esclusivo dell’unità immobiliare esiste in ogni caso nella realtà, essendo espressamente previsto dagli artt. 1123 c.c. e 63 disp.att.c.c. e si basa sull’esistenza di
una situazione obiettiva quale quella della proprietà.
‘‘Il fatto che il condominio, per errore determinato da un comportamento altrui,
possa aver intrapreso un’iniziativa giudiziaria, può valere ad altri effetti e determinare semmai altre responsabilità ed in altre direzioni, ma non può portare a porre,
a carico di un soggetto un obbligo che, invece, la legge pone a carico di un altro soggetto, esistente e bene individuato in base ad un rapporto oggettivo’’ (Cass. 27 giugno 19994, n. 6187).
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La posizione
contraria
all’applicazione
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
1.4. L’intervento delle sez. un.: Cass. 8 aprile 2002, n. 5035.
La statuizione
delle sez. un.
(Cass. n. 5035 del
2002)
Il primo Presidente della Corte di Cassazione ha investito le Sezioni Unite per
dirimere i contrasti giurisprudenziali circa la titolarità delle obbligazioni condominiali e della conseguente legittimazione passiva nei confronti dell’azione giudiziaria promossa dall’amministratore condominiale per il recupero dei crediti
condominiali.
Valutate le opposte prospettazioni e le rispettive argomentazioni (come sopra
indicate) le sez. un. pervengono ad escludere l’applicazione del principio dell’apparenza del diritto nei rapporti tra condominio e condomino, riconoscendo legittimazione passiva al vero proprietario della porzione immobiliare.
‘‘Le esigenze di celerità, praticità e funzionalità, addotte a giustificazione dell’applicazione dell’istituto dell’apparenza del diritto, — afferma la Suprema Corte
nella sentenza in epigrafe — valgono per l’ipotesi non contenziosa del rapporto,
quando, cioè, l’apparente condomino non solleva alcuna contestazione, provvedendo al pagamento degli oneri condominiali. In tal caso, la violazione dei rispettivi doveri (quelli di correttezza e di informazione a carico del condomino apparente e quelli di consultazione dei registri immobiliari a carico dell’amministratore) non rilevano’’.
Nel caso, invece, di ipotesi contenziosa (quando, cioè, l’amministratore deve
agire giudizialmente per il recupero delle spese condominiali) — afferma la Suprema Corte — ‘‘l’istituto dell’apparenza del diritto, che non è di natura processuale, bensı̀ di natura sostanziale, non può valere a giustificare un’iniziativa giudiziaria svincolata dalla realtà’’ e l’osservanza da parte dell’amministratore del dovere di consultazione dei registri immobiliari risulta preminente (rispetto al dovere
ex adverso di correttezza e informativa) per l’individuazione del condomino obbligato, ‘‘non solo perché corrisponde a regola di normale prudenza accertare l’effettivo legittimato passivo allorché si intende dare inizio ad un’azione giudiziaria, ma
anche perché appare conforme al sistema della tutela del credito’’.
Si riporta per esteso la motivazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 5035/
2002
Con i tre motivi di cui si compone la impugnazione i ricorrenti denunciano:
a) violazione degli artt. 1123 c.c., 63 disp. att. c.c., 630 n. 1 c.p.c., nonché violazione dei principi generali di diritto in ordine alla legittimazione passiva delle parti. Assumono che in tema di
ripartizione delle spese condominiali è passivamente legittimato, rispetto all’azione giudiziale
per il recupero delle quote di competenza, il vero proprietario della porzione immobiliare e
non, anche, chi possa apparire tale, difettando nei rapporti fra condominio, che è ente di gestione, ed i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l’operatività del principio dell’apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela del terzo in buona fede.
b) violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c.; violazione dell’art. 360 n. 5 per omessa,
insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine ai criteri da adottarsi per pervenire all’interpretazione del patto di cui all’art. 2 dell’atto notaio Giuliani, e alla sua interpretazione; violazione e falsa applicazione degli artt. 1118 e 1123 c.c., 360 n. 1 c.p.c.. Sostengono i ricorrenti che
la sentenza non contiene motivazione in ordine alle ragioni per le quali non si potesse, come richiesto, procedere ad interpretazione letteraria del patto in base al quale è stato escluso tra
venditore ed acquirente il pagamento delle spese di condominio.
c) violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa pronuncia in relazione al punto relativo all’opponibilità al Condominio del patto di cui all’art. 2. Rilevano i ricorrenti che il Tribunale, benché con il secondo motivo di gravame gli appellanti avessero censurato la sentenza sul punto in
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cui afferma che il patto non era opponibile al Condominio, ha omesso ogni pronuncia sul
punto.
2. In relazione alla questione sottesa al primo mezzo impugnatorio — se in tema di ripartizione delle spese condominiali sia passivamente legittimato, rispetto all’azione giudiziale per il
recupero delle quote di competenza, il vero proprietario della porzione immobiliare ovvero chi
possa apparire tale — la causa è stata, come detto, rimessa all’esame di questo Collegio per
composizione di contrasto di giurisprudenza.
3. Il denunciato contrasto effettivamente sussiste perché mentre un orientamento giurisprudenziale (per la verità più remoto e quasi superato, ma di recente riproposto unicamente da
Cass. 20 marzo 1999 n. 2617) è nel senso che debba continuare ad essere sottoposto al pagamento degli oneri condominiali il venditore di una unità immobiliare facente parte dell’edificio
condominiale, il quale, pur dopo il trasferimento della proprietà, ha continuato ad esercitare i
diritti apparenti del condomino (Cass. 14 febbraio 1981 n. 907; 16 novembre 1984 n. 5818; 1 settembre 1990 n. 9079); altro, e più attuale, indirizzo giurisprudenziale, invece, al contrario ritiene
che obbligato al pagamento delle spese condominiali, e quindi legittimato passivo, sia il vero
proprietario della porzione immobiliare (Cass. 3 aprile 2001 n. 4866; 19 aprile 2000 n. 5122; 8
agosto 1998 n. 6653; 27 giugno 1994 n. 6187).
4. L’orientamento giurisprudenziale, che ritiene l’applicabilità del principio dell’apparenza
del diritto nei rapporti tra condominio e condomino, si fonda sulle seguenti considerazioni.
4.a. Innanzitutto rileva che lo stesso legislatore ha riconosciuto il principio in questione alcune volte in modo espresso (come ad es. per gli acquisti a titolo oneroso dall’erede apparente
(art. 933 c.c. abr.; 534 c.c. vigente); per il matrimonio celebrato davanti a un apparente ufficiale dello stato civile (art. 113 c.c.); per il pagamento fatto al creditore apparente (art. 189, 1
comma, c.c.), altre volte per implicito (ad es. negoziazione di titoli di credito, acquisto di beni
mobili, obbligazioni assunte dai soci di società apparente, etc.). Il principio è stato, quindi,
esteso ed applicato, per ragioni di necessità che affiorano nella pratica, alle situazioni oggettive
nelle quali il terzo si sia dimostrato inconsapevolmente indotto a confidare nella rispondenza
al diritto della situazione esteriorizzata. In particolare, il principio dell’apparenza ha trovato
applicazione nel campo dei diritti reali prima ancora che in altri campi, come dimostra l’istituto del possesso, che ab antiquo è riconosciuto e tutelato, senza riguardo alla titolarità del diritto, come espressione di un potere di fatto, esercitato come diritto di proprietà o altro diritto
reale. Lo stesso si deve dire per la concessione di ipoteca da parte del proprietario apparente,
ai funi dell’iscrizione e della trascrizione, che può prevalere sul diritto dell’effettivo proprietario.
4.b. Osserva poi l’orientamento in esame che i concetti di pubblicità e di apparenza, che rilevano nel caso di specie, e che sembrerebbero inconciliabili, non lo sono, in effetti, in modo assoluto, perché, nonostante la prima consenta ai terzi di accertare la realtà giuridica di una situazione determinata che — indipendentemente dall’uso errato o fraudolento degli strumenti pubblicitari — può anche non coincidere con quella effettiva, in ogni caso la pubblicità non impedisce che su di essa possa venire a innestarsi una situazione derivata che, nel complesso dei suoi
elementi costitutivi, consenta. di ravvisare l’esistenza di circostanze idonee a generare il legittimo convincimento del terzo di essere entrato in rapporto con l’avente diritto. Esplicitando meglio tale concetto, l’orientamento giurisprudenziale in esame rileva che la configurazione dell’apparenza richiede necessariamente il concorso di due condizioni: quella di uno stato di fatto
formalmente rispondente a una realtà giuridica, e l’altra, del giustificato convincimento del
terzo che le due situazioni coincidano. A fronte di ciò può dirsi, in generale, che la tutela dell’apparenza del diritto non può essere invocata da chi abbia trascurato di accertare sui pubblici
registri, contro ogni norma di avvedutezza, la situazione giuridica, appunto perché la pubblicità,
dov’è imposta, ha la funzione di rendere nota ufficialmente la posizione che ne forma oggetto.
Questo, tuttavia, quando il nesso sia diretto; quando, invece, il rapporto negoziale non riguarda
la situazione giuridica resa pubblica, perché si riconduce ad essa solo in via mediata, il riferimento alle risultanze dei pubblici registri viene a perdere il suo carattere determinante, dal
quale deriva l’onere dell’accertamento, per declassarsi a semplice indagine cautelativa, che può
risultare anche ultronea rispetto alle esigenze della pratica del diritto (Cass. 16 novembre 1984
n. 5818).
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4.c. La fattispecie complessa che viene a configurarsi nel caso dei rapporti tra condominio e
condomino per quanto concerne le somme dovute da quest’ultimo, frapponendosi tra la pubblicità e la situazione di diritto apparente, allenta, o interrompe, addirittura, il legame fra i due elementi, consentendo di invocare utilmente il principio dell’apparenza come discriminante dell’errore, quando assume rilevanza giuridica autonoma (Cass. 1 settembre 1990 n. 9079; 14 febbraio 1981 907).
5. In dottrina gli autori che sostengono l’applicabilità della tutela dell’apparenza nei rapporti
tra condominio e falso condomino, svolgono le seguenti considerazioni.
5.a. L’apparenza non è un fenomeno patologico che assume rilevanza solo in ipotesi eccezionali perché, al contrario essa può essere riconosciuta quale canone generale dell’ordinamento
applicabile, quindi, per analogia.
5.b. La certezza del diritto presuppone che sia possibile portare a conoscenza della generalità
ogni situazione giuridicamente rilevante, come non è in effetti, e come non appare nemmeno
realizzabile, in molti casi, a causa della molteplicità dei rapporti giuridici esistenti e della rigidità
insita in ogni sistema di pubblicità legale. In tal senso è stato osservato che la imperfetta organizzazione del sistema di pubblicità nel diritto italiano e l’insufficiente sviluppo degli strumenti
del formalismo giuridico rendono necessario un mezzo che supplisca a codeste deficienze, garantendo la tutela di interessi considerati eminenti.
5.c. L’esigenza di tutelare l’amministrazione condominiale che ha fatto ragionevole affidamento su una situazione manifesta ha portato ad attenuare il rigore del collegamento fra il potere di disposizione del diritto ed il suo titolare, riconoscendo la rispondenza alla realtà giuridica
della situazione apparente quando l’accertamento della titolarità venga a risolversi in un intralcio alla circolazione dei beni e alla costituzione dei rapporti giuridici, tanto più che il comportamento posto in essere da chi si presenta come condomino senza esserlo si pone in violazione
dei doveri di correttezza e di informazione all’interno del condominio.
5.d. Nell’ambito dei diritti reali l’apparenza è di remota applicazione come dimostra la disciplina del possesso, tutelato anche contro l’effettivo proprietario come espressione di un potere
di fatto esercitato come diritto di proprietà o altro diritto reale.
5.e. Il mancato controllo nei pubblici registri della posizione di proprietario del presunto condomino, da parte dell’amministratore condominiale, non è di ostacolo alla invocabilità del principio dell’apparenza del diritto, giacché questa può essere fatta valere anche quando la situazione apparente non coincide con quella risultante dai pubblici registri, ove non viene in rilievo
direttamente, ma solo come presupposto di una fattispecie complessa, rilevante autonomamente sul piano giuridico, addotta per giustificare l’errore del terzo di buona fede. La pretesa
fatta valere dall’amministratore, infatti, riguarda l’adempimento di un’obbligazione pecuniaria
connessa con la titolarità del diritto di proprietà, e non questo diritto di per sé, o nei suoi riflessi
reali. In altri termini i rapporti relativi al pagamento delle spese condominiali per l’utilizzazione
delle parti comuni che accedono all’unità immobiliare di proprietà individuale non concernono
in via primaria e diretta l’avvenuto trasferimento della predetta unità immobiliare, sicché le risultanze dei registri immobiliari sono rilevanti solo in via mediata, perdendo quel carattere determinante dal quale deriva l’onere dell’accertamento che può anche risultare ultroneo rispetto
alle esigenze della gestione delle spese condominiali.
5.f. Ulteriore riscontro del fatto che la materia degli oneri condominiali, sebbene connessa
con il diritto di proprietà, non integra una situazione di diritto reale, è costituito dal fatto che il
pagamento effettuato per più anni in base a tabelle apparenti, perché non corrispondenti all’effettivo valore delle proprietà individuali, dà luogo alla vigenza delle tabelle stesse, approvate
per facta concludentia, senza alcuna forma ad substantiam e senza dover verificare l’effettiva
corrispondenza tra i millesimi corrisposti e quelli effettivamente dovuti in base al valore della
proprietà secondo il disposto degli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. dello stesso codice.
6. L’opposto orientamento giurisprudenziale afferma, invece, che in tema di ripartizione delle
spese condominiali è passivamente legittimato, rispetto all’azione giudiziale per il recupero della
quota di competenza, il vero proprietario della porzione immobiliare e non anche chi possa apparire tale, difettando nei rapporti tra il condominio ed i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l’operatività del principio dell’apparenza del diritto, coessenziale alla tutela di terzi in
buona fede (Cass. 8 luglio 1998 n. 6653).
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
6.a. Si è a tale proposito rilevato che il principio dell’apparenza del diritto è collegato alla esigenza di tutelare l’affidamento incolpevole, e, cioè, la buona fede del terzo, che, senza sua colpa,
abbia fatto affidamento su una determinata situazione, esistente però solo in apparenza, alla
quale, quindi, al di fuori dell’applicazione del principio in argomento, non potrebbe collegarsi
nessun effetto giuridico, con grave pregiudizio del terzo, cui, in tesi, non è addebitabile un incauto affidamento. Caso tipico di applicazione del principio suddetto è quello dell’apparente
rappresentato, il quale si sia comportato nel mondo esterno in maniera tale da ingenerare nel
terzo la convinzione plausibile e ragionevole della effettiva sussistenza della rappresentanza: in
tal caso, in forza del principio dell’apparenza del diritto, l’apparente rappresentato è tenuto a
far fronte agli obblighi assunti in suo nome dal falsus procurator (in effetti, al di fuori dell’applicazione del principio dell’apparenza del diritto, gli obblighi assunti dal falsus procurator in
nome altrui non sorgerebbero né in capo al falsus procurator, non avendoli lo stesso assunti in
nome proprio, né in capo all’apparente rappresentato, mancando la rappresentanza, con la conseguenza che il terzo in buona fede resterebbe pregiudicato nei suoi diritti e nei suoi interessi,
per aver confidato, senza sua colpa, nella validità e nella efficacia di un contratto). Altro caso tipico di applicazione del principio in discorso è quello della c.d. società di fatto che, ancorché
non esistente nella realtà dei rapporti giuridici, può apparire come tale di fronte ai terzi, quando
due o più soggetti agiscano nel mondo esterno in modo da determinare la opinione che essi
siano soci: in questo caso, sempre per la esigenza di tutelare la buona fede del terzo, questi, che
senza sua colpa abbia fatto affidamento sulla esistenza effettiva di un rapporto societario fra alcune persone e sia venuto in rapporto con una di queste che abbia agito in nome e per conto
della società, potrà sempre invocare la responsabilità illimitata e solidale di tutte quelle persone
che operavano in modo da apparire legate da un effettivo vincolo sociale (Cass. 27 giugno 1994
n. 6187).
