www.novitafiscali.supsi.ch Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale Centro competenze tributarie Novità fiscali L’attualità del diritto tributario svizzero e internazionale N° 10 – ottobre 2016 Politica fiscale Tassa sul matrimonio: la proposta di Berna non piace ai Cantoni Le imposte alla fonte e le deduzioni sociali Diritto tributario svizzero Il Ticino semplifica il suo sistema di imposizione delle lotterie e manifestazioni analoghe Leasing: attrattiva modalità di finanziamento Diritto tributario italiano Il trasferimento di imprese commerciali in Italia Prima lettura del nuovo abuso del diritto IVA e imposte indirette Quel pomo della discordia chiamato tassa di collegamento Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano La tempestività dell’eccezione e la validità dell’atto firmato dal dirigente illegittimo Rassegna di giurisprudenza di diritto dell’UE Caso Bukovansky: quale relazione tra libera circolazione e norme convenzionali? Offerta formativa Seminari e corsi di diritto tributario 3 5 7 11 14 23 27 30 34 40 Introduzione Novità fiscali 10/2016 Redazione SUPSI Centro di competenze tributarie Palazzo E 6928 Manno T +41 58 666 61 75 F +41 58 666 61 76 [email protected] www.novitafiscali.supsi.ch ISSN 2235-4565 (Print) ISSN 2235-4573 (Online) Redattore responsabile Samuele Vorpe Comitato redazionale Flavio Amadò Elisa Antonini Paolo Arginelli Sacha Cattelan Rocco Filippini Roberto Franzè Simona Genini Marco Greggi Giordano Macchi Giovanni Molo Andrea Pedroli Sabina Rigozzi Curzio Toffoli Samuele Vorpe Impaginazione e layout Laboratorio cultura visiva Questo numero di NF tocca diversi temi di grande attualità e si presenta, dunque, come un numero “trasversale”, nella migliore tradizione della rivista. Samuele Vorpe si occupa in ambito di politica fiscale di “tassa sul matrimonio” e di imposta alla fonte. La sezione di diritto tributario svizzero tocca due temi tecnici in cerca di chiarezza, ossia l’imposizione delle lotterie e manifestazioni analoghe, la quale è stata oggetto di una recente modifica normativa, commentata in questo numero da Anna Maestrini; ed il trattamento dei contratti di leasing ai fini delle imposte dirette, federali e cantonali, oggetto dell’articolo di Gianfranco Franzi. La sezione di diritto tributario italiano è dedicata a due temi. Il primo articolo tratta delle conseguenze fiscali del trasferimento in Italia di imprese commerciali residenti o localizzate all’estero, il quale è stato l’oggetto di un’importante novella legislativa nel corso del 2015. Mauro Manca torna a scrivere per le colonne della Rivista con una precisa analisi critica di tale nuova disciplina. Il secondo articolo, a firma di Gianluigi Bizioli, esamina la nuova disciplina italiana sull’abuso del diritto, contenuta nell’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Elisa Antonini affronta poi uno dei temi politicamente più dibattuti degli ultimi anni nel Cantone Ticino, la tassa di collegamento, analizzandone gli impatti in termini di IVA e di imposte dirette. Tornando sul lato italiano del confine, Emilio de Santis si occupa dello spinoso problema della validità degli atti tributari firmati da dirigenti illegittimi dell’Amministrazione finanziaria, analizzando alcune recenti pronuncie di merito e di legittimità. Infine, Federico Zari Malacrida e Martino Pinelli commentano la sentenza pronunciata dalla CGUE nella causa C-241/14, Bukovansky, concernente l’applicazione dell’Accordo tra l’UE e la Confederazione svizzera sulla libera circolazione delle persone e la relazione tra il detto Accordo e le convenzioni bilaterali volte a prevenire la doppia imposizione. Enjoy! Paolo Arginelli Politica fiscale Tassa sul matrimonio: la proposta di Berna non piace ai Cantoni Samuele Vorpe Responsabile del Centro di competenze tributarie della SUPSI Nuovo tentativo da parte del Consiglio federale per sopprimere la disparità fiscale tra coniugi e coppie di conviventi. Che sia la volta buona? Il 28 febbraio scorso venne respinta di strettissima misura l’iniziativa popolare federale del PPD “Per il matrimonio e la famiglia” che voleva iscrivere nella Costituzione federale (di seguito Cost.) il divieto di discriminare, dal profilo fiscale, l’imposizione dei coniugi rispetto alle coppie conviventi. Probabilmente il motivo principale per il quale il testo venne respinto, soprattutto nei maggiori centri urbani, era da ricondurre alla volontà degli iniziativisti di codificare nella Costituzione il matrimonio quale unione durevole tra un uomo e una donna, escludendo di fatto le coppie omosessuali. Articolo pubblicato il 18.10.2016 sul Giornale del Popolo di presentare entro fine marzo 2017 un disegno di legge che preveda di eliminare (finalmente!) la penalizzazione fiscale dei coniugi nell’ambito dell’imposta federale diretta. Tuttavia, se l’obiettivo è senz’altro condivisibile, lo strumento per raggiungerlo è invece discutibile. Il Consiglio federale vorrebbe introdurre il modello della “tariffa multipla con calcolo alternativo dell’imposta”, il quale fu già oggetto di critiche qualche anno fa, più precisamente nel 2012, in sede di consultazione tra le cerchie interessate, tanto che il Consiglio federale prontamente decise di rinunciare al progetto di legge. Ora, sembra che questa esperienza negativa non abbia insegnato nulla all’esecutivo che ripropone questo sistema per ridurre le minori entrate rispetto ad altri modelli, quali per esempio la doppia tariffa (in uso in Ticino) oppure il metodo dello splitting (in uso in molti Cantoni). Ma come si applica questo modello? In sintesi, oltre al calcolo ordinario dell’imposta dei coniugi (sistema oggi in uso), l’autorità fiscale è tenuta ad effettuare un ulteriore calcolo alternativo improntato sull’imposizione delle coppie non sposate. Ai coniugi viene quindi fatturato l’importo in franchi più basso. L’iniziativa aveva il merito di lanciare un forte segnale al Parlamento federale per eliminare, dopo più di 30 anni dalla sentenza “Hegetschweiler” del Tribunale federale, la discriminazione nell’imposizione tra coppie sposate e coppie conviventi ai fini dell’imposta federale diretta. Infatti, due persone, per il semplice motivo di essersi sposate, pagano ancora oggi sino all’80% in più di imposta federale diretta, rispetto a due persone che si trovano nella stessa situazione, ma che non hanno contratto il vincolo del matrimonio. Per contro, i Cantoni per evitare ricorsi al Tribunale federale hanno eliminato tali disparità. Tuttavia, per l’Alta Corte la Legge federale sull’imposta federale diretta (LIFD), che statuisce questa disparità di trattamento, contraria ai principi costituzionali, è determinante ai sensi dell’articolo 190 Cost. Preso atto della votazione popolare, il Consiglio federale ha quindi deciso di incaricare il Dipartimento federale delle finanze La risposta della Conferenza dei direttori cantonali delle finanze (di seguito CDCF) non si è fatta attendere. Con un comunicato del 23 settembre ha categoricamente respinto il progetto del Consiglio federale, ma non perché contraria all’obiettivo della riforma, bensì perché, come allora del resto (era il 25 gennaio 2013), ritiene lo strumento del calcolo alternativo totalmente inappropriato. Secondo i ministri delle finanze cantonali questo sistema invece di semplificare il diritto fiscale, lo complica ulteriormente e comporta per i Cantoni dei carichi amministrativi sproporzionati. Sono infatti le autorità fiscali cantonali a dover riscuotere l’imposta federale diretta. Se, come osserva la CDCF, “la Confederazione emana principi per armonizzare le imposte dirette federali, cantonali e comunali; prende in considerazione gli sforzi d’armonizzazione dei Cantoni” (articolo 129 capoverso 1 Cost.), allora essa dovrebbe cercare di applicare il sistema che sia maggiormente utilizzato dai Cantoni, quali il metodo della doppia tariffa o dello splitting per eliminare la cosiddetta “tassa sul matrimonio”. 3 4 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 Se, come è probabile, il Consiglio federale non volesse cambiare la sua rotta, anche questo ennesimo tentativo di eliminare la discriminazione fiscale sarà stato del tutto inutile. Per maggiori informazioni: CDCF, La CDF rejette le calcul alternatif de l’impôt pour supprimer la pénalisation des couples mariés, Comunicato stampa del 23 settembre 2016, in: http://www.fdk-cdf.ch/-/media/FDK_CDF/Dokumente/Themen/ Steuerpolitik/Familien_und_Paarbesteuerung/160923_altBelRech_MM_ DEF.pdf?la=fr-CH [18.10.2016] Consiglio federale, Il Consiglio federale è favorevole al calcolo alternativo dell’imposta per eliminare la penalizzazione fiscale dei coniugi, Comunicato stampa del 31 agosto 2016, in: https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-63593.html [18.10.2016] Elenco delle fonti fotografiche: https://www.lexwiki.ch/wp-content/uploads/2015/06/heiratsstrafe.jpg [18.10.2016] Politica fiscale Le imposte alla fonte e le deduzioni sociali Samuele Vorpe Responsabile del Centro di competenze tributarie della SUPSI La revisione dell’imposizione alla fonte del reddito da attività lucrativa attualmente discussa alle Camere federali prevede la codificazione nel diritto fiscale svizzero della nozione di “quasi residente”. Alla luce di questa modifica legislativa si giustifica ancora la deduzione sociale per il non residente che viene imposto alla fonte sul reddito da attività lucrativa? 1. L’attuale sistema giuridico concernente l’imposta alla fonte in Svizzera Le persone residenti all’estero che svolgono un’attività lucrativa dipendente in Svizzera (cosiddetti “lavoratori frontalieri”) devono pagare un’imposta alla fonte sul reddito del lavoro qui conseguito (articoli 4 capoverso 2 della Legge federale sull’armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni [di seguito LAID], 5 capoverso 1 lettera a della Legge federale sull’imposta federale diretta [di seguito LIFD] e 4 capoverso 1 lettera a della Legge tributaria del Canton Ticino [di seguito LT]). Articolo pubblicato il 12.10.2016 sul Corriere del Ticino (articolo 33 LAID). Per esempio per le spese professionali (spese di trasporto, per pasti fuori domicilio e per le altre spese necessarie alla professione) il Ticino riconosce forfettariamente un importo di franchi 5’800 per frontalieri con rientro giornaliero con un solo reddito e di franchi 10’600 per frontalieri con rientro giornaliero coniugati con doppio reddito. Per ogni figlio a carico, l’ammontare della deduzione è pari a franchi 11’100. Altre deduzioni sono di principio non ammesse per legge (ad eccezione per esempio dei contributi al terzo pilastro A). 2. L’attuale revisione del sistema di imposta alla fonte per i redditi da attività lucrativa dipendente Alle Camere federali si sta attualmente dibattendo sulla revisione dell’imposta alla fonte per i redditi da attività lucrativa dipendente. Questa esigenza è dettata da una sentenza del 26 gennaio 2010, secondo la quale l’Alta Corte ha rilevato che il sistema svizzero di imposta alla fonte viola, in determinati casi, l’Accordo sulla libera circolazione delle persone che la Svizzera ha concluso con l’Unione europea (di seguito UE). Il sistema di imposizione alla fonte prevede, per delle esigenze di praticabilità, soluzioni semplici e schematiche nelle quali le circostanze individuali dei contribuenti sono considerate solo limitatamente. L’imposta alla fonte si sostituisce alle imposte ordinarie (federale, cantonale e comunale, articolo 33 LAID, articolo 106 LT). Seguendo il principio della praticabilità, sulla base degli articoli 33 capoverso 3 LAID, 106 capoverso 1 LIFD e 107 capoverso 1 LT, le aliquote d’imposta alla fonte tengono conto, in forma forfettaria, delle spese professionali e dei premi di assicurazione, nonché della deduzione sociale per figli a carico o in formazione. Per i coniugi, che vivono in comunione domestica e che esercitano entrambi un’attività lucrativa in Svizzera, si applica il principio del cumulo dei redditi per la determinazione dell’aliquota, nonché è concessa loro la deduzione per doppi redditi. Le disposizioni riguardanti la tassazione alla fonte sono vincolanti per i Cantoni sulla base del diritto federale superiore Secondo il Tribunale federale le persone assoggettate all’imposta alla fonte, che non sono fiscalmente residenti in Svizzera, ma che nel nostro Paese conseguono oltre il 90% dei loro proventi mondiali (cosiddetti “quasi residenti”), devono aver diritto alle medesime disposizioni fiscali applicabili alle persone che, in Svizzera, sono assoggettate ad imposta in 5 6 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 maniera ordinaria. Si pensi per esempio al diritto alle deduzioni per le spese effettive di trasporto dal domicilio al luogo di lavoro, per gli interessi passivi e alle deduzioni per la cura prestata da terze persone ai propri figli, eccetera. Siccome lo Stato di residenza non può prendere in considerazione la loro situazione personale e familiare perché non ci sono sufficienti redditi imponibili, spetta alla Svizzera considerarli come “quasi residenti”, riconoscendo loro una tassazione ordinaria. 3. La deduzione per oneri familiari secondo la LAID Come sopra indicato, l’articolo 33 capoverso 3 LAID vincola i Cantoni a considerare nella determinazione dell’aliquota dell’imposta alla fonte una spesa per oneri familiari del non residente in Svizzera sulla base delle disposizioni indicate all’articolo 9 capoverso 4 LAID che lasciano ai Cantoni la competenza di decidere che tipo e che importo di deduzione sociale accordare. Nel Canton Ticino, per quanto attiene l’imposta cantonale, significa pertanto accordare per ogni figlio minorenne, a tirocinio o agli studi fino al 28.mo anno di età, al cui sostentamento il contribuente provvede, una deduzione sociale di franchi 11’100. viene considerato “quasi residente” perché non raggiunge la citata soglia del 75%, nel calcolo dell’imposta alla fonte non ha diritto, diversamente da quanto accade in Svizzera, di beneficiare delle detrazioni degli oneri familiari. 5. Gettito fiscale Una modifica del diritto federale, e più in particolare degli articoli 33 capoverso 3 LAID e 86 capoverso 1 LIFD, da un profilo del gettito fiscale potrebbe consentire al Ticino, ma anche agli altri Cantoni, soprattutto di frontiera, di aumentare le entrate finanziarie dell’imposta alla fonte. Per maggiori informazioni: Consiglio federale, Messaggio concernente la legge federale sulla revisione dell’imposizione alla fonte del reddito da attività lucrativa, n. 14.093, del 28 novembre 2014, in: Foglio federale 2014, pagina 603 e seguenti, https:// www.admin.ch/opc/it/federal-gazette/2015/603.pdf [18.10.2016] Vorpe Samuele/Arginelli Paolo/Altenburger Peter R., Die Besteuerung der “Quasi-Ansässigen” in der Schweiz Kritische Würdigung, in: ASA 83, pagina 625 e seguenti, in particolare pagina 658 e seguente, http://www.supsi.ch/ Ora, se la volontà del legislatore federale è quella di codificare nella legge (LAID e LIFD) una definizione di “quasi residente”, è opportuno chiedersi se sia ancora equo concedere ai non residenti le deduzioni sociali poiché, conformemente alle indicazioni della Corte di Giustizia dell’UE (si veda la sentenza Schumacker) e del Tribunale federale nel caso di Ginevra queste sono già di fatto considerate dallo Stato di residenza. Perché allora le dovrebbe considerare anche lo Stato che assoggetta solo il reddito del lavoro? La soluzione di riconoscere la deduzione sociale ai soli residenti e ai “quasi residenti” risulta pertanto più corretta rispetto alla situazione attuale. Per contro, per coloro che non raggiungono tale soglia non vi è una discriminazione ai sensi dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone in quanto lo Stato di residenza dispone di sufficienti redditi per considerare la situazione personale e familiare del lavoratore. Pertanto la situazione giuridica attuale per i lavoratori dipendenti in Svizzera che non rientrano nella categoria dei “quasi residenti” è fiscalmente favorevole poiché possono beneficiare sia in Svizzera sia nello Stato di residenza delle deduzioni sociali. D’altro canto, ai non residenti che conseguono un reddito da attività lucrativa in Svizzera sarebbe certamente più sensato riconoscere unicamente le spese organiche, ovvero le spese di conseguimento del reddito. 4. E in Italia che succede? Ai sensi dell’articolo 24, comma 3-bis del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) (introdotto dalla legge del 30 ottobre 2014, n. 161), i contribuenti che, pur conservando la residenza fiscale all’estero, producono in Italia almeno il 75% del loro reddito complessivo, possono godere delle deduzioni e detrazioni fiscali in forma completa, analogamente a quanto previsto per i soggetti residenti. Pertanto un residente in Svizzera che lavora in Italia a titolo dipendente, che non fisco/dms/fisco/docs/pubblicazioni/articoli/Vorpe-Arginelli-Altenburger.pdf [18.10.2016] Elenco delle fonti fotografiche: http://w w w.labissa.com/images/2014-05/Frontalieri-dogana-11.jpg [18.10.2016] Diritto tributario svizzero Il Ticino semplifica il suo sistema di imposizione delle lotterie e manifestazioni analoghe Anna Maestrini Avvocato, MAS SUPSI in Tax Law Vicedirettrice della Divisione delle contribuzioni, Bellinzona Una revisione dagli indubbi vantaggi per l’amministrazione fiscale, gli organizzatori e i contribuenti. Con l’introduzione del limite di esenzione fino a 1’000 franchi, dal 2016 il Cantone si è adeguato alla normativa federale: resta salda l’imposizione tramite un’imposta annua intera 1. Breve istoriato La semplificazione dell’imposizione dei proventi da lotterie, sia a livello federale che cantonale, trae le sue origini da una iniziativa parlamentare risalente all’anno 2009 in cui il consigliere agli Stati Paul Niederberger chiedeva in sostanza due importanti modifiche del sistema[1]: ◆◆ l’introduzione di un limite di esenzione pari ad almeno 1’000 franchi per ogni singola vincita; ◆◆ l’introduzione di un sistema che permettesse di stabilire in maniera forfetaria il costo delle giocate deducibili fiscalmente. Rileviamo in particolar modo come, a quei tempi, il diritto federale non prevedesse nessun importo esente o limite di esenzione per quanto concerneva le imposte federali dirette e un limite di esenzione pari a soli 50 franchi per quanto concerneva il prelievo dell’imposta preventiva. L’iniziativa venne accolta favorevolmente da Governo e Camere federali, osservando come il limite di esenzione di 50 franchi per l’imposta preventiva, in vigore dal lontano 1945 e mai aggiornato, creasse un onere amministrativo per gli organizzatori di lotterie e manifestazioni analoghe e per le amministrazioni cantonali piuttosto elevato e sproporzionato rispetto alle effettive entrate derivanti da questa tipologia di vincite [2]. 2. La nuova soluzione a livello federale Il risultato di queste valutazioni si è poi concretizzato con la Legge federale concernente le semplificazioni nell’imposizione delle vincite alle lotterie del 15 giugno 2012[3] , entrata in vigore in due tappe progressive: Disclaimer: Le considerazioni del presente contributo sono espresse a titolo personale e non vincolano in nessun modo la Divisione delle contribuzioni. a) il 1. gennaio 2013 è entrata in vigore la modifica dell’articolo 6 capoverso 1 della Legge federale sull’imposta preventiva (di seguito LIP). È prevista l’esenzione dal prelievo dell’imposta preventiva (di seguito IP) per i premi in denaro derivanti da vincite alle lotterie che non superano i 1’000 franchi; b) il 1. gennaio 2014 sono entrate in vigore le modifiche riguardanti la Legge federale sull’armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni (di seguito LAID) e la Legge federale sull’imposta federale diretta (di seguito LIFD), le quali possono essere sintetizzate come segue: ◆◆ introduzione di un limite di esenzione dall’imposta sul reddito per le singole vincite a lotterie e a manifestazioni analoghe che non superano i 1’000 franchi (articoli 23 lettera e e 24 lettera j LIFD); ◆◆ introduzione di un costo delle poste giocate deducibile pari al 5% della vincita lorda, ma al massimo 5’000 franchi (articolo 33 capoverso 4 LIFD); ◆◆ esclusione del cumulo delle singole vincite durante l’anno, a fini impositivi, che non superano il limite di esenzione fissato a 1’000 franchi; ◆◆ obbligo per i Cantoni entro il 1. gennaio 2016 di introdurre un limite di esenzione per singola vincita sino a concorrenza di un ammontare determinato dal diritto cantonale (articoli 7 capoverso 4 lettera m e 72p capoverso 1 LAID); ◆◆ obbligo per i Cantoni entro il 1. gennaio 2016 di introdurre un costo deducibile sulle poste giocate pari a una percentuale delle singole vincite a lotterie e manifestazioni analoghe e con la possibilità di prevedere un importo massimo deducibile (articoli 9 capoverso 2 lettera n e 72p capoverso 1 LAID). 3. La definizione di lotterie e manifestazioni analoghe Non intendo dilungarmi troppo sulla definizione di lotterie e manifestazioni analoghe che sono imposte secondo il sistema illustrato precedentemente; tanto più che tale definizione è già stata oggetto di attenta disamina da autori che mi hanno preceduta[4]. Gli elementi principali che caratterizzano i proventi da lotterie sono sostanzialmente i seguenti: 7 8 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 ◆◆ il provento non deriva in maniera preponderante dalla destrezza e abilità del giocatore (per esempio: giochi a quiz) ma da un procedimento fortuito (per esempio: SportToto, Toto X, Bingo, lotto a numeri, eccetera); ◆◆ l’operazione non si svolge gratuitamente ma contro versamento di una posta (per esempio: acquisto di un biglietto della lotteria) o a dipendenza di un contratto a titolo oneroso (per esempio: acquisto di merce o abbonamento a un giornale); ◆◆ il provento non proviene da una casa da gioco riconosciuta ai sensi della corrispondente legge. È importante delimitare questi proventi rispetto ad altre tipologie di gioco, in quanto le conseguenze fiscali che ne derivano possono essere sostanzialmente diverse, come vedremo, in special modo a livello cantonale. Cominciamo a rammentare che: ◆◆ i proventi derivanti dai giochi di azzardo ai sensi della Legge federale del 18 dicembre 1998 sulle case da gioco[5] risultano esenti giusta gli articoli 24 lettera i LIFD e 23 lettera i della Legge tributaria ticinese (di seguito LT); ◆◆ i proventi derivanti da giochi ove la destrezza e abilità del giocatore è preponderante sono, di regola, ordinariamente imponibili (articoli 16 capoverso 1 LIFD e 15 capoverso 1 LT)[6]. 