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PER UNA PEDAGOGIA DEL CONFLITTO
Di Angela Dogliotti Marasso
Come sostiene Alberto L’Abate, nei confronti del conflitto la nostra società ha un atteggiamento di
tipo “schizofrenico”: in genere esso viene infatti esaltato, soprattutto nelle sue valenze di
competizione, a livello politico e sociale, come fattore e indicatore di democrazia, mentre viene
rifiutato e negato nei rapporti interpersonali, in ambito educativo, in favore di atteggiamenti
consensuali e solidaristici. Ma ciò non fa che riproporre un modello pedagogico pericolosamente
incapace di affrontare una realtà ineludibile e quotidiana come quella della gestione delle differenze
e dei conflitti nella relazione educativa, nei rapporti interpersonali, familiari, di gruppo.
Per questo, una pedagogia orientata alla nonviolenza, strada maestra per l’assunzione piena del
conflitto e per la sua umanizzazione, non può che essere in primo luogo una pedagogia della
trasformazione costruttiva dei conflitti a tutti i livelli.
Con questo breve intervento vorrei dunque richiamare alcuni dei fondamenti che stanno alla base di
una pedagogia del conflitto, cuore pulsante dell’educazione alla pace e alla nonviolenza.
Come punto di partenza si può prendere l’articolazione del concetto di violenza, che J.Galtung ha
evidenziato nell’ambito della Peace Research come violenza diretta, strutturale, culturale,
distinguendola da altri concetti, come quelli di aggressività e di forza, in modo da poter sottolineare
le caratteristiche della combattività nonviolenta, o assertività, come componente fondamentale nella
formazione di una personalità nonviolenta.
Se la violenza potrebbe essere schematicamente definita in termini relazionali come l’effetto di
comportamenti (o legittimazione culturale di essi) che, intenzionali o meno, risultano distruttivi
verso persone, gruppi, sistemi viventi, a livello fisico o psicologico, in modo diretto o indiretto,
l’aggressività è un concetto ambivalente, che, inteso etimologicamente come un “andare
verso” (“adgredior”), può assumere le caratteristiche della reazione vitale, innata e inconsapevole,
orientata alla vita e alla sopravvivenza (quella che E.Fromm chiama “aggressività benigna”) oppure
dell’azione distruttiva, culturalmente codificata, assimilabile alla violenza (l’”aggressività maligna”
di cui parla Fromm). All’opposto della violenza, invece, la forza si può intendere come un’energia
che nella cultura della nonviolenza assume la connotazione positiva di assertività, combattività
nonviolenta, cioè della scelta consapevole di contrastare la distruttività della violenza senza usare
una violenza speculare, mimetica; come capacità, cioè, di affermare costruttivamente le proprie
ragioni e i propri valori contestualmente al riconoscimento delle ragioni e dei valori dell’altro, o di
lottare con la nonviolenza quando sia necessario contenere la violenza dell’avversario e affermare
diritto e giustizia violati.