6.b. Nel caso, invece, del rapporto tra il condominio ed il singolo condomino (proprietario
esclusivo di singole unità immobiliari dello stabile condominiale), in ordine al pagamento, da
parte di quest’ultimo, della sua quota di spese sostenute per la conservazione e per il godimento
delle parti comuni dell’edificio, ovvero per la prestazione dei servizi nell’interesse comune o
per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, non si pone affatto una esigenza di tutelare al
riguardo l’affidamento incolpevole del condominio e, quindi, di dare, a tal fine, corpo e sostanza
ad una situazione apparente per non pregiudicare il condominio medesimo (Cass. 19 aprile
2000 n. 5122). Invero, a prescindere dalla considerazione che il condominio non è terzo ma una
parte del rapporto, in tal caso, non può, ai fini della tutela della buona fede del condominio, sorgere la necessità di collegare effetti giuridici ad una situazione apparente, come è nei casi esemplificati sopra, nei quali, se non si collegassero effetti giuridici alla situazione apparente, il terzo
incolpevole non vedrebbe sorgere il rapporto sulla cui esistenza e validità aveva senza sua colpa
confidato. Il rapporto giuridico tra il condominio e l’effettivo singolo condomino, proprietario
esclusivo della unità immobiliare, esiste, infatti, in ogni caso nella realtà, essendo previsto dagli
artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. di detto codice, e trattasi di un rapporto che, risultando da una situazione obiettiva quale è quella della proprietà delle varie unità immobiliari, non può essere
influenzato dal comportamento di alcuno, rispetto al quale è oltretutto anteriore.
6.c. Si è pure osservato che paradossalmente, nel caso di rapporti tra condominio e condomino, con la pretesa applicazione del principio dell’apparenza del diritto, si determinerebbe
una situazione in un certo senso opposta a quella che si verifica nei casi della società apparente
e dell’apparente rappresentato: in questi, infatti, non esiste un valido ed effettivo rapporto e,
per la tutela dell’affidamento e della buona fede del terzo incolpevole, si deve attribuire rilevanza giuridica ad una situazione meramente apparente; nel caso in esame, invece, esiste, nella
realtà giuridica un effettivo rapporto e lo si mette in non cale in forza di una situazione meramente apparente, da cui, senza necessità alcuna, si fa discendere un rapporto dello stesso contenuto (peraltro non assistito da garanzie come quello effettivo). Il fatto che il condominio, per
errore determinato da un comportamento altrui, possa avere intrapreso una iniziativa giudiziaria, può valere ad altri effetti e determinare semmai altre responsabilità ed in altre direzioni,
ma non può portare a porre, a carico di un soggetto un obbligo che, invece, la legge pone a carico di un altro soggetto, esistente e bene individuato in base ad un rapporto oggettivo (Cass. 27
giugno 1994 n. 6187).
257
258
PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
7. La dottrina che commenta favorevolmente l’orientamento giurisprudenziale volto a negare
la possibilità di applicare il principio dell’apparenza in tema di pagamento di spese condominiali, chieste dall’amministratore all’apparente condomino, svolge le seguenti considerazioni.
7.a. Innanzitutto sostiene che non è possibile superare il limite sempre riconosciuto dell’operatività del principio dell’apparenza per tutti quei casi in cui l’ordinamento attribuisce valore costitutivo, probatorio o anche di semplice notizia ad un particolare sistema di pubblicità diretta a
rendere nota ai terzi una determinata situazione giuridica sulla quale possono fare legittimo affidamento. Pubblicità e apparenza sono infatti istituti che si completano l’un l’altro, rispondenti
alle medesime finalità di tutela dei terzi di buona fede; ma proprio perché tendenti alle stesse
esigenze pratiche, logica vuole che dove opera la prima non abbia più ragione di operare la seconda. La tutela dell’apparenza non può infatti tradursi in un indebito vantaggio per chi abbia
trascurato di accertarsi della realtà delle cose, preferendo affidarsi alla parvenza dei fatti. La titolarità del diritto reale rimane dunque la posizione giuridica essenziale e maggiormente rilevante, sia pure come presupposto determinante in una fattispecie più complessa; e non si vede
come possa riconoscersi rilievo alcuno alla situazione giuridica apparente, in contrasto con
quella risultante dai pubblici registri, senza mettere in forse la stessa validità e vigenza di tutto
il sistema di pubblicità.
7.b. Richiama poi i principi di carattere generale elaborati in tema di tutela dell’apparenza
del diritto secondo cui apparenza e pubblicità sono — e insieme con altri — strumenti concorrenti di tutela giuridica di una medesima esigenza pratica in relazione alla quale la c.d. apparenza assume la funzione di mezzo complementare, per cui là dove la pubblicità si attua pienamente e compiutamente, deve escludersi ogni autonoma tutela dell’apparenza, comunque
venga intesa. Infatti, quando la legge con i normali sistemi di pubblicità consente al contraente
di accertarsi del vero stato delle cose, non è necessario alcun principio che protegge la buona
fede del terzo, il quale faccia affidamento su di una situazione apparente. Pertanto la pubblicità
è un limite all’efficacia dell’apparenza. E questa affermazione trova puntuale riscontro nel costante orientamento della giurisprudenza, secondo il quale il principio dell’apparenza del diritto
non può essere invocato quando la situazione che si pretende apparente sia in contrasto con situazioni giuridiche risultanti dalla pubblicità legale. L’apparenza è infatti uno strumento elastico
idoneo a penetrare nei campi in cui il formalismo giuridico non ha avuto la possibilità di esplicarsi, e mira a proteggere l’interesse dei terzi tutte le volte in cui essi non hanno una dichiarazione formale su cui poggiare e tuttavia sono stati tratti in inganno da una situazione di fatto
che abbia manifestato come esistente una realtà giuridica inesistente.
7.c. La dottrina che esclude la tutela dell’apparenza del diritto ai rapporti tra condominio e
condomino apparente rileva ulteriormente che non può attribuirsi al conduttore di un’unità immobiliare la qualità di condomino per il solo fatto di avere egli partecipato alle assemblee condominiali, diritto che, peraltro, gli è riconosciuto dall’art. 10 della l. n. 392 del 1978; tale norma
si limita a prevedere solo una legittimazione del conduttore alla partecipazione alle assemblee
condominiali relative a determinate materie, con diritto di voto o di intervento nelle relative delibere e non una legittimazione passiva del conduttore nei confronti del condominio in ordine
al pagamento degli oneri condominiali. Il nostro legislatore non prevede una azione diretta del
condominio nei confronti del conduttore di una unità immobiliare. L’unico caso in cui potrebbe
sussistere una obbligazione del conduttore nei confronti del condomino sarebbe quello in cui il
conduttore, d’accordo con il locatore, si fosse accollato (con un accollo esterno) i pagamenti da
effettuare periodicamente all’amministratore, sempreché anch’egli avesse aderito a tale convenzione a norma dell’art. 1273 c.c. o ne fosse stato comunque a conoscenza. La legge n. 392 del
1978 non ha, nei confronti del condominio, aggiunto al debitore originario (il condomino) un altro debitore (il conduttore), ma ha soltanto voluto disciplinare i rapporti tra conduttore e locatore.
8. Ritiene il Collegio che, valutate tali opposte prospettazioni e le rispettive argomentazioni,
le quali, peraltro, più che fronteggiarsi (come in taluni momenti pur è avvenuto) in termini di
radicale contrapposizione hanno, tendenzialmente, piuttosto, espresso una evoluzione, per aggiustamenti successivi, di una linea interpretativa, la questione di contrasto, per quanto e nei limiti in cui episodicamente ancora si ripropone, debba comporsi in conformità del riferito più
recente indirizzo che perviene ad escludere l’applicazione del principio dell’apparenza del di-
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
ritto nei rapporti tra condominio e condomino, nel senso che in tema di ripartizione delle spese
condominiali è passivamente legittimato, rispetto all’azione giudiziaria promossa dall’amministratore per il recupero della quota di competenza, il vero proprietario della porzione immobiliare e non anche chi possa apparire tale. E ciò sia in considerazione della suitas dell’apparenza
del diritto, sia sulla base di una corretta interpretazione degli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c.,
avuto riguardo alla natura processuale (contenziosa) dell’iniziativa giudiziaria intrapresa dall’amministratore e al sistema delle garanzie del credito.
8.1. II principio dell’apparenza del diritto — ancorché rispondente (come ammesso in dottrina, ma soprattutto in giurisprudenza) ad uno schema negoziale di vasta portata, trascendente
l’ambito delle singole figure legislativamente disciplinate e riconducibile a quello più generale
della tutela dell’affidamento incolpevole — ha, però, una sua innegabile specificità e peculiarità,
nel senso che non è suscettibile di incauti impieghi, specie in relazione a quelle fattispecie che
trovano già nella legge una compiuta disciplina, venendo in considerazione solo in presenza
dell’esigenza di tutelare il terzo in buona fede in ordine alla corrispondenza fra la situazione apparente e quella reale.
8.2. Nel caso del rapporto tra condominio (che pacificamente è ente di gestione) e il singolo
condomino (proprietario esclusivo di determinate porzioni di piano o di unità immobiliari dello
stabile condominiale) in ordine al pagamento, da parte di quest’ultimo, della sua quota di spese,
sostenute per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione di servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, una
esigenza di tutelare al riguardo l’affidamento incolpevole del condominio (che terzo non è) e,
quindi, di dare a tal fine corpo e sostanza ad una situazione apparente per non pregiudicare il
condominio medesimo, non si pone affatto. Come già osservato, innanzitutto il condominio non
è terzo ma una parte del rapporto, sicché rispetto ad esso non è possibile convertire la inesistente titolarità del diritto di proprietà nella effettiva titolarità e la inesistente legittimazione in
una effettiva legittimazione nascente dalla situazione di apparenza. Inoltre, nel caso in esame, è
da escludere la necessità, ai fini della tutela della buona fede del condominio, di collegare effetti
giuridici ad una situazione apparente, come avviene nelle ipotesi di applicazione del principio
dell’apparenza del diritto, dove, in mancanza di tale collegamento, il terzo incolpevole non vedrebbe sorgere il rapporto sulla cui esistenza e validità aveva senza sua colpa confidato, perché
il rapporto giuridico tra il condominio e il singolo condomino, proprietario esclusivo di unità immobiliari, esiste in ogni caso nella realtà.
8.3. Invero tale rapporto è espressamente previsto dagli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c., che
disciplinano compiutamente la materia della ripartizione delle spese e del recupero, da parte
dell’amministratore, della quota di competenza del singolo condomino, stabilendo l’art. 1123 c.c.
(primo comma) che ‘‘Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della
proprietà di ciascuno, salva diversa convenzione’’; e l’art. 63 disp. att. c.c. (primo comma) che
‘‘Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea,
l’amministratore può ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, nonostante opposizione’’, aggiungendo (secondo comma) che ‘‘Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello
precedente’’.
8.4. L’ipotesi non contenziosa del rapporto va mantenuta distinta da quella contenziosa. Le
esigenze di celerità, praticità e funzionalità, addotte a giustificazione dell’applicazione dell’istituto dell’apparenza del diritto, valgono per l’ipotesi non contenziosa del rapporto, quando, cioè,
l’apparente condomino non solleva alcuna contestazione provvedendo al pagamento degli oneri
condominiali. In tal caso le violazioni dei rispettivi doveri (quelli di correttezza e di informazione a carico del condomino apparente e quelli di consultazione dei registri immobiliari a carico dell’amministratore) non rilevano; in particolare l’amministratore non è tenuto ad effettuare alcuna indagine, mediante consultazione dei pubblici registri (che può essere anche costosa e a volte complessa, con grave nocumento per la gestione condominiale) circa il vero proprietario dell’unità immobiliare, potendo oltretutto il problema essere affrontato anche in
termini di adempimento del terzo (art. 1180 c.c.). Diversa è l’ipotesi contenziosa, quando cioè
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
l’amministratore, in presenza di mancato pagamento, deve agire giudizialmente per il recupero
delle spese condominiali. In tal caso, l’istituto dell’apparenza del diritto, che non è di natura
processuale, bensı̀ di natura sostanziale, non può valere a giustificare un’iniziativa giudiziaria
svincolata dalla realtà; mentre la violazione dei rispettivi doveri va considerata, esigendo nel
contempo un collegato giudizio di comparazione e bilanciamento tra situazioni contrapposte.
8.5. Nell’ipotesi in cui l’amministratore agisca per il recupero delle spese di competenza, l’osservanza del dovere di consultazione dei registri immobiliari presso la conservatoria assume rilievo ed è preminente (rispetto al contrapposto dovere di correttezza e informativa) per l’individuazione del vero condomino obbligato, non solo perché corrisponde a regola di normale prudenza accertare l’effettivo legittimato passivo allorché si intende dare inizio ad un’azione giudiziaria, ma anche perché appare conforme al sistema della tutela del credito. Sotto quest’ultimo
profilo, ancorché generalmente l’omesso pagamento si verifica per le spese (consistenti) collegate alle innovazioni deliberate dalla maggioranza (come nel caso specifico), l’amministratore
che agisce contro il condomino apparente, nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia privo di beni, potrebbe non vedere soddisfatto il credito azionato, con grave pregiudizio per la gestione condominiale. Laddove, invece, essendo il vero condomino proprietario dell’unità immobiliare, l’amministratore che agisce contro di lui può utilmente esperire tutti i mezzi di conservazione della
garanzia patrimoniale (in particolare chiedere sequestro conservativo: art. 2905 c.c. e 671 c.p.c.)
per il soddisfacimento del credito. Il sistema normativo (art. 1123 e art. 63 disp. att. c.c.) che, in
tema di omesso pagamento delle spese condominiali, consente all’amministratore di ottenere
decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, stabilendo altresı̀
che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento
dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente, è finalizzato non soltanto alla celerità ma anche al rafforzamento e soddisfacimento del credito per il buon andamento e operatività della gestione condominiale.
9. Conclusivamente deve affermarsi (in tal senso, quindi, risolvendosi la questione di contrasto) che, in caso di azione giudiziale dell’amministratore del condominio per il recupero della
quota di spese di competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, e passivamente
legittimato il vero proprietario di detta unità e non anche chi possa apparire tale.