4. La nuova soluzione a livello cantonale Fino alla fine del 2015, il Canton Ticino applicava il metodo dell’esenzione dall’imposta per le vincite da lotterie che complessivamente risultavano inferiori a 1’000 franchi (previgente articolo 36 capoverso 2 LT) nel corso dello stesso anno fiscale. Il predetto limite di esenzione si riferiva pertanto al cumulo delle vincite realizzate durante l’anno e non alla singola vincita. Inoltre, il Ticino non prevedeva alcuna deduzione dei costi sopportati per le giocate. Il Ticino ha deciso ora di adeguare la propria legislazione alla nuova normativa federale, introducendo il limite di esenzione per ogni singola vincita sino a 1’000 franchi (articoli 22 lettera e e 23 lettera j LT), nonché prevedendo una deduzione forfetaria pari al 5% calcolata sul lordo di ogni singola vincita e considerato un massimo di 5’000 franchi per vincita (articolo 36 capoverso 1a LT). Le singole vincite nel corso di un anno fiscale che non superano il limite di esenzione non sono cumulabili e rimangono esenti. Il nostro Cantone ha però mantenuto una sua peculiarità (e di pochi altri Cantoni) che consiste nel continuare, anche dopo il 1. gennaio 2016, a imporre tali proventi da lotterie o manifestazioni analoghe tramite un’imposta annua intera, con un’aliquota pari a quella applicata ai coniugi in comunione domestica ma con un minimo pari al 5% (articolo 36 capoverso 2 LT). Ciò, contrariamente a quanto stabilito a livello federale ove tali proventi sono imposti ordinariamente con i restanti redditi. In questo modo si evita di penalizzare troppo il contribuente, in quanto tale reddito “straordinario” non va a influenzare l’aliquota applicabile ai suoi redditi ordinari annuali. Ecco, qui di seguito, un caso concreto che illustra la situazione attuale. Esempio: nel gennaio 2016 il fortunato Signor X ha conseguito al lotto svizzero ben due vincite, rispettivamente di 800 e di 300 franchi. Nel mese di aprile dello stesso anno, egli consegue un’altra vincita pari a 200’000 franchi. Nel corrente anno, il Signor X ha speso 1’000 franchi in acquisti di biglietti del lotto che non hanno comportato alcuna vincita. La prestazione imponibile ai fini dell’imposta federale diretta e dell’imposta cantonale è calcolata come segue: ◆◆ le singole vincite di 800, rispettivamente, di 300 franchi, rientrano nel limite di esenzione e non vengono imposte. Si applica il principio dell’esclusione del cumulo delle vincite che non superano singolarmente i 1’000 franchi; ◆◆ la terza vincita è invece imponibile. Si applica la deduzione forfetaria dei costi del 5% con un massimo di 5’000 franchi. Le spese effettive di 1’000 franchi non sono considerate. Di conseguenza il reddito netto è pari a 200’000 meno 5’000, ovvero a 195’000 franchi; ◆◆ ai fini federali la vincita viene imposta unitamente agli altri redditi, mentre ai fini cantonali viene imposta separatamente con imposta annua intera (aliquota dell’articolo 35 capoverso 2 LT relativo ai coniugi e alle famiglie monoparentali, ritenuto un minimo del 5%); ◆◆ di regola, per il rimborso IP la vincita verrà indicata nella dichiarazione di imposta relativa all’anno fiscale 2016 e presentata nel corso del 2017. A tal riguardo, l’autorità fiscale invita il fortunato contribuente a compilare il Modulo 239 disponibile sul sito internet della Divisione delle contribuzioni, nel capitolo dedicato alla Dichiarazione delle persone fisiche. Ipotizzando che il contribuente è coniugato e che, oltre alla vincita, dichiara un reddito netto imponibile pari a 100’000 franchi per il 2016, avremo il seguente carico fiscale: ◆◆ a livello federale, il Signor X paga le sue imposte ordinarie su un reddito netto imponibile pari a 295’000 franchi (100’000 + 195’000) al quale si applica un’aliquota corrispondente al 8.4447%, per un totale pari a 24’911.85 franchi; ◆◆ a livello cantonale, il Signor X paga l’imposta ordinaria su un reddito netto imponibile pari a 100’000 franchi al quale si applica un’aliquota corrispondente al 6.8942%, per un importo pari a 6’894.20 franchi, rispettivamente un’imposta annua separata su un reddito pari a 195’000 franchi al Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 quale si applica un’aliquota del 9.9128%, pari a 19’329.95 franchi. Il totale dell’imposta cantonale sul reddito è pari a 26’224.15 franchi. Da notare che se il Canton Ticino avesse abolito il sistema dell’imposta annua separata, optando per il l’imposizione del cumulo dei redditi ordinari e non periodici all’aliquota ordinaria, tale aliquota sarebbe stata superiore all’11%. La Circolare n. 17/2009 relativa alle vincite alle lotterie e manifestazioni analoghe è in fase di revisione e sarà a disposizione dei contribuenti nei prossimi mesi nella sua nuova versione n. 17/2016. 5. La nuova soluzione a livello internazionale Le convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dalla Svizzera non includono, di regola, nel loro campo di applicazione l’IP riscossa sui proventi da lotterie e manifestazioni analoghe. Il fortunato vincitore che non ha domicilio fiscale in Svizzera rischia pertanto di vedersi imporre due volte il medesimo provento qualora il suo Stato di residenza, conformemente al diritto interno, dovesse prevedere tale imposizione. La presente revisione ha però almeno il pregio di evitare potenziali doppie imposizioni nel caso di singoli importi che non superano i 1’000 franchi. 6. Conclusione Qui di seguito uno schema che riassume gli sviluppi degli ultimi anni. Questa revisione presenta diversi indubbi vantaggi. Innanzitutto, da un punto di vista prettamente organizzativo, l’aumento del limite di esenzione a 1’000 franchi, nonché l’introduzione di un limite di deduzione forfetaria, per un massimo di 5’000 franchi, riduce notevolmente il carico amministrativo sia per le amministrazioni fiscali che per gli organizzatori e i contribuenti; questi ultimi non dovendo più comprovare le loro giocate per vedersi riconoscere delle deduzioni a livello federale. In secondo luogo, adattandosi alla sistematica federale, il Canton Ticino ha fatto un ulteriore passo verso un’armonizzazione fiscale che, nel caso di specie, semplifica effettivamente l’imposizione evitando di toccare le singole vincite che non superano il predetto limite di esenzione e prevedendo una deduzione forfetaria di facile applicazione. La contrazione di gettito derivante da questa revisione, a livello cantonale, è difficilmente quantificabile a causa della natura stessa di questi redditi che risultano alquanto casuali e irregolari. A titolo informativo, si osserva comunque come le vincite a lotterie e manifestazioni analoghe hanno originato negli ultimi anni un gettito fiscale annuo al Cantone piuttosto contenuto, di poco superiore ai 300’000 franchi[7]. Importanti novità sono inoltre al vaglio del Parlamento, in quanto il Consiglio federale ha recentemente adottato un disegno di Legge federale sui giochi in denaro che intende disciplinare tali attività in un’unica legge. Il disegno prevede, tra le altre cose, il fatto che le vincite alle lotterie e a manifestazioni analoghe non sarebbero più imponibili[8]. Tale iniziativa ha trovato in generale un certo consenso presso i partecipanti alla consultazione, con qualche comprensibile riserva in merito all’opportunità di un tale esonero, temendo ripercussioni a livello finanziario per i Cantoni e Comuni[9]. Ma questa è musica per il futuro. Imposte Sino al 31.12.2012 Dal 01.01.2013 Dal 01.01.2014 Dal 01.01.2016 Osservazioni Imposta preventiva Limite di esenzione: franchi 50 Limite di esenzione: premi in denaro sino a franchi 1’000 (articolo 6 LIP) da lotterie in Svizzera (*) Invariato Invariato (*) Rimborso IP avviene di regola l’anno successivo alla/e vincita/e Imposta federale diretta (+ articolo 7 capoverso 4 e 9 capoverso 2 LAID) ◆ Nessuno importo esente o limite di esenzione Invariato ◆ Limite di esenzione: importi sino a franchi 1’000 (articolo 24 LIFD) (*) Invariato (*) ◆ Esclusione del cumulo delle singole vincite che non superano i franchi 1’000 (articolo 23 LIFD) ◆ Imposta ordinaria ◆ Imposta ordinaria (*) ◆ Deduzione posta giocata Legge tributaria cantonale ◆ Esenzione: totale dei proventi inferiore a franchi 1’000 ◆ Costi: 5% della vincita, max. franchi 5’000.–(articolo 33 LIFD) Invariato Invariato ◆ Aliquota imposta ordinaria ◆ Limite di esenzione: singola vincita sino a franchi 1’000 (articolo 22 LT) (*) ◆ Imposta separata ◆ Imposta separata (*) ◆ Nessuna deduzione ◆ Costi: 5% della vincita, max. franchi 5’000.–(articolo 36 LT) (*) ◆ Esclusione del cumulo delle singole vincite che non superano i franchi 1’000 ◆ Imposta annua intera con aliquote applicabili ai coniugi, minimo 5% 9 10 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 Elenco delle fonti fotografiche: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/multilotto/assets/img/articleimages/778.jpg [30.09.2016] [1] Iniziativa parlamentare n. 09.456 “Semplificazione dell’imposizione dei proventi da lotterie”, in: https://www.parlament.ch/it/ratsbetrieb/suche -cur ia-v is t a /ge s chaef t ?Af f air Id=20 0 9 0 456 [30.09.2016]. [2] Rapporto del 24 giugno 2011 della Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli Stati (CET-S), in: Foglio federale 2011 5819; Parere del 17 agosto 2011 del Consiglio federale, in: Foglio federale 2011 5845. [3] Foglio federale 2012 5227. [4] Cfr. in particolare: Vorpe Samuele, Il Parlamento federale ha sbancato la lotteria, in: NF 1/2013, pagina 3 e seguenti. [5] In vigore dal 1. aprile 2000 (Raccolta Ufficiale 2000 677; Foglio federale 1997 III 129). [6] Sentenza del Tribunale di appello del 22 ottobre 2008, in: RtiD N. 5t/I-2009 e sentenza del Tribunale di appello del 9 maggio 2011, in: RtiD N. 2t/II-2011. [7]Rapporto n. 7115R della Commissione tributaria del 16 ottobre 2015, pagina 2, in: http:// w w w4.ti.ch/f ileadmin/POTERI/GC/allegati/ rapporti/17127_7115R.pdf [30.09.2016]. [8]Dipartimento federale di giustizia e polizia, Una nuova legge per tutti i giochi in denaro: il Con- siglio federale approva il messaggio, Comunicato stampa, Berna 21 ottobre 2015, in: https://www. admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati-stampa.msg-id-59169.html [30.09.2016]; cfr. anche Antonini Luca, La nuova legge federale sui giochi in denaro, in: NF 6/2014, pagina 7 e seguenti. [9]Dipartimento federale di giustizia e polizia, Progetto di legge federale sui giochi in denaro (LGD), Rapporto sui risultati della procedura di consultazione, in: http://www.ejpd.admin. ch/ejpd/it/home/aktuell/news/2015/2015-10-21. html [30.09.2016]. Diritto tributario svizzero Leasing: attrattiva modalità di finanziamento Gianfranco Franzi Già aggiunto di Direzione e Responsabile dei Servizi Centrali della Divisione delle contribuzioni del Cantone Ticino Docente SUPSI Quale il trattamento fiscale secondo l’imposta cantonale e federale diretta? 1. Il leasing Affrontare il tema leasing, significa parlare di questa particolare forma di finanziamento che si è ormai diffusa anche nel nostro Paese in modo assai importante, ma nettamente inferiore a quanto si riscontra negli Stati Uniti d’America (di seguito USA), nazione dalla quale questa modalità di finanziamento è stata importata. Secondo una pubblicazione di Crédit Suisse[1] , prima della crisi finanziaria il volume annuo di nuove operazioni da parte di imprese svizzere era in linea con la tendenza d’aumento presente a livello internazionale. Secondo tale pubblicazione il volume annuo di nuove operazioni di leasing di beni d’investimento, tra gli anni 2000 e 2008, ha evidenziato una crescita media annua del 7.5%, passando da 4.5 a 8 miliardi di franchi. A seguito della crisi finanziaria anche il mercato del leasing ha subito un importante crollo, confermato dal fatto che nel 2009 il volume di nuove operazioni ha segnato un meno 32%. Negli anni successivi vi è stata di nuovo una crescita che comunque non ha mai più raggiunto i livelli presenti negli anni antecedenti la crisi. L’opuscolo del Crédit Suisse evidenzia ancora come nel 2011 il mercato del leasing sia rimasto fermo grosso modo ai livelli del 2004 e con dimensioni che rimangono lontane da quelle che si riscontrano in Europa e negli USA. Sempre secondo la predetta pubblicazione che fa riferimento al raffronto internazionale del Global Leasing Report, nel 2010 la penetrazione di mercato del leasing in Svizzera si attestava al 10.2%, un livello inferiore alla media europea del 12.3% (in Gran Bretagna e Germania la percentuale è addirittura molto più alta). Per quanto riguarda la situazione in Ticino, un articolo apparso a suo tempo sul portale web Ticinonline[2] evidenziava come il fenomeno fosse allarmante in quanto, secondo uno studio di Comparis, se in Svizzera le auto in leasing corrispondevano ad un sesto delle auto vendute (pari al 17%), in Ticino e Neuchâtel si toccavano delle percentuali attorno al 27%! Prima di addentrarci sul tema del trattamento fiscale del leasing, reputo opportuno chiarire alcuni punti che permetteranno di successivamente meglio comprendere le argomentazioni che saranno alla base del conseguente trattamento a livello fiscale. Il termine leasing significa noleggio o affitto. Con il leasing si noleggia infatti un oggetto pagando, per il relativo uso, un ammontare mensile che dipende sia dal periodo di tempo di durata contrattuale sia dalle condizioni specifiche del contratto di locazione. Sì, perché il leasing di fatto non costituisce un contratto di compravendita, ma bensì un contratto di locazione! È quindi conseguentemente errato il modo di dire “questo oggetto l’ho acquistato in leasing”. Come confermato da diverse fonti[3] , nel contesto della legislazione svizzera, il contratto di leasing non è presente e normato nel Codice delle obbligazioni (CO). Si tratta a tutti gli effetti di un contratto sui generis in cui sono cumulativamente presenti concetti legati vuoi al contratto di locazione, vuoi di vendita a rate come pure di prestito. Ne consegue che i tribunali elvetici verificano di volta in volta quali di questi concetti risulta preminente e vi applicano le relative disposizioni. Ad esempio nel contesto del leasing di automobili vengono di principio applicate le disposizioni di legge valide per i contratti di locazione. 1.1. Chi ricorre al leasing Oggigiorno si può affermare che il leasing non può più essere visto unicamente come forma di finanziamento legata a un’attività professionale in quanto risulta spesso essere modalità di noleggio applicabile a livello privato anche ai più svariati oggetti di consumo chiaramente di natura privata (auto, televisori, apparecchi fotografici, eccetera). A livello aziendale il ricorso al leasing permette di dirottare le proprie risorse finanziarie per altri scopi che non quelli relativi all’acquisto di beni. L’azienda si garantisce così il materiale necessario (macchinari, installazioni aziendali, arredamento 11 12 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 ufficio) assumendosi unicamente il pagamento di un noleggio. In tale contesto occorre osservare come il leasing può essere riferito anche a beni immobili già costruiti o da costruire, rispettivamente, se del caso, anche il solo terreno sul quale verrà poi realizzata la costruzione. 1.2. Come funziona il leasing Generalmente il contratto leasing è contraddistinto dalla presenza di tre soggetti economici, costituiti da: a) il fabbricante o il produttore di un bene; b) la società di leasing; c) il cliente nelle vesti di locatario. In tale quadro, i primi due (produttore e società di leasing) sono tra di loro legati attraverso un contratto di vendita mentre il cliente è vincolato alla società di leasing mediante un contratto di noleggio (leasing indiretto). Ciò non toglie che si possano ormai frequentemente riscontrare forme di leasing diretto dove fabbricante o produttore del bene e cliente sono legati direttamente (leasing diretto). Tale situazione si concretizza allorquando il fabbricante o il produttore mettono a disposizione del loro cliente tale possibilità di finanziamento in sostituzione della classica vendita dei beni da loro fabbricati o prodotti. Tale argomento non è però mai stato ritenuto determinante sia a livello giurisprudenziale[4] che nel contesto di studi e approfondimenti specifici. Questo partendo dal presupposto che se il contribuente sceglie una particolare forma giuridica ne deve sopportare le conseguenze senza poter chiedere al fisco di riservagli un trattamento diverso[5]. Come già indicato in precedenza, è stato più volte ribadito[6] che il contratto di leasing di beni di consumo non è considerato un contratto di vendita, ma un contratto sui generis[7]. La Camera di diritto tributario del Tribunale d’Appello del Canton Ticino (CDT) ha pure avuto modo di esprimersi al riguardo precisando che, “per stabilire se si sia in presenza di interessi passivi deducibili dal reddito imponibile, nel caso di un contratto di acquisto/finanziamento con opzione, è determinante sapere se la volontà delle parti porta sul trasferimento della proprietà oppure sulla concessione d’uso a titolo oneroso di un bene (nel caso specifico un’autovettura). Mentre nel primo caso, le rate mensili contengono una componente di remunerazione del capitale mutuato, nel secondo invece si applica la prassi che vale per i contratti di leasing, con la conseguenza che ogni deduzione è esclusa. Le rate non possono essere considerate neppure parzialmente interessi passivi e come tali deducibili, allorquando il contratto si limita a concedere l’uso del bene, accompagnandolo con una opzione di acquisto”. Dai considerandi[8] risulta interessante evidenziare le seguenti puntualizzazioni: 2. Il trattamento fiscale del leasing privato Molti si sono chinati sugli effetti fiscali di un simile contratto. Una prima logica conseguenza del fatto che, come indicato poc’anzi, non siamo confrontati con un contratto di compravendita bensì con un contratto di locazione, è che quindi a livello di sostanza il bene oggetto del contratto leasing non va dichiarato non essendo lo stesso di proprietà del contribuente. Inoltre, in considerazione del fatto che gli affitti sono fiscalmente ritenuti “parte integrante” dei costi di mantenimento del contribuente, la legge li esclude da ogni possibile deducibilità dai fattori imponibili. Talvolta si è persino cercato di assimilare la quota leasing ai classici interessi passivi ma, in tale contesto, occorre subito evidenziare come la dottrina abbia in modo pressoché unanime e categorico escluso la deducibilità delle quote di leasing relative alla sostanza privata del contribuente. Ciò pur nella consapevolezza che qualora per l’acquisto del bene di consumo il contribuente avesse contratto un debito egli avrebbe potuto dedurre i relativi interessi passivi. ◆◆ per interessi privati, la giurisprudenza del Tribunale federale intende principalmente i compensi che sono versati dal debitore ad un terzo per la concessione di una somma di denaro o di un capitale messo a disposizione, nella misura in cu tale compenso è conteggiato in percentuale in base al tempo ed in base al capitale; ◆◆ nell’ambito particolare del mercato delle autovetture, rientrano sotto il cappello di leasing quei contratti in cui la società finanziatrice resta proprietaria della vettura e ne concede al conduttore unicamente l’uso. Sono per contro qualificati di vendita, quei contratti che prevedono un trapasso di proprietà quand’anche fosse alla fine della durata[9]; ◆◆ dal lato fiscale, indipendentemente quindi dalla qualifica giuridica del contratto, risulta essere determinante sapere se la volontà delle parti porta sul trasferimento della proprietà oppure sulla concessione d’uso a titolo oneroso di un’autovettura. In quest’ultimo caso si applica la prassi che vale per i contratti leasing[10] e cioè la non deducibilità delle rate versate. 3. Il trattamento fiscale del leasing aziendale Diverso è evidentemente il trattamento fiscale del leasing aziendale che è comunque contraddistinto da una pluralità di fattispecie che dipendono dalle varie sfaccettature riscontrabili a livello contrattuale. Mi permetto di rimandare ad una pubblicazione di affermati e qualificati autori ticinesi[11] in cui vengono illustrati in modo chiaro ed esaustivo le varie tipologie di leasing finanziario mobiliare ed immobiliare. Nell’opera vengono parimenti Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 trattati gli effetti che le varie clausole contrattuali possono avere a livello fiscale sia nei riguardi del prenditore del leasing che della società di leasing. Gli autori si soffermano inoltre sulla problematica del leasing finanziario immobiliare nel cui contesto merita citazione anche una specifica circolare della Conferenza svizzera delle imposte[12] applicabile specificatamente alle persone giuridiche ed alle persone fisiche esercitanti un’attività lucrativa indipendente. Nella parte introduttiva vengono puntualizzate le caratteristiche che si possono riscontrare nelle tipologie di contratto ed in particolare se il contratto leasing si limita al semplice diritto d’uso oppure se più di un contratto leasing lo stesso definisce piuttosto diritti ed obblighi riguardanti l’acquisizione del bene. Nelle pagine successive della citata circolare, trovano invece spazio gli effetti che, a dipendenza della caratteristica del contratto leasing, ne conseguono a livello di ammortamento del bene. Nella prima delle tipologie precedentemente indicata il bene potrà essere ammortizzato fino a concorrenza del tasso d’ammortamento fiscalmente ammesso per il genere d’immobile oggetto del contratto. Da notare che, di regola, il limite inferiore dell’ammortamento non potrà essere più basso del prezzo d’acquisto del terreno. Nel caso di contratto di seconda tipologia, al fine di pianificare il deprezzamento del bene si potrà far riferimento sia alla durata del contratto, sia al prezzo indicato nel contesto del diritto di opzione. Anche in questo caso però, il bene potrà essere ammortizzato nel rispetto di quanto indicato per la precedente tipologia contrattuale. Nella parte finale la circolare affronta la problematica della deducibilità delle quote leasing che nel caso di contratto di prima tipologia sono considerate a tutti gli effetti spese giustificate dall’uso commerciale. Nel caso di contratto della seconda tipologia occorrerà verificare la consistenza degli ammortamenti effettuati in rapporto a quelli presenti nella quota leasing in quanto questi ultimi non sono fiscalmente ritenuti spese giustificate dall’uso commerciale. 4. Conclusioni L’attrattività del leasing quale forma di finanziamento può essere indubbiamente forte. Ma uno sguardo attento dovrebbe però comunque sempre essere dato agli effetti fiscali che, a dipendenza della forma contrattuale, ne potrebbero conseguire. In effetti, se dal lato del leasing privato non vi sono dubbi circa la non deducibilità delle quote leasing pagate, nel contesto del leasing aziendale, le cui quote sono di principio fiscalmente integralmente deducibili, occorrerà ricercare la forma contrattuale che meglio si addice alla struttura dell’azienda con occhio attento anche alle possibili opzioni di fine contratto che possono avere importanti ripercussioni a livello fiscale. Elenco delle fonti fotografiche: http://www.mcteamweb.com/wp-content/uploads/sites/131/2015/01/ Leasing-auto-McTeam.jpg [30.09.2016] http://www.lamiapartitaiva.it/wp-content/uploads/2012/10/fasi-delleasing.jpg [30.09.2016] [1] Mercato del leasing in Svizzera, Fatti e tendenze, febbraio 2013, in: https://www. credit-suisse.com/media/production/pb/docs/ unternehmen/kmugrossunternehmen/swiss_ issues_leasing_it.pdf [30.09.2016]. [2]Ticinonline, Siamo malati di leasing, 11 maggio 2011, in: http://www.tio.ch/News/Ticino/634294/Siamo-malati-di-leasing [30.09.2016]. [3] Si veda: www.fondounimpresa.ch [30.09.2016]. [4] Sentenze CDT del 9 marzo 2007 n. 80.2006.174; del 13 gennaio 2014 n. 80.2012. [5] Yersin Danielle, Les aspects fiscaux du leasing financier, Cedidac, 1985, pagine 76-78, con riferimento a Känzig Ernst, Wehrsteuer, 1982, N 9 ad Art. 2, pagina 17. [6]Yersin Danielle/Noël Yves (a cura di), Commentaire romand, Impôt fédéral direct, Basilea 2008, commento all’articolo 33 LIFD. [7]Giovanoli Mario, La jurisprudence suisse en matière de leasing, Le leasing industriel, commercial et immobilier, Cedidac, 1985, pagine 27-55; cfr. anche: Le contrat de leasing en droit suisse, in: Journal des Tribuneaux, 1981 I 34. [8] Sentenza CDT del 9 marzo 2007 n. 80.2006.174. [9] Schatz Peter, Das Leasing von Automobilen, in: AJP/PJA 9/2006, pagine 1042-1050, pagina 1042. [10] ASA 62 683; ASA 61 250. [11]Bernardoni Norberto/Bortolotto Pietro, La fiscalità dell’azienda nel nuovo diritto federale e cantonale ticinese, Edizione speciale della Rivista ticinese di diritto, Mendrisio 2010. [12] Circolare n. 29 della Conferenza svizzera delle imposte del 27 giugno 2007, in: http://www. steuerkonferenz.ch/downloads/kreisschreiben/ ks029_d.pdf [30.09.2016]. 13 14 Diritto tributario italiano Il trasferimento di imprese commerciali in Italia Mauro Manca Esperto tributario in Milano A metà del guado: luci ed ombre dell’attuale normativa italiana sul trasferimento transfrontaliero delle imprese 1. Introduzione La normativa italiana sul trasferimento di sede delle imprese, sia in entrata che in uscita dal territorio dello Stato, dopo le ultime modifiche del 2015[1] si avvia ad una (quasi) completezza. Infatti, dopo l’introduzione della cosiddetta “exit tax” nel 2004, all’articolo 166 TUIR, recante appunto la disciplina domestica del trasferimento all’estero della residenza o della sede dei soggetti esercenti attività d’impresa in Italia, il legislatore delegato del 2015 (ai sensi dell’articolo 12 della Legge [di seguito L.] n. 23/2014) ha introdotto una disposizione relativa al trasferimento della residenza nel territorio della Repubblica (articolo 12 D.Lgs. n. 147/2015). Nel seguito, dopo aver analizzato il contenuto della norma positiva, si esamineranno le questioni ancora lasciate aperte dalla nuova disposizione, segnatamente con riguardo al trattamento delle perdite (maturate nel periodo anteriore al trasferimento in Italia e quelle maturate nei primi tre esercizi successivi), alla possibilità di accesso al regime di esenzione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni (cosiddetto “regime pex”), al trattamento delle riserve. 