N° 10 – Ottobre 2016

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Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale
Centro competenze tributarie
Novità fiscali
L’attualità del diritto tributario svizzero
e internazionale
N° 10 – ottobre 2016
Politica fiscale
Tassa sul matrimonio: la proposta di Berna non piace ai Cantoni
Le imposte alla fonte e le deduzioni sociali
Diritto tributario svizzero
Il Ticino semplifica il suo sistema di imposizione delle lotterie e
manifestazioni analoghe
Leasing: attrattiva modalità di finanziamento
Diritto tributario italiano
Il trasferimento di imprese commerciali in Italia
Prima lettura del nuovo abuso del diritto
IVA e imposte indirette
Quel pomo della discordia chiamato tassa di collegamento
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano
La tempestività dell’eccezione e la validità dell’atto firmato
dal dirigente illegittimo
Rassegna di giurisprudenza di diritto dell’UE
Caso Bukovansky: quale relazione tra libera circolazione
e norme convenzionali?
Offerta formativa
Seminari e corsi di diritto tributario
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Introduzione
Novità fiscali
10/2016
Redazione
SUPSI
Centro di competenze
tributarie
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ISSN 2235-4573 (Online)
Redattore responsabile
Samuele Vorpe
Comitato redazionale
Flavio Amadò
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Roberto Franzè
Simona Genini
Marco Greggi
Giordano Macchi
Giovanni Molo
Andrea Pedroli
Sabina Rigozzi
Curzio Toffoli
Samuele Vorpe
Impaginazione e layout
Laboratorio cultura visiva
Questo numero di NF tocca diversi temi di grande
attualità e si presenta, dunque, come un numero
“trasversale”, nella migliore tradizione della rivista.
Samuele Vorpe si occupa in ambito di politica fiscale
di “tassa sul matrimonio” e di imposta alla fonte. La
sezione di diritto tributario svizzero tocca due temi
tecnici in cerca di chiarezza, ossia l’imposizione delle
lotterie e manifestazioni analoghe, la quale è stata
oggetto di una recente modifica normativa, commentata in questo numero da Anna Maestrini; ed il
trattamento dei contratti di leasing ai fini delle imposte dirette, federali e cantonali, oggetto dell’articolo
di Gianfranco Franzi. La sezione di diritto tributario
italiano è dedicata a due temi. Il primo articolo tratta
delle conseguenze fiscali del trasferimento in Italia di
imprese commerciali residenti o localizzate all’estero, il quale è stato l’oggetto di un’importante
novella legislativa nel corso del 2015. Mauro Manca
torna a scrivere per le colonne della Rivista con una
precisa analisi critica di tale nuova disciplina. Il
secondo articolo, a firma di Gianluigi Bizioli, esamina
la nuova disciplina italiana sull’abuso del diritto, contenuta nell’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del
contribuente. Elisa Antonini affronta poi uno dei temi
politicamente più dibattuti degli ultimi anni nel Cantone Ticino, la tassa di collegamento, analizzandone
gli impatti in termini di IVA e di imposte dirette. Tornando sul lato italiano del confine, Emilio de Santis si
occupa dello spinoso problema della validità degli
atti tributari firmati da dirigenti illegittimi dell’Amministrazione finanziaria, analizzando alcune recenti
pronuncie di merito e di legittimità. Infine, Federico
Zari Malacrida e Martino Pinelli commentano la sentenza pronunciata dalla CGUE nella causa C-241/14,
Bukovansky, concernente l’applicazione dell’Accordo
tra l’UE e la Confederazione svizzera sulla libera circolazione delle persone e la relazione tra il detto
Accordo e le convenzioni bilaterali volte a prevenire
la doppia imposizione. Enjoy!
Paolo Arginelli
Politica fiscale
Tassa sul matrimonio: la proposta
di Berna non piace ai Cantoni
Samuele Vorpe
Responsabile del Centro
di competenze tributarie della SUPSI
Nuovo tentativo da parte del Consiglio federale per
sopprimere la disparità fiscale tra coniugi e coppie di
conviventi. Che sia la volta buona?
Il 28 febbraio scorso venne respinta di strettissima misura
l’iniziativa popolare federale del PPD “Per il matrimonio e la
famiglia” che voleva iscrivere nella Costituzione federale (di
seguito Cost.) il divieto di discriminare, dal profilo fiscale,
l’imposizione dei coniugi rispetto alle coppie conviventi.
Probabilmente il motivo principale per il quale il testo venne
respinto, soprattutto nei maggiori centri urbani, era da
ricondurre alla volontà degli iniziativisti di codificare nella
Costituzione il matrimonio quale unione durevole tra un
uomo e una donna, escludendo di fatto le coppie omosessuali.
Articolo pubblicato il 18.10.2016
sul Giornale del Popolo
di presentare entro fine marzo 2017 un disegno di legge che
preveda di eliminare (finalmente!) la penalizzazione fiscale
dei coniugi nell’ambito dell’imposta federale diretta. Tuttavia,
se l’obiettivo è senz’altro condivisibile, lo strumento per raggiungerlo è invece discutibile. Il Consiglio federale vorrebbe
introdurre il modello della “tariffa multipla con calcolo alternativo
dell’imposta”, il quale fu già oggetto di critiche qualche anno fa,
più precisamente nel 2012, in sede di consultazione tra le cerchie interessate, tanto che il Consiglio federale prontamente
decise di rinunciare al progetto di legge.
Ora, sembra che questa esperienza negativa non abbia insegnato nulla all’esecutivo che ripropone questo sistema per
ridurre le minori entrate rispetto ad altri modelli, quali per
esempio la doppia tariffa (in uso in Ticino) oppure il metodo
dello splitting (in uso in molti Cantoni).
Ma come si applica questo modello? In sintesi, oltre al calcolo
ordinario dell’imposta dei coniugi (sistema oggi in uso), l’autorità fiscale è tenuta ad effettuare un ulteriore calcolo alternativo
improntato sull’imposizione delle coppie non sposate. Ai coniugi
viene quindi fatturato l’importo in franchi più basso.
L’iniziativa aveva il merito di lanciare un forte segnale al
Parlamento federale per eliminare, dopo più di 30 anni dalla
sentenza “Hegetschweiler” del Tribunale federale, la discriminazione nell’imposizione tra coppie sposate e coppie conviventi
ai fini dell’imposta federale diretta. Infatti, due persone, per
il semplice motivo di essersi sposate, pagano ancora oggi
sino all’80% in più di imposta federale diretta, rispetto a
due persone che si trovano nella stessa situazione, ma che
non hanno contratto il vincolo del matrimonio. Per contro, i
Cantoni per evitare ricorsi al Tribunale federale hanno eliminato tali disparità. Tuttavia, per l’Alta Corte la Legge federale
sull’imposta federale diretta (LIFD), che statuisce questa
disparità di trattamento, contraria ai principi costituzionali, è
determinante ai sensi dell’articolo 190 Cost.
Preso atto della votazione popolare, il Consiglio federale ha
quindi deciso di incaricare il Dipartimento federale delle finanze
La risposta della Conferenza dei direttori cantonali delle
finanze (di seguito CDCF) non si è fatta attendere. Con un
comunicato del 23 settembre ha categoricamente respinto il
progetto del Consiglio federale, ma non perché contraria all’obiettivo della riforma, bensì perché, come allora del resto (era il
25 gennaio 2013), ritiene lo strumento del calcolo alternativo
totalmente inappropriato. Secondo i ministri delle finanze
cantonali questo sistema invece di semplificare il diritto fiscale,
lo complica ulteriormente e comporta per i Cantoni dei carichi
amministrativi sproporzionati. Sono infatti le autorità fiscali
cantonali a dover riscuotere l’imposta federale diretta.
Se, come osserva la CDCF, “la Confederazione emana principi
per armonizzare le imposte dirette federali, cantonali e comunali;
prende in considerazione gli sforzi d’armonizzazione dei Cantoni”
(articolo 129 capoverso 1 Cost.), allora essa dovrebbe cercare
di applicare il sistema che sia maggiormente utilizzato dai
Cantoni, quali il metodo della doppia tariffa o dello splitting per
eliminare la cosiddetta “tassa sul matrimonio”.
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Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
Se, come è probabile, il Consiglio federale non volesse
cambiare la sua rotta, anche questo ennesimo tentativo di
eliminare la discriminazione fiscale sarà stato del tutto inutile.
Per maggiori informazioni:
CDCF, La CDF rejette le calcul alternatif de l’impôt pour supprimer la
pénalisation des couples mariés, Comunicato stampa del 23 settembre
2016, in: http://www.fdk-cdf.ch/-/media/FDK_CDF/Dokumente/Themen/
Steuerpolitik/Familien_und_Paarbesteuerung/160923_altBelRech_MM_
DEF.pdf?la=fr-CH [18.10.2016]
Consiglio federale, Il Consiglio federale è favorevole al calcolo alternativo
dell’imposta per eliminare la penalizzazione fiscale dei coniugi, Comunicato
stampa del 31 agosto 2016, in: https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-63593.html [18.10.2016]
Elenco delle fonti fotografiche:
https://www.lexwiki.ch/wp-content/uploads/2015/06/heiratsstrafe.jpg
[18.10.2016]
Politica fiscale
Le imposte alla fonte e le deduzioni sociali
Samuele Vorpe
Responsabile del Centro
di competenze tributarie della SUPSI
La revisione dell’imposizione alla fonte del reddito da
attività lucrativa attualmente discussa alle Camere
federali prevede la codificazione nel diritto fiscale svizzero della nozione di “quasi residente”. Alla luce di questa
modifica legislativa si giustifica ancora la deduzione
sociale per il non residente che viene imposto alla fonte
sul reddito da attività lucrativa?
1.
L’attuale sistema giuridico concernente l’imposta alla
fonte in Svizzera
Le persone residenti all’estero che svolgono un’attività lucrativa dipendente in Svizzera (cosiddetti “lavoratori frontalieri”)
devono pagare un’imposta alla fonte sul reddito del lavoro qui
conseguito (articoli 4 capoverso 2 della Legge federale sull’armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni
[di seguito LAID], 5 capoverso 1 lettera a della Legge federale
sull’imposta federale diretta [di seguito LIFD] e 4 capoverso 1
lettera a della Legge tributaria del Canton Ticino [di seguito LT]).
Articolo pubblicato il 12.10.2016
sul Corriere del Ticino
(articolo 33 LAID). Per esempio per le spese professionali
(spese di trasporto, per pasti fuori domicilio e per le altre
spese necessarie alla professione) il Ticino riconosce forfettariamente un importo di franchi 5’800 per frontalieri con
rientro giornaliero con un solo reddito e di franchi 10’600
per frontalieri con rientro giornaliero coniugati con doppio
reddito. Per ogni figlio a carico, l’ammontare della deduzione
è pari a franchi 11’100. Altre deduzioni sono di principio non
ammesse per legge (ad eccezione per esempio dei contributi
al terzo pilastro A).
2.
L’attuale revisione del sistema di imposta alla fonte per i
redditi da attività lucrativa dipendente
Alle Camere federali si sta attualmente dibattendo sulla revisione dell’imposta alla fonte per i redditi da attività lucrativa
dipendente. Questa esigenza è dettata da una sentenza del
26 gennaio 2010, secondo la quale l’Alta Corte ha rilevato
che il sistema svizzero di imposta alla fonte viola, in determinati casi, l’Accordo sulla libera circolazione delle persone che
la Svizzera ha concluso con l’Unione europea (di seguito UE).
Il sistema di imposizione alla fonte prevede, per delle esigenze
di praticabilità, soluzioni semplici e schematiche nelle quali le
circostanze individuali dei contribuenti sono considerate solo
limitatamente. L’imposta alla fonte si sostituisce alle imposte
ordinarie (federale, cantonale e comunale, articolo 33 LAID,
articolo 106 LT).
Seguendo il principio della praticabilità, sulla base degli articoli
33 capoverso 3 LAID, 106 capoverso 1 LIFD e 107 capoverso
1 LT, le aliquote d’imposta alla fonte tengono conto, in forma
forfettaria, delle spese professionali e dei premi di assicurazione, nonché della deduzione sociale per figli a carico o in
formazione.
Per i coniugi, che vivono in comunione domestica e che esercitano entrambi un’attività lucrativa in Svizzera, si applica il
principio del cumulo dei redditi per la determinazione dell’aliquota, nonché è concessa loro la deduzione per doppi redditi.
Le disposizioni riguardanti la tassazione alla fonte sono vincolanti per i Cantoni sulla base del diritto federale superiore
Secondo il Tribunale federale le persone assoggettate
all’imposta alla fonte, che non sono fiscalmente residenti in
Svizzera, ma che nel nostro Paese conseguono oltre il 90%
dei loro proventi mondiali (cosiddetti “quasi residenti”), devono
aver diritto alle medesime disposizioni fiscali applicabili alle
persone che, in Svizzera, sono assoggettate ad imposta in
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Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
maniera ordinaria. Si pensi per esempio al diritto alle deduzioni per le spese effettive di trasporto dal domicilio al luogo
di lavoro, per gli interessi passivi e alle deduzioni per la cura
prestata da terze persone ai propri figli, eccetera. Siccome lo
Stato di residenza non può prendere in considerazione la loro
situazione personale e familiare perché non ci sono sufficienti
redditi imponibili, spetta alla Svizzera considerarli come “quasi
residenti”, riconoscendo loro una tassazione ordinaria.
3.
La deduzione per oneri familiari secondo la LAID
Come sopra indicato, l’articolo 33 capoverso 3 LAID vincola
i Cantoni a considerare nella determinazione dell’aliquota
dell’imposta alla fonte una spesa per oneri familiari del non
residente in Svizzera sulla base delle disposizioni indicate
all’articolo 9 capoverso 4 LAID che lasciano ai Cantoni la
competenza di decidere che tipo e che importo di deduzione
sociale accordare. Nel Canton Ticino, per quanto attiene l’imposta cantonale, significa pertanto accordare per ogni figlio
minorenne, a tirocinio o agli studi fino al 28.mo anno di età, al
cui sostentamento il contribuente provvede, una deduzione
sociale di franchi 11’100.
viene considerato “quasi residente” perché non raggiunge la
citata soglia del 75%, nel calcolo dell’imposta alla fonte non
ha diritto, diversamente da quanto accade in Svizzera, di
beneficiare delle detrazioni degli oneri familiari.
5.
Gettito fiscale
Una modifica del diritto federale, e più in particolare degli
articoli 33 capoverso 3 LAID e 86 capoverso 1 LIFD, da un
profilo del gettito fiscale potrebbe consentire al Ticino, ma
anche agli altri Cantoni, soprattutto di frontiera, di aumentare le entrate finanziarie dell’imposta alla fonte.
Per maggiori informazioni:
Consiglio federale, Messaggio concernente la legge federale sulla revisione
dell’imposizione alla fonte del reddito da attività lucrativa, n. 14.093, del 28
novembre 2014, in: Foglio federale 2014, pagina 603 e seguenti, https://
www.admin.ch/opc/it/federal-gazette/2015/603.pdf [18.10.2016]
Vorpe Samuele/Arginelli Paolo/Altenburger Peter R., Die Besteuerung der
“Quasi-Ansässigen” in der Schweiz Kritische Würdigung, in: ASA 83, pagina
625 e seguenti, in particolare pagina 658 e seguente, http://www.supsi.ch/
Ora, se la volontà del legislatore federale è quella di codificare
nella legge (LAID e LIFD) una definizione di “quasi residente”,
è opportuno chiedersi se sia ancora equo concedere ai non
residenti le deduzioni sociali poiché, conformemente alle
indicazioni della Corte di Giustizia dell’UE (si veda la sentenza
Schumacker) e del Tribunale federale nel caso di Ginevra
queste sono già di fatto considerate dallo Stato di residenza.
Perché allora le dovrebbe considerare anche lo Stato che
assoggetta solo il reddito del lavoro? La soluzione di riconoscere la deduzione sociale ai soli residenti e ai “quasi residenti”
risulta pertanto più corretta rispetto alla situazione attuale.
Per contro, per coloro che non raggiungono tale soglia non vi
è una discriminazione ai sensi dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone in quanto lo Stato di residenza dispone
di sufficienti redditi per considerare la situazione personale e
familiare del lavoratore.
Pertanto la situazione giuridica attuale per i lavoratori dipendenti in Svizzera che non rientrano nella categoria dei “quasi
residenti” è fiscalmente favorevole poiché possono beneficiare
sia in Svizzera sia nello Stato di residenza delle deduzioni
sociali. D’altro canto, ai non residenti che conseguono un
reddito da attività lucrativa in Svizzera sarebbe certamente
più sensato riconoscere unicamente le spese organiche,
ovvero le spese di conseguimento del reddito.
4.
E in Italia che succede?
Ai sensi dell’articolo 24, comma 3-bis del Testo Unico delle
Imposte sui Redditi (TUIR) (introdotto dalla legge del 30
ottobre 2014, n. 161), i contribuenti che, pur conservando la
residenza fiscale all’estero, producono in Italia almeno il 75%
del loro reddito complessivo, possono godere delle deduzioni
e detrazioni fiscali in forma completa, analogamente a
quanto previsto per i soggetti residenti. Pertanto un residente
in Svizzera che lavora in Italia a titolo dipendente, che non
fisco/dms/fisco/docs/pubblicazioni/articoli/Vorpe-Arginelli-Altenburger.pdf
[18.10.2016]
Elenco delle fonti fotografiche:
http://w w w.labissa.com/images/2014-05/Frontalieri-dogana-11.jpg
[18.10.2016]
Diritto tributario svizzero
Il Ticino semplifica il suo sistema di imposizione
delle lotterie e manifestazioni analoghe
Anna Maestrini
Avvocato, MAS SUPSI in Tax Law
Vicedirettrice della Divisione delle contribuzioni,
Bellinzona
Una revisione dagli indubbi vantaggi per l’amministrazione fiscale, gli organizzatori e i contribuenti. Con
l’introduzione del limite di esenzione fino a 1’000 franchi, dal 2016 il Cantone si è adeguato alla normativa
federale: resta salda l’imposizione tramite un’imposta
annua intera
1.
Breve istoriato
La semplificazione dell’imposizione dei proventi da lotterie,
sia a livello federale che cantonale, trae le sue origini da una
iniziativa parlamentare risalente all’anno 2009 in cui il consigliere agli Stati Paul Niederberger chiedeva in sostanza due
importanti modifiche del sistema[1]:
◆◆ l’introduzione di un limite di esenzione pari ad almeno
1’000 franchi per ogni singola vincita;
◆◆ l’introduzione di un sistema che permettesse di stabilire in
maniera forfetaria il costo delle giocate deducibili fiscalmente.
Rileviamo in particolar modo come, a quei tempi, il diritto
federale non prevedesse nessun importo esente o limite di
esenzione per quanto concerneva le imposte federali dirette e
un limite di esenzione pari a soli 50 franchi per quanto concerneva il prelievo dell’imposta preventiva.
L’iniziativa venne accolta favorevolmente da Governo e
Camere federali, osservando come il limite di esenzione di
50 franchi per l’imposta preventiva, in vigore dal lontano
1945 e mai aggiornato, creasse un onere amministrativo
per gli organizzatori di lotterie e manifestazioni analoghe e
per le amministrazioni cantonali piuttosto elevato e sproporzionato rispetto alle effettive entrate derivanti da questa
tipologia di vincite [2].
2.
La nuova soluzione a livello federale
Il risultato di queste valutazioni si è poi concretizzato con la
Legge federale concernente le semplificazioni nell’imposizione
delle vincite alle lotterie del 15 giugno 2012[3] , entrata in
vigore in due tappe progressive:
Disclaimer:
Le considerazioni del presente contributo sono espresse a titolo personale e
non vincolano in nessun modo la Divisione delle contribuzioni.
a) il 1. gennaio 2013 è entrata in vigore la modifica dell’articolo
6 capoverso 1 della Legge federale sull’imposta preventiva
(di seguito LIP). È prevista l’esenzione dal prelievo dell’imposta preventiva (di seguito IP) per i premi in denaro derivanti
da vincite alle lotterie che non superano i 1’000 franchi;
b) il 1. gennaio 2014 sono entrate in vigore le modifiche
riguardanti la Legge federale sull’armonizzazione delle
imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni (di seguito LAID)
e la Legge federale sull’imposta federale diretta (di seguito
LIFD), le quali possono essere sintetizzate come segue:
◆◆ introduzione di un limite di esenzione dall’imposta sul
reddito per le singole vincite a lotterie e a manifestazioni analoghe che non superano i 1’000 franchi (articoli
23 lettera e e 24 lettera j LIFD);
◆◆ introduzione di un costo delle poste giocate deducibile
pari al 5% della vincita lorda, ma al massimo 5’000 franchi (articolo 33 capoverso 4 LIFD);
◆◆ esclusione del cumulo delle singole vincite durante
l’anno, a fini impositivi, che non superano il limite di
esenzione fissato a 1’000 franchi;
◆◆ obbligo per i Cantoni entro il 1. gennaio 2016 di introdurre un limite di esenzione per singola vincita sino a
concorrenza di un ammontare determinato dal diritto
cantonale (articoli 7 capoverso 4 lettera m e 72p capoverso 1 LAID);
◆◆ obbligo per i Cantoni entro il 1. gennaio 2016 di introdurre un costo deducibile sulle poste giocate pari a una
percentuale delle singole vincite a lotterie e manifestazioni analoghe e con la possibilità di prevedere un
importo massimo deducibile (articoli 9 capoverso 2
lettera n e 72p capoverso 1 LAID).
3.
La definizione di lotterie e manifestazioni analoghe
Non intendo dilungarmi troppo sulla definizione di lotterie e
manifestazioni analoghe che sono imposte secondo il sistema
illustrato precedentemente; tanto più che tale definizione è
già stata oggetto di attenta disamina da autori che mi hanno
preceduta[4].
Gli elementi principali che caratterizzano i proventi da lotterie
sono sostanzialmente i seguenti:
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Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
◆◆ il provento non deriva in maniera preponderante dalla
destrezza e abilità del giocatore (per esempio: giochi a
quiz) ma da un procedimento fortuito (per esempio: SportToto, Toto X, Bingo, lotto a numeri, eccetera);
◆◆ l’operazione non si svolge gratuitamente ma contro
versamento di una posta (per esempio: acquisto di un
biglietto della lotteria) o a dipendenza di un contratto a
titolo oneroso (per esempio: acquisto di merce o abbonamento a un giornale);
◆◆ il provento non proviene da una casa da gioco riconosciuta
ai sensi della corrispondente legge.
È importante delimitare questi proventi rispetto ad altre
tipologie di gioco, in quanto le conseguenze fiscali che ne
derivano possono essere sostanzialmente diverse, come
vedremo, in special modo a livello cantonale. Cominciamo a
rammentare che:
◆◆ i proventi derivanti dai giochi di azzardo ai sensi della Legge
federale del 18 dicembre 1998 sulle case da gioco[5] risultano esenti giusta gli articoli 24 lettera i LIFD e 23 lettera i
della Legge tributaria ticinese (di seguito LT);
◆◆ i proventi derivanti da giochi ove la destrezza e abilità
del giocatore è preponderante sono, di regola, ordinariamente imponibili (articoli 16 capoverso 1 LIFD e 15
capoverso 1 LT)[6].
4.
La nuova soluzione a livello cantonale
Fino alla fine del 2015, il Canton Ticino applicava il metodo
dell’esenzione dall’imposta per le vincite da lotterie che complessivamente risultavano inferiori a 1’000 franchi (previgente
articolo 36 capoverso 2 LT) nel corso dello stesso anno fiscale.
Il predetto limite di esenzione si riferiva pertanto al cumulo
delle vincite realizzate durante l’anno e non alla singola vincita. Inoltre, il Ticino non prevedeva alcuna deduzione dei costi
sopportati per le giocate.
Il Ticino ha deciso ora di adeguare la propria legislazione alla
nuova normativa federale, introducendo il limite di esenzione
per ogni singola vincita sino a 1’000 franchi (articoli 22 lettera
e e 23 lettera j LT), nonché prevedendo una deduzione forfetaria pari al 5% calcolata sul lordo di ogni singola vincita e
considerato un massimo di 5’000 franchi per vincita (articolo
36 capoverso 1a LT). Le singole vincite nel corso di un anno
fiscale che non superano il limite di esenzione non sono
cumulabili e rimangono esenti.