1.5. La sentenza della Cassazione, seconda Sezione civile, del 27 dicembre 2004,
n. 23994.
La conferma della
statuizione delle
sez. un.
A distanza di due anni dalla pronuncia delle sez. un., la Suprema Corte è di
nuovo investita della questione afferente l’applicabilità del principio dell’apparenza del diritto in materia di azione giudiziale per il recupero delle spese codominiali.
La seconda Sezione, manifestando condivisione e aderenza ai principi generali
delineati dalle sez. un. in tema, ritiene di aderire all’indirizzo giurisprudenziale
avallato dalla sentenza 8 aprile 2002, n. 5035, statuendo che che in materia di
azione giudiziale per il recupero della spesa condominiale non può farsi ricorso
all’istituto, di natura sostanziale e non processuale, dell’apparentia iuris, non essendo peraltro ammissibile che una sentenza di condanna venga emessa nei
confronti di chi sia stato accertato essere condomino apparente e, quindi, solo
apparente debitore, introducendo nel processo l’anomalo principio della legittimazione apparente.
Tra rilevanza dell’apparenza o della pubblicità in ordine alla posizione giuridica debitoria derivante da un rapporto obbligatorio connesso al diritto di proprietà su bene immobile, le Sezioni Unite e la successiva giurisprudenza della
Corte di Cassazione optano per la certezza della situazione giuridico-fattuale cer-
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
ziorata nei registri immobiliari, onerando l’amministratore condominiale-attore
di verificare la rispondenza dell’apparenza alla realtà giuridica.
Inoperante il principio dell’apparentia iuris dinanzi all’espressa previsione di
un regime legale di pubblicità, la Corte smentisce l’efficacia del principio in parola sul piano processuale, ché, diversamente, condurrebbe all’aberrante riconoscimento della legittimazione processuale apparente.
La statuizione del giudice della legittimità appare attentamente ponderare le
contrapposte istanze in gioco: da un lato, la celerità, la praticità e la funzionalità
dei rapporti giuridici che invocano l’applicazione del principio dell’apparenza;
dall’altro, ragioni di principio e deduzioni logico-giuridiche, coerenza di sistema
e certezza delle situazioni soggettive che impongono l’osservanza della regola di
base, fondata sul rispetto delle risultanze pubblicitarie; pervenendo a una condivisibile conclusione, mediante logico procedimento motivazionale, di preferenza
delle ragioni a sostegno dell’applicazione della regola della pubblicità.
1.6. L’obbligo di convocare il condomino reale e non il condomino apparente:
Cassazione civile, sez. II, 9 febbraio 2005, n. 2616.
L’esclusione del principio dell’apparenza nei rapporti condominiali comporta
che unico legittimato a partecipare all’assemblea (e a rivedere quindi la convocazione) è il vero condomino, con la conseguenza che deve ritenersi invalida una
delibera approvata dall’assemblea alla quale non aveva partecipato la proprietaria dell’unità immobiliare.
In tal senso si è espressa Cass., sez. II, 9 febbraio 2005, n. 1616 di cui si riporta
il principio di diritto:
In tema d’assemblea condominiale, deve essere convocato il vero proprietario
della porzione immobiliare e non anche colui che si sia comportato, nei rapporti
con i terzi, come condomino senza esserlo, difettando nei rapporti tra il condominio
ed i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l’operatività del principio dell’ apparenza del diritto, che è volto essenzialmente all’esigenza di tutela dei terzi in
buona fede, fra i quali non possono considerarsi i condomini; d’altra parte, non è in
contrasto, ma anzi in armonia con tale principio, la norma del regolamento condominiale che, imponendo ai condomini di comunicare all’amministratore i trasferimenti degli immobili di proprietà esclusiva, ha lo scopo di consentire la corretta
convocazione dei soggetti legittimati a partecipare all’assemblea condominiale.
(Nella specie è stata dichiarata illegittima la delibera approvata dall’assemblea alla
quale non aveva partecipato la proprietaria di un’unità immobiliare, essendo stata
la relativa convocazione inviata al marito il cui nominativo era indicato nell’elenco
dei condomini).
Parimenti al condomino vero e non al condomino apparente deve essere riconosciuta la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari.
In tal senso Tribunale Napoli, 13 marzo 2006 secondo cui La legittimazione ad
impugnare le deliberazioni condominiali spetta unicamente a colui che riveste la
qualità di condomino (reale e non apparente); e ciò in considerazione dell’elementare rilievo per cui solo colui che è parte della collettività condominiale ha titolo per incidere sull’assetto di interessi da essa datosi nell’esercizio della propria
261
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
autonomia privata: la domanda, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile
qualora l’instante abbia alienato la proprietà sita nell’edificio in condominio
z 2. Il regime di invalidità delle delibere condominiali.
Quale
impugnazione per
le delibere
condominiali?
Casistica dei vizi
delle delibere
L’aperto contrasto (dottrinario e) giurisprudenziale in ordine al regime di impugnazione delle delibere condominiali ha richiesto l’intervento delle sez. un.
della Cassazione, chiamate a dirimere il certamen afferente la qualificazione del
vizio inficiante la validità delle delibere assembleari in termini di nullità o annullabilità.
La casistica dei motivi di invalidità delle delibere in questione è ampia e ricomprende sia vizi di forma sia vizi di sostanza: carenza degli elementi essenziali,
impossibilità o illicetià dell’oggetto, estraneità dell’oggetto alla competenza assembleare, violazione dei diritti individuali sulla res communis o sulla proprietà
dei singoli, irregolare costituzione dell’assemblea, violazione di prescrizioni legali, convenzionali o regolamentari attinenti al procedimento di convocazione o
di informazione dell’assemblea e, in particolare, la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale.
È proprio con riferimento al caso da ultimo citato che la Suprema Corte è stata
chiamata a statuire sulla tipologia del vizio inficiante la delibera assembleare, assumendo, con l’occasione, una posizione chiara e decisa anche sulla natura dei
restanti vizi.
2.1. I termini del contrasto giurisprudenziale.
L’orientamento
giurisprudenziale
teso alla nullità
L’orientamento
giurisprudenziale
teso alla
annullabilità
L’omessa comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione
dell’assemblea condominiale ha rappresentato per lungo tempo nell’orientamento della giurisprudenza motivo di nullità della delibera condominiale. E ciò
sulla scorta di tre distinte argomentazioni, la prima delle quali fondante sulla difettosa costituzione dell’organo deliberante (Cass. 12 febbraio 1993, n. 1780), la
seconda afferente il vizio del procedimento di formazione della volontà assembleare (Cass. 2 marzo 1987, n. 2184), la terza concernente la violazione dell’art.
1136, sesto comma, c.c. (in forza del quale ‘‘l’assemblea non può deliberare se
non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione’’).
L’orientamento più recente della Corte (Cass. 5 gennaio 2000, n. 31; Cass. 5
febbraio 2000, n. 1292) ritiene, invece, che il condomino nei cui confronti sia
stata omessa la comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea abbia
titolo per l’esercizio dell’azione giudiziaria volta ad ottenere una sentenza costitutiva di annullamento della delibera.
Il mutamento di indirizzo trae argomento dal raffronto analogico con le norme
disciplinanti la comunione (artt. 1105, comma 3, e 1109 c.c.) che prevedono la
‘‘mera’’ annullabilità delle deliberazioni assunte dai contitolari in caso di mancata preventiva comunicazione della riunione a taluno dei partecipanti alla comunione, ed è corroborato dall’assunto dell’identità di ratio sussistente tra la disciplina in materia societaria e quella in materia condominiale, la prima delle
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
263
quali (secondo la disciplina ante riforma) espressamente limita la nullità ai soli
casi di impossibilità ed illiceità dell’oggetto delle delibere assembleari.
Le cause di nullità concernenti l’oggetto delle delibere sono classificate dalla
Suprema Corte come le uniche afferenti la sostanza degli atti. In conseguenza di
tale sistematizzazione, la Corte opera una distinzione delle cause d’invalidità
delle delibere fondata sul ‘‘tipo’’ di interesse leso, sicché solo la violazione degli
interessi sostanziali determina la nullità delle delibere, mentre la violazione delle
prescrizioni formali determina la mera annullabilità delle stesse.
2.2. Le valutazioni delle Sezioni Unite.
Le sez. un. della Cassazione traggono le fila della propria argomentazione valutativa dei contrapposti orientamenti dallo status della normativa vigente in materia di condominio e nelle materie analoghe ad essa.
Il dato normativo incontrovertibile (art. 1137, comma 2) rivela che la categoria
della nullità non è prevista in materia di condominio, contemplante solo l’istituto
dell’annullabilità delle delibere assembleari. Di talché, in assenza di specifica disposizione normativa, le sez. un. ritengono debba ammettersi la nullità solo nei
casi più gravi.
E la mancata convocazione di un condomino alla riunione assembleare non è
considerata tra questi.
L’art. 1136, comma 6, c.c. — in forza del quale ‘‘l’assemblea non può deliberare
se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione’’ —, che rappresenta uno dei baluardi a sostegno della tesi della nullità della delibera per
mancata convocazione di un condomino, è inteso dalle sez. un. nel senso che
l’assemblea non può ‘‘validamente’’ deliberare in difetto di convocazione di un
condomino, pena l’annullamento della delibera (nel prescrito termine di trenta
giorni).
Rileva, poi, la portata del combinato disposto degli art. 1105, comma 3, e 1109
n. 2 e p.ult., c.c., che in tema di comunione stabilisce l’impugnazione della delibera entro il termine di decadenza di trenta giorni nel caso di omessa preventiva
informazione a tutti i partecipanti.
Un ulteriore argomento proviene dalla nuova disciplina del regime di impugnazione delle delibere societarie. Nel sistema adottato dalla riforma, la regola
generale è rappresentata dall’annullabilità delle delibere per violazione dei legge
o di statuto. La nullità, invece, consegue a talune violazioni particolarmente gravi
della legge e di intensità non suscettibile di sanatoria.
Sotto il profilo generale ed astratto, le sez. un. ritengono che l’annullabilità
delle delibere per vizio di convocazione del condomino non collide con il principio collegiale e maggioritario (dunque, democratico) posto a fondamento del funzionamento del sistema condominiale: ‘‘se in base al metodo collegiale e al principio maggioritario si vincolano anche tutti i condomini assenti o dissenzienti
non deve menar scandalo la mancata convocazione di un condomino il quale,
peraltro, non resta privo di tutela, poiché può impugnare quando la delibera gli
viene comunicata’’.
A fondamento della statuizione le sez. un. pongono anche riflessioni e argomenti desunti dalla teoria generale degli atti giuridici.
Il dato normativo
di partenza
L’art. 1136,
comma 6, c.c.
Profili di analogia
con la comunione
Profili di analogia
con la riforma del
diritto societario
Profili di teoria
generale del diritto
PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
264
In generale, ‘‘si considera nullo l’atto quando manca ovvero è gravemente viziato
un elemento costitutivo, previsto secondo la configurazione normativa. Pertanto, a
causa dell’assenza ovvero del grave vizio dell’elemento considerato essenziale, l’atto
si considera inidoneo a dar vita alla nuova situazione giuridica, che il diritto ricollega al tipo legale, in conformità con la sua funzione economico-sociale. Per contro,
si considera annullabile l’atto in presenza di carenze o di vizi ritenuti meno gravi,
secondo la valutazione compiuta dall’ordinamento. Annullabile è, dunque, l’atto che
non mancando degli elementi essenziali del tipo presenta vizi non gravi, che lo rendono idoneo a dare vita a una situazione giuridica precaria, che può essere rimossa’’.
Sulla scorta delle considerazioni svolte e della ponderazione dei principi coinvolti, le sez. un. ritengono che
‘‘debbano qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere
con oggetto impossibile o illecito, le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o
servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto. Debbono, invece, qualificarsi annullabili le
delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate
con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all’oggetto.
Il contrasto giurisprudenziale, pertanto, va risolto affermandosi che la mancata
comunicazione, a taluno dei condomini, dell’avviso di convocazione dell’assemblea
condominiale comporta non la nullità, ma l’annullabilità della deliber condominiale,
che se non viene impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 1137,
comma 3, c.c. — decorrente per icondomini assenti dalla comunicazione e per i condomini dissenzienti dalla sua approvazione — è valida ed efficace nei confronti di
tutti i partecipanti al condominio’’.
2.3. La sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, 7 marzo 2005, n. 4806.
(omissis).
Il ricorso contiene
tre motivi
Motivi della decisione
Il primo motivo riguarda la violazione dell’art. 1136, sesto comma, c.c.. Affermano i ricorrenti
che dalla lettera della legge, secondo cui l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti
i condomini sono stati invitati alla riunione’’, deriverebbe che la delibera stessa è nulla e non
annullabile, qualora l’assemblea deliberi senza che, anche uno solo dei condomini, sia stato invitato alla riunione.
Il secondo motivo denuncia la falsa applicazione dell’art. 1137, secondo e terzo comma, c.c.. Premesso di aver dedotto con i motivi d’appello l’omissione nel verbale dei nominativi dei condomini
presenti (ovvero assenti, assenzienti e dissenzienti), dei valori dei millesimi e dell’entità delle spese
deliberate ed approvate, i ricorrenti sostengono la nullità di tali delibere e non l’annullabilità, che la
Corte d’appello avrebbe ritenuto incorrendo nella falsa applicazione dell’art. 1137 cit.. In particolare sottolineano che il verbale deve contenere gli elementi indispensabili per il riscontro della vali-
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
dità della costituzione assembleare: l’indicazione dei condomini e dei millesimi sono essenziali ai
fini della verifica della prescritta maggioranza ex art. 1136 c.c.
Il terzo motivo concerne la violazione dell’art. 1123, terzo comma, c.c.. I ricorrenti assumono che,
essendo state poste a loro carico spese — quali la tassa di occupazione del suolo pubblico, lavori
straordinari per posti auto e per un ascensore — che dovevano essere a carico solo dei condomini
che ne traevano utilità, la delibera è nulla.
2. I motivi sono stati contestati dal Condominio che, dopo aver evidenziato rispetto al primo che
i ricorrenti nei precedenti gradi di giudizio non si sono mai doluti della mancata comunicazione
dell’avviso di convocazione dell’assemblea, ha sostenuto che, comunque, tutte le dedotte ipotesi sono
riconducibili nell’ambito dell’annullabilità e non della nullità.
3. È bene premettere, per quanto riguarda il primo motivo, che la questione della mancata comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea è entrata nel thema decidendum, evidentemente perché ritenuta strettamente connessa con quella della mancata indicazione dei nominativi
dei condomini, tant’è che di essa espressamente si occupa la sentenza impugnata (fine p. 5, inizio
p. 6), donde l’infondatezza del profilo di inammissibilità prospettato dal Condominio.
4. Il contrasto giurisprudenziale rilevato con l’ordinanza di remissione è se comportino la nullità
o la annullabilità della delibera: a) la mancata comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea, anche ad un solo condomino; b) l’omessa indicazione, nel verbale, dei condomini presenti
e dell’entità delle spese deliberate e approvate; c) l’errata ripartizione delle spese.
