Il “fumetto”
del dragone
di Franco Maria Puddu
L
Una pagina di storia
navale insolitamente
arrivata a noi
dall’Estremo Oriente
a nostra Rivista
ha già avuto occasione di interessarsi dell’“arte minore” dei fumetti (comics
o bandes dessinées che
dir si voglia) rivolgendo la sua attenzione alle vivaci “strisce” che
sono state dedicate in passato ad avventure di mare (Lega Navale giugno 2002), e a quelle che hanno riportato alla ribalta i mariniers della Marina
napoleonica (Lega Navale gennaio-febbraio 2011).
Oggi invece, daremo un’occhiata ad una vera e
propria “chicca” trovata più di trenta anni fa (e
adesso casualmente riemersa dall’oblio), durante
una ricerca iconografica riguardante la rivolta degli I’ho Tuan (Boxer per gli occidentali, i quali erano chiamati a loro volta “diavoli bianchi” dai cinesi) scoppiata in Cina nel 1900, e celebrata nel
1963 sugli schermi cinematografici dal bellissimo
film “55 giorni a Pechino” con David Niven,
Charlton Heston e Ava Gardner.
Si tratta di un piccolo album a fumetti dedicato alla Marina del Celeste Impero, una pubblicazione che, con alcune altre che trattavano analoghi eventi di quel periodo storico, non aveva
niente a che fare con l’obiettivo della ricerca, ma
che venne acquisita e “incamerata” per poi collocarla, in base all’immortale principio del “non si
sa mai”, a dormire in archivio.
A questo punto dobbiamo fare alcune precisazioni. All’inizio dello scorso secolo, l’opinione pubblica italiana dell’Impero Cinese sapeva poco o niente,
ma il fatto strano è che,
al giorno d’oggi, la situazione non è poi molto cambiata.
Il fatto che l’attuale
Repubblica Popolare si
sia largamente aperta
all’Occidente senza essere stata compulsata
da altre grandi potenze,
che sia divenuta una competitrice nella corsa allo
spazio, che abbia colmato incredibili gap tecnologici e ospitato le Olimpiadi non è servito a molto.
Il nostro immaginario collettivo, infatti, continua ad archiviare in un pout pourri, l’invenzione
della bussola e degli spaghetti, i viaggi di Marco
Polo, la Grande Muraglia, il saltellante Bruce Lee,
lo ieratico Mao, le vocianti Guardie Rosse, aggiungendo a mala pena l’arrivo in Occidente dei primi
emigranti dagli occhi a mandorla e l’apertura nelle nostre città di una miriade di ristoranti cinesi.
Non molto di più.
Mentre la nostra cultura “accademica”, dal
canto suo, non si è affatto prodigata in seri sforzi
per comprendere meglio quella orientale, se non,
forse, con alcuni e poco noti livelli aulici incomprensibili ai più.
Questa è una delle ragioni per le quali riteniamo che siano pochi i lettori che conoscano l’esistenza dei fumetti cinesi (anche se sin dai tempi
del Celeste Impero già si stampava qualcosa di
analogo), che oggi vengono considerati meishu
zuopin, ossia opere d’arte, e divulgati a livello nazionale dalla rivista Lianhuan huabao.
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La copia perfetta della corazzata Ting Yuen, così come la possiamo ammirare, e visitare, al suo ormeggio, nella banchina del porto di
Weihai; in apertura il vessillo con il Long, il dragone imperiale beneaugurante, sventola al picco della nave
Il fumetto in Cina
Gli ideogrammi con i quali si esprime la lingua
cinese, li favoriscono perché è sufficiente una didascalia sotto l’immagine per renderla viva e
comprensibile (ogni simbolo costituisce una
“idea”, non il senso di una parola che va poi interpretato), senza dover ricorrere all’artifizio del
“balloon”, (il “fumetto”, appunto) che fuoriesce
dalla bocca dei personaggi della pubblicistica occidentale quando parlano, o dalla loro testa sotto
forma di nuvoletta quando pensano.
Il fumetto, inoltre, molto apprezzato in Cina, si
presta alla comunicazione di massa per la sua immediatezza, e ad essere ideologizzato per la sua essenzialità; nella riuscita di questi due scopi si riconosce il valore del fumettista, e quelli cinesi sono
sempre stati di buona levatura. Per questo è stato
nel tempo veicolo di messaggi dei più svariati tipi.