A partire da questa premessa concettuale, lo schema che segue sintetizza alcuni presupposti teorici
per fondare una pedagogia dei conflitti nell’ottica della nonviolenza, articolandoli, per brevità in
sette tesi, con i relativi essenziali riferimenti bibliografici:
Tab.1: PRESUPPOSTI TEORICI per una PEDAGOGIA DEI CONFLITTI
Tesi 1: la violenza non è una realtà
inevitabile e necessaria, ma una possibilità, un
rischio sempre presente, una “tentazione” con la
quale fare i conti
Tesi 2: per poter contenere e contrastare la
violenza occorre comprendere come i
meccanismi che ne caratterizzano la dinamica si
innestano nel contesto di potenzialità,
trasformandolo in realtà
Tesi 3: accanto alle tendenze e ai
comportamenti competitivi, diffidenti, violenti,
nella specie umana sono presenti interazioni
Riferimenti:
Dichiarazione di Siviglia relativa alla violenza,
commissionata dall’UNESCO, (1986)
Riferimenti:
P.Patfoort , (1988): violenza come risultato di
un uso distorto dell’istinto di autoconservazione
R.Girard, (1983): violenza come risultato della
degenerazione del desiderio mimetico
Riferimenti:
I.Eibl-Eibesfeldt, (1971)
N.Feshbach, (1983)
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affiliative amichevoli, derivate dai
comportamenti allevanti, che si estrinsecano nei
comportamenti di cura, cooperativi, pro-sociali
Tesi 4: se si amplia lo sguardo a livello
spazio-temporale, la “violenza inevitabile”
appare come un pregiudizio
A.Fonzi, (1991)
S.Bonino e altri, (1999)
Tesi 5: la violenza può essere alimentata e
facilmente riprodotta a livello sociale da alcuni
contesti “scatenanti”. Tra queste fonti sociali
della violenza assumono particolare rilevanza,
da un punto di vista educativo:
l’obbedienza acritica; la deresponsabilizzazione; il pregiudizio
Tesi 6: il modo in cui un gruppo umano
affronta i conflitti è indicativo dei livelli di
violenza presenti al suo interno. La nonviolenza
è la scienza (o l’arte) dell’umanizzazione del
conflitto: interrompendo la violenza mimetica
riesce a concentrare l’attenzione sull’oggetto e a
trasformare la dinamica del conflitto
Riferimenti:
S.Milgram, (1975)
Z.Bauman, (1989)
A.L’Abate, (1995 e segg.)
Tesi 7: per trasformare in modo nonviolento
i conflitti a tutti i livelli, sono necessarie
specifiche competenze, che si possono
sviluppare in ambito educativo.
Una pedagogia dei conflitti, avendo come scopo
quello di trovare alternative alla violenza, ha una
valenza formativa che è, insieme, personale e
politica.
Riferimenti:
scuola sistemica
C.Rogers, (1951)
P.Patfoort, (1992)
B.Diaz-B.Liatard (1998)
M.Rosenberg, (1999) …
Riferimenti:
M.Mead, (1937)
R.Eisler, (1996)
P.Giorgi, (1999)
Riferimenti ai testi di:
Gandhi, G.Pontara, G.Sharp,
L.Milani, A. Capitini, D.Dolci
In questo particolare contesto:
J.Semelin, (1985)
J.Galtung, (2000)
Qualche breve commento.
A proposito dell’annosa questione della ineluttabilità della violenza, quasi fosse una stigmate che
contrassegna il destino umano , credo che la risposta più equilibrata ed autorevole resti a tutt’oggi la
Dichiarazione di Siviglia dell’86, che rifiuta sia le generalizzazioni fataliste in chiave deterministica
tipiche di certi ambiti, soprattutto della sociobiologia, sia le posizioni troppo superficialmente e
aprioristicamente ottimistiche sulla presunta bontà e innocenza della “natura umana”.
Solo un approccio dinamico e relazionale, che si sviluppi nell’ottica della complessità e sulla base
dell’attenzione ai contesti può rendere conto dei processi reali, in cui la violenza è presente come una
dolorosa realtà, senza tuttavia avere i caratteri fondativi dell’umana esperienza, ma essendone
piuttosto una possibilità.
In questo senso diventa fondamentale chiarire quali possano esserne le condizioni genealogiche,
quali i meccanismi che ne favoriscono lo sviluppo e la riproduzione.
Tra i molti contributi emersi a questo proposito nell’ambito delle scienze umane e sociali, ne segnalo
due, che mi paiono convalidarsi reciprocamente: quello di Pat Patfoort, nato nell’ambito specifico
della Peace Research e della formazione alla nonviolenza, secondo cui la violenza si esprime e si
propaga nella relazione Maggiore-minore, come risposta distorta al bisogno di autotutela e di
autoconservazione, e quella del filosofo francese R.Girard che delle dinamiche della violenza dà una
convincente interpretazione in chiave antropologica, centrata sui concetti di imitazione e di rivalità.