5. Prima di procedere all’esame del contrasto, è opportuno effettuare una, sia pur sintetica, ricognizione dell’orientamento della Corte e della dottrina in tema di nullità e annullabilità delle delibere
dell’assemblea condominiale.
5.1. La Corte, in generale, ha affermato che sono da ritenersi nulle le delibere con vizi relativi
alla regolare costituzione dell’assemblea o alla formazione della volontà della prescritta maggioranza; quelle con maggioranze inferiori alle prescritte; le delibere prive degli elementi essenziali;
quelle adottate con maggioranza inesistente, apparente o inferiore a quella prescritta dalla legge o
dal regolamento condominiale; le delibere con oggetto impossibile o illecito, a volte specificandolo
come oggetto contrario all’ordine pubblico, o alla morale, o al buon costume; le delibere con oggetto
che non rientra nella competenza dell’assemblea; le delibere che incidono sui diritti individuali sulle
cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini; le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto.
5.2. Nell’ambito della categoria delle delibere contrarie alla legge o al regolamento condominiale,
la Corte ha affermato che sono da ritenersi annullabili quelle affette da vizi formali, in violazione di
prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea; quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione; le delibere viziate da eccesso di potere o da incompetenza, che invadono cioè il campo riservato all’amministratore; le delibere che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in
relazione all’oggetto.
6. Secondo la dottrina sono nulle le delibere affette da un vizio sostanziale, annullabili quelle inficiate da un vizio di forma.
6.1. In particolare, premesso che l’art. 1137 c.c. ha un’ampia portata ma non si riferisce a quelle
decisioni assembleari che sono senza effetto alcuno in forza di principi generali indiscutibili, e perciò attaccabili in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, alcuni autori ritengono nulle le delibere
prive dei requisiti essenziali, in quanto prese da assemblee non regolarmente costituite (anche perché non sono stati invitati tutti i condomini) o con maggioranze inesistenti o apparenti; ovvero
quelle aventi un oggetto impossibile o illecito; quelle esorbitanti dalla sfera dei compiti dell’assemblea; quelle che ledono i diritti di ciascun condomino sulle cose e servizi comuni o sul proprio piano
o appartamento. Considerano annullabili le delibere affette da vizi formali, prese in violazioni di
prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione e di informazione dell’assemblea.
6.2. Altri autori, operando un accostamento con i principi generali e le disposizioni dettate in
tema di delibere societarie, ritengono nulle le delibere aventi ad oggetto materie sottratte alla competenza della assemblea, la ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli legali, contenuto
illecito o impossibile, la menomazione dei diritti spettanti a ciascun condomino, e quelle contrarie a
norme imperative. Sono, invece, annullabili le delibere assunte a seguito di un procedimento viziato,
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
ovvero inficiate da eccesso di potere perché invadono il campo riservato alla competenza dell’amministratore.
7. Il denunciato contrasto è sintetizzabile nei seguenti termini.
7.1. Sull’omessa comunicazione dell’avviso, sino al 2000 è rimasto fermo il principio, affermato
dalla Corte in numerose pronunce (v. fra le tante: Cass. 1 ottobre 1999, n. 10886; 19 agosto 1998,
n. 8199; 12 giugno 1997, n. 5267; 27 giugno 1992, n. 8074; 9 dicembre 1987, n. 9109; 15 novembre
1977, n. 4984; 16 aprile 1973, n. 1079; 12 novembre 1970, n. 2368), della nullità della delibera. In
alcune sentenze, la sanzione della nullità è espressamente ricondotta alla difettosa costituzione dell’organo deliberante, risultando irrilevante l’incidenza o meno del voto sulle prescritte maggioranze
(Cass. 12 febbraio 1993, n. 1780; 15 novembre 1977, n. 4984). In altre la nullità è ricondotta all’esigenza che tutti i condomini siano preventivamente informati della convocazione dell’assemblea, cosı̀
da poter essere partecipi del procedimento di formazione della delibera stessa, con la conseguenza
che non determinano la nullità le mere irregolarità, quali la convocazione ad opera di persona non
qualificata, (Cass. 2 marzo 1987, n. 2184) o l’incompletezza dell’ordine del giorno (Cass. 21 settembre 1977, n. 4035) che danno luogo alla sola annullabilità. A volte la nullità è fatta discendere
espressamente dall’art. 1136, sesto comma, c.c.
7.2. A partire dal 2000, cambiando orientamento, la Corte (Cass. 5 gennaio 2000, n. 31; 5 febbraio 2000, n. 1292; 1 agosto 2003, n. 11739) afferma che la mancata comunicazione dell’avviso di
convocazione dell’assemblea condominiale ad un condomino determina la semplice annullabilità
della delibera. Il mutamento di indirizzo della Corte trae argomento: a) dal combinato disposto degli artt. 1105, terzo comma, e 1109 c.c., in base al quale la mancata preventiva informazione dei
partecipanti alla comunione determina semplicemente l’impugnabilità, nel termine di decadenza di
trenta giorni, delle deliberazioni assunte da parte dei componenti della minoranza dissenziente; b)
dal parallelismo e dall’identità di ratio (individuata nell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici,
messa a rischio dalla possibilità di dedurre in ogni tempo la nullità) esistente tra la disciplina in
materia di società di capitali (artt. 2377, 2379 c.c., logicamente prima della riforma introdotta col d.
lgs. 17.1.2003 n. 6, di cui si dirà in seguito) e quella in materia condominiale (art. 1137 c.c.) in tema
di delibere dell’assemblea (dei soci, nel primo caso, e dei condomini, nel secondo), la prima delle
quali espressamente limita le ipotesi di nullità delle delibere assunte dall’assemblea dei soci ai soli
casi dell’’’impossibilità’’ e dell’’’illiceità’’ dell’oggetto.
7.3. In particolare, i vizi dell’oggetto come causa di nullità sono ricollegati con i confini posti in
materia di condominio al metodo collegiale e al principio di maggioranza. Secondo la Corte ‘‘tanto la
impossibilità giuridica, quanto la illiceità dell’oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all’assemblea, considerato che la prima consiste nella inidoneità degli interessi contemplati ad essere
regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l’assetto stabilito in
concreto, e che la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, alle quali l’assemblea
non può derogare, ovvero con la lesione dei diritti individuali, attribuiti ai singoli dalla legge, dagli atti
di acquisto e dalle convenzioni’’. Di conseguenza la formula dell’art. 1137 c.c. deve interpretarsi nel
senso che per ‘‘deliberazioni contrarie alla legge’’ s’intendono le delibere assunte dall’assemblea senza l’osservanza delle forme prestabilite dall’art. 1136 (ma pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.)’’. Inoltre, ‘‘mentre le cause di nullità afferenti all’oggetto raffigurano le uniche cause di invalidità riconducibili alla ‘‘sostanzà degli atti, alle quali
l’ordinamento riconosce rilevanza’’ e costituendo vizi gravi non sono soggette a termine per l’impugnazione; invece ‘‘sono inficiate da un vizio di forma le deliberazioni quando l’assemblea decide
senza l’osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione
di tutti i condomini alla formazione della volontà collettiva per gestire le cose comuni’’ e, attinendo al
procedimento di formazione, producono un vizio non grave che, se non fatto valere nei termini prescritti, non inficia gli atti.Le diverse cause di invalidità sono state, quindi, ricondotte al tipo di interesse leso: interessi sostanziali inerenti all’oggetto delle delibere, per la nullità; strumentali, in quanto connessi con le regole procedimentali relative alla formazione degli atti, per l’annullabilità.
8. Con riferimento al verbale delle delibere dell’assemblea dei condomini, un vero e proprio contrasto giurisprudenziale non sembra emergere, registrandosi soltanto alcune puntualizzazioni e
specificazioni.
8.1. Infatti, la Corte, in alcune pronunce (v. ex plurimis: Cass. 22 maggio 1999, n. 5014; 19 ottobre 1998, n. 10329) ha espressamente affermato l’annullabilità ex art. 1137 c.c. della delibera il cui
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
verbale contiene delle omissioni, precisando che la redazione del verbale costituisce una delle
prescrizioni di forma che devono essere osservate al pari delle altre formalità richieste dal procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, etc.), la cui inosservanza comporta l’impugnabilità della delibera, in quanto non presa in conformità della legge.
8.2. Principio che si ritrova implicitamente alla base di altre pronunce, dove la Corte ha affermato l’annullabilità delle deliberazioni assembleari nel caso in cui non siano individuati, e riprodotti nel relativo verbale, i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, ed i valori delle
rispettive quote millesimali (Cass. 22 gennaio 2000, n. 697; 29 gennaio 1999, n. 810).
8.3. È stato pure affermato che la sottoscrizione del presidente subentrato in luogo di quello che
all’inizio ha presieduto concreta una irregolarità formale, comportante annullabilità (Cass. 29 ottobre 1973, n. 2812); e in generale, la stessa redazione per iscritto del verbale, prescritta dall’art.
1136, ultimo comma, c.c., non è prevista a pena di nullità, tranne il caso in cui la delibera incida su
diritti immobiliari (Cass. 16 luglio 1980, n. 4615).
9. Parimenti per quanto riguarda le delibere in materia di ripartizione delle spese (se si esclude
l’isolata e risalente pronuncia n. 1726 del 4 luglio 1966) non sembra sussistere contrasto nella giurisprudenza, atteso che la Corte — a partire del 1980 — ha costantemente distinto, sulla base di un
medesimo criterio, le ipotesi di nullità (v. Cass. 9 agosto 1996, n. 7359; 15 marzo 1995, n. 3042; 3
maggio 1993, n. 5125; 19 novembre 1992, n. 12375; 5 dicembre 1988, n. 6578; 21 maggio 1987,
n. 4627; 5 ottobre 1983, n. 5793; 5 maggio 1980, n. 29289) da quelle di annullabilità (cfr. Cass. 9
febbraio 1995, n. 1455; 8.6.1993, n. 6403; 1 febbraio 1993. n. 1213; 5 agosto 1988, n. 4851; 8 settembre 1986, n. 5458), in molti casi facendo espresso riferimento all’art. 1123 c.c.
9.1. In particolare, partendo dal rilievo che le attribuzioni dell’assemblea ex art. 1135 c.c. sono
circoscritte alla verificazione ed all’applicazione in concreto dei criteri stabiliti dalla legge e non
comprendono il potere di introdurre deroghe ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe, venendo ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino di concorrere nelle spese per le
cose comuni dell’edificio condominiale in misura non superiore a quelle dovute per legge, possono conseguire soltanto ad una convenzione cui egli aderisca, la Corte (cfr. Cass. 9 agosto
1996, n. 7359; 15 marzo 1995, n. 3042; 3 maggio 1993, n. 5125; 19 novembre 1992, n. 12375) ha
affermato la nullità della delibera che modifichi i suddetti criteri di spesa (sia nell’ipotesi di individuazione dei criteri di ripartizione ai sensi dell’art. 1123 c.c., sia nell’ipotesi di cambiamento
dei criteri già fissati in precedenza).
9.2. Conseguentemente la Corte ha riconosciuto l’annullabilità della delibera nel caso di violazione dei criteri già stabiliti quando vengono in concreto ripartite le spese medesime (Cass. 9 febbraio 1995, n. 1455; 8.6.1993, n. 6403; 1 febbraio 1993. n. 1213).
10. Il contrasto, che come evidenziato riguarda essenzialmente l’omessa comunicazione dell’avviso di convocazione, ex art. 66, 3o comma, disp. att. c.c., ha visto divisa anche la dottrina, la quale
ha assunto posizioni di segno diverso sia rispetto all’utilizzo degli artt. 1105 e 1109 c.c., sia rispetto
al parallelismo e identità di ratio con la disciplina in materia di società di capitali.
10.1. Alcuni autori dubitano della pertinenza del richiamo all’art. 1105, comma 3, c.c. in tema di
comunione: l’omessa informazione preventiva sull’oggetto della deliberazione non può, infatti, essere assimilata senz’altro all’omessa convocazione. Ciò per la decisiva considerazione che il principio maggioritario in tanto può operare in quanto tutti gli aventi diritto siano posti in condizione di
intervenire in assemblea, partecipare alla discussione e alla votazione. Nei riguardi del condomino
non convocato la riunione assembleare e le relative deliberazioni sarebbero res inter alios acta. Né
può dirsi, sotto altro profilo, che la convocazione di un condomino attenga, comunque, solo al procedimento da osservare per la formazione della volontà assembleare, determinando l’omissione un
error in procedendo.
10.2. Secondo altri autori è stato individuato un riscontro normativo direttamente afferente al vizio di convocazione ed espressamente regolato come annullabilità in un settore non distante dal regime condominiale. Inoltre, il richiamo risulta utile per la sua diretta attinenza alla ricostruzione
della disciplina codicistica del metodo collegiale: nella comunione, come nel condominio, le decisioni
comuni vengono assunte in collegio e l’obbligo di informativa sulle materie oggetto di discussione è
finalizzato al successivo svolgimento dell’assemblea, di cui l’art. 1105 c.c. prescrive in definitiva la
convocazione; in tal senso è di rilievo l’azione di annullabilità prevista dall’art. 1109 c.c. quale rimedio idoneo contro le decisioni illegittime della maggioranza, poiché nel condominio il metodo colle-
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
giale riveste la medesima rilevanza che nella comunione ordinaria, ove pure è posto a tutela dei diritti delle minoranze.
10.3. Quanto al parallelismo e identità di ratio con la disciplina in materia societaria, un orientamento dottrinario distingue tra la ‘‘mancata convocazione di alcuni’’ soltanto dei soci e ‘‘mancata
convocazione dei soci’’ (ovvero mancata convocazione dell’assemblea) non seguita da assemblea totalitaria, ritenendo che, mentre in quest’ultimo caso ricorre un’ipotesi di nullità radicale (rectius di
inesistenza), nel primo, invece, una situazione di semplice annullabilità, ai sensi dell’art. 2377 c.c..
Peraltro, in generale, si è affermato che il richiamo alla disciplina della società per azioni non sembra corretto, essendo il condominio pervaso dalla logica proprietaria a differenza della materia societaria, dove l’interesse del gruppo trova spesso maggiore tutela dell’interesse del singolo sacrificato in funzione dello scopo comune.
10.4. Altro orientamento dottrinario, al contrario, ritiene condivisibile il parallelismo con la disciplina societaria, avuto riguardo alle invocate esigenze di certezza nei rapporti tra i condomini e tra il
condominio e terzi. Vi è chi sostiene che nel condominio (differentemente dalla disciplina positiva dei
contratti e di quella in materia di società) l’art. 1137 c.c. assoggetterebbe ad un unico regime decadenziale le violazioni della legge e del regolamento, senza possibilità di distinzione tra annullabilità e nullità. Non manca chi, partendo da una rilettura dell’art. 1139 c.c., che per quanto non espressamente
previsto in materia di condominio rinvia alle norme sulla comunione, e dal presupposto che tale norma non è di chiusura (altrimenti sarebbe ‘‘di clausura’’), ma consente un rinvio interno fra sistemi
laddove sussistano elementi di sufficiente omogeneità, condividendo le cosiddette concezioni miste del
condominio, giunge a condividere la concezione della ‘‘complessità sistematica’’, che vede nel condominio ‘‘un sistema di sistemi’’ e dunque ‘‘un istituto giuridico che trova la sua consistenza nell’avvalersi di regole già proprie di altri istituti, quali quelli attinenti ai rapporti fra parti di proprietà individuale e parti comuni, quelle relative all’assemblea, quelle infine che si riferiscono all’amministratore’’. E, quindi, con riferimento alla modalità di convocazione e gestione dell’assemblea, sono da ritenersi in considerazione, secondo l’autore, anche le norme del codice dettate per la società per azioni.
