Funzionari intermedi e uomini comuni come esecutori dell'Olocausto 0002000060 Nella letteratura scientifica si è riacceso di recente l'interesse per gli ideologi dell'Olocausto, con conclusioni rilevanti. Dopo decenni di relativo oblio, infatti, gli intellettuali, i pianificatori, i poliziotti e i tecnocrati delle SS, e specialmente della RSHA [Reichssicherheithauptamt, Ufficio centrale della sicurezza del Reich] sono tornati a catalizzare l'attenzione dei ricercatori e ne sono stati finalmente riconosciuti sia l'adesione ideologica al nazionalsocialismo sia l'enorme contributo alla attuazione delle varie “politiche di annientamento”1. Questo non deve però far lasciare in secondo piano la ricerca e le indagini tuttora in corso sui ruoli giocati da altre e ben più ampie categorie di perpetratori dell'Olocausto, formate da funzionari di medio livello, esponenti di una burocrazia persecutoria, e da “uomini comuni” che presero parte alle varie squadre della morte. Studi recenti hanno portato alla luce una uniformità piuttosto marcata tra gli ideologi primari dello sterminio, i membri della RSHA, appartenenti a una generazione troppo giovane per avere combattuto la Prima guerra mondiale, ma formatasi in un periodo pervaso da grande instabilità, senso di sconfitta, rivolgimenti, inflazione e depressione: una generazione che aveva filtrato quelle esperienze attraverso la lente di una Weltanschauung ultranazionalista, völkisch e antisemita. Tanto i funzionari di medio livello, quanto soprattutto gli “uomini comuni”, erano invece di estrazione socioculturale molto più eterogenea e reagirono in modi diversi alle situazioni in cui si trovarono coinvolti, rappresentando per gli studiosi un difficile ostacolo al tentativo di formulare generalizzazioni convincenti sia sulle loro motivazioni sia sui loro comportamenti. Anzitutto si è cercato di comprendere le motivazioni degli ideologi dello sterminio a partire dai loro sistemi di valori razionalmente adottati in forma esplicita o, in altri termini, sulla loro ideologia in senso stretto e letterale, definita come elaborazione del senso logico di un'idea o di un insieme di idee. Nel caso dei funzionari di medio livello e degli “uomini comuni”, invece, occorre dare molto più risalto a vari altri fattori di tipo sia culturale sia contingente, organizzativo e istituzionale, i quali vanno tutti inseriti nello specifico contesto storico della dittatura nazista, delle guerre di conquista e dell'imperialismo razziale. Con fattori di tipo culturale intendo qui regole di condotta, atteggiamenti, convinzioni e valori così radicati nella vita quotidiana da essere accettati come norme inconfutabili. Con fattori contingenti, organizzativi e istituzionali mi riferisco invece a modelli di comportamento umano che emergono con prevedibilità e regolarità in ogni cultura, specialmente all'interno di un gruppo, quali per esempio la deferenza verso l'autorità, la tendenza a sottostare alla pressione dei parimerito e alle regole della comunità, il conformismo nei confronti dei ruoli sociali prestabiliti, il desiderio di benessere economico, prestigio sociale e potere, nonché la spinta irrefrenabile alla costituzione di un'identità di gruppo attraverso processi di inclusione ed esclusione2. Nella realtà, ovviamente, queste formae mentis o categorie non agiscono in maniera isolata o autonoma. La capacità di comprendere e interpretare le situazioni vissute e la risposta agli incentivi e ai deterrenti istituzionali a cui si è soggetti dipendono in parte dal bagaglio culturale di ciascun individuo. La diffusione più o meno ampia di un'ideologia e la popolarità e l'approvazione più o meno generalizzata di cui gode un regime di matrice ideologica dipendono in parte dai presupposti e dagli atteggiamenti culturali che gli individui fanno propri, nonché, in parte, dai valori che invece si scartano o si violano; dipendono, in altri termini, dalla misura in cui l'ideologia riesce a sovrapporsi alla cultura e a venire interiorizzata da questa. Se il ruolo centrale rivestito dagli ideologi dello sterminio nella perpetrazione dell'Olocausto è universalmente riconosciuto, risulta invece più oscuro e contraddittorio il legame tra questi perpetratori ideologici e il resto della società (dalla quale provenivano i funzionari di medio livello e gli “uomini comuni”). È lecito sostenere che praticamente tutti i tedeschi condividessero in uguale misura e con identico fanatismo la convinzione degli ideologi circa la necessità di eliminare gli ebrei?3 Oppure gli antisemiti “redentori” (prendendo a prestito la definizione di Saul Friedländer) erano forse solo una tessera nel mosaico della Germania, ma cionondimeno i loro legami sia con le élite sia con la maggior parte della popolazione giocarono un ruolo chiave nel processo di privazione della libertà, isolamento e riduzione in povertà degli ebrei tedeschi, passi indispensabili per rendere l'omicidio di massa addirittura concepibile ancor prima che attuabile?4 Personalmente propendo per quest'ultima ipotesi. Per comprendere più a fondo quali fossero i rapporti tra Hitler, gli ideologi dell'antisemitismo e la maggioranza della società tedesca, occorre analizzare vari “legami”. Il primo è senza dubbio quello che intercorreva tra l'antisemitismo e il successo della propaganda nazista. I nazisti avevano cercato di presentarsi come un movimento che aveva a cuore soprattutto l'interesse nazionale, al di sopra di quei partiti frazionisti votati unicamente agli interessi di classi o di settori ristretti della società. Per riuscire nell'impresa, infarcirono i propri discorsi di “parole ad effetto” e tematiche attorno alle quali costruire una “coalizione del malcontento”. Essi facevano appello sia al mito della “comunità di popolo” [Volksgemeinschaft ], rappresentato dall'euforico ricordo del senso di coesione della società tedesca ai tempi dell'agosto 1914, sia al mito della rinascita, che faceva appello alla nostalgia dell'epoca d'oro precedente la sconfitta, all'umiliazione della nazione, alla rivoluzione, all'inflazione, alla depressione, alla decadenza culturale e alla paralisi della politica. L'antisemitismo, pur essendo fondamentale per Hitler e per gli irriducibili del partito, non fu un elemento chiave della mobilitazione popolare e giocò un ruolo di poco conto nelle importantissime campagne del 1930-32. Quello che diede una parvenza di coerenza e fondamento agli eterogenei elementi di maggior richiamo del nazionalsocialismo fu, però, proprio il presupposto ideologico che tutti i problemi fossero in un modo o nell'altro riconducibili alla minaccia ebraica, nell'ottica di una visione più generale della storia come lotta di razza5. Il secondo legame era quello tra il successo di Hitler e il suo potere di legittimare le proprie azioni. La maggioranza dei tedeschi che aveva votato per Hitler lo aveva fatto per porre fine all'immobilità politica dell'epoca, per risolvere la crisi economica (soprattutto il problema della disoccupazione) e risollevare il peso internazionale della Germania, ma non per perseguitare e “rimuovere”, o tantomeno per sterminare, gli ebrei. Tuttavia, la percezione del successo di Hitler a livello politico, economico e internazionale gli fece guadagnare ben presto ancor più sostegno e cortigianeria anche da parte di quei cittadini che inizialmente non lo avevano appoggiato. Il regime nazista divenne sempre più popolare, acquisendo così l'autorità e la libertà necessarie a legittimare e gradualmente estremizzare i propri progetti antisemiti. Come ha scritto William Sheridan Allan, la maggioranza dei tedeschi giunse all'antisemitismo attraverso il nazionalsocialismo, e non viceversa6. Il terzo legame è quello prodotto dalle prime iniziative del regime, improntate alle posizioni e alle finalità ferventemente sostenute da molti segmenti della società tedesca, che superavano le divisioni tra la classe media protestante, quella agricola e conservatrice e gli ambienti cattolici. Il riarmo e il rifiuto del trattato di Versailles, la messa al bando del Partito comunista e di quello socialista, lo scioglimento dei sindacati, l'intolleranza verso la dissidenza culturale, l'ostentazione dei valori tradizionali e la sbandierata guerra alla criminalità7 ebbero tutti una profonda risonanza in gran parte della società tedesca. Analogamente, esisteva un diffuso pregiudizio sull'eccessiva influenza degli ebrei nella vita della Germania, un'influenza ritenuta negativa e alla quale veniva imputata, almeno in parte, ogni disgrazia della nazione. Anche se le prime misure adottate dal nazismo per limitare la libertà degli ebrei e allontanarli dalla vita politica e culturale della Germania non suscitarono forse lo stesso incondizionato entusiasmo dello smantellamento della Repubblica di Weimar o dell'ordine internazionale stabilito dal trattato di Versailles, esse vennero comunque accettate come legittime e messe in atto senza alcun costo politico per il regime (fatta eccezione per gli episodi in cui il vandalismo nazista e gli atti di violenza perpetrati alla luce del sole minacciavano altri valori profondamente radicati, quali l'ordine pubblico, la giustizia e l'inviolabilità della proprietà privata)8. Un simile ma ancor più stretto legame tra le politiche naziste e i valori della società tedesca si ritrova anche dopo il 1939. Praticamente in qualunque nazione, in tempo di guerra, il patriottismo esalta l'identificazione tra il popolo e il regime. La guerra inoltre facilita l'accettazione tanto di una soglia più elevata di violenza, quanto della necessità di inflessibilità e spirito di sacrificio, estremizzando l'ostilità e la paura nei confronti di un nemico che è facile spogliare della propria umanità. In Germania, in particolare, la nostalgia delle gloriose imprese militari tedesche (e prussiane), giustapposta all'amaro ricordo della recente sconfitta e dell'umiliazione, nonché l'effetto inebriante delle iniziali vittorie di Hitler, non fecero che acutizzare queste diffuse tendenze. La dittatura nazista era ben conscia che la guerra avrebbe creato una situazione favorevole all'adozione di politiche inaccettabili se non addirittura impensabili in tempo di pace. Come predisse Göring ai leader nazisti riuniti alla vigilia della Kristallnacht [“Notte dei cristalli”] “Se in un prossimo futuro dovesse scoppiare un conflitto esterno, è ovvio che la prima cosa a cui penseremmo qui in Germania sarebbe anche di pareggiare definitivamente i conti con gli ebrei”9. Hitler rese a sua volta pubblica questa aspettattiva nella sua “profezia” al Reichstag del 30 gennaio del 1939, proclamando che la guerra mondiale avrebbe significato “l'annientamento della razza ebraica in Europa” (per quanto aperto e imprecisato restasse ancora il termine “annientamento” o Vernichtung). Inoltre, la conquista e la divisione della Polonia nel settembre del 1939, primi frutti della vittoria, segnarono un grande passo verso la creazione di un impero nazista tedesco nell'Europa orientale, che offriva un laboratorio in cui sperimentare varie politiche di imperialismo razziale. Come dimostrato dai termini del trattato di Brest-Litovsk, dalle campagne dei Freikorps [organizzazioni paramilitari di estrema destra] e dal quasi totale disconoscimento del trattato di Versailles, il rifiuto di accettare il verdetto della Prima guerra mondiale nonché le mai sopite ambizioni imperiali in Europa orientale sostenute dall'ideale della superiorità della razza e della cultura germanica trovavano il sostegno di gran parte della società tedesca. Furono questi ideali, più che l'antisemitismo, a costituire il terreno d'intesa tra la maggior parte della popolazione tedesca e il regime nazista. La successiva crociata contro il “bolscevismo asiatico (ed ebraico)” in Unione Sovietica aumentò ulteriormente il consenso del popolo verso il regime. La somma di questi legami, presi nel loro insieme, creò un rapporto tale tra il regime nazista e la società tedesca da assicurare una posizione di potere agli ideologi e rendere così possibile l'Olocausto. Se dunque la popolarità, i fini comuni e i valori condivisi furono alla base della capacità del regime di mobilitare il popolo tedesco, perché quel legame non si spezzò quando il regime chiese alla propria gente di compiere azioni senza precedenti e assolutamente contrarie ad altri valori tradizionali, e di uccidere milioni di uomini, donne e bambini innocenti? Analizziamo più in dettaglio come alcuni gruppi specifici di funzionari di medio livello e di “uomini comuni” reagirono e parteciparono alle persecuzioni sempre più feroci e allo sterminio di massa degli ebrei. 