Il nostro Cantone ha però mantenuto una sua peculiarità
(e di pochi altri Cantoni) che consiste nel continuare, anche
dopo il 1. gennaio 2016, a imporre tali proventi da lotterie
o manifestazioni analoghe tramite un’imposta annua intera,
con un’aliquota pari a quella applicata ai coniugi in comunione domestica ma con un minimo pari al 5% (articolo 36
capoverso 2 LT). Ciò, contrariamente a quanto stabilito a
livello federale ove tali proventi sono imposti ordinariamente
con i restanti redditi. In questo modo si evita di penalizzare
troppo il contribuente, in quanto tale reddito “straordinario”
non va a influenzare l’aliquota applicabile ai suoi redditi ordinari annuali.
Ecco, qui di seguito, un caso concreto che illustra la situazione attuale.
Esempio: nel gennaio 2016 il fortunato Signor X ha conseguito
al lotto svizzero ben due vincite, rispettivamente di 800 e di
300 franchi. Nel mese di aprile dello stesso anno, egli consegue
un’altra vincita pari a 200’000 franchi. Nel corrente anno, il
Signor X ha speso 1’000 franchi in acquisti di biglietti del lotto
che non hanno comportato alcuna vincita. La prestazione
imponibile ai fini dell’imposta federale diretta e dell’imposta
cantonale è calcolata come segue:
◆◆ le singole vincite di 800, rispettivamente, di 300 franchi,
rientrano nel limite di esenzione e non vengono imposte.
Si applica il principio dell’esclusione del cumulo delle vincite
che non superano singolarmente i 1’000 franchi;
◆◆ la terza vincita è invece imponibile. Si applica la deduzione
forfetaria dei costi del 5% con un massimo di 5’000 franchi.
Le spese effettive di 1’000 franchi non sono considerate. Di
conseguenza il reddito netto è pari a 200’000 meno 5’000,
ovvero a 195’000 franchi;
◆◆ ai fini federali la vincita viene imposta unitamente agli altri
redditi, mentre ai fini cantonali viene imposta separatamente con imposta annua intera (aliquota dell’articolo 35
capoverso 2 LT relativo ai coniugi e alle famiglie monoparentali, ritenuto un minimo del 5%);
◆◆ di regola, per il rimborso IP la vincita verrà indicata nella
dichiarazione di imposta relativa all’anno fiscale 2016 e
presentata nel corso del 2017. A tal riguardo, l’autorità
fiscale invita il fortunato contribuente a compilare il
Modulo 239 disponibile sul sito internet della Divisione
delle contribuzioni, nel capitolo dedicato alla Dichiarazione
delle persone fisiche.
Ipotizzando che il contribuente è coniugato e che, oltre alla
vincita, dichiara un reddito netto imponibile pari a 100’000
franchi per il 2016, avremo il seguente carico fiscale:
◆◆ a livello federale, il Signor X paga le sue imposte ordinarie su
un reddito netto imponibile pari a 295’000 franchi (100’000
+ 195’000) al quale si applica un’aliquota corrispondente al
8.4447%, per un totale pari a 24’911.85 franchi;
◆◆ a livello cantonale, il Signor X paga l’imposta ordinaria su
un reddito netto imponibile pari a 100’000 franchi al quale
si applica un’aliquota corrispondente al 6.8942%, per un
importo pari a 6’894.20 franchi, rispettivamente un’imposta annua separata su un reddito pari a 195’000 franchi al
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
quale si applica un’aliquota del 9.9128%, pari a 19’329.95
franchi. Il totale dell’imposta cantonale sul reddito è pari a
26’224.15 franchi.
Da notare che se il Canton Ticino avesse abolito il sistema
dell’imposta annua separata, optando per il l’imposizione del
cumulo dei redditi ordinari e non periodici all’aliquota ordinaria, tale aliquota sarebbe stata superiore all’11%.
La Circolare n. 17/2009 relativa alle vincite alle lotterie e
manifestazioni analoghe è in fase di revisione e sarà a disposizione dei contribuenti nei prossimi mesi nella sua nuova
versione n. 17/2016.
5.
La nuova soluzione a livello internazionale
Le convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dalla
Svizzera non includono, di regola, nel loro campo di applicazione l’IP riscossa sui proventi da lotterie e manifestazioni
analoghe. Il fortunato vincitore che non ha domicilio fiscale
in Svizzera rischia pertanto di vedersi imporre due volte il
medesimo provento qualora il suo Stato di residenza, conformemente al diritto interno, dovesse prevedere tale
imposizione. La presente revisione ha però almeno il pregio
di evitare potenziali doppie imposizioni nel caso di singoli
importi che non superano i 1’000 franchi.
6.
Conclusione
Qui di seguito uno schema che riassume gli sviluppi degli
ultimi anni.
Questa revisione presenta diversi indubbi vantaggi. Innanzitutto, da un punto di vista prettamente organizzativo,
l’aumento del limite di esenzione a 1’000 franchi, nonché
l’introduzione di un limite di deduzione forfetaria, per un
massimo di 5’000 franchi, riduce notevolmente il carico
amministrativo sia per le amministrazioni fiscali che per gli
organizzatori e i contribuenti; questi ultimi non dovendo
più comprovare le loro giocate per vedersi riconoscere delle
deduzioni a livello federale.
In secondo luogo, adattandosi alla sistematica federale, il
Canton Ticino ha fatto un ulteriore passo verso un’armonizzazione fiscale che, nel caso di specie, semplifica effettivamente
l’imposizione evitando di toccare le singole vincite che non
superano il predetto limite di esenzione e prevedendo una
deduzione forfetaria di facile applicazione.
La contrazione di gettito derivante da questa revisione, a
livello cantonale, è difficilmente quantificabile a causa della
natura stessa di questi redditi che risultano alquanto casuali
e irregolari. A titolo informativo, si osserva comunque come
le vincite a lotterie e manifestazioni analoghe hanno originato negli ultimi anni un gettito fiscale annuo al Cantone
piuttosto contenuto, di poco superiore ai 300’000 franchi[7].
Importanti novità sono inoltre al vaglio del Parlamento, in
quanto il Consiglio federale ha recentemente adottato un
disegno di Legge federale sui giochi in denaro che intende
disciplinare tali attività in un’unica legge. Il disegno prevede, tra
le altre cose, il fatto che le vincite alle lotterie e a manifestazioni
analoghe non sarebbero più imponibili[8]. Tale iniziativa ha
trovato in generale un certo consenso presso i partecipanti
alla consultazione, con qualche comprensibile riserva in merito
all’opportunità di un tale esonero, temendo ripercussioni
a livello finanziario per i Cantoni e Comuni[9]. Ma questa è
musica per il futuro.
Imposte
Sino al 31.12.2012
Dal 01.01.2013
Dal 01.01.2014
Dal 01.01.2016
Osservazioni
Imposta preventiva
Limite di esenzione:
franchi 50
Limite di esenzione:
premi in denaro sino
a franchi 1’000
(articolo 6 LIP) da
lotterie in Svizzera (*)
Invariato
Invariato
(*) Rimborso IP
avviene di regola
l’anno successivo
alla/e vincita/e
Imposta federale
diretta (+ articolo 7
capoverso 4 e 9
capoverso 2 LAID)
◆ Nessuno importo
esente o limite di
esenzione
Invariato
◆ Limite di esenzione:
importi sino a
franchi 1’000
(articolo 24 LIFD) (*)
Invariato
(*)
◆ Esclusione del
cumulo delle singole
vincite che non
superano i franchi
1’000 (articolo
23 LIFD)
◆ Imposta ordinaria
◆ Imposta ordinaria (*)
◆ Deduzione posta
giocata
Legge tributaria
cantonale
◆ Esenzione: totale
dei proventi
inferiore a franchi
1’000
◆ Costi: 5% della
vincita, max. franchi
5’000.–(articolo
33 LIFD)
Invariato
Invariato
◆ Aliquota imposta
ordinaria
◆ Limite di esenzione:
singola vincita
sino a franchi 1’000
(articolo 22 LT) (*)
◆ Imposta separata
◆ Imposta separata (*)
◆ Nessuna deduzione
◆ Costi: 5% della
vincita, max. franchi
5’000.–(articolo
36 LT)
(*)
◆ Esclusione del
cumulo delle singole
vincite che non
superano i franchi
1’000
◆ Imposta annua
intera con aliquote
applicabili ai coniugi,
minimo 5%
9
10
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
Elenco delle fonti fotografiche:
https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/multilotto/assets/img/articleimages/778.jpg [30.09.2016]
[1] Iniziativa parlamentare n. 09.456 “Semplificazione dell’imposizione dei proventi da lotterie”, in:
https://www.parlament.ch/it/ratsbetrieb/suche
-cur ia-v is t a /ge s chaef t ?Af f air Id=20 0 9 0 456
[30.09.2016].
[2] Rapporto del 24 giugno 2011 della Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli
Stati (CET-S), in: Foglio federale 2011 5819; Parere
del 17 agosto 2011 del Consiglio federale, in: Foglio
federale 2011 5845.
[3] Foglio federale 2012 5227.
[4] Cfr. in particolare: Vorpe Samuele, Il Parlamento federale ha sbancato la lotteria, in: NF 1/2013,
pagina 3 e seguenti.
[5] In vigore dal 1. aprile 2000 (Raccolta Ufficiale
2000 677; Foglio federale 1997 III 129).
[6] Sentenza del Tribunale di appello del 22 ottobre 2008, in: RtiD N. 5t/I-2009 e sentenza del
Tribunale di appello del 9 maggio 2011, in: RtiD
N. 2t/II-2011.
[7]Rapporto n. 7115R della Commissione tributaria del 16 ottobre 2015, pagina 2, in: http://
w w w4.ti.ch/f ileadmin/POTERI/GC/allegati/
rapporti/17127_7115R.pdf [30.09.2016].
[8]Dipartimento federale di giustizia e polizia,
Una nuova legge per tutti i giochi in denaro: il Con-
siglio federale approva il messaggio, Comunicato
stampa, Berna 21 ottobre 2015, in: https://www.
admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-59169.html
[30.09.2016]; cfr. anche Antonini Luca, La nuova
legge federale sui giochi in denaro, in: NF 6/2014,
pagina 7 e seguenti.
[9]Dipartimento federale di giustizia e polizia, Progetto di legge federale sui giochi in
denaro (LGD), Rapporto sui risultati della procedura di consultazione, in: http://www.ejpd.admin.
ch/ejpd/it/home/aktuell/news/2015/2015-10-21.
html [30.09.2016].
Diritto tributario svizzero
Leasing: attrattiva modalità di finanziamento
Gianfranco Franzi
Già aggiunto di Direzione e Responsabile dei Servizi
Centrali della Divisione delle contribuzioni
del Cantone Ticino
Docente SUPSI
Quale il trattamento fiscale secondo l’imposta cantonale e federale diretta?
1.
Il leasing
Affrontare il tema leasing, significa parlare di questa particolare forma di finanziamento che si è ormai diffusa anche
nel nostro Paese in modo assai importante, ma nettamente
inferiore a quanto si riscontra negli Stati Uniti d’America
(di seguito USA), nazione dalla quale questa modalità di finanziamento è stata importata.
Secondo una pubblicazione di Crédit Suisse[1] , prima della
crisi finanziaria il volume annuo di nuove operazioni da parte
di imprese svizzere era in linea con la tendenza d’aumento
presente a livello internazionale. Secondo tale pubblicazione
il volume annuo di nuove operazioni di leasing di beni d’investimento, tra gli anni 2000 e 2008, ha evidenziato una crescita
media annua del 7.5%, passando da 4.5 a 8 miliardi di franchi.
A seguito della crisi finanziaria anche il mercato del leasing
ha subito un importante crollo, confermato dal fatto che nel
2009 il volume di nuove operazioni ha segnato un meno
32%. Negli anni successivi vi è stata di nuovo una crescita che
comunque non ha mai più raggiunto i livelli presenti negli anni
antecedenti la crisi.
L’opuscolo del Crédit Suisse evidenzia ancora come nel 2011
il mercato del leasing sia rimasto fermo grosso modo ai livelli
del 2004 e con dimensioni che rimangono lontane da quelle
che si riscontrano in Europa e negli USA. Sempre secondo la
predetta pubblicazione che fa riferimento al raffronto internazionale del Global Leasing Report, nel 2010 la penetrazione di
mercato del leasing in Svizzera si attestava al 10.2%, un livello
inferiore alla media europea del 12.3% (in Gran Bretagna e
Germania la percentuale è addirittura molto più alta).
Per quanto riguarda la situazione in Ticino, un articolo apparso
a suo tempo sul portale web Ticinonline[2] evidenziava come
il fenomeno fosse allarmante in quanto, secondo uno studio di
Comparis, se in Svizzera le auto in leasing corrispondevano ad
un sesto delle auto vendute (pari al 17%), in Ticino e Neuchâtel
si toccavano delle percentuali attorno al 27%!
Prima di addentrarci sul tema del trattamento fiscale del
leasing, reputo opportuno chiarire alcuni punti che permetteranno di successivamente meglio comprendere le
argomentazioni che saranno alla base del conseguente trattamento a livello fiscale.
Il termine leasing significa noleggio o affitto. Con il leasing
si noleggia infatti un oggetto pagando, per il relativo uso, un
ammontare mensile che dipende sia dal periodo di tempo di
durata contrattuale sia dalle condizioni specifiche del contratto di locazione. Sì, perché il leasing di fatto non costituisce
un contratto di compravendita, ma bensì un contratto di
locazione! È quindi conseguentemente errato il modo di dire
“questo oggetto l’ho acquistato in leasing”.
Come confermato da diverse fonti[3] , nel contesto della
legislazione svizzera, il contratto di leasing non è presente e
normato nel Codice delle obbligazioni (CO). Si tratta a tutti gli
effetti di un contratto sui generis in cui sono cumulativamente
presenti concetti legati vuoi al contratto di locazione, vuoi
di vendita a rate come pure di prestito. Ne consegue che i
tribunali elvetici verificano di volta in volta quali di questi concetti risulta preminente e vi applicano le relative disposizioni.
Ad esempio nel contesto del leasing di automobili vengono di
principio applicate le disposizioni di legge valide per i contratti
di locazione.
1.1.
Chi ricorre al leasing
Oggigiorno si può affermare che il leasing non può più essere
visto unicamente come forma di finanziamento legata a
un’attività professionale in quanto risulta spesso essere
modalità di noleggio applicabile a livello privato anche ai più
svariati oggetti di consumo chiaramente di natura privata
(auto, televisori, apparecchi fotografici, eccetera). A livello
aziendale il ricorso al leasing permette di dirottare le proprie risorse finanziarie per altri scopi che non quelli relativi
all’acquisto di beni. L’azienda si garantisce così il materiale
necessario (macchinari, installazioni aziendali, arredamento
11
12
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
ufficio) assumendosi unicamente il pagamento di un noleggio.
In tale contesto occorre osservare come il leasing può essere
riferito anche a beni immobili già costruiti o da costruire,
rispettivamente, se del caso, anche il solo terreno sul quale
verrà poi realizzata la costruzione.
1.2.
Come funziona il leasing
Generalmente il contratto leasing è contraddistinto dalla
presenza di tre soggetti economici, costituiti da:
a) il fabbricante o il produttore di un bene;
b) la società di leasing;
c) il cliente nelle vesti di locatario.
In tale quadro, i primi due (produttore e società di leasing) sono
tra di loro legati attraverso un contratto di vendita mentre il
cliente è vincolato alla società di leasing mediante un contratto
di noleggio (leasing indiretto). Ciò non toglie che si possano
ormai frequentemente riscontrare forme di leasing diretto
dove fabbricante o produttore del bene e cliente sono legati
direttamente (leasing diretto). Tale situazione si concretizza
allorquando il fabbricante o il produttore mettono a disposizione
del loro cliente tale possibilità di finanziamento in sostituzione
della classica vendita dei beni da loro fabbricati o prodotti.
Tale argomento non è però mai stato ritenuto determinante
sia a livello giurisprudenziale[4] che nel contesto di studi e
approfondimenti specifici. Questo partendo dal presupposto
che se il contribuente sceglie una particolare forma giuridica
ne deve sopportare le conseguenze senza poter chiedere al
fisco di riservagli un trattamento diverso[5]. Come già indicato
in precedenza, è stato più volte ribadito[6] che il contratto di
leasing di beni di consumo non è considerato un contratto di
vendita, ma un contratto sui generis[7].
La Camera di diritto tributario del Tribunale d’Appello del
Canton Ticino (CDT) ha pure avuto modo di esprimersi al
riguardo precisando che, “per stabilire se si sia in presenza di interessi passivi deducibili dal reddito imponibile, nel caso di un contratto
di acquisto/finanziamento con opzione, è determinante sapere se la
volontà delle parti porta sul trasferimento della proprietà oppure
sulla concessione d’uso a titolo oneroso di un bene (nel caso specifico
un’autovettura). Mentre nel primo caso, le rate mensili contengono
una componente di remunerazione del capitale mutuato, nel secondo
invece si applica la prassi che vale per i contratti di leasing, con la
conseguenza che ogni deduzione è esclusa. Le rate non possono
essere considerate neppure parzialmente interessi passivi e come
tali deducibili, allorquando il contratto si limita a concedere l’uso del
bene, accompagnandolo con una opzione di acquisto”.
Dai considerandi[8] risulta interessante evidenziare le seguenti
puntualizzazioni:
2.
Il trattamento fiscale del leasing privato
Molti si sono chinati sugli effetti fiscali di un simile contratto.
Una prima logica conseguenza del fatto che, come indicato
poc’anzi, non siamo confrontati con un contratto di compravendita bensì con un contratto di locazione, è che quindi a
livello di sostanza il bene oggetto del contratto leasing non va
dichiarato non essendo lo stesso di proprietà del contribuente.
Inoltre, in considerazione del fatto che gli affitti sono fiscalmente ritenuti “parte integrante” dei costi di mantenimento del
contribuente, la legge li esclude da ogni possibile deducibilità
dai fattori imponibili.
Talvolta si è persino cercato di assimilare la quota leasing ai
classici interessi passivi ma, in tale contesto, occorre subito
evidenziare come la dottrina abbia in modo pressoché unanime e categorico escluso la deducibilità delle quote di leasing
relative alla sostanza privata del contribuente. Ciò pur nella
consapevolezza che qualora per l’acquisto del bene di consumo il contribuente avesse contratto un debito egli avrebbe
potuto dedurre i relativi interessi passivi.
◆◆ per interessi privati, la giurisprudenza del Tribunale federale
intende principalmente i compensi che sono versati dal
debitore ad un terzo per la concessione di una somma di
denaro o di un capitale messo a disposizione, nella misura
in cu tale compenso è conteggiato in percentuale in base al
tempo ed in base al capitale;
◆◆ nell’ambito particolare del mercato delle autovetture,
rientrano sotto il cappello di leasing quei contratti in cui
la società finanziatrice resta proprietaria della vettura
e ne concede al conduttore unicamente l’uso. Sono per
contro qualificati di vendita, quei contratti che prevedono
un trapasso di proprietà quand’anche fosse alla fine della
durata[9];
◆◆ dal lato fiscale, indipendentemente quindi dalla qualifica
giuridica del contratto, risulta essere determinante sapere
se la volontà delle parti porta sul trasferimento della
proprietà oppure sulla concessione d’uso a titolo oneroso
di un’autovettura. In quest’ultimo caso si applica la prassi
che vale per i contratti leasing[10] e cioè la non deducibilità
delle rate versate.
3.
Il trattamento fiscale del leasing aziendale
Diverso è evidentemente il trattamento fiscale del leasing
aziendale che è comunque contraddistinto da una pluralità di
fattispecie che dipendono dalle varie sfaccettature riscontrabili a livello contrattuale.
Mi permetto di rimandare ad una pubblicazione di affermati
e qualificati autori ticinesi[11] in cui vengono illustrati in
modo chiaro ed esaustivo le varie tipologie di leasing finanziario mobiliare ed immobiliare. Nell’opera vengono parimenti
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
trattati gli effetti che le varie clausole contrattuali possono
avere a livello fiscale sia nei riguardi del prenditore del leasing
che della società di leasing.
Gli autori si soffermano inoltre sulla problematica del leasing
finanziario immobiliare nel cui contesto merita citazione anche
una specifica circolare della Conferenza svizzera delle imposte[12] applicabile specificatamente alle persone giuridiche ed
alle persone fisiche esercitanti un’attività lucrativa indipendente.
Nella parte introduttiva vengono puntualizzate le caratteristiche che si possono riscontrare nelle tipologie di contratto ed
in particolare se il contratto leasing si limita al semplice diritto
d’uso oppure se più di un contratto leasing lo stesso definisce
piuttosto diritti ed obblighi riguardanti l’acquisizione del bene.
Nelle pagine successive della citata circolare, trovano invece
spazio gli effetti che, a dipendenza della caratteristica del contratto leasing, ne conseguono a livello di ammortamento del
bene. Nella prima delle tipologie precedentemente indicata il
bene potrà essere ammortizzato fino a concorrenza del tasso
d’ammortamento fiscalmente ammesso per il genere d’immobile oggetto del contratto. Da notare che, di regola, il limite
inferiore dell’ammortamento non potrà essere più basso del
prezzo d’acquisto del terreno.
Nel caso di contratto di seconda tipologia, al fine di pianificare
il deprezzamento del bene si potrà far riferimento sia alla
durata del contratto, sia al prezzo indicato nel contesto del
diritto di opzione. Anche in questo caso però, il bene potrà
essere ammortizzato nel rispetto di quanto indicato per la
precedente tipologia contrattuale.
Nella parte finale la circolare affronta la problematica della
deducibilità delle quote leasing che nel caso di contratto
di prima tipologia sono considerate a tutti gli effetti spese
giustificate dall’uso commerciale. Nel caso di contratto della
seconda tipologia occorrerà verificare la consistenza degli
ammortamenti effettuati in rapporto a quelli presenti nella
quota leasing in quanto questi ultimi non sono fiscalmente
ritenuti spese giustificate dall’uso commerciale.
4.
Conclusioni
L’attrattività del leasing quale forma di finanziamento
può essere indubbiamente forte. Ma uno sguardo attento
dovrebbe però comunque sempre essere dato agli effetti
fiscali che, a dipendenza della forma contrattuale, ne potrebbero conseguire.
In effetti, se dal lato del leasing privato non vi sono dubbi circa
la non deducibilità delle quote leasing pagate, nel contesto del
leasing aziendale, le cui quote sono di principio fiscalmente
integralmente deducibili, occorrerà ricercare la forma contrattuale che meglio si addice alla struttura dell’azienda con
occhio attento anche alle possibili opzioni di fine contratto che
possono avere importanti ripercussioni a livello fiscale.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.mcteamweb.com/wp-content/uploads/sites/131/2015/01/
Leasing-auto-McTeam.jpg [30.09.2016]
http://www.lamiapartitaiva.it/wp-content/uploads/2012/10/fasi-delleasing.jpg [30.09.2016]
[1]
Mercato del leasing in Svizzera, Fatti
e tendenze, febbraio 2013, in: https://www.
credit-suisse.com/media/production/pb/docs/
unternehmen/kmugrossunternehmen/swiss_
issues_leasing_it.pdf [30.09.2016].
[2]Ticinonline, Siamo malati di leasing, 11
maggio 2011, in: http://www.tio.ch/News/Ticino/634294/Siamo-malati-di-leasing [30.09.2016].
[3] Si veda: www.fondounimpresa.ch [30.09.2016].
[4] Sentenze CDT del 9 marzo 2007 n. 80.2006.174;
del 13 gennaio 2014 n. 80.2012.
[5] Yersin Danielle, Les aspects fiscaux du leasing
financier, Cedidac, 1985, pagine 76-78, con riferimento a Känzig Ernst, Wehrsteuer, 1982, N 9 ad
Art. 2, pagina 17.
[6]Yersin Danielle/Noël Yves (a cura di), Commentaire romand, Impôt fédéral direct, Basilea
2008, commento all’articolo 33 LIFD.
[7]Giovanoli Mario, La jurisprudence suisse en
matière de leasing, Le leasing industriel, commercial et immobilier, Cedidac, 1985, pagine 27-55;
cfr. anche: Le contrat de leasing en droit suisse, in:
Journal des Tribuneaux, 1981 I 34.
[8] Sentenza CDT del 9 marzo 2007 n. 80.2006.174.
[9] Schatz Peter, Das Leasing von Automobilen, in:
AJP/PJA 9/2006, pagine 1042-1050, pagina 1042.
[10] ASA 62 683; ASA 61 250.
[11]Bernardoni Norberto/Bortolotto Pietro, La
fiscalità dell’azienda nel nuovo diritto federale e
cantonale ticinese, Edizione speciale della Rivista
ticinese di diritto, Mendrisio 2010.
[12] Circolare n. 29 della Conferenza svizzera delle imposte del 27 giugno 2007, in: http://www.
steuerkonferenz.ch/downloads/kreisschreiben/
ks029_d.pdf [30.09.2016].