11. Ritengono le Sezioni Unite, al fine di risolvere la questione di diritto e definire il contrasto,
che debba privilegiarsi l’interpretazione secondo la quale la mancata comunicazione dell’avviso di
convocazione dell’assemblea condominiale, anche ad un solo dei condomini, comporta non la nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, in base alle seguenti considerazioni.
11.1. Conviene premettere che in tema di condominio negli edifici, il codice non contempla la
nullità.L’art. 1137 c.c., al comma 2o, espressamente stabilisce che, contro le deliberazioni contrarie
alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può fare ricorso all’autorità
giudiziaria: al comma 3o aggiunge che il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data di deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti.Il breve termine di decadenza e la individuazione delle persone legittimate
(ben poche) alla impugnazione dimostrano essere contemplata una ipotesi di annullabilità, posto
che sia in tema di negozio (artt. 1441 e 1442 c.c.), sia in tema di delibere societarie (art. 2377,
comma 2o, c.c.), il termine per la impugnazione e le persone legittimate a proporre l’azione contrassegnano le ipotesi di annullabilità; al contrario, per le ipotesi di nullità, tanto in tema di negozio
(art. 1421 e 1422 c.c.) quanto in tema di delibere societarie (art. 2379 c.c.) l’azione di nullità non è
soggetta a termine e, allo stesso tempo, è legittimato ad esercitarla chiunque vi ha interesse, inoltre
la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.2. Dottrina e giurisprudenza ravvisano l’essenza della nullità nella mancanza o nella grave
anomalia di qualche elemento intrinseco dell’atto, tale da non consentire la rispondenza alla figura
tipica individuata dall’ordinamento. La nullità è considerata lo strumento con cui la legge nega fondamento a quelle manifestazioni di volontà attraverso le quali si realizza un contrasto con lo
schema legale e con gli interessi generali dell’ordinamento. Di conseguenza, attraverso la sanzione
della nullità, l’ordinamento, esprimendo un giudizio di meritevolezza, nega la propria tutela a programmazioni che non rispondono a valori fondamentali.
11.3. L’art. 1418 c.c. elenca una serie di ipotesi in cui il contratto, per gli specifici vizi in esso
previsti — in mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, l’illiceità della causa, l’illiceità
dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 — viene espressamente sanzionato con la nullità. Altre norme, poi, prevedono tale
sanzione ora nello stesso codice civile, ora in leggi specifiche (cfr. art. 1418, 3o comma).
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
11.4. Alcune norme di legge vietano il compimento di determinati negozi, senza però stabilire la
specifica sanzione in caso di inosservanza del relativo divieto. Si parla in tali ipotesi di nullità cd.
virtuale, argomentandosi dal 1o comma dell’art. 1418 c.c., il quale dispone che ‘‘il contratto è nullo
quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente’’. Ciò vuol dire
che se la legge dispone diversamente, ossia una diversa sanzione (ad esempio, l’annullabilità), sarà
questa sanzione a doversi applicare; se, però, non è prevista una sanzione per la violazione di una
precisa norma imperativa, dovrà applicarsi quella della nullità, in quanto ciò è detto proprio nel 1o
comma dell’art. 1418.
11.5. Regole esattamente inverse, invece, valgono in materia testamentaria, societaria e del lavoro: in tali ambiti, infatti, è l’annullabilità ad essere virtuale, in quanto le ipotesi di nullità sono
specificamente limitate a singole e particolari ipotesi (per il testamento cfr. l’art. 606 c.c.; per le società di capitali l’art. 2332 c.c.; per il rapporto di lavoro l’art. 2126 c.c.).
12. In materia di condominio, la nullità non prevista è piuttosto una creazione della dottrina e
della giurisprudenza per impedire l’efficacia definitiva delle delibere mancanti degli elementi costitutivi (o lesive dei diritti individuali): per la verità, fissare l’efficacia definitiva di una delibera gravemente viziata per difetto di tempestiva impugnazione non sembra giusto.In assenza di specifica
previsione normativa, sembra logico doversi ammettere la nullità soltanto nei casi più gravi.
12.1. Al riguardo, nell’ambito del condominio negli edifici acquista rilevanza la distinzione tra
momento costitutivo e momento di gestione. Invero, l’espressione ‘‘condominio negli edifici’’ designa
tanto il diritto individuale sulle cose, gli impianti ed i servizi comuni attribuito ai proprietari dei
piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, quanto l’organizzazione degli stessi proprietari,
cui è affidata la gestione delle parti comuni. I vizi riscontrabili nel momento costitutivo, che riflette
l’insorgenza del diritto individuale e la stessa situazione soggettiva di condominio, con conseguente
rilevanza della volontà individuale di ogni singolo partecipante, onde il principio è quello dell’autonomia, che si avvale dello strumento negoziale, certamente sono più gravi di quelli verificabili nel
momento di gestione, che riguarda l’organizzazione del condominio per quanto attiene le sole cose
comuni, dove vige il metodo collegiale e il principio maggioritario, che comportano la subordinazione della volontà dei singoli al volere dei più.
12.2. Come sopra accennato a favore della nullità della delibera per la mancata convocazione di
un solo condomino, si adducono due argomenti. Anzitutto, la lettera dell’art. 1136, comma 6o, c.c.,
secondo cui l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati
alla riunione, mediante comunicazione di cui all’art. 66, 3o comma, disp. att. c.c.. Donde l’inferenza
che, in mancanza della convocazione anche di un solo condomino, non sussisterebbe il potere dell’assemblea di deliberare. Il principio maggioritario — si aggiunge — in tanto può operare in
quanto tutti i condomini siano stati posti in condizioni di intervenire in assemblea, di partecipare
alla discussione e alla votazione. D’altra parte, si conclude, la convocazione non attiene al solo procedimento, perché nei confronti del non convocato il procedimento non inizia e quindi non può verificarsi alcun errore in procedendo: la convocazione attiene alla sostanza della applicazione del
principio maggioritario.
12.3. Gli argomenti non persuadono e nel sistema si rinvengono considerazioni contrarie di
maggior peso.Premesso che il procedimento di convocazione è unico e non si frantuma in tanti procedimenti quanti sono i singoli condomini da convocare, la lettera dell’art. 1136, comma 6o, c.c. non
raffigura un ostacolo insormontabile; la norma può essere intesa, con riferimento alla funzione, nel
senso che la proposizione secondo cui l’assemblea non può ‘‘validamente’’ deliberare se tutti i condomini non sono stati convocati, deve intendersi nel senso che, in difetto di convocazione di un condomino, la delibera non è definitivamente valida, essendo suscettibile di impugnazione (nel prescritto termine di trenta giorni).
12.4. La delibera approvata con il principio maggioritario non va confusa con la statuizione assunta con il negozio plurilaterale. Mentre il negozio plurilaterale non è valido, se non vi partecipano tutte le parti necessarie, contrassegno precipuo del principio maggioritario è la imputazione
all’intero collegio di quello che è il volere della maggioranza; quindi riconoscere l’efficacia della deliberazione sulla base delle maggioranze prescritte e non necessariamente sul fondamento della volontà di tutti i partecipanti. Se in base al metodo collegiale e al principio maggioritario si vincolano
anche tutti i condomini assenti o dissenzienti non deve menar scandalo la mancata convocazione di
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
un condomino il quale, peraltro, non resta privo di tutela, poiché può impugnare quando la delibera
gli viene comunicata.
12.5. Rileva poi la portata del collegato disposto degli artt. 1105, comma 3o, e 1109 n. 2 e p. ult.,
c.c., che, in tema di comunione, stabilisce l’impugnazione della delibera entro il termine di decadenza di trenta giorni nel caso di omessa preventiva informazione a tutti i partecipanti. È pur vero
che l’art. 1105 c.c. parla di preventiva informazione e non di convocazione. La terminologia differente si spiega con la considerazione che nella comunione non è prevista l’assemblea, ma la semplice riunione dei comproprietari interessati. Tuttavia la sostanza della norma è che il difetto di informazione certamente assimilabile alla omessa convocazione — non configura una causa di nullità, ma di semplice annullabilità. Da qui risulta ragionevole dubitare che l’art. 1136, comma 6o,
c.c., disciplinando la stessa fattispecie e usando un formula consimile, alla mancata convocazione
di un condomino ricolleghi non la annullabilità ma la conseguenza più grave della nullità.
13. A queste considerazioni specifiche conviene aggiungere argomenti desunti dalla teoria degli
atti giuridici.Come sopra detto, in generale, si considera nullo l’atto quando manca ovvero è gravemente viziato un elemento costitutivo, previsto secondo la configurazione normativa. Pertanto, a
causa dell’assenza ovvero del grave vizio dell’elemento considerato essenziale, l’atto si considera
inidoneo a dar vita alla nuova situazione giuridica, che il diritto ricollega al tipo legale, in conformità con la sua funzione economico-sociale. Per contro, si considera annullabile l’atto in presenza
di carenze o di vizi ritenuti meno gravi, secondo la valutazione compiuta dall’ordinamento. Annullabile è, dunque, l’atto che non mancando degli elementi essenziali del tipo presenta vizi non gravi,
che lo rendono idoneo a dare vita ad una situazione giuridica precaria, che può essere rimossa.
13.1. In tema di deliberazioni delle società di capitali, come è noto, le cause di nullità sono circoscritte (art. 2379 c.c.), in funzione della certezza dei rapporti societari, i quali riguardano un numero cospicuo di persone. Le stesse esigenze di certezza dei rapporti si rinvengono in tema di condominio negli edifici, dove i rapporti riguardano i condomini, che raffigurano un numero di persone maggiore di quelle che al singolo contratto sono interessate. Pertanto, appare corretto e coerente con i principi limitare le cause di nullità ai vizi afferenti alla sostanza degli atti, vale a dire
alla impossibilità o alla illiceità dell’oggetto. Tanto la impossibilità giuridica quanto l’illiceità dell’oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all’assemblea, posto che la prima consiste nella
inidoneità degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l’assetto stabilito in concreto, e la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, dalle quali l’assemblea non può derogare, ovvero con la lesione dei
diritti individuali, attribuiti ai condomini dalla legge, dagli atti di acquisto o dalle convenzioni.
13.2. La formula dell’art. 1137 c.c. deve interpretarsi nel senso che per le deliberazioni contrarie
alla legge o al regolamento di condominio si intendono le delibere assunte dall’assemblea senza
l’osservanza delle forme prescritte dall’art. 1136 c.c. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120,
1121, 1129, 1132, 1135 c.c.. Sono inficiate da un vizio di forma le deliberazioni quando l’assemblea
decide senza l’osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volontà collettiva per gestire le cose comuni. Pertanto, se gli stessi condomini interessati ritengono che dal provvedimento approvato senza l’osservanza delle forme prescritte non derivi loro un danno, manca il loro interesse a chiedere l’annullamento. Il difetto di impugnazione in termine può assumere significato di personale successiva adesione alla delibera.
13.3. Sul punto è opportuno soffermarsi brevemente. Per la verità, la configurazione della mancata convocazione del condomino come vizio procedimentale, da cui ha origine la semplice annullabilità, non significa privare della tutela il condomino non convocato. Invero, essendogli riconosciuto
il potere di impugnare nel termine di trenta giorni dalla comunicazione, egli ha modo di far valere
le sue ragioni. Peraltro, la configurazione proposta esclude il rischio che le delibere assembleari
possano essere impugnate anche dopo il trascorrere di un lunghissimo tempo, sol perché un requisito formale non è stato osservato, con conseguenze gravissime sulla gestione del condominio.
14. Un ultimo argomento proviene dal nuovo assetto dell’art. 2739 c.c. stabilito dalla riforma societaria.
14.1. In attuazione dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega n. 366/2001, il d.lg. 17
gennaio 2003, n. 6, nel regolare le assemblee della società per azioni, ha dettato nuove norme sui
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
vizi delle deliberazioni, modificando gli artt. 2377, 2378 e 2379 c.c. e aggiungendo due nuovi articoli,
2739-bis e 2739-ter, oltre l’art. 2734 bis. Il nuovo sistema ha innovato, in primo luogo, il regime di
invalidità degli atti, sotto il duplice profilo della causa e degli effetti, in entrambe le fattispecie di annullabilità e nullità. In secondo luogo, ha modificato il procedimento di impugnazione delle delibere
invalide, in coerenza con le nuove norme sul processo in materia di diritto societario, e affiancando
all’azione reale una speciale azione personale e risarcitoria dei danni causati dalla deliberazione
viziata.
14.2. Nel sistema adottato, la regola generale, come nel precedente assetto, è quella secondo cui
la violazione di legge o di statuto induce la annullabilità. Invece, la nullità consegue ad una serie di
violazioni particolarmente gravi della legge, e la relativa disciplina, anziché richiamare — come faceva il vecchio art. 2379 — le regole generali sulla nullità dei contratti, di cui agli artt. 1421, 1422 e
1423 c.c., contiene disposizioni particolari e introduce nuove ipotesi. Le ipotesi di nullità sono tre
(art. 2379) e per ciascuna è dettata una disciplina intesa al contenimento della fattispecie e delle
sue conseguenze; la disciplina comune consiste nella impugnabilità da parte di chiunque vi abbia
interesse nel termine di tre anni (con l’eccezione di ipotesi particolari) e alla rilevabilità d’ufficio,
nei casi e nei termini previsti.
14.3. Secondo i primi commenti la riforma avrebbe privilegiato l’interesse della società alla stabilità delle delibere e l’esigenza del mercato alla stabilità dei rapporti giuridici, senza pregiudicare
peraltro l’interesse dei singoli soci a non subire dei pregiudizi per l’illegalità delle delibere sociali.
15. Avuto riguardo alle considerazioni svolte e ai principi espressi, queste Sezioni Unite ritengono che debbano qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere
con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o sevizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere
comunque invalide in relazione all’oggetto. Debbano, invece, qualificarsi annullabili le delibere con
vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a
quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione
o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di
convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all’oggetto.
16. Il contrasto giurisprudenziale, pertanto, va risolto affermandosi che la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale comporta
non la nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, che se non viene impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 1137, 3o comma, c.c. — decorrente per i condomini assenti
dalla comunicazione e per i condomini dissenzienti dalla sua approvazione — è valida ed efficace
nei confronti di tutti i partecipanti al condominio.
17. Il principio comporta, quindi, il rigetto del primo motivo di ricorso.
18. Anche il secondo motivo è da rigettare, perché (come sopra detto) questa Corte ha costantemente affermato l’annullabilità ex art. 1137 c.c. della delibera il cui verbale contiene delle omissioni,
anche relative alla mancata individuazione dei singoli condomini assenzienti, dissenzienti, assenti e
al valore delle rispettive quote (Cass. 22.1.2000, n. 697; 29.1.1999, n. 810).