2. Il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato da parte di soggetti non residenti che esercitano imprese commerciali (articolo 166-bis TUIR) L’articolo 12 L. n. 23/2014, introducendo l’articolo 166-bis TUIR, ha regolamentato il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato da parte di soggetti non residenti che esercitano imprese commerciali, prevedendo regole diverse in base allo Stato di provenienza[2] , ma non rispetto al loro profilo soggettivo. Rispetto a quest’ultimo aspetto, la norma, facendo riferimento a “soggetti che esercitano imprese commerciali” ha chiaramente accomunato nella medesima disciplina sia imprenditori individuali che soggetti societari. Come vedremo oltre, questa estensione soggettiva della norma introduce necessariamente una diversità di approccio nella valutazione dei criteri di collegamento tributari al fine della determinazione della effettiva residenza del contribuente, con potenziali maggiori complicazioni nel caso il trasferimento riguardi un imprenditore individuale. Il primo comma dell’articolo 166-bis TUIR prevede che i soggetti che esercitano imprese commerciali provenienti da Stati o territori inclusi nella lista di cui all’articolo 11 comma 4, lettera c D.Lgs. n. 239/1996, che, trasferendosi nel territorio dello Stato, acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi assumono quale valore fiscale delle attività e delle passività il valore normale delle stesse, da determinarsi ai sensi dell’articolo 9 TUIR. La norma dispone, quindi, che i soggetti esercenti imprese commerciali e provenienti da Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni, ove si trasferiscano nel territorio dello Stato e acquisiscano la residenza ai fini delle imposte sui redditi, devono assumere quale valore fiscale delle attività e delle passività, il valore normale delle stesse. Nel caso di trasferimento da Paesi diversi da quelli di cui al comma 1, il comma 2 prevede che, a meno di un accordo preventivo[3] sul valore normale stipulato tra l’impresa interessata e l’Amministrazione finanziaria, il valore fiscale delle attività e passività trasferite è pari, per le attività, al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale, sempre determinato ai sensi dell’articolo 9 TUIR, ed al maggiore tra questi per le passività. Infine il terzo ed ultimo comma dell’articolo rinvia ad un successivo provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate l’individuazione delle modalità di segnalazione dei valori delle attività e delle passività oggetto di trasferimento. Stante il tenore della norma appena esposto, un primo problema attiene alle modalità di determinazione del mutamento della residenza dei “soggetti che esercitano imprese commerciali”, essendo principio fondamentale del diritto tributario, nazionale ed internazionale, che la soggettività tributaria è ancorata (essenzialmente) al possesso o meno di tale requisito. Ai fini tributari, i soggetti passivi d’imposta possono essere suddivisi in due categorie: Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 ◆◆ gli imprenditori individuali, assoggettati all’imposta sul reddito delle persone fisiche (disciplinata dal Titolo I del TUIR) e ◆◆ gli altri soggetti, residenti o non residenti, di tipo associativo o meno, assoggettati all’imposta sul reddito delle società (disciplinata dal Titolo II del TUIR). Ovviamente, nel caso in cui il soggetto che trasferisce la propria residenza provenga da uno Stato con il quale l’Italia abbia concluso una CDI, si dovrà tenere in considerazione anche la disciplina convenzionale ivi pattuita. essa attribuite nell’ambito della riorganizzazione del gruppo straniero, l’Agenzia delle Entrate ha concluso che “avendo riguardo alla fattispecie così come prospettata, sembrerebbe che l’installazione che la società ALFA [spagnola, ndr.] verrebbe a detenere sul territorio italiano a seguito dell’operazione di fusione per incorporazione della società BETA [italiana, ndr.] non si configuri come stabile organizzazione ai sensi dell’articolo 162 TUIR. Ciò in quanto le attività che tale sede fissa di affari andrebbe a svolgere sul territorio italiano sembrerebbero rientrare nelle ipotesi di esclusione previste dal citato comma 4 dell’articolo 162 TUIR”. Nel caso di trasferimento di residenza di un imprenditore individuale, si dovrà, così, avere riguardo ai criteri indicati all’articolo 2 TUIR. Come noto, questi hanno a riferimento l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, il domicilio o la residenza in Italia. Trattandosi il primo di un requisito meramente formale ma la cui presenza è assolutamente dirimente per l’ordinamento italiano[4], l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente si configura più che sufficiente al riconoscimento del trasferimento in Italia dell’imprenditore. Relativamente agli altri due requisiti, richiedendosi un riscontro fattuale circa la sussistenza degli affari ed interessi ovvero della dimora abituale, il trasferimento di residenza potrebbe dar luogo ad incertezze qualora l’imprenditore conservi all’estero una parte di questi e non abbia, nel contempo, provveduto all’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente. Come noto infatti, la giurisprudenza prevalente tende ad attribuire maggiore rilevanza, ai fini qui in esame, agli interessi cosiddetti morali od affettivi piuttosto che a quelli meramente economici (ancora di recente, Cass., sez. V, n. 9723 del 13 maggio 2015). In realtà, la definizione di reddito d’impresa contenuta nell’articolo 55 TUIR, applicabile al caso di specie, facendo riferimento all’“esercizio di imprese commerciali” sembra più che adeguata ad attrarre alla sfera impositiva italiana il reddito d’impresa che attraverso tali “imprese commerciali” si sia realizzato nel territorio dello Stato. In effetti, ipotizzare l’esercizio di un’impresa individuale senza un radicamento al territorio della sua struttura operativa insieme a quella dell’imprenditore appare ipotesi abbastanza remota, fatto salvo quanto previsto nel caso delle “ipotesi negative” di stabile organizzazione di cui all’articolo 162 comma 4 TUIR o delle analoghe norme convenzionali. In effetti, in un caso oggetto di esame da parte dell’Amministrazione finanziaria (cfr. Risoluzione n. 21/E del 2009) e relativo ad un’ipotesi di fusione tra società comunitarie con destinazione dei beni della società italiana incorporata in una stabile organizzazione della società non residente europea, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che “l’individuazione della disciplina applicabile, ai fini delle imposte sui redditi, all’operazione prospettata [applicabilità del regime di neutralità fiscale di cui all’articolo 179 comma 1 TUIR o di quello realizzativo in base al valore normale di cui al successivo comma 6 di tale ultima disposizione, ndr.] dipende, in altre parole, dalla circostanza che il compendio aziendale della società incorporata residente [in Italia, ndr.] che residua sul territorio dello Stato configuri o meno una stabile organizzazione”. Nel caso di specie, dopo aver esaminato la dotazione strumentale della asserita stabile organizzazione e le attività ad Il medesimo profilo di criticità trova applicazione anche nel caso di trasferimento in Italia dell’impresa (o parte dell’impresa) che prima veniva esercitata all’estero qualora l’imprenditore, persona fisica, non provveda a trasferire anche la sua residenza fiscale ma mantenga all’estero il centro dei suoi affari ed interessi. In tal caso, i riscontri fattuali dovranno chiarire se il complesso di beni e persone che caratterizzano l’azienda (o il ramo d’azienda) trasferita assuma quella sufficiente consistenza “materiale” da poter essere qualificata come stabile organizzazione dell’imprenditore (non residente) con l’effetto di far sorgere comunque un’obbligazione tributaria in capo a tale ente. Al contrario, se tale consistenza materiale non supera la check list negativa di cui al comma 4 dell’articolo 162 TUIR (o dell’analoga norma convenzionale), l’attività dell’impresa svolta in Italia non darà luogo ad alcuna fattispecie imponibile. Il trasferimento della sede di società si presenta più articolato in ragione della differente natura delle persone giuridiche rispetto agli individui e quindi alle concrete modalità con cui il trasferimento della sede delle prime viene valutato dall’ordinamento “di partenza”. In questo senso, la disciplina civilistica italiana non contempla espressamente l’ipotesi del trasferimento verso lo Stato di una società estera ma si limita a valutare l’opposta fattispecie della fuoriuscita di una società italiana verso l’estero (articolo 25, comma 3 L. n. 218/1995)[5]. La disciplina dell’ingresso in Italia di una società straniera andrà quindi ricostruita attraverso 15 16 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 un’interpretazione e contrario di tale disposizione. In breve è possibile affermare che agli effetti del diritto internazionale privato italiano, la legittimità e quindi gli effetti conseguenti ad un trasferimento di sede devono essere coerenti con quanto previsto dalla legge dello Stato di provenienza. Ai nostri fini, ciò risulta di particolare rilievo per valutare le due ipotesi di trasferimento che si possono riscontrare in concreto: il trasferimento in continuità giuridica o meno del soggetto trasferentesi. Tale distinzione, in estrema sintesi, attiene al fatto che in tema di conservazione dello status di società nazionale gli ordinamenti si distinguono tra quelli che applicano la cosiddetta “teoria della incorporazione” (ad esempio, la Gran Bretagna) e quelli che applicano la teoria della sede reale (ad esempio, la Germania). Secondo la prima teoria, la società mantiene la nazionalità dello Stato dove si è perfezionato il procedimento della sua costituzione, restando quindi assoggettata alla sua legge. Secondo la teoria della sede reale, ciò che rileva ai fini della identificazione della legge regolatrice della società è il luogo ove ha sede “di fatto” la sua amministrazione. Secondo l’Amministrazione finanziaria (cfr. Risoluzione n. 9/E del 2006), per l’ordinamento italiano, pur in mancanza di una norma espressa, deve ritenersi ammesso il trasferimento senza estinzione, in quanto l’articolo 2437 del Codice civile, nel considerare il trasferimento all’estero della sede sociale causa di recesso per i soci, implicitamente presuppone che esso non abbia natura dissolutoria. In sostanza, sul piano civilistico italiano, il trasferimento in Italia della sede sociale non determina l’estinzione della società straniera e non pregiudica, pertanto, la continuità del soggetto, a condizione che anche nell’ordinamento di provenienza la disciplina del trasferimento di sede sia improntata al medesimo principio e non costituisca quindi evento estintivo. Pertanto, se l’ordinamento estero assume come criterio di collegamento il luogo di perfezionamento del procedimento di costituzione dell’ente giuridico, il trasferimento della sede della società, pur potendo dar luogo al venir meno della soggettività tributaria (si pensi al problema della doppia residenza ed alle modalità di soluzione del problema attraverso il ricorso ai criteri previsti dalle cosiddette “tie breaker rules” ispirate all’articolo 4 paragrafo 2 del Modello OCSE di Convenzione fiscale [di seguito M-OCSE]) non farà invece venir meno la personalità giuridica dell’ente trasferito. Viceversa, la configurazione del trasferimento all’estero della sede sociale della società come evento estintivo della personalità giuridica impedirebbe la continuità giuridica dell’ente. Di conseguenza, non di trasferimento di sede si tratterebbe, quanto piuttosto di estinzione della società in un dato ordinamento e della sua ricostituzione in un ordinamento diverso. Da tale distinzione consegue, quindi, che la continuità giuridica o meno del soggetto che trasferisce in Italia la sua sede è una questione che deve essere valutata anche con riguardo alle pertinenti previsioni dell’ordinamento di origine. La rilevanza del tema, preso in esame da diverse risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate (ad esempio, la n. 9/E del 2006 e la n. 345/E del 2008), è essenzialmente dovuta al fatto che la “continuità” dello status giuridico del soggetto che si trasferisce determina la natura realizzativa o meno del trasferimento con i conseguenti effetti anche fiscali (applicazione di una exit tax, continuità dei periodi d’imposta e dei requisiti per il regime pex, obblighi dichiarativi, eccetera). Così l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che l’efficacia del trasferimento della sede statutaria è subordinata, stante la vigenza del citato articolo 25, comma 3, al duplice rispetto sia delle norme del Paese di provenienza sia di quelle del Paese di destinazione. Ne consegue che la continuità giuridica della società è condizionata all’ammissibilità del trasferimento nei due ordinamenti. “In sostanza, una società estera, che abbia trasferito in Italia la propria sede legale, diviene società di diritto italiano senza necessità di costituirsi ex novo, a condizione che il trasferimento della predetta sede sia ammesso dalla legge dello Stato in cui si è costituita”. Alcuni ordinamenti, infatti, non consentono che una società costituita secondo il diritto nazionale possa trasferire all’estero la propria sede sociale, se non a prezzo della dissoluzione e liquidazione dell’ente, dando quindi luogo ad un fenomeno con effetti sostanzialmente realizzativi (ed interruttivi del precedente status giuridico). In conclusione, appare corretto convenire con le conclusioni sul punto raggiunte dalla prassi dell’Amministrazione finanziaria secondo cui “le conseguenze di ordine fiscale relative al trasferimento in Italia dall’estero o, viceversa, dall’Italia verso l’estero della sede sociale dipendono dalla continuità giuridica o meno dell’ente ai sensi dell’articolo 25, comma 3, della legge n. 218 del 1995”. È di interesse segnale che in caso di operazioni straordinarie transfrontaliere (fusioni), secondo l’Amministrazione finanziaria “l’operazione si sostanzia in un trasferimento in Italia della società lussemburghese, con le stesse conseguenze che avrebbe un trasferimento di sede della medesima società nel nostro Paese” (Risoluzione n. 69/E del 5 agosto 2016). Secondo questo approccio, quindi, il principio che dovrebbe guidare il trasferimento di sede sarebbe quello della neutralità e continuità dei valori contabili, che ispira, in generale, le operazioni straordinarie di ristrutturazione (non realizzativa) delle imprese in ambito europeo. La stessa Risoluzione, poi, adottando un approccio che ha “riguardo soprattutto agli aspetti sostanziali, più che alle concrete modalità con cui avviene il trasferimento”, interviene anche sul requisito dell’esercizio di un’attività di impresa della società trasferenda. Così, nel caso di trasferimento di residenza di una holding che svolgeva un’attività di mero godimento di immobili, la Risoluzione ha affermato che “in linea generale, si ritiene che il presupposto consistente nell’esercizio di un’impresa commerciale, cui è subordinato il regime in esame, deve intendersi riferito a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa secondo l’ordinamento domestico, Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 a prescindere dall’attività economica concretamente svolta dai medesimi. Tale conclusione appare coerente con la ratio dell’articolo 166-bis del TUIR, volto a ripartire correttamente la potestà impositiva tra le giurisdizioni coinvolte nell’operazione di trasferimento ed evitare, conseguentemente, che plusvalori e minusvalori che sono maturati fuori dal reddito d’impresa italiano possano concorrere alla formazione dello stesso”. Affermando quindi che “l’attività svolta non costituisce ostacolo per applicazione dell’articolo 166-bis del TUIR”, l’Amministrazione finanziaria introduce un significativo ampliamento soggettivo rispetto alla platea dei possibili soggetti interessati al rientro in Italia. 3. Il valore normale attribuito alle attività e passività in ingresso In assenza di indicazioni normative relative a tutti gli aspetti rilevanti della fattispecie in esame, fatta salva la previsione dell’attribuzione del valore normale ai beni in ingresso in Italia, le ulteriori indicazioni operative in ordine agli effetti del trasferimento in Italia della residenza delle imprese estere possono solamente ritrarsi dalle indicazioni di prassi nel corso del tempo espresse dall’Amministrazione finanziaria. Prima di procedere con alcune considerazioni su tali aspetti, è forse ancora utile soffermarsi sulla previsione normativa relativa all’attribuzione del valore normale ai beni in ingresso. Come detto sopra, i commi 1 e 2 dell’articolo 166-bis TUIR richiamano il criterio del valore normale di cui all’articolo 9 TUIR quale criterio da adottare per determinare il valore fiscalmente riconosciuto alle attività e passività riferibili alle imprese neotrasferite. I due commi, tuttavia, differiscono per un aspetto che non può ignorarsi, quanto meno in una prospettiva di stabilità dei valori assunti dall’impresa che entra nel territorio dello Stato. Infatti, il comma 2 prevede, pur in via opzionale, che l’impresa che proviene da Stati cosiddetti black list (individuati secondo lo standard dell’adeguato scambio di informazioni; articolo 11, comma 4, lettera c D.Lgs. n. 239/1996) possa determinare il valore normale delle sue attività e passività in contraddittorio con l’ufficio attraverso la specifica procedura dell’interpello previsto dal nuovo articolo 31-ter D.P.R. n. 600/1973, e quindi “cristallizzare” tali valori in un accordo che vincola non solo il contribuente ma anche l’Amministrazione finanziaria. In assenza di un simile accordo, lo stesso comma 2, secondo periodo, dell’articolo 166-bis TUIR prevede un criterio obbligatorio alternativo: per le attività, il minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale; per le passività, il maggiore tra tali valori. Un’analoga previsione non è prevista, invece, nel caso in cui il soggetto provenga da una giurisdizione white list. In tal caso, infatti, pur conservandosi il riferimento al valore normale, non è previsto il ricorso ad alcuna procedura o criterio obbligatorio, rimettendo unilateralmente al soggetto estero la determinazione dei valori concretamente rilevanti. Ebbene una tale previsione, pur se formalmente rispettosa dell’autonomia e discrezionalità del soggetto estero, appare nel contempo priva di quella certezza giuridica la cui assenza rischia di essere foriera di contestazioni da parte della stessa autorità amministrativa che potrà del tutto legittimamente mettere in discussione il procedimento valutativo, ed i suoi risultati, adottato dal contribuente. Come noto infatti, in tema di determinazione del valore normale la diversità di assunti di partenza in ordine alla qualificazione dei rischi assunti e delle funzioni effettivamente svolte determina profonde differenze nell’estensione sia dello spettro dei comparables rinvenuti che nel collocamento del range interquartilico che scaturisce da tali analisi. In assenza di un’espressa clausola di salvaguardia, le determinazioni assunte dal contribuente potranno legittimamente essere oggetto di accertamento da parte dell’autorità amministrativa. In tal caso, qualora dovessero emergere differenze di valutazione, rilevate successivamente all’ingresso in Italia delle imprese estere e che abbiano concorso a determinare una minore base imponibile per effetto di maggiori ammortamenti od accantonamenti conseguenti ai maggiori valori attribuiti alle passività in ingresso, il minor gettito d’imposta potrà certamente essere contestato al contribuente. Ulteriore problema che potrebbe poi porsi è quello relativo al riconoscimento dei valori fiscali determinati dall’autorità fiscale del Paese di origine in caso di applicazione di una exit tax. Nel silenzio della norma primaria, qualche riferimento è ritraibile dalla prassi dell’autorità fiscale. La Risoluzione n. 67/E del 2007 tratta il caso di un cittadino tedesco che intende trasferire la sua residenza in Italia ed è titolare di una partecipazione qualificata in una società tedesca. In tali circostanze, per la legislazione fiscale tedesca, all’atto del trasferimento all’estero della residenza del socio, le plusvalenze latenti della partecipazione – pari alla differenza tra il valore normale e il loro costo fiscale – si considerano realizzate e sono assoggettate a tassazione. Peraltro, ove la residenza sia trasferita in uno Stato membro dell’Unione europea (di seguito UE), la tassazione della plusvalenza è sospesa fino al momento dell’effettivo realizzo, in armonia con quanto stabilito dalla CGUE nella sentenza dell’11 marzo 2004, causa C-9/02. La disciplina del caso concreto è stata ricavata, in assenza di una norma espressa sul punto, attraverso la corretta applicazione della CDI in essere tra Italia e Germania. Infatti, l’articolo 13, paragrafo 4 CDI vigente tra i due Paesi stabilisce che gli utili derivanti dall’alienazione di partecipazioni societarie, come di ogni altro bene diverso da quelli menzionati ai paragrafi 1, 2 e 3, sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è residente. La disposizione n. 12 del Protocollo allegato alla CDI integra il richiamato articolo 13, prevedendo che se uno Stato contraente assoggetta ad imposizione – in occasione del trasferimento della residenza di una persona fisica in un altro Stato – la plusvalenza derivante da una partecipazione rilevante in una società residente, l’altro Stato, in caso di ulteriore cessione di tale partecipazione, dovrà determinare la plusvalenza tassabile assumendo come costo d’acquisto il valore teorico della partecipazione adottato dal primo Stato al momento della partenza della persona fisica. Stante ciò la Risoluzione conclude affermando che “la scrivente Agenzia ritiene che nella fattispecie da ultimo esaminata il costo fiscale attribuibile alla partecipazione di chi trasferisce la propria residenza dalla Germania in Italia possa comunque essere determinato in base al valore «teorico», così come stimato dall’erario tedesco al fine di assoggettare a tassazione il socio in occasione della sua 17 18 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 partenza. In assenza di una specifica disciplina interna e considerata la vigenza nello Stato membro di partenza di una normativa exit tax applicabile alle persone fisiche, il ricorso a tale criterio appare infatti non solo il più idoneo a salvaguardare il diritto al prelievo dello Stato nel quale si è avuto l’effettivo incremento di valore delle partecipazioni, ma anche il più efficace al fine di evitare sia fenomeni di doppia imposizione che salti d’imposta”. 