13
14
Diritto tributario italiano
Il trasferimento di imprese commerciali
in Italia
Mauro Manca
Esperto tributario in Milano
A metà del guado: luci ed ombre dell’attuale normativa
italiana sul trasferimento transfrontaliero delle imprese
1.
Introduzione
La normativa italiana sul trasferimento di sede delle imprese,
sia in entrata che in uscita dal territorio dello Stato, dopo le
ultime modifiche del 2015[1] si avvia ad una (quasi) completezza. Infatti, dopo l’introduzione della cosiddetta “exit tax”
nel 2004, all’articolo 166 TUIR, recante appunto la disciplina
domestica del trasferimento all’estero della residenza o della
sede dei soggetti esercenti attività d’impresa in Italia, il legislatore delegato del 2015 (ai sensi dell’articolo 12 della Legge [di
seguito L.] n. 23/2014) ha introdotto una disposizione relativa
al trasferimento della residenza nel territorio della Repubblica
(articolo 12 D.Lgs. n. 147/2015).
Nel seguito, dopo aver analizzato il contenuto della norma
positiva, si esamineranno le questioni ancora lasciate aperte
dalla nuova disposizione, segnatamente con riguardo al
trattamento delle perdite (maturate nel periodo anteriore al
trasferimento in Italia e quelle maturate nei primi tre esercizi
successivi), alla possibilità di accesso al regime di esenzione
delle plusvalenze da cessione di partecipazioni (cosiddetto
“regime pex”), al trattamento delle riserve.
2.
Il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato
da parte di soggetti non residenti che esercitano imprese
commerciali (articolo 166-bis TUIR)
L’articolo 12 L. n. 23/2014, introducendo l’articolo 166-bis
TUIR, ha regolamentato il trasferimento della residenza nel
territorio dello Stato da parte di soggetti non residenti che
esercitano imprese commerciali, prevedendo regole diverse
in base allo Stato di provenienza[2] , ma non rispetto al loro
profilo soggettivo. Rispetto a quest’ultimo aspetto, la norma,
facendo riferimento a “soggetti che esercitano imprese commerciali” ha chiaramente accomunato nella medesima disciplina
sia imprenditori individuali che soggetti societari. Come
vedremo oltre, questa estensione soggettiva della norma
introduce necessariamente una diversità di approccio nella
valutazione dei criteri di collegamento tributari al fine della
determinazione della effettiva residenza del contribuente, con
potenziali maggiori complicazioni nel caso il trasferimento
riguardi un imprenditore individuale.
Il primo comma dell’articolo 166-bis TUIR prevede che i soggetti
che esercitano imprese commerciali provenienti da Stati o territori inclusi nella lista di cui all’articolo 11 comma 4, lettera c
D.Lgs. n. 239/1996, che, trasferendosi nel territorio dello Stato,
acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi assumono quale valore fiscale delle attività e delle passività il valore
normale delle stesse, da determinarsi ai sensi dell’articolo 9 TUIR.
La norma dispone, quindi, che i soggetti esercenti imprese
commerciali e provenienti da Stati o territori che consentono
un adeguato scambio di informazioni, ove si trasferiscano nel
territorio dello Stato e acquisiscano la residenza ai fini delle
imposte sui redditi, devono assumere quale valore fiscale delle
attività e delle passività, il valore normale delle stesse.
Nel caso di trasferimento da Paesi diversi da quelli di cui al comma
1, il comma 2 prevede che, a meno di un accordo preventivo[3]
sul valore normale stipulato tra l’impresa interessata e l’Amministrazione finanziaria, il valore fiscale delle attività e passività
trasferite è pari, per le attività, al minore tra il costo di acquisto, il
valore di bilancio e il valore normale, sempre determinato ai sensi
dell’articolo 9 TUIR, ed al maggiore tra questi per le passività.
Infine il terzo ed ultimo comma dell’articolo rinvia ad un successivo provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate
l’individuazione delle modalità di segnalazione dei valori delle
attività e delle passività oggetto di trasferimento.
Stante il tenore della norma appena esposto, un primo problema attiene alle modalità di determinazione del mutamento
della residenza dei “soggetti che esercitano imprese commerciali”,
essendo principio fondamentale del diritto tributario, nazionale ed internazionale, che la soggettività tributaria è ancorata
(essenzialmente) al possesso o meno di tale requisito.
Ai fini tributari, i soggetti passivi d’imposta possono essere
suddivisi in due categorie:
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
◆◆ gli imprenditori individuali, assoggettati all’imposta sul
reddito delle persone fisiche (disciplinata dal Titolo I del
TUIR) e
◆◆ gli altri soggetti, residenti o non residenti, di tipo associativo o meno, assoggettati all’imposta sul reddito delle
società (disciplinata dal Titolo II del TUIR).
Ovviamente, nel caso in cui il soggetto che trasferisce la propria residenza provenga da uno Stato con il quale l’Italia abbia
concluso una CDI, si dovrà tenere in considerazione anche la
disciplina convenzionale ivi pattuita.
essa attribuite nell’ambito della riorganizzazione del gruppo
straniero, l’Agenzia delle Entrate ha concluso che “avendo
riguardo alla fattispecie così come prospettata, sembrerebbe che
l’installazione che la società ALFA [spagnola, ndr.] verrebbe a detenere sul territorio italiano a seguito dell’operazione di fusione per
incorporazione della società BETA [italiana, ndr.] non si configuri
come stabile organizzazione ai sensi dell’articolo 162 TUIR. Ciò in
quanto le attività che tale sede fissa di affari andrebbe a svolgere sul
territorio italiano sembrerebbero rientrare nelle ipotesi di esclusione
previste dal citato comma 4 dell’articolo 162 TUIR”.
Nel caso di trasferimento di residenza di un imprenditore
individuale, si dovrà, così, avere riguardo ai criteri indicati
all’articolo 2 TUIR. Come noto, questi hanno a riferimento
l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, il domicilio
o la residenza in Italia. Trattandosi il primo di un requisito
meramente formale ma la cui presenza è assolutamente
dirimente per l’ordinamento italiano[4], l’iscrizione all’anagrafe
della popolazione residente si configura più che sufficiente al
riconoscimento del trasferimento in Italia dell’imprenditore.
Relativamente agli altri due requisiti, richiedendosi un riscontro
fattuale circa la sussistenza degli affari ed interessi ovvero della
dimora abituale, il trasferimento di residenza potrebbe dar
luogo ad incertezze qualora l’imprenditore conservi all’estero
una parte di questi e non abbia, nel contempo, provveduto
all’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente. Come
noto infatti, la giurisprudenza prevalente tende ad attribuire
maggiore rilevanza, ai fini qui in esame, agli interessi cosiddetti
morali od affettivi piuttosto che a quelli meramente economici
(ancora di recente, Cass., sez. V, n. 9723 del 13 maggio 2015).
In realtà, la definizione di reddito d’impresa contenuta nell’articolo 55 TUIR, applicabile al caso di specie, facendo riferimento
all’“esercizio di imprese commerciali” sembra più che adeguata ad
attrarre alla sfera impositiva italiana il reddito d’impresa che
attraverso tali “imprese commerciali” si sia realizzato nel territorio dello Stato. In effetti, ipotizzare l’esercizio di un’impresa
individuale senza un radicamento al territorio della sua struttura operativa insieme a quella dell’imprenditore appare ipotesi
abbastanza remota, fatto salvo quanto previsto nel caso delle
“ipotesi negative” di stabile organizzazione di cui all’articolo 162
comma 4 TUIR o delle analoghe norme convenzionali.
In effetti, in un caso oggetto di esame da parte dell’Amministrazione finanziaria (cfr. Risoluzione n. 21/E del 2009) e
relativo ad un’ipotesi di fusione tra società comunitarie con
destinazione dei beni della società italiana incorporata in una
stabile organizzazione della società non residente europea,
l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che “l’individuazione della
disciplina applicabile, ai fini delle imposte sui redditi, all’operazione
prospettata [applicabilità del regime di neutralità fiscale di cui all’articolo 179 comma 1 TUIR o di quello realizzativo in base al valore
normale di cui al successivo comma 6 di tale ultima disposizione, ndr.]
dipende, in altre parole, dalla circostanza che il compendio aziendale
della società incorporata residente [in Italia, ndr.] che residua sul
territorio dello Stato configuri o meno una stabile organizzazione”.
Nel caso di specie, dopo aver esaminato la dotazione strumentale della asserita stabile organizzazione e le attività ad
Il medesimo profilo di criticità trova applicazione anche nel
caso di trasferimento in Italia dell’impresa (o parte dell’impresa)
che prima veniva esercitata all’estero qualora l’imprenditore,
persona fisica, non provveda a trasferire anche la sua residenza fiscale ma mantenga all’estero il centro dei suoi affari
ed interessi. In tal caso, i riscontri fattuali dovranno chiarire
se il complesso di beni e persone che caratterizzano l’azienda
(o il ramo d’azienda) trasferita assuma quella sufficiente consistenza “materiale” da poter essere qualificata come stabile
organizzazione dell’imprenditore (non residente) con l’effetto
di far sorgere comunque un’obbligazione tributaria in capo a
tale ente. Al contrario, se tale consistenza materiale non supera
la check list negativa di cui al comma 4 dell’articolo 162 TUIR (o
dell’analoga norma convenzionale), l’attività dell’impresa svolta
in Italia non darà luogo ad alcuna fattispecie imponibile.
Il trasferimento della sede di società si presenta più articolato
in ragione della differente natura delle persone giuridiche
rispetto agli individui e quindi alle concrete modalità con cui
il trasferimento della sede delle prime viene valutato dall’ordinamento “di partenza”.
In questo senso, la disciplina civilistica italiana non contempla
espressamente l’ipotesi del trasferimento verso lo Stato di una
società estera ma si limita a valutare l’opposta fattispecie della
fuoriuscita di una società italiana verso l’estero (articolo 25,
comma 3 L. n. 218/1995)[5]. La disciplina dell’ingresso in Italia
di una società straniera andrà quindi ricostruita attraverso
15
16
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
un’interpretazione e contrario di tale disposizione. In breve è
possibile affermare che agli effetti del diritto internazionale
privato italiano, la legittimità e quindi gli effetti conseguenti ad
un trasferimento di sede devono essere coerenti con quanto
previsto dalla legge dello Stato di provenienza. Ai nostri fini, ciò
risulta di particolare rilievo per valutare le due ipotesi di trasferimento che si possono riscontrare in concreto: il trasferimento
in continuità giuridica o meno del soggetto trasferentesi.
Tale distinzione, in estrema sintesi, attiene al fatto che in tema
di conservazione dello status di società nazionale gli ordinamenti si distinguono tra quelli che applicano la cosiddetta
“teoria della incorporazione” (ad esempio, la Gran Bretagna) e
quelli che applicano la teoria della sede reale (ad esempio, la
Germania). Secondo la prima teoria, la società mantiene la
nazionalità dello Stato dove si è perfezionato il procedimento
della sua costituzione, restando quindi assoggettata alla sua
legge. Secondo la teoria della sede reale, ciò che rileva ai fini
della identificazione della legge regolatrice della società è il
luogo ove ha sede “di fatto” la sua amministrazione.
Secondo l’Amministrazione finanziaria (cfr. Risoluzione n. 9/E
del 2006), per l’ordinamento italiano, pur in mancanza di una
norma espressa, deve ritenersi ammesso il trasferimento
senza estinzione, in quanto l’articolo 2437 del Codice civile, nel
considerare il trasferimento all’estero della sede sociale causa
di recesso per i soci, implicitamente presuppone che esso non
abbia natura dissolutoria.
In sostanza, sul piano civilistico italiano, il trasferimento
in Italia della sede sociale non determina l’estinzione della
società straniera e non pregiudica, pertanto, la continuità del
soggetto, a condizione che anche nell’ordinamento di provenienza la disciplina del trasferimento di sede sia improntata al
medesimo principio e non costituisca quindi evento estintivo.
Pertanto, se l’ordinamento estero assume come criterio di
collegamento il luogo di perfezionamento del procedimento
di costituzione dell’ente giuridico, il trasferimento della sede
della società, pur potendo dar luogo al venir meno della soggettività tributaria (si pensi al problema della doppia residenza
ed alle modalità di soluzione del problema attraverso il ricorso
ai criteri previsti dalle cosiddette “tie breaker rules” ispirate
all’articolo 4 paragrafo 2 del Modello OCSE di Convenzione
fiscale [di seguito M-OCSE]) non farà invece venir meno la
personalità giuridica dell’ente trasferito.
Viceversa, la configurazione del trasferimento all’estero della
sede sociale della società come evento estintivo della personalità giuridica impedirebbe la continuità giuridica dell’ente.
Di conseguenza, non di trasferimento di sede si tratterebbe,
quanto piuttosto di estinzione della società in un dato ordinamento e della sua ricostituzione in un ordinamento diverso.
Da tale distinzione consegue, quindi, che la continuità giuridica o meno del soggetto che trasferisce in Italia la sua sede
è una questione che deve essere valutata anche con riguardo
alle pertinenti previsioni dell’ordinamento di origine.
La rilevanza del tema, preso in esame da diverse risoluzioni
dell’Agenzia delle Entrate (ad esempio, la n. 9/E del 2006 e la
n. 345/E del 2008), è essenzialmente dovuta al fatto che la
“continuità” dello status giuridico del soggetto che si trasferisce
determina la natura realizzativa o meno del trasferimento con
i conseguenti effetti anche fiscali (applicazione di una exit tax,
continuità dei periodi d’imposta e dei requisiti per il regime
pex, obblighi dichiarativi, eccetera). Così l’Amministrazione
finanziaria ha chiarito che l’efficacia del trasferimento della
sede statutaria è subordinata, stante la vigenza del citato
articolo 25, comma 3, al duplice rispetto sia delle norme del
Paese di provenienza sia di quelle del Paese di destinazione. Ne
consegue che la continuità giuridica della società è condizionata all’ammissibilità del trasferimento nei due ordinamenti.
“In sostanza, una società estera, che abbia trasferito in Italia la
propria sede legale, diviene società di diritto italiano senza necessità
di costituirsi ex novo, a condizione che il trasferimento della predetta
sede sia ammesso dalla legge dello Stato in cui si è costituita”. Alcuni
ordinamenti, infatti, non consentono che una società costituita secondo il diritto nazionale possa trasferire all’estero
la propria sede sociale, se non a prezzo della dissoluzione e
liquidazione dell’ente, dando quindi luogo ad un fenomeno
con effetti sostanzialmente realizzativi (ed interruttivi del
precedente status giuridico).
In conclusione, appare corretto convenire con le conclusioni sul
punto raggiunte dalla prassi dell’Amministrazione finanziaria
secondo cui “le conseguenze di ordine fiscale relative al trasferimento in Italia dall’estero o, viceversa, dall’Italia verso l’estero della
sede sociale dipendono dalla continuità giuridica o meno dell’ente ai
sensi dell’articolo 25, comma 3, della legge n. 218 del 1995”.
È di interesse segnale che in caso di operazioni straordinarie
transfrontaliere (fusioni), secondo l’Amministrazione finanziaria “l’operazione si sostanzia in un trasferimento in Italia della società
lussemburghese, con le stesse conseguenze che avrebbe un trasferimento di sede della medesima società nel nostro Paese” (Risoluzione
n. 69/E del 5 agosto 2016). Secondo questo approccio, quindi,
il principio che dovrebbe guidare il trasferimento di sede
sarebbe quello della neutralità e continuità dei valori contabili,
che ispira, in generale, le operazioni straordinarie di ristrutturazione (non realizzativa) delle imprese in ambito europeo.
La stessa Risoluzione, poi, adottando un approccio che ha
“riguardo soprattutto agli aspetti sostanziali, più che alle concrete
modalità con cui avviene il trasferimento”, interviene anche sul
requisito dell’esercizio di un’attività di impresa della società
trasferenda. Così, nel caso di trasferimento di residenza di una
holding che svolgeva un’attività di mero godimento di immobili,
la Risoluzione ha affermato che “in linea generale, si ritiene che il
presupposto consistente nell’esercizio di un’impresa commerciale, cui
è subordinato il regime in esame, deve intendersi riferito a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa secondo l’ordinamento domestico,
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a prescindere dall’attività economica concretamente svolta dai
medesimi. Tale conclusione appare coerente con la ratio dell’articolo
166-bis del TUIR, volto a ripartire correttamente la potestà impositiva tra le giurisdizioni coinvolte nell’operazione di trasferimento ed
evitare, conseguentemente, che plusvalori e minusvalori che sono
maturati fuori dal reddito d’impresa italiano possano concorrere alla
formazione dello stesso”. Affermando quindi che “l’attività svolta
non costituisce ostacolo per applicazione dell’articolo 166-bis del
TUIR”, l’Amministrazione finanziaria introduce un significativo
ampliamento soggettivo rispetto alla platea dei possibili soggetti interessati al rientro in Italia.
3.
Il valore normale attribuito alle attività e passività in
ingresso
In assenza di indicazioni normative relative a tutti gli aspetti
rilevanti della fattispecie in esame, fatta salva la previsione
dell’attribuzione del valore normale ai beni in ingresso in
Italia, le ulteriori indicazioni operative in ordine agli effetti
del trasferimento in Italia della residenza delle imprese estere
possono solamente ritrarsi dalle indicazioni di prassi nel corso
del tempo espresse dall’Amministrazione finanziaria.
Prima di procedere con alcune considerazioni su tali aspetti,
è forse ancora utile soffermarsi sulla previsione normativa
relativa all’attribuzione del valore normale ai beni in ingresso.
Come detto sopra, i commi 1 e 2 dell’articolo 166-bis TUIR
richiamano il criterio del valore normale di cui all’articolo
9 TUIR quale criterio da adottare per determinare il valore
fiscalmente riconosciuto alle attività e passività riferibili alle
imprese neotrasferite. I due commi, tuttavia, differiscono
per un aspetto che non può ignorarsi, quanto meno in una
prospettiva di stabilità dei valori assunti dall’impresa che entra
nel territorio dello Stato. Infatti, il comma 2 prevede, pur in
via opzionale, che l’impresa che proviene da Stati cosiddetti
black list (individuati secondo lo standard dell’adeguato scambio di informazioni; articolo 11, comma 4, lettera c D.Lgs.
n. 239/1996) possa determinare il valore normale delle sue
attività e passività in contraddittorio con l’ufficio attraverso la
specifica procedura dell’interpello previsto dal nuovo articolo
31-ter D.P.R. n. 600/1973, e quindi “cristallizzare” tali valori in un
accordo che vincola non solo il contribuente ma anche l’Amministrazione finanziaria. In assenza di un simile accordo, lo
stesso comma 2, secondo periodo, dell’articolo 166-bis TUIR
prevede un criterio obbligatorio alternativo: per le attività, il
minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore
normale; per le passività, il maggiore tra tali valori.
Un’analoga previsione non è prevista, invece, nel caso in
cui il soggetto provenga da una giurisdizione white list. In
tal caso, infatti, pur conservandosi il riferimento al valore
normale, non è previsto il ricorso ad alcuna procedura o
criterio obbligatorio, rimettendo unilateralmente al soggetto
estero la determinazione dei valori concretamente rilevanti.
Ebbene una tale previsione, pur se formalmente rispettosa
dell’autonomia e discrezionalità del soggetto estero, appare
nel contempo priva di quella certezza giuridica la cui assenza
rischia di essere foriera di contestazioni da parte della stessa
autorità amministrativa che potrà del tutto legittimamente
mettere in discussione il procedimento valutativo, ed i suoi
risultati, adottato dal contribuente. Come noto infatti, in tema
di determinazione del valore normale la diversità di assunti di
partenza in ordine alla qualificazione dei rischi assunti e delle
funzioni effettivamente svolte determina profonde differenze
nell’estensione sia dello spettro dei comparables rinvenuti che
nel collocamento del range interquartilico che scaturisce da tali
analisi. In assenza di un’espressa clausola di salvaguardia, le
determinazioni assunte dal contribuente potranno legittimamente essere oggetto di accertamento da parte dell’autorità
amministrativa. In tal caso, qualora dovessero emergere differenze di valutazione, rilevate successivamente all’ingresso
in Italia delle imprese estere e che abbiano concorso a determinare una minore base imponibile per effetto di maggiori
ammortamenti od accantonamenti conseguenti ai maggiori
valori attribuiti alle passività in ingresso, il minor gettito d’imposta potrà certamente essere contestato al contribuente.
Ulteriore problema che potrebbe poi porsi è quello relativo
al riconoscimento dei valori fiscali determinati dall’autorità
fiscale del Paese di origine in caso di applicazione di una exit
tax. Nel silenzio della norma primaria, qualche riferimento è
ritraibile dalla prassi dell’autorità fiscale. La Risoluzione n. 67/E
del 2007 tratta il caso di un cittadino tedesco che intende
trasferire la sua residenza in Italia ed è titolare di una partecipazione qualificata in una società tedesca. In tali circostanze,
per la legislazione fiscale tedesca, all’atto del trasferimento
all’estero della residenza del socio, le plusvalenze latenti della
partecipazione – pari alla differenza tra il valore normale e il
loro costo fiscale – si considerano realizzate e sono assoggettate a tassazione. Peraltro, ove la residenza sia trasferita
in uno Stato membro dell’Unione europea (di seguito UE),
la tassazione della plusvalenza è sospesa fino al momento
dell’effettivo realizzo, in armonia con quanto stabilito dalla
CGUE nella sentenza dell’11 marzo 2004, causa C-9/02.
La disciplina del caso concreto è stata ricavata, in assenza di
una norma espressa sul punto, attraverso la corretta applicazione della CDI in essere tra Italia e Germania. Infatti, l’articolo
13, paragrafo 4 CDI vigente tra i due Paesi stabilisce che gli utili
derivanti dall’alienazione di partecipazioni societarie, come di
ogni altro bene diverso da quelli menzionati ai paragrafi 1, 2 e
3, sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è residente. La disposizione n. 12 del Protocollo allegato
alla CDI integra il richiamato articolo 13, prevedendo che se
uno Stato contraente assoggetta ad imposizione – in occasione del trasferimento della residenza di una persona fisica
in un altro Stato – la plusvalenza derivante da una partecipazione rilevante in una società residente, l’altro Stato, in caso
di ulteriore cessione di tale partecipazione, dovrà determinare
la plusvalenza tassabile assumendo come costo d’acquisto il
valore teorico della partecipazione adottato dal primo Stato al
momento della partenza della persona fisica.
Stante ciò la Risoluzione conclude affermando che “la scrivente
Agenzia ritiene che nella fattispecie da ultimo esaminata il costo
fiscale attribuibile alla partecipazione di chi trasferisce la propria
residenza dalla Germania in Italia possa comunque essere determinato in base al valore «teorico», così come stimato dall’erario tedesco
al fine di assoggettare a tassazione il socio in occasione della sua
17
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partenza. In assenza di una specifica disciplina interna e considerata
la vigenza nello Stato membro di partenza di una normativa exit tax
applicabile alle persone fisiche, il ricorso a tale criterio appare infatti
non solo il più idoneo a salvaguardare il diritto al prelievo dello Stato
nel quale si è avuto l’effettivo incremento di valore delle partecipazioni, ma anche il più efficace al fine di evitare sia fenomeni di doppia
imposizione che salti d’imposta”.
4.
Gli effetti del trasferimento con o senza continuità giuridica
Se l’articolo 166-bis TUIR ha introdotto alcune disposizioni in
ordine alla determinazione dei valori delle attività e passività
in ingresso in Italia, esso tace invece su diverse altre questioni
di estremo rilievo, prima tra tutte, quella relativa al riconoscimento o meno delle perdite formatesi all’estero.
Il problema posto dalla soluzione appena descritta è chiaramente dovuto al fatto che essa è stata raggiunta facendo
ricorso all’applicazione di una CDI che prevede una norma
espressa sul punto. Il dubbio resta se l’affermazione di
principio, di portata evidentemente più generale, dell’ultimo
paragrafo citato sopra possa trovare effettivamente applicazione anche in casi in cui non esista una previsione pattizia
espressa sul punto in esame. Peraltro, la predetta disposizione del Protocollo trova espressa applicazione solamente
nel caso del trasferimento di residenza delle persone fisiche,
con l’effetto che una sua estensione analogica alle persone
giuridiche sembra doversi inevitabilmente escludere.