I fumetti cinesi (pubblicati ininterrottamente
dall’inizio dello scorso secolo ad oggi tranne che
nel decennio 1966 - 1976 a causa delle Guardie
Rosse, che diedero vita in quegli anni alla iconocla-
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stica Rivoluzione Culturale) si distinguono per due
caratteristiche: lo stile, essenziale ma completo, e
l’impaginazione, quasi sempre in bianco e nero.
Sono di due tipi: il lianhuan hua (letteralmente
“illustrazioni collegate”), una storia completa
composta da più immagini, anche oltre il centinaio, e il manhua, spesso una immagine singola
densa di significato, assimilabile alle nostre vignette satiriche.
Quello del quale parleremo è del primo tipo,
ed è forse una piccola rarità, in quanto dovrebbe
essere fra i primi editati dopo la fine della Rivoluzione Culturale, essendo stato stampato a Pechino
nel 1977, e tratta, in 136 vignette, della battaglia
navale dello Yalu, un episodio svoltosi nel 1894,
durante la prima guerra sino-giapponese.
A questo proposito, occorre fare un’altra precisazione; le vicende illustrate sono realmente avvenute in uno sciagurato periodo, quello del dilagare,
nel Paese, del colonialismo capitalista europeo, che
non fu attratto dall’avventura cinese per espansionismo territoriale, ma per aprire un importante sfo-
go in quell’enorme mercato economico, fattore che
si assicurò ricorrendo spesso a metodi che oggi sarebbero deferiti senza indugio al Tribunale Internazionale per i Diritti Umani dell’Aia.
Un esempio per tutti, le due Guerre dell’Oppio (1839-42/1856-60), con le quali la Gran Bretagna, per inserirsi nel mercato cinese chiuso
agli interessi europei, creò forzatamente dall’India un mercato di questa droga, sino ad allora
ammessa nel Paese solo come medicinale, facendo nascere tossicodipendenza, fumerie d’oppio e
narcotraffico per forzare la mano al Governo cinese ad aprire commercialmente le porte ai propri emissari.
Ma quando questo irrigidì ancor più le già severe misure di controllo del mercato e delle fron-
Una delle guide della nave in uniforme di marinaio della
Marina Beyang vicino alla riproduzione di un cannone revolver (come venivano chiamati) Hotchkiss, una delle prime
armi a ripetizione a manovella
La copertina del fumetto edito in Cina e ritrovato dopo trenta
anni di “oblio”: il titolo è “La battaglia navale del 1894”
Quando Lincoln diceva...
S
embrerebbe che le parole sotto riportate siano avulse dalla questione trattata dal nostro articolo. In realtà
le citiamo unicamente per far capire come, a distanza di tempo, le situazioni possano apparire ben diverse
da quanto siano in realtà. Per fare un esempio, chi non si stupirebbe se dicessimo che il Presidente degli Stati
Uniti Abraham Lincoln, strenuo difensore dei diritti umani e assoluto nemico dello schiavismo, nutrisse convinzioni degne di un razzismo ad oltranza? Pure, nel 1858, appena tre anni prima della sua elezione alla Casa Bianca e dello scoppio della Guerra Civile, in occasione di un dibattito con il senatore Stephen A. Douglas,
proclamò: “Non sono, e non sono mai stato favorevole ad una qualsiasi realizzazione della parità sociale e politica della razza bianca e nera; esiste una differenza fisica tra la razza bianca e nera che credo impedirà per sempre alle due razze una convivenza in termini di parità sociale e politica. E poiché
esse non possono convivere in questa maniera, finché rimangono assieme ci dovrà essere la posizione
superiore e la inferiore, ed io, al pari di chiunque altro, sono favorevole a che la posizione superiore
venga assegnata alla razza bianca”. Di conseguenza ad un osservatore contemporaneo, il comportamento, in quegli anni, dell’Inghilterra nei confronti della Cina nelle Guerre dell’Oppio, appariva sicuramente molto meno controverso di quanto possa apparire, oggi, ai nostri occhi.
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Il comandante Deng Sichang: “Noi difendiamo la nostra Patria e
siamo dei provocatori? Anche l’attacco giapponese è considerato
una provocazione cinese? Allora dobbiamo trattare solo da
condizioni di inferiorità?”