4. Gli effetti del trasferimento con o senza continuità giuridica Se l’articolo 166-bis TUIR ha introdotto alcune disposizioni in ordine alla determinazione dei valori delle attività e passività in ingresso in Italia, esso tace invece su diverse altre questioni di estremo rilievo, prima tra tutte, quella relativa al riconoscimento o meno delle perdite formatesi all’estero. Il problema posto dalla soluzione appena descritta è chiaramente dovuto al fatto che essa è stata raggiunta facendo ricorso all’applicazione di una CDI che prevede una norma espressa sul punto. Il dubbio resta se l’affermazione di principio, di portata evidentemente più generale, dell’ultimo paragrafo citato sopra possa trovare effettivamente applicazione anche in casi in cui non esista una previsione pattizia espressa sul punto in esame. Peraltro, la predetta disposizione del Protocollo trova espressa applicazione solamente nel caso del trasferimento di residenza delle persone fisiche, con l’effetto che una sua estensione analogica alle persone giuridiche sembra doversi inevitabilmente escludere. Nel silenzio della norma primaria, utili indicazioni sembra possano ritrarsi dalla prassi in materia. In questo senso, l’aspetto più rilevante della fattispecie in esame è, forse, quello di qualificare il trasferimento in termini di continuità giuridica o meno rispetto all’ordinamento di origine, distinguendo poi la circostanza che l’operazione avvenga nell’ambito dell’ordinamento dell’UE o tra Stati estranei a tale ordinamento. Oltre a ciò, se, alla luce delle nuove norme in tema di dichiarazione infedele, tale circostanza non dovrebbe dar luogo ad alcun reato tributario in quanto nel caso che ci occupa si tratta pur sempre di “valutazione di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti” e ragionevolmente “indicati in bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali”, potrebbe però ugualmente esporre il contribuente alla sanzione amministrativa per l’infedeltà dichiarativa. Infatti, la riforma apportata al sistema sanzionatorio tributario dal D.Lgs. n. 158/2015 ha sì introdotto alcune esimenti ma solamente nel caso di determinazione dei prezzi di trasferimento nell’ambito delle operazioni contemplate dall’articolo 110, comma 7 TUIR, cioè delle transazioni infragruppo, e non di quelli afferenti all’articolo 166-bis TUIR, che perciò resterebbero soggette alla specifica e piena sanzione amministrativa. È pertanto evidente che, nel valutare l’ipotesi di un trasferimento in Italia della residenza, gli imprenditori stranieri white list dovranno seriamente valutare l’ipotesi di accedere al regime degli accordi preventivi di cui all’articolo 31-ter D.P.R. n. 600/1973 al fine di conseguire la certezza giuridica circa la bontà delle loro valutazioni. La recente Risoluzione n. 69/E è intervenuta anche su questo tema, affermando che “il valore normale, determinato ai sensi dell’articolo 9 del TUIR, possa essere riconosciuto anche ai beni della società incorporata che non sono più presenti in bilancio in quanto completamente ammortizzati o il cui valore contabile sia inferiore al fair value”. Sul punto la Risoluzione conclude che “il riconoscimento di una maggiore quota di ammortamento fiscale, rispetto a quella risultante in contabilità, sarà possibile ai sensi dell’articolo 109, comma 4, lettera b) del TUIR che prevede la deduzione dei componenti negativi che «pur non essendo imputati al conto economico, sono deducibili per disposizioni di legge»”. Adottando un simile pronunciamento, come fatto osservare da alcuni autori[6] , l’istituto del rimpatrio così introduce un “possibile disallineamento tra valore contabile e fiscale dei beni trasferiti nell’ambito del reddito d’impresa nazionale”. Come affermato già dalla citata prassi dell’Agenzia delle Entrate (cfr. Risoluzione n. 9/E del 2006) le conseguenze di ordine fiscale relative al trasferimento in Italia dall’estero o, viceversa, dall’Italia verso l’estero della sede sociale dipendono dalla continuità giuridica o meno dell’ente ai sensi dell’articolo 25, comma 3, L. n. 218/1995. La prima rilevante conseguenza di ciò è che, nella prima ipotesi, il periodo d’imposta, costituito dall’esercizio sociale, non si interrompe. Pertanto, in applicazione dell’articolo 73, comma 3 TUIR, l’ente risulterà residente in Italia per l’intero esercizio anche se il trasferimento di sede si è perfezionato prima che sia decorso un numero di giorni superiore alla metà del periodo d’imposta. Nell’ipotesi di inefficacia del trasferimento di sede in continuità giuridica, la società, costituita ex novo secondo l’ordinamento italiano, inizierà un nuovo periodo d’imposta e sarà considerata da subito residente, alla stregua delle società neocostituite. Stante ciò, tuttavia, l’articolo 166-bis TUIR non contiene alcuna previsione idonea ad identificare il momento in cui tale trasferimento sia avvenuto. Resta, quindi, che l’unica indicazione utile al fine di individuare l’esercizio sociale dal quale considerare residente in Italia la società trasferenda è rinvenibile nel suddetto documento di prassi e nella successiva Risoluzione n. 345/E del 2008 che conferma le conclusioni della precedente Risoluzione del 2006. Pertanto, versandosi nell’ipotesi di un regime di continuità giuridica del trasferimento di sede di una società dall’estero si avrà anche la continuità degli esercizi sociali. La società in esame dovrà considerarsi residente in Italia sin dall’inizio dell’esercizio sociale e, quindi, anche nel periodo antecedente l’iscrizione nel Registro delle imprese, pur non avendo la sede legale, la sede di amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta. È degno di nota che una tale soluzione risolve, negativamente, anche il tema del cosiddetto “split year”, negandone la ammissibilità. Ne consegue che, ai fini della normativa italiana e, dunque, anche di quella convenzionale, che rinvia sul punto alle norme interne, non è possibile considerare un soggetto residente limitatamente ad una frazione dell’anno d’imposta. Secondo la prassi amministrativa che si è occupata del tema (in verità, nel caso di trasferimento all’estero e non in entrata), quindi, in mancanza di una disciplina espressa della decorrenza Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 dell’acquisto o della perdita della residenza in corso d’anno, si deve ritenere che il contribuente che si trasferisca all’estero dopo aver maturato i requisiti per l’applicazione del “worldwide taxation principle” continuerà ad essere assoggettato a tassazione in Italia anche per tutti gli eventuali redditi prodotti dal momento del trasferimento al momento di chiusura del periodo d’imposta. Gli eventuali problemi di doppia residenza che si dovessero creare in caso di espatrio in corso d’anno potranno comunque essere risolti solo su base bilaterale, applicando le disposizioni delle pertinenti CDI (in questo senso, la Risoluzione n. 471/E del 2008). Considerato quindi che l’opposta fattispecie dell’ingresso in Italia non sembra presentare profili giuridico-sistematici diversi da quelli appena visti, appare coerente affermare che anche nell’ipotesi dell’articolo 166-bis TUIR non è possibile frazionare il periodo d’imposta. Al riguardo, tuttavia, occorre menzionare due rilevanti eccezioni e rilevare che la soluzione delle ipotesi di doppia residenza mediante il “frazionamento del periodo d’imposta nel caso di trasferimenti in corso d’anno” è una eventualità ben presente al legislatore italiano, che l’ha contemplata in alcune CDI e, in particolare, nella CDI con la Svizzera (cfr. articolo 4, paragrafo 4) e con la Germania (cfr. il punto 3 del Protocollo alla CDI). Infatti, secondo la citata CDI con la Svizzera, “la persona fisica che ha trasferito definitivamente il suo domicilio da uno Stato contraente all’altro Stato contraente cessa di essere assoggettata nel primo Stato contraente alle imposte per le quali il domicilio è determinante non appena trascorso il giorno del trasferimento del domicilio. L’assoggettamento alle imposte per le quali il domicilio è determinante inizia nell’altro Stato a decorrere dalla stessa data”. Da ciò, è stato ritenuto che “l’esistenza di norme convenzionali espresse che disciplinano i casi in cui è possibile ricorrere al frazionamento del periodo d’imposta per risolvere situazioni di doppia residenza esclude in radice la possibilità di applicare questo principio in via analogico-interpretativa”. Poiché il principio è stato già recepito dall’ordinamento italiano, secondo l’autorità fiscale italiana, estenderne l’applicazione ad ipotesi disciplinate da CDI diverse da quelle in cui è espressamente richiamato violerebbe il principio di sovranità dei singoli Stati ed il principio pattizio che sono alla base del sistema di CDI prefigurato dal M-OCSE. Inoltre, trattandosi di una norma derogatoria ai principi generali in materia, appare difficile che la previsione formulata per il trasferimento di residenza della persona fisica possa trovare applicazione analogica anche per il caso delle persone giuridiche, con l’effetto che per queste ultime, troverà applicazione la regola generale dell’unità del periodo d’imposta. 5. Il regime delle perdite Il tema delle perdite scomputabili dal reddito della società trasferita in Italia assume due distinti profili. Il primo attiene alla riconoscibilità in Italia delle perdite maturate nel periodo in cui la società trasferita era residente nell’altro Stato (Stato di origine); il secondo attiene alla possibilità di qualificare o meno le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta successivi al trasferimento ai fini del loro riporto ai sensi del comma 2 dell’articolo 84 TUIR. Pur nel silenzio della norma su questi aspetti, alcuni spunti di riflessione possono però trovarsi in pregressi pronunciamenti dell’Amministrazione finanziaria. Così la Risoluzione n. 345/E del 2008 ha avuto modo di occuparsi del regime delle perdite di una società trasferitasi dal Lussemburgo. In tale caso, il riporto (“importazione”) delle perdite è stato negato in ragione del fatto che la società lussemburghese rivestiva una delle forme di società a regime fiscale privilegiato contemplate nel Decreto Ministeriale (di seguito D.M.) del 21 novembre 2001. Tale circostanza innescava l’applicazione della specifica disciplina Controlled Foreign Companies (di seguito CFC) (articolo 167 TUIR) con l’effetto che le perdite maturate nel corso degli esercizi fiscali potevano essere compensate soltanto con i futuri redditi della stessa società (imputati per trasparenza al controllante residente proporzionalmente alla partecipazione dallo stesso detenuta): “[i]l soggetto residente che controlla la CFC potrà utilizzare le perdite di quest’ultima soltanto per abbattere i redditi a tassazione separata della medesima entità e non ai fini della determinazione del proprio reddito complessivo da sottoporre a tassazione ordinaria (articolo 2, comma 1, del D.M. 21 novembre 2001, n. 429)”. Come si evince da quest’ultima affermazione, la non riportabilità delle perdite estere sembra essere stata motivata esclusivamente dal particolare regime di tassazione imposto alle società che subiscono un regime impositivo speciale e non piuttosto per ragioni di coerenza sistematica della fiscalità nazionale. Sul punto, ulteriori elementi di riflessione (in senso contrario) possono trarsi anche dalla recente giurisprudenza della CGUE (causa C-123/11 del 21 febbraio 2013, causa A Oy). Pur avendo chiaro che la giurisprudenza della CGUE può avere influenza solamente sugli Stati membri UE, e pertanto nei rapporti con i Paesi terzi non valgono necessariamente i medesimi principi giuridici, resta il fatto che la stessa Commissione europea nella sua comunicazione COM(200)825 del 19 dicembre 2006, relativa all’applicazione delle exit tax tra gli Stati membri UE, aveva chiarito che se delle quattro libertà fondamentali, solo la libera circolazione dei capitali e dei pagamenti si applica ai Paesi terzi, tuttavia l’emigrazione di una persona fisica e il trasferimento della sede di una società possono comportare transazioni oggetto delle disposizioni sulla libera circolazione di capitali. Concludendo che “poiché il risultato dell’applicazione delle diverse libertà deve essere lo stesso, sembra che l’immediata riscossione dell’imposta al momento del trasferimento di tali attivi costituisca una restrizione alla libera circolazione di capitali. Tuttavia, come osservato sopra, la Commissione ritiene che una restrizione in tali circostanze sia giustificata in assenza di cooperazione 19 20 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 amministrativa. La Commissione intenderebbe incoraggiare gli Stati membri, laddove appropriato, a rafforzare la cooperazione amministrativa con i loro partner terzi, dato che tale scelta costituisce il modo migliore per garantire il rispetto degli obblighi fiscali e per prevenire l’evasione fiscale”, sembra potersi concludere che l’estensione di soluzioni condivise a livello comunitario sul tema che ci occupa non sia affatto preclusa nei confronti di Paesi terzi. Ciò osservato, la CGUE, nella citata sentenza A Oy, si è espressa sul tema del riconoscimento in capo ad una società di diritto finlandese di perdite maturate da una sua controllata svedese, in caso di fusione con quest’ultima. L’autorità finlandese, infatti, aveva negato tale possibilità sull’assunto che le perdite della controllata sono state accertate applicando la normativa tributaria svedese. La CGUE, dopo aver concluso che la fattispecie interessava la libertà di stabilimento (paragrafo 28 della sentenza), affermava che la possibilità offerta dal diritto finlandese ad una società controllante residente di contabilizzare le perdite di una controllata residente in caso di fusione con quest’ultima costituisce per la società controllante un vantaggio fiscale (paragrafo 31) e “l’esclusione di tale beneficio nei rapporti tra una società controllante residente e la sua controllata avente sede in un altro Stato membro, è atta a dissuadere la prima dallo stabilirsi in quest’ultimo Stato membro, dissuadendola quindi dal crearvi delle controllate” (paragrafo 32). Superando quindi le ulteriori obiezioni avanzate da alcuni Governi intervenuti nel procedimento (necessità di preservare la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri UE ed impedire i rischi di duplice uso delle perdite e di evasione fiscale), in ragione della loro legittimità ma non proporzionalità, la CGUE conclude che gli articoli 49 e 54 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) non ostano ad una normativa nazionale che esclude che una società controllante, che procede ad una fusione con una società controllata stabilita nel territorio di un altro Stato membro e che ha cessato l’attività, abbia la possibilità di dedurre dal suo reddito imponibile le perdite subite da tale controllata negli esercizi fiscali anteriori alla fusione, quando invece detta normativa nazionale ammette tale possibilità se la fusione è realizzata con una controllata residente. Tuttavia, “siffatta normativa nazionale è incompatibile con il diritto dell’Unione se non consente alla società controllante di provare che la sua controllata non residente ha esaurito le possibilità di contabilizzare tali perdite e che non vi è la possibilità che queste ultime siano contabilizzate nel suo Stato di residenza a titolo di esercizi futuri, né dalla società stessa né da un terzo”, come esattamente accade nel caso di trasferimento della residenza fiscale (sia in continuità giuridica che no). Tale soluzione, peraltro, sembra superare anche il non trascurabile problema del riconoscimento delle modalità di calcolo delle perdite stesse, imponendo, di fatto, l’ingresso di regole proprie di un sistema fiscale da un Paese all’altro. Alla luce di quanto osservato, sembra che, almeno a livello comunitario, il disconoscimento delle perdite in ingresso in caso di trasferimento di residenza si presenti, quanto meno, incompatibile con la giurisprudenza comunitaria in materia. Con riferimento, quindi, ai vincoli di adeguatezza e proporzionalità delle misure volte a tutelare la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri UE e ad impedire i rischi di duplice uso delle perdite e di evasione fiscale, l’ordinamento italiano non potrà che contemplare solamente norme destinate a contrastare fenomeni di tipo abusivo quali il commercio di “bare fiscali”, esponendosi quasi certamente, in caso contrario, a censure della CGUE. Più complesso è il caso della provenienza black list del contribuente. In tal caso, l’assenza della copertura delle libertà comunitarie e le caratteristiche proprie dei regimi fiscali non cooperativi, potrebbero, come nel caso della citata Risoluzione n. 345/E del 2008, giustificare misure di protezione a tutela della coerenza del regime fiscale nazionale, impedendo il riconoscimento di perdite estere black list. In tali circostanze, ovviamente, resta salva, e forse inevitabile, la via dell’interpello preventivo ai sensi dell’articolo 31-ter D.P.R. n. 600/1973. Relativamente al trattamento delle perdite formatesi nei primi tre anni successivi al trasferimento in Italia della residenza, in coerenza con quanto detto relativamente al trasferimento in continuità giuridica o meno del soggetto trasferito, pare corretto affermare che la continuità soggettiva riverberi anche sul regime delle perdite cosicché rilevante per l’applicazione o meno del comma 2 dell’articolo 84 TUIR[7] sarà la considerazione che il soggetto si sia trasferito in Italia dando vita o meno ad nuovo soggetto giuridico. Nel primo caso, la “novità” del soggetto trasferito (conseguente alla discontinuità rispetto all’ordinamento di origine) sarà del tutto assimilabile alla costituzione di un nuovo soggetto giuridico e pertanto il comma 2 dell’articolo 84 TUIR risulterebbe applicabile. Diversamente, e per ragioni opposte, la continuità giuridica del soggetto trasferito impedirà la possibilità di considerare il soggetto trasferito come un “nuovo” soggetto, escludendo quindi l’applicabilità del citato comma 2. Ciò detto, tuttavia, il comma 2 richiede oltre alla novità della costituzione anche un ulteriore requisito: “[…] a condizione che [le perdite, ndr.] si riferiscano ad una nuova attività produttiva”. Ebbene, il mero trasferimento della residenza nella continuità, però, dell’attività d’impresa svolta sembra impedire il verificarsi della condizione richiesta dalla norma. Tale ultima considerazione sembra trovare conforto nella già citata Risoluzione n. 345/E del 2008. Secondo il documento di prassi “come da conforme parere del Dipartimento finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel caso in specie [trasferimento di holding lussemburghese in Italia, ndr.] appare carente, in primo luogo, la condizione relativa alla data di costituzione. Va, infatti, osservato che il trasferimento in Italia è avvenuto in regime di continuità societaria e, quindi, non si può ritenere che la data di costituzione cui fare riferimento agli effetti dell’applicazione del citato articolo 84, comma 2 TUIR sia quella del trasferimento in Italia. Nella fattispecie, infatti, non si può parlare di costituzione nel nostro Paese in quanto, come peraltro evidenziato dalla stessa società istante, il trasferimento è avvenuto in regime di continuità giuridica. Va da sé che in assenza della prima condizione richiesta dall’articolo 84, comma 2 TUIR per il riporto illimitato delle perdite, Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 si ritiene superfluo verificare la sussistenza o meno della seconda condizione relativa all’esercizio di un nuova attività produttiva. Ciò posto, si ritiene che le perdite eventualmente realizzate dalla società istante nei primi tre periodi d’imposta di residenza in Italia non potranno ricadere nella previsione dell’articolo 84, comma 2 TUIR”. Da quanto riportato, la soddisfazione di entrambe le condizioni viene ritenuta dall’Amministrazione finanziaria una condizione necessaria per l’applicabilità del comma 2. Pur prendendo atto del tenore letterale della norma, tuttavia, si ritiene che una corretta valutazione della modalità di ingresso in Italia del soggetto estero, nella forma della discontinuità giuridica di esso, potrebbe, quanto meno dal punto di vista giuridico-formale, aprire la strada a valutazioni in parte differenti. Diversamente, da un punto di vista economico-sostanziale, appare però innegabile che il mero trasferimento del dato “formale” della residenza, pur implicando rilevanti effetti sostanziali, non determina certamente di per sé il “rinnovarsi” del business produttivo del reddito d’impresa del contribuente, come richiesto dal comma 2 dell’articolo 84 TUIR. 6. Ulteriori criticità: aspetti contabili, riserve di utili e regime pex In ragione della derivazione della base imponibile domestica dai risultati contabili del contribuente, il silenzio della norma primaria potrebbe porre ulteriori problemi per la sua applicazione. Così, nel caso di trasferimento in continuità giuridica, ad esempio, si pone il primo tema della conversione, nel corso dell’esercizio, dei valori e dei criteri di imputazione contabili (e quindi, fiscali) della società trasferenda secondo i principi contabili nazionali (ad esempio, ai fini del regime pex o di quello delle cosiddette “società di comodo”). Se poi si consideri il fatto che ai fini fiscali, come visto sopra, non è ipotizzabile la teoria dello “split year”, si porrà il problema della “conversione fiscale” domestica dei risultati d’esercizio (fino alla data di trasferimento) contabilizzati secondo le regole del Paese di origine. Forse meno problematico appare il trasferimento in discontinuità nella misura in cui la cesura con l’ordinamento di provenienza pone le basi perché nell’ordinamento di destinazione, fin dall’inizio del periodo d’imposta, si adottino le regole contabili di tale ordinamento. L’unica soluzione che allo stato appare possibile è quella di adottare un volontario adeguamento dei dati di bilancio che introduca soluzioni idonee ad assicurare, quanto meno per le operazioni in ambito comunitario, la neutralità fiscale di tali operazioni. Tale approccio, peraltro non potrà essere disconosciuto od ignorato dalle autorità fiscali in quanto perfettamente aderente alle indicazioni di fonte comunitaria, da ultimo espresse dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 2 febbraio 2012 (2013/c 239 E/03, raccomandazione n. 2). Richiamando quanto osservato sopra, in ordine al “doppio binario” introdotto dalla Risoluzione n. 69/E, quando ammette maggiori quote di ammortamento fiscale rispetto a quelle contabili “ai sensi dell’articolo 109, comma 4, lettera b) del TUIR che prevede la deduzione dei componenti negativi che «pur non essendo imputati al conto economico, sono deducibili per disposizioni di legge»”, sembrerebbe possibile affermare che il trasferimento debba avvenire in continuità dei valori contabili, facendo, invece, salva l’applicazione delle norme fiscali domestiche in ordine al trattamento delle diverse fattispecie (ad esempio, ricostruzione della stratificazione delle riserve di utili e di capitali in caso di distribuzione o riconoscimento del valore fiscale di cespiti integralmente ammortizzati). Un ultimo aspetto che merita di essere considerato attiene alla qualificazione delle riserve di utili formatesi all’estero. Tale questione assume poi ulteriori specifici profili di difficoltà anche in ragione dei principi fiscali alla base del rapporto socio/società nel Paese di origine (imputation system vs. exemption system) e dell’eventuale imposizione che tali utili hanno scontato all’estero. In assenza di precedenti di prassi idonei a chiarire il tema, appare coerente con il principio di neutralità fiscale dell’operazione che la natura di “riserva di utili” attribuita a tali riserve nel Paese di origine venga riconosciuta anche in Italia, con l’effetto di assoggettarle ad imposizione quando siano, eventualmente, distribuite ai soci. In tale evenienza, poi, il socio godrà dei rimedi domestici per alleviare la doppia imposizione economica in cui dovesse incorrere. Analogamente, si ritiene che soggiacerà alla disciplina domestica la fuoriuscita dei beni aziendali dal circuito del reddito d’impresa qualora dovesse avvenire successivamente al trasferimento in Italia del complesso aziendale. Anche rispetto al possesso dei requisiti per accedere al regime di participation exemption, si ritiene che le classificazioni di bilancio adottate dall’impresa non possano che trasferirsi in continuità nella “nuova” contabilità italiana del contribuente, salvo che, nel rispetto dell’autonomia del contribuente, vi siano gli spazi per una modifica di tale classificazione. Dal punto di vista fiscale, poi, tale classificazione potrebbe anche andare esente da valutazioni di tipo elusivo. Infatti, se l’ormai abrogato articolo 37-bis D.P.R. n. 600/1973 prevedeva, alla lettera f del comma 1, la possibilità di censurare le valutazioni e classificazioni di bilancio, il nuovo articolo 10-bis dello Statuto del contribuente non sembra direttamente idoneo a colpire tali “operazioni”, se non a condizioni di innestare la classificazione della partecipazione da valutare in una più ampia operazione “priva di sostanza economica”. 7. Conclusioni Dalla disamina compiuta, emerge come il pur apprezzabile sforzo legislativo di favorire il rientro in Italia di soggetti esterovestiti o di attrarre imprese estere in Italia attraverso l’introduzione della norma di cui all’articolo 166-bis TUIR, risulti finora, in parte, incompiuto. In effetti, alcune delle incertezze potrebbero essere agevolmente risolte facendo riferimento alla prassi amministrativa in precedenza emanata. Ciò, peraltro, sarebbe anche giustificato dal rilievo attribuito alla prassi amministrativa dallo Statuto del contribuente. 