Nel silenzio della norma primaria, utili indicazioni sembra
possano ritrarsi dalla prassi in materia. In questo senso, l’aspetto più rilevante della fattispecie in esame è, forse, quello
di qualificare il trasferimento in termini di continuità giuridica
o meno rispetto all’ordinamento di origine, distinguendo poi la
circostanza che l’operazione avvenga nell’ambito dell’ordinamento dell’UE o tra Stati estranei a tale ordinamento.
Oltre a ciò, se, alla luce delle nuove norme in tema di
dichiarazione infedele, tale circostanza non dovrebbe dar
luogo ad alcun reato tributario in quanto nel caso che ci
occupa si tratta pur sempre di “valutazione di elementi attivi
e passivi oggettivamente esistenti” e ragionevolmente “indicati
in bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali”,
potrebbe però ugualmente esporre il contribuente alla
sanzione amministrativa per l’infedeltà dichiarativa. Infatti,
la riforma apportata al sistema sanzionatorio tributario
dal D.Lgs. n. 158/2015 ha sì introdotto alcune esimenti
ma solamente nel caso di determinazione dei prezzi di
trasferimento nell’ambito delle operazioni contemplate
dall’articolo 110, comma 7 TUIR, cioè delle transazioni
infragruppo, e non di quelli afferenti all’articolo 166-bis
TUIR, che perciò resterebbero soggette alla specifica e
piena sanzione amministrativa.
È pertanto evidente che, nel valutare l’ipotesi di un trasferimento in Italia della residenza, gli imprenditori stranieri white
list dovranno seriamente valutare l’ipotesi di accedere al
regime degli accordi preventivi di cui all’articolo 31-ter D.P.R.
n. 600/1973 al fine di conseguire la certezza giuridica circa la
bontà delle loro valutazioni.
La recente Risoluzione n. 69/E è intervenuta anche su questo
tema, affermando che “il valore normale, determinato ai sensi
dell’articolo 9 del TUIR, possa essere riconosciuto anche ai beni della
società incorporata che non sono più presenti in bilancio in quanto
completamente ammortizzati o il cui valore contabile sia inferiore
al fair value”. Sul punto la Risoluzione conclude che “il riconoscimento di una maggiore quota di ammortamento fiscale, rispetto
a quella risultante in contabilità, sarà possibile ai sensi dell’articolo
109, comma 4, lettera b) del TUIR che prevede la deduzione dei componenti negativi che «pur non essendo imputati al conto economico,
sono deducibili per disposizioni di legge»”. Adottando un simile
pronunciamento, come fatto osservare da alcuni autori[6] , l’istituto del rimpatrio così introduce un “possibile disallineamento
tra valore contabile e fiscale dei beni trasferiti nell’ambito del reddito
d’impresa nazionale”.
Come affermato già dalla citata prassi dell’Agenzia delle
Entrate (cfr. Risoluzione n. 9/E del 2006) le conseguenze di
ordine fiscale relative al trasferimento in Italia dall’estero o,
viceversa, dall’Italia verso l’estero della sede sociale dipendono
dalla continuità giuridica o meno dell’ente ai sensi dell’articolo
25, comma 3, L. n. 218/1995. La prima rilevante conseguenza
di ciò è che, nella prima ipotesi, il periodo d’imposta, costituito
dall’esercizio sociale, non si interrompe. Pertanto, in applicazione dell’articolo 73, comma 3 TUIR, l’ente risulterà residente
in Italia per l’intero esercizio anche se il trasferimento di sede
si è perfezionato prima che sia decorso un numero di giorni
superiore alla metà del periodo d’imposta.
Nell’ipotesi di inefficacia del trasferimento di sede in continuità
giuridica, la società, costituita ex novo secondo l’ordinamento
italiano, inizierà un nuovo periodo d’imposta e sarà considerata
da subito residente, alla stregua delle società neocostituite.
Stante ciò, tuttavia, l’articolo 166-bis TUIR non contiene alcuna
previsione idonea ad identificare il momento in cui tale trasferimento sia avvenuto. Resta, quindi, che l’unica indicazione
utile al fine di individuare l’esercizio sociale dal quale considerare residente in Italia la società trasferenda è rinvenibile nel
suddetto documento di prassi e nella successiva Risoluzione
n. 345/E del 2008 che conferma le conclusioni della precedente Risoluzione del 2006. Pertanto, versandosi nell’ipotesi
di un regime di continuità giuridica del trasferimento di sede di
una società dall’estero si avrà anche la continuità degli esercizi
sociali. La società in esame dovrà considerarsi residente in
Italia sin dall’inizio dell’esercizio sociale e, quindi, anche nel
periodo antecedente l’iscrizione nel Registro delle imprese,
pur non avendo la sede legale, la sede di amministrazione o
l’oggetto principale nel territorio dello Stato per la maggior
parte del periodo d’imposta.
È degno di nota che una tale soluzione risolve, negativamente,
anche il tema del cosiddetto “split year”, negandone la ammissibilità. Ne consegue che, ai fini della normativa italiana e,
dunque, anche di quella convenzionale, che rinvia sul punto
alle norme interne, non è possibile considerare un soggetto
residente limitatamente ad una frazione dell’anno d’imposta.
Secondo la prassi amministrativa che si è occupata del tema
(in verità, nel caso di trasferimento all’estero e non in entrata),
quindi, in mancanza di una disciplina espressa della decorrenza
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dell’acquisto o della perdita della residenza in corso d’anno, si
deve ritenere che il contribuente che si trasferisca all’estero
dopo aver maturato i requisiti per l’applicazione del “worldwide
taxation principle” continuerà ad essere assoggettato a tassazione in Italia anche per tutti gli eventuali redditi prodotti
dal momento del trasferimento al momento di chiusura del
periodo d’imposta. Gli eventuali problemi di doppia residenza
che si dovessero creare in caso di espatrio in corso d’anno
potranno comunque essere risolti solo su base bilaterale,
applicando le disposizioni delle pertinenti CDI (in questo senso,
la Risoluzione n. 471/E del 2008). Considerato quindi che
l’opposta fattispecie dell’ingresso in Italia non sembra presentare profili giuridico-sistematici diversi da quelli appena visti,
appare coerente affermare che anche nell’ipotesi dell’articolo
166-bis TUIR non è possibile frazionare il periodo d’imposta.
Al riguardo, tuttavia, occorre menzionare due rilevanti
eccezioni e rilevare che la soluzione delle ipotesi di doppia
residenza mediante il “frazionamento del periodo d’imposta
nel caso di trasferimenti in corso d’anno” è una eventualità ben
presente al legislatore italiano, che l’ha contemplata in alcune
CDI e, in particolare, nella CDI con la Svizzera (cfr. articolo 4,
paragrafo 4) e con la Germania (cfr. il punto 3 del Protocollo
alla CDI). Infatti, secondo la citata CDI con la Svizzera, “la persona fisica che ha trasferito definitivamente il suo domicilio da uno
Stato contraente all’altro Stato contraente cessa di essere assoggettata nel primo Stato contraente alle imposte per le quali il domicilio
è determinante non appena trascorso il giorno del trasferimento del
domicilio. L’assoggettamento alle imposte per le quali il domicilio è
determinante inizia nell’altro Stato a decorrere dalla stessa data”.
Da ciò, è stato ritenuto che “l’esistenza di norme convenzionali espresse che disciplinano i casi in cui è possibile ricorrere al
frazionamento del periodo d’imposta per risolvere situazioni di
doppia residenza esclude in radice la possibilità di applicare questo
principio in via analogico-interpretativa”. Poiché il principio è
stato già recepito dall’ordinamento italiano, secondo l’autorità fiscale italiana, estenderne l’applicazione ad ipotesi
disciplinate da CDI diverse da quelle in cui è espressamente
richiamato violerebbe il principio di sovranità dei singoli Stati
ed il principio pattizio che sono alla base del sistema di CDI
prefigurato dal M-OCSE. Inoltre, trattandosi di una norma
derogatoria ai principi generali in materia, appare difficile
che la previsione formulata per il trasferimento di residenza
della persona fisica possa trovare applicazione analogica
anche per il caso delle persone giuridiche, con l’effetto che
per queste ultime, troverà applicazione la regola generale
dell’unità del periodo d’imposta.
5.
Il regime delle perdite
Il tema delle perdite scomputabili dal reddito della società
trasferita in Italia assume due distinti profili. Il primo
attiene alla riconoscibilità in Italia delle perdite maturate
nel periodo in cui la società trasferita era residente nell’altro
Stato (Stato di origine); il secondo attiene alla possibilità di
qualificare o meno le perdite realizzate nei primi tre periodi
d’imposta successivi al trasferimento ai fini del loro riporto
ai sensi del comma 2 dell’articolo 84 TUIR. Pur nel silenzio
della norma su questi aspetti, alcuni spunti di riflessione
possono però trovarsi in pregressi pronunciamenti dell’Amministrazione finanziaria.
Così la Risoluzione n. 345/E del 2008 ha avuto modo di
occuparsi del regime delle perdite di una società trasferitasi
dal Lussemburgo. In tale caso, il riporto (“importazione”) delle
perdite è stato negato in ragione del fatto che la società
lussemburghese rivestiva una delle forme di società a regime
fiscale privilegiato contemplate nel Decreto Ministeriale
(di seguito D.M.) del 21 novembre 2001. Tale circostanza
innescava l’applicazione della specifica disciplina Controlled
Foreign Companies (di seguito CFC) (articolo 167 TUIR) con
l’effetto che le perdite maturate nel corso degli esercizi fiscali
potevano essere compensate soltanto con i futuri redditi
della stessa società (imputati per trasparenza al controllante residente proporzionalmente alla partecipazione dallo
stesso detenuta): “[i]l soggetto residente che controlla la CFC
potrà utilizzare le perdite di quest’ultima soltanto per abbattere i
redditi a tassazione separata della medesima entità e non ai fini
della determinazione del proprio reddito complessivo da sottoporre
a tassazione ordinaria (articolo 2, comma 1, del D.M. 21 novembre
2001, n. 429)”. Come si evince da quest’ultima affermazione,
la non riportabilità delle perdite estere sembra essere stata
motivata esclusivamente dal particolare regime di tassazione
imposto alle società che subiscono un regime impositivo
speciale e non piuttosto per ragioni di coerenza sistematica
della fiscalità nazionale.
Sul punto, ulteriori elementi di riflessione (in senso contrario)
possono trarsi anche dalla recente giurisprudenza della CGUE
(causa C-123/11 del 21 febbraio 2013, causa A Oy).
Pur avendo chiaro che la giurisprudenza della CGUE può avere
influenza solamente sugli Stati membri UE, e pertanto nei rapporti con i Paesi terzi non valgono necessariamente i medesimi
principi giuridici, resta il fatto che la stessa Commissione europea nella sua comunicazione COM(200)825 del 19 dicembre
2006, relativa all’applicazione delle exit tax tra gli Stati membri
UE, aveva chiarito che se delle quattro libertà fondamentali,
solo la libera circolazione dei capitali e dei pagamenti si applica
ai Paesi terzi, tuttavia l’emigrazione di una persona fisica e il
trasferimento della sede di una società possono comportare
transazioni oggetto delle disposizioni sulla libera circolazione
di capitali. Concludendo che “poiché il risultato dell’applicazione
delle diverse libertà deve essere lo stesso, sembra che l’immediata
riscossione dell’imposta al momento del trasferimento di tali attivi
costituisca una restrizione alla libera circolazione di capitali. Tuttavia,
come osservato sopra, la Commissione ritiene che una restrizione
in tali circostanze sia giustificata in assenza di cooperazione
19
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Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
amministrativa. La Commissione intenderebbe incoraggiare gli Stati
membri, laddove appropriato, a rafforzare la cooperazione amministrativa con i loro partner terzi, dato che tale scelta costituisce il modo
migliore per garantire il rispetto degli obblighi fiscali e per prevenire
l’evasione fiscale”, sembra potersi concludere che l’estensione di
soluzioni condivise a livello comunitario sul tema che ci occupa
non sia affatto preclusa nei confronti di Paesi terzi.
Ciò osservato, la CGUE, nella citata sentenza A Oy, si è espressa
sul tema del riconoscimento in capo ad una società di diritto
finlandese di perdite maturate da una sua controllata svedese,
in caso di fusione con quest’ultima. L’autorità finlandese,
infatti, aveva negato tale possibilità sull’assunto che le perdite
della controllata sono state accertate applicando la normativa
tributaria svedese.
La CGUE, dopo aver concluso che la fattispecie interessava la
libertà di stabilimento (paragrafo 28 della sentenza), affermava che la possibilità offerta dal diritto finlandese ad una
società controllante residente di contabilizzare le perdite di
una controllata residente in caso di fusione con quest’ultima
costituisce per la società controllante un vantaggio fiscale
(paragrafo 31) e “l’esclusione di tale beneficio nei rapporti tra una
società controllante residente e la sua controllata avente sede in un
altro Stato membro, è atta a dissuadere la prima dallo stabilirsi in
quest’ultimo Stato membro, dissuadendola quindi dal crearvi delle
controllate” (paragrafo 32).
Superando quindi le ulteriori obiezioni avanzate da alcuni
Governi intervenuti nel procedimento (necessità di preservare
la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri UE
ed impedire i rischi di duplice uso delle perdite e di evasione
fiscale), in ragione della loro legittimità ma non proporzionalità, la CGUE conclude che gli articoli 49 e 54 del Trattato sul
Funzionamento dell’UE (TFUE) non ostano ad una normativa
nazionale che esclude che una società controllante, che procede ad una fusione con una società controllata stabilita nel
territorio di un altro Stato membro e che ha cessato l’attività,
abbia la possibilità di dedurre dal suo reddito imponibile le perdite subite da tale controllata negli esercizi fiscali anteriori alla
fusione, quando invece detta normativa nazionale ammette
tale possibilità se la fusione è realizzata con una controllata
residente. Tuttavia, “siffatta normativa nazionale è incompatibile
con il diritto dell’Unione se non consente alla società controllante di
provare che la sua controllata non residente ha esaurito le possibilità
di contabilizzare tali perdite e che non vi è la possibilità che queste
ultime siano contabilizzate nel suo Stato di residenza a titolo di
esercizi futuri, né dalla società stessa né da un terzo”, come esattamente accade nel caso di trasferimento della residenza fiscale
(sia in continuità giuridica che no).
Tale soluzione, peraltro, sembra superare anche il non trascurabile problema del riconoscimento delle modalità di calcolo
delle perdite stesse, imponendo, di fatto, l’ingresso di regole
proprie di un sistema fiscale da un Paese all’altro.
Alla luce di quanto osservato, sembra che, almeno a livello
comunitario, il disconoscimento delle perdite in ingresso in
caso di trasferimento di residenza si presenti, quanto meno,
incompatibile con la giurisprudenza comunitaria in materia.
Con riferimento, quindi, ai vincoli di adeguatezza e proporzionalità delle misure volte a tutelare la ripartizione del potere
impositivo tra gli Stati membri UE e ad impedire i rischi di
duplice uso delle perdite e di evasione fiscale, l’ordinamento
italiano non potrà che contemplare solamente norme destinate a contrastare fenomeni di tipo abusivo quali il commercio
di “bare fiscali”, esponendosi quasi certamente, in caso contrario, a censure della CGUE.
Più complesso è il caso della provenienza black list del contribuente. In tal caso, l’assenza della copertura delle libertà
comunitarie e le caratteristiche proprie dei regimi fiscali non
cooperativi, potrebbero, come nel caso della citata Risoluzione
n. 345/E del 2008, giustificare misure di protezione a tutela
della coerenza del regime fiscale nazionale, impedendo il
riconoscimento di perdite estere black list. In tali circostanze,
ovviamente, resta salva, e forse inevitabile, la via dell’interpello
preventivo ai sensi dell’articolo 31-ter D.P.R. n. 600/1973.
Relativamente al trattamento delle perdite formatesi nei primi
tre anni successivi al trasferimento in Italia della residenza, in
coerenza con quanto detto relativamente al trasferimento
in continuità giuridica o meno del soggetto trasferito, pare
corretto affermare che la continuità soggettiva riverberi
anche sul regime delle perdite cosicché rilevante per l’applicazione o meno del comma 2 dell’articolo 84 TUIR[7] sarà la
considerazione che il soggetto si sia trasferito in Italia dando
vita o meno ad nuovo soggetto giuridico. Nel primo caso, la
“novità” del soggetto trasferito (conseguente alla discontinuità
rispetto all’ordinamento di origine) sarà del tutto assimilabile
alla costituzione di un nuovo soggetto giuridico e pertanto il
comma 2 dell’articolo 84 TUIR risulterebbe applicabile.
Diversamente, e per ragioni opposte, la continuità giuridica
del soggetto trasferito impedirà la possibilità di considerare
il soggetto trasferito come un “nuovo” soggetto, escludendo
quindi l’applicabilità del citato comma 2.
Ciò detto, tuttavia, il comma 2 richiede oltre alla novità della
costituzione anche un ulteriore requisito: “[…] a condizione che
[le perdite, ndr.] si riferiscano ad una nuova attività produttiva”.
Ebbene, il mero trasferimento della residenza nella continuità,
però, dell’attività d’impresa svolta sembra impedire il verificarsi della condizione richiesta dalla norma.
Tale ultima considerazione sembra trovare conforto nella già
citata Risoluzione n. 345/E del 2008. Secondo il documento
di prassi “come da conforme parere del Dipartimento finanze del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel caso in specie [trasferimento di holding lussemburghese in Italia, ndr.] appare carente,
in primo luogo, la condizione relativa alla data di costituzione.
Va, infatti, osservato che il trasferimento in Italia è avvenuto in
regime di continuità societaria e, quindi, non si può ritenere che la
data di costituzione cui fare riferimento agli effetti dell’applicazione
del citato articolo 84, comma 2 TUIR sia quella del trasferimento
in Italia. Nella fattispecie, infatti, non si può parlare di costituzione
nel nostro Paese in quanto, come peraltro evidenziato dalla stessa
società istante, il trasferimento è avvenuto in regime di continuità
giuridica. Va da sé che in assenza della prima condizione richiesta
dall’articolo 84, comma 2 TUIR per il riporto illimitato delle perdite,
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
si ritiene superfluo verificare la sussistenza o meno della seconda
condizione relativa all’esercizio di un nuova attività produttiva.
Ciò posto, si ritiene che le perdite eventualmente realizzate dalla
società istante nei primi tre periodi d’imposta di residenza in Italia non
potranno ricadere nella previsione dell’articolo 84, comma 2 TUIR”.
Da quanto riportato, la soddisfazione di entrambe le condizioni viene ritenuta dall’Amministrazione finanziaria una
condizione necessaria per l’applicabilità del comma 2.
Pur prendendo atto del tenore letterale della norma, tuttavia, si
ritiene che una corretta valutazione della modalità di ingresso
in Italia del soggetto estero, nella forma della discontinuità
giuridica di esso, potrebbe, quanto meno dal punto di vista giuridico-formale, aprire la strada a valutazioni in parte differenti.
Diversamente, da un punto di vista economico-sostanziale,
appare però innegabile che il mero trasferimento del dato
“formale” della residenza, pur implicando rilevanti effetti
sostanziali, non determina certamente di per sé il “rinnovarsi”
del business produttivo del reddito d’impresa del contribuente,
come richiesto dal comma 2 dell’articolo 84 TUIR.
6.
Ulteriori criticità: aspetti contabili, riserve di utili e regime pex
In ragione della derivazione della base imponibile domestica
dai risultati contabili del contribuente, il silenzio della norma
primaria potrebbe porre ulteriori problemi per la sua applicazione. Così, nel caso di trasferimento in continuità giuridica,
ad esempio, si pone il primo tema della conversione, nel corso
dell’esercizio, dei valori e dei criteri di imputazione contabili (e
quindi, fiscali) della società trasferenda secondo i principi contabili nazionali (ad esempio, ai fini del regime pex o di quello
delle cosiddette “società di comodo”). Se poi si consideri il fatto
che ai fini fiscali, come visto sopra, non è ipotizzabile la teoria
dello “split year”, si porrà il problema della “conversione fiscale”
domestica dei risultati d’esercizio (fino alla data di trasferimento) contabilizzati secondo le regole del Paese di origine.
Forse meno problematico appare il trasferimento in discontinuità nella misura in cui la cesura con l’ordinamento di
provenienza pone le basi perché nell’ordinamento di destinazione, fin dall’inizio del periodo d’imposta, si adottino le regole
contabili di tale ordinamento.
L’unica soluzione che allo stato appare possibile è quella di
adottare un volontario adeguamento dei dati di bilancio
che introduca soluzioni idonee ad assicurare, quanto meno
per le operazioni in ambito comunitario, la neutralità fiscale
di tali operazioni. Tale approccio, peraltro non potrà essere
disconosciuto od ignorato dalle autorità fiscali in quanto
perfettamente aderente alle indicazioni di fonte comunitaria,
da ultimo espresse dalla Risoluzione del Parlamento europeo
del 2 febbraio 2012 (2013/c 239 E/03, raccomandazione n. 2).
Richiamando quanto osservato sopra, in ordine al “doppio
binario” introdotto dalla Risoluzione n. 69/E, quando ammette
maggiori quote di ammortamento fiscale rispetto a quelle
contabili “ai sensi dell’articolo 109, comma 4, lettera b) del TUIR
che prevede la deduzione dei componenti negativi che «pur non
essendo imputati al conto economico, sono deducibili per disposizioni
di legge»”, sembrerebbe possibile affermare che il trasferimento
debba avvenire in continuità dei valori contabili, facendo,
invece, salva l’applicazione delle norme fiscali domestiche in
ordine al trattamento delle diverse fattispecie (ad esempio,
ricostruzione della stratificazione delle riserve di utili e di capitali in caso di distribuzione o riconoscimento del valore fiscale
di cespiti integralmente ammortizzati).
Un ultimo aspetto che merita di essere considerato attiene
alla qualificazione delle riserve di utili formatesi all’estero.
Tale questione assume poi ulteriori specifici profili di difficoltà
anche in ragione dei principi fiscali alla base del rapporto
socio/società nel Paese di origine (imputation system vs.
exemption system) e dell’eventuale imposizione che tali utili
hanno scontato all’estero.
In assenza di precedenti di prassi idonei a chiarire il tema,
appare coerente con il principio di neutralità fiscale dell’operazione che la natura di “riserva di utili” attribuita a tali riserve
nel Paese di origine venga riconosciuta anche in Italia, con
l’effetto di assoggettarle ad imposizione quando siano, eventualmente, distribuite ai soci. In tale evenienza, poi, il socio
godrà dei rimedi domestici per alleviare la doppia imposizione
economica in cui dovesse incorrere.
Analogamente, si ritiene che soggiacerà alla disciplina domestica la fuoriuscita dei beni aziendali dal circuito del reddito
d’impresa qualora dovesse avvenire successivamente al trasferimento in Italia del complesso aziendale.
Anche rispetto al possesso dei requisiti per accedere al regime
di participation exemption, si ritiene che le classificazioni di
bilancio adottate dall’impresa non possano che trasferirsi in
continuità nella “nuova” contabilità italiana del contribuente,
salvo che, nel rispetto dell’autonomia del contribuente, vi
siano gli spazi per una modifica di tale classificazione.
Dal punto di vista fiscale, poi, tale classificazione potrebbe
anche andare esente da valutazioni di tipo elusivo. Infatti, se
l’ormai abrogato articolo 37-bis D.P.R. n. 600/1973 prevedeva,
alla lettera f del comma 1, la possibilità di censurare le valutazioni e classificazioni di bilancio, il nuovo articolo 10-bis dello
Statuto del contribuente non sembra direttamente idoneo a
colpire tali “operazioni”, se non a condizioni di innestare la classificazione della partecipazione da valutare in una più ampia
operazione “priva di sostanza economica”.
7.
Conclusioni
Dalla disamina compiuta, emerge come il pur apprezzabile
sforzo legislativo di favorire il rientro in Italia di soggetti
esterovestiti o di attrarre imprese estere in Italia attraverso
l’introduzione della norma di cui all’articolo 166-bis TUIR,
risulti finora, in parte, incompiuto.
In effetti, alcune delle incertezze potrebbero essere agevolmente risolte facendo riferimento alla prassi amministrativa in
precedenza emanata. Ciò, peraltro, sarebbe anche giustificato
dal rilievo attribuito alla prassi amministrativa dallo Statuto
del contribuente.