0002000060 ‣ I funzionari di medio livello . Utilizzo il termine “funzionari”10 invece di “burocrati della morte” [Schreibtischtäter ] perché alcuni di loro non si limitarono a impartire gli ordini comodamente seduti dietro la propria scrivania, lontani dagli eventi, ma intervennero direttamente (o almeno si recarono di persona) sul campo ed ebbero contatti regolari con le proprie vittime. Vorrei prendere in considerazione due di questi gruppi di funzionari di medio livello che ebbero particolare rilievo nella storia dell'Olocausto: i cosiddetti “specialisti di affari ebraici” [Judensachbearbeiter ] che proliferarono all'interno degli enti statali tedeschi (con particolare rilevanza nel ministero degli Esteri) dopo il 1933, e gli impiegati delle “amministrazioni dei ghetti” [Gettoverwaltungen ], figure sorte con la creazione dei ghetti ebraici nell'Europa orientale occupata dai nazisti (in particolare a Varsavia, Lódź e Brest-Litovsk). A pochi mesi dalla presa del potere da parte dei nazisti, in quasi tutti gli enti statali tedeschi furono assunti funzionari incaricati di curare tutte le questioni legate alla politica ebraica nell'ambito di competenza di ciascuna istituzione. La creazione di questi “uffici ebraici” [Judenreferat ] fu in molti casi una risposta di natura pratica all'urgenza degli affari da sbrigare. All'interno del ministero degli Esteri, per esempio, il 20 marzo 1933 il segretario di Stato Bernhard Wilhelm von Bülow incaricò il cugino Vicco von Bülow-Schwante di agire da tramite tra Wilhelmstrasse e il Partito nazista, e tre giorni dopo gli chiese di raccogliere materiale per difendere e giustificare le “cause del movimento antisemita in Germania” in risposta alle critiche provenienti dall'estero11. Nacque così l'“Ufficio per gli affari ebraici”, che difendeva dagli attacchi esterni le azioni di persecuzione degli ebrei da parte del regime nazista, mentre sul fronte interno contrastava da un lato gli eccessi che avrebbero potuto fornire nuovi argomenti a favore della propaganda antigermanica, dall'altro qualsiasi tipo di cedimento rispetto alle misure adottate contro gli ebrei, che sarebbe stato interpretato come una debolezza da parte della Germania. Svolgendo questo compito, il ministero degli Esteri finì per assuefarsi all'idea che tutti gli ebrei del mondo fossero nemici della Germania12. Lo Judenreferat divenne ben presto un'istituzione in tutti i settori dell'apparato burocratico tedesco, e non solo all'interno del ministero degli Esteri. Nessun ministero coinvolto nelle politiche ebraiche naziste poteva permettersi di non avere un consulente che suggerisse come applicare le leggi antisemite promulgate in altra sede, che partecipasse alle varie conferenze interministeriali con il compito di difendere il punto di vista del ministero e che, ovviamente, si occupasse di stabilire i provvedimenti del ministero stesso. L'esistenza di un corpo di “specialisti di affari ebraici” contribuisce a spiegare l'efficienza burocratica delle politiche antisemite tedesche: a garantire l'incessante flusso di sempre nuove misure discriminatorie non erano gli ordini dall'alto, ma l'esistenza stessa della funzione di “specialista di affari ebraici”, che generava in chi la ricopriva un senso di dedizione al proprio ruolo, la necessità di riempire le ore lavorative, l'ambizione a ottenere riconoscimenti e avanzamenti di carriera, e la preoccupazione di difendere dalle ingerenze delle istituzioni rivali i settori di competenza del proprio datore di lavoro. I compiti e il personale dell'ufficio per gli affari ebraici del ministero degli Esteri cambiarono con lo scoppio della guerra. Tra il 1940 e il 1943 lo “specialista di affari ebraici” fu Franz Rademacher, coadiuvato da tre assistenti (in successione): Herbert Müller, Karl Klingenfuss e Fritz-Gebhardt von Hahn13, tutti nati tra il 1901 e il 1911, laureati in legge e desiderosi di fare carriera nel settore pubblico. Tutti e tre si erano convenientemente iscritti al partito nazista tra il marzo e il maggio 1933: facevano quindi parte dell'ondata dei cosiddetti “sopraggiunti di marzo” [Märzgefallenen ], lo stuolo di opportunisti riversatisi nei ranghi del partito dopo la sua ascesa al potere. Nessuno di loro entrò a far parte delle SS o fece esplicita richiesta di essere assegnato all'ufficio per gli affari ebraici, né aveva fama di antisemita radicale o di esperto della questione ebraica prima di ricevere l'incarico. Questi giovani erano il prodotto di una sempre più diffusa cultura universitaria di destra nazionalista, völkisch e antisemita, e si dimostravano più che disposti a conformarsi agli standard di partito e della burocrazia ministeriale; dunque si presuppone che non fossero certo tipi da accettare con riluttanza, e tantomeno osteggiare, misure antisemite ufficiali. Una volta assunti in un ufficio per le questioni ebraiche, tuttavia, ognuno reagì in modo diverso all'incarico. Rademacher, figlio di un ferroviere, era un uomo cresciuto dal nulla, che si era fatto strada attraverso il liceo e l'università. Nel 1932, dopo aver superato l'esame di Stato, divenne giudice ausiliario. Quello stesso anno si unì alle SA [Sturmabteilungen, Squadre d'assalto], per abbandonarle prudentemente nel 1934. Usando l'iscrizione al partito come biglietto da visita, nel 1938 Rademacher fu assunto dal prestigioso ministero degli Esteri e assegnato all'ambasciata tedesca di Montevideo, con la funzione di incaricato d'affari. Per sua stessa richiesta, rientrò in Germania nella primavera del 1940, in seguito alla relazione tra sua moglie e uno degli ufficiali della corazzata tascabile Graf Spee, che frequentava regolarmente l'ambasciata. Una volta tornato a Berlino, Rademacher si vide immediatamente assegnata la direzione dell'Ufficio per gli affari ebraici, da poco vacante. In questa sede quest'uomo cresciuto dal nulla si improvvisò anche esperto di questioni ebraiche, nonché antisemita di professione. Contattò numerosi editori e organizzazioni del Partito nazista per mettere insieme con diligenza una fornita biblioteca di letteratura antisemita. Intrattenne rapporti anche con altri antisemiti professionisti come Paul Wurm, giornalista del “Der Stürmer” di Streicher, che contribuì al suo riconoscimento pubblico tessendone le lodi e definendolo un “eccellente esperto della questione ebraica”14. Diede inoltre disposizioni affinché venissero applicate “misure speciali per liberare un appartamento ebraico da destinare alla mia persona”15. Il nuovo corso di Rademacher si trasformò in un notevole successo che gli aprì brillanti prospettive di carriera e contribuì a dare forma concreta alle misure antisemite. All'inizio del giugno 1940 Rademacher avanzò in via ufficiale la proposta di espellere gli ebrei residenti in territorio tedesco relegandoli nell'isola francese di Madagascar. Quest'idea bizzarra (saccheggiata da vecchi opuscoli antisemiti che Rademacher aveva trovato negli archivi del suo nuovo ufficio) coincideva perfettamente con la politica di espulsione di Himmler e venne adottata da Hitler nel giro di poche settimane. Rademacher ebbe meno fortuna nel trovare un vice in pianta stabile. Herbert Müller, sua vecchia conoscenza, lavorò nell'Ufficio per gli affari ebraici dal novembre 1941 all'aprile 1942, anno in cui, grazie ad alcuni suoi contatti, riuscì ad arruolarsi nell'esercito. Il desiderio di liberarsi in tutti i modi da quell'incarico non voluto, tuttavia, non gli impedì di svolgere il proprio lavoro: non solo respingeva le richieste di espatrio di singoli individui, ma anche quelle di invio di sussidi esterni per il ghetto di Lódź. Müller scrisse infatti che “La Soluzione finale prevista per la questione ebraica [...] proibisce l'invio dall'estero di approvvigionamenti per gli ebrei della Germania e del Governatorato centrale”16. Il suo successore, Karl Klingenfuss, subentratogli nel luglio del 1942, trovò il lavoro “sgradevole” e addirittura “sinistro”, chiese il trasferimento nell'ottobre dello stesso anno, e venne riassegnato all'ambasciata in Svizzera all'inizio del 194317. Soltanto il giovane FritzGebhardt von Hahn sembrò trovare il lavoro nell'ufficio per le questioni ebraiche di suo gradimento. Si vantava del suo nuovo ruolo “di esperto della questione ebraica del ministero degli Esteri” e si lamentava di altri funzionari che “non comprendono appieno la necessità di una veloce Soluzione finale europea della questione ebraica”18. Paradossalmente, però, lo stesso Rademacher (l'antisemita improvvisato) aveva ormai perso l'entusiasmo iniziale. Nella primavera del 1943, dopo l'ennesimo rimpasto di personale al ministero degli Esteri, Rademacher non solo rifiutò un possibile avanzamento di carriera, ma scrisse a Wurm: “Con mio grande sollievo, io stesso sono stato dimesso e arruolato nell'esercito”19. Gli specialisti di affari ebraici del ministero degli Esteri, a prescindere dai sentimenti e dalle convinzioni personali che come si è visto differivano in maniera evidente, svolsero il proprio compito burocratico in maniera assolutamente uniforme (con l'eccezione della clamorosa iniziativa di Rademacher sul piano Madagascar). Tutti respingevano richieste di migliorie, davano corpo a proposte di nuove misure antisemite e partecipavano alle riunioni interministeriali sull'argomento. Per fare un esempio, Rademacher sottopose un memorandum di “desiderata e idee”20 al suo superiore, il sottosegretario Martin Luther, in procinto di partecipare alla conferenza di Wannsee, ed egli stesso, o uno dei suoi subalterni, partecipò a tutti gli incontri successivi. Avevano inoltre il compito di assegnare consulenti delle SS presso i vari paesi, come nel caso del temporaneo invio di Theo Dannecker e Dieter Wisliceny alle ambasciate tedesche rispettivamente in Bulgaria e Grecia per portare a termine la deportazione degli ebrei. In particolare, si deve agli specialisti di affari ebraici se la rete dello sterminio si allargò fino a includere tra i deportati varie categorie di ebrei stranieri. Ricoprire il ruolo di Judensachbearbeiter costituiva di per sé un fattore di efficienza più valido dei sentimenti o delle convinzioni ideologiche personali. Quelli che trovarono poco piacevole l'incarico non reagirono svolgendo meno bene il proprio lavoro: cercarono semplicemente di usare le proprie conoscenze per essere assegnati altrove, ma nel frattempo continuarono a lavorare con professionalità ed efficienza. A partire dalla ghettizzazione degli ebrei polacchi nel 1940 e 1941, allo “specialista di affari ebraici” ministeriale si aggiunse un'altra figura istituzionale dell'apparato burocratico tedesco: l'“amministratore del ghetto”21. Inizialmente la reclusione nei ghetti (come avvenne a Lódź nella primavera del 1940) era stata pensata come una misura preliminare e temporanea per facilitare gli espropri in vista di una successiva deportazione. Quando il progetto di espulsione tardava a concretizzarsi, gli amministratori dei ghetti si trovavano a far fronte alle conseguenze dell'aumento esponenziale dei decessi dovuti alle malattie e alla mancanza di cibo. Le soluzioni al problema variarono a seconda dei casi. A Lódź l'intransigente ideologo nazista Alexander Palfinger si rallegrava dell'insufficienza di approvvigionamenti. Sosteneva che “data la mentalità degli ebrei” soltanto il “bisogno più estremo” li avrebbe costretti a separarsi dalle proprie ricchezze, tenute ben nascoste, per sfamarsi22. Hans Biebow, suo rivale nella