19. Infine pure il terzo motivo è infondato, perché la delibera ha riguardato non la determinazione e fissazione dei criteri legali ovvero convenzionali per la ripartizione delle spese, ma, nell’ambito di tali prefissati criteri, la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative a lavori
straordinari ritenuti afferenti a beni comuni (posti auto e vano ascensore) e tassa di occupazione
di suolo. È stato sempre riconosciuto che la delibera, assunta nell’esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall’art. 1135, n. 2 e 3, c.c. relativa alla ripartizione in concreto delle spese condominiali, ove adottata in violazione dei criteri già stabiliti, deve considerarsi annullabile, non incidendo sui criteri generali da adottare nel rispetto dell’art. 1123 c.c., e la relativa impugnazione va
proposta nel termine di decadenza (trenta giorni) previsto dall’art. 1137 comma ultimo c.c. (v. Cass.
9 febbraio 1995, n. 1455; 8 giugno 1993, n. 6403; 1 febbraio 1993, n. 1213).
20. In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato, con condanna dei ricorrenti
in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
(omissis).
271
272
PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
2.5. In materia di condominio la regola è l’annullabilità (mentre la nullità è l’eccezione).
La preponderanza
delle valutazioni
pragmatiche
Con una argomentazione interpretativa di tipo analogico-sistematico, le sez.
un. risolvono la questione di diritto afferente il vizio inficiante la delibera condominiale di assemblea per la quale è stata omessa la comunicazione di convocazione a taluno dei condomini e, con l’occasione, stilano una classificazione delle
tipologie di vizi concernenti le delibere condominiali, qualificandone la natura
patologica.
Sotto il profilo pragmatico-fattuale, le SS.UU ritengono la soluzione dell’annullabilità della delibera come la più idonea a contemperare le contrapposte istanze
del condomino, il cui interesse è rappresentato dal riconoscimento dell’assoluta
e atemporale inidoneità delle delibere adottate con preterizione dell’obbligo di
comunicazione a produrre effetti, e del condominio, esponente dell’opposto interesse alla certezza dei rapporti giuridici condominiali e alla funzionalità, celerità
e continuità delle relazioni intracondominiali e di quelle instaurate con soggetti
terzi, riconoscendo come preponderante l’interesse portato dal condominio, restando, secondo la Corte, ad ogni modo impregiudicato l’esercizio della tutela
giurisdizionale da parte del condomino pretermesso dalla riunione assembleare,
seppure nello stringente termine di trenta giorni dalla comunicazione della delibera.
Gli ampi ed elaborati profili argomentativi disegnati dalla Corte a fondamento
della statuizione appaiono il risultato di una decisione assunta ex ante per via
pragmatica, sulla scorta di detto contemperamento delle contrapposte esigenze
pratiche. A opinare diversamente, risulterebbe inesplicabile ‘‘l’offerta sacrificale’’
compiuta dalla Corte del principio cardine del funzionamento degli organi collegiali, id est la possibilità dei componenti di prendere parte alle riunioni, contribuendo al processo di formazione (secondo regole democratiche) della volontà
collegiale idonea a vincolare ciascun singolo membro.
La preclusione del diritto all’esercizio dei poteri spettanti al condomino nella
qualità e la privazione della possibilità di contribuire alla formazione della volontà assembleare appaiono, infatti, suscettibili di essere sanzionate con la pià
grave delle invalidazioni, atteso anche che la delibera assunta con omissione di
comunicazione dell’assemblea rappresenta nei confronti del condomino pretermesso res inter alios acta, in quanto tale insuscettibile di produrre effetti obbligatori nei di lui confronti.
Gli è, dunque, che la statuizione delle sez. un. appare più attenta ai riflessi
pragmatici della qualificazione giuridica dell’invalidità sui rapporti condominiali
e sulle relazione con i soggetti terzi che ai profili generali e astratti strictu iure.
z 3. Il Supercondominio.
La giurisprudenza (cfr. in particolare Cass. n. 14791/2003) ha chiarito che la
disciplina applicabile al c.d. supercondominio, situazione ravvisabile in presenza
di un complesso di più edifici che hanno in comune delle parti destinate al loro
servizio, è quella relativa al condominio degli edifici, giacché — in considerazione della relazione di accessorietà che si instaura per il collegamento materiale
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
o funzionale fra proprietà individuali e beni comuni — questi ultimi non sono
suscettibili, come invece nella comunione, di godimento od utilizzazione autonomi rispetto ai primi.
Si riporta di seguito il testo di Cass. 3 ottobre 2003 n. 14791 che ricostruisce in
termini molto chiari la questione della disciplina applicabile al c.d. supercondominio.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1109
e 1137 c.c., contestando la tesi dei giudici d’appello che hanno ritenuto applicabile nella specie
la disciplina del condominio e non della comunione, sul presupposto che la comproprietà del sistema fognario integrasse una ipotesi di ‘‘supercondominio’’. Assume, invece, l’O. che gli artt.
61 e 62 delle disp. att. del codice civile — che costituiscono la base normativa su cui la giurisprudenza e la dottrina hanno costruito l’istituto dei ‘‘supercondomini’’ — si riferiscono in realtà
al caso in cui un unico condominio, composto da uno o più edifici appartenenti per piani o porzioni di piani a proprietari diversi (e quindi costituenti un condominio), venga sciolto con la costituzione di due o più condomini separati e rimangano in comune agli originari partecipanti alcune delle cose indicate nell’art. 1117 c.c.. Solo a queste entità — secondo il ricorrente — si applicherebbe la disciplina del condominio, e non ad una comproprietà, quale quella oggetto di
causa, cui dovrebbe applicarsi la ordinaria disciplina della comunione.
Con l’ultimo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1105 c.c.
laddove la corte territoriale rileva pretese carenze e irregolarità che avrebbero caratterizzato la
delibera del 23 giugno 1994, mentre — riconoscendo l’applicabilità al caso della disposizione citata — avrebbe dovuto trarre la conseguenza della inammissibilità dell’impugnativa della delibera, spettando ai partecipanti solo la possibilità di ricorso al tribunale ex art. 1105 c.c., in forza
del quale ‘‘se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita,
ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria affinché provveda in camera di consiglio, e possa — se del caso — nominare un amministratore’’.
Il secondo e il terzo motivo, che vanno esaminati congiuntamente perché poggiano sul medesimo presupposto dell’applicabilità al caso di specie delle norme sulla comunione, sono infondati.
Poiché la questione dibattuta in causa è se la destinazione del sistema fognario al servizio comune di più edifici determini una mera comunione su detto bene tra i vari partecipanti, ovvero
integri una ipotesi di ‘‘supercondominio’’, cui notoriamente si applicano in via estensiva le
norme sul condominio negli edifici, appare opportuno premettere alcuni principi fondamentali
elaborati da dottrina e giurisprudenza in tema di condominio e ‘‘supercondominio’’, che consentono di fissare un criterio fondamentale idoneo a tracciare la linea di confine tra detti istituti
e quello della ordinaria comunione di beni.
Va premesso che, con riferimento a fattispecie del tipo di quella in esame, la dottrina è in
pari misura divisa tra l’applicabilità delle norme sul condominio, ovvero di quelle sulla comunione, mentre la giurisprudenza di questa corte — dopo alcune oscillazioni, con decisioni in
senso contrario più risalenti (cfr. Cass. 20 giugno 1989, n. 2933) — è attualmente, in modo costante, orientata a riconoscere alle fattispecie in parola l’applicabilità delle norme del condominio (cfr. Cass. 19 marzo 1994, n. 2609; 14 novembre 1996, n. 9982; 8 agosto 1996, n. 7286; 7 luglio 2000, n. 9096).
Il consolidato orientamento di questa corte — dal quale il collegio non ritiene di doversi discostare — individua il presupposto fondamentale perché si instauri un diritto di condominio
su un bene comune, in quel particolare nesso che deve intercorrere tra tale bene (ovvero l’impianto o il servizio) e le unità immobiliari a proprietà solitaria.
L’art. 1117 c.c. contempla due differenti forme di collegamento tra i piani e le porzioni di
piano da una parte, e le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune, dall’altra: un collegamento
materiale e uno funzionale, consistente il primo nella incorporazione tra entità inscindibili, il secondo nella congiunzione tra res separabili. Il primo si manifesta come necessità per l’esistenza
o per l’uso (il tetto, le fondamenta, le scale, ecc.), che rende le cose in proprietà individuale e le
cose comuni inseparabili le une dalle altre, pur nella autonoma rilevanza giuridica. Il secondo
273
274
PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
nesso, che si traduce nella destinazione all’uso o al servizio, ha luogo da una unione fisica stabile tra le res, che tuttavia può essere posta nel nulla senza grave deterioramento dei beni (impianto di riscaldamento, tubature, ascensore, ecc.).
Questo particolare collegamento tra i beni individuali e i beni comuni, cui l’ordinamento dà
rilevanza giuridica ponendolo a fondamento del diritto di condomino, è stato definito in giurisprudenza (Cass. 7 luglio 2000, n. 9096) come ‘‘relazione di accessorietà’’, espressione che traduce in maniera unitaria e più esauriente quei collegamenti desumibili dall’art. 1117 c.c., perché
racchiude in sé sia il legame funzionale che la connessione materiale, in quanto l’accezione giuridica dell’accessorietà — desumibile dalle varie disposizioni codicistiche che a diversi fini ne
fanno menzione — esprime, quanto alla funzione, il carattere complementare delle cose, degli
impianti e dei servizi comuni rispetto ai piani o alle porzioni di piano, nel senso che ne evidenzia la mancanza di una utilità fine a se stessa, e la subordinazione strumentale delle parti comuni; esprime inoltre la connessione materiale, che determina la mancanza di autonomia fisica
dei beni pur non escludendo il permanere della individualità giuridica.
Se ricorre una relazione di accessorietà, nel senso sopra illustrato, tra beni, impianti o servizi
comuni, e beni di proprietà individuale, sui primi si instaura un diritto di condominio, mentre
se tale relazione non ricorre, i beni comuni che spettino pro — quota ai titolari di proprietà individuali insistenti su piani o porzioni di piano — quand’anche rivelino un qualche tipo di collegamento con questi ultimi, diverso dal rapporto di accessorio a principale — non possono che
essere oggetto di ordinaria comunione.
Il discrimine tra i due istituti è nella funzione strumentale che caratterizza i beni condominiali, rispetto alla piena autonomia dei beni oggetto di semplice comunione. Le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune, contemplati dalle norme sul condominio negli edifici, non
sono suscettibili di autonoma utilità, perché sono o strutturalmente necessari alla stessa esistenza del bene individuale, ovvero funzionalmente destinati a servizio di questo, in guisa che il
godimento dei beni comuni è strumentale al godimento (o al miglior godimento) del bene individuale. Per contro, ai beni in comunione difetta il carattere della strumentalità, perché il rapporto di comunione si esaurisce nella mera contitolarità dei diritti, e ciascuno dei contitolari è in
grado di godere direttamente del bene soddisfacendo in maniera immediata il proprio interesse,
sia pure con il limite giuridico della concorrenza delle altre quote.
Né può indurre in errore sulla natura del diritto (di condominio o di comunione) la mera collocazione del bene o dell’impianto rispetto all’edificio: una piscina, dei campi da tennis, gli spazi
verdi, anche se nel comune parlare vengono spesso definiti ‘‘condominiali’’, non realizzano che
una comunione tra i partecipanti al condominio, perché detti beni — per quanto rendano più
amena la porzione di proprietà solitaria o ne possano accrescere il valore economico al di là del
mero valore dell’impianto annesso — non risultano caratterizzati da quella relazione di accessorietà rispetto alla proprietà solitaria, e ben possono essere oggetto di godimento totalmente
svincolato dal godimento di quest’ultima; non costituiscono parti necessarie per l’esistenza o
per l’uso delle unità abitative, né destinate al loro uso o servizio. Senza queste cose in comune
le costruzioni esisterebbero ugualmente e potrebbero del pari essere utilizzate.
Una volta stabilito quale sia l’elemento qualificante del diritto di condominio, e cioè la relazione di accessorietà, e riconosciuto che — con riferimento al bene oggetto della presente controversia (sistema fognario) esplicitamente menzionato nell’art. 1117 c.c. — non potrebbe porsi
in dubbio la ricorrenza del diritto di condominio, va tuttavia esaminato se tale conclusione
possa essere in qualche modo condizionata dalla particolare circostanza che detto bene è comune non ad un edificio ma ad un complesso di edifici. Proprio a tale particolare strutturazione
il ricorrente vorrebbe ricollegare l’effetto della inapplicabilità della normativa sul condominio e
la sostituzione con quella sulla comunione, prendendo spunto da una interpretazione letterale
degli artt. 61 e 62 delle disp. att. del c.c., i quali consentirebbero la sopravvivenza di un condominio ‘‘limitato’’ nel caso in cui l’originario unico condominio composto da uno o più edifici appartenenti per piani o porzioni di piani a proprietari diversi venga sciolto con la costituzione di
due o più condomini separati, rimanendo in comune agli originari partecipanti alcune delle cose
indicate nell’art. 1117 c.c., mentre non autorizzerebbero una applicazione della regola in senso
inverso, allorché più condomini autonomi sin dall’origine volessero instaurare un diritto di condominio su beni o servizi comuni.
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
275
Orbene, osserva la corte che se l’elemento caratterizzante del diritto di condominio su beni,
impianti o servizi comuni è rappresentato dalla esistenza della ricordata relazione di accessorietà rispetto alle proprietà solitarie, detta relazione ben può esistere — ed avere la medesima
rilevanza — con riferimento, non ad un solo edificio, ma a più fabbricati che nella loro individualità costituiscono autonomi condomini, e ciò senza che possa avere influenza il fatto che i
condomini fossero sorti sin dall’origine autonomi o siano derivazione del frazionamento di un
condominio originariamente unico. Le citate disposizioni di attuazione del codice civile non forniscono argomento che possa avallare la tesi del ricorrente, perché la loro concreta finalità è
quella di ribadire il principio generale (art. 1118 c.c.) che, anche in caso di scioglimento di un
condominio complesso in più condomini autonomi, è preclusa la rinunzia al diritto sulle cose
che inevitabilmente sono condominiali e tali restano, perché presentano quelle caratteristiche
di accessorietà rispetto ai beni a proprietà esclusiva. E d’altra parte, se è impossibile rinunciare
al diritto sui beni ‘‘condominiali’’ quando un condominio si fraziona in condomini autonomi,
certamente tale diritto necessariamente si instaura anche nel caso in cui i titolari delle proprietà
solitarie di piani o porzioni di piano di diversi corpi di fabbrica, costituiti sin dall’origine in autonomi condomini, abbiano deciso di asservire un unico bene, o impianto, al comune servizio
delle loro proprietà.
(omissis).