21
22
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
Tuttavia, al fine di rendere davvero “attraente” l’ingresso di
investitori stranieri nell’ordinamento italiano, almeno rispetto
al tema qui in esame, potrebbe essere importante almeno un
atto interpretativo unitario dell’Amministrazione finanziaria,
che “assesti” la stratificazione delle diverse pronunce intervenute in passato su specifici temi e faccia chiarezza sui diversi
dubbi ancora esistenti.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://beaconrepor ts.net/wp-content/uploads/2015/01/feature2.jpg
[30.09.2016]
http://image.nj.com/home/njo-media/width620/img/business_impact/
photo/andre-malok-t he-s t ar-ledger-22jpg-74 cddebbd4 c09059.jpg
[30.09.2016]
http://w w w.dirittobancario.it/sites/default/f iles/imagecache/Stor y_
node_636x254/immagini/tax_planning_tax_300x180_6.jpg [30.09.2016]
[1] Attualmente la disciplina sul trasferimento di
sede è contenuta negli articoli 166 e 166-bis del
Testo Unico delle Imposte sui Redditi (di seguito
TUIR). L’articolo 166 TUIR contempla la normativa italiana sulla cosiddetta “exit tax”. Introdotto
nell’ordinamento italiano nel 2004, l’articolo era
stato modificato già nel 2007 con l’introduzione dei commi 2-bis e 2-ter ad opera del comma 1,
lettera b del Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.)
n. 199/2007, che recepiva la Direttiva n. 2005/19/
CE relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, scissioni e altre operazioni di
ristrutturazione aziendale concernenti società di
Stati membri diversi. Il contrasto della norma italiana con la giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell’Unione europea (di seguito CGUE) ha determinato un’ulteriore modifica nel 2012 ad opera
dell’articolo 91 del Decreto Legge (D.L.) n. 1/2012,
che ha introdotto il riferimento ai principi comunitari espressi nella sentenza “National Grid Indus
BV” (causa C-371/10). L’ultima modifica è quella introdotta dall’articolo 11 D.Lgs. n. 147/2015
(cosiddetto “Decreto Internazionalizzazione”) che ha,
tra l’altro, eliminato il riferimento espresso proprio
alla sentenza “National Grid Indus BV“. L’articolo
166-bis TUIR contempla invece la disciplina del
trasferimento “in ingresso” della residenza ed è stato introdotto dall’articolo 12 D.Lgs. n. 147/2015.
[2]Si veda Baccaglini Francesco, Gli effetti del
decreto attuativo della exit tax italiana nei trasferimenti di sede verso la Svizzera, in: NF 1/2015,
pagine 11-19.
[3]Il medesimo D.Lgs. n. 147/2015, all’articolo
1, ha introdotto nel Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 600/1973,
relativo all’accertamento delle imposte sui redditi, il nuovo articolo 31-ter, rubricato “Accordi
preventivi per le imprese con attività internazionale”.
La nuova norma introduce una complessiva revisione degli accordi tra imprese aventi attività
estera ed amministrazione finanziaria, in precedenza disciplinati dal cosiddetto “ruling di standard
internazionale” (contenuto nell’articolo 8 D.Lgs.
n. 269/2003, abrogato dal comma 1 dell’articolo 1 D.Lgs. n. 147/2015). Quest’ultimo, infatti, è
stato sostituito con una nuova procedura per la
stipula di accordi preventivi con l’amministrazione finanziaria, che viene ricondotta nell’alveo
della disciplina generale dell’accertamento, di cui
al D.P.R. n. 600/1973. In particolare, con le modifiche proposte si estende la procedura di accordo
preventivo anche alla definizione dei valori di
ingresso e di uscita in caso di trasferimento della residenza, come disciplinato dal TUIR, nonché
all’attribuzione di utili e perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un’impresa o un
ente residente ovvero alla stabile organizzazione
in Italia di un soggetto non residente. Gli accordi
vincolano le parti per il periodo d’imposta nel corso del quale sono stipulati e per i quattro periodi
d’imposta successivi e precludono all’Amministrazione finanziaria l’esercizio di poteri di controllo ed
accertamento per le parti coperte dall’accordo. È
altresì previsto che, ove gli accordi discendano da
altri accordi conclusi con le autorità competenti
di Stati esteri a seguito delle procedure amichevoli previste dalle convenzioni contro le doppie
imposizioni (di seguito CDI), i patti sottoscritti con
l’Amministrazione finanziaria vincolano le parti
secondo quanto convenuto con dette autorità,
anche a decorrere da periodi di imposta precedenti, purché non anteriori al periodo d’imposta
in corso alla data di presentazione dell’istanza da
parte del contribuente.
[4] Si veda Cass., sez. V, sentenza n. 21970 del 28
ottobre 2015: “[s]econdo consolidata giurisprudenza di
questa Corte (dalla quale non vi è motivo di discostarsi) ai fini delle imposte dirette, le persone iscritte nelle
anagrafi della popolazione residente si considerano,
in applicazione del criterio formale dettato dal D.P.R.
n. 917 del 1986, art. 2, in ogni caso residenti, e pertanto
soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza
che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento
della residenza all’Estero non rileva fino a quando non
risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano (v. Cass. 677/15, 14434/10, 9319/06, 13803/01,
1225/98)”.
[5] Articolo 25, comma 3 L. n. 218/1995: “[i] trasferimenti della sede statutaria in altro Stato e le fusioni di enti
con sede in Stati diversi hanno efficacia soltanto se posti in
essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati”.
[6] Si veda Rossi Luca/Ficai Giacomo, Acquisizione della residenza fiscale in Italia e valorizzazione
ai fini tributari di beni provenienti dall’estero, in:
Corr. Trib. n. 13/2016, pagina 991.
[7] Articolo 84 TUIR: “1. La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la
determinazione del reddito, può essere computata in
diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi
in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo
che trova capienza in tale ammontare […]. 2. Le perdite
realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di
costituzione possono, con le modalità previste al comma
1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite
del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero
importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi a condizione che si riferiscano ad una nuova
attività produttiva”.
Diritto tributario italiano
Prima lettura del nuovo abuso del diritto
Gianluigi Bizioli
Professore Associato di Diritto tributario
nell’Università degli studi di Bergamo
Of Counsel, Ludovici Piccone & Partners
Ambito di applicazione e definizione
definizione: (i) l’ambito di applicazione e (ii) i presupposti del
divieto di abuso del diritto[5].
1.
Premessa
L’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge
n. 212/2000), rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione
fiscale”, rappresenta il punto di arrivo di un lungo cammino che
ha investito, come è in uso dire fra i comparatisti, molteplici
“formanti del diritto”. Semplificando, forse eccessivamente, il quadro d’indagine si può affermare che la genesi di tale articolo è
riconducibile a due diverse fonti: (i) il diritto dell’Unione europea
(di seguito UE) e (ii) la giurisprudenza della Corte di cassazione.
2.
L’ambito di applicazione dell’articolo 10-bis
La collocazione del divieto di abuso del diritto nell’ambito
dello Statuto dei diritti del contribuente è sintomatico
della volontà del legislatore di attribuire allo stesso portata
generale, nel senso di renderlo applicabile a qualsiasi tributo,
senza distinzione alcuna[6].
Quanto al diritto dell’UE, la fonte primaria deve essere individuata
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE (di seguito
CGUE) che, in varie pronunce, ha enucleato vari divieti di abuso,
tutti basati sul presupposto che i soggetti non possano trarre
vantaggio da operazioni non reali o non effettive[1]. Questo
percorso trova riscontro anche nei processi normativi, prima con
la Raccomandazione n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012[2]
ove, al punto 4.2., si fa riferimento al concetto di “sostanza economica” e, quindi, con la recentissima Direttiva n. 2016/1164 del
12 luglio 2016[3] a quello di costruzione “non genuina” (o serie di
costruzioni “non genuine”) (articolo 6, paragrafo 1).
La giurisprudenza di legittimità italiana ha, diversamente,
contribuito a tale risultato attraverso la nota affermazione
dell’esistenza di un divieto generale anti-elusivo nell’ordinamento tributario italiano. Più precisamente, tale divieto sarebbe
“immanente” nel sistema e deriverebbe direttamente dal precetto costituzionale di cui all’articolo 53[4].
La sintesi normativa di tale percorso è costituita, come si è già
anticipato, dalla formulazione della prima parte del comma 1
dell’articolo 10-bis: “[c]onfigurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle
norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Con questo contributo s’intende offrire una breve e sintetica
introduzione dei profili sostanziali di tale disposizione. Più in
particolare, si analizzeranno due profili conseguenti a tale
Nonostante l’evidente chiarezza di questa conclusione, essa
pone nondimeno (almeno) tre differenti problemi:
◆◆ in primo luogo, deve essere verificato se il nuovo articolo
10-bis trovi applicazione anche alle fattispecie transnazionali (o internazionali), oltre che a quelle puramente interne.
Come si è già sostenuto altrove, la formulazione della
disposizione offre elementi inequivoci a tal proposito[7].
Riferendosi alle “norme fiscali” e ai “principi dell’ordinamento
tributario”, la disciplina del nuovo abuso del diritto intende
comprendere tutte le norme che producono effetti
nell’ordinamento tributario italiano, quindi tutte le norme
appartenenti al diritto dell’UE dotate di diretta efficacia e
a quelle convenzionali dirette all’eliminazione delle doppie
imposizioni cui sia stata data efficacia attraverso la legge di
esecuzione[8]. In questo senso, il divieto si estende a tutte
le operazioni prive di sostanza economica che realizzino
vantaggi fiscali indebiti, indipendentemente dalla fonte
“interna” o “esterna” della norma fiscale aggirata purché
abbia diretta efficacia nell’ordinamento italiano. Diverso è
il caso in cui il vantaggio fiscale (indebito) derivi dallo sfruttamento congiunto della disciplina interna e di quella di uno
Stato estero. Difficilmente, in queste situazioni, l’articolo
10-bis potrà trovare applicazione, sia per la già riferita
formulazione letterale, sia perché l’abuso presuppone
l’esistenza di un sistema normativo ordinato e coerente
(o, almeno, che tenda all’ordine e alla coerenza interna)[9].
Un’indiretta argomentazione a sostegno di questa conclusione è rinvenibile nelle azioni e norme specifiche volte
a contrastare questi fenomeni, sia a livello convenzionale
(Base Erosion and Profit Shifting [BEPS] Action Plan 2, 4 e 7, per
23
24
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
esempio) sia a livello UE (la già citata Direttiva n. 2016/1164
contiene norme volte a prevenire tali fenomeni nel caso di
utilizzo di hybrid entities e Controlled Foreign Companies [CFC]
e limiti alla deducibilità degli interessi passivi), che fanno
presumere la non applicabilità (o, quanto meno, la residualità) della clausola generale anti-abuso a tali situazioni;
◆◆ un secondo profilo, strettamente collegato a quello appena
trattato, è quello dell’estensione del divieto anche ai tributi
cosiddetti “armonizzati” (e, in particolare, all’imposta sul
valore aggiunto [IVA], alle accise e ai tributi doganali).
L’intento del legislatore e le prime prese di posizione sono
affermative[10]. Anche in questo caso, tale conclusione è,
non solo, corretta ma è, altresì, decisamente auspicabile.
Una disciplina unitaria e uniforme del divieto di abuso del
diritto, infatti, non produce inutili discriminazioni in ragione
del tributo applicato e agevola l’instaurazione di rapporti
tributari informati a canoni di certezza del diritto. Per raggiungere tale risultato, il legislatore tributario non ha esitato
a integrare i principi e i canoni previsti dalla Legge delega
dell’11 marzo 2014, n. 23, che si limitavano a prevedere la
definizione della condotta abusiva come “uso distorto di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta”, con
il requisito della “sostanza economica” di matrice (come si è già
detto) europea. Tuttavia, anche in questo caso, è utile precisare che il destino di questa soluzione non è integralmente
nelle mani né del legislatore italiano né dei giudici italiani.
Il contenuto di tale divieto applicabile ai tributi armonizzati
rientra nelle competenze dell’UE e della giurisprudenza della
CGUE. In ragione della prevalenza del diritto UE rispetto a
quello interno è facile comprendere che eventuali futuri
scostamenti fra i due principi condurranno alla formazione
di distinte clausole anti-abuso. Il più recente esempio,
rappresentato dal già citato articolo 6 della Direttiva n.
2016/1164, sembra essere, almeno nella sostanza, allineato
alla Raccomandazione n. 2012/772/UE (e, quindi, alla formulazione introdotta nell’ordinamento tributario italiano
con l’articolo 10-bis). Nello specifico, la disposizione, al pari
della Direttiva n. 2015/121[11], è basata sopra l’espressione
“costruzioni non genuine” che si traduce nell’assenza di valide
ragioni commerciali che non rispecchiano la realtà economica e che, quindi, pur discostandosi formalmente dal
precedente termine “artificialità”, è impiegata dalla Direttiva
per individuare il medesimo fenomeno sociale[12];
◆◆ un ultimo aspetto riguarda i rapporti fra la clausola
generale anti-abuso e le norme anti-elusive specifiche. I
maggiori problemi si concentrano sul coordinamento fra
l’articolo 20 del Decreto del Presidente della Repubblica
(di seguito D.P.R.) n. 131/1986 (“Testo Unico dell’imposta di
registro”) e l’articolo 10-bis. Non vi sono, diversamente,
problemi con le norme a finalità anti-elusiva – quali, per
esempio, quelle relative alla localizzazione della residenza
delle persone fisiche in paradisi fiscali o all’“esterovestizione”
societaria – perché queste ultime, oltre ad avere una
differente natura rispetto all’articolo 10-bis, sono norme
il cui ambito di applicazione soggettivo e oggettivo è
decisamente più ristretto rispetto al divieto generale
anti-abuso. All’opposto, l’articolo 20 D.P.R. n. 131/1986,
che prevede che “[l]’imposta è applicata secondo la intrinseca
natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione,
anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, è stato
interpretato, dalla giurisprudenza di legittimità largamente
maggioritaria, come divieto anti-elusivo applicabile
all’imposta di registro[13]. Trascurando la questione della
(in)fondatezza di questo orientamento giurisprudenziale, la convivenza di una specifica clausola anti-elusiva
nel sistema dell’imposta di registro dopo l’introduzione
dell’articolo 10-bis produrrebbe delle conseguenze del
tutto irragionevoli per il contribuente, perché tale clausola
sarebbe, fra l’altro, priva delle garanzie procedimentali
previste dal generale divieto anti-abuso. L’auspicio[14] ,
dunque, è che la giurisprudenza di legittimità ritorni ad
assegnare all’articolo 20 D.P.R. n. 131/1986 il valore di
norma sull’interpretazione degli atti negoziali in base ai
canoni giuridici.
3.
La definizione di abuso del diritto. Presupposti
La definizione di abuso del diritto è, in una prospettiva puramente teorica, soddisfacente, perché esclude chiaramente
che le “valide ragioni extrafiscali” siano un elemento costitutivo
della nozione. Non solo questa soluzione normativa appare
coerente con la funzione della clausola, individuata nell’eguale
(o equa) ripartizione dei carichi impositivi fra i consociati che
manifestano una capacità contributiva comparabile, bensì
elimina, sul piano pragmatico, lo scrutinio dell’Amministrazione finanziaria (e la valutazione del giudice) sulle scelte
imprenditoriali e/o familiari del contribuente[15].
I presupposti costitutivi dell’abuso del diritto sono tre[16]: (i)
assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate;
(ii) realizzazione di un vantaggio fiscale indebito e (iii) che tale
vantaggio sia l’effetto essenziale dell’operazione. Rispetto
a questa definizione, le già citate “valide ragioni extrafiscali”
riguardano la verifica della consistenza dei motivi extrafiscali sottostanti all’operazione. In questo senso, tale profilo
tende a sovrapporsi rispetto a quello dell’accertamento della
sostanza economica dell’operazione (o delle operazioni).
Il primo elemento della nozione è, come si è già anticipato,
di derivazione europea, nel senso che deriva dall’influenza del
divieto anti-abusivo elaborato nella giurisprudenza relativa
alle libertà fondamentali di fonte europea. Quella giurisprudenza ha tradotto l’assenza di sostanza economica in
termini di “costruzioni di puro artificio”[17] , nozione che appare
applicabile senza eccessivi problemi alle tradizionali attività
economiche produttive di beni ma che presenta qualche
difficoltà per le attività di prestazione di servizi, soprattutto di
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
natura finanziaria. La più recente interpretazione del requisito
è formulata dalla Direttiva n. 2016/1164 contro le pratiche
elusive che, all’articolo 6, paragrafo 2, richiede l’esistenza di
“valide ragioni commerciali che [rispecchino] la realtà economica”.
Rispetto a tale definizione, l’articolo 10-bis si premura di precisare che l’uso distorto degli strumenti giuridici rappresenta
un indice (o una manifestazione) dell’assenza di sostanza
economica, ma non se ne identifica integralmente.
sia prova essenziale al fine dell’accertamento della legittimità
della contestazione di operazioni e/o comportamenti abusivi.
Seppur banale, questo requisito si compone non solo del
carattere indebito bensì richiede anche la presenza di un
vantaggio fiscale. In questo senso, sarà integrato abuso del
diritto solo nel caso in cui dall’operazione derivi un vantaggio
economico, in termini di risparmio del quantum del tributo
dovuto ovvero di godimento di un’agevolazione indebita.
Da ultimo, il vantaggio fiscale realizzato deve costituire il
motivo essenziale dell’operazione e/o del comportamento del
contribuente. Tale essenzialità deve essere misurata in termini
di relazione rispetto ai vantaggi di natura extrafiscale e, come
osserva Assonime, “non si declina come un requisito effettivamente
autonomo rispetto a quelli già presi in esame e, in particolare, rispetto
a quello della mancanza di sostanza economica”[18].
Sul piano sistemico, il legislatore ha (normativamente) distinto
l’abuso del diritto e la simulazione, che, dal punto di vista
puramente teorico, rientra fra le situazioni evasive. L’articolo
1, comma 1, lettera g-bis) D.Lgs. n. 74/2000, come modificato
dal D.Lgs. n. 158/2015, prevede che l’espressione “operazioni
simulate oggettivamente o soggettivamente” debba intendersi in
maniera tale da non comprendere quelle che ricadono nell’abuso del diritto. Più precisamente, il legislatore ha distinto
la simulazione rispetto all’abuso in ragione della volontà (o
meno) di realizzare un determinato negozio giuridico (o una
pluralità di negozi). In questo senso, la simulazione potrà
essere contestata quando si provi che il negozio realizzato
è, in tutto o in parte, non voluto, mentre l’abuso richiede la
corrispondenza fra volontà del contribuente e realtà giuridica. L’abuso, quindi, si caratterizza per operazioni prive di
un’apprezzabile sostanza economica che siano in contrasto
con norme o principi dell’ordinamento tributario, ma la cui
efficacia giuridica corrisponde alla volontà delle parti.
La realizzazione di un vantaggio fiscale indebito è il requisito
più problematico, perché il carattere indebito si traduce nel
contrasto fra il comportamento del contribuente e “le finalità
delle norme fiscali e con i principi dell’ordinamento tributario”.
L’individuazione della finalità delle norme tributarie e dei
principi non è compito agevole, per almeno due ragioni. In
primo luogo, la disciplina tributaria subisce notevoli variazioni
nel tempo, che rendono difficile la formazione di regole stabili
e, quale conseguenza, rende complicato la definizione della
funzione e la ricostruzione dei principi.
In secondo luogo, l’assenza di un codice in materia tributaria
ha prodotto la costruzione di una pluralità di sistemi tributari, piuttosto che un sistema tributario informato a principi
uniformi, che rispondono a finalità e logiche non sempre
coerenti fra loro.
Tutto ciò premesso, la disposizione è sufficientemente chiara
nel richiedere che sia indicata, da parte dell’Amministrazione
finanziaria, la norma o il principio eluso e che tale elemento
4.
Conclusioni
Anche una rapida lettura dell’ambito di applicazione e della
definizione del nuovo abuso del diritto codificato dall’ordinamento tributario italiano consente di apprezzare un
miglioramento, in termini di certezza del diritto, rispetto alla
precedente condizione. A ciò devono aggiungersi le garanzie
procedimentali previste e l’esclusione della sanzionabilità
penale della condotta abusiva.
Non vi è dubbio, tuttavia, che le clausole generali anti-abuso
restano uno strumento “flessibile” nelle mani della giurisprudenza, nel senso che sono espressione del bilanciamento fra
la libertà economica del contribuente e il dovere di concorrere
alle spese pubbliche. Per tale ragione, la reale verifica della
garanzia della certezza del diritto è affidata al “diritto vivente”.
Elenco delle fonti fotografiche:
h t t p:// w w w. e d o t t o . co m/U t i l i t y/G e t F i l e B y I d/55 6 e a e 0 b f d b 9520 4
38d43853 [30.09.2016]
h t t p://w w w. r i v i s t a . s s e f. i t /w w w. r i v i s t a . s s e f. i t /f i l e/p u b l i c /i m m agini/2010/04-09/esclusione_600.jpg [30.09.2016]
25
26
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
[1]Nella sentenza del 21 febbraio 2006, causa
C-255/02, Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd e County Wide Property
Investments Ltd v. Commissioners of Customs &
Excise, in: Racc. I-1609, la CGUE fa riferimento al
concetto di “normalità commerciale”: “[l]’applicazione
della normativa comunitaria non può, infatti, estendersi
fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non
nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì
al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi
previsti dal diritto comunitario” (punto 69). Analogo
fondamento si trova nelle sentenze relative alle
libertà fondamentali e sistemi tributari nazionali.
Nella causa Cadbury Schweppes, la CGUE osserva
che la libertà di stabilimento “presuppone, pertanto,
un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività
economica reale” (sentenza del 12 settembre 2006,
causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd v. Commissioners
of Inland Revenue, in: Racc. I-7995, punto 54).
[2]Raccomandazione della Commissione del 6
dicembre 2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva (n. 2012/772/UE).
[3]Direttiva UE n. 2016/1164 del Consiglio del
12 luglio 2016 recante norme contro le pratiche
di elusione fiscale che incidono direttamente sul
mercato interno.
[4]Corte di cassazione, ss.uu., sentenze del 24
dicembre 2008, n. 30055, 30056 e 30057.
[5]La disposizione ha risolto anche la questione
(terminologica) del rapporto fra elusione fisca-
le e abuso del diritto nel senso di attribuire a tali
espressioni il medesimo significato normativo.
[6]Volontà espressamente confermata dallo
stesso legislatore nella Relazione illustrativa al
progetto di Decreto (pagina 6).
[7] Bizioli Gianluigi, Abuso del diritto e convenzioni
contro le doppie imposizioni, pagina 89 (pagina 93
e seguenti), in: Miele Luca, Il nuovo abuso del diritto, Analisi normativa e casi pratici, Torino 2016.
[8] Da questo punto di vista, se presa alla lettera,
non appare corretta la posizione di Assonime nella
Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 128/2015 sulla certezza
del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente: la
disciplina sull’abuso del diritto, ove si ritiene applicabile il divieto solo con riguardo “a quelle discipline
di fonte internazionale che sono state già recepite con
apposite norme dell’ordinamento interno” (pagine
23-24). Non tutte le norme del diritto dell’UE,
infatti, devono essere recepite da norme interne – il riferimento più agevole è ai regolamenti e
alla disciplina dei tributi doganali – e, anche quelle
norme che richiedono un adattamento possono,
in determinate circostanze, produrre effetti diretti
senza l’intervento di norme interne. In tale senso,
è più corretto affermare che il criterio per determinare l’applicazione del divieto anti-abuso è quello,
sostanziale, dell’efficacia interna delle norme derivanti da fonti “esterne” all’ordinamento italiano.
[9] In questo senso, Assonime, Circolare n. 21 del
4 agosto 2016, pagina 23.
[10]Relazione illustrativa, pagina 6 e Assonime,
Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, pagina 17.
[11]Direttiva UE n. 2015/121 del Consiglio, del
27 gennaio 2015, che modifica la Direttiva n.
2011/96/UE concernente il regime fiscale comune
applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi.
[12]Come evidenziano anche Navarro Aitor/
Parada Leopoldo/Schwarz Paloma, The Proposal
for an EU Anti-Avoidance Directive: Some Preliminary Thoughts, in: EC Tax Review, 2016, pagina
117 (a pagina 124).
[13] Si veda, ex multis, Cass., V, sentenza 28 giugno
2013, n. 16345.
[14] Condiviso anche da Assonime, Circolare n. 21
del 4 agosto 2016, pagina 23.
[15] Assonime, nella Circolare n. 21 del 4 agosto
2016, pagina 13, evidenzia anche che “il sindacato sulle ragioni economiche è stato fatto valere come
un duttile strumento per l’accertamento, finendo per
essere utilizzato anche in fattispecie del tutto estranee
all’elusione e all’abuso e, cioè, anche in casi tipici di frode o di simulazione”.
[16] Come evidenziato dalla Relazione illustrativa, pagina 6.