gestione del ghetto, ex importatore di caffè di Brema e membro del Partito nazista sin dal 1937, promosse una politica diversa per risolvere la questione. Egli sosteneva che si dovesse compiere ogni sforzo necessario a “facilitare l'autosufficienza economica degli ebrei trovando loro un'occupazione”23. Palfinger cercò di sminuire l'approccio da “venditore” di Biebow e obiettò che “soprattutto in merito alla questione ebraica, l'ideale nazionalsocialista [...] non ammette compromessi”. Quando la fame non portò, come sperava Palfinger, alla consegna di tesori nascosti ma solo a un aumento vertiginoso dei decessi, l'ideologo si ritenne ugualmente soddisfatto: “la rapida morte degli ebrei è per noi una questione della più totale indifferenza, per non dire desiderabile [...]”24. La linea di Palfinger, tuttavia, non prevalse, e le autorità tedesche di Lódź scelsero di creare un'economia all'interno del ghetto, sfruttando il lavoro degli ebrei per arricchirsi. Palfinger partì insoddisfatto e colmo di rancore alla volta di Varsavia, dove trovò invece in Waldemar Schön un sostenitore della politica di affamamento. Ma anche a Varsavia le manovre di Palfinger e Schön vennero ostracizzate. Il dottor Walter Emmerich, consigliere per l'economia di Hans Frank, sosteneva (proprio come Biebow aveva fatto a Lódź) che “il punto di partenza per qualsiasi misura economica deve essere l'idea di garantire agli ebrei le condizioni minime per sopravvivere”. La risposta al problema fu dunque lo sfruttamento della manodopera del ghetto, che a sua volta richiedeva la fornitura di approvvigionamenti adeguati25. Palfinger andò su tutte le furie, definendo Emmerich un “teorico privo di senso pratico e della realtà” che ignorava una verità fondamentale nota a ogni contadino: “Il fabbisogno di un animale da lavoro da cui un essere umano pretende un certo prodotto non è mai stato oggetto di profonda contemplazione circa i suoi bisogni. Al contrario [...] chi mantiene l'animale stabilisce quanto cibo debba ricevere in base alla sua produttività”26. Tuttavia Palfinger era destinato a rimanere deluso ancora una volta, visto che sia lui che Schön vennero rimpiazzati rispettivamente da Max Bischof e Heinz Auerswald. Durante il suo primo incontro con Adam Czerniakow, capo del Consiglio ebraico di Varsavia, Auerswald (un avvocato trentatreenne) lo rassicurò sul fatto che “il suo atteggiamento nei confronti del consiglio era di natura oggettiva, legato alla realtà dei fatti e totalmente privo di animosità”27. Nei mesi seguenti Auerswald perseguì due politiche ben precise: incoraggiare la crescita economica del ghetto e arginare il diffondersi delle epidemie. La prima prevedeva un incremento minimo degli approvvigionamenti destinati ai lavoratori e innanzitutto la stabilizzazione e il conseguente calo dei decessi; la seconda consisteva invece nel rendere ancor più impenetrabili i confini del ghetto, imponendo la pena di morte agli ebrei sorpresi fuori dalle sue mura. Parlando di Palfinger, Ringelblum aveva sottolineato che “era per lui una consuetudine non parlare con gli ebrei. Alcuni alti funzionari sono fatti così, non ricevono ebrei per principio. Ordinano che siano tenute aperte le finestre [...] per via dell'odore emanato dagli ebrei”28. Per contro, Auerswald intrattenne delle lunghe e insolite conversazioni con Czerniakow, stabilendo un caso unico nella storia dei rapporti tra capi ebrei e amministratori tedeschi (stando almeno alla documentazione sopravvissuta). In occasione di una lunga riunione durata due ore e mezza, Czerniakow parlò del “ruolo storico e della responsabilità” di Auerswald, mentre in un'altra lo consigliò di “ascoltare prima di tutto la voce della propria coscienza”29. Quando i tedeschi invasero e occuparono il territorio sovietico nell'estate del 1941, alcuni nazisti si opposero strenuamente all'idea di creare altri ghetti per gli ebrei come era avvenuto in Polonia, e sollecitarono un “trattamento radicale della questione ebraica, adesso finalmente possibile nei territori orientali”30. Sul finire dell'agosto 1941 i nazisti avevano già cominciato a mettere in pratica la “Soluzione finale” in territorio sovietico. Tuttavia, nonostante le proporzioni crescenti dello sterminio culminato alla fine di settembre con il massacro di Babi Yar alle porte di Kiev, l'eliminazione di tutti gli ebrei sovietici non sarebbe stata neppure lontanamente realizzabile senza ricorrere alla ghettizzazione temporanea anche in quella regione. Per esempio, anche lo spietato Erich Koch, il Reichskommissar dell'Ucraina, ordinò la creazione di ghetti nel distretto di Volinia e Podolia (che includeva la città di Brest-Litovsk) nel settembre 194131. Brest32 era governata da un triumvirato formato da Curt Rolle (Gebietskommissar e Standartenführer delle SA), Franz Burat (Stadtkommissar e membro del partito sin dal 1931) e Friedrich Wilhelm Rohde (Polizeistandortführer e ufficiale della Schutzpolizei da poco entrato nelle SS), che amministravano la città senza cadere troppo spesso in quelle rivalità tra colleghi che solitamente caratterizzavano il governo nazista. Burat ordinò la ghettizzazione, impose un'astronomica tassa di 2 milioni di rubli, tagliò drasticamente i viveri destinati agli ebrei e nel contempo dichiarò che questi ultimi rappresentavano “un fardello troppo pesante, soprattutto in termini di politica alimentare”33. Nonostante gli ebrei dei ghetti ricevessero sempre meno cibo, le autorità tedesche di Brest cominciarono a sfruttarli sempre più come forza lavoro. Rolle, Burat e Rohde convennero all'unanimità sul bisogno sempre più urgente di manodopera ebraica, specialmente in seguito all'Operazione Sauckel, dal nome del ministro plenipotenziario Fritz Sauckel che la ideò, che sanciva la deportazione della manodopera locale non ebrea nel Reich a scopo di lavoro. Già nella primavera del 1942 i triumviri cominciarono a progettare un “grande complesso industriale per l'impiego degli operai specializzati ebrei, sul modello dei laboratori di Lublino” (ovvero delle fiorenti attività di Globocnik sull'altra sponda del fiume Bug, basate sullo sfruttamento della manodopera dei ghetti)34. Mentre lo sterminio degli ebrei continuava a est come a ovest, tra gli abitanti del ghetto di Brest si diffuse una crescente paura. Burat dichiarò apertamente che gli abitanti del ghetto, al contrario degli inaffidabili lavoratori non ebrei che abbandonavano i loro posti di lavoro malpagati per unirsi ai partigiani, benché “terrorizzati”, “compivano sforzi incredibili e lavoravano duramente affinché venisse riconosciuto loro il diritto di esistere...”35. Gli amministratori attuarono le loro politiche di autosufficienza dei ghetti e di sfruttamento del lavoro degli ebrei a livello locale, proponendo misure “produttivistiche” che prevalevano su quelle dei fautori del “logoramento” come Palfinger. Il loro scopo principale era anzitutto evitare una scelta tra due opzioni poco allettanti: da una parte la morte per fame degli ebrei internati e il conseguente pericolo di diffusione delle epidemie tra la popolazione non ebrea, e dall'altra il finanziamento dei ghetti con fondi statali. Inoltre, la crescente mancanza di manodopera e la prospettiva di ottenere un tornaconto personale dalla situazione costituivano ulteriori incentivi. L'economia del ghetto continuò comunque a essere considerata solamente una misura temporanea, da usare fino a quando la deportazione degli ebrei fosse apparsa finalmente attuabile. Come faceva notare Auerswald, “apparentemente, la soluzione migliore rimane ancora quella di trasferire altrove gli ebrei”36. Come reagirono allora gli amministratori dei ghetti quando la politica nazista spostò l'obiettivo dall'espulsione allo sterminio di massa e i ghetti divennero anticamere per la deportazione verso i campi della morte? Per Palfinger, che aveva lasciato Varsavia ed era stato inviato in Galizia orientale, dove aveva contribuito alla creazione del ghetto di Ternopil', atrocemente sovrappopolato, la “sparizione” degli ebrei era sempre stata nient'altro che “auspicabile”37. A Varsavia, Auerswald tradì Czerniakow rispondendo negativamente alle sue disperate richieste di spiegazioni sulle deportazioni del luglio del 1942, delle quali non fu comunque responsabile. Trovatosi ben presto senza impiego, non cercò in alcun modo di alterare a posteriori il proprio stato di servizio ostentando un qualche coinvolgimento nello sterminio di massa o nella sua preparazione. Al contrario, annoverò tra i suoi successi il “miglioramento delle condizioni igieniche” e la “prevenzione di un paventato dissesto economico”38. Se le reazioni di Palfinger e Auerswald rappresentano due estremi opposti, quelle degli amministratori dei ghetti di Lódź e Brest rientrano in una tipologia più comune. Nell'autunno del 1941 Biebow raccolse varie prove da presentare ai suoi superiori contro ulteriori deportazioni di ebrei del Reich verso il ghetto di Lódź, che descriveva come un “elemento dell'economia di difesa frutto di un equilibrio perfetto e quindi particolarmente sensibile” e non “un semplice ghetto destinato alla decimazione”39. Con l'inizio delle deportazioni da e per Lódź e dell'impiego del gas a Chelmno, tuttavia, il mantenimento dell'autosufficienza economica del ghetto richiese una diversa strategia, e Biebow si adattò rapidamente alla situazione con lo stesso zelo e la medesima efficienza che avevano contraddistinto la sua precedente condotta. Nella primavera del 1942, ebbe numerosi contatti con il comandante di Chelmno per sincerarsi del recupero degli oggetti di valore e dei vestiti degli ebrei assassinati da destinare alle sue operazioni economiche a Lódź40. I suoi piani prevedevano anche il recupero di “materiale umano” dal processo di sterminio. Così, quando i carnefici rastrellavano le piccole comunità ebraiche nel Warthegau, alle porte di Lódź, Biebow selezionava personalmente gli individui abili al lavoro per le sue officine41. Nell'estate del 1944, a degna conclusione della sua carriera di amministratore del ghetto, persuase gli ebrei sopravvissuti a salire sui treni per Auschwitz42. Sul finire dell'agosto del 1942 i tedeschi di stanza a Brest capirono che il destino degli ebrei del ghetto era stato ormai deciso, e che “fondamentalmente si deve attuare una soluzione totale”43. Rohde protestò replicando che “la mancanza di lavoratori si fa ogni giorno più evidente [...] Personalmente prevedo che, con la risoluzione della questione ebraica a Brest, la scarsità di manodopera causerà un gravissimo danno economico”44. Burat cercò di ottenere qualcosa di meno drastico di una “soluzione totale”: “Nonostante il completo trasferimento degli ebrei [...] sia auspicabile dal punto di vista politico, mi vedo costretto dal punto di vista economico a richiedere incondizionatamente l'esclusione degli artigiani e dei lavoratori più necessari”45. Le loro richieste furono vane e il ghetto fu completamente svuotato tra il 15 e il 16 ottobre del 1942. Rohde, l'ex “protettore” e “salvatore” che aveva sempre accettato denaro dagli ebrei del ghetto in cambio di favori46, fu accusato da testimoni tedeschi di aver selezionato personalmente e con brutalità i prigionieri che, troppo deboli per raggiungere la stazione ferroviaria per il viaggio verso i campi di sterminio di Brona-Gora, andavano uccisi sul posto47. Burat, che aveva difeso lo sfruttamento della manodopera ebrea, si scagliò contro gli “zingari”, che considerava soltanto di peso per l'economia. Richiese una “autorizzazione ufficiale” a trattarli “alla stregua degli ebrei”, ma non ricevendo alcuna risposta decise di non farli sterminare di sua iniziativa. In definitiva, gli ebrei che avrebbe voluto risparmiare come forza lavoro furono assassinati, mentre gli “zingari” che avrebbe desiderato uccidere rimasero in vita48. In retrospettiva, gli amministratori dei ghetti, pur essendo tutti membri del Partito nazista come la maggior parte delle autorità tedesche nei territori occupati a est, si comportarono in modi molto diversi tra loro. Alcuni