21 22 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 Tuttavia, al fine di rendere davvero “attraente” l’ingresso di investitori stranieri nell’ordinamento italiano, almeno rispetto al tema qui in esame, potrebbe essere importante almeno un atto interpretativo unitario dell’Amministrazione finanziaria, che “assesti” la stratificazione delle diverse pronunce intervenute in passato su specifici temi e faccia chiarezza sui diversi dubbi ancora esistenti. Elenco delle fonti fotografiche: http://beaconrepor ts.net/wp-content/uploads/2015/01/feature2.jpg [30.09.2016] http://image.nj.com/home/njo-media/width620/img/business_impact/ photo/andre-malok-t he-s t ar-ledger-22jpg-74 cddebbd4 c09059.jpg [30.09.2016] http://w w w.dirittobancario.it/sites/default/f iles/imagecache/Stor y_ node_636x254/immagini/tax_planning_tax_300x180_6.jpg [30.09.2016] [1] Attualmente la disciplina sul trasferimento di sede è contenuta negli articoli 166 e 166-bis del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (di seguito TUIR). L’articolo 166 TUIR contempla la normativa italiana sulla cosiddetta “exit tax”. Introdotto nell’ordinamento italiano nel 2004, l’articolo era stato modificato già nel 2007 con l’introduzione dei commi 2-bis e 2-ter ad opera del comma 1, lettera b del Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 199/2007, che recepiva la Direttiva n. 2005/19/ CE relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, scissioni e altre operazioni di ristrutturazione aziendale concernenti società di Stati membri diversi. Il contrasto della norma italiana con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (di seguito CGUE) ha determinato un’ulteriore modifica nel 2012 ad opera dell’articolo 91 del Decreto Legge (D.L.) n. 1/2012, che ha introdotto il riferimento ai principi comunitari espressi nella sentenza “National Grid Indus BV” (causa C-371/10). L’ultima modifica è quella introdotta dall’articolo 11 D.Lgs. n. 147/2015 (cosiddetto “Decreto Internazionalizzazione”) che ha, tra l’altro, eliminato il riferimento espresso proprio alla sentenza “National Grid Indus BV“. L’articolo 166-bis TUIR contempla invece la disciplina del trasferimento “in ingresso” della residenza ed è stato introdotto dall’articolo 12 D.Lgs. n. 147/2015. [2]Si veda Baccaglini Francesco, Gli effetti del decreto attuativo della exit tax italiana nei trasferimenti di sede verso la Svizzera, in: NF 1/2015, pagine 11-19. [3]Il medesimo D.Lgs. n. 147/2015, all’articolo 1, ha introdotto nel Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 600/1973, relativo all’accertamento delle imposte sui redditi, il nuovo articolo 31-ter, rubricato “Accordi preventivi per le imprese con attività internazionale”. La nuova norma introduce una complessiva revisione degli accordi tra imprese aventi attività estera ed amministrazione finanziaria, in precedenza disciplinati dal cosiddetto “ruling di standard internazionale” (contenuto nell’articolo 8 D.Lgs. n. 269/2003, abrogato dal comma 1 dell’articolo 1 D.Lgs. n. 147/2015). Quest’ultimo, infatti, è stato sostituito con una nuova procedura per la stipula di accordi preventivi con l’amministrazione finanziaria, che viene ricondotta nell’alveo della disciplina generale dell’accertamento, di cui al D.P.R. n. 600/1973. In particolare, con le modifiche proposte si estende la procedura di accordo preventivo anche alla definizione dei valori di ingresso e di uscita in caso di trasferimento della residenza, come disciplinato dal TUIR, nonché all’attribuzione di utili e perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un’impresa o un ente residente ovvero alla stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente. Gli accordi vincolano le parti per il periodo d’imposta nel corso del quale sono stipulati e per i quattro periodi d’imposta successivi e precludono all’Amministrazione finanziaria l’esercizio di poteri di controllo ed accertamento per le parti coperte dall’accordo. È altresì previsto che, ove gli accordi discendano da altri accordi conclusi con le autorità competenti di Stati esteri a seguito delle procedure amichevoli previste dalle convenzioni contro le doppie imposizioni (di seguito CDI), i patti sottoscritti con l’Amministrazione finanziaria vincolano le parti secondo quanto convenuto con dette autorità, anche a decorrere da periodi di imposta precedenti, purché non anteriori al periodo d’imposta in corso alla data di presentazione dell’istanza da parte del contribuente. [4] Si veda Cass., sez. V, sentenza n. 21970 del 28 ottobre 2015: “[s]econdo consolidata giurisprudenza di questa Corte (dalla quale non vi è motivo di discostarsi) ai fini delle imposte dirette, le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano (v. Cass. 677/15, 14434/10, 9319/06, 13803/01, 1225/98)”. [5] Articolo 25, comma 3 L. n. 218/1995: “[i] trasferimenti della sede statutaria in altro Stato e le fusioni di enti con sede in Stati diversi hanno efficacia soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati”. [6] Si veda Rossi Luca/Ficai Giacomo, Acquisizione della residenza fiscale in Italia e valorizzazione ai fini tributari di beni provenienti dall’estero, in: Corr. Trib. n. 13/2016, pagina 991. [7] Articolo 84 TUIR: “1. La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare […]. 2. Le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva”. Diritto tributario italiano Prima lettura del nuovo abuso del diritto Gianluigi Bizioli Professore Associato di Diritto tributario nell’Università degli studi di Bergamo Of Counsel, Ludovici Piccone & Partners Ambito di applicazione e definizione definizione: (i) l’ambito di applicazione e (ii) i presupposti del divieto di abuso del diritto[5]. 1. Premessa L’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212/2000), rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, rappresenta il punto di arrivo di un lungo cammino che ha investito, come è in uso dire fra i comparatisti, molteplici “formanti del diritto”. Semplificando, forse eccessivamente, il quadro d’indagine si può affermare che la genesi di tale articolo è riconducibile a due diverse fonti: (i) il diritto dell’Unione europea (di seguito UE) e (ii) la giurisprudenza della Corte di cassazione. 2. L’ambito di applicazione dell’articolo 10-bis La collocazione del divieto di abuso del diritto nell’ambito dello Statuto dei diritti del contribuente è sintomatico della volontà del legislatore di attribuire allo stesso portata generale, nel senso di renderlo applicabile a qualsiasi tributo, senza distinzione alcuna[6]. Quanto al diritto dell’UE, la fonte primaria deve essere individuata nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE (di seguito CGUE) che, in varie pronunce, ha enucleato vari divieti di abuso, tutti basati sul presupposto che i soggetti non possano trarre vantaggio da operazioni non reali o non effettive[1]. Questo percorso trova riscontro anche nei processi normativi, prima con la Raccomandazione n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012[2] ove, al punto 4.2., si fa riferimento al concetto di “sostanza economica” e, quindi, con la recentissima Direttiva n. 2016/1164 del 12 luglio 2016[3] a quello di costruzione “non genuina” (o serie di costruzioni “non genuine”) (articolo 6, paragrafo 1). La giurisprudenza di legittimità italiana ha, diversamente, contribuito a tale risultato attraverso la nota affermazione dell’esistenza di un divieto generale anti-elusivo nell’ordinamento tributario italiano. Più precisamente, tale divieto sarebbe “immanente” nel sistema e deriverebbe direttamente dal precetto costituzionale di cui all’articolo 53[4]. La sintesi normativa di tale percorso è costituita, come si è già anticipato, dalla formulazione della prima parte del comma 1 dell’articolo 10-bis: “[c]onfigurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Con questo contributo s’intende offrire una breve e sintetica introduzione dei profili sostanziali di tale disposizione. Più in particolare, si analizzeranno due profili conseguenti a tale Nonostante l’evidente chiarezza di questa conclusione, essa pone nondimeno (almeno) tre differenti problemi: ◆◆ in primo luogo, deve essere verificato se il nuovo articolo 10-bis trovi applicazione anche alle fattispecie transnazionali (o internazionali), oltre che a quelle puramente interne. Come si è già sostenuto altrove, la formulazione della disposizione offre elementi inequivoci a tal proposito[7]. Riferendosi alle “norme fiscali” e ai “principi dell’ordinamento tributario”, la disciplina del nuovo abuso del diritto intende comprendere tutte le norme che producono effetti nell’ordinamento tributario italiano, quindi tutte le norme appartenenti al diritto dell’UE dotate di diretta efficacia e a quelle convenzionali dirette all’eliminazione delle doppie imposizioni cui sia stata data efficacia attraverso la legge di esecuzione[8]. In questo senso, il divieto si estende a tutte le operazioni prive di sostanza economica che realizzino vantaggi fiscali indebiti, indipendentemente dalla fonte “interna” o “esterna” della norma fiscale aggirata purché abbia diretta efficacia nell’ordinamento italiano. Diverso è il caso in cui il vantaggio fiscale (indebito) derivi dallo sfruttamento congiunto della disciplina interna e di quella di uno Stato estero. Difficilmente, in queste situazioni, l’articolo 10-bis potrà trovare applicazione, sia per la già riferita formulazione letterale, sia perché l’abuso presuppone l’esistenza di un sistema normativo ordinato e coerente (o, almeno, che tenda all’ordine e alla coerenza interna)[9]. Un’indiretta argomentazione a sostegno di questa conclusione è rinvenibile nelle azioni e norme specifiche volte a contrastare questi fenomeni, sia a livello convenzionale (Base Erosion and Profit Shifting [BEPS] Action Plan 2, 4 e 7, per 23 24 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 esempio) sia a livello UE (la già citata Direttiva n. 2016/1164 contiene norme volte a prevenire tali fenomeni nel caso di utilizzo di hybrid entities e Controlled Foreign Companies [CFC] e limiti alla deducibilità degli interessi passivi), che fanno presumere la non applicabilità (o, quanto meno, la residualità) della clausola generale anti-abuso a tali situazioni; ◆◆ un secondo profilo, strettamente collegato a quello appena trattato, è quello dell’estensione del divieto anche ai tributi cosiddetti “armonizzati” (e, in particolare, all’imposta sul valore aggiunto [IVA], alle accise e ai tributi doganali). L’intento del legislatore e le prime prese di posizione sono affermative[10]. Anche in questo caso, tale conclusione è, non solo, corretta ma è, altresì, decisamente auspicabile. Una disciplina unitaria e uniforme del divieto di abuso del diritto, infatti, non produce inutili discriminazioni in ragione del tributo applicato e agevola l’instaurazione di rapporti tributari informati a canoni di certezza del diritto. Per raggiungere tale risultato, il legislatore tributario non ha esitato a integrare i principi e i canoni previsti dalla Legge delega dell’11 marzo 2014, n. 23, che si limitavano a prevedere la definizione della condotta abusiva come “uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta”, con il requisito della “sostanza economica” di matrice (come si è già detto) europea. Tuttavia, anche in questo caso, è utile precisare che il destino di questa soluzione non è integralmente nelle mani né del legislatore italiano né dei giudici italiani. Il contenuto di tale divieto applicabile ai tributi armonizzati rientra nelle competenze dell’UE e della giurisprudenza della CGUE. In ragione della prevalenza del diritto UE rispetto a quello interno è facile comprendere che eventuali futuri scostamenti fra i due principi condurranno alla formazione di distinte clausole anti-abuso. Il più recente esempio, rappresentato dal già citato articolo 6 della Direttiva n. 2016/1164, sembra essere, almeno nella sostanza, allineato alla Raccomandazione n. 2012/772/UE (e, quindi, alla formulazione introdotta nell’ordinamento tributario italiano con l’articolo 10-bis). Nello specifico, la disposizione, al pari della Direttiva n. 2015/121[11], è basata sopra l’espressione “costruzioni non genuine” che si traduce nell’assenza di valide ragioni commerciali che non rispecchiano la realtà economica e che, quindi, pur discostandosi formalmente dal precedente termine “artificialità”, è impiegata dalla Direttiva per individuare il medesimo fenomeno sociale[12]; ◆◆ un ultimo aspetto riguarda i rapporti fra la clausola generale anti-abuso e le norme anti-elusive specifiche. I maggiori problemi si concentrano sul coordinamento fra l’articolo 20 del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 131/1986 (“Testo Unico dell’imposta di registro”) e l’articolo 10-bis. Non vi sono, diversamente, problemi con le norme a finalità anti-elusiva – quali, per esempio, quelle relative alla localizzazione della residenza delle persone fisiche in paradisi fiscali o all’“esterovestizione” societaria – perché queste ultime, oltre ad avere una differente natura rispetto all’articolo 10-bis, sono norme il cui ambito di applicazione soggettivo e oggettivo è decisamente più ristretto rispetto al divieto generale anti-abuso. All’opposto, l’articolo 20 D.P.R. n. 131/1986, che prevede che “[l]’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, è stato interpretato, dalla giurisprudenza di legittimità largamente maggioritaria, come divieto anti-elusivo applicabile all’imposta di registro[13]. Trascurando la questione della (in)fondatezza di questo orientamento giurisprudenziale, la convivenza di una specifica clausola anti-elusiva nel sistema dell’imposta di registro dopo l’introduzione dell’articolo 10-bis produrrebbe delle conseguenze del tutto irragionevoli per il contribuente, perché tale clausola sarebbe, fra l’altro, priva delle garanzie procedimentali previste dal generale divieto anti-abuso. L’auspicio[14] , dunque, è che la giurisprudenza di legittimità ritorni ad assegnare all’articolo 20 D.P.R. n. 131/1986 il valore di norma sull’interpretazione degli atti negoziali in base ai canoni giuridici. 3. La definizione di abuso del diritto. Presupposti La definizione di abuso del diritto è, in una prospettiva puramente teorica, soddisfacente, perché esclude chiaramente che le “valide ragioni extrafiscali” siano un elemento costitutivo della nozione. Non solo questa soluzione normativa appare coerente con la funzione della clausola, individuata nell’eguale (o equa) ripartizione dei carichi impositivi fra i consociati che manifestano una capacità contributiva comparabile, bensì elimina, sul piano pragmatico, lo scrutinio dell’Amministrazione finanziaria (e la valutazione del giudice) sulle scelte imprenditoriali e/o familiari del contribuente[15]. I presupposti costitutivi dell’abuso del diritto sono tre[16]: (i) assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; (ii) realizzazione di un vantaggio fiscale indebito e (iii) che tale vantaggio sia l’effetto essenziale dell’operazione. Rispetto a questa definizione, le già citate “valide ragioni extrafiscali” riguardano la verifica della consistenza dei motivi extrafiscali sottostanti all’operazione. In questo senso, tale profilo tende a sovrapporsi rispetto a quello dell’accertamento della sostanza economica dell’operazione (o delle operazioni). Il primo elemento della nozione è, come si è già anticipato, di derivazione europea, nel senso che deriva dall’influenza del divieto anti-abusivo elaborato nella giurisprudenza relativa alle libertà fondamentali di fonte europea. Quella giurisprudenza ha tradotto l’assenza di sostanza economica in termini di “costruzioni di puro artificio”[17] , nozione che appare applicabile senza eccessivi problemi alle tradizionali attività economiche produttive di beni ma che presenta qualche difficoltà per le attività di prestazione di servizi, soprattutto di Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 natura finanziaria. La più recente interpretazione del requisito è formulata dalla Direttiva n. 2016/1164 contro le pratiche elusive che, all’articolo 6, paragrafo 2, richiede l’esistenza di “valide ragioni commerciali che [rispecchino] la realtà economica”. Rispetto a tale definizione, l’articolo 10-bis si premura di precisare che l’uso distorto degli strumenti giuridici rappresenta un indice (o una manifestazione) dell’assenza di sostanza economica, ma non se ne identifica integralmente. sia prova essenziale al fine dell’accertamento della legittimità della contestazione di operazioni e/o comportamenti abusivi. Seppur banale, questo requisito si compone non solo del carattere indebito bensì richiede anche la presenza di un vantaggio fiscale. In questo senso, sarà integrato abuso del diritto solo nel caso in cui dall’operazione derivi un vantaggio economico, in termini di risparmio del quantum del tributo dovuto ovvero di godimento di un’agevolazione indebita. Da ultimo, il vantaggio fiscale realizzato deve costituire il motivo essenziale dell’operazione e/o del comportamento del contribuente. Tale essenzialità deve essere misurata in termini di relazione rispetto ai vantaggi di natura extrafiscale e, come osserva Assonime, “non si declina come un requisito effettivamente autonomo rispetto a quelli già presi in esame e, in particolare, rispetto a quello della mancanza di sostanza economica”[18]. Sul piano sistemico, il legislatore ha (normativamente) distinto l’abuso del diritto e la simulazione, che, dal punto di vista puramente teorico, rientra fra le situazioni evasive. L’articolo 1, comma 1, lettera g-bis) D.Lgs. n. 74/2000, come modificato dal D.Lgs. n. 158/2015, prevede che l’espressione “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” debba intendersi in maniera tale da non comprendere quelle che ricadono nell’abuso del diritto. Più precisamente, il legislatore ha distinto la simulazione rispetto all’abuso in ragione della volontà (o meno) di realizzare un determinato negozio giuridico (o una pluralità di negozi). In questo senso, la simulazione potrà essere contestata quando si provi che il negozio realizzato è, in tutto o in parte, non voluto, mentre l’abuso richiede la corrispondenza fra volontà del contribuente e realtà giuridica. L’abuso, quindi, si caratterizza per operazioni prive di un’apprezzabile sostanza economica che siano in contrasto con norme o principi dell’ordinamento tributario, ma la cui efficacia giuridica corrisponde alla volontà delle parti. La realizzazione di un vantaggio fiscale indebito è il requisito più problematico, perché il carattere indebito si traduce nel contrasto fra il comportamento del contribuente e “le finalità delle norme fiscali e con i principi dell’ordinamento tributario”. L’individuazione della finalità delle norme tributarie e dei principi non è compito agevole, per almeno due ragioni. In primo luogo, la disciplina tributaria subisce notevoli variazioni nel tempo, che rendono difficile la formazione di regole stabili e, quale conseguenza, rende complicato la definizione della funzione e la ricostruzione dei principi. In secondo luogo, l’assenza di un codice in materia tributaria ha prodotto la costruzione di una pluralità di sistemi tributari, piuttosto che un sistema tributario informato a principi uniformi, che rispondono a finalità e logiche non sempre coerenti fra loro. Tutto ciò premesso, la disposizione è sufficientemente chiara nel richiedere che sia indicata, da parte dell’Amministrazione finanziaria, la norma o il principio eluso e che tale elemento 4. Conclusioni Anche una rapida lettura dell’ambito di applicazione e della definizione del nuovo abuso del diritto codificato dall’ordinamento tributario italiano consente di apprezzare un miglioramento, in termini di certezza del diritto, rispetto alla precedente condizione. A ciò devono aggiungersi le garanzie procedimentali previste e l’esclusione della sanzionabilità penale della condotta abusiva. Non vi è dubbio, tuttavia, che le clausole generali anti-abuso restano uno strumento “flessibile” nelle mani della giurisprudenza, nel senso che sono espressione del bilanciamento fra la libertà economica del contribuente e il dovere di concorrere alle spese pubbliche. Per tale ragione, la reale verifica della garanzia della certezza del diritto è affidata al “diritto vivente”. Elenco delle fonti fotografiche: h t t p:// w w w. e d o t t o . co m/U t i l i t y/G e t F i l e B y I d/55 6 e a e 0 b f d b 9520 4 38d43853 [30.09.2016] h t t p://w w w. r i v i s t a . s s e f. i t /w w w. r i v i s t a . s s e f. i t /f i l e/p u b l i c /i m m agini/2010/04-09/esclusione_600.jpg [30.09.2016] 25 26 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 [1]Nella sentenza del 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd e County Wide Property Investments Ltd v. Commissioners of Customs & Excise, in: Racc. I-1609, la CGUE fa riferimento al concetto di “normalità commerciale”: “[l]’applicazione della normativa comunitaria non può, infatti, estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario” (punto 69). Analogo fondamento si trova nelle sentenze relative alle libertà fondamentali e sistemi tributari nazionali. Nella causa Cadbury Schweppes, la CGUE osserva che la libertà di stabilimento “presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale” (sentenza del 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd v. Commissioners of Inland Revenue, in: Racc. I-7995, punto 54). [2]Raccomandazione della Commissione del 6 dicembre 2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva (n. 2012/772/UE). [3]Direttiva UE n. 