[17]CGUE, causa C-196/04, Cadbury Schweppes, punto 54: “perché sia giustificata da motivi di
lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di
stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni
puramente artificiose, prive di effettività economica
e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili
generati da attività svolte sul territorio nazionale”.
[18] Assonime, Circolare n. 21 del 4 agosto 2016,
pagina 78.
IVA e imposte indirette
Quel pomo della discordia chiamato tassa
di collegamento
Elisa Antonini
Avvocato, MAS SUPSI in Tax Law
Studio legale Antonini, Mezzovico
[email protected],
www.studiolegaleantonini.ch
Alcune considerazioni in merito all’impatto IVA e sulle
imposte dirette
1.
Introduzione
Il 5 giugno 2016, dopo una dibattutissima campagna e con un
risicato 50.7%, il Popolo ticinese ha approvato l’introduzione
di una nuova tassa di collegamento, che è entrata in vigore il
successivo 1. agosto 2016.
La mancanza di un consenso da parte soprattutto della
grande distribuzione e del settore dell’industria ha portato ad
una serie di ricorsi, in relazione ai quali è stato richiesto ed
ottenuto l’effetto sospensivo. L’applicazione ed il prelievo della
tassa di collegamento sono dunque sospesi fino alla sentenza
dell’Alta Corte federale.
La tassa di collegamento, regolata agli articoli da 35 a 35t
della Legge sui trasporti pubblici (di seguito LTPub), si inserisce
nelle misure di realizzazione della strategia del Consiglio di
Stato ticinese in materia di mobilità e persegue un duplice
obiettivo (cfr. Messaggio del Consiglio di Stato n. 7139 del 4
novembre 2015):
◆◆ incentivare la riduzione del traffico veicolare pendolare
scoraggiando l’uso individuale dell’automobile per gli spostamenti sistematici,
◆◆ generare un’entrata finanziaria che concorra a coprire gli
importanti aumenti di spesa per il trasporto pubblico cui il
Canton Ticino è chiamato a far fronte.
In sintesi i “basics” della tassa di collegamento sono i seguenti:
◆◆ Chi? Pagano la tassa i proprietari di fondi (o di un insieme
di fondi in connessione spaziale o funzionale) sui quali
vi sono 50 o più posti auto, fatti salvi i posteggi destinati
alle abitazioni, a veicoli di servizio, fornitori, carico e
scarico, esposizione e deposito; gli enti di diritto pubblico
sono assoggettati alla tassa limitatamente ai posteggi
per il personale e per gli utenti che si spostano in modo
sistematico (articolo 35b capoversi 2 e 3 LTPub; articolo
4 del Regolamento sulla tassa di collegamento [di seguito
RTColl]);
◆◆ Dove? La tassa di collegamento è prelevata solo in alcuni
Comuni (articolo 35b capoverso 1 LTPub). L’elenco è
consultabile in internet, sul sito del Dipartimento del territorio, Sezione della mobilità (si veda: http://www4.ti.ch/
fileadmin/DT/temi/modifica_legge_trasporti_pubblici/
documenti/Lista_comuni_soggetti_Rcpp_Allegato_1_
RLst.pdf [30.09.2016]). Si tratta di Comuni considerati
problematici dal punto di vista del traffico. In totale sono
toccati 67 Comuni nei Distretti di Mendrisio, Lugano,
Locarno, Bellinzona e della Riviera;
◆◆ Quanto? L’ammontare della tassa è stabilito dal Consiglio di
Stato in funzione del numero e della tipologia di posti auto
(articolo 7 RTColl): 3.50 franchi al giorno per singolo posto
auto destinato al personale o altri utenti che si spostano in
modo sistematico e 1.50 franchi al giorno per ogni singolo
posto auto destinato a clienti e visitatori.
2.
Tassa di collegamento e IVA
L’imposta sul valore aggiunto (di seguito IVA) sulle prestazioni
eseguite sul territorio svizzero colpisce le prestazioni (forniture
di beni e servizi) effettuate sul territorio svizzero da contribuenti dietro controprestazione (articolo 18 capoverso 1 della
Legge federale concernente l’imposta sul valore aggiunto [di
seguito LIVA]). L’imposta è calcolata sulla controprestazione
effettivamente ricevuta, che comprende anche il risarcimento
di tutte le spese, fatturate separatamente o meno, nonché
di eventuali tributi di diritto pubblico dovuti dal contribuente
(articolo 24 capoverso 1 LIVA).
Ciò premesso, appare evidente che la tassa di collegamento
non è soggetta ad IVA all’atto del suo prelievo da parte del
Cantone. Essa può tuttavia assumere rilevanza qualora il proprietario di un fondo contribuente IVA e soggetto alla tassa di
collegamento decidesse di traslare detta tassa, scaricando l’onere finanziario che ne deriva sui fruitori dei parcheggi. Infatti
la tassa di collegamento è un tributo di diritto pubblico dovuto
dal contribuente (l’articolo 35c LTPub identifica il proprietario
del fondo quale debitore della tassa) e, come visto sopra, in
quanto tale fa parte della base di calcolo IVA.
27
28
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
Sono ipotizzabili due scenari principali:
◆◆ il proprietario del fondo concede in uso i singoli parcheggi
e decide di aumentare il prezzo che chiede in pagamento
per l’utilizzazione dei posti auto. Ai fini dell’IVA un simile
“sovrapprezzo” farebbe parte della controprestazione fatturata/incassata dal proprietario del fondo per la messa
a disposizione del parcheggio e sarebbe quindi soggetto
ad IVA all’aliquota normale (attualmente 8%) applicabile
alla locazione di parcheggi (articolo 21 capoverso 2 n. 21
lettera c LIVA);
◆◆ il proprietario del fondo concede in uso l’intero fondo
(immobile inclusi i parcheggi) ad un locatario/affittuario e
decide di aumentare il corrispondente canone. Ai fini IVA
la locazione di immobili è di principio esclusa dall’imposta
(articolo 21 capoverso 2 n. 21 LIVA). Pertanto in questa
ipotesi il “sovrapprezzo” derivante dalla traslazione della
tassa di collegamento non sarebbe imponibile all’IVA.
Tuttavia, qualora il proprietario del fondo avesse optato
per l’assoggettamento volontario della locazione dell’immobile (articolo 22 LIVA), il “sovrapprezzo” in questione
costituirebbe parte della controprestazione per una
locazione imponibile e sarebbe anch’esso soggetto ad IVA
all’aliquota normale (attualmente 8%).
riduzione del diritto alla deduzione dell’imposta precedente
(articolo 33 LIVA).
Ne discende che le aziende che ricevono contributi per la
mobilità aziendale non hanno verosimilmente il diritto alla
piena deduzione dell’imposta precedente gravante i costi connessi con l’implementazione della misura di mobilità aziendale
in questione, ma devono effettuare una proporzionale riduzione dell’imposta precedente.
3.
Tassa di collegamento e imposta sull’utile
La Confederazione, il Cantone e i Comuni prelevano un’imposta sull’utile netto delle persone giuridiche (articolo 57 della
Legge federale sull’imposta federale diretta [di seguito LIFD];
articoli 66 e 274 lettera b della Legge tributaria [di seguito LT]).
La base di partenza per la determinazione dell’utile netto
imponibile è il saldo del conto economico, epurato dal riporto
dell’anno precedente (articoli 58 lettera a LIFD e 67 lettera a
LT). A tale saldo vanno aggiunte in particolare le spese che,
sebbene registrate a conto economico, appaiono non giustificate dall’uso commerciale (articoli 58 lettera b LIFD e 67
lettera b LT).
Occorre dunque chiedersi se la tassa di collegamento, nella
misura in cui rimanga a carico dell’azienda, possa essere considerata quale costo giustificato dall’uso commerciale.
2.1.
Excursus: contributi per la mobilità aziendale
Parlando di IVA e tassa di collegamento, è doveroso fare un
breve excursus su un’altra misura che si inserisce nella strategia
di mobilità del Dipartimento del territorio: si tratta della concessione di contributi per la mobilità aziendale.
Con Decreto legislativo del 14 dicembre 2015 il Gran Consiglio
ha costituito un fondo di 2 milioni di franchi per il finanziamento
di provvedimenti a favore della mobilità aziendale e altri progetti. I criteri per l’accesso a tale fondo sono stabiliti dal Consiglio
di Stato con Decreto esecutivo del 15 marzo 2016 concernente
la concessione di contributi per la mobilità aziendale.
Giusta tale Decreto esecutivo, le aziende che ne fanno richiesta e presentano un piano di mobilità aziendale che soddisfi
determinati requisiti, possono ottenere un contributo, il cui
ammontare dipende dal tipo di misura per la mobilità aziendale proposto.
Dal punto di vista dell’IVA, senza grandi analisi, è lecito ritenere che tali contributi vadano qualificati quali sussidi ai sensi
dell’articolo 18 capoverso 2 lettera a LIVA, con conseguente
Orbene, personalmente sono dell’avviso che l’onere derivante
dal versamento della tassa di collegamento debba essere
considerato alla stregua degli altri costi che l’azienda deve
affrontare in relazione al mantenimento di posti auto e che
ne condivida quindi necessariamente il trattamento fiscale:
la tassa di collegamento gravante parcheggi i cui costi sono
considerati come fiscalmente deducibili deve, a mente della
scrivente, essere considerata anch’essa come un onere giustificato dall’uso commerciale.
4.
Tassa di collegamento e imposta sul reddito
La tassa di collegamento può, in determinate circostanze, trovarsi ad interferire con l’imposizione del reddito del lavoratore
dipendente che dispone di un posteggio al posto di lavoro.
Come nel caso dell’IVA, che abbiamo visto sopra, anche il
trattamento fiscale ai fini dell’imposta sul reddito è diverso a
dipendenza delle situazioni concrete. Di seguito sono esposte
alcune possibili casistiche, con le verosimili conseguenze in
termini di imposta sul reddito del lavoratore.
4.1.
Parcheggio messo a disposizione dal datore di lavoro
In questo caso, sia che il posteggio sia messo a disposizione
del dipendente a titolo gratuito, parzialmente gratuito o
dietro versamento di un canone di locazione, la nuova tassa
di collegamento non ha nessun impatto. Infatti la parte gratuita di messa a disposizione, sia essa parziale o totale, non
va menzionata nel certificato di salario (cfr. Istruzioni per la
compilazione del certificato di salario e dell’attestazione delle
rendite, edite dalla Conferenza fiscale svizzera, cifra 72) e un
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
eventuale addebito al dipendente non costituisce una diminuzione di salario bensì una spesa del dipendente.
Per maggiori informazioni:
Associazione industrie ticinesi (AITI), Tassa di collegamento: informazioni
pratiche, 7 luglio 2016, in: http://www.aiti.ch/2016/07/07/tassa-di-collega-
4.2.
Parcheggio messo a disposizione da terzi
Diverso, rispetto a quanto indicato sopra, è il caso in cui il
dipendente loca un parcheggio presso terzi e il datore di
lavoro gli rimborsa, in tutto o in parte, i costi che ne derivano.
In questo caso il contributo ricevuto dal datore di lavoro costituisce salario imponibile e va indicato nel certificato di salario.
Pertanto se il datore di lavoro dovesse decidere di farsi carico
della tassa di collegamento e di aumentare in modo corrispondente la propria partecipazione ai costi di parcheggio
del dipendente, quest’ultimo si vedrebbe conteggiato, ai fini
dell’imposta sul reddito, un salario superiore, con conseguente
aumento del carico fiscale.
mento-informazioni-pratiche [30.09.2016]
Dipartimento del territorio, Sezione della mobilità, La tassa di collegamento,
in: http://www4.ti.ch/dt/dstm/sm/temi/modifica-della-legge-sui-trasportipubblici/tassa-di-collegamento/tassa-di-collegamento [30.09.2016]
Messaggio del Consiglio di Stato, Modifica della Legge sui trasporti pubblici
del 6 dicembre 1994, Tassa di collegamento a carico dei generatori di importanti correnti di traffico a parziale copertura dei costi del trasporto pubblico,
n. 7139 del 4 novembre 2015, in: http://www4.ti.ch/user_librerie/php/GC/
caricaAllegato.php?allid=94684 [30.09.2016]
Elenco delle fonti fotografiche:
5.
Conclusione
Quanto precede mostra chiaramente che, indipendentemente
dall’impatto economico della nuova tassa di collegamento
sui proprietari di fondi e sulle aziende, la stessa può avere
una serie di ulteriori ripercussioni fiscali, sotto forma di altre
imposte, per il proprietario del fondo, per le aziende e anche
per i fruitori finali dei posteggi colpiti dalla tassa.
http://www.vocedelticino.ch/wp-content/uploads/2016/05/tassacollegamento.png [30.09.2016]
29
30
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano
La tempestività dell’eccezione e la validità
dell’atto firmato dal dirigente illegittimo
Emilio de Santis
Dottore Commercialista e Revisore contabile
Studio de Santis, Bologna
Sentenze n. 1058 e n. 1109/2015 della CTP di Campobasso a
seguito delle sentenze della Corte di Cassazione n. 18448 e
n. 22810/2015.
La “nullità tributaria” ex sentenza Cassazione n. 18448/2015 e
la precedente dottrina – La “rilevabilità ex ufficio” – Le sentenze
di Campobasso e i rapporti dello “jus superveniens” con l’eccezione di nullità per i vizi di firma – I dirigenti illegittimi
1.
Premessa
La sentenza della Commissione Tributaria Provinciale (di
seguito CTP) di Campobasso, n. 1058/2015 del 3 novembre
2015 (alla quale è seguita la n. 1109/2015 del 1. dicembre
2015) pone in evidenza, in particolare, due fondamentali questioni (tempestività dell’eccezione e validità dell’atto firmato
dal dirigente illegittimo) in ordine al contenzioso che si è formato a seguito delle eccezioni sollevate dai contribuenti sulla
questione della firma degli atti da parte dei dirigenti dichiarati
decaduti con la sentenza n. 37/2015 (pubblicata in Gazzetta
Ufficiale il 25 marzo 2015) della Corte Costituzionale.
Peraltro, ad oggi, l’intera vicenda è da ritenersi oramai circoscritta ad alcuni specifici casi che più avanti verranno descritti
in questo intervento, in quanto alcune sentenze della Corte
Suprema sono intervenute successivamente alla pronuncia
della Consulta, definendo con precisione il quadro entro il quale
la questione debba essere esaminata, senza possibilità che lo
stesso possa essere messo in discussione, se non ponendosi
in disaccordo con gli stessi principi elaborati dagli Ermellini,
pur sempre con il conforto di precedente autorevole dottrina
di segno opposto, che è da intendersi appunto superata dalle
elaborazioni del Giudice della legittimità.
2.
La “nullità tributaria” ex sentenza cassazione n. 18448/2015
e la precedente dottrina
Ci si intende qui riferire, intanto, alla sentenza n. 18448 del
18 settembre 2015 della Corte di Cassazione[1] , che ha statuito con motivazioni complesse e di non facile lettura, ma
sicuramente approfondite e interessanti, il principio per cui,
succintamente, esiste nel diritto tributario solo la categoria
della “nullità tributaria”, in cui confluiscono tutti i vizi che possono inficiare la validità dell’atto tributario, non intervenendo
alcuna distinzione tra quelli che originano la sanzione più
radicale della nullità dagli altri che producono solo questioni
di annullabilità dell’atto. Da ciò facendo derivare che tutti tali
vizi debbano essere eccepiti entro il termine di decadenza di
cui all’articolo 21 del Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.)
n. 546/1992, senza peraltro essere possibile che siano rilevabili
d’ufficio (e qui sta forse la parte più pregevole delle motivazioni, con il massimo sforzo interpretativo della normativa
assunta a riferimento del caso esaminato).
Il principio enunciato (confermato in toto dalla sentenza
n. 381/2016 della Corte di Cassazione), pone decisamente
fine a un tema controverso dibattuto da decenni, che fa
naufragare le tesi di alcuni autori, per la quale non può assolutamente ritenersi che la nullità dell’atto ex articolo 42 del
Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n.
600/1973, debba essere trattata alla stregua dell’annullabilità,
quindi sottoponendola al regime dell’impugnativa ex articolo
61 D.P.R. n. 600/1973[2].
Non solo, altri[3] , avendo prima rilevato che l’atto sottoscritto
dal funzionario in situazione di “carenza di potere” sia da ritenere
afflitto da nullità, si spingono oltre ritenendo che in tale caso
non vi sia alcun termine di decadenza, relativamente all’azione
da esercitare per ottenere una sentenza dichiarativa di nullità.
E neanche rinvengono problemi di sorta, ad onor del vero
con convincenti ragionamenti, nella dibattuta questione della
sovrapponibilità delle norme di diritto amministrativo a quelle
del diritto tributario, con particolare riguardo agli articoli
21-bis, 21-septies e 21-octies introdotti nella Legge (di seguito
L.) n. 241/1990, dalla L. n. 15/2005[4].
3.
La “rilevabilità ex ufficio”
La sentenza n. 18448/2015 non lascia spazio ad alcun dubbio:
in ordine alla “rilevabilità ex ufficio”, quando spiega che essa – se
riconosciuta nel procedimento tributario – confliggerebbe
con il requisito della “stabilità” amministrativa dell’atto, laddove
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
anche i limiti del “thema decidendum” non operano nel procedimento amministrativo, contrariamente a quello civile, con la
conseguenza di dovere indicare le ragioni della nullità come
elemento costitutivo della domanda attorea nel procedimento
tributario, atteso che esso è “un sottosistema del diritto amministrativo, con il quale è in rapporto di species ad genus, potendo
trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento
amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate o non
risultino incompatibili con le norme speciali del diritto tributario
[…]”. Al contrario di chi ha sostenuto che “la giurisprudenza del
Consiglio di Stato in materia di provvedimenti nulli, ha più volte richiamato – con cautela e con i dovuti adattamenti – la disciplina della
nullità contrattuale, contenuta nel codice civile, ritenendo che l’azione
sia imprescrittibile e la nullità rilevabile d’ufficio (se non vi è violazione
del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato)”[5].
Principio infatti poi accolto dal Giudice del Territorio di cui
qui ci si occupa, che già nella sentenza n. 784/2015[6], ed in
ambedue le ultime oggetto di osservazione, riporta le chiarissime parole del Consiglio di Stato nella sentenza n. 8/1963[7],
con un ragionamento che fa da filo conduttore a quello della
“nullità derivata”, per il quale: “non irrilevante appare, invece, in
un sistema duale delle invalidità, il vizio causa di nullità dell’atto
impositivo pregresso. Il ragionamento interno sull’efficacia degli atti
pare debba farci concludere per la nullità derivata del concordato su
atto di imposizione nullo. Infatti è nella stessa natura della nullità la
preclusione alla stabilizzazione degli effetti dell’atto viziato, il che
contempla anche l’impossibilità per l’atto di nullo di giungere ad
una qualche stabilizzazione per il tramite di convalida, sanatoria o
di un procedimento che abbia come condizione legittimante proprio
l’efficacia dell’atto invalido. Non sembra ragionevole credere che l’atto
impositivo nullo possa validamente avviare il procedimento di accertamento con adesione orientandolo e per questo tramite giungere alla
formalizzazione di un atto efficace fondato su presupposto nullo”[8].
Senza dimenticare, quanto osserva ad esempio la Commissione Tributaria Regionale (di seguito CTR) della Lombardia,
aggiungendosi alle precedenti pronunce del medesimo
segno, nella sentenza n. 3699/2015[9] , in cui afferma, quando
fosse riscontrata una causa “di nullità assoluta per straripamento
di potere dell’atto di accertamento di cui è causa, atteso che esso è
stato sottoscritto da soggetto divenuto (sotto il profilo dell’irregolarità amministrativa) usurpatore di funzioni pubbliche per difetto
assoluto di attribuzione”, che: “l’atto tributario non sottoscritto o
illegittimamente sottoscritto, ove espressamente previsto, è affetto
da una giuridica inesistenza che gli impedisce ogni produzione di
effetti (quod nullum est nullum producit effectum) e, quindi, la tutela
giudiziaria potrebbe essere utilmente esperita anche nel ricorso
contro l’atto «successivo», ad esempio, contro la cartella di pagamento – c.d. «impugnazione congiunta» – anche per vizi dell’atto
«presupposto» (Cass. SS. UU. 25/7/2007 n. 16412)”.
4.
Le sentenze di Campobasso e i rapporti dello “jus superveniens” con l’eccezione di nullità per i vizi di firma
Ebbene di tutto ciò nulla è rimasto dopo la sentenza n.
18448/2015 della Suprema Corte, anche se è difficile ritenere che i Giudici del Territorio che più si sono impegnati
e soffermati, quali quelli della CTP di Campobasso, nella
stesura di sentenze che hanno a fondamento motivazioni
completamente opposte alla n. 18448/2015 degli Ermellini,
rinuncino ad elaborare pronunce di segno contrario per i futuri
contenziosi che dovessero affrontare, anche alla luce dei toni
severissimi usati nella recente sentenza del Consiglio di Stato
n. 4641/2015[10] , che rileva l’illegittimità del comportamento
dei funzionari che abbiano firmato atti o conferito/ricevuto
poteri in “violazione di normativa primaria (D.Lgs. 30 marzo 2001,
n. 165) e di principi Costituzionali (artt. 3, 51 e 97 Cost.)”.
Comunque sia, ambedue le sentenze della CTP di Campobasso
all’esame non si pongono in contrasto con il principio sancito
nella sentenza n. 18448/2015 della Suprema Corte (poi
ribadita nella sentenza n. 20984/2015), laddove sancisce che
osta “[…] alla generale estensione del regime normativo di diritto
amministrativo, la scelta operata dal Legislatore, nella sua piena
discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria
della «nullità tributaria» indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali
da inficiare la validità dell’atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della
invalidità-annullabilità, dovendo essere gli stessi tempestivamente
fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi,
con ricorso, entro il termine di decadenza di cui al D.Lgs. n. 546 del
1992, art. 21, in difetto del quale il provvedimento tributario – pure
se affetto da vizio «nullità» – si consolida, divenendo definitivo”. Ciò
in quanto, con argomentazioni assolutamente convincenti,
il Giudice del Territorio, in ambedue le sentenze oggetto di
indagine, osserva che l’enunciato principio non può non essere
letto se non tenendo nella dovuta evidenza il precedente
passaggio della stessa sentenza n. 18448/2015, per cui:
“l’oggetto del giudizio, circoscritto ai motivi di ricorso, può essere
modificato solo nei limiti consentiti dalla disciplina processuale e,
cioè, con la presentazione di «motivi aggiunti», consentita però, dal
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 24, nel solo caso di «deposito
di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine
della commissione» (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 19337 del
22/09/2011)”.
Infatti “il vizio dell’atto tributario sopravvenuto alla proposizione
dell’originario ricorso per effetto di una nuova legge, oppure di una
sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale o della Corte
Europea, può essere fatto valere sia nel giudizio di primo grado che nel
giudizio di impugnazione con lo strumento del motivo aggiunto di cui
all’art. 24 D.Lgs. 546/92 purché, ben si intende, lo jus superveniens
(al quale è equiparabile la sentenza di illegittimità costituzionale)
sia applicabile al giudizio in corso, incida sulla situazione di fatto già
allegata in primo grado e non determini un ampliamento dei fatti
di causa. Si ricorda che, per quanto concerne il giudizio di appello,
l’art. 61 D.Lgs. 546/92 dispone l’applicabilità delle «norme dettate
per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le
disposizioni della presente sezione», si che, se dedotto nei termini di
31
32
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
cui all’art. 24 D.Lgs. cit. (giorni 60 dal novum, nella specie dalla pubblicazione della sentenza nella Consulta nella Gazzetta Ufficiale) il
vizio dell’atto tributario sopravvenuto, per effetto della dichiarazione
di incostituzionalità di una norma, potrà essere dedotto anche nel
giudizio di appello e, più in generale, nel processo di impugnazione,
ovvero anche innanzi alla Corte di Cassazione”.
5.
I dirigenti illegittimi
Quanto sopra per ciò che attiene alla prima delle due questioni, accennate all’inizio, e cioè quella della proponibilità
dell’eventuale vizio di nullità con lo strumento del motivo
aggiunto, presente in ambedue le sentenze della CTP di
Campobasso qui trattate. In realtà la n. 1109/2015 si sofferma a lungo, ritenendola non condivisibile, sulla successiva
pronuncia della Corte di Cassazione n. 22810/2015[11] , intervenuta pressoché in concomitanza con il deposito della CTP
n. 1058/2015 che quindi non ha potuto trattarla. I Giudici del
Territorio che hanno elaborato la sentenza n. 1109/2015, pronunciata il 1. dicembre 2015, proprio non ci stanno, insistendo
[1] In: Boll. Trib. on-line.