entusiasti, come Auerswald, cercarono di risolvere i problemi legati alla politica ebraica nazista senza risultare corrotti o brutali, ma videro affievolirsi l'entusiasmo iniziale quando quella politica imboccò la svolta decisiva verso lo sterminio di massa. Altri, come Palfinger, ostentavano la propria fedeltà all'ideologia del nazionalsocialismo curandosi solo marginalmente della risoluzione pragmatica dei problemi, e appoggiavano apertamente il genocidio. La maggior parte degli amministratori dei ghetti, tuttavia, non apparteneva né al gruppo degli “ideologi” né a quello degli ex entusiasti, ma piuttosto alla categoria dei cosiddetti “accomodatori”. Gli uomini come Biebow consideravano un loro dovere verso il regime organizzare un'economia autosufficiente del ghetto che risolvesse contemporaneamente sia il problema del gran numero di decessi per inedia, con conseguente diffusione delle epidemie, sia quello del sostentamento a spese del Reich degli ebrei incarcerati. Questa politica consentì loro di ottenere grandi guadagni personali fornendo al tempo stesso una soluzione alla crescente scarsità di manodopera da destinare all'economia bellica, e venne in seguito adottata anche da altri funzionari tedeschi come Rohde, Burat e Rolle a Brest-Litovsk. Tali figure intrapresero iniziative locali nell'ambito della politica ebraica, ma queste erano mirate allo sfruttamento economico e non allo sterminio di massa. Non si trattava di scrupoli di coscienza o mancanza di razzismo: Burat, per esempio, sollecitò lo sterminio degli “zingari”, che considerava un fardello senza alcuna utilità economica. E in effetti, furono proprio alcuni “zingari” austriaci, deportati dal ghetto di Lódź, a entrare per primi nelle camere a gas di Chelmno. In ultima istanza, tutti gli amministratori dei ghetti accettarono il principio dettato dal regime secondo cui gli ebrei costituivano un problema da risolvere con la loro “rimozione”. Quando questa “rimozione” assunse la forma dello sterminio di massa, la maggioranza degli amministratori non solo accettò il cambiamento, ma vi si adattò e partecipò in prima persona alla sua attuazione. Nel caso di Biebow questo significò la lenta e inarrestabile distruzione del ghetto di Lódź, insieme al continuo sfruttamento economico dei prigionieri, mentre nel caso di Rohde e Burat la liquidazione del ghetto di Brest fu totale e immediata. 0002000060 ‣ Uomini comuni . Gli specialisti di affari ebraici [Judensachbearbeiter ] e gli amministratori dei ghetti erano funzionari di medio livello e membri del Partito nazista coinvolti praticamente a tempo pieno nell'elaborazione e nell'attuazione della politica ebraica nazista. Ma esiste anche un'altra, foltissima schiera di cosiddetti “uomini (e in alcuni casi anche donne) comuni” provenienti da ogni ceto sociale tedesco che si rese complice, in momenti e modi diversi, dell'applicazione o dello sfruttamento di quelle misure antisemite che altri avevano concepito. Macchinisti alla guida dei convogli della morte; operai che sorvegliavano il lavoro degli ebrei nelle fabbriche di materiale bellico o nei cantieri stradali; impiegati comunali che emettevano sempre nuove leggi discriminatorie; donne delle pulizie delle stazioni di polizia locale che arrotondavano i loro introiti facendo spogliare e perquisendo le ebree tedesche prima della deportazione; cittadini tedeschi di ogni estrazione sociale che si misero in lista per ottenere i posti di lavoro e le attività degli ebrei allontanati dai vari settori dell'economia, oppure gli appartamenti e le proprietà dei loro ex-vicini ebrei che erano emigrati o erano stati deportati. La categoria più problematica, ovviamente, era quella degli “uomini comuni” che avevano il compito di uccidere le loro vittime ebree faccia a faccia, uomini che, massacro dopo massacro, tornavano dai “campi di esecuzione” zuppi di sangue e imbrattati del cervello degli uomini, donne e bambini ebrei a cui avevano sparato a bruciapelo. I capi di queste squadre della morte erano spesso, ma non sempre, selezionati per la loro comprovata adesione all'ideologia nazista, presunta inflessibilità e smodata ambizione. Ma i gregari (nella stragrande maggioranza soldati semplici della Wehrmacht o agenti della polizia d'ordine, e non membri delle SS) erano assegnati soprattutto in base alla loro disponibilità immediata. A titolo illustrativo proporrò brevemente l'esempio delle rappresaglie della Wehrmacht in Serbia, per poi esaminare più in dettaglio il ruolo della polizia d'ordine. In questa sede non parlerò, per mia precisa scelta, delle Einsatzgruppen 49. Il comportamento della Wehrmacht in Serbia costituisce un esempio di particolare rilevanza, in quanto in quella zona la Wehrmacht si trovava in posizione di relativo predominio rispetto alle SS, mentre la Serbia non era al centro dei progetti hitleriani di “guerra di distruzione” e di ricerca dello “spazio vitale” [Lebensraum ]. I comandanti militari godevano perciò di una maggiore libertà che permetteva loro di agire in base alle proprie inclinazioni e ai propri atteggiamenti e valori50. Dopo la rapida conquista e lo smembramento della Jugoslavia nella primavera del 1941, l'amministrazione militare tedesca in Serbia rimase sotto organico: aveva a disposizione divisioni composte principalmente da austriaci in età avanzata, scarsamente equipaggiati e male addestrati. Nell'incapacità di controllare la pressione crescente dei movimenti insurrezionali comunisti, i tedeschi inviarono rinforzi dalle prime linee e ricorsero a misure di aperto terrore nei confronti di tutta la popolazione civile. Per usare le parole pronunciate dal generale Franz Böhme nell'esortare le sue truppe: “Va dato un esempio intimidatorio a tutta la Serbia, che colpisca severissimamente l'intera popolazione”51. Quando, nonostante tutto, gli attacchi partigiani non solo continuarono ma anzi aumentarono d'intensità, l'amministrazione militare si attenne all'ordine di Keitel di fucilare per rappresaglia da 50 a 100 “comunisti” per ogni soldato tedesco ucciso dagli insorti, applicando il rapporto massimo di 100 a 1 e raccogliendo le vittime serbe a caso intorno ai luoghi delle aggressioni, tra cui studenti delle scuole superiori e operai di una fabbrica che produceva aeroplani per i tedeschi a Kragujevac. Com'era facile prevedere, queste rappresaglie alla cieca non fecero che contribuire all'indebolimento del governo fantoccio serbo, spingendo un numero sempre maggiore di serbi terrorizzati a unirsi alle bande partigiane. Agendo di propria iniziativa, i comandanti tedeschi a Belgrado tentarono di minimizzare queste ripercussioni negative della loro politica di massima rappresaglia punendo “in linea di principio” tutti i maschi adulti ebrei e “zingari”52, benché fosse impossibile che questi gruppi, già rinchiusi nei ghetti, potessero essere coinvolti negli attacchi dei partigiani. Inoltre, molti degli ebrei dei ghetti serbi erano rifugiati austriaci, i quali ora si trovavano a essere fucilati da soldati austriaci per rappresaglia contro attacchi serbi all'esercito tedesco. Molte delle rappresaglie eseguite secondo questa politica ci sono note in tutti i dettagli, grazie a due dei pochi rapporti di livello inferiore pervenutici e alle successive indagini giudiziarie53. In seguito all'imboscata, alla cattura e all'esecuzione di 22 membri di un'unità di comunicazione vicino a Topola il 2 ottobre, il tenente Walter Liepe del Reggimento Comunicazioni 522 (il quale era entrato nell'esercito nel 1926, a vent'anni, quando si era arruolato nella Reichswehr) ordinò tre fucilazioni di rappresaglia. Le prime due sono descritte da Liepe stesso nel suo “Rapporto sulla fucilazione di ebrei in data 9 e 11 ottobre 1941”54. L'ufficiale ammise la terza fucilazione durante l'interrogatorio a cui fu sottoposto dopo la guerra55. Stando a Liepe, quando chiese se vi fossero volontari per il plotone d'esecuzione “si fecero avanti più persone di quante mi aspettassi”, ed egli scelse il numero necessario. Stando invece alle testimonianze di alcuni soldati austriaci, si fecero avanti solo tedeschi ma in numero insufficiente, e quindi furono assegnati al plotone alcuni austriaci56. La maggior parte dei soldati tedeschi coinvolti afferma che non vi fu nessuna richiesta di volontari, ma vennero tutti assegnati57. Gli ebrei furono caricati su un camion e portati dal campo di Topovske Supe, a Belgrado, ai luoghi designati per le fucilazioni (inizialmente vicino a Panccevo, a nord di Belgrado, poi ad Avala verso sud). Vennero costretti a scavare fosse comuni e poi fucilati ai bordi di esse a gruppi di dieci. Il plotone, posizionato a una distanza di 12 metri, era composto da tre tiratori per ogni vittima. A ogni fucilazione, le future vittime dovevano gettare i cadaveri del turno precedente nella fossa, se questi non vi erano caduti da soli. Prima di ogni salva, Liepe gridava: “Puntate – Vendetta!”, invece dell'abituale “Puntate – Fuoco”58. Secondo un testimone, Liepe sparò personalmente a un ebreo che chiedeva pietà perché padre di sei figli59. Durante gli interrogatori, la maggior parte dei soldati ammise apertamente di sapere che le vittime erano ebrei. Un austriaco dichiarò di aver appreso da una vittima, pure un austriaco, che nel campo si trovavano più di 100 ebrei viennesi60. Un soldato testimoniò che gli ebrei avevano chiesto di poter pregare e implorato pietà perché erano padri di famiglia e innocenti; un altro disse che gli ebrei “pregavano e piangevano”61. Nessuno, neppure col senno di poi, mise in dubbio l'assurdità di fucilare ebrei che vivevano confinati nei ghetti per rappresaglia contro le uccisioni di tedeschi compiute da ribelli serbi, sebbene molti fossero rimasti colpiti da singoli ebrei che affermavano di aver ricevuto la Croce di ferro di prima classe o di aver prestato servizio come ufficiali ungheresi durante la Prima guerra mondiale62. Alcuni soldati furono identificati come individui che avevano mostrato particolare zelo nell'uccidere gli ebrei63 o si erano arricchiti con i gioielli e gli orologi di cui avevano depredato i cadaveri64. La maggior parte degli interrogati non commentò in alcun modo l'atteggiamento dei commilitoni. Molti affermarono di essere rimasti sconvolti dalle fucilazioni, e per questa ragione non ne parlavano affatto o ne parlavano poco65. Un altro soldato che tornava dalla licenza, tuttavia, raccontò di essere stato salutato con la domanda “Vai a sparare agli ebrei?”: il che non indica certo una diffusa reticenza ad affrontare la questione o a parlarne66. Solo un testimone dichiarò di aver chiesto di lasciare il plotone d'esecuzione, e che Liepe, in considerazione della sua età e del fatto che era un veterano della Prima guerra mondiale, fece un'eccezione e lo lasciò andare67. Secondo un'altra testimonianza, altri due chiesero la sostituzione e vennero minacciati dai commilitoni. Allora, uno dei due si sentì male e svenne sul luogo delle fucilazioni68. Un soldato ammise di aver preso parte alle prime due esecuzioni e di essersi sottratto alla terza dichiarando di stare male in quanto ne aveva già “avuto abbastanza”. Fu mandato a pelare patate, ma non subì alcun'altra ripercussione69. Forse non tutti condividevano il rimpianto di Liepe quando scriveva che “purtroppo” la sua unità era stata costretta a cedere ad altri il compito di altre fucilazioni, per occuparsi di incombenze più pressanti. Ma solo pochissimi sembravano profondamente colpiti da ciò che avevano fatto. Poco dopo, i tedeschi subirono perdite a Valjevo, e furono ordinate altre 2200 fucilazioni per rappresaglia. Il capo di Stato Maggiore di Böhme, Max Pemsel, ne affidò 1600 al reggimento di stanza a Belgrado. Il tenente Hans-Dieter Walther (che aveva iniziato la carriera militare nel 1936, a 19 anni, come cadetto della scuola ufficiali) fu messo a capo di un plotone d'esecuzione di uomini appartenenti al terzo battaglione del reggimento di fanteria 433, un'unità composta prevalentemente da austriaci e, in misura minore, da tedeschi dei Sudeti. Ancora una volta, le testimonianze