Ma i comportamenti violenti, che ci paiono così comuni e ineluttabili, non sono le sole interazioni
che caratterizzano le società umane: nel corso della filogenesi, nel tempo e nello spazio si sono
differenziati molti tipi di comportamenti, tra cui importantissimi quelli di cura, cooperativi,
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amichevoli, pro-sociali, che, seppur meno appariscenti, caratterizzano le interazioni umane in forme
diverse a tutte le latitudini. L’antropologia culturale ha studiato il rapporto tra comportamenti
allevanti e caratteristiche sociali; la psicologia sociale e quella evolutiva hanno contribuito a chiarire
il rapporto tra struttura di personalità e ambiente, l’etologia ha studiato il comportamento umano in
relazione a quello animale…Da tutti questi ambiti di ricerca emerge che la “violenza inevitabile” è in
realtà una sorta di pregiudizio, di cui ci si può rendere conto se si amplia e approfondisce lo sguardo
a livello spaziale e temporale. E’ piuttosto nel tipo di organizzazione sociale e di trasmissione della
memoria, nelle relazioni e nelle modalità educative che spesso risiedono i semi della violenza:
l’obbedienza acritica, la de-responsabilizzazione, il pregiudizio e la distanza sociale verso il diverso,
forme di identificazione chiuse e fondate sull’assolutizzazione di un tipo di appartenenza, possono
essere fonti sociali di violenza ben più pericolose delle manifestazioni di aggressività individuale.
Tra i riferimenti a questo proposito sono citati l’ormai classico esperimento di S.Milgram,
l’interpretazione nel contesto della modernizzazione che ne ha dato il sociologo polacco Z.Bauman e
le ricerche più recenti dello stesso Alberto L’Abate.
Le tesi 6 e 7 , infine, sono centrate sullo specifico contributo che la nonviolenza ha dato alla
trasformazione costruttiva dei conflitti: il punto cruciale sta nel saper interrompere la violenza
mimetica mettendo in campo una forza diversa dalla violenza per affrontare il conflitto,
concentrando l’attenzione sull’oggetto del contendere e sviluppando un processo costruttivo si lottaricomposizione-ridefinizione del problema in una prospettiva più ampia, di tipo relazionale e
globale. I riferimenti sono agli autori classici della teoria e della prassi nonviolenta e ai ricercatori e
formatori che hanno messo a fuoco le competenze necessarie ad una trasformazione nonviolenta dei
conflitti, mettendo a punto anche procedure e strumenti concreti per esercitarle e potenziarle.
Sulla base di questi presupposti teorici, da tempo si sono sviluppate esperienze di formazione alla
gestione nonviolenta dei conflitti in ambito educativo.
Quello che segue, proposto a titolo esemplificativo, è un possibile percorso di alfabetizzazione al
conflitto, articolato in otto tappe di obiettivi formativi, sperimentato in alcune scuole secondarie
piemontesi.
ALFABETIZZAZIONE AL CONFLITTO :
LE TAPPE DI UN POSSIBILE PERCORSO
1- Allenarsi a diventare consapevoli delle premesse implicite che stanno alla base delle proprie
matrici percettivo-valutative e dei propri valori di riferimento
2- Imparare ad usare correttamente il proprio potere; sviluppare fiducia e assertività
3- Prendere coscienza della violenza intorno a sé; distinguere tra violenza e conflitto; diventare
consapevoli delle proprie strategie e dei propri sentimenti nei conflitti
4- Acquisire competenze nell’analisi dei conflitti; conoscere le dinamiche che incrementano o
possono contenere violenza e distruttività
5- Riconoscere che l’altro può avere un punto di vista e un modo di sentire diversi: sviluppare le
capacità di decentramento e di empatia
6- Imparare ad ascoltare per comunicare meglio: ascolto attivo e riformulazione
7- Prendere coscienza dei vari modi per comunicare; imparare ad esprimere i messaggi in
prima persona, a manifestare nel modo adeguato i propri bisogni, a formulare correttamente
le proprie richieste
8- Sviluppare l’immaginazione e la creatività per trovare soluzioni alternative nei conflitti;
conoscere le tecniche della mediazione tra pari
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Le modalità della formazione possono essere diverse, a seconda delle situazioni e dei contesti, ma in
genere rappresentano nel loro complesso una proposta formativa globale, che si rivolge alle
dimensioni della mente (cognitivo-affettiva, sapere, comprendere, sentire…), del corpo (operare,
saper fare), dell’anima (saper essere) e che è , insieme, personale e politica.
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