Li Hongzhang lo interrompeva: “Non essere insolente con i nostri
amici stranieri!” e dava ordine di degradare Deng, ma dopo
l’intercessione di tutti gli altri ufficiali doveva desistere da
questa iniziativa
tiere, il passo verso la guerra fu breve, e gli inglesi,
vincendo, obbligarono il Celeste Impero all’apertura (per loro privilegiata) di numerosi porti, alla
firma degli umilianti trattati di Nanchino e di
Tien Tsin e alla cessione di Hong Kong alla Gran
Bretagna.
no, nella seconda metà del XIX secolo erano
normalmente accettati; cosa che non ne giustifica la messa in atto, ma che ci ricorda di non inquadrarli nell’ottica di un mondo, come quello
odierno, dove aiuti umanitari voluti e gestiti da
Governi democratici giungono in soccorso di
Paesi in crisi: allora, per i propri interessi, si predava a man salva.
I Governi erano per lo più imperi o monarchie
assolute; se un regnante decideva di annettersi, ad
esempio, il Madagascar, il suo Esercito oliava le armi, la Marina rassettava le navi e il popolo plaudiva osannando la saggia decisione che avrebbe dato lustro e guadagni alla Patria.
In quell’epoca lo schiavismo, le operazioni di
La piaga del colonialismo
Dobbiamo tuttavia ricordare che i fenomeni
colonialisti, perdurati fino a pochi decenni or so-
La spia giapponese viene accolta calorosamente all’ambasciata
americana, e il Ministro lo informa dell’uscita in mare della
Marina Beiyang, al che, dopo averlo ringraziato, prometteva di
ricambiare il favore
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Le navi della Marina Beiyang uscivano in mare, ma poco dopo
vedevano una formazione navale che dirigeva contro di loro
Tutti capivano che era un’imboscata e che era necessario
aprire il fuoco, ma alcuni, seguendo gli ordini di Li, si
opponevano. L’ammiraglio Ding Ruchang, però, ordinava: “La
situazione è grave, dobbiamo combattere”
polizia coloniale e la politica delle cannoniere
erano prassi comune; gli inglesi avrebbero inventato di lì a poco i campi di concentramento
nei quali rinchiudere i boeri in Sudafrica, mentre
i turchi studiavano come sterminare il popolo
armeno.
Nel progredire dell’industrializzazione, fra le
grandi esposizioni internazionali, la Statua della
Libertà, la Tour Eiffel e il Bal Excelsior, il mondo
marciava sicuramente verso il progresso, ma non
certo verso la pace, come gli immani massacri del
XX secolo avrebbero dimostrato.
Colto da un sospetto il personale del deposito munizioni si
affrettava a controllare le cariche da poco acquistate in
America, ma si accorgeva che contenevano solo sabbia e
polvere di carbone
Le munizioni erano finite, e si era passati a caricare le armi
con quelle recentemente acquistate in America, ma fra lo
stupore degli artiglieri, ci si accorgeva che i cannoni non
sparavano
In questo scenario internazionale, la decadente
dinastia Qing, che avrebbe calato il sipario sulla
millenaria storia del Celeste Impero, fronteggiava
malamente le potenze occidentali che reclamavano fameliche il diritto a godere delle risorse che
offriva lo stanco gigante orientale.
Dopo le peripezie che lo avevano portato in
collisione con la Gran Bretagna, alla fine del
1800 l’Impero era entrato in attrito anche con la
Francia e poi con il Giappone; la sua Marina, anche se era una forza rispettabile (molte delle sue
unità erano moderne e provenivano dagli scali
di Cantieri inglesi e tedeschi), ne combatterà le
flotte con sfortunato eroismo, fino ad esserne
decimata.
Il momento storico era deprimente; era il
1880, e una sanguinosa guerra civile, nota come
rivolta del Taiping, aveva sconvolto il Paese per
oltre un decennio. L’Inghilterra l’aveva umiliato
con le Guerre dell’Oppio, la Francia era in moto
per seguire le orme della Gran Bretagna e il Giappone non celava più le sue mire espansionistiche
sulla Corea.