Tale tesi è stata, da ultimo ripresa da Cassazione civile, sez. II, 18 aprile 2005,
n. 8066 secondo cui:
In considerazione del rapporto di accessorietà necessaria che lega le parti comuni dell’edificio
elencate in via esemplificativa — se il contrario non risulta dal titolo — dall’art. 1117 c.c. alle
proprietà singole, delle quali le prime rendono possibile l’esistenza stessa o l’uso, la nozione di
condominio in senso proprio è configurabile non solo nell’ipotesi di fabbricati che si estendono
in senso verticale ma anche nel caso di costruzioni adiacenti orizzontalmente (come in particolare le cosiddette case a schiera), in quanto siano dotate delle strutture portanti e degli impianti
essenziali indicati dal citato art. 117 c.c.; peraltro, anche quando manchi un cosı̀ stretto nesso
strutturale, materiale e funzionale, non può essere esclusa la condominialità neppure per un insieme di edifici indipendenti, giacché, secondo quanto si desume dagli art. 61 e 62 disp. att. c.c.
— che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui un gruppo di edifici si possa
dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi — è possibile la costituzione
‘‘ab origine’’ di un condominio tra fabbricati a sé stanti, aventi in comune solo alcuni elementi,
o locali, o servizi o impianti condominiali; dunque, per i complessi immobiliari, che comprendono più edifici, seppure autonomi, è rimessa all’autonomia privata la scelta se dare luogo alla
formazione di un unico condominio, oppure di distinti condomini per ogni fabbricato, cui si affianca in tal caso la figura di elaborazione giurisprudenziale del ‘‘ supercondominio ‘‘ al quale
sono applicabili le norme relative al condominio in relazione alle parti comuni, di cui all’art.
1117 c.c., come ad esempio le portinerie, le reti viarie residenziali, mentre restano soggette alla
disciplina della comunione ordinaria le altre eventuali strutture, che sono invece dotate di una
propria autonomia, come ad esempio le attrezzature sportive, gli spazi di intrattenimento, i locali di centri commerciali inclusi nel comprensorio comune.
z 4. La disciplina applicabile al c.d. condominio minimo (Cass. sez.
Un. n. 2046/2006).
La disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di c.d. ‘‘condominio minimo’’, cioè di condominio composto
da due soli partecipanti?
In particolare, la questione di diritto, che le Sezioni Unite sono state chiamate
a risolvere con la sentenza in esame è se, nel caso di edificio in condominio composto da due soli partecipanti (il cosiddetto ‘‘condominio minimo’’), il rimborso
La questione
risolta
276
La soluzione delle
sez. un.
PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
delle spese per la conservazione delle parti comuni anticipate da un condomino
sta regolato dalla norma di cui all’art. 1134 c.c., che riconosce il diritto al rimirano
soltanto per le spese urgenti; ovvero se, in considerazione della peculiarità della
situazione di fatto e di diritto configurata dalla presenza di due soli proprietari, e
dalla susseguente inapplicabilità del principio di maggioranza, la fattispecie
venga ad essere regolata dalla norma dettata dall’art. 1110 c.c. per la comunione
in generale, secondo cui il rimborso è subordinato alla mera trascuranza degli altri condomini.
Con la sentenza n. 2046/2006, le Sezioni Unite, accolgono la prima opzione interpretativa enunciando il seguente principio di diritto: ‘‘Nel caso di edificio in
condominio composto da due soli condomini, il rimborso delle spese per la conservazione delle parti comuni anticipate da un condomino è regolato dall’art.
1134 c.c., è riconosciuto soltanto per le spese urgenti, e cioè quelle che devono
essere eseguite senza ritardo e la cui erogazione non può essere differita senza
danno; è inapplicabile, invece, nella suddetta ipotesi l’art. 1110 c.c., il quale subordina il diritto al rimborso delle spese anticipate da uno dei comunisti alla
mera trascuranza degli altri condomini’’.
A sostegno di tale soluzione la Corte osserva che nessuna norma prevede l’inapplicabilità al c.d. condominio minimo della disciplina detta per il condominio
negli edifici che si instaura ipso iure, non appena i piani o porzioni di piano del
fabbricato vengono ad appartenere a soggetti differenti in proprietà esclusiva,
con un legame funzionale ed una connessione materiale con un certo numero di
cose, impianti e servizi comuni (c.d. ‘‘relazione di accessorietà’’), aventi una utilità strumentale, diversa da quella finale della comunione in generale, che giustifica la disciplina differente da quella prevista dall’art. 1110 c.c., essendo comunque, possibile il ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105 c.c., qualora
non si formi in concreto la maggioranza.
Si tratta di una soluzione che, come osservato in dottrina (cfr. Izzo, Il regime
giuridico delle spese anticipato nel c.d. condominio minimo) è coerente con i recente arresti giurisprudenziali in materia, da un lato, di super condominio
(Cass. 18 aprile 2005, n. 8066, in Caringella, Garofoli, Giovagnoli, Giurisprudenza civile 2005) e, dall’altro, di riparto delle spese di riparazione del manto di
copertura di un viale di accesso all’edificio condominiale (utilizzato da tutti i
condomini) che costituisca anche la copertura dei locali sottostanti di proprietà
di un solo condomino (Cass. 14 settembre 2005, n. 18194. ‘‘In materia di condominio, qualora si debba procedere alla riparazione del cortile o viale di accesso
all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei
di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle
relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall’art. 1126 c.c. (nel presupposto dell’equiparazione del bene fuori dalla proiezione dell’immobile condominiale, ma al servizio di questo, ad una terrazza a livello), ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale accolla
per intero le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore a chi con l’uso esclusivo della stessa determina la necessità della inerente manutenzione, in tal
senso verificandosi un’applicazione particolare del principio generale dettato
dall’art. 1123, comma 2, c.c.’’).
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
277
4.1. I termini del contrasto giurisprudenziale.
Il contrasto giurisprudenziale sulla questione in esame si è formato perché
una parte della giurisprudenza di legittimità sosteneva che, ‘‘con riguardo al rimborso delle spese fatte da un condomino per le cose comuni, nel caso di un edificio in condominio composto da due soli soggetti, non trova applicazione l’art.
1134 c.c. il quale nega il diritto al detto rimborso al condomino in mancanza dell’autorizzazione dell’assemblea o dell’amministratore (salvo che per le spese urgenti) bensı̀ la disposizione dell’art. 1110 c.c. in tema di comunione, onde al comunista che abbia sostenuto delle spese necessarie per la conservazione della
cosa comune spetta il rimborso nei confronti degli altri partecipanti alla sola condizione che l’amministratore o gli altri partecipanti trascurino di provvedere, e
quindi anche nel caso di opposizione del compartecipante, la quale, implicando
la volontà di non provvedere ai lavori, soddisfa pienamente alla condizione richiesta dalla legge’’ (Cass. n. 5664/1988).
La tesi prevalente, poi recepita dalle Sezioni Unite con la sentenza in esam, sosteneva, invece, ‘‘l’inoperatività nei condomini c.d. minimi delle norme procedimentali sul funzionamento dell’assemblea condominiale ed alla conseguentemente ritenuta applicabilità alla gestione di tali enti delle prescrizioni riguardanti
la amministrazione dei cespiti oggetto di comunione in generale la disapplicazione con riferimento alle collettività condominiali considerate della disposizione
sostanziale dell’art. 1134 c.c., diretta ad impedire indebite e non strettamente indispensabile interferenze dei singoli partecipanti nella gestione del fabbricato
comune riservata agli organi del condominio: e ciò tanto più in quanto sono previsti dalla legge strumenti alternativi, approntati per consentire all’interessato di
ovviare alla eventualmente ingiustificata opposizione, o all’inazione delle controparti nella adozione e nell’esecuzione dei provvedimenti non urgenti, e tuttavia
necessari per la conservazione ed il godimento dell’edificio in condominio’’
(Cass. n. 5914/1993).
Le conseguenze pratiche derivanti dall’accoglimento dell’uno o dell’altro orientamento derivando dalla facoltà più ampia riconosciuta dall’art. 1110 c.c. al comunista che può legittimamente eseguire, senza il consenso dell’altro, le spese
ascrivibili a semplice trascuratezza, a fronte di quella, invece, più ridotta del condomino che è legittimato ex art. 1134 c.c. a provvedere alle sole spese urgenti.
4.2. La soluzione del contrasto: Cass. sez. un. n. 2046/2006.
La soluzione del contrasto operata dalle Sezioni Unite ha una portata che trascende la specificità della questione esaminata, perché delinea il principio informatore della materia che rileva non solo per il rimborso delle spese anticipate,
non autorizzate o non deliberata, e, quindi, indirettamente per tutte le altre vicende condominiali riguardanti il c.c. condominio minimo e che, esemplificativamente, possono individuarsi nell’approvazione delle deliberazioni assembleari(1)
(1) Cfr. Cass. n. 4271/2001: ‘‘Nell’ipotesi di un condominio costituito da soli due condomini (cosiddetto condomini minimi) non si applica la disciplina dettata dall’art. 1136 c.c., la quale richiede per la regolare costitu-
Tesi minoritaria
Tesi prevalente
Conseguenze
pratiche dei due
orientamenti
278
Rileva solo il
legame di
accessorietà
È irrilevante il
numero dei
condomini
Sulla presunta
incompatibilità tra
condominio
minimo e metodo
maggioritario
PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
e nella nomina dell’amministratore(2), per le quali si ripropone la stessa problematica dell’applicabilità o meno della disciplina dettata per il condominio.
La pronuncia in esame risulta, pertanto, apprezzabile perché offre un criterio
ermeneutico unitario del complesso normativo dettato per il condominio. Le Sezioni Unite sottolineano la specificità del condominio, rispetto al genus comunione, in ragione della relazione di accessorietà che, esprimendo il legame funzionale e la connessione materiale delle parti di uso comune con le proprietà solitarie, caratterizza giuridicamentre l’istituto del condominio, conferendogli cosı̀
autonomia che è fondata sulla disciplina codicistica (artt. 1117-1139 c.c.), tendenzialmente completa ed esaustiva rispetto al quella dettata per la comunione in
generale, che può trovare applicazione soltanto ‘‘per quanto non è espressamente previsto’’ (art. 1139 c.c.), con una previsione normativa che impone,
quindi, uno scrutinio rigoroso, prima di optare per il ricorso eccezionale alle
norme residuali.
In definitiva, quindi, secondo le Sezioni Unite, in un edificio composto da più
unità immobiliare di proprietà esclusiva la disciplina del condominio è applicabile ogni qualvolta sia rimostrabile una relazione di accessorietà tra proprietà
esclusiva e parti comuni; è irrilevante, invece, il numero delle persone che partecipano al condominio.
D’altra parte, sottolinea la sentenza, nessuna norma prevede che le disposizioni dettate per il condominio negli edifici non si applichino al ‘‘condominio minimo’’, composto da due soli proprietari. Per la verità, le due sole norme concernenti il numero dei partecipanti riguardano la nomina dell’amministratore ed il
regolamento di condominio (L’art. 1129 c.c. fissa l’obbligatorietà della nomina
dell’amministratore quando i condomini sono più di quattro;l’art. 1138 prevede
che il regolamento di condominio debba essere approvato dall’assemblea
quando il numero dei condomini è superiore a dieci). Nessuna norma dettata in
materia di condominio contempla il numero minimo (due) dei condomini.Pertanto, se nell’edificio ameno due piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse, il condominio — considerato come situazione
soggettiva o come organizzazione — sussiste sulla base della relazione di accessorietà tra cose proprie e comuni e, per conseguenza, indipendentemente dal
numero dei partecipanti trovano applicazione le norme specificamente previste
per il condominio negli edifici.
Né, in senso contrario, precisa ancora la sentenza vale evidenziare che alcune
norme di organizzazione dettate in materia di condominio, in particolare quelle
che regolano il funzionamento dell’assemblea, presuppongono il metodo collegiale e il principio maggioritario l’uno e l’altro inapplicabili in presenza di due
soli condomini.Sul punto, le Sezioni Unite replicano rilevando che nessuna
norma contempla l’impossibilità, logica e tecnica, che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso da quello maggioritario. In altre parole, nessuna
zione dell’assemblea e per la validità delle relative delibere maggioranze qualificate con riferimento al numero dei partecipanti al condominio ed in rapporto al valore dell’edificio condominiale; ma, in forza della
norma di rinvio contenuta nell’art. 1139 c.c., le deliberazioni di detto condominio, ivi comprese quelle attinenti la nomina dell’amministratore, sono soggette alla regolamentazione prevista dagli art. 1105 e 1106 c.c.
per l’amministrazione della comunione in generale, di cui il condominio di edifici costituisce una specie.’’.
(2) Cfr. Cass. 3 agosto 1966, n. 2155; Cass. 19 ottobre 1961, n. 2246.
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
norma impedisce che l’assemblea, nel caso di condominio formato da due soli
condomini, si costituisca validamente con la presenza di tutti e due i condomini
e all’unanimità decida validamente. Dalla interpretazione logico — sistematica
non si ricava la necessità di operare sempre e comunque con il metodo collegiale
e con il principio maggioritario, quindi il divieto categorico di decidere con criteri
diversi dal principio di maggioranza (per esempio, all’unanimità): si ricava la disciplina per il caso in cui non si possa decidere, a causa della impossibilità pratica di formare la maggioranza: il che vale non soltanto per il condominio minimo.La disposizione dell’art. 1136 c.c. è applicabile anche al condominio composto
da due soli partecipanti: peraltro, se non si raggiunge l’unanimità e non si decide,
poiché la maggioranza non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere
all’autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt.
1105 e 1139 c.c..L’ipotesi del condominio minimo, del resto, è del tutto simile,
sotto tale profilo, ad altre, nelle quali la maggioranza in concreto non si forma. Si
pensi al caso del condominio composto da più partecipanti, in cui gli schieramenti opposti si equivalgono e non si determinano maggioranza e minoranza;
oppure al caso di un condominio, del pari composto da più partecipanti, in cui
un impianto risulti destinato al servizio di due soli condomini, i quali da soli sono
chiamati a deliberare sulla gestione. In entrambi i casi, se in concreto la maggioranza non si forma si ricorre all’autorità giudiziaria ex art. 1105 c.c. cit.
4.3. La sentenza delle Sezioni Unite.
Si riporta di seguito la motivazione della sentenza
Cass. sez. un. 31 gennaio 2006, n. 2046
(omissis)
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione delle norme di cui
agli artt. 1110 e 1134 c.c., poiché erroneamente la sentenza della Corte d’Appello aveva ritenuto
applicabile al condominio costituito da due soli partecipanti la disposizione di cui all’art. 1134
c.c., anziché quella prevista dall’art. 1110 c.c., ragion per cui al condomino, che aveva sostenuto
le spese necessaire per la conservazione delle cose comuni, doveva riconoscersi il diritto al rimborso alla sola condizione della trascuranza dell’altro partecipante. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione della L. 14 maggio 1981, n. 219, artt. 9, 10, 12 e 14 e successive
modificazioni, perché erroneamente la sentenza impugnata non aveva considerato la deroga
alle norme civilistiche apportate dalle norme speciali, con il diritto del condomino di procedere
all’esecuzione delle opere, in sostituzione ed a spese del proprietario inadempiente. Con il terzo
motivo, infine, il ricorrente censura ancora la violazione delle norme speciali ricordate sopra,
che dalla sentenza impugnata non erano state ritenute applicabili a tutti gli immobili danneggiati dal sisma, in ragione dello stato di urgenza dei lavori per adeguare gli edifici alla normativa
antisismica, a pena di decadenza dal beneficio del sussidio statale.