dell'ufficiale in comando e quelle dei soldati divergono: Walther affermò di aver selezionato i tiratori tra i volontari, che si erano offerti in numero superiore al necessario70, mentre i tiratori dichiararono di essere stati tutti assegnati al plotone71 o di essere stati sottoposti a pressioni72. Quest'ultimo caso appare nella deposizione di un soldato, il quale dichiarò che Walther gli aveva chiesto di far parte del plotone e lo aveva chiamato “vigliacco” quando egli rifiutò. Molti testimoni riferirono che i soldati erano stati “preparati psicologicamente” alle fucilazioni con foto fatte circolare tra le truppe, che ritraevano i cadaveri apparentemente “mutilati” di alcuni soldati tedeschi73. Walter Manoschek ha dimostrato che il generale Böhme era stato informato immediatamente dopo le autopsie delle vittime dell'agguato di Topola che le voci sulle presunte mutilazioni erano infondate, ma fece ugualmente circolare la “leggenda delle mutilazioni”74. Le vittime furono caricate sui camion in quello che i soldati chiamavano comunemente il campo per “ebrei e zingari”, portate ancora una volta al luogo designato per le esecuzioni vicino a Panccevo, e costrette a scavarsi la fossa. Anche in questa occasione, le vittime vennero fucilate a gruppi di dieci ai bordi della fossa da un plotone d'esecuzione composto da 30 tiratori posizionati a 12 metri di distanza. L'unica differenza rispetto alle operazioni consuete fu che Walther fece voltare i soldati dopo ogni salva, in modo che non dovessero guardare mentre si gettavano i corpi nella fossa o si finivano i feriti con un colpo di pistola75. Secondo un testimone, quando il plotone iniziò a mirare tanto male da non uccidere sul colpo molte delle vittime, i tiratori furono sostituiti76. Nel suo “Rapporto sulla fucilazione di ebrei e zingari” stilato in seguito alla seconda delle tre esecuzioni, Walther scrisse che “l'esecuzione degli ebrei è più semplice di quella degli zingari. Bisogna ammettere che gli ebrei vanno alla morte con grande compostezza: rimangono del tutto fermi, mentre gli zingari si lamentano a gran voce, strepitano e non smettono mai di muoversi, anche quando sono già sul luogo designato per la fucilazione. Alcuni saltano addirittura nella fossa prima della salva e tentano di fingersi morti”. Dopo la seconda fucilazione, Walther annotò anche che “All'inizio i miei soldati non erano impressionati. Il secondo giorno era già evidente che all'uno o all'altro mancavano i nervi saldi per continuare a sparare per lunghi periodi. La mia personale opinione è che durante le fucilazioni cadano le inibizioni emotive (seelische Hemmungen). Queste, tuttavia, ricompaiono più tardi, quando si ripensa all'accaduto nel silenzio della notte”77. Secondo quanto riferito dallo stesso Walther, quando dopo una settimana gli fu assegnato a sorpresa il comando di una terza fucilazione, notò che questa volta le vittime erano per lo più anziani, che certamente non sarebbero stati in grado di imbracciare un fucile. A tal proposito, informò il comandante del battaglione di avere i nervi a pezzi, di non riuscire a dormire per gli incubi e di aver cercato rifugio nell'alcool. Gli furono risparmiate altre esecuzioni. Non dichiarò mai di aver avanzato una richiesta simile anche a nome dei suoi uomini, ma nessuno dei testimoni riferì di essere stato coinvolto in altre fucilazioni. Liepe e Walther, entrambi ufficiali di carriera tedeschi al comando di truppe in maggioranza austriache, erano chiaramente molto diversi per carattere, come provano i rispettivi rapporti78. Ma ciò che emerge non solo esplicitamente dai documenti tedeschi dell'epoca, ma anche implicitamente dalle testimonianze rese venti anni dopo nel corso delle indagini giudiziarie, è l'accettazione praticamente incondizionata e generalizzata in primo luogo delle misure draconiane in risposta alla resistenza partigiana, e in secondo luogo della prassi di scegliere le vittime della rappresaglia contro le insurrezioni comuniste serbe tra la popolazione maschile ebraica (che comprendeva anche dei compatrioti austriaci) e zingara. In una logica straordinariamente perversa e paradossale, i soldati della Wehrmacht si consideravano le vittime di strategie di resistenza partigiana particolarmente “crudeli e insidiose” (grausame und heimtückische) 79, che riflettevano la mentalità balcanica per cui la vita umana e le regole della civiltà non contavano nulla. Sembra non si rendessero conto della realtà storica, ovvero che gli occupanti tedeschi – che si consideravano pienamente in diritto di governare incontrastati su tutta l'Europa – non solo uccidevano tutti i partigiani catturati, ma avevano già ucciso migliaia di serbi la cui unica colpa era stata quella di essere rastrellati in prossimità di un qualche attacco partigiano, mentre (con l'eccezione dell'episodio di Topola) i partigiani mantenevano in vita i prigionieri della Wehrmacht80. Alcuni furono colpiti dall'anomalia di fucilare ebrei piuttosto anziani, o veterani che avevano combattuto per l'Impero austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, come misura antipartigiana; ma nessuno mise in dubbio il presupposto assiomatico che gli ebrei e gli zingari fossero nemici della Germania. Mentre molti degli uomini coinvolti descrissero le fucilazioni come “spaventose” e la reazione dei commilitoni come “turbamento”, solo uno di essi definì “innocenti” (unschuldig) le vittime ebree e zingare81. Non solo al tempo delle esecuzioni, ma anche ad anni di distanza, l'abitudine di mascherare l'uccisione di uomini adulti ebrei e zingari con motivazioni di ordine militare e di lotta al comunismo si dimostrò una strategia efficace nel plasmare le percezioni dei carnefici “comuni”. La fucilazione di donne e bambini82, soprattutto ebrei, per nessun altro motivo se non che erano ebrei, mise gli uomini “comuni” di fronte a una situazione completamente diversa. Qui possiamo chiamare in causa l'esempio della polizia d'ordine, che fornì gran parte della manovalanza per i massacri di ebrei perpetrati nelle retrovie. Ignorati per molti anni dalla letteratura accademica, la polizia d'ordine e in particolare il suo ruolo nell'Olocausto sono divenuti oggetto di studi approfonditi83. Il suo contributo all'eccidio si concretizzò essenzialmente in tre forme diverse: la sorveglianza ai convogli per il trasporto degli ebrei ai campi di sterminio, il servizio stanziale nei commissariati locali [Einzeldienst ] in cui spesso addestravano e supervisionavano le unità di polizia ausiliaria nazionali, e i battaglioni. Se oggi nell'ambito della comunità accademica il ruolo ricoperto dalla polizia d'ordine nella realizzazione della “Soluzione finale” è largamente riconosciuto, rimangono aperte due questioni: prima di tutto, in che misura questi poliziotti erano rappresentativi della società tedesca ovvero erano davvero tedeschi “comuni”? E in secondo luogo, cosa li motivava a uccidere? 0002000060 ‣ La polizia d'ordine . Prevedibilmente, con l'ascesa al potere del Partito nazista nel 1933, la polizia tedesca non dimostrò alcuna intenzione di volersi opporre alla creazione di uno stato di polizia. Sottoposte a una minima epurazione, liberate da tutti i vincoli procedurali e legali propri di uno stato democratico, investite di innumerevoli nuovi poteri e di maggiore autorità, centralizzate sotto il comando di Heinrich Himmler e gradualmente integrate nelle SS, le varie branche della polizia tedesca divennero, nell'insieme, un pilastro importante della dittatura nazista. Le élite della polizia politica e giudiziaria (rispettivamente Gestapo e Kripo) divennero ben presto dominio delle SS, e furono raggruppate con il nome di “polizia di sicurezza” sotto il comando diretto di Reinhard Heydrich. Le SS non ottennero invece il controllo centralizzato della polizia municipale e rurale (rispettivamente Schupo e Gendarmerie), dai ranghi molto più numerosi, prima del 1936, data in cui queste branche furono subordinate all'Ufficio centrale della polizia d'ordine di Kurt Daluege. Himmler considerava di primaria importanza la fusione di SS e polizia, da perseguirsi attraverso politiche di gestione del personale e programmi speciali di indottrinamento, allo scopo di militarizzare e convertire completamente al nazismo la polizia. Himmler e Daluege intendevano infondervi una cultura professionale di stampo militare, imbevuta di valori appartenenti a una categoria particolare: crudeltà inflessibile, credo assoluto nella superiorità della razza germanica, incondizionata accettazione del diritto germanico a sottomettere gli altri popoli e conseguente obbligo di imporsi come razza padrona, ripugnanza verso ebrei e bolscevichi da considerarsi al tempo stesso disprezzabili e pericolosi84. In questo modo, i poliziotti di carriera arruolatisi prima della guerra vennero integrati nella dittatura nazista sia dal punto di vista istituzionale sia da quello ideologico: pertanto, i suoi membri non possono essere considerati alla stregua di “uomini comuni” presi a caso dai ranghi della società tedesca. Con lo scoppio della guerra, la polizia d'ordine – che aveva ceduto parte delle sue forze alla polizia militare e all'esercito – fu autorizzata a reclutare 26.000 nuovi volontari delle classi 1918-20 e 1909-1912. I giovani che si presentarono superavano di gran lunga il numero prestabilito: erano in parecchi ad ambire a una carriera in polizia al riparo dalla coscrizione nell'esercito, e la polizia d'ordine poté permettersi una selezione piuttosto rigida (che prevedeva criteri quali l'affidabilità politica e l'idoneità a entrare nelle SS). Molti di questi giovani volontari selezionati – tra cui si contavano numerosi iscritti al Partito nazista – confluirono in 30 nuovi battaglioni di polizia (cui vennero assegnate le serie 251-56 e 301-25), e furono sottoposti a indottrinamento e addestramento intensivi, tra cui vari mesi di servizio in Polonia con la missione di imporre l'imperialismo razziale, prima dell'inizio della “Soluzione finale”85. Molti dei battaglioni della serie 300 si resero protagonisti di numerosi e famigerati massacri, ma, ancora una volta, non è lecito considerare i loro membri “uomini comuni”. Al contrario, la polizia d'ordine comprendeva anche elementi che potevano senza dubbio essere considerati a tutti gli effetti dei semplici “uomini comuni”, per la loro selezione relativamente casuale dai ranghi della società tedesca, per la mancanza di indottrinamento e addestramento intensivi, e per lo status non elitario all'interno del regime nazista. Si trattava di uomini di mezza età che, impiegati in lavori considerati non essenziali all'economia di guerra, ritenuti troppo anziani per la Wehrmacht e non risultati oppositori del regime in seguito a controlli sommari da parte della Gestapo e delle autorità comunali locali86, furono coscritti come poliziotti “riservisti”. Svariate migliaia di questi uomini di mezza età fornirono la manodopera essenziale all'occupazione tedesca dell'Europa orientale, prestando servizio nei battaglioni di polizia di riserva oppure nella polizia municipale o rurale, con il compito di supervisione degli organi di polizia ausiliaria nazionale. In entrambi i ruoli molti di essi si trasformarono in noti carnefici dell'Olocausto. È proprio questo fenomeno che mette in crisi la rassicurante convinzione secondo la quale solo individui psicologicamente anormali, prodotto di una cultura distorta e patologica, professionisti selezionati con cura e indottrinati in maniera intensiva, o fanatici dell'ideologia nazista, hanno potuto compiere crimini tanto efferati. Alcuni battaglioni di polizia di riserva si distinsero per l'elevato numero di massacri a cui presero parte. Il battaglione 45 di Vienna, ad esempio, dopo l'inarrestabile avanzata in Ucraina dell'estate del 1941, fu una delle prime squadre della morte tedesche (già dal tardo luglio, a ëepetovka) a segnare il passaggio dalle esecuzioni di massa selettive di ebrei maschi adulti all'uccisione indiscriminata di donne e bambini ebrei. Lasciandosi dietro una scia