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul mercato interno. [4]Corte di cassazione, ss.uu., sentenze del 24 dicembre 2008, n. 30055, 30056 e 30057. [5]La disposizione ha risolto anche la questione (terminologica) del rapporto fra elusione fisca- le e abuso del diritto nel senso di attribuire a tali espressioni il medesimo significato normativo. [6]Volontà espressamente confermata dallo stesso legislatore nella Relazione illustrativa al progetto di Decreto (pagina 6). [7] Bizioli Gianluigi, Abuso del diritto e convenzioni contro le doppie imposizioni, pagina 89 (pagina 93 e seguenti), in: Miele Luca, Il nuovo abuso del diritto, Analisi normativa e casi pratici, Torino 2016. [8] Da questo punto di vista, se presa alla lettera, non appare corretta la posizione di Assonime nella Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 128/2015 sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente: la disciplina sull’abuso del diritto, ove si ritiene applicabile il divieto solo con riguardo “a quelle discipline di fonte internazionale che sono state già recepite con apposite norme dell’ordinamento interno” (pagine 23-24). Non tutte le norme del diritto dell’UE, infatti, devono essere recepite da norme interne – il riferimento più agevole è ai regolamenti e alla disciplina dei tributi doganali – e, anche quelle norme che richiedono un adattamento possono, in determinate circostanze, produrre effetti diretti senza l’intervento di norme interne. In tale senso, è più corretto affermare che il criterio per determinare l’applicazione del divieto anti-abuso è quello, sostanziale, dell’efficacia interna delle norme derivanti da fonti “esterne” all’ordinamento italiano. [9] In questo senso, Assonime, Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, pagina 23. [10]Relazione illustrativa, pagina 6 e Assonime, Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, pagina 17. [11]Direttiva UE n. 2015/121 del Consiglio, del 27 gennaio 2015, che modifica la Direttiva n. 2011/96/UE concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi. [12]Come evidenziano anche Navarro Aitor/ Parada Leopoldo/Schwarz Paloma, The Proposal for an EU Anti-Avoidance Directive: Some Preliminary Thoughts, in: EC Tax Review, 2016, pagina 117 (a pagina 124). [13] Si veda, ex multis, Cass., V, sentenza 28 giugno 2013, n. 16345. [14] Condiviso anche da Assonime, Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, pagina 23. [15] Assonime, nella Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, pagina 13, evidenzia anche che “il sindacato sulle ragioni economiche è stato fatto valere come un duttile strumento per l’accertamento, finendo per essere utilizzato anche in fattispecie del tutto estranee all’elusione e all’abuso e, cioè, anche in casi tipici di frode o di simulazione”. [16] Come evidenziato dalla Relazione illustrativa, pagina 6. [17]CGUE, causa C-196/04, Cadbury Schweppes, punto 54: “perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”. [18] Assonime, Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, pagina 78. IVA e imposte indirette Quel pomo della discordia chiamato tassa di collegamento Elisa Antonini Avvocato, MAS SUPSI in Tax Law Studio legale Antonini, Mezzovico [email protected], www.studiolegaleantonini.ch Alcune considerazioni in merito all’impatto IVA e sulle imposte dirette 1. Introduzione Il 5 giugno 2016, dopo una dibattutissima campagna e con un risicato 50.7%, il Popolo ticinese ha approvato l’introduzione di una nuova tassa di collegamento, che è entrata in vigore il successivo 1. agosto 2016. La mancanza di un consenso da parte soprattutto della grande distribuzione e del settore dell’industria ha portato ad una serie di ricorsi, in relazione ai quali è stato richiesto ed ottenuto l’effetto sospensivo. L’applicazione ed il prelievo della tassa di collegamento sono dunque sospesi fino alla sentenza dell’Alta Corte federale. La tassa di collegamento, regolata agli articoli da 35 a 35t della Legge sui trasporti pubblici (di seguito LTPub), si inserisce nelle misure di realizzazione della strategia del Consiglio di Stato ticinese in materia di mobilità e persegue un duplice obiettivo (cfr. Messaggio del Consiglio di Stato n. 7139 del 4 novembre 2015): ◆◆ incentivare la riduzione del traffico veicolare pendolare scoraggiando l’uso individuale dell’automobile per gli spostamenti sistematici, ◆◆ generare un’entrata finanziaria che concorra a coprire gli importanti aumenti di spesa per il trasporto pubblico cui il Canton Ticino è chiamato a far fronte. In sintesi i “basics” della tassa di collegamento sono i seguenti: ◆◆ Chi? Pagano la tassa i proprietari di fondi (o di un insieme di fondi in connessione spaziale o funzionale) sui quali vi sono 50 o più posti auto, fatti salvi i posteggi destinati alle abitazioni, a veicoli di servizio, fornitori, carico e scarico, esposizione e deposito; gli enti di diritto pubblico sono assoggettati alla tassa limitatamente ai posteggi per il personale e per gli utenti che si spostano in modo sistematico (articolo 35b capoversi 2 e 3 LTPub; articolo 4 del Regolamento sulla tassa di collegamento [di seguito RTColl]); ◆◆ Dove? La tassa di collegamento è prelevata solo in alcuni Comuni (articolo 35b capoverso 1 LTPub). L’elenco è consultabile in internet, sul sito del Dipartimento del territorio, Sezione della mobilità (si veda: http://www4.ti.ch/ fileadmin/DT/temi/modifica_legge_trasporti_pubblici/ documenti/Lista_comuni_soggetti_Rcpp_Allegato_1_ RLst.pdf [30.09.2016]). Si tratta di Comuni considerati problematici dal punto di vista del traffico. In totale sono toccati 67 Comuni nei Distretti di Mendrisio, Lugano, Locarno, Bellinzona e della Riviera; ◆◆ Quanto? L’ammontare della tassa è stabilito dal Consiglio di Stato in funzione del numero e della tipologia di posti auto (articolo 7 RTColl): 3.50 franchi al giorno per singolo posto auto destinato al personale o altri utenti che si spostano in modo sistematico e 1.50 franchi al giorno per ogni singolo posto auto destinato a clienti e visitatori. 2. Tassa di collegamento e IVA L’imposta sul valore aggiunto (di seguito IVA) sulle prestazioni eseguite sul territorio svizzero colpisce le prestazioni (forniture di beni e servizi) effettuate sul territorio svizzero da contribuenti dietro controprestazione (articolo 18 capoverso 1 della Legge federale concernente l’imposta sul valore aggiunto [di seguito LIVA]). L’imposta è calcolata sulla controprestazione effettivamente ricevuta, che comprende anche il risarcimento di tutte le spese, fatturate separatamente o meno, nonché di eventuali tributi di diritto pubblico dovuti dal contribuente (articolo 24 capoverso 1 LIVA). Ciò premesso, appare evidente che la tassa di collegamento non è soggetta ad IVA all’atto del suo prelievo da parte del Cantone. Essa può tuttavia assumere rilevanza qualora il proprietario di un fondo contribuente IVA e soggetto alla tassa di collegamento decidesse di traslare detta tassa, scaricando l’onere finanziario che ne deriva sui fruitori dei parcheggi. Infatti la tassa di collegamento è un tributo di diritto pubblico dovuto dal contribuente (l’articolo 35c LTPub identifica il proprietario del fondo quale debitore della tassa) e, come visto sopra, in quanto tale fa parte della base di calcolo IVA. 27 28 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 Sono ipotizzabili due scenari principali: ◆◆ il proprietario del fondo concede in uso i singoli parcheggi e decide di aumentare il prezzo che chiede in pagamento per l’utilizzazione dei posti auto. Ai fini dell’IVA un simile “sovrapprezzo” farebbe parte della controprestazione fatturata/incassata dal proprietario del fondo per la messa a disposizione del parcheggio e sarebbe quindi soggetto ad IVA all’aliquota normale (attualmente 8%) applicabile alla locazione di parcheggi (articolo 21 capoverso 2 n. 21 lettera c LIVA); ◆◆ il proprietario del fondo concede in uso l’intero fondo (immobile inclusi i parcheggi) ad un locatario/affittuario e decide di aumentare il corrispondente canone. Ai fini IVA la locazione di immobili è di principio esclusa dall’imposta (articolo 21 capoverso 2 n. 21 LIVA). Pertanto in questa ipotesi il “sovrapprezzo” derivante dalla traslazione della tassa di collegamento non sarebbe imponibile all’IVA. Tuttavia, qualora il proprietario del fondo avesse optato per l’assoggettamento volontario della locazione dell’immobile (articolo 22 LIVA), il “sovrapprezzo” in questione costituirebbe parte della controprestazione per una locazione imponibile e sarebbe anch’esso soggetto ad IVA all’aliquota normale (attualmente 8%). riduzione del diritto alla deduzione dell’imposta precedente (articolo 33 LIVA). Ne discende che le aziende che ricevono contributi per la mobilità aziendale non hanno verosimilmente il diritto alla piena deduzione dell’imposta precedente gravante i costi connessi con l’implementazione della misura di mobilità aziendale in questione, ma devono effettuare una proporzionale riduzione dell’imposta precedente. 3. Tassa di collegamento e imposta sull’utile La Confederazione, il Cantone e i Comuni prelevano un’imposta sull’utile netto delle persone giuridiche (articolo 57 della Legge federale sull’imposta federale diretta [di seguito LIFD]; articoli 66 e 274 lettera b della Legge tributaria [di seguito LT]). La base di partenza per la determinazione dell’utile netto imponibile è il saldo del conto economico, epurato dal riporto dell’anno precedente (articoli 58 lettera a LIFD e 67 lettera a LT). A tale saldo vanno aggiunte in particolare le spese che, sebbene registrate a conto economico, appaiono non giustificate dall’uso commerciale (articoli 58 lettera b LIFD e 67 lettera b LT). Occorre dunque chiedersi se la tassa di collegamento, nella misura in cui rimanga a carico dell’azienda, possa essere considerata quale costo giustificato dall’uso commerciale. 2.1. Excursus: contributi per la mobilità aziendale Parlando di IVA e tassa di collegamento, è doveroso fare un breve excursus su un’altra misura che si inserisce nella strategia di mobilità del Dipartimento del territorio: si tratta della concessione di contributi per la mobilità aziendale. Con Decreto legislativo del 14 dicembre 2015 il Gran Consiglio ha costituito un fondo di 2 milioni di franchi per il finanziamento di provvedimenti a favore della mobilità aziendale e altri progetti. I criteri per l’accesso a tale fondo sono stabiliti dal Consiglio di Stato con Decreto esecutivo del 15 marzo 2016 concernente la concessione di contributi per la mobilità aziendale. Giusta tale Decreto esecutivo, le aziende che ne fanno richiesta e presentano un piano di mobilità aziendale che soddisfi determinati requisiti, possono ottenere un contributo, il cui ammontare dipende dal tipo di misura per la mobilità aziendale proposto. Dal punto di vista dell’IVA, senza grandi analisi, è lecito ritenere che tali contributi vadano qualificati quali sussidi ai sensi dell’articolo 18 capoverso 2 lettera a LIVA, con conseguente Orbene, personalmente sono dell’avviso che l’onere derivante dal versamento della tassa di collegamento debba essere considerato alla stregua degli altri costi che l’azienda deve affrontare in relazione al mantenimento di posti auto e che ne condivida quindi necessariamente il trattamento fiscale: la tassa di collegamento gravante parcheggi i cui costi sono considerati come fiscalmente deducibili deve, a mente della scrivente, essere considerata anch’essa come un onere giustificato dall’uso commerciale. 4. Tassa di collegamento e imposta sul reddito La tassa di collegamento può, in determinate circostanze, trovarsi ad interferire con l’imposizione del reddito del lavoratore dipendente che dispone di un posteggio al posto di lavoro. Come nel caso dell’IVA, che abbiamo visto sopra, anche il trattamento fiscale ai fini dell’imposta sul reddito è diverso a dipendenza delle situazioni concrete. Di seguito sono esposte alcune possibili casistiche, con le verosimili conseguenze in termini di imposta sul reddito del lavoratore. 4.1. Parcheggio messo a disposizione dal datore di lavoro In questo caso, sia che il posteggio sia messo a disposizione del dipendente a titolo gratuito, parzialmente gratuito o dietro versamento di un canone di locazione, la nuova tassa di collegamento non ha nessun impatto. Infatti la parte gratuita di messa a disposizione, sia essa parziale o totale, non va menzionata nel certificato di salario (cfr. Istruzioni per la compilazione del certificato di salario e dell’attestazione delle rendite, edite dalla Conferenza fiscale svizzera, cifra 72) e un Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 eventuale addebito al dipendente non costituisce una diminuzione di salario bensì una spesa del dipendente. Per maggiori informazioni: Associazione industrie ticinesi (AITI), Tassa di collegamento: informazioni pratiche, 7 luglio 2016, in: http://www.aiti.ch/2016/07/07/tassa-di-collega- 4.2. Parcheggio messo a disposizione da terzi Diverso, rispetto a quanto indicato sopra, è il caso in cui il dipendente loca un parcheggio presso terzi e il datore di lavoro gli rimborsa, in tutto o in parte, i costi che ne derivano. In questo caso il contributo ricevuto dal datore di lavoro costituisce salario imponibile e va indicato nel certificato di salario. Pertanto se il datore di lavoro dovesse decidere di farsi carico della tassa di collegamento e di aumentare in modo corrispondente la propria partecipazione ai costi di parcheggio del dipendente, quest’ultimo si vedrebbe conteggiato, ai fini dell’imposta sul reddito, un salario superiore, con conseguente aumento del carico fiscale. mento-informazioni-pratiche [30.09.2016] Dipartimento del territorio, Sezione della mobilità, La tassa di collegamento, in: http://www4.ti.ch/dt/dstm/sm/temi/modifica-della-legge-sui-trasportipubblici/tassa-di-collegamento/tassa-di-collegamento [30.09.2016] Messaggio del Consiglio di Stato, Modifica della Legge sui trasporti pubblici del 6 dicembre 1994, Tassa di collegamento a carico dei generatori di importanti correnti di traffico a parziale copertura dei costi del trasporto pubblico, n. 7139 del 4 novembre 2015, in: http://www4.ti.ch/user_librerie/php/GC/ caricaAllegato.php?allid=94684 [30.09.2016] Elenco delle fonti fotografiche: 5. Conclusione Quanto precede mostra chiaramente che, indipendentemente dall’impatto economico della nuova tassa di collegamento sui proprietari di fondi e sulle aziende, la stessa può avere una serie di ulteriori ripercussioni fiscali, sotto forma di altre imposte, per il proprietario del fondo, per le aziende e anche per i fruitori finali dei posteggi colpiti dalla tassa. http://www.vocedelticino.ch/wp-content/uploads/2016/05/tassacollegamento.png [30.09.2016] 29 30 Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano La tempestività dell’eccezione e la validità dell’atto firmato dal dirigente illegittimo Emilio de Santis Dottore Commercialista e Revisore contabile Studio de Santis, Bologna Sentenze n. 1058 e n. 1109/2015 della CTP di Campobasso a seguito delle sentenze della Corte di Cassazione n. 18448 e n. 22810/2015. La “nullità tributaria” ex sentenza Cassazione n. 18448/2015 e la precedente dottrina – La “rilevabilità ex ufficio” – Le sentenze di Campobasso e i rapporti dello “jus superveniens” con l’eccezione di nullità per i vizi di firma – I dirigenti illegittimi 1. Premessa La sentenza della Commissione Tributaria Provinciale (di seguito CTP) di Campobasso, n. 1058/2015 del 3 novembre 2015 (alla quale è seguita la n. 1109/2015 del 1. dicembre 2015) pone in evidenza, in particolare, due fondamentali questioni (tempestività dell’eccezione e validità dell’atto firmato dal dirigente illegittimo) in ordine al contenzioso che si è formato a seguito delle eccezioni sollevate dai contribuenti sulla questione della firma degli atti da parte dei dirigenti dichiarati decaduti con la sentenza n. 37/2015 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 25 marzo 2015) della Corte Costituzionale. Peraltro, ad oggi, l’intera vicenda è da ritenersi oramai circoscritta ad alcuni specifici casi che più avanti verranno descritti in questo intervento, in quanto alcune sentenze della Corte Suprema sono intervenute successivamente alla pronuncia della Consulta, definendo con precisione il quadro entro il quale la questione debba essere esaminata, senza possibilità che lo stesso possa essere messo in discussione, se non ponendosi in disaccordo con gli stessi principi elaborati dagli Ermellini, pur sempre con il conforto di precedente autorevole dottrina di segno opposto, che è da intendersi appunto superata dalle elaborazioni del Giudice della legittimità. 2. La “nullità tributaria” ex sentenza cassazione n. 18448/2015 e la precedente dottrina Ci si intende qui riferire, intanto, alla sentenza n. 18448 del 18 settembre 2015 della Corte di Cassazione[1] , che ha statuito con motivazioni complesse e di non facile lettura, ma sicuramente approfondite e interessanti, il principio per cui, succintamente, esiste nel diritto tributario solo la categoria della “nullità tributaria”, in cui confluiscono tutti i vizi che possono inficiare la validità dell’atto tributario, non intervenendo alcuna distinzione tra quelli che originano la sanzione più radicale della nullità dagli altri che producono solo questioni di annullabilità dell’atto. Da ciò facendo derivare che tutti tali vizi debbano essere eccepiti entro il termine di decadenza di cui all’articolo 21 del Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 546/1992, senza peraltro essere possibile che siano rilevabili d’ufficio (e qui sta forse la parte più pregevole delle motivazioni, con il massimo sforzo interpretativo della normativa assunta a riferimento del caso esaminato). Il principio enunciato (confermato in toto dalla sentenza n. 381/2016 della Corte di Cassazione), pone decisamente fine a un tema controverso dibattuto da decenni, che fa naufragare le tesi di alcuni autori, per la quale non può assolutamente ritenersi che la nullità dell’atto ex articolo 42 del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 600/1973, debba essere trattata alla stregua dell’annullabilità, quindi sottoponendola al regime dell’impugnativa ex articolo 61 D.P.R. n. 600/1973[2]. Non solo, altri[3] , avendo prima rilevato che l’atto sottoscritto dal funzionario in situazione di “carenza di potere” sia da ritenere afflitto da nullità, si spingono oltre ritenendo che in tale caso non vi sia alcun termine di decadenza, relativamente all’azione da esercitare per ottenere una sentenza dichiarativa di nullità. E neanche rinvengono problemi di sorta, ad onor del vero con convincenti ragionamenti, nella dibattuta questione della sovrapponibilità delle norme di diritto amministrativo a quelle del diritto tributario, con particolare riguardo agli articoli 21-bis, 21-septies e 21-octies introdotti nella Legge (di seguito L.) n. 241/1990, dalla L. n. 15/2005[4]. 3. La “rilevabilità ex ufficio” La sentenza n. 18448/2015 non lascia spazio ad alcun dubbio: in ordine alla “rilevabilità ex ufficio”, quando spiega che essa – se riconosciuta nel procedimento tributario – confliggerebbe con il requisito della “stabilità” amministrativa dell’atto, laddove Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 anche i limiti del “thema decidendum” non operano nel procedimento amministrativo, contrariamente a quello civile, con la conseguenza di dovere indicare le ragioni della nullità come elemento costitutivo della domanda attorea nel procedimento tributario, atteso che esso è “un sottosistema del diritto amministrativo, con il quale è in rapporto di species ad genus, potendo trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate o non risultino incompatibili con le norme speciali del diritto tributario […]”. Al contrario di chi ha sostenuto che “la giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di provvedimenti nulli, ha più volte richiamato – con cautela e con i dovuti adattamenti – la disciplina della nullità contrattuale, contenuta nel codice civile, ritenendo che l’azione sia imprescrittibile e la nullità rilevabile d’ufficio (se non vi è violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato)”[5]. Principio infatti poi accolto dal Giudice del Territorio di cui qui ci si occupa, che già nella sentenza n. 784/2015[6], ed in ambedue le ultime oggetto di osservazione, riporta le chiarissime parole del Consiglio di Stato nella sentenza n. 8/1963[7], con un ragionamento che fa da filo conduttore a quello della “nullità derivata”, per il quale: “non irrilevante appare, invece, in un sistema duale delle invalidità, il vizio causa di nullità dell’atto impositivo pregresso. Il ragionamento interno sull’efficacia degli atti pare debba farci concludere per la nullità derivata del concordato su atto di imposizione nullo. Infatti è nella stessa natura della nullità la preclusione alla stabilizzazione degli effetti dell’atto viziato, il che contempla anche l’impossibilità per l’atto di nullo di giungere ad una qualche stabilizzazione per il tramite di convalida, sanatoria o di un procedimento che abbia come condizione legittimante proprio l’efficacia dell’atto invalido. Non sembra ragionevole credere che l’atto impositivo nullo possa validamente avviare il procedimento di accertamento con adesione orientandolo e per questo tramite giungere alla formalizzazione di un atto efficace fondato su presupposto nullo”[8]. Senza dimenticare, quanto osserva ad esempio la Commissione Tributaria Regionale (di seguito CTR) della Lombardia, aggiungendosi alle precedenti pronunce del medesimo segno, nella sentenza n. 3699/2015[9] , in cui afferma, quando fosse riscontrata una causa “di nullità assoluta per straripamento di potere dell’atto di accertamento di cui è causa, atteso che esso è stato sottoscritto da soggetto divenuto (sotto il profilo dell’irregolarità amministrativa) usurpatore di funzioni pubbliche per difetto assoluto di attribuzione”, che: “l’atto tributario non sottoscritto o illegittimamente sottoscritto, ove espressamente previsto, è affetto da una giuridica inesistenza che gli impedisce ogni produzione di effetti (quod nullum est nullum producit effectum) e, quindi, la tutela giudiziaria potrebbe essere utilmente esperita anche nel ricorso contro l’atto «successivo», ad esempio, contro la cartella di pagamento – c.d. «impugnazione congiunta» – anche per vizi dell’atto «presupposto» (Cass. SS. UU. 25/7/2007 n. 16412)”. 4. Le sentenze di Campobasso e i rapporti dello “jus superveniens” con l’eccezione di nullità per i vizi di firma Ebbene di tutto ciò nulla è rimasto dopo la sentenza n. 18448/2015 della Suprema Corte, anche se è difficile ritenere che i Giudici del Territorio che più si sono impegnati e soffermati, quali quelli della CTP di Campobasso, nella stesura di sentenze che hanno a fondamento motivazioni completamente opposte alla n. 18448/2015 degli Ermellini, rinuncino ad elaborare pronunce di segno contrario per i futuri contenziosi che dovessero affrontare, anche alla luce dei toni severissimi usati nella recente sentenza del Consiglio di Stato n. 4641/2015[10] , che rileva l’illegittimità del comportamento dei funzionari che abbiano firmato atti o conferito/ricevuto poteri in “violazione di normativa primaria (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165) e di principi Costituzionali (artt. 3, 51 e 97 Cost.)”. Comunque sia, ambedue le sentenze della CTP di Campobasso all’esame non si pongono in contrasto con il principio sancito nella sentenza n. 18448/2015 della Suprema Corte (poi ribadita nella sentenza n. 20984/2015), laddove sancisce che osta “[…] alla generale estensione del regime normativo di diritto amministrativo, la scelta operata dal Legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria della «nullità tributaria» indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità dell’atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della invalidità-annullabilità, dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, in difetto del quale il provvedimento tributario – pure se affetto da vizio «nullità» – si consolida, divenendo definitivo”. Ciò in quanto, con argomentazioni assolutamente convincenti, il Giudice del Territorio, in ambedue le sentenze oggetto di indagine, osserva che l’enunciato principio non può non essere letto se non tenendo nella dovuta evidenza il precedente passaggio della stessa sentenza n. 18448/2015, per cui: “l’oggetto del giudizio, circoscritto ai motivi di ricorso, può essere modificato solo nei limiti consentiti dalla disciplina processuale e, cioè, con la presentazione di «motivi aggiunti», consentita però, dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 24, nel solo caso di «deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione» (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 19337 del 22/09/2011)”. Infatti “il vizio dell’atto tributario sopravvenuto alla proposizione dell’originario ricorso per effetto di una nuova legge, oppure di una sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale o della Corte Europea, può essere fatto valere sia nel giudizio di primo grado che nel giudizio di impugnazione con lo strumento del motivo aggiunto di cui all’art. 24 D.Lgs. 546/92 purché, ben si intende, lo jus superveniens (al quale è equiparabile la sentenza di illegittimità costituzionale) sia applicabile al giudizio in corso, incida sulla situazione di fatto già allegata in primo grado e non determini un ampliamento dei fatti di causa. Si ricorda che, per quanto concerne il giudizio di appello, l’art. 61 D.Lgs. 546/92 dispone l’applicabilità delle «norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione», si che, se dedotto nei termini di 31 32 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 cui all’art. 24 D.Lgs. cit. (giorni 60 dal novum, nella specie dalla pubblicazione della sentenza nella Consulta nella Gazzetta Ufficiale) il vizio dell’atto tributario sopravvenuto, per effetto della dichiarazione di incostituzionalità di una norma, potrà essere dedotto anche nel giudizio di appello e, più in generale, nel processo di impugnazione, ovvero anche innanzi alla Corte di Cassazione”. 