[2]Fransoni Guglielmo, Osservazioni in tema di
omessa sottoscrizione di provvedimenti dell’amministrazione finanziaria, in: Riv. dir. trib., 1993,
pagina 359: “[p]oiché le citate conclusioni si fondano
su un’interpretazione strettamente letterale dell’art.
61 D.P.R. 600/73 occorre chiedersi, a tale riguardo, se
non esistano degli indizi che facciano ritenere che tale
interpretazione non sia sempre possibile. Una prima
indicazione in tal senso la si trae dal fatto che, in base
ad una lettura acritica della norma citata, si dovrebbe pervenire alla conclusione che, anche nel caso in cui
dovessero mancare tutti gli elementi di cui all’art. 42, ci
si troverebbe di fronte ad un semplice caso di annullabilità. Conclusione, questa, manifestamente assurda e
rifiutata dalla migliore dottrina”.
[3]Tesauro Francesco, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in: Boll. Trib., 2005, pagina 1445:
“[s]i tratta ora di ammettere che si può agire, senza
dover osservare alcun termine di decadenza, anche per
ottenere una sentenza dichiarativa della nullità, nei casi
in cui un atto impugnabile presenti uno dei vizi che lo
rendono nullo ai sensi del citato art. 21-bis [ndr., da
intendersi 21-septies, primo comma]”.
[4] Tesauro Francesco, op. cit.: “[i]n diritto amministrativo, la nullità non è la conseguenza della violazione
di qualsiasi norma imperativa, ma solo delle norme
che disciplinano: a) gli elementi essenziali del provvedimento; b) l’attribuzione delle competenze; c) il
giudicato. Inoltre, il provvedimento è nullo «negli altri
casi espressamente previsti dalla legge». Per effetto di
questa norma dobbiamo distinguere, anche in diritto
tributario, tra provvedimento nullo e provvedimento
sulla assoluta e non derogabile necessità – già sancita da
precedente giurisprudenza[12] – che “il capo dell’ufficio” debba
essere solo un dirigente[13] , con la gravità degli effetti individuati da autorevole dottrina[14] , e ancora va ben oltre – e se
si vuole con ciò ridando spazio ai temi trattati in precedenza
– sancendo l’applicabilità dei principi posti dalla L. n. 241/1990
al procedimento tributario[15].
Pertanto, il quadro giuridico definito dai Giudici della legittimità, come era facile immaginare, non trova – né troverà – il
supino accordo di taluni Giudici del merito. Per gli uni e per gli
altri, non pare – invece – esservi problema nel riconoscimento
che la delega debba sempre essere rilasciata nel pieno rispetto
delle altre condizioni formali e sostanziali previste dall’articolo
17, comma 1-bis, D.Lgs. n. 165/2001[16].
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.studiomanna.it/wp-content/uploads/2015/11/corte-cassazione-940x400.jpg [30.09.2016]
annullabile. Molte ipotesi finora indicate come cause
di inesistenza del provvedimento impositivo debbono
essere riclassificate come ipotesi di nullità”.
[5]Tesauro Francesco, op. cit.; cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 1984, n. 261, in: Giur. it.,
1985, III, 1, pagina 102, nota 12: “[q]uando la legge commina la nullità assoluta ad atti amministrativi
assunti in violazione delle sue disposizioni – come, per
esempio, accade per gli inquadramenti illegittimi dei
dipendenti del servizio sanitario nazionale -, al giudice
amministrativo, investito della relativa controversia, non
è inibito di assumere decisioni dichiarative di dette nullità.
Così Cons. Stato, sez. V, 19 settembre 1995, n. 1326,
in Foro amm., 1995, 1889”.
[6] CTP di Campobasso, sez. III, 21 maggio 2015,
n. 784, in: Boll. Trib. on-line.
[7] Cons. Stato, in Sede Giurisdizionale, Adunanza
Plenaria, sentenza del 12 aprile 1963, n. 8, in giustizia amministrativa.it: “[i]l Consiglio di Stato deve
pronunziare l’annullamento dell’atto amministrativo
in base alla legge dichiarata incostituzionale. Invero le
norme ordinarie sul procedimento davanti al Consiglio
di Stato, alla stregua delle quali non potrebbe pervenirsi all’annullamento per un motivo non dedotto, o per un
motivo in precedenza respinto, vanno intese, in armonia con le norme costituzionali, di grado superiori nella
gerarchia delle fonti, in base alle quali la questione di illegittimità costituzionale è rilevabile d’ufficio, le sentenze
di accoglimento della Corte Costituzionale hanno efficace
erga omnes, ed il giudizio di manifesta infondatezza è di
mera delibazione, spettando il giudizio di merito alla Corte Costituzionale, la forza espansiva della cui sentenza
non può trovare ostacolo nel diverso apprezzamento
espresso in precedenza dal giudice amministrativo”.
[8]Marello Enrico, Invalidità dell’accertamento
con adesione, in: Giust. trib., 2008, pagina 14.
[9]CTR della Lombardia, sez. I, 31 agosto 2015,
n. 3699, in: Boll. Trib. on-line.
[10] Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2015, n. 4641,
in: Boll. Trib. on-line: “[s]i tratta di una violazione di
normativa primaria (d. lgs. n. 165/2001, appunto), e di
principi costituzionali (di cui agli artt. 3, 51, 97 Cost.)
di estrema gravità, in base alla quale si è proceduto al
conferimento di diverse centinaia di incarichi dirigenziali, con ripercussioni evidenti non solo sul principio
di buon andamento amministrativo, ma anche sulla
stessa immagine della Pubblica amministrazione e
sulla sua «affidabilità», per di più nel delicato settore
tributario, dove massima dovrebbe essere la legittimità
e la trasparenza dell’agire amministrativo. La reiterata
applicazione della norma regolamentare illegittima ha,
di fatto, determinato una grave situazione di illegittimità
in cui ha versato per anni l’organizzazione dell’Agenzia
delle Entrate, determinandosi uno scostamento di proporzioni notevoli tra situazione concreta e legittimità
dell’organizzazione amministrativa. In sostanza, l’amministrazione finanziaria nel suo complesso è stata
oggetto di una conformazione che l’ha posta, nelle proprie strutture di vertice, e per anni, al di fuori del quadro
delineato dai principi costituzionali”.
[11] Corte di Cassazione, sentenza del 9 novembre 2015, n. 22810: “[i]n ordine agli avvisi di
accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio,
il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena
di nullità che l’atto sia sottoscritto dal «capo dell’ufficio» o «da altro impiegato della carriera direttiva da
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
lui delegato», senza richiedere che il capo dell’ufficio
o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una
qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni. In
esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono
impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma
appena evocata, i «funzionari di area terza» di cui al
contratto del comparto agenzie fiscali fissato per il
quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma
sopra citata, individua l’agente capace di manifestare
la volontà della amministrazione finanziaria negli atti
a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la
professionalità per legge idonea a emettere quegli atti.
Da ciò deriva che la sorte degli atti impositivi formati
anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento
rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e
dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del d.P.R.
n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o
meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto
della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma,
del dl. n. 16 del 2012”.
[12] Per tutte vedi Cass., sez. trib., 14 giugno 2013,
n. 14942, in: Boll. Trib. on-line: “[n]e consegue che
la sottoscrizione dell’avviso di accertamento – atto
della p.a. a rilevanza esterna – da parte di funzionario
diverso (il capo dell’ufficio emittente) da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo ovvero da parte
di un soggetto da detto funzionario non validamente ed
efficacemente delegato non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’articolo 42,
commi primo e terzo, dinanzi citato”; tale sentenza
sancisce la conseguente nullità radicale dell’atto.
[13] CTP Campobasso, sez. II, sentenza n. 1109
del 1. dicembre 2015: “[m]a, se pure volesse condividersi la tesi che il legislatore del 1973, indicando
nell’art. 42 cit. il «capo dell’ufficio», intendeva riferirsi
anche ad un impiegato della carriera direttiva, tale tesi
non potrebbe assolutamente sostenersi dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001 che, come si è
innanzi precisato, all’art. 4, commi 2 e 3, demanda alla
esclusiva competenza dei dirigenti «l’adozione degli atti
e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti
che impegnano l’amministrazione verso l’esterno», di poi
precisando che le predette attribuzioni «possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative»”. In proposito si è già
avuto modo di precisare che, ai sensi dell’articolo
20 D.P.R. n. 266/1987, i funzionari direttivi possono sostituire i dirigenti solo in caso di assenza
di impedimento, ovvero solo in caso di situazioni
eccezionali e temporanee, fermo il principio che il
capo dell’ufficio deve essere un dirigente legittimamente nominato. Del resto, posto il principio
che solo ai dirigenti compete l’emissione di atti
“che impegnano l’amministrazione verso l’esterno consegue che se fosse possibile attribuire le funzioni di capo
dell’ufficio ad un funzionario della carriera direttiva,
costui non potrebbe emettere alcun atto che impegni
l’amministrazione verso l’esterno, e quindi nemmeno
gli avvisi di accertamento, onde non sarebbe nemmeno
comprensibile il suo potere di delegare un funzionario
della carriera direttiva per l’emissione dei provvedimenti predetti (nemo plus juris in alium transferre potest
quam ipse habet)”.
[14] Cfr. Fransoni Guglielmo, op. cit., pagina 355:
“[p]er quanto riguarda la dottrina tributaria, larga parte
di essa è orientata a ritenere che l’atto privo di sottoscrizione (o sottoscritto da persona diversa dal titolare
dell’ufficio) sia inesistente”; Gallo Franco, Poteri degli
uffici finanziari e delegazione amministrativa,
in: Riv. it. sc. giur., 1970, pagina 346 e seguenti;
Tesauro Francesco, Istituzioni di diritto tributario,
Torino 1991, pagina 343, nota 72; Cicognani Antonio, Sulla rappresentanza esterna dell’ufficio delle
imposte, in: Dir. prat. trib., 1971, II, pagina 875.
[15] CTP Campobasso, sez. II, sentenza n. 1109 del
1. dicembre 2015: “[i]l vero è che, contrariamente a
quanto si legge nella sentenza n. 22810/15, secondo
la prevalente dottrina e la costante giurisprudenza, il
procedimento tributario è inquadrabile nel più ampio
genere dei procedimenti amministrativi, con conseguente applicabilità dei principi posti dalla L. n. 241 del 1990
anche ad esso. Giova ricordare che già nell’anno 2006 la
Corte di Cassazione, nella sentenza n. 1236, affermava
che «I principi generali dell’attività amministrativa stabiliti dalla L. 7 agosto 1990 n. 241, si applicano, salva la
specialità, anche per il procedimento tributario»”.
[16] Articolo 17, comma 1-bis D.Lgs. n. 165/2001,
comma aggiunto dall’articolo 2, comma 1, L.
n. 145/2002: “[i] dirigenti, per specifiche e comprovate
ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di
tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune
delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano
le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici
ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l’articolo
2103 del codice civile”.
33
34
Rassegna di giurisprudenza di diritto dell’UE
Caso Bukovansky: quale relazione tra libera
circolazione e norme convenzionali?
Federico Zari Malacrida
Avvocato, LL.M. (int’l tax) WU
Gaggini & Partners, Lugano
Sentenza CGUE del 19 novembre 2015, Causa C-241/14, Roman
Bukovansky contro Finanzamt Lörrach
Rinvio pregiudiziale – Fiscalità – Accordo tra la Comunità europea ed i suoi Stati Membri, da una parte, e la Confederazione
svizzera, dall’altra, sulla libera circolazione delle persone – Relazione tra tale accordo e le convenzioni bilaterali volte a prevenire
la doppia imposizione – Parità di trattamento – Discriminazione fondata sulla nazionalità – Cittadino di uno Stato membro
dell’Unione europea – Lavoratori frontalieri – Imposta sui redditi – Ripartizione della competenza tributaria – Collegamento
fiscale – Nazionalità
1.
Introduzione
Gli autori colgono l’occasione per presentare e discutere la
sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (di
seguito CGUE) (Terza Sezione), riguardante il procedimento
C-241/14, del 19 novembre 2015, nell’ambito di una controversia tra il signor Bukovansky e l’ufficio tributario di Lörrach
(Germania), in merito alla decisione con la quale quest’ultimo
ha assoggettato ad imposta i redditi da lavoro dipendente del
signor Bukovansky in Germania, per il periodo successivo al
trasferimento della residenza dell’interessato dalla Germania
alla Svizzera. Questa sentenza, rappresenta un importante
tassello poiché aiuta a definire, da un punto di vista giuridico,
la portata dell’accordo tra la Comunità europea ed i suoi Stati
Membri, da una parte, e la Confederazione svizzera, dall’altra,
sulla libera circolazione delle persone, firmato a Lussemburgo
il 21 giugno 1999 (di seguito ALC) in particolare con riferimento agli effetti circa i principi di non discriminazione e della
parità di trattamento in ambito di tassazione diretta.
2.
Principi di base dell’UE in breve
2.1.
Aspetti preliminari
Prima di entrare nel merito di alcuni concetti utili a comprendere meglio il caso Bukovansky, è utile precisare come
il concetto di Unione europea (di seguito UE) sia stato
Martino Pinelli
MAS SUPSI in Tax Law
Wealth Planner Patrimony 1873, Lugano
introdotto per il tramite del Trattato di Maastricht del 1992
e successivamente elaborato nei Trattati di Amsterdam[1] e
Nizza[2][3]. Ulteriori modifiche furono apportate per il tramite del Trattato di Lisbona[4]. Il concetto di UE fu introdotto
con l’idea di rappresentare una nozione di cooperazione
maggiore rispetto a quella espressa con il concetto di CEE
(Comunità Economica Europea) contenuta nel Trattato di
Roma, firmato nel 1957.
È peraltro doveroso ricordare come l’impatto del diritto
europeo verso gli Stati membri UE sia aumentato in maniera
importante e i diversi ambiti di attività aventi carattere crossborder risultino particolarmente coinvolti. Ciò con l’obiettivo
primario di promuovere il buon funzionamento del mercato
interno (articoli 2 lettera a e 26 paragrafo 1 del Trattato sul
Funzionamento dell’UE [di seguito TFUE]). Al fine di perseguire questo scopo, il diritto europeo deve prevalere sugli
ordinamenti nazionali dei singoli Stati membri UE[5] e ciò
vale anche nell’ambito dell’imposizione diretta.
Infatti, sebbene gli Stati membri UE abbiano una competenza esclusiva nell’ambito delle imposte dirette, la CGUE ha
stabilito come nondimeno tale competenza debba essere
esercitata in maniera consistente con il diritto europeo, al
fine di evitare ogni forma di discriminazione basata sulla
nazionalità[6].
2.2.
Le libertà fondamentali nel diritto europeo
Il diritto europeo comprende una clausola generale di non
discriminazione, contenuta all’articolo 18 TFUE, un’altra clausola sulla libera circolazione e di residenza dei cittadini dell’UE
(articolo 21 TFUE) – che trova applicazione nella misura in
cui le altre libertà fondamentali non trovino applicazione – e
le cinque libertà fondamentali[7]:
1) libertà di circolazione delle merci (articolo 28 e seguenti
TFUE);
2) libertà di circolazione dei lavoratori (articolo 45 e seguenti
TFUE);
3) libertà di stabilimento di impresa (articolo 49 e seguenti
TFUE);
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
4) libertà di prestazione di servizi (articolo 56 e seguenti
TFUE);
5) libertà di circolazione dei capitali (articolo 63 e seguenti
TFUE).
In particolare, le ultime quattro libertà fondamentali qui
sopra menzionate, hanno una particolare rilevanza ai fini
dell’imposizione diretta[8]. Da segnalare, inoltre, come la
libera circolazione dei capitali, sia l’unica libertà direttamente
applicabile anche nei rapporti con i Paesi terzi. Tuttavia, in più
occasioni, la CGUE ha ricordato come il contesto legale dei
rapporti tra i Paesi terzi e dell’UE sia diverso rispetto ai rapporti
tra gli Stati membri UE, ragione per la quale è giustificato un
diverso approccio[9].
Va inoltre ricordato che tutte le libertà fondamentali sono
direttamente applicabili. In altri termini, se la norma nazionale
di uno Stato membro UE dovesse violare una libertà fondamentale, a questo Stato membro UE è fatto divieto di applicare
la norma discriminatoria[10].
Onde verificare se una disposizione nazionale di uno Stato
membro UE sia in violazione del diritto europeo, da un lato,
i tribunali nazionali hanno la facoltà di rivolgersi alla CGUE e
chiedere una decisione preliminare, mentre dall’altro, i tribunali
di ultima istanza sono obbligati a rivolgersi alla CGUE per verificare la compatibilità della norma interna oggetto di disputa
con il diritto europeo. Ciò è noto come “acte clair doctrine”[11].
In tale contesto, qualora la Commissione europea ritenga
che una norma nazionale sia contraria al diritto europeo, può
avviare contro lo Stato membro UE in questione una cosiddetta “infringement procedure”.
Infine, va ricordato che per verificare se una normativa nazionale sia in linea con il diritto europeo, la CGUE applica di norma
il seguente approccio[12]:
◆◆ si può applicare il diritto europeo? Vi è un cittadino europeo
coinvolto?
◆◆ il caso di specie riguarda una situazione cross-border?
Una delle libertà fondamentali è chiamata in causa?
In caso di risposte affermative, viene quindi comparato il
trattamento previsto per la situazione cross-border con una
situazione analoga, ma domestica. Vengono dunque paragonate due situazioni cross-border analoghe. Qualora la situazione
oggetto di analisi dovesse risultare discriminata, occorre verificare se tale discriminazione ha una giustificazione considerata
come accettabile[13] , una combinazione di giustificazioni[14] ,
ovvero giustificazioni considerate non accettabili[15].
2.3.
L’ALC
A seguito della bocciatura in votazione popolare dell’accordo
per l’adesione allo Spazio Economico Europeo (SEE), la Svizzera,
al fine di avere accesso al mercato unico, negoziò un pacchetto
di vari accordi bilaterali. Il 21 giugno 1999 furono firmati sette
accordi tra la Svizzera e l’UE (cosiddetti “Bilaterali I”), tra cui
quello riguardante la libera circolazione delle persone. In virtù
dell’accordo di Vaduz riguardante l’Associazione Europea di
Libero Scambio (AELS), la Svizzera concluse inoltre misure
equivalenti alla libera circolazione delle persone con Islanda,
Liechtenstein e Norvegia[16].
In base all’ALC, viene facilitato, peraltro, l’accesso al mercato di
lavoro svizzero ai cittadini europei e viceversa.
Il caso Bukovansky riveste un particolare interesse, poiché
riguarda un caso in cui una norma tributaria tedesca interagisce
con la libertà di circolazione delle persone, ma non già in forza
della libertà fondamentale contenuta nel TFUE, bensì a mente di
un accordo siglato tra l’UE ed un Paese terzo, in casu la Svizzera.
3.
La sentenza C-241/14 del 19 novembre 2015
La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata
nell’ambito di una controversia che verte sull’interpretazione
dell’ALC. Nello specifico, tale domanda è stata presentata
nell’ambito di una controversia tra il signor Bukovansky,
cittadino ceco e tedesco, e l’ufficio tributario di Lörrach in
Germania, in merito alla decisione con la quale quest’ultimo
ha assoggettato ad imposta i redditi da lavoro dipendente del
signor Bukovansky in Germania, per il periodo successivo al
trasferimento della residenza dell’interessato dalla Germania
alla Svizzera (cfr. i paragrafi 1 e 2 della sentenza).
3.1.
Il procedimento principale
Il contribuente, il signor Bukovansky, ha lavorato per diversi
anni in seno alla filiale di una società svizzera, Novartis, in
Germania. Nel mese di agosto 2008, il signor Bukovansky
trasferiva la sua residenza in Svizzera, conservando tuttavia
il suo posto di lavoro in seno alla filiale della società svizzera
in Germania. A seguito del trasferimento di domicilio in
Svizzera, il signor Bukovansky diveniva un lavoratore transfrontaliero “all’inverso”. Di conseguenza, egli riteneva che
non fosse più residente a fini fiscali in Germania e che i suoi
introiti sarebbero dovuti essere imponibili unicamente in
Svizzera conformemente all’articolo 15a, paragrafo 1, della
Convenzione per evitare la doppia imposizione sul reddito e
sulla sostanza tra Svizzera e Germania (di seguito CDI-D)[17].
L’ufficio tributario di Lörrach, al contrario, ha ritenuto che
il ricorrente fosse assoggettato ad imposta sui redditi in
Germania in forza degli articoli 1, paragrafo 4 [18] e 49,
paragrafo 1[19] dell’Einkommensteuergesetz (di seguito
EStG) e che, inoltre, i redditi da lavoro dipendente corrisposti dalla filiale tedesca all’interessato, conformemente
all’articolo 4, paragrafo 4 CDI-D [20] , dovessero essere
assoggettati ad imposta in Germania (cfr. paragrafo 23 della
sentenza).
In seguito ad un reclamo del signor Bukovansky, l’ufficio
tributario di Lörrach, da un lato, ha confermato l’avviso
di accertamento d’imposta determinato ai fini dell’imposizione dei redditi considerati e, dall’altro, ha preso in
considerazione gli importi dell’imposta pagati dal signor
Bukovansky all’Amministrazione fiscale svizzera a titolo
d’imposta sul reddito a partire dal mese d’agosto 2008 (cfr.
paragrafo 24 della sentenza).
35
36
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
Contro il rigetto del ricorso veniva adito il giudice del rinvio,
il quale in ottemperanza alle disposizioni dell’ALC non lascia
impregiudicate le disposizioni della CDI-D in quanto l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni (di seguito
CDI) dovrebbe farsi nel rispetto degli obblighi derivanti dalle
libertà fondamentali contemplate nell’ALC stesso[21]. In tali
circostanze il giudice tributario del rinvio ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre la questione pregiudiziale
ai giudici europei[22].
3.2.
La questione pregiudiziale
Nella questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiede, ai
sensi dell’articolo 267 TFUE, se i principi di non discriminazione
e della parità di trattamento di cui agli articoli 2[23] e 9[24]
rispettivamente dell’ALC e del relativo Allegato I, debbano
essere interpretati nel senso che ostano alla CDI-D, in forza
della quale il diritto di assoggettare a imposta i redditi da lavoro
dipendente di un contribuente tedesco che non possiede la
cittadinanza svizzera, benché quest’ultimo abbia trasferito la
sua residenza dalla Germania alla Svizzera pur mantenendo il
suo luogo di lavoro dipendente nel primo di tali Stati, spetti allo
Stato della fonte di tali redditi, ossia alla Repubblica federale di
Germania, mentre il diritto di assoggettare a imposta i redditi
da lavoro dipendente di un cittadino svizzero, in una situazione
analoga, spetta al nuovo Stato di residenza, nel caso di specie
alla Confederazione svizzera[25].
3.3.
Sulla questione pregiudiziale
La CGUE inizia la propria disamina ricordando che per quanto
riguarda le circostanze del procedimento principale e le disposizioni dell’ALC, si deve constatare che, in base al suo tenore
letterale, l’articolo 7, paragrafo 1[26], dell’Allegato I dell’ALC, è
applicabile alla situazione del signor Bukovansky. Quest’ultimo
è, infatti, cittadino “di una parte contraente”, ossia la Repubblica
federale di Germania, risiede sul territorio “di una parte contraente”,
nella fattispecie la Confederazione svizzera, ed esercita un’attività dipendente sul territorio “dell’altra parte contraente”, ossia la
Repubblica federale di Germania (paragrafo 32 della sentenza).
Secondo la CGUE, la suddetta disposizione stabilisce una distinzione tra il luogo di residenza, localizzato sul territorio di una
parte contraente ed il luogo di esercizio di un’attività di lavoro
dipendente che deve trovarsi sul territorio dell’altra parte contraente, indipendentemente dalla cittadinanza dell’interessato.
In forza di tale disposizione, il signor Bukovansky deve essere
qualificato “lavoratore dipendente frontaliero” ai fini dell’applicazione dell’ALC, essendo inoltre pacifico che esso effettua di
norma un tragitto andata e ritorno giornaliero o almeno una
volta alla settimana tra il luogo di residenza e quello della sua
attività dipendente (cfr. paragrafo 33 della sentenza).