di morte e distruzione in tutta l'Ucraina, il battaglione 45 fucilò centinaia di ebrei in agosto, poi migliaia nella prima metà di settembre a Vinnica e Berdiccev. Il 29 e 30 settembre esso si unì al famigerato Sonderkommando 4a di Paul Blobel e ad altre unità nel grande massacro di Babi Yar alle porte di Kiev, che costò la vita a 33.000 ebrei. Alla fine dell'anno, il battaglione 45 contava al suo attivo altri eccidi di ebrei ucraini, eseguiti a Horol, Kremenccug e Poltava87. Il battaglione di polizia di riserva 133, composto principalmente da reclute di Würzburg, fu dislocato nella Galizia orientale nel tardo luglio 1941, dopo che le Einsatzgruppen avevano già portato a termine una prima ondata di esecuzioni prima di spostarsi a est. Qui i riservisti di mezza età del 133 divennero importanti risorse umane per l'ondata apparentemente senza fine di esecuzioni e deportazioni al vicino campo di Bełżec, che portò allo sterminio pressoché totale della comunità ebraica più consistente del Governatorato centrale88. Il battaglione 133 costituisce un'anomalia non solo per l'entità della sua partecipazione alla “Soluzione finale”, ma anche perché alcuni dei documenti che più contribuiscono alla sua incriminazione sono sopravvissuti alla guerra89. Una serie di documenti riporta il succedersi di esecuzioni, rastrellamenti e cacce all'ebreo da parte dei riservisti della polizia di stanza a Rawa Ruska. In soli cinque mesi, questa mezza compagnia di circa 60 uomini contribuì ai trasferimenti dai ghetti di Kaminoka-Strumilova e Rawa Ruska a Bełżec, e fucilò da sola 1337 ebrei. L'altra serie di documenti in nostro possesso riguarda il ruolo degli uomini del 133 nelle deportazioni di 4769 e 8205 ebrei da Kolomyja a Bełżec, avvenute rispettivamente l'8 e il 10 settembre. Mentre il primo trasferimento, in cui si contavano circa 100 ebrei per ogni carrozza ferroviaria, procedette in maniera relativamente tranquilla, il secondo, con 180-200 ebrei per carrozza, si rivelò catastrofico. Molti dei deportati erano stati costretti a lunghe marce forzate fino ai punti di raccolta, dove erano stati tenuti per giorni e giorni senza cibo né acqua. Il caldo era terribile. Per evitare disperati tentativi di fuga nei tratti in cui il convoglio procedeva più lentamente, i pochi soldati di guardia (solo dieci) svuotarono per intero i caricatori in dotazione più quelli supplementari, per un totale di 200 cartucce a testa. A causa dell'aria soffocante all'interno dei vagoni, del caldo tremendo e dei colpi sparati dalle guardie, all'arrivo a Bełżec già 2000 ebrei furono trovati morti nelle carrozze sovraffollate. Uno dei rapporti menziona, solo en passant, che prima delle due deportazioni furono fucilati rispettivamente 300 e 400 ebrei “per le ben note ragioni”90. Il battaglione 101, formato da riservisti di Amburgo, era di stanza nel distretto di Lublino91. Dopo l'iniziazione nel villaggio di Józefów, dove nel luglio del 1942 si consumò il massacro di 1500 ebrei, il 101 prese parte a una lunga serie di esecuzioni di massa, rastrellamenti nei ghetti, deportazioni e “cacce all'ebreo”. Contribuì all'annientamento degli ebrei del distretto di Lublino partecipando al terribile eccidio dell'Erntefest (letteralmente, “festa del raccolto”) del 2 e 3 novembre 1943, nel corso del quale furono liquidati praticamente tutti gli ultimi campi di lavoro coatto e 30.000 ebrei dei campi di Majdanek e Poniatowa, dove il battaglione fu dispiegato al completo. In definitiva, il 101 partecipò alla fucilazione di oltre 38.000 ebrei e ne deportò più di 45.000 alle camere a gas di Treblinka. Oltre a prestare servizio in venti battaglioni mobili di polizia, i riservisti di mezza età costituivano il grosso della Schupo e della Gendarmerie, che costituivano l'organico di un'ampia ma esile rete di posti di polizia dislocati nelle retrovie, nei distretti urbani e rurali di tutti i territori orientali occupati92. Uno dei compiti di questi poliziotti in servizio stanziale era quello di addestrare e controllare i poliziotti ausiliari locali a loro subordinati, di numero nettamente superiore. Tra gli altri loro compiti rientrava la liquidazione delle comunità ebraiche locali, in primo luogo fornendo in loco le competenze necessarie alla distruzione dei ghetti del circondario, poi inseguendo senza sosta i sopravvissuti che tentavano di nascondersi o fuggire, e infine uccidendo gli artigiani e gli operai specializzati a cui era stata concessa una sospensione temporanea dell'esecuzione per motivi di convenienza economica. Queste esecuzioni – le cui vittime spesso conoscevano i propri carnefici da tempo – non si svolgevano in maniera anonima o impersonale, ma faccia a faccia. Uccisioni di questo tipo costituirono una componente di grande importanza nell'enorme “seconda ondata” di eccidi del 1942 in Ucraina, Bielorussia e Bialystok, nonché nelle operazioni di rastrellamento del 1943. Ebbero non poco rilievo anche nel distretto di Lublino, nel Governatorato centrale. Nel 1942, il comandante di distretto della Gendarmerie riportò in un suo rapporto che i suoi 387 poliziotti tedeschi e i 1371 poliziotti ucraini e polacchi sotto la loro supervisione avevano eseguito, oltre a 3201 fucilazioni di “banditi” decretate dalla corte marziale, 11.119 “fucilazioni di altra natura”, che nel contesto di altri documenti più espliciti della Gendarmerie significava chiaramente “fucilazioni di ebrei”93. È forte la tentazione di spiegare il comportamento omicida delle SS e dei poliziotti di carriera (a tutti gli effetti incorporati nelle SS) in termini di condizionamenti ideologici, che si manifestavano da una parte attraverso la selezione e l'autoselezione degli uomini, e dall'altra attraverso un indottrinamento e un addestramento mirati. Tutti questi elementi sono sicuramente presenti nella formazione dei corpi ufficiali delle SS e della polizia, dei sottoufficiali della polizia di riserva e anche delle truppe dei battaglioni contrassegnati dal numero 300. Ma tali fattori non sono condizioni necessarie e sufficienti a trasformare un individuo in un carnefice dell'Olocausto, se è vero che essi sono in gran parte assenti nel caso degli “uomini comuni” della polizia di riserva, i quali, in varie occasioni, non si dimostrarono meno efferati delle SS e dei poliziotti di carriera. Come tentare di spiegare, allora, la ferocia di questi “uomini comuni” trasformatisi in assassini? Un approccio è quello proposto da Daniel Goldhagen, secondo il quale da secoli la cultura tedesca aveva raggiunto una saturazione tale di “antisemitismo eliminazionista” che praticamente ogni tedesco riteneva giusto uccidere gli ebrei e, una volta “scatenato” dal regime nazista e messo nelle condizioni di poterlo fare realmente, vi si lasciava andare con “piacere”. Questa teoria non mi sembra molto convincente, per la sua rilettura errata e distorta della storia tedesca, per la banalizzazione dell'impatto del regime nazista e per l'impiego di una metodologia fuorviante nell'analisi dell'esempio del battaglione 101 (infatti, escludendo dall'indagine tutte le prove contrarie alla sua tesi, questo metodo non può che confermare l'ipotesi che dovrebbe verificare)94. La lettura che vorrei proporre tiene invece conto dei fattori comportamentali, contingenti e istituzionali/organizzativi, senza per questo trascurare il quadro ideologico e storico. Nel 1941, la società in cui vivevano gli “uomini comuni” coscritti nella Wehrmacht e i poliziotti riservisti tedeschi era invero satura di antisemitismo e metteva a tacere qualunque voce di dissenso già da otto anni. Era una società in cui i successi sbandierati dal regime avevano conquistato consensi sempre maggiori, nonostante la maggioranza non avesse votato per il Partito nazista nel 1933. Al tempo stesso la polarizzazione dovuta alla guerra e le spettacolari vittorie iniziali della Germania rafforzavano il legame tra il popolo tedesco e il suo governo. Gli “uomini comuni”, coscritti in organismi come la Wehrmacht e la polizia, entrarono in contatto con la cultura professionale dei corpi ufficiali e dei militari e poliziotti di carriera, che presentava molti punti di contatto con la dottrina ideologica del nazionalsocialismo (quali la tenacia, il diritto alla conquista, l'inferiorità dei popoli sottomessi di fronte ai quali bisognava tenere alta l'immagine della razza padrona, la denigrazione degli ebrei e la loro identificazione con l'odiato comunismo). Il cameratismo e il conformismo nei confronti delle regole vigenti nel gruppo e nell'istituzione di appartenenza si acuivano particolarmente quando gli uomini si trovavano dislocati nei territori occupati e circondati da popolazioni ostili; queste circostanze scoraggiavano ulteriormente il pensiero indipendente, il dissenso critico e le decisioni autonome, che avrebbero comportato la prospettiva di dover affrontare l'isolamento e l'ostracismo dei propri compagni. Alcuni dei riservisti del battaglione 101, che tentarono di giustificare le proprie azioni dopo la guerra, ammisero di aver ceduto alla pressione dei commilitoni e al desiderio di ottenerne la stima. Avevano compiuto quelle azioni non per paura dell'accusa ideologica di essere troppo teneri con gli ebrei, ma dell'accusa cameratesca di essere troppo teneri in assoluto. Ciò traspare dalla domanda retorica di uno dei testimoni: chi avrebbe mai “avuto il coraggio” di “perdere la faccia” davanti a tutte le truppe? Un altro testimone ammise semplicemente che “a nessuno piace essere considerato un vigliacco”95. Affinché l'esecuzione delle fucilazioni di massa e del genocidio avvenisse in maniera efficiente, non era necessario che tutti gli “uomini comuni” delle squadre della morte si trasformassero in zelanti carnefici. Ho sostenuto che il battaglione 101 si divideva in tre gruppi: un'importante minoranza di zelanti assassini, che avevano creduto fin dall'inizio in ciò che facevano o avevano imparato ad apprezzarlo con il passare del tempo, e cercavano ogni occasione per uccidere, presentandosi volontari per i plotoni d'esecuzione e per le “cacce all'ebreo”; un nutrito gruppo di uomini che non si proponevano volontari per queste operazioni né cercavano attivamente l'opportunità di uccidere, ma eseguivano gli ordini impartiti, tra cui quello di prendere parte ai plotoni d'esecuzione; infine, un piccolo gruppo di persone che cercavano di sottrarsi ai compiti che implicavano l'obbligo di uccidere in prima persona, anche se svolgevano mansioni di supporto come il cordone e la sorveglianza durante i rastrellamenti e le esecuzioni. Solitamente gli appartenenti a questa minoranza evitavano comunque assolutamente di criticare i commilitoni o il regime, imputando il proprio comportamento a “debolezza” e confermando così subdolamente la regola vigente nell'unità, secondo cui la “durezza” e la “virilità” si misuravano con la capacità di sparare a donne e bambini. Un'analoga tripartizione96 si riscontrava nel posto di polizia di Mir in Bielorussia, secondo la deposizione dell'interprete, Oswald Rufeisen, ebreo egli stesso, che si spacciava per metà polacco e metà oriundo tedesco [Volksdeutsch ]97. Qui, l'unità della Gendarmerie che prestava servizio stanziale era composta da due ufficiali di carriera – il sergente Hein e il caporale Schultz – e 11 riservisti. Schultz e altri tre costituivano un piccolo nucleo di assassini di ebrei, sadici e zelanti. Altri quattro, tra cui il sergente Hein, non presero mai parte alle esecuzioni. Gli altri cinque riservisti erano “esecutori passivi degli ordini”, che uccidevano senza odio né convinzione ideologica. Parlando del loro atteggiamento, Rufeisen scrisse: “Penso che ritenessero sporca tutta la questione delle azioni antiebraiche, la questione degli stermini”98. Ciononostante, parteciparono a queste azioni invece di sottrarvisi. Era sufficiente che un nucleo di assassini zelanti fosse pronto a prendere l'iniziativa perché una moltitudine di “uomini comuni” si adeguasse e lo seguisse. Nella loro analisi dei “crimini dell'obbedienza”, Kelman e Hamilton modulano in maniera