L’Imperatrice Tzu Hsi (o Cixi) aveva deciso di
modernizzare lo strumento navale dell’Impero,
dividendone poi le forze in quattro flotte: la Beiyang (dei mari del nord, con base a Tianjin, la
più forte e moderna), la Nanyang (dei mari del
sud, con base a Shanghai, numericamente la più
forte), la Fujian (con base a Fouzhou che verrà
totalmente distrutta nel 1884 da una squadra navale francese) e la Guangdong (con base a Can-
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Un’altre immagine artistica, questa volta contemporanea, dello stesso evento bellico: un grande paravento illustrato da Kobayashi
Kiyochika, un noto pittore giapponese dell’epoca, sulla battaglia dello Yalu o del Mar Giallo
ton, la minore e costituita per lo più da unità
leggere).
Questa spartizione doveva garantire un maggior controllo dei mari, ma in realtà serviva a impedire che generali e ammiragli, in grado di rivoltarsi contro la dinastia, si coalizzassero fra di loro.
Il Governo imperiale, infatti, era a tutti noto per
la sua corruzione sfrenata, ed enormi cifre destinate alle Forze Armate, venivano spesso ghermite
dalla voracità di mandarini, ministri di corte e
della stessa Imperatrice, che se ne appropriavano
o le utilizzavano per indire grandiose feste e costruire sfarzosi palazzi. Nell’ambito di questo disastroso scenario si innesta la nostra storia.
Dalla Germania alla Cina
Tra il 1881 e il 1882, erano state ordinate ai
Cantieri tedeschi Ag Vulcan, di Stettino, in Pomerania (oggi Szczecin, in Polonia), due unità pre
Drednought, corazzate monocalibre antesignane
delle navi da battaglia, Ting Yuen e Zhen Yuan che
sarebbero entrate in servizio nel 1885.
Dislocavano 7.473 tonnellate a pieno carico:
lunghe 94,5 metri, larghe 18,4 e con un’immersione di 6, erano propulse da motrici a vapore a
triplice espansione da 7.500 Hp, con due caldaie
alimentate a carbone su due eliche, che consentivano di raggiungere i 15,4 nodi, con un’autonomia di 4.500 miglia alla velocità di 10. Gli scafi
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erano protetti da una cintura di acciaio spessa 355
mm a centro nave, mentre le torri di artiglieria
erano spesse 305 mm.
L’armamento principale consisteva in 4 cannoni Krupp da 305 mm in due impianti binati in
torri corazzate cilindriche, e 2 da 150 mm in impianti singoli; quelli binati si trovavano uno a sinistra e uno sul lato dritto della nave a circa due
terzi dello scafo verso prora, sguardati tra loro di
45°, con quello di dritta più avanzato e quello di
sinistra arretrato, mentre i 150 mm erano a prora
e a poppa estrema, sparanti uno in caccia, l’altro
in ritirata.
Vi erano inoltre 12 armi di piccolo calibro per
la difesa ravvicinata, 3 tubi lanciasiluri e sul ponte, dietro i due fumaioli, due torpediniere a vapore da calare in mare.
Non appena le corazzate giunsero in Cina,
vennero dislocate, assieme ad altre moderne unità
nell’isola di Lingong, al centro della baia di Weihai, dove era lo Yaman (Quartier Generale) della
Marina Beiyang.
Dopo lo scoppio della guerra sino-giapponese, nel 1894 presero parte alla battaglia che si
svolse al largo della foce del fiume coreano Yalu,
dove la Ting Yuen si comportò con onore, ma fu
vittima di una grande sfortuna e della corruzione di corte.
Dapprima, infatti, per il difetto di una torre
grosso calibro che aveva una errata limitazione
del campo di tiro, il cono di vampa della prima
salva distrusse le sovrastrutture prodiere, plancia
compresa, ferendo gravemente il comandante e
molti ufficiali.
Quindi lottò eroicamente ma inutilmente, perché, lucrando sui fondi destinati alla Marina, funzionari di corte e ufficiali corrotti avevano acquistato munizionamento di grosso e medio calibro
proveniente solo da lotti scaduti o avariati, che
non esplodeva o era comunque difettoso.
Danneggiato dalle torpedini e dalle artiglierie
nipponiche, il Ting Yuen riuscì a malapena a ritirarsi, rifugiandosi sotto la protezione delle artiglierie costiere cinesi. Dopo la resa, fu preda bellica del Giappone, nella cui Marina servì fino al
1904, anno in cui affondò a Port Arthur nel corso
del conflitto russo giapponese.