Tanto premesso, la CGUE osserva che, per quanto riguarda le CDI
concluse tra la Confederazione svizzera e gli Stati membri UE,
ai sensi dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC[27], le disposizioni dello
stesso lasciano impregiudicate le disposizioni di dette CDI. La
CGUE ricorda che occorre tuttavia verificare se tale disposizione
dell’ALC, consenta agli Stati contraenti di derogare al complesso
delle proprie disposizioni (cfr. paragrafi 34-35 della sentenza). In
sostanza, la CGUE, si domanda se le norme contenute nella
CDI-D possano prescindere da qualsiasi altra disposizione, tra
cui il divieto di discriminazione contenuto nell’ALC, alla luce di
quanto previsto all’articolo 21 ALC medesimo.
A giudizio della CGUE, si deve rilevare che l’articolo 9 dell’Allegato I dell’ALC, rubricato “Parità di trattamento”, sancisce,
al suo paragrafo 2, una norma specifica, volta a far godere il
lavoratore dipendente e i membri della sua famiglia degli stessi
vantaggi fiscali e sociali dei lavoratori dipendenti nazionali e
dei membri delle loro famiglie. In tale contesto, si deve ricordare che la CGUE ha dichiarato che, in materia di vantaggi
fiscali, il principio della parità di trattamento, previsto in tale
disposizione, può essere invocato anche da un lavoratore
cittadino di una parte contraente, che abbia esercitato il suo
diritto alla libera circolazione nei confronti del suo Stato d’origine. Investita di domande di pronuncia pregiudiziale sulla
questione se le CDI concluse tra gli Stati membri UE debbano
essere compatibili con il principio della parità di trattamento e,
in generale, con le libertà di circolazione garantite dal diritto
primario dell’UE, la CGUE ha dichiarato che nell’ambito di CDI,
gli Stati membri sono liberi di stabilire i fattori di collegamento
per la ripartizione della competenza tributaria, ma sono tenuti,
nell’esercizio del potere impositivo così ripartito, a rispettare
tale principio e dette libertà (cfr. paragrafi 36-37 della sentenza).
Di conseguenza, a parere della CGUE, quando, in una CDI
conclusa tra Stati membri UE, il criterio della cittadinanza
appare in una disposizione che ha ad oggetto la ripartizione
della competenza tributaria, tale differenziazione fondata sulla
nazionalità non può essere considerata come una discriminazione vietata. Per quanto riguarda, invece, l’esercizio della
competenza tributaria conferita da una siffatta disposizione,
lo Stato membro titolare di tale competenza deve rispettare il
principio della parità di trattamento. In altri termini: è possibile
che una previsione convenzionale fondi l’attribuzione delle
competenze tributarie in base alla nazionalità, tuttavia lo Stato
titolare del diritto primario d’imposizione deve esercitare tale
diritto nel rispetto del principio della parità di trattamento. Tale
giurisprudenza sulla relazione tra il diritto primario dell’UE e le
CDI concluse tra gli Stati membri UE deve applicarsi per analogia alla relazione tra l’ALC e le CDI concluse tra gli Stati membri
UE e la Confederazione svizzera (paragrafi 38-39 della sentenza).
Infatti, la CGUE osserva che, come risulta dal preambolo e dagli
articoli 1 lettera d[28] , e 16 paragrafo 2[29] ALC, quest’ultimo
mira a realizzare, a favore dei cittadini dell’UE e di quelli della
Confederazione svizzera, la libera circolazione delle persone
nei territori delle parti contraenti di tale ALC basandosi sulle
disposizioni applicate nell’UE, le cui nozioni devono essere
interpretate conformemente alla giurisprudenza della CGUE.
Invero, l’articolo 21 ALC prevede che le disposizioni dello stesso
lascino impregiudicate le CDI tra gli Stati membri UE e la
Confederazione svizzera. Tuttavia, tale articolo non può avere
una portata in conflitto con i principi sottesi all’Accordo di cui
fa parte. Tale articolo non può quindi essere inteso, secondo la
CGUE, nel senso di consentire agli Stati membri dell’UE e alla
Confederazione svizzera di compromettere la realizzazione
della libera circolazione delle persone, privando del suo effetto
utile, nell’esercizio delle competenze fiscali come ripartite dalle
loro CDI, l’articolo 9 paragrafo 2 dell’Allegato I dell’ALC (paragrafi
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
40-41 della sentenza). In altri termini, la CGUE sottolinea come,
sebbene le norme sulla ripartizione fiscale siano regolate dalla
CDI-D, lo scopo dell’ALC non possa essere svuotato di significato da norme convenzionali, conflittuali con l’ALC medesimo.
La CGUE deve quindi interrogarsi se tali norme convenzionali
siano in contrasto con gli obiettivi dell’ALC, sebbene quanto
previsto dall’articolo 21 ALC medesimo.
Per quanto riguarda il procedimento principale, la CGUE
riconosce che è pacifico che il signor Bukovansky, anche
dopo il trasferimento della sua residenza dalla Germania
alla Svizzera, sia trattato, sul piano fiscale, dallo Stato della
fonte dei suoi redditi da lavoro dipendente, nel caso di
specie dalla Repubblica federale di Germania, al pari di un
contribuente che ivi lavora e risiede. Il signor Bukovansky
sostiene, tuttavia, di aver subito una disparità di trattamento
rispetto a un cittadino svizzero che, proprio come lui, abbia
trasferito la sua residenza dalla Germania alla Svizzera, pur
mantenendo il luogo del suo lavoro dipendente nel primo di
tali Stati, poiché la competenza ad assoggettare ad imposta
i redditi da lavoro dipendente di quest’ultimo spetterà al suo
Stato di residenza, ossia alla Confederazione svizzera, e non,
come nel suo caso, allo Stato della fonte dei redditi da lavoro
dipendente, ossia alla Repubblica federale di Germania
(paragrafi 42-43 della sentenza).
A tale riguardo, la CGUE tiene a precisare che una CDI, come
quella siglata tra la Germania e la Svizzera, è intesa ad evitare
che lo stesso reddito sia soggetto ad imposta in ciascuna
delle due parti di tale CDI-D, non già a garantire che l’imposizione alla quale è soggetto il contribuente in una parte
contraente non sia superiore a quella alla quale egli sarebbe
soggetto nell’altra parte contraente. Nel caso di specie, la
CGUE constata in particolare che la differenza di trattamento
che il signor Bukovansky sostiene di aver subito deriva dalla
ripartizione del potere impositivo tra le parti della CDI-D considerata ed è il risultato delle divergenze esistenti tra i regimi
fiscali di tali parti. Orbene, com’è stato menzionato ai paragrafi 37 e 38 della presente sentenza, la scelta di dette parti, al
fine di ripartire tra loro la competenza impositiva, di differenti
fattori di collegamento, non costituisce in quanto tale una
discriminazione vietata (paragrafi 44-45 della sentenza).
Di conseguenza, a parere della CGUE poiché, rispetto ai
contribuenti residenti in Germania, il signor Bukovansky non
subisce svantaggi fiscali, non si può concludere nel senso della
sussistenza di una discriminazione derivante da una disparità di trattamento in contrasto con l’articolo 9 paragrafo 2
dell’Allegato I dell’ALC (paragrafo 46 della sentenza).
Ne consegue che il ragionamento della CGUE è il seguente:
dato che il ricorrente, in Germania, non veniva tassato in
maniera peggiorativa rispetto ad un altro lavoratore in una
situazione analoga, non si può sostenere che egli sia vittima
di una discriminazione. Il fatto che la Germania non abbia
tassato un cittadino svizzero in una situazione analoga, di
per sé, non è motivo di discriminazione secondo la CGUE, in
quanto ciò, sarebbe stato unicamente il risultato dell’applicazione delle norme convenzionali per il riparto della potestà
impositiva. Il signor Bukovansky, in Germania, è stato dunque
tassato in applicazione delle regole ordinarie applicabili anche
ai residenti. Di conseguenza, secondo il ragionamento dalla
CGUE, non si può parlare di discriminazione. La CGUE ha
quindi ritenuto che le disposizioni della CDI-D non sono in
violazione delle disposizioni contro la discriminazione previste dall’ALC, in quanto, come detto, trattasi unicamente di
disposizioni che si limitano a ripartire le potestà impositive.
Sebbene tra i criteri previsti vi sia quello della nazionalità, ciò
non autorizza lo Stato con il diritto di imposizione primario, in
questo caso la Germania, a tassare in maniera peggiorativa
rispetto ad un altro contribuente in una situazione analoga,
ciò che effettivamente non è il caso.
4.
Considerazioni conclusive
Il caso in oggetto è stato deciso alla luce dei principi di non
discriminazione e di parità di trattamento, come previsto
dall’ALC e dal relativo Allegato. L’ALC (ed in particolare il suo
Allegato I) fa una distinzione tra il luogo di residenza, situata
nel territorio di una parte contraente, ed il luogo in cui viene
svolta l’attività dipendente, che deve svolgersi nel territorio
dell’altra parte contraente, a prescindere dalla nazionalità
della persona interessata. L’ALC risulta dunque applicabile al
contribuente in questione, siccome all’epoca dei fatti egli era
residente in Svizzera e lavorava in Germania. In questo senso,
il signor Bukovansky veniva qualificato come lavoratore transfrontaliero “all’inverso” ai fini dell’ALC, in quanto effettuava
tutti i giorni, o almeno una volta alla settimana, la spola tra il
suo luogo di residenza e quello del suo impiego[30].
Il merito di questa sentenza è di precisare che le disposizioni
delle CDI non sono influenzate dall’ALC. In particolare, l’obiettivo
di una CDI, come ad esempio quella siglata tra la Germania e la
Svizzera, è di evitare che lo stesso reddito sia tassato in entrambi
gli Stati. Il suo scopo infatti non è limitato a garantire che
l’imposta a cui il contribuente è soggetto in uno Stato non sia
superiore a quella a cui egli sarebbe soggetto nell’altro Stato[31].
Secondo la CGUE, il signor Bukovansky non è dunque svantaggiato rispetto ad un soggetto residente in Germania, siccome
l’imposta da lui pagata in Svizzera è stata accreditata in
Germania. Di conseguenza, la sua responsabilità fiscale effettiva non è stata violata[32].
Ne consegue che il diverso trattamento fiscale applicabile
nel caso specifico ad un cittadino tedesco rispetto ad un
37
38
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
cittadino svizzero è determinato dalla allocazione della sovranità fiscale tra Germania e Svizzera sulla base della CDI-D.
La CGUE ha dunque ritenuto che il diverso trattamento al
signor Bukovansky non è, nel caso di specie, né discriminatorio
né tantomeno in violazione della libertà delle persone[33].
Gli autori tengono infine a ricordare come la CGUE, sebbene
in situazioni diverse, si sia già espressa, come ad esempio nel
caso Manninen, sulla questione circa l’eguaglianza del sistema
di imputazione (in questo caso le imposte svizzere poste a
credito su quelle tedesche) e il sistema di esenzione (in questo
caso la Germania esenta il reddito, in quanto già imposto in un
altro Stato)[34]. In particolare, nel caso Manninen[35] sopracitato, la CGUE si riferì al sistema di imputazione, per giustificare
la necessità di preservare la coesione del sistema fiscale, nella
misura in cui lo Stato di residenza dell’azionista permettesse il
credito indiretto per le imposte societarie assolte dalla società
erogante il dividendo[36].
5.
Il parere ufficiale dell’avvocato generale
Preliminarmente, l’avvocato generale ha osservato che l’ALC
in questione è applicabile alla situazione del contribuente.
Riferendosi alla giurisprudenza costante, egli ha inoltre ricordato che è possibile che i cittadini di uno Stato contraente
possono anche rivendicare diritti ai sensi dell’ALC contro il
proprio Paese di origine e questo in determinate circostanze e
in conformità con le norme vigenti. Siccome il contribuente è
un cittadino tedesco e si qualifica come lavoratore frontaliero
dipendente, le disposizioni di cui all’articolo 2 e all’articolo 7
paragrafo 1 dell’Allegato I dell’ALC, possono essere invocate
nel caso specifico dal contribuente[37].
L’avvocato generale ha poi esaminato la questione concernente il rapporto tra l’ALC e la relativa CDI-D. In particolare,
l’avvocato generale ha rilevato che l’articolo 21 paragrafo 1
ALC deve essere interpretato in modo tale che le disposizioni
della CDI-D non siano influenzate dall’ALC[38].
L’avvocato generale ha inoltre respinto l’interpretazione dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC, secondo il quale l’ALC dovrebbe
prevalere su di una CDI. La Commissione aveva sostenuto che
gli Stati membri UE possono accordarsi sulla ripartizione dei
poteri impositivi in accordi bilaterali di tassazione, ma questo
non significa, secondo l’avvocato generale, che gli Stati membri
hanno il diritto di imporre misure contrarie alle libertà garantite dal diritto dell’UE. Per quanto riguarda l’esercizio del potere
impositivo così ripartito con una CDI, gli Stati membri devono
rispettare il diritto comunitario e, in particolare, rispettare il
principio del trattamento nazionale per i propri cittadini che si
sono avvalsi delle libertà garantite dal diritto dell’UE. L’articolo
21 paragrafo 1 ALC non rilascia gli Stati membri da tale obbligo.
L’articolo 21 paragrafo 1 ALC sarebbe diventato inoltre privo
di significato se fosse stato interpretato nel senso che gli Stati
membri UE concordassero tra di loro regole che contraddicono
l’ALC in CDI[39].
L’avvocato generale ha osservato che l’ALC, essendo un trattato internazionale, deve essere interpretato in buona fede
seguendo il senso ordinario da attribuire ai suoi termini nel
loro contesto e alla luce del suo oggetto e scopo. Per quanto
riguarda in particolare la formulazione dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC, l’avvocato generale ha rilevato che la disposizione
deve essere interpretata come una deroga esplicita incondizionata per quanto riguarda l’applicazione dell’ALC in vista di
accordi bilaterali tra la Svizzera e gli Stati membri dell’UE[40].
A sostegno di questa tesi, l’avvocato generale ha rilevato inoltre
che l’articolo 22 ALC, che riguarda la relazione tra l’ALC ed
altri accordi bilaterali in settori diversi dalla sicurezza sociale
e la doppia imposizione, prevede una diversa formulazione.
L’articolo 22 ALC prevede infatti che le disposizioni dell’ALC non
pregiudicano altri accordi bilaterali, nella misura in cui sono
compatibili con l’ALC stesso. L’avvocato generale, in tal modo,
ha rilevato che se ci fosse stata l’intenzione di dare priorità
dell’ALC sulle norme convenzionali, l’articolo 21 paragrafo 1 ALC
sarebbe stato formulato in modo simile all’articolo 22 ALC[41].
L’avvocato generale, di conseguenza, ha rilevato che l’articolo
21 paragrafo 1 ALC deve essere interpretato in modo tale che
le disposizioni della CDI-D rimangono inalterate dall’ALC. Egli
ha di conseguenza ritenuto che l’articolo 21 paragrafo 1 ALC
non osta ad una disposizione contenuta nell’articolo 4 paragrafo 4 CDI-D[42].
In subordine, qualora la CGUE non seguisse le conclusioni
dell’avvocato generale per quanto riguarda l’interpretazione
dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC, l’avvocato generale ha analizzato la compatibilità dell’articolo 4 paragrafo 4 CDI-D con le
disposizioni dell’ALC[43].
L’avvocato generale, ha in particolare rilevato che l’articolo 4
paragrafo 4 CDI-D sia compatibile con le disposizioni dell’ALC.
Egli ha osservato che l’articolo 9 dell’Allegato I dell’ALC riguarda
solo il caso di discriminazione in base alla cittadinanza nei
confronti di un nazionale di una parte contraente nel territorio
di un’altra parte contraente. In altre parole, la Germania non
può discriminare i cittadini svizzeri rispetto ai cittadini tedeschi.
Il contribuente, però, essendo un cittadino tedesco, riceve nel
caso di specie un trattamento nazionale in Germania. Pertanto,
l’avvocato generale ha ritenuto che l’articolo 9 dell’Allegato I
dell’ALC non è stato violato. Per la stessa ragione, egli ha rilevato che non vi è stata alcuna violazione della clausola generale
di non discriminazione di cui all’articolo 2 ALC[44].
Elenco delle fonti fotografiche:
h t t p : // e u i c c- k s . c o m / w p - c o n t e n t / u p l o a d s / 2 0 1 6 / 0 3 / a r t i c l e 2637413-1e24078b00000578-482_634x402.jpg [30.09.2016]
Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016
[1]Treaty of Amsterdam amending the Treaty
on European Union, the Treaties establishing the
European Communities and certain related acts,
as signed in Amsterdam on 2 October 1997.
[2]de Goede Jan, European Integration and Tax
Law, in: European Taxation, June 2003, IBFD,
Amsterdam, pagina 203.
[3] Treaty of Nice amending the Treaty on European Union, the Treaties establishing the European
Communities and certain related acts.
[4]Treaty of Lisbon amending the Treaty on
European Union and the Treaty establishing the
European Community, signed at Lisbon on 13
December 2007.
[5]Dürrschmidt Daniel, Tax Treaties and MostFavoured-Nation Treatment, particularly within
the European Union, in: IBFD Bulletin, May 2006,
pagina 204.
[6] Sentenza CGUE, Commission v. France (“Avoir
Fiscal”) (1986), in: ECR 273, paragrafo 13.
[7]HJI Panaayi Christiana, The Fundamental
Freedoms and Third Countries: Recent Perspectives, in: European Taxation, November 2008, IBFD,
Amsterdam, pagina 582.
[8] Englamair Vanessa E., The Relevance of the Fundamental Freedoms for Direct Taxation, in: Lang
Michael/Pistone Pasquale/Schuch Josef/Staringer
Claus, Introduction to European Tax Law on Direct
Taxation, 2nd edition, Linde (Vienna), pagina 43.
[9] Con riferimento alle relazioni cross-border con i
Paesi non UE, ma aderenti allo Spazio Economico
Europeo valgono considerazioni diverse. Questo
articolo non entra in questo ambito.
[10]Le procedure in corso sono consultabili in:
http://ec.europa.eu/taxation_customs/common/
infringements/infringement_cases/bycountry/
index_en.htm [30.09.2016].
[11]Dourado Ana Paula, The Interpretation of
Direct Taxation Issues by the ECJ, The Meaning and
Scope of the Acte Clair Doctrine, 2008.
[12] Englamair Vanessa E., op. cit., pagine 44-45.
[13]Sono considerate tali la coesione del sistema tributario, territorialità delle imposte, norme
anti-abuso, effettività della supervisione fiscale,
neutralizzazione operata dall’altro Stato, ripartizione dei diritti impositivi tra gli Stati.
[14] Sono considerate tali: norme anti-abuso, prevenzione dal doppio utilizzo di perdite, ripartizione
dei diritti impositivi tra gli Stati.
[15]Sono considerate tali: mancata armonizzazione, difficoltà ad ottenere informazioni, perdita
di gettito fiscale, compensazione con un vantaggio fiscale ottenuto nell’altro Stato.
[16]Jung Marcel R., The Switzerland-EC Agreement on the Free Movement of Persons: Measures
Equivalent to Those in the EC Treaty – A Swiss
Income Tax Perspective, in: European Taxation,
November 2007, IBFD, Amsterdam, pagina 509.
[17]EU Update, European Taxation 04/2016,
pagina 12.
[18]“Le persone fisiche che non hanno né il domicilio né
la residenza abituale in Germania, fatti salvi i paragrafi
2 e 3, e l’articolo 1a, sono assoggettate parzialmente all’imposta sul reddito qualora percepiscano redditi
nazionali ai sensi dell’articolo 49”.
[19]“Costituiscono redditi nazionali ai fini dell’assoggettamento parziale all’imposta sul reddito (articolo
1, paragrafo 4): i redditi da lavoro dipendente (articolo
19) a) svolto in Germania ovvero i cui redditi siano Stati
percepiti in Germania, […] c) percepiti come remunerazione di un’attività di amministratore, di procuratore o di
membro del consiglio di amministrazione di una società
la cui amministrazione ha sede in Germania, […]”.
[20] “Trattandosi di una persona fisica residente della Svizzera, ma che non ha la cittadinanza svizzera
e che nella Repubblica federale di Germania è stata
assoggettata illimitatamente almeno per cinque anni
complessivamente, la Repubblica federale di Germania
può tassarla nell’anno in cui ha preso fine per l’ultima
volta l’obbligazione fiscale illimitata, e nei cinque anni
successivi, per i redditi provenienti dalla Repubblica
federale di Germania e per gli elementi di sostanza situati nella Repubblica federale di Germania, nonostante le
altre disposizioni della presente convenzione. Non viene
pregiudicata l’imposizione in Svizzera, conformemente
alla presente convenzione, di questi redditi o elementi di
sostanza. Tuttavia, la Repubblica federale di Germania,
in applicazione analogica della legislazione germanica
quanto al computo delle imposte straniere, computa
l’imposta svizzera riscossa su questi redditi o elementi di
sostanza in conformità della presente convenzione sulla
parte dell’imposta germanica (ad eccezione dell’imposta
sulle imprese) che, in base a questa disposizione, viene
riscossa su questi proventi o elementi di sostanza in più
dell’imposta germanica che li colpirebbe giusta le disposizioni degli articoli da 6 a 22. Le disposizioni di questo
paragrafo non si applicano quando la persona fisica è
divenuta residente della Svizzera per svolgervi un’attività veramente dipendente per conto di un datore di lavoro
al quale, oltre il rapporto di servizio, non è legata da un
interesse economico essenziale, né direttamente né indirettamente, mediante partecipazione o in altro modo”.
[21] De Angelis Andrea, Il reddito è tassato nello
Stato di residenza per i transfrontalieri, 20 novembre 2015, in: FiscoOggi.it, http://www.fiscooggi.
it/giurisprudenza/articolo/reddito-e-tassato-nello-statodi-residenza-transfrontalieri?quicktabs_3=2
[30.09.2016].
[22] De Angelis Andrea, op. cit.
[23]“In conformità delle disposizioni degli allegati I, II
e III del presente Accordo, i cittadini di una parte contraente che soggiornano legalmente sul territorio di
un’altra parte contraente non sono oggetto, nell’applicazione di dette disposizioni, di alcuna discriminazione
fondata sulla nazionalità”.
[24]“Il lavoratore dipendente cittadino di una parte contraente non può ricevere sul territorio dell’altra
parte contraente, a motivo della propria cittadinanza,
un trattamento diverso da quello riservato ai lavoratori
dipendenti nazionali per quanto riguarda le condizioni di
impiego e di lavoro, in particolare di retribuzioni, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento
se disoccupato”.
[25] De Angelis Andrea, op. cit.
[26]“Il lavoratore dipendente frontaliero è un cittadino di una parte contraente che ha la sua residenza sul
territorio di una parte contraente e che esercita un’attività retribuita sul territorio dell’altra parte contraente e
ritorna al luogo del proprio domicilio di norma ogni giorno, o almeno una volta alla settimana”.
[27]“Le disposizioni del presente Accordo lasciano
impregiudicate le disposizioni degli accordi bilaterali tra
la Svizzera egli Stati Membri della Comunità europea in
materia di doppia imposizione. In particolare, le disposizioni del presente Accordo non devono incidere sulla
definizione di lavoratore frontaliero secondo gli accordi
di doppia imposizione”.
[28] L’ALC mira, conformemente al suo articolo 1,
lettere a e d, a conferire, a favore dei cittadini degli
Stati membri UE e della Confederazione svizzera,
un diritto di ingresso, di soggiorno, di accesso a
un’attività economica dipendente, di stabilimento
quale lavoratore autonomo e il diritto di rimanere sul territorio delle parti contraenti, nonché a
garantire le stesse condizioni di vita, di occupazione e di lavoro di cui godono i cittadini nazionali.
[29]“Nella misura in cui l’applicazione del presente
Accordo implica nozioni di diritto comunitario, si terrà
conto della giurisprudenza pertinente della Corte di giustizia delle Comunità europee precedente alla data della sua
firma. La giurisprudenza della Corte successiva alla firma
del presente Accordo verrà comunicata alla Svizzera […]”.
[30]EU Update, European Taxation 04/2016,
pagina 12.
[31]EU Update, European Taxation 04/2016,
pagina 12.
[32]EU Update, European Taxation 04/2016,
pagina 12.
[33]EU Update, European Taxation 04/2016,
pagina 12.
[34]Sentenza CGUE C-319/02 del 7 settembre
2003, in: ECR 2004, I-7477.
[35]Sentenza CGUE C-319/02 del 7 settembre
2003, in: ECR 2004, I-7477.
[36]Rust Alexander, CFC legislation and EC law,
36 Intertax 11, 2008, pagine 492-501, pagina 495.
[37]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[38]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[39]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[40]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[41]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[42]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[43]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagina 39.
[44]EU Update, European Taxation 09/2015,
pagine 39-40.
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