un po' più complessa il conformismo degli esecutori nei confronti degli ordini criminali, individuando altre categorie: i veri credenti, spinti a conformarsi allo spirito e all'obiettivo degli ordini dall'identificazione ideologica; coloro che si adattano al ruolo e si conformano in quanto credono che questo sia il comportamento più consono a un buon soldato o poliziotto (malgrado gli ordini contrastino con i loro valori personali) e pertanto non si limitano a obbedire, ma prendono l'iniziativa di applicare le direttive anche quando non sono sorvegliati; infine coloro che si conformano solo formalmente, obbedendo agli ordini con riluttanza e solo sotto sorveglianza per evitare il confronto con i superiori, ma in nessun'altra circostanza99. Qualunque sia la suddivisione adottata per distinguere i vari tipi di esecutori, il contesto della violenza e la dinamica delle esecuzioni pongono un altro problema: il prevedibile spostamento verso l'estremità della scala caratterizzata dagli zelanti, provocato da diverse ragioni. In primo luogo, anche se inorriditi o traumatizzati dai primi massacri, col passare del tempo molti degli esecutori risultarono profondamente cambiati dagli eventi, si abbrutirono, diventando insensibili e indifferenti agli eccidi. In secondo luogo, nel caso di molti dei soggetti che sarebbero rientrati nella seconda e terza categoria di Kelman e Hamilton, la dissonanza cognitiva tra i valori personali e le azioni si risolveva in un graduale mutamento dei valori. Trasformati dalle loro azioni, questi individui finirono per convincersi davvero della giustezza delle loro azioni100. Si percepisce un notevole cambiamento e abbrutimento progressivo leggendo, per esempio, le lettere di un riservista di mezza età di Brema arruolato nel battaglione di polizia di riserva 105, che nell'estate e autunno del 1941 avanzava verso i paesi baltici101. Prima dell'invasione, il soldato usa toni sarcastici per descrivere quelle che suppone non siano altro che affettazioni e pose da parte dei suoi superiori, quando questi cercano di preparare i loro uomini all'imminente guerra di distruzione. Presto si rende però conto di quanto questa guerra sia diversa dal suo precedente servizio in Norvegia. A inizio luglio informa la moglie che dappertutto gli ebrei non ricevono cibo, sono “prede facili” e “senza futuro”. Lui non riesce però a essere “tanto duro” e dà loro del pane. Trascorso esattamente un mese, dopo aver chiesto se il cibo che aveva razziato e mandato a casa era buono, informa la moglie che “Qui tutti gli ebrei vengono fucilati. [...] Uomini, donne, bambini, tutti uccisi. Gli ebrei vengono completamente sterminati”. Consiglia alla moglie di non pensarci – “è così che deve andare” – e di “non dire niente in proposito” al figlio maggiore, almeno per il momento. Il tono del riservista è già diventato quello “passivo e anonimo” (che non identifica l'esecutore) tipico di molte delle testimonianze rese dopo la guerra, e la sua reazione al genocidio è di lucida indifferenza, rassegnazione e accettazione della sua inevitabilità, con un accenno di vergogna. Ma non passa molto tempo prima che il tono cambi ancora. I partigiani russi sono descritti in termini disumanizzanti, come “bestie” e “cani”. Afferma di rimpiangere di essersi perso l'esecuzione di un partigiano, che “mi hanno detto che sia stata divertente”. Gli uomini sono infuriati per le perdite subite e “la cosa che più desiderano è fucilare tutti i russi”. Alla vista di un campo per prigionieri di guerra, pieno di internati ridotti alla fame, si limita ad affermare che “chiaramente” meritano il proprio destino. Alla fine si dichiara “orgoglioso” delle sue esperienze e felice che ciò che ha filmato, tra cui almeno un'esecuzione, sarà “di grande interesse per i nostri figli”. Nel corso di varie rappresaglie contro le insurrezioni partigiane in Serbia, i soldati della Wehrmacht fucilarono migliaia di serbi, tra cui gli studenti del liceo di Kragujevac, prima di ricevere l'ordine di uccidere anche ebrei e zingari. Il commesso di Brema del battaglione 105, prima amichevole con gli ebrei e poi fatalista riguardo al loro sterminio, trasudava autentico odio nei confronti dei russi che pretendevano di continuare la resistenza contro l'occupazione tedesca. È evidente che anche i soldati “comuni” della Wehrmacht e i “comuni” riservisti di polizia erano perfettamente in grado di uccidere un gran numero di vittime non ebree, e in questo caso la loro inclinazione allo sterminio non è giustificabile con l'antisemitismo. In ultima istanza, tuttavia, gli ebrei erano il gruppo più a rischio, non solo a causa di una politica di regime esplicitamente improntata al genocidio totale, ma anche perché, agli occhi dei “semplici esecutori”, gli ebrei – inclusi le donne e i bambini – erano facilmente assimilabili all'“immagine del nemico” nel contesto del conflitto che stavano combattendo. Klaus-Michael Mallman ha definito questo processo come la “radicalizzazione situazionale dell'immagine del nemico”102. In Europa orientale, la guerra scatenata dai nazisti era di matrice al tempo stesso ideologica e razziale. Nonostante ciascuno dei tedeschi “comuni” dislocati a est durante il conflitto abbia portato con sé un diverso tipo e grado di antisemitismo, gli stereotipi dell'ebreo partigiano, bolscevico o nemico della Germania divennero tanto generalmente accettati e acquisirono un'intensità tale da legittimare e stimolare una partecipazione ampia, se non dilagante, allo sterminio degli ebrei. Il bagaglio culturale che i tedeschi “comuni” portavano con sé, formato sia da attitudini generali sia da norme specifiche o proprie della cultura professionale delle organizzazioni di cui facevano parte, influiva sul loro modo di rappresentare nella propria mente ed elaborare le situazioni in cui si trovavano e le azioni che svolgevano. A loro volta, situazioni e atteggiamenti estremizzavano le loro percezioni, legittimando l'ideologia del massacro e giustificando le esecuzioni di massa perpetrate da questi “uomini comuni”. Note al saggio 1 - Per una trattazione più approfondita sulla RSHA si veda Ulrich Herbert, Best. Biographische Studien über Radikalismus, Weltanschauung und Vernunft, Dietz, Bonn 1996; Michael Wildt, Generation des Unbedingten. Das Führerkorps des Reichssicherheitshauptamtes, Hamburger Edition, Hamburg 2002. Per ulteriori dettagli sulla WVHA [Wirtschaft und Verwaltungshauptamt, Ufficio centrale economico e amministrativo], si veda: Michael Thad Allen, The Business of Genocide: The SS, Slave Labor, and the Concentration Camps, University of North Carolina Press, Chapel Hill NC 2002; e Jan Schulte, Zwangsarbeit und Vernichtung: Das Wirtschaftsimperium der SS. Oswald Pohl und das SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt 1933-1945, Schöning, Paderborn 2001. Per una trattazione più approfondita del Rasse und Siedlungshauptamt (RuSHA), si veda Isabel Heinemann, ``Rasse, Siedlung, deutsches Blut''. Das Rasse- und Siedlungshauptamt der SS und die rassenpolitische Neuordnung Europas, Wallstein, Göttingen 2003. Per ulteriori approfondimenti su Eichmann e i suoi collaboratori, si veda Hans Safrian, Die Eichmann Männer, Europaverlag, Wien 1993; Yaacov Lozowick, Hitler's Bureaucrats: The Nazi Security Police and the Banality of Evil, Continuum, New York 2002 [trad. it. I burocrati di Hitler: Eichmann, i suoi volenterosi carnefici e la banalità del male, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2004]; e Irmtrud Wojak, Eichmanns Memoiren: Ein Kritischer Essay, Campus, Frankfurt am Main 2002. Per una trattazione più approfondita sulla Gestapo, si veda Eric Johnson, Nazi Terror. The Gestapo, Jews, and Ordinary Germans, Basic Books, New York 1999 [trad. it. Il terrore nazista. La Gestapo, gli ebrei e i tedeschi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001]; Die Gestapo im Zweiten Weltkrieg ``Heimfront'' und besetztes Europa, a c. di Gerhard Paul e Klaus-Michael Mallmann, Primus, Darmstadt 2000; Holger Berschel, Bürokratie und Terror. Das Judenreferat der Gestapo Düsseldorf 1935-1945, Klartext, Essen 2001.2 - Per una trattazione più approfondita degli studi più recenti sulla psicologia sociale e l'Olocausto, si veda Understanding Genocide: The Social Psychology of the Holocaust, a c. di Leonard S. Newman e Ralph Eber, Oxford University Press, New York 2002; James Waller, Becoming Evil. How Ordinary People Commit Genocide and Mass Killing, Oxford University Press, New York 2002; Harald Welzer, Wer waren die Täter? Anmerkungen zur Täterforschung aus sozialpsychologischer Sicht, in Die Täter der Shoah. Fanatische Nationalsozialisten oder ganz normale Deutsche?, a c. di Gerhard Paul, Wallstein, Göttingen 2002, pp. 237-53.3 - Daniel Goldhagen, Hitler's Willing Executioners. Ordinary Germans and the Holocaust, Knopf, New York 1996 [trad. it. I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'Olocausto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997].4 - Probing the Depths of German Antisemitism. German Society and the Persecution of the Jews, 1933-1941, a c. di David Bankier, Berghahn Books, Oxford-New York 2000.5 - Martin Needler, Hitler's Anti-Semitism. A Political Appraisal, in “Public Opinion Quarterly” 24, Oxford University Press, inverno 1960, p. 668. Needler fa questa osservazione riferendosi a Hitler, ma essa può essere estesa anche agli altri fedelissimi del partito.6 - William Sheridan Allen, The Nazi Seizure of Power: the Experience of a Single German Town, 1922-1945, F. Watts, New York, 1984, p. 84 [trad. it. Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Einaudi, Torino 1968].7 - Per maggiori approfondimenti sull'importanza di questo fattore, in precedenza sottovalutato, si veda Robert Gellately, Backing Hitler. Consent and Coercion in Nazi Germany, Oxford University Press, New York, 2001 [trad. it. Il popolo di Hitler, Longanesi, Milano 2002].8 - Ian Kershaw, The Persecution of the Jews and German Public Opinion in the Third Reich, in “Leo Baeck Institute Yearbook” 26, Jerusalem 1981, pp. 261-89; Dov Kulka, Public Opinion in Nazi Germany and the Jewish Question, in “Jerusalem Quarterly” 25, Jerusalem (autunno 1982), pp. 121-44, e 26 (inverno 1982), pp. 34-45; David Bankier, The Germans and The Final Solution. Public Opinion Under Nazism, Oxford University Press, New York 1992.9 - Citazione da Saul Friedländer, The Years of Persecution, vol. 1 di Nazi Germany and the Jews, HarperCollins, New York 1996 [trad. it. Gli anni della persecuzione, vol. 1 di La Germania nazista e gli ebrei, Garzanti, Milano 1998], p. 287.10 - Sono debitore per questo termine a Henry Friedla«nder, The Origins of Nazi Genocide. From Euthanasia to the Final Solution, University of North Carolina Press, Chapel Hill NC 1995 [trad. it. Le origini del genocidio nazista. Dall'eutanasia alla soluzione finale, Editori Riuniti, Roma 1997].11 Archivio politico del ministero degli Esteri tedesco. Referat Deutschland 42/4. Da Bülow a BülowSchwante, 23 marzo 1933.12 - Per maggiori approfondimenti sui comportamenti e la mentalità dei diplomatici tedeschi negli anni Trenta in questo contesto, si veda Eliahu Ben Elissar, La Diplomatie du IIIe Reich et les Juifs 1933-1939, Julliard, Paris 1969; Christopher R. Browning, Referat Deutschland, Jewish Policy and the German Foreign Office 1933-40, in “Yad Vashem Studies”, XII, Jerusalem 1978, pp. 25-54; Hans-Jürgen Döscher, Das Auswärtige Amt im Dritten Reich. Diplomatie im Schatten der ``Endlösung'', Siedler, Berlin 1987.13 - Per un'analisi più approfondita di questi uomini e delle loro politiche, si veda Christopher R. Browning, The Final Solution and the German Foreign Office. A Study of Referat D III of Abteilung Deutschland 1940-43, Holmes & Meier, New York 1978.14 - Politisches Archiv des Auswärtigen Amts (d'ora in poi PAAA). Inland II A/B 55/2. Da Wurm a Rademacher, 5 giugno 1940.15 - Landgericht Nürnberg-Fürth. 2 Ks 3/53, Beiakten, III, Part 1. Da Rademacher a Personnel Division, 1 agosto 1940, e interrogatorio 14 ottobre 1947.16 - PAAA. Inland II A/B 37/1. Da Müller a Rödiger, 5 febbraio 1942.17 Landgericht Nürnberg-Fürth. 