5. I dirigenti illegittimi Quanto sopra per ciò che attiene alla prima delle due questioni, accennate all’inizio, e cioè quella della proponibilità dell’eventuale vizio di nullità con lo strumento del motivo aggiunto, presente in ambedue le sentenze della CTP di Campobasso qui trattate. In realtà la n. 1109/2015 si sofferma a lungo, ritenendola non condivisibile, sulla successiva pronuncia della Corte di Cassazione n. 22810/2015[11] , intervenuta pressoché in concomitanza con il deposito della CTP n. 1058/2015 che quindi non ha potuto trattarla. I Giudici del Territorio che hanno elaborato la sentenza n. 1109/2015, pronunciata il 1. dicembre 2015, proprio non ci stanno, insistendo [1] In: Boll. Trib. on-line. [2]Fransoni Guglielmo, Osservazioni in tema di omessa sottoscrizione di provvedimenti dell’amministrazione finanziaria, in: Riv. dir. trib., 1993, pagina 359: “[p]oiché le citate conclusioni si fondano su un’interpretazione strettamente letterale dell’art. 61 D.P.R. 600/73 occorre chiedersi, a tale riguardo, se non esistano degli indizi che facciano ritenere che tale interpretazione non sia sempre possibile. Una prima indicazione in tal senso la si trae dal fatto che, in base ad una lettura acritica della norma citata, si dovrebbe pervenire alla conclusione che, anche nel caso in cui dovessero mancare tutti gli elementi di cui all’art. 42, ci si troverebbe di fronte ad un semplice caso di annullabilità. Conclusione, questa, manifestamente assurda e rifiutata dalla migliore dottrina”. [3]Tesauro Francesco, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in: Boll. Trib., 2005, pagina 1445: “[s]i tratta ora di ammettere che si può agire, senza dover osservare alcun termine di decadenza, anche per ottenere una sentenza dichiarativa della nullità, nei casi in cui un atto impugnabile presenti uno dei vizi che lo rendono nullo ai sensi del citato art. 21-bis [ndr., da intendersi 21-septies, primo comma]”. [4] Tesauro Francesco, op. cit.: “[i]n diritto amministrativo, la nullità non è la conseguenza della violazione di qualsiasi norma imperativa, ma solo delle norme che disciplinano: a) gli elementi essenziali del provvedimento; b) l’attribuzione delle competenze; c) il giudicato. Inoltre, il provvedimento è nullo «negli altri casi espressamente previsti dalla legge». Per effetto di questa norma dobbiamo distinguere, anche in diritto tributario, tra provvedimento nullo e provvedimento sulla assoluta e non derogabile necessità – già sancita da precedente giurisprudenza[12] – che “il capo dell’ufficio” debba essere solo un dirigente[13] , con la gravità degli effetti individuati da autorevole dottrina[14] , e ancora va ben oltre – e se si vuole con ciò ridando spazio ai temi trattati in precedenza – sancendo l’applicabilità dei principi posti dalla L. n. 241/1990 al procedimento tributario[15]. Pertanto, il quadro giuridico definito dai Giudici della legittimità, come era facile immaginare, non trova – né troverà – il supino accordo di taluni Giudici del merito. Per gli uni e per gli altri, non pare – invece – esservi problema nel riconoscimento che la delega debba sempre essere rilasciata nel pieno rispetto delle altre condizioni formali e sostanziali previste dall’articolo 17, comma 1-bis, D.Lgs. n. 165/2001[16]. Elenco delle fonti fotografiche: http://www.studiomanna.it/wp-content/uploads/2015/11/corte-cassazione-940x400.jpg [30.09.2016] annullabile. Molte ipotesi finora indicate come cause di inesistenza del provvedimento impositivo debbono essere riclassificate come ipotesi di nullità”. [5]Tesauro Francesco, op. cit.; cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 1984, n. 261, in: Giur. it., 1985, III, 1, pagina 102, nota 12: “[q]uando la legge commina la nullità assoluta ad atti amministrativi assunti in violazione delle sue disposizioni – come, per esempio, accade per gli inquadramenti illegittimi dei dipendenti del servizio sanitario nazionale -, al giudice amministrativo, investito della relativa controversia, non è inibito di assumere decisioni dichiarative di dette nullità. Così Cons. Stato, sez. V, 19 settembre 1995, n. 1326, in Foro amm., 1995, 1889”. [6] CTP di Campobasso, sez. III, 21 maggio 2015, n. 784, in: Boll. Trib. on-line. [7] Cons. Stato, in Sede Giurisdizionale, Adunanza Plenaria, sentenza del 12 aprile 1963, n. 8, in giustizia amministrativa.it: “[i]l Consiglio di Stato deve pronunziare l’annullamento dell’atto amministrativo in base alla legge dichiarata incostituzionale. Invero le norme ordinarie sul procedimento davanti al Consiglio di Stato, alla stregua delle quali non potrebbe pervenirsi all’annullamento per un motivo non dedotto, o per un motivo in precedenza respinto, vanno intese, in armonia con le norme costituzionali, di grado superiori nella gerarchia delle fonti, in base alle quali la questione di illegittimità costituzionale è rilevabile d’ufficio, le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale hanno efficace erga omnes, ed il giudizio di manifesta infondatezza è di mera delibazione, spettando il giudizio di merito alla Corte Costituzionale, la forza espansiva della cui sentenza non può trovare ostacolo nel diverso apprezzamento espresso in precedenza dal giudice amministrativo”. [8]Marello Enrico, Invalidità dell’accertamento con adesione, in: Giust. trib., 2008, pagina 14. [9]CTR della Lombardia, sez. I, 31 agosto 2015, n. 3699, in: Boll. Trib. on-line. [10] Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2015, n. 4641, in: Boll. Trib. on-line: “[s]i tratta di una violazione di normativa primaria (d. lgs. n. 165/2001, appunto), e di principi costituzionali (di cui agli artt. 3, 51, 97 Cost.) di estrema gravità, in base alla quale si è proceduto al conferimento di diverse centinaia di incarichi dirigenziali, con ripercussioni evidenti non solo sul principio di buon andamento amministrativo, ma anche sulla stessa immagine della Pubblica amministrazione e sulla sua «affidabilità», per di più nel delicato settore tributario, dove massima dovrebbe essere la legittimità e la trasparenza dell’agire amministrativo. La reiterata applicazione della norma regolamentare illegittima ha, di fatto, determinato una grave situazione di illegittimità in cui ha versato per anni l’organizzazione dell’Agenzia delle Entrate, determinandosi uno scostamento di proporzioni notevoli tra situazione concreta e legittimità dell’organizzazione amministrativa. In sostanza, l’amministrazione finanziaria nel suo complesso è stata oggetto di una conformazione che l’ha posta, nelle proprie strutture di vertice, e per anni, al di fuori del quadro delineato dai principi costituzionali”. [11] Corte di Cassazione, sentenza del 9 novembre 2015, n. 22810: “[i]n ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio, il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal «capo dell’ufficio» o «da altro impiegato della carriera direttiva da Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 lui delegato», senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni. In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma appena evocata, i «funzionari di area terza» di cui al contratto del comparto agenzie fiscali fissato per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma sopra citata, individua l’agente capace di manifestare la volontà della amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti. Da ciò deriva che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del dl. n. 16 del 2012”. [12] Per tutte vedi Cass., sez. trib., 14 giugno 2013, n. 14942, in: Boll. Trib. on-line: “[n]e consegue che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento – atto della p.a. a rilevanza esterna – da parte di funzionario diverso (il capo dell’ufficio emittente) da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’articolo 42, commi primo e terzo, dinanzi citato”; tale sentenza sancisce la conseguente nullità radicale dell’atto. [13] CTP Campobasso, sez. II, sentenza n. 1109 del 1. dicembre 2015: “[m]a, se pure volesse condividersi la tesi che il legislatore del 1973, indicando nell’art. 42 cit. il «capo dell’ufficio», intendeva riferirsi anche ad un impiegato della carriera direttiva, tale tesi non potrebbe assolutamente sostenersi dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 165 del 2001 che, come si è innanzi precisato, all’art. 4, commi 2 e 3, demanda alla esclusiva competenza dei dirigenti «l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno», di poi precisando che le predette attribuzioni «possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative»”. In proposito si è già avuto modo di precisare che, ai sensi dell’articolo 20 D.P.R. n. 266/1987, i funzionari direttivi possono sostituire i dirigenti solo in caso di assenza di impedimento, ovvero solo in caso di situazioni eccezionali e temporanee, fermo il principio che il capo dell’ufficio deve essere un dirigente legittimamente nominato. Del resto, posto il principio che solo ai dirigenti compete l’emissione di atti “che impegnano l’amministrazione verso l’esterno consegue che se fosse possibile attribuire le funzioni di capo dell’ufficio ad un funzionario della carriera direttiva, costui non potrebbe emettere alcun atto che impegni l’amministrazione verso l’esterno, e quindi nemmeno gli avvisi di accertamento, onde non sarebbe nemmeno comprensibile il suo potere di delegare un funzionario della carriera direttiva per l’emissione dei provvedimenti predetti (nemo plus juris in alium transferre potest quam ipse habet)”. [14] Cfr. Fransoni Guglielmo, op. cit., pagina 355: “[p]er quanto riguarda la dottrina tributaria, larga parte di essa è orientata a ritenere che l’atto privo di sottoscrizione (o sottoscritto da persona diversa dal titolare dell’ufficio) sia inesistente”; Gallo Franco, Poteri degli uffici finanziari e delegazione amministrativa, in: Riv. it. sc. giur., 1970, pagina 346 e seguenti; Tesauro Francesco, Istituzioni di diritto tributario, Torino 1991, pagina 343, nota 72; Cicognani Antonio, Sulla rappresentanza esterna dell’ufficio delle imposte, in: Dir. prat. trib., 1971, II, pagina 875. [15] CTP Campobasso, sez. II, sentenza n. 1109 del 1. dicembre 2015: “[i]l vero è che, contrariamente a quanto si legge nella sentenza n. 22810/15, secondo la prevalente dottrina e la costante giurisprudenza, il procedimento tributario è inquadrabile nel più ampio genere dei procedimenti amministrativi, con conseguente applicabilità dei principi posti dalla L. n. 241 del 1990 anche ad esso. Giova ricordare che già nell’anno 2006 la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 1236, affermava che «I principi generali dell’attività amministrativa stabiliti dalla L. 7 agosto 1990 n. 241, si applicano, salva la specialità, anche per il procedimento tributario»”. [16] Articolo 17, comma 1-bis D.Lgs. n. 165/2001, comma aggiunto dall’articolo 2, comma 1, L. n. 145/2002: “[i] dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l’articolo 2103 del codice civile”. 33 34 Rassegna di giurisprudenza di diritto dell’UE Caso Bukovansky: quale relazione tra libera circolazione e norme convenzionali? Federico Zari Malacrida Avvocato, LL.M. (int’l tax) WU Gaggini & Partners, Lugano Sentenza CGUE del 19 novembre 2015, Causa C-241/14, Roman Bukovansky contro Finanzamt Lörrach Rinvio pregiudiziale – Fiscalità – Accordo tra la Comunità europea ed i suoi Stati Membri, da una parte, e la Confederazione svizzera, dall’altra, sulla libera circolazione delle persone – Relazione tra tale accordo e le convenzioni bilaterali volte a prevenire la doppia imposizione – Parità di trattamento – Discriminazione fondata sulla nazionalità – Cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea – Lavoratori frontalieri – Imposta sui redditi – Ripartizione della competenza tributaria – Collegamento fiscale – Nazionalità 1. Introduzione Gli autori colgono l’occasione per presentare e discutere la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (di seguito CGUE) (Terza Sezione), riguardante il procedimento C-241/14, del 19 novembre 2015, nell’ambito di una controversia tra il signor Bukovansky e l’ufficio tributario di Lörrach (Germania), in merito alla decisione con la quale quest’ultimo ha assoggettato ad imposta i redditi da lavoro dipendente del signor Bukovansky in Germania, per il periodo successivo al trasferimento della residenza dell’interessato dalla Germania alla Svizzera. Questa sentenza, rappresenta un importante tassello poiché aiuta a definire, da un punto di vista giuridico, la portata dell’accordo tra la Comunità europea ed i suoi Stati Membri, da una parte, e la Confederazione svizzera, dall’altra, sulla libera circolazione delle persone, firmato a Lussemburgo il 21 giugno 1999 (di seguito ALC) in particolare con riferimento agli effetti circa i principi di non discriminazione e della parità di trattamento in ambito di tassazione diretta. 2. Principi di base dell’UE in breve 2.1. Aspetti preliminari Prima di entrare nel merito di alcuni concetti utili a comprendere meglio il caso Bukovansky, è utile precisare come il concetto di Unione europea (di seguito UE) sia stato Martino Pinelli MAS SUPSI in Tax Law Wealth Planner Patrimony 1873, Lugano introdotto per il tramite del Trattato di Maastricht del 1992 e successivamente elaborato nei Trattati di Amsterdam[1] e Nizza[2][3]. Ulteriori modifiche furono apportate per il tramite del Trattato di Lisbona[4]. Il concetto di UE fu introdotto con l’idea di rappresentare una nozione di cooperazione maggiore rispetto a quella espressa con il concetto di CEE (Comunità Economica Europea) contenuta nel Trattato di Roma, firmato nel 1957. È peraltro doveroso ricordare come l’impatto del diritto europeo verso gli Stati membri UE sia aumentato in maniera importante e i diversi ambiti di attività aventi carattere crossborder risultino particolarmente coinvolti. Ciò con l’obiettivo primario di promuovere il buon funzionamento del mercato interno (articoli 2 lettera a e 26 paragrafo 1 del Trattato sul Funzionamento dell’UE [di seguito TFUE]). Al fine di perseguire questo scopo, il diritto europeo deve prevalere sugli ordinamenti nazionali dei singoli Stati membri UE[5] e ciò vale anche nell’ambito dell’imposizione diretta. Infatti, sebbene gli Stati membri UE abbiano una competenza esclusiva nell’ambito delle imposte dirette, la CGUE ha stabilito come nondimeno tale competenza debba essere esercitata in maniera consistente con il diritto europeo, al fine di evitare ogni forma di discriminazione basata sulla nazionalità[6]. 2.2. Le libertà fondamentali nel diritto europeo Il diritto europeo comprende una clausola generale di non discriminazione, contenuta all’articolo 18 TFUE, un’altra clausola sulla libera circolazione e di residenza dei cittadini dell’UE (articolo 21 TFUE) – che trova applicazione nella misura in cui le altre libertà fondamentali non trovino applicazione – e le cinque libertà fondamentali[7]: 1) libertà di circolazione delle merci (articolo 28 e seguenti TFUE); 2) libertà di circolazione dei lavoratori (articolo 45 e seguenti TFUE); 3) libertà di stabilimento di impresa (articolo 49 e seguenti TFUE); Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 4) libertà di prestazione di servizi (articolo 56 e seguenti TFUE); 5) libertà di circolazione dei capitali (articolo 63 e seguenti TFUE). In particolare, le ultime quattro libertà fondamentali qui sopra menzionate, hanno una particolare rilevanza ai fini dell’imposizione diretta[8]. Da segnalare, inoltre, come la libera circolazione dei capitali, sia l’unica libertà direttamente applicabile anche nei rapporti con i Paesi terzi. Tuttavia, in più occasioni, la CGUE ha ricordato come il contesto legale dei rapporti tra i Paesi terzi e dell’UE sia diverso rispetto ai rapporti tra gli Stati membri UE, ragione per la quale è giustificato un diverso approccio[9]. Va inoltre ricordato che tutte le libertà fondamentali sono direttamente applicabili. In altri termini, se la norma nazionale di uno Stato membro UE dovesse violare una libertà fondamentale, a questo Stato membro UE è fatto divieto di applicare la norma discriminatoria[10]. Onde verificare se una disposizione nazionale di uno Stato membro UE sia in violazione del diritto europeo, da un lato, i tribunali nazionali hanno la facoltà di rivolgersi alla CGUE e chiedere una decisione preliminare, mentre dall’altro, i tribunali di ultima istanza sono obbligati a rivolgersi alla CGUE per verificare la compatibilità della norma interna oggetto di disputa con il diritto europeo. Ciò è noto come “acte clair doctrine”[11]. In tale contesto, qualora la Commissione europea ritenga che una norma nazionale sia contraria al diritto europeo, può avviare contro lo Stato membro UE in questione una cosiddetta “infringement procedure”. Infine, va ricordato che per verificare se una normativa nazionale sia in linea con il diritto europeo, la CGUE applica di norma il seguente approccio[12]: ◆◆ si può applicare il diritto europeo? Vi è un cittadino europeo coinvolto? ◆◆ il caso di specie riguarda una situazione cross-border? Una delle libertà fondamentali è chiamata in causa? In caso di risposte affermative, viene quindi comparato il trattamento previsto per la situazione cross-border con una situazione analoga, ma domestica. Vengono dunque paragonate due situazioni cross-border analoghe. Qualora la situazione oggetto di analisi dovesse risultare discriminata, occorre verificare se tale discriminazione ha una giustificazione considerata come accettabile[13] , una combinazione di giustificazioni[14] , ovvero giustificazioni considerate non accettabili[15]. 2.3. L’ALC A seguito della bocciatura in votazione popolare dell’accordo per l’adesione allo Spazio Economico Europeo (SEE), la Svizzera, al fine di avere accesso al mercato unico, negoziò un pacchetto di vari accordi bilaterali. Il 21 giugno 1999 furono firmati sette accordi tra la Svizzera e l’UE (cosiddetti “Bilaterali I”), tra cui quello riguardante la libera circolazione delle persone. In virtù dell’accordo di Vaduz riguardante l’Associazione Europea di Libero Scambio (AELS), la Svizzera concluse inoltre misure equivalenti alla libera circolazione delle persone con Islanda, Liechtenstein e Norvegia[16]. In base all’ALC, viene facilitato, peraltro, l’accesso al mercato di lavoro svizzero ai cittadini europei e viceversa. Il caso Bukovansky riveste un particolare interesse, poiché riguarda un caso in cui una norma tributaria tedesca interagisce con la libertà di circolazione delle persone, ma non già in forza della libertà fondamentale contenuta nel TFUE, bensì a mente di un accordo siglato tra l’UE ed un Paese terzo, in casu la Svizzera. 3. La sentenza C-241/14 del 19 novembre 2015 La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata nell’ambito di una controversia che verte sull’interpretazione dell’ALC. Nello specifico, tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il signor Bukovansky, cittadino ceco e tedesco, e l’ufficio tributario di Lörrach in Germania, in merito alla decisione con la quale quest’ultimo ha assoggettato ad imposta i redditi da lavoro dipendente del signor Bukovansky in Germania, per il periodo successivo al trasferimento della residenza dell’interessato dalla Germania alla Svizzera (cfr. i paragrafi 1 e 2 della sentenza). 3.1. Il procedimento principale Il contribuente, il signor Bukovansky, ha lavorato per diversi anni in seno alla filiale di una società svizzera, Novartis, in Germania. Nel mese di agosto 2008, il signor Bukovansky trasferiva la sua residenza in Svizzera, conservando tuttavia il suo posto di lavoro in seno alla filiale della società svizzera in Germania. A seguito del trasferimento di domicilio in Svizzera, il signor Bukovansky diveniva un lavoratore transfrontaliero “all’inverso”. Di conseguenza, egli riteneva che non fosse più residente a fini fiscali in Germania e che i suoi introiti sarebbero dovuti essere imponibili unicamente in Svizzera conformemente all’articolo 15a, paragrafo 1, della Convenzione per evitare la doppia imposizione sul reddito e sulla sostanza tra Svizzera e Germania (di seguito CDI-D)[17]. L’ufficio tributario di Lörrach, al contrario, ha ritenuto che il ricorrente fosse assoggettato ad imposta sui redditi in Germania in forza degli articoli 1, paragrafo 4 [18] e 49, paragrafo 1[19] dell’Einkommensteuergesetz (di seguito EStG) e che, inoltre, i redditi da lavoro dipendente corrisposti dalla filiale tedesca all’interessato, conformemente all’articolo 4, paragrafo 4 CDI-D [20] , dovessero essere assoggettati ad imposta in Germania (cfr. paragrafo 23 della sentenza). In seguito ad un reclamo del signor Bukovansky, l’ufficio tributario di Lörrach, da un lato, ha confermato l’avviso di accertamento d’imposta determinato ai fini dell’imposizione dei redditi considerati e, dall’altro, ha preso in considerazione gli importi dell’imposta pagati dal signor Bukovansky all’Amministrazione fiscale svizzera a titolo d’imposta sul reddito a partire dal mese d’agosto 2008 (cfr. paragrafo 24 della sentenza). 35 36 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 Contro il rigetto del ricorso veniva adito il giudice del rinvio, il quale in ottemperanza alle disposizioni dell’ALC non lascia impregiudicate le disposizioni della CDI-D in quanto l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni (di seguito CDI) dovrebbe farsi nel rispetto degli obblighi derivanti dalle libertà fondamentali contemplate nell’ALC stesso[21]. In tali circostanze il giudice tributario del rinvio ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre la questione pregiudiziale ai giudici europei[22]. 3.2. La questione pregiudiziale Nella questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiede, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, se i principi di non discriminazione e della parità di trattamento di cui agli articoli 2[23] e 9[24] rispettivamente dell’ALC e del relativo Allegato I, debbano essere interpretati nel senso che ostano alla CDI-D, in forza della quale il diritto di assoggettare a imposta i redditi da lavoro dipendente di un contribuente tedesco che non possiede la cittadinanza svizzera, benché quest’ultimo abbia trasferito la sua residenza dalla Germania alla Svizzera pur mantenendo il suo luogo di lavoro dipendente nel primo di tali Stati, spetti allo Stato della fonte di tali redditi, ossia alla Repubblica federale di Germania, mentre il diritto di assoggettare a imposta i redditi da lavoro dipendente di un cittadino svizzero, in una situazione analoga, spetta al nuovo Stato di residenza, nel caso di specie alla Confederazione svizzera[25]. 