2.1. La questione di diritto, che le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere per decidere la
controversia, è se, nel caso di edificio in condominio composto da due soli partecipanti (il cosiddetto ‘‘condominio minimo’’), il rimborso delle spese per la conservazione delle parti comuni
anticipate da un condomino sta regolato dalla norma di cui all’art. 1134 c.c., che riconosce il diritto al rimirano soltanto per le spese urgenti; ovvero se, in considerazione della peculiarità
della situazione di fatto e di diritto configurata dalla presenza di due soli proprietari, e dalla susseguente inapplicabilità del principio di maggioranza, la fattispecie venga ad essere regolata
dalla norma dettata dall’art. 1110 c.c. per la comunione in generale, secondo cui il rimborso è
subordinato alla mera trascuranza degli altri condomini.
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
Il diverso regime del rimborso delle spese anticipate dal condomino e dal comproprietario, a
seguito della inerzia degli altri partecipanti (o dell’amministratore) — è noto — si fonda sul diverso presupposto oggettivo dell’urgenza e della trascuranza.
In materia di condominio negli edifici, il concetto di urgenza, impiegato nell’art. 1134 c.c.,
viene ricavato dal significato proprio della parola, che designa la stretta necessità: la necessità
immediata ed impellente. Afferma la giurisprudenza che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 1134
c.c. concernente il rimborso delle spese per le cose comuni fatte da un condomino, va considerata urgente la spesa, che deve essere eseguita senza ritardo (Cass., sez. II, 26 marzo 2001,
n. 4364); la spesa, la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il
criterio del buon padre di famiglia (Cass., sez. II, 12 settembre 1980, n. 5256).
Trascuranza, invece, significa negligenza, trascuratezza, omessa cura come si dovrebbe. Relativamente alle spese necessarie per la conservazione delle cose comuni, l’art. 1110 cit. riconduce
il diritto al rimborso alla semplice inattività (Cass., sez. II, 3 agosto 2001, n. 10738).
Il maggior rigore della disciplina in tema di condominio negli edifici rispetto alla comunione
dipende dalla diversa utilità dei beni, che formano oggetto dei differenti diritti; l’utilità strumentale per i beni in condominio e l’utilità finale per i beni in comunione. La indivisibilità dei beni
in condominio (art. 1119 c.c.) dipende dalla utilità strumentale, essendo strettamente legata al
godimento delle unità immobiliari. Dalla virtuale perpetuità del condominio deriva l’opportunità
che i condomini non interferiscono nella amministrazione delle parti comuni dell’edificio. Dalla
normale divisibilità nella comunione, invece, segue che il comunista insoddisfatto dell’altrui
inattività, se non vuole chiedere lo scioglimento (art. 1111 c.c.), può decidere di provvedere personalmente.
2.2. L’espressione ‘‘condominio’’ designa il diritto soggettivo di natura reale (la proprietà comune) concernente le parti dell’edificio di uso comune e, ad un tempo, l’organizzazione del
gruppo dei condomini, composta essenzialmente dalle figure dell’assemblea e dell’amministratore: organizzazione finalizzata alla gestione delle cose, degli impianti e dei servizi.
La specifica fisionomia giuridica del condominio negli edifici — la tipicità, che distingue l’istituto dalla comunione di proprietà in generale e dalle altre formazioni sociali di tipo associativo
— si fonda sulla relazione che, nel fabbricato, lega i beni propri e comuni, riflettendosi sui diritti, dei quali i beni formano oggetto (la proprietà esclusiva e il condominio). Le norme dettate
dagli artt. 1117, 1139 c.c. si applicano all’edificio, nel quale più piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse e un certo numero di cose, impianti e servizi di
uso comune sono legati alle unità abitative dalla relazione di accessorietà. L’art. 1117 c.c., elencati a titolo esemplificativo talune cose, impianti e servizi di uso comune, stabilisce che ‘‘sono
oggetto di proprietà comune’’... ‘‘in genere tutte le parti dell’edificio necessarie per l’uso comune’’ (n. 1); i locali destinati ‘‘per simili servizi in comune’’ (n. 2); le opere, le istallazioni, i manufatti ‘‘di qualunque genere che servono all’uso o al godimento comune’’.
Secondo l’interpretazione consolidata, ai fini della attribuzione del diritto di condominio la
norma conferisce rilevanza al collegamento tra le parti comuni e le unità immobiliari in proprietà solitaria:
collegamento, che può essere materiale o funzionale. Il primo tipo di legame, consistente
nella incorporazione tra entità inscindibili, ovvero nella congiunzione stabile tra entità separabili, si concreta nella necessità delle cose, dei servizi e degli impianti per l’esistenza o per l’uso
dei piani o delle porzioni di piano; il secondo si esaurisce nella destinazione funzionale delle
parti comuni all’uso o al servizio delle unità immobiliari (tra le tante: Cass., sez. II, 9 giugno
2000, n. 7889). Il collegamento tra beni propri e comuni, consistente nella necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero nella destinazione all’uso o al servizio, si definisce come relazione di
accessorietà, perché l’espressione mette in evidenza, ad un tempo, il legame funzionale e la
connessione materiale. Il termine accessorietà, sul piano funzionale, enuncia il difetto di utilità
fine a se stessa e la subordinazione strumentale delle parti comuni; esprime, altresı̀, la connessione materiale, che determina la mancanza di autonomia fisica dei beni comuni rispetto ai beni
in proprietà esclusiva e, nondimeno, non esclude la loro perdurante individualità giuridica nell’orbita della incorporazione o della relazione stabile.
Il regime del condominio negli edifici — inteso come diritto e come organizzazione — si
istaura per legge nel fabbricato, nel quale esistono più piani o porzioni di piano, che apparten-
CAPITOLO IV – GIURISPRUDENZA RILEVANTE IN MATERIA DI CONDOMINIO
gono in proprietà esclusiva a persone diverse, ai quali dalla relazione di accessorietà è legato
un certo numero di cose, impianti e servizi comuni. Il condominio si costituisce (ex lege) non
appena, per qualsivoglia fatto traslativo, i piani o le porzioni di piano del fabbricato vengono ad
appartenere a soggetti differenti.
Segue che, in un edificio composto da più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a persone diverse, la disciplina delle cose, degli impianti e dei servizi di uso comune, legati
ai piani o alle porzioni di piano dalla relazione di accessorietà, sia per quanto riguarda la disposizione sia per ciò che concerne la gestione, è regolata dalle norme sul condominio.In definitiva,
l’esistenza del condominio e l’applicabilità delle norme in materia non dipende dal numero
delle persone, che ad esso partecipano.
Prima di chiudere sul punto, conviene ribadire le ragioni, che determinano la disciplina differente del condominio e della comunione in generale. La ragione di fondo è la diversa utilità dei
beni, che formano oggetto del condominio e della comunione: rispettivamente, l’utilità strumentale e l’utilità finale. Le parti comuni dal codice sono considerate beni strumentali al godimento
dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva; cose in comunione costituiscono beni
autonomi, suscettibili di utilità fine a se stessa e come tali sono considerate.
2.3. D’altra parte, nessuna norma prevede che le disposizioni dettate per il condominio
negli edifici non si applichino al ‘‘condominio minimo’’, composto da due soli proprietari.
Per la verità, le due sole norme concernenti il numero dei partecipanti riguardano la nomina
dell’amministratore ed il regolamento di condominio (L’art. 1129 c.c. fissa l’obbligatorietà
della nomina dell’amministratore quando i condomini sono più di quattro; l’art. 1138 prevede
che il regolamento di condominio debba essere approvato dall’assemblea quando il numero
dei condomini è superiore a dieci). Nessuna norma dettata in materia di condominio contempla il numero minimo (due) dei condomini.
Pertanto, se nell’edificio ameno due piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse, il condominio — considerato come situazione soggettiva o come organizzazione — sussiste sulla base della relazione di accessorietà tra cose proprie e comuni e, per
conseguenza, indipendentemente dal numero dei partecipanti trovano applicazione le norme
specificamente previste per il condominio negli edifici.
2.4. Si contesta l’applicabilità di talune delle norme di organizzazione (artt. 1120, 1121, 1129,
1130, 1131, 1132, 1133, 1135, 1136, 1137, 1138 c.c.), specialmente di quelle riguardanti il funzionamento del collegio sulla base del principio di maggioranza.
Ciò sulla base dell’asserita inapplicabilità del metodo collegiale e del principio maggioritario
in presenza di due soli condomini.
Ma non è esatta l’affermazione che l’impossibilità di impiegare il principio maggioritario
renda inapplicabili ai condomini minimi le norme procedimentali sul funzionamento dell’assemblea e determini automaticamente il ricorso alle norme sulla comunione in generale (tra le
altre: Cass., sez. n, 30 marzo 2001, n. 4721; Cass., sez. II, 26 maggio 1993, n. 5914; Cass., sez. U,
6 febbraio 1978, n. 535; Cass., sez. n, 24 aprile 1975, n. 1604).
Nessuna norma contempla l’impossibilità, logica e tecnica, che le decisioni vengano assunte
con un criterio diverso da quello maggioritario. In altre parole, nessuna norma impedisce che
l’assemblea, nel caso di condominio formato da due soli condomini, si costituisca validamente
con la presenza di tutti e due i condomini e all’unanimità decida validamente. Dalla interpretazione logico — sistematica non si ricava la necessità di operare sempre e comunque con il metodo collegiale e con il principio maggioritario, quindi il divieto categorico di decidere con criteri
diversi dal principio di maggioranza (per esempio, all’unanimità): si ricava la disciplina per il
caso in cui non si possa decidere, a causa della impossibilità pratica di formare la maggioranza:
il che vale non soltanto per il condominio minimo.
La disposizione dell’art. 1136 c.c. è applicabile anche al condominio composto da due soli
partecipanti: peraltro, se non si raggiunge l’unanimità e non si decide, poiché la maggioranza
non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere all’autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 c.c.
L’ipotesi del condominio minimo è del tutto simile ad altre, nelle quali la maggioranza in concreto non si forma. Si pensi al caso del condominio composto da più partecipanti, in cui gli
schieramenti opposti si equivalgono e non si determinano maggioranza e minoranza; oppure al
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PARTE SECONDA – DIRITTI REALI
caso di un condominio, del pari composto da più partecipanti, in cui un impianto risulti destinato al servizio di due soli condomini, i quali da soli sono chiamati a deliberare sulla gestione.
In entrambi i casi, se in concreto la maggioranza non si forma si ricorre all’autorità giudiziaria
ex art. 1105 c.c. cit.
A fortiori non sussistono ostacoli all’applicazione anche al condominio minimo delle norme
concernenti la situazione soggettiva (artt. 1117, 1118, 1119, 1122, 1123, 1124, 1135, 1136, 1137,
1138 c.c.) Quindi, nulla osta che nel caso delle spese anticipate da un condomino trovi applicazione l’art. 1134 c.c. Per la verità, il contemperamento di interessi dettato da questa disposizione
si fonda sulla relazione di accessorietà tra beni propri e comuni, essendo la disciplina del rimborso delle spese per le cose, gli impianti ed i servizi comuni dell’edificio stabilita in funzione
del carattere strumentale di queste parti rispetto al godimento dei piani o delle porzioni di
piano in proprietà solitaria, avuto riguardo alla necessità che i condomini sulla gestione interferiscano il meno possibile.
2.5. In conclusione, il condominio si istaura, sul fondamento della relazione di accessorietà
tra le cose, gli impianti ed i servizi rispetto ai piani o le porzioni di piano in proprietà solitaria,
ogni qual volta nel fabbricato esistono più piani o porzioni di piano in proprietà esclusiva; la relazione di accessorio a principale conferisce all’istituto la fisionomia specifica, per cui si differenzia dalla comunione e dalle altre formazioni sociali di tipo associativo; d’altra parte, nessuna
disposizione prevede l’inapplicabilità delle norme concernenti il condominio negli edifici al
‘‘condominio minimo’’, composto da due soli partecipanti, posto che le sole norme in materia
concernenti il numero dei condomini riguardano la nomina dell’amministratore e la formazione
del regolamento (gli artt. 1129 e 1138 c.c.). Tutto ciò considerato, nel caso di edificio in condominio composto da due soli condomini (il cosiddetto ‘‘condominio minimo’’), il rimborso delle
spese per la conservazione delle parti comuni anticipate da un condomino viene ad essere regolato dalla norma stabilita dall’art. 1134 c.c., da cui il diritto al rimborso è riconosciuto soltanto
per le spese urgenti: ovverosia, soltanto per le spese impellenti, che devono essere eseguite
senza ritardo e la cui erogazione non può essere differita senza danno.
Il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
3. Deve essere rigettato, del pari, il secondo motivo, che al primo è strettamente connesso.La
L. speciale 14 maggio 1981, n. 219 non deroga affatto alle disposizioni del codice civile in materia di condominio. Al contrario, la L. speciale, art. 12 c.p.v., ultimo conferma che le deliberazioni
collegiali concernenti le opere di ricostruzione o di riparazione devono essere approvate con la
maggioranza di cui all’art. 1136 c.c., comma 2: in piena conformità, quindi, con quanto dispone
in generale lo stesso art. 1136 c.c., comma 4, per la ricostruzione dell’edificio o le riparazioni
straordinarie di notevole entità.
Allo stesso tempo, le norme concernenti i contributi per la riparazione degli immobili non irrimediabilmente danneggiati riguardano, di regola, i soggetti titolari del diritto di proprietà alla
data del sisma (legge citata, art. 10). Peraltro, i contributi per la riparazione previsti in favore
del proprietario, a norma della legge citata, art. 11, possono essere assegnati eccezionalmente
anche al conduttore o ad altri detentori alla duplice condizione che: a) sia decorso il termine di
90 giorni dalla comunicazione, con lettera raccomandata, che i predetti soggetti sono tenuti a inviare al proprietario, di voler eseguire direttamente le opere necessaria senza che il proprietario
abbia presentato al sindaco la prescritta domanda di autorizzazione; b) nel termine di 90 giorni
dall’autorizzazione del sindaco, il proprietario non abbia dato inizio ai lavori.Nella specie, nessuna di tali modalità procedimentali si deduce essere stata osservata.
4. Appare del tutto nuovo e, come tale, inammissibile il terzo motivo di ricorso.È risaputo
che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni
che siano già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove e nuovi temi non trattati nella fase
di merito. Orbene, non risulta prospettata in appello la doglianza concernente l’urgenza ex se
delle opere occorrenti per adeguare l’edificio alla normativa antisismica, posto che in sede di
gravame C.N., con il primo motivo aveva lamentato la mancata ammissione della richiesta consulenza tecnica indispensabile per valutare l’applicabilità nella fattispecie della disposizione di
cui all’art. 1110 c.c. e, con il secondo, aveva censurato l’affermazione circa l’insussistenza della
prova relativa alla ultimazione dei lavori.