Si trattò di un evento storico poco noto in Europa, anche perché il colonialismo si gloriava delle sue imprese, ma, prudentemente, era sempre
vago o impreciso nel vantarsene.
In ricordo del passato
In Cina, invece, nonostante si risolvesse in una
sconfitta, è sempre stato celebrato come un momento della impari lotta contro l’oppressore, e
proprio per ricordare quelle giornate oscure oggi,
ormeggiata ad una banchina di Weihai, è possibile ammirare una perfetta copia della corazzata,
con al picco la bandiera di guerra della Marina
Beiyang che reca il Long, il dragone imperiale bene
augurante, ricostruita nel 2004 dai piani originali
su commissione del Weigao Group e dell’Ente Portuale di Weihai.
Proprio in occasione di un ennesimo studio,
questa volta sulle due corazzate e la loro storia,
è riemerso qualche ricordo circa gli eventi che
le coinvolsero, e dopo una breve ricerca, ecco
tornare alla luce il vecchio album di fumetti
che, quando venne acquistato, era di un certo
interesse, ma non diceva più di tanto dal momento che era scritto solo ed esclusivamente in
cinese.
Adesso, invece, unendo alle immagini la conoscenza dei fatti, appare tutto chiaro, nello sviluppo della storia e nella sequenza dei fatti.
Il tratto, in bianco e nero, (solo la copertina è a
colori) è nitido e chiaro, la precisione delle immagini è notevole, anche quando riguardano uniformi o particolari tecnici, e solo in rari casi è un po’
naive (non si può pretendere altrimenti quando,
per illustrare una battaglia navale si dispone di
uno spazio di 9,5 per 7 centimetri).
La vicenda è, naturalmente, politicizzata, non
si potevano ignorare le direttive del Partito, ma in
fondo non poi molto, in quanto già narrandola
per sommi capi non ne poteva uscire altro che un
Paese oppresso, con una Imperatrice e una corte
corrotte, con ufficiali e marinai fedeli ai principi
dell’onore che tentano il riscatto contro le criminali ingerenze occidentali.
Vi sono presenti degli emissari europei (che,
naturalmente, hanno sembianze altezzose e vagamente banditesche, ma non troppo se le confrontiamo alla grafica, peraltro raffinata, giapponese,
coeva degli eventi, dove gli occidentali, per differenziarne i tratti da quelli degli orientali, assumevano fisionomie grottesche), raramente dei militari giapponesi (questi, invece, rappresentati in
maniera decisamente spregiativa), alcuni funzionari corrotti che, naturalmente, finiscono male, la
Città Proibita dove vive Tzu Hsi con i suoi mandarini ed eunuchi.
Naturalmente alla fine emerge un discorso sottilmente politico, dove si vede che i bravi ufficiali,
marinai e soldati sopravvissuti all’impari lotta si
mettono in marcia sventolando le bandiere, per
iniziare una lunga lotta (la Lunga Marcia?) contro
l’oppressore e così via.
Sarebbe stato illogico far entrare ufficialmente
nel discorso il Partito Comunista, dato che l’ambientazione precede di troppi decenni la sua nascita, ma il garbato pistolotto patriottico si stempera in un sottinteso leit motiv comune a molte
vicende illustrate riprese dalla storia del Paese, sia
pure in differenti periodi.
In tutti i casi dobbiamo ricordare che eravamo
nel 1977, la situazione dei vertici del Partito non
si era ancora assestata dopo il turbolento passaggio delle Guardie Rosse terminato appena un anno prima; inoltre, a settembre moriva Mao Zedong, il grande timoniere, mentre all’inizio di ottobre venivano arrestati i componenti della Banda
dei Quattro (un gruppo radicale del quale era a capo Chang Ching, la moglie di Mao, onnipresente
nella vita del Paese) e l’8 ottobre era eletto il primo presidente del Partito del “dopo Mao”, Hua
Kuo-feng.
Anche i bravi esecutori del nostro fumetto,
quindi, avranno avuto i loro problemi, e avranno
ritenuto di essere stati già abbastanza fortunati
per essere riusciti a portare a termine il loro parti■
colare ma apprezzabile lavoro.
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