3.3. Sulla questione pregiudiziale La CGUE inizia la propria disamina ricordando che per quanto riguarda le circostanze del procedimento principale e le disposizioni dell’ALC, si deve constatare che, in base al suo tenore letterale, l’articolo 7, paragrafo 1[26], dell’Allegato I dell’ALC, è applicabile alla situazione del signor Bukovansky. Quest’ultimo è, infatti, cittadino “di una parte contraente”, ossia la Repubblica federale di Germania, risiede sul territorio “di una parte contraente”, nella fattispecie la Confederazione svizzera, ed esercita un’attività dipendente sul territorio “dell’altra parte contraente”, ossia la Repubblica federale di Germania (paragrafo 32 della sentenza). Secondo la CGUE, la suddetta disposizione stabilisce una distinzione tra il luogo di residenza, localizzato sul territorio di una parte contraente ed il luogo di esercizio di un’attività di lavoro dipendente che deve trovarsi sul territorio dell’altra parte contraente, indipendentemente dalla cittadinanza dell’interessato. In forza di tale disposizione, il signor Bukovansky deve essere qualificato “lavoratore dipendente frontaliero” ai fini dell’applicazione dell’ALC, essendo inoltre pacifico che esso effettua di norma un tragitto andata e ritorno giornaliero o almeno una volta alla settimana tra il luogo di residenza e quello della sua attività dipendente (cfr. paragrafo 33 della sentenza). Tanto premesso, la CGUE osserva che, per quanto riguarda le CDI concluse tra la Confederazione svizzera e gli Stati membri UE, ai sensi dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC[27], le disposizioni dello stesso lasciano impregiudicate le disposizioni di dette CDI. La CGUE ricorda che occorre tuttavia verificare se tale disposizione dell’ALC, consenta agli Stati contraenti di derogare al complesso delle proprie disposizioni (cfr. paragrafi 34-35 della sentenza). In sostanza, la CGUE, si domanda se le norme contenute nella CDI-D possano prescindere da qualsiasi altra disposizione, tra cui il divieto di discriminazione contenuto nell’ALC, alla luce di quanto previsto all’articolo 21 ALC medesimo. A giudizio della CGUE, si deve rilevare che l’articolo 9 dell’Allegato I dell’ALC, rubricato “Parità di trattamento”, sancisce, al suo paragrafo 2, una norma specifica, volta a far godere il lavoratore dipendente e i membri della sua famiglia degli stessi vantaggi fiscali e sociali dei lavoratori dipendenti nazionali e dei membri delle loro famiglie. In tale contesto, si deve ricordare che la CGUE ha dichiarato che, in materia di vantaggi fiscali, il principio della parità di trattamento, previsto in tale disposizione, può essere invocato anche da un lavoratore cittadino di una parte contraente, che abbia esercitato il suo diritto alla libera circolazione nei confronti del suo Stato d’origine. Investita di domande di pronuncia pregiudiziale sulla questione se le CDI concluse tra gli Stati membri UE debbano essere compatibili con il principio della parità di trattamento e, in generale, con le libertà di circolazione garantite dal diritto primario dell’UE, la CGUE ha dichiarato che nell’ambito di CDI, gli Stati membri sono liberi di stabilire i fattori di collegamento per la ripartizione della competenza tributaria, ma sono tenuti, nell’esercizio del potere impositivo così ripartito, a rispettare tale principio e dette libertà (cfr. paragrafi 36-37 della sentenza). Di conseguenza, a parere della CGUE, quando, in una CDI conclusa tra Stati membri UE, il criterio della cittadinanza appare in una disposizione che ha ad oggetto la ripartizione della competenza tributaria, tale differenziazione fondata sulla nazionalità non può essere considerata come una discriminazione vietata. Per quanto riguarda, invece, l’esercizio della competenza tributaria conferita da una siffatta disposizione, lo Stato membro titolare di tale competenza deve rispettare il principio della parità di trattamento. In altri termini: è possibile che una previsione convenzionale fondi l’attribuzione delle competenze tributarie in base alla nazionalità, tuttavia lo Stato titolare del diritto primario d’imposizione deve esercitare tale diritto nel rispetto del principio della parità di trattamento. Tale giurisprudenza sulla relazione tra il diritto primario dell’UE e le CDI concluse tra gli Stati membri UE deve applicarsi per analogia alla relazione tra l’ALC e le CDI concluse tra gli Stati membri UE e la Confederazione svizzera (paragrafi 38-39 della sentenza). Infatti, la CGUE osserva che, come risulta dal preambolo e dagli articoli 1 lettera d[28] , e 16 paragrafo 2[29] ALC, quest’ultimo mira a realizzare, a favore dei cittadini dell’UE e di quelli della Confederazione svizzera, la libera circolazione delle persone nei territori delle parti contraenti di tale ALC basandosi sulle disposizioni applicate nell’UE, le cui nozioni devono essere interpretate conformemente alla giurisprudenza della CGUE. Invero, l’articolo 21 ALC prevede che le disposizioni dello stesso lascino impregiudicate le CDI tra gli Stati membri UE e la Confederazione svizzera. Tuttavia, tale articolo non può avere una portata in conflitto con i principi sottesi all’Accordo di cui fa parte. Tale articolo non può quindi essere inteso, secondo la CGUE, nel senso di consentire agli Stati membri dell’UE e alla Confederazione svizzera di compromettere la realizzazione della libera circolazione delle persone, privando del suo effetto utile, nell’esercizio delle competenze fiscali come ripartite dalle loro CDI, l’articolo 9 paragrafo 2 dell’Allegato I dell’ALC (paragrafi Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 40-41 della sentenza). In altri termini, la CGUE sottolinea come, sebbene le norme sulla ripartizione fiscale siano regolate dalla CDI-D, lo scopo dell’ALC non possa essere svuotato di significato da norme convenzionali, conflittuali con l’ALC medesimo. La CGUE deve quindi interrogarsi se tali norme convenzionali siano in contrasto con gli obiettivi dell’ALC, sebbene quanto previsto dall’articolo 21 ALC medesimo. Per quanto riguarda il procedimento principale, la CGUE riconosce che è pacifico che il signor Bukovansky, anche dopo il trasferimento della sua residenza dalla Germania alla Svizzera, sia trattato, sul piano fiscale, dallo Stato della fonte dei suoi redditi da lavoro dipendente, nel caso di specie dalla Repubblica federale di Germania, al pari di un contribuente che ivi lavora e risiede. Il signor Bukovansky sostiene, tuttavia, di aver subito una disparità di trattamento rispetto a un cittadino svizzero che, proprio come lui, abbia trasferito la sua residenza dalla Germania alla Svizzera, pur mantenendo il luogo del suo lavoro dipendente nel primo di tali Stati, poiché la competenza ad assoggettare ad imposta i redditi da lavoro dipendente di quest’ultimo spetterà al suo Stato di residenza, ossia alla Confederazione svizzera, e non, come nel suo caso, allo Stato della fonte dei redditi da lavoro dipendente, ossia alla Repubblica federale di Germania (paragrafi 42-43 della sentenza). A tale riguardo, la CGUE tiene a precisare che una CDI, come quella siglata tra la Germania e la Svizzera, è intesa ad evitare che lo stesso reddito sia soggetto ad imposta in ciascuna delle due parti di tale CDI-D, non già a garantire che l’imposizione alla quale è soggetto il contribuente in una parte contraente non sia superiore a quella alla quale egli sarebbe soggetto nell’altra parte contraente. Nel caso di specie, la CGUE constata in particolare che la differenza di trattamento che il signor Bukovansky sostiene di aver subito deriva dalla ripartizione del potere impositivo tra le parti della CDI-D considerata ed è il risultato delle divergenze esistenti tra i regimi fiscali di tali parti. Orbene, com’è stato menzionato ai paragrafi 37 e 38 della presente sentenza, la scelta di dette parti, al fine di ripartire tra loro la competenza impositiva, di differenti fattori di collegamento, non costituisce in quanto tale una discriminazione vietata (paragrafi 44-45 della sentenza). Di conseguenza, a parere della CGUE poiché, rispetto ai contribuenti residenti in Germania, il signor Bukovansky non subisce svantaggi fiscali, non si può concludere nel senso della sussistenza di una discriminazione derivante da una disparità di trattamento in contrasto con l’articolo 9 paragrafo 2 dell’Allegato I dell’ALC (paragrafo 46 della sentenza). Ne consegue che il ragionamento della CGUE è il seguente: dato che il ricorrente, in Germania, non veniva tassato in maniera peggiorativa rispetto ad un altro lavoratore in una situazione analoga, non si può sostenere che egli sia vittima di una discriminazione. Il fatto che la Germania non abbia tassato un cittadino svizzero in una situazione analoga, di per sé, non è motivo di discriminazione secondo la CGUE, in quanto ciò, sarebbe stato unicamente il risultato dell’applicazione delle norme convenzionali per il riparto della potestà impositiva. Il signor Bukovansky, in Germania, è stato dunque tassato in applicazione delle regole ordinarie applicabili anche ai residenti. Di conseguenza, secondo il ragionamento dalla CGUE, non si può parlare di discriminazione. La CGUE ha quindi ritenuto che le disposizioni della CDI-D non sono in violazione delle disposizioni contro la discriminazione previste dall’ALC, in quanto, come detto, trattasi unicamente di disposizioni che si limitano a ripartire le potestà impositive. Sebbene tra i criteri previsti vi sia quello della nazionalità, ciò non autorizza lo Stato con il diritto di imposizione primario, in questo caso la Germania, a tassare in maniera peggiorativa rispetto ad un altro contribuente in una situazione analoga, ciò che effettivamente non è il caso. 4. Considerazioni conclusive Il caso in oggetto è stato deciso alla luce dei principi di non discriminazione e di parità di trattamento, come previsto dall’ALC e dal relativo Allegato. L’ALC (ed in particolare il suo Allegato I) fa una distinzione tra il luogo di residenza, situata nel territorio di una parte contraente, ed il luogo in cui viene svolta l’attività dipendente, che deve svolgersi nel territorio dell’altra parte contraente, a prescindere dalla nazionalità della persona interessata. L’ALC risulta dunque applicabile al contribuente in questione, siccome all’epoca dei fatti egli era residente in Svizzera e lavorava in Germania. In questo senso, il signor Bukovansky veniva qualificato come lavoratore transfrontaliero “all’inverso” ai fini dell’ALC, in quanto effettuava tutti i giorni, o almeno una volta alla settimana, la spola tra il suo luogo di residenza e quello del suo impiego[30]. Il merito di questa sentenza è di precisare che le disposizioni delle CDI non sono influenzate dall’ALC. In particolare, l’obiettivo di una CDI, come ad esempio quella siglata tra la Germania e la Svizzera, è di evitare che lo stesso reddito sia tassato in entrambi gli Stati. Il suo scopo infatti non è limitato a garantire che l’imposta a cui il contribuente è soggetto in uno Stato non sia superiore a quella a cui egli sarebbe soggetto nell’altro Stato[31]. Secondo la CGUE, il signor Bukovansky non è dunque svantaggiato rispetto ad un soggetto residente in Germania, siccome l’imposta da lui pagata in Svizzera è stata accreditata in Germania. Di conseguenza, la sua responsabilità fiscale effettiva non è stata violata[32]. Ne consegue che il diverso trattamento fiscale applicabile nel caso specifico ad un cittadino tedesco rispetto ad un 37 38 Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 cittadino svizzero è determinato dalla allocazione della sovranità fiscale tra Germania e Svizzera sulla base della CDI-D. La CGUE ha dunque ritenuto che il diverso trattamento al signor Bukovansky non è, nel caso di specie, né discriminatorio né tantomeno in violazione della libertà delle persone[33]. Gli autori tengono infine a ricordare come la CGUE, sebbene in situazioni diverse, si sia già espressa, come ad esempio nel caso Manninen, sulla questione circa l’eguaglianza del sistema di imputazione (in questo caso le imposte svizzere poste a credito su quelle tedesche) e il sistema di esenzione (in questo caso la Germania esenta il reddito, in quanto già imposto in un altro Stato)[34]. In particolare, nel caso Manninen[35] sopracitato, la CGUE si riferì al sistema di imputazione, per giustificare la necessità di preservare la coesione del sistema fiscale, nella misura in cui lo Stato di residenza dell’azionista permettesse il credito indiretto per le imposte societarie assolte dalla società erogante il dividendo[36]. 5. Il parere ufficiale dell’avvocato generale Preliminarmente, l’avvocato generale ha osservato che l’ALC in questione è applicabile alla situazione del contribuente. Riferendosi alla giurisprudenza costante, egli ha inoltre ricordato che è possibile che i cittadini di uno Stato contraente possono anche rivendicare diritti ai sensi dell’ALC contro il proprio Paese di origine e questo in determinate circostanze e in conformità con le norme vigenti. Siccome il contribuente è un cittadino tedesco e si qualifica come lavoratore frontaliero dipendente, le disposizioni di cui all’articolo 2 e all’articolo 7 paragrafo 1 dell’Allegato I dell’ALC, possono essere invocate nel caso specifico dal contribuente[37]. L’avvocato generale ha poi esaminato la questione concernente il rapporto tra l’ALC e la relativa CDI-D. In particolare, l’avvocato generale ha rilevato che l’articolo 21 paragrafo 1 ALC deve essere interpretato in modo tale che le disposizioni della CDI-D non siano influenzate dall’ALC[38]. L’avvocato generale ha inoltre respinto l’interpretazione dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC, secondo il quale l’ALC dovrebbe prevalere su di una CDI. La Commissione aveva sostenuto che gli Stati membri UE possono accordarsi sulla ripartizione dei poteri impositivi in accordi bilaterali di tassazione, ma questo non significa, secondo l’avvocato generale, che gli Stati membri hanno il diritto di imporre misure contrarie alle libertà garantite dal diritto dell’UE. Per quanto riguarda l’esercizio del potere impositivo così ripartito con una CDI, gli Stati membri devono rispettare il diritto comunitario e, in particolare, rispettare il principio del trattamento nazionale per i propri cittadini che si sono avvalsi delle libertà garantite dal diritto dell’UE. L’articolo 21 paragrafo 1 ALC non rilascia gli Stati membri da tale obbligo. L’articolo 21 paragrafo 1 ALC sarebbe diventato inoltre privo di significato se fosse stato interpretato nel senso che gli Stati membri UE concordassero tra di loro regole che contraddicono l’ALC in CDI[39]. L’avvocato generale ha osservato che l’ALC, essendo un trattato internazionale, deve essere interpretato in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai suoi termini nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e scopo. Per quanto riguarda in particolare la formulazione dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC, l’avvocato generale ha rilevato che la disposizione deve essere interpretata come una deroga esplicita incondizionata per quanto riguarda l’applicazione dell’ALC in vista di accordi bilaterali tra la Svizzera e gli Stati membri dell’UE[40]. A sostegno di questa tesi, l’avvocato generale ha rilevato inoltre che l’articolo 22 ALC, che riguarda la relazione tra l’ALC ed altri accordi bilaterali in settori diversi dalla sicurezza sociale e la doppia imposizione, prevede una diversa formulazione. L’articolo 22 ALC prevede infatti che le disposizioni dell’ALC non pregiudicano altri accordi bilaterali, nella misura in cui sono compatibili con l’ALC stesso. L’avvocato generale, in tal modo, ha rilevato che se ci fosse stata l’intenzione di dare priorità dell’ALC sulle norme convenzionali, l’articolo 21 paragrafo 1 ALC sarebbe stato formulato in modo simile all’articolo 22 ALC[41]. L’avvocato generale, di conseguenza, ha rilevato che l’articolo 21 paragrafo 1 ALC deve essere interpretato in modo tale che le disposizioni della CDI-D rimangono inalterate dall’ALC. Egli ha di conseguenza ritenuto che l’articolo 21 paragrafo 1 ALC non osta ad una disposizione contenuta nell’articolo 4 paragrafo 4 CDI-D[42]. In subordine, qualora la CGUE non seguisse le conclusioni dell’avvocato generale per quanto riguarda l’interpretazione dell’articolo 21 paragrafo 1 ALC, l’avvocato generale ha analizzato la compatibilità dell’articolo 4 paragrafo 4 CDI-D con le disposizioni dell’ALC[43]. L’avvocato generale, ha in particolare rilevato che l’articolo 4 paragrafo 4 CDI-D sia compatibile con le disposizioni dell’ALC. Egli ha osservato che l’articolo 9 dell’Allegato I dell’ALC riguarda solo il caso di discriminazione in base alla cittadinanza nei confronti di un nazionale di una parte contraente nel territorio di un’altra parte contraente. In altre parole, la Germania non può discriminare i cittadini svizzeri rispetto ai cittadini tedeschi. Il contribuente, però, essendo un cittadino tedesco, riceve nel caso di specie un trattamento nazionale in Germania. Pertanto, l’avvocato generale ha ritenuto che l’articolo 9 dell’Allegato I dell’ALC non è stato violato. Per la stessa ragione, egli ha rilevato che non vi è stata alcuna violazione della clausola generale di non discriminazione di cui all’articolo 2 ALC[44]. Elenco delle fonti fotografiche: h t t p : // e u i c c- k s . c o m / w p - c o n t e n t / u p l o a d s / 2 0 1 6 / 0 3 / a r t i c l e 2637413-1e24078b00000578-482_634x402.jpg [30.09.2016] Novità fiscali / n.10 / ottobre 2016 [1]Treaty of Amsterdam amending the Treaty on European Union, the Treaties establishing the European Communities and certain related acts, as signed in Amsterdam on 2 October 1997. [2]de Goede Jan, European Integration and Tax Law, in: European Taxation, June 2003, IBFD, Amsterdam, pagina 203. [3] Treaty of Nice amending the Treaty on European Union, the Treaties establishing the European Communities and certain related acts. [4]Treaty of Lisbon amending the Treaty on European Union and the Treaty establishing the European Community, signed at Lisbon on 13 December 2007. [5]Dürrschmidt Daniel, Tax Treaties and MostFavoured-Nation Treatment, particularly within the European Union, in: IBFD Bulletin, May 2006, pagina 204. [6] Sentenza CGUE, Commission v. France (“Avoir Fiscal”) (1986), in: ECR 273, paragrafo 13. [7]HJI Panaayi Christiana, The Fundamental Freedoms and Third Countries: Recent Perspectives, in: European Taxation, November 2008, IBFD, Amsterdam, pagina 582. [8] Englamair Vanessa E., The Relevance of the Fundamental Freedoms for Direct Taxation, in: Lang Michael/Pistone Pasquale/Schuch Josef/Staringer Claus, Introduction to European Tax Law on Direct Taxation, 2nd edition, Linde (Vienna), pagina 43. [9] Con riferimento alle relazioni cross-border con i Paesi non UE, ma aderenti allo Spazio Economico Europeo valgono considerazioni diverse. Questo articolo non entra in questo ambito. [10]Le procedure in corso sono consultabili in: http://ec.europa.eu/taxation_customs/common/ infringements/infringement_cases/bycountry/ index_en.htm [30.09.2016]. [11]Dourado Ana Paula, The Interpretation of Direct Taxation Issues by the ECJ, The Meaning and Scope of the Acte Clair Doctrine, 2008. [12] Englamair Vanessa E., op. cit., pagine 44-45. [13]Sono considerate tali la coesione del sistema tributario, territorialità delle imposte, norme anti-abuso, effettività della supervisione fiscale, neutralizzazione operata dall’altro Stato, ripartizione dei diritti impositivi tra gli Stati. [14] Sono considerate tali: norme anti-abuso, prevenzione dal doppio utilizzo di perdite, ripartizione dei diritti impositivi tra gli Stati. [15]Sono considerate tali: mancata armonizzazione, difficoltà ad ottenere informazioni, perdita di gettito fiscale, compensazione con un vantaggio fiscale ottenuto nell’altro Stato. [16]Jung Marcel R., The Switzerland-EC Agreement on the Free Movement of Persons: Measures Equivalent to Those in the EC Treaty – A Swiss Income Tax Perspective, in: European Taxation, November 2007, IBFD, Amsterdam, pagina 509. [17]EU Update, European Taxation 04/2016, pagina 12. [18]“Le persone fisiche che non hanno né il domicilio né la residenza abituale in Germania, fatti salvi i paragrafi 2 e 3, e l’articolo 1a, sono assoggettate parzialmente all’imposta sul reddito qualora percepiscano redditi nazionali ai sensi dell’articolo 49”. [19]“Costituiscono redditi nazionali ai fini dell’assoggettamento parziale all’imposta sul reddito (articolo 1, paragrafo 4): i redditi da lavoro dipendente (articolo 19) a) svolto in Germania ovvero i cui redditi siano Stati percepiti in Germania, […] c) percepiti come remunerazione di un’attività di amministratore, di procuratore o di membro del consiglio di amministrazione di una società la cui amministrazione ha sede in Germania, […]”. [20] “Trattandosi di una persona fisica residente della Svizzera, ma che non ha la cittadinanza svizzera e che nella Repubblica federale di Germania è stata assoggettata illimitatamente almeno per cinque anni complessivamente, la Repubblica federale di Germania può tassarla nell’anno in cui ha preso fine per l’ultima volta l’obbligazione fiscale illimitata, e nei cinque anni successivi, per i redditi provenienti dalla Repubblica federale di Germania e per gli elementi di sostanza situati nella Repubblica federale di Germania, nonostante le altre disposizioni della presente convenzione. Non viene pregiudicata l’imposizione in Svizzera, conformemente alla presente convenzione, di questi redditi o elementi di sostanza. Tuttavia, la Repubblica federale di Germania, in applicazione analogica della legislazione germanica quanto al computo delle imposte straniere, computa l’imposta svizzera riscossa su questi redditi o elementi di sostanza in conformità della presente convenzione sulla parte dell’imposta germanica (ad eccezione dell’imposta sulle imprese) che, in base a questa disposizione, viene riscossa su questi proventi o elementi di sostanza in più dell’imposta germanica che li colpirebbe giusta le disposizioni degli articoli da 6 a 22. Le disposizioni di questo paragrafo non si applicano quando la persona fisica è divenuta residente della Svizzera per svolgervi un’attività veramente dipendente per conto di un datore di lavoro al quale, oltre il rapporto di servizio, non è legata da un interesse economico essenziale, né direttamente né indirettamente, mediante partecipazione o in altro modo”. [21] De Angelis Andrea, Il reddito è tassato nello Stato di residenza per i transfrontalieri, 20 novembre 2015, in: FiscoOggi.it, http://www.fiscooggi. it/giurisprudenza/articolo/reddito-e-tassato-nello-statodi-residenza-transfrontalieri?quicktabs_3=2 [30.09.2016]. [22] De Angelis Andrea, op. cit. [23]“In conformità delle disposizioni degli allegati I, II e III del presente Accordo, i cittadini di una parte contraente che soggiornano legalmente sul territorio di un’altra parte contraente non sono oggetto, nell’applicazione di dette disposizioni, di alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità”. [24]“Il lavoratore dipendente cittadino di una parte contraente non può ricevere sul territorio dell’altra parte contraente, a motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quello riservato ai lavoratori dipendenti nazionali per quanto riguarda le condizioni di impiego e di lavoro, in particolare di retribuzioni, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato”. [25] De Angelis Andrea, op. cit. [26]“Il lavoratore dipendente frontaliero è un cittadino di una parte contraente che ha la sua residenza sul territorio di una parte contraente e che esercita un’attività retribuita sul territorio dell’altra parte contraente e ritorna al luogo del proprio domicilio di norma ogni giorno, o almeno una volta alla settimana”. [27]“Le disposizioni del presente Accordo lasciano impregiudicate le disposizioni degli accordi bilaterali tra la Svizzera egli Stati Membri della Comunità europea in materia di doppia imposizione. In particolare, le disposizioni del presente Accordo non devono incidere sulla definizione di lavoratore frontaliero secondo gli accordi di doppia imposizione”. [28] L’ALC mira, conformemente al suo articolo 1, lettere a e d, a conferire, a favore dei cittadini degli Stati membri UE e della Confederazione svizzera, un diritto di ingresso, di soggiorno, di accesso a un’attività economica dipendente, di stabilimento quale lavoratore autonomo e il diritto di rimanere sul territorio delle parti contraenti, nonché a garantire le stesse condizioni di vita, di occupazione e di lavoro di cui godono i cittadini nazionali. [29]“Nella misura in cui l’applicazione del presente Accordo implica nozioni di diritto comunitario, si terrà conto della giurisprudenza pertinente della Corte di giustizia delle Comunità europee precedente alla data della sua firma. La giurisprudenza della Corte successiva alla firma del presente Accordo verrà comunicata alla Svizzera […]”. [30]EU Update, European Taxation 04/2016, pagina 12. [31]EU Update, European Taxation 04/2016, pagina 12. [32]EU Update, European Taxation 04/2016, pagina 12. [33]EU Update, European Taxation 04/2016, pagina 12. [34]Sentenza CGUE C-319/02 del 7 settembre 2003, in: ECR 2004, I-7477. [35]Sentenza CGUE C-319/02 del 7 settembre 2003, in: ECR 2004, I-7477. [36]Rust Alexander, CFC legislation and EC law, 36 Intertax 11, 2008, pagine 492-501, pagina 495. [37]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [38]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [39]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [40]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [41]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [42]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [43]EU Update, European Taxation 09/2015, pagina 39. [44]EU Update, European Taxation 09/2015, pagine 39-40. 39 40 Offerta formativa Seminari e corsi di diritto tributario Sì, sono interessata/o e desidero ricevere maggiori informazioni sui seguenti corsi: Dati personali Seminari □ Le novità in materia di ruling fiscali 18 novembre 2016, Manno □ Scambio di informazioni Nome vs. protezione dei dati 5 dicembre 2016, Manno Cognome □ Novità legislative e di prassi Telefono E-mail Indicare l’indirizzo per l’invio delle comunicazioni Azienda/Ente Via e N. in ambito fiscale 15 dicembre 2016, Manno □ Cooperazione in materia di servizi finanziari e d’investimento tra la Svizzera e l’Italia 19 dicembre 2016, Manno □ La Legge sulla Riforma III delle imprese 23 gennaio 2017, Cadempino NAP Località □ Aggiornamento sulla fiscalità immobiliare 21 febbraio 2017, Manno Data Firma CAS Approfondimenti di diritto tributario □ Gli aspetti fiscali della previdenza e dei prodotti assicurativi □ Il sistema fiscale italiano Inviare il formulario Per posta SUPSI Centro competenze tributarie Palazzo E Via Cantonale 16e CH-6928 Manno Via e-mail [email protected] Via fax +41 (0)58 666 61 76 □ Il sistema fiscale statunitense