2 Ks 3/53, Hauptakten, II, p. 241, e VIII, p. 1185. Deposizione di Schröder, gennaio 1949, e da Klingenfuss a Prof. Gülich, 17 maggio 1958.18 - PAAA. Inland II A/B 42/3. Da Hahn a Bohle, 4 marzo 1943.19 - PAAA. Inland II A/B 59/4. Da Rademacher a Wurm, 27 marzo 1943.20 - PAAA. Inland IIg 177. Memorandum di Rademacher “Wünschen und Ideen”.21 - Per una panoramica della politica di ghettizzazione nazista in Polonia, si veda Christopher R. Browning, The Origins of the Final Solution. The Evolution of Nazi Jewish Policy, September 1939-March 1942, University of Nebraska Press, Lincoln 2004, pp. 111-168.22 - Yad Vashem Archives, Jerusalem. JM 799/139. Palfinger Aktennotiz, 16 luglio 1940.23 - Yad Vashem Archives, Jerusalem. JM 798. Rapporto del settembre 1940.24 - Yad Vashem Archives, Jerusalem. O-53/78/76-82. Rapporto di Palfinger, 7 novembre 1940.25 - Hans Frank, Das Diensttagesbuch des deutschen Generalgouverneurs in Polen 1939-1945, a c. di Werner Präg e Wolfgang Jacobmeyer, DVA, Stuttgart 1975, pp. 343-46.26 - Archiwum Pa·stwowe, Warszawa. Der Kommissar für den jüdischen Wohnbezirk in Warschau, n. 125. Palfinger Aktennotiz, 7 aprile 1941.27 - The Warsaw Diary of Adam Czerniakow, a c. di Raul Hilberg et al., Stein and Day, New York 1979, p. 234.28 The Journal of Emmanuel Ringelblum, a c. di Jacob Sloan, Schocken Books, New York 1958, p. 158.29 - The Warsaw Diary of Adam Czerniakow cit., pp. 301, 330.30 - Einsatz im ``Reichskommissariat Ostland''. Dokumente zum Völkermord im Baltikum und in Weissruthenien 1941-1944, a c. di Wolfgang Benz et al., Metropol, Berlin 1998, pp. 42-46. Appunti di Stahlecker, 6 agosto 1941, in risposta alle “direttive provvisorie per il trattamento degli ebrei” del Reichskommissar Ostland, Hans Lohse.31 - Zhytomyr Archive. 1151-1-22. RK Ucraina a tutti i Gebietskommissaren di Volinia e Podolia, 5 settembre 1941.32 - Per un'analisi generale del destino degli ebrei di Brest, si veda Yehuda Bauer, Rethinking the Holocaust, Yale University Press, New Haven CT 2001, pp. 49-63, e Christopher R. Browning, Nazi Policy, Jewish Workers, German Killers, Cambridge University Press, New York 2000, pp. 116-42 [trad. it. Procedure finali: politica nazista, lavoratori ebrei, assassini tedeschi, Einaudi, Torino 2001].33 - Bundesarchiv Berlin. R 94/6. Dallo Stadtkommissar di Brest al Generalkommissar, 21 novembre 1941, firmato da Burat.34 - Bundesarchiv Berlin. R 94/7. Gebietskommisar, Abt. I, Monatsbericht, 24 gennaio 1942; Gebietskommissar Brest-Litowsk, Monatsbericht, 24 marzo 1942. R 94/6. Der SS und Polizeistandortführer Brest, Lagebericht, 15 marzo 1942, firmato da Rohde; Der Stadtkommissar Brest-Litowsk, Abt. I, al GK, 25 marzo 1942.35 - Bundesarchiv Berlin. R 94/6. Der SS und Polizeistandortfürher Brest, Lagebericht, 15 maggio 1942; Der Stadtkommissar Brest-Litowsk, Abt. II, Lagebericht, 20 maggio 1942; Der Stadkommissar Brest-Litowsk, Lagebericht, 12 luglio 1942.36 - The Warsaw Diary of Adam Czerniakow cit., p. 402 (documento allegato: da Auerwald a Medeazza, 24 novembre 1941).37 - Per una trattazione più approfondita di Palfinger a Ternopol, si veda Dieter Pohl, Nationalsozialistische Judenverfolgung in Ostgalizien 1941-1944. Organisation und Durchfürhung eines staatlichen Massenverbrechens, Oldenbourg, Mu«nchen 1996, pp. 156-57; Thomas Sandkühler, ``Endlösung'' in Galizien. Der Judenmord in Ostpolen und die Rettungsinitiativen von Berthold Beitz, 1941-1944, Dietz, Bonn 1996, pp. 147-48.38 - Yad Vashem Archives, Jerusalem. O-53/49/132. Rapporto di Auerswald sulle sue attività a Varsavia, senza data, ma successivo al gennaio 1943.39 - National Archives, Lódź microfilm. T 175/54/2568671-94 e 2568668-70. Da Venzki a Uebelhoer, 24 settembre 1941, e da Uebelhoer a Himmler, 4 ottobre 1941.40 - Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen Ludwigsburg. 203 AR-Z 69/59, vol. 1, 1, pp. 114-21. Testimonianza di Meyer. Landgericht Hanover, 2 Ks 1/63 (Bradfisch-Fuchs Judgment), p. 20.41 - Yad Vashem Archives, Jerusalem. O-53/50/245-56 e 250-51. Testimonianze di Jozef Azof Kozminski e Abraham Mandel.42 - Dokumenty I Materialy Do Dziejow Okupacji Niemieckiej W Polsce, in vol. 3, Getto Lodzkie, Varsavia 1946, pp. 267-68.43 - Bundesarchiv. R 6/243, Der Stadtkommissar Brest-Litowsk, Abt. I, 4 settembre 1942. Glowna komisja Badnia Zbrodni Przeciwko Narodowi Polskiemu. SS I policji, Sygnature 77. Pütz to Aussenstellen der Sipo-SD, 31 agosto 1942.44 - Bundesarchiv. R 94/6. Der SS und Polizeistandortführer Brest, Lagebericht, 15 settembre 1942.45 - Bundesarchiv. R 94/7. Der Gebietskommissar in Brest-Litowsk, Abt. IIa, Lagebericht, 9 ottobre 1942. A questa data Burat aveva assunto il ruolo sia di Gebietskommissar sia di Stadtkommissar per carenza di personale amministrativo, mentre Rolle era stato riassegnato.46 Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen Ludwigsburg. 204 AR-Z 334/59, pp. 1326-27, 1336. Testimonianza di Berta B. Bauer, Rethinking the Holocaust cit., p. 159, in cui si sottintende che il prezzo da pagare per queste corruzioni sistematiche comprendeva anche prestazioni sessuali.47 Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen Ludwigsburg. 204 AR-Z 334/59, pp. 962, 980 e 1005. La testimonianza del Dott. Oswald C. e del Dott. Walter G. Rohde non fu portata in giudizio.48 Bundesarchiv Berlin. R 94/8. Der Gebietskommissar in Brest-Litowsk al GK für Wolhynien und Podolien (personale!), 24 giugno 1943, e Der Gebietskommissar in Brest-Litowsk, Lagebericht, 21 marzo 1944.49 - Per la sempre più nutrita letteratura riguardante le Einsatzgruppen, si veda Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm, Die Truppe des Weltanschauungskrieges: Die Einsatzgruppen der Sicherheitspolizei und des SS 1938-1942, DVA, Stuttgart 1981; Hans-Heinrich Wilhelm, Die Einsatzgruppe A der Sicherheitspolizei und des SD [Sicherheitsdienst ] 1941/42, Peter Lang, Frankfurt am Main 1996; Roland Headland, Messages of Murder: A Study of the Reports of the Einsatzgruppen of the Security Police and the Security Service, 1941-194, Farleigh Dickinson University Press, Rutherford NJ 1992; Die Einsatzgruppen in der besetzten Sowjetunion 1941/42: Die Tätigkeits- und Lageberichte des Chefs der Sicherheitspolizei und des SD, a c. di Peter Klein, Edition Hentrich, Berlin 1997; The Einsatzgruppen Reports, a c. di Yitzhak Arad et al., Holocaust Library, New York 1989; Ralf Ogorreck, Die Einsatzgruppen und die ``Genesis der Endlösung'', Metropol, Berlin 1996; Andrej Angrick, Besatzgungspoltik und Massenmord: Die Einsatzgruppe D in der südlichen Sowjetunion 1941-1943, Hamburger Edition, Hamburg 2003.50 - Tra gli studi già pubblicati su questo argomento, si veda: Christopher R. Browning, Wehrmacht Reprisal Policy and the Mass Murder of the Jews in Serbia, in “Militärgeschichliche Mitteilungen”, Braun, Karlsruhe 1/83, pp. 31-47, e Harald Turner und die Militärverwaltung in Serbien in Verwaltung contra Menschenführung im Staat Hitlers, a c. di Dieter Rebentisch e Karl Teppe, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1986, pp. 351-73; Walter Manoschek, ``Serbien ist Judenfrei'': Militärbesatzung und Judenvernichtung in Serbien 1941/42, Oldenbourg, München 1993.51 Bundesarchiv-Militärarchiv (d'ora in poi BA-MA) Freiburg, 14 729/4. Allegato 31, Ordine e messaggio alle truppe di Böhme, 25 settembre 1941.52 - BA-MA Freiburg. 17 729.9. Ordine di Böhme, 25 ottobre 1941. Documento Nürnberg. NOKW-802. Tuner a Feld- e Kreiskommandanturen, 22 ottobre 1941.53 - Le testimonianze più dettagliate su questo punto si trovano in Manoschek, ``Serbien ist Judenfrei'' cit., pp. 86-91 e 96-102.54 - BA-MA. RH 2418/169. Liepe. Bericht über die Erschiessung von Juden am 9. und 11.10.41 [Rapporto sulla fucilazione di ebrei il 9 e 11.10.41].55 - Landgericht Kassel. 3 Js 11/66. Ermittlungsverfahren gegen Walter Liepe [Inchiesta preliminare contro Walter Liepe], Hauptakten II, pp. 1-5 (interrogatorio di Walter Liepe, 26 ottobre 1965).56 - Liepe Ermittlungsverfahren, Hauptakten, I, 21-25 (Wilhelm Dvorak), 63-67 (Hans Steigenberger), 86-89 (Alfred Armann). Un soldato tedesco affermò anche di essere stato assegnato al plotone d'esecuzione visto che i volontari non erano sufficienti. Liepe Ermittlungsverfahren, Hauptakten I, 123-27 (Josef Jücker).57 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 13536 (Franz Nolde), 138-39 (Wilhelm Elbracht), 140-41 (Wilhelm Hülskopf), 156-58 (Hans Albert).58 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 43-44 (Anton Schönherr), 86-89 (Alfred Armann), 15152 (Waldemar Dzulko), 91-92 (Karl Zenta), e 168-82 (Otto Wägemann).59 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 63-67 (Hans Steigenberger).60 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 63-67 (Hans Steigenberger).61 - Liepe Ermittlungsverfarhen, I, 151-52 (Waldemar Dzulko), 138-39 (Wilhelm Elbracht).62 - Liepe Ermittlungsverfarhen, I, 178-82 (Otto Wägemann), 159-60 (Wilhelm Dresing).63 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 164 (Herbert Pohlmann, che identificò lo zelante soldato in questione come un favorito di Liepe).64 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 178-82 (Otto Wägemann).65 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 123-27 (Josef Jücker), 142-45 (Emil Nottebrock).66 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 101-2 (Franz Habel).67 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 142-45 (Emil Nottebrock).68 - Liepe Ermittlungsverfahren, I, 149 (Ernst Stahlberg).69 - Liepe Ermittllungsverfahren, I, 178-82 (Otto Wägemann).70 - Landgericht Konstanz. 2 Js 823/62. Ermittlungsverfahren gegen Hans-Dietrich Walther, I, 215-47, 249-59, 27273; e VIII, 2613-29 (interrogatori di Hans-Dietrich Walther).71 - Ermittlungsverfahren gegen Walther, I, 125-28 (Josef Bruder), VIII, 2649-56 (Robert Harbiso), VIII, 2904-9 (Karl Grabner).72 Ermittlungsverfahren gegen Walther, I, 129-31, and IV, 1395-96 (Franz Burda).73 Ermittlungsverfahren gegen Walther, II, 625-31 (Konstantin Murowski), III, 977-79 (Jakob Esch), VIII, 2377-85 (Ulrilch Schoffer), VIII, 2659-63 (Leo Maresch).74 - Manoschek, ``Serbien ist Judenfrei'' cit., p. 83.75 - Ermittlungsverfahren gegen Walther, I, 125-28 (Josef Bruder), VIII, 2649-56 (Robert Habison).76 - Ermittlungsverfahren gegen Walther, I, 125-28 (Josef Bruder).77 BA-MA. RH 26-104/15. Hans-Dietrich Walther, Bericht über die Erschiessung von Juden und Zigeuner, 1 novembre 1941.78 - Walther è stato descritto come un individuo apparentemente energico e aggressivo, ma intimamente debole, malinconico e sensibile, con la tendenza a diventare “moralista” sotto l'effetto dell'alcool. Ermittlungsverfarhen gegen Walther, IV, 1351-63 (Friedrich Göpferich), VIII, 2377-85 (Ulrich Schoffer), e VIII, 2397-2411 (Konstantin Murowski).79 Ermittlungsverfahren gegen Walther, VIII, 2613-29 (Hans-Dietrich Walther).80 - Manoschek, ``Serbien ist Judenfrei'' cit., p. 81.81 - Ermittllungsverfahren gegen Walther, V, 1669-77 (Erich Liebmann).82 - Per la maggiore difficoltà incontrata dai soldati della Wehrmacht nell'uccidere donne e bambini greci, cfr. Mark Mazower, Military Violence and National Socialist Values: The Wehrmacht in Greece 1941-1944, in “Past and Present” 134, Oxford University Press, febbraio 1992, pp. 129-58.83 - Oltre alle mie opere (Christopher R. Browning, Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, HarperCollins, New York 1992 [trad. it. Uomini comuni: polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi, Torino 1995] e Nazi Policy, Jewish Workers, German Killers cit., si veda: Raul Hilberg, The Bureaucracy of Annihilation, in Unanswered Questions: Nazi Germany and the Genocide of the Jews, a c. di Francois Furet, Schocken, New York 1989, pp. 124-26, e Perpetrators, Victims, and Bystanders, HarperCollins, New York 1992 [trad. it. Carnefici, vittime, spettatori: la persecuzione degli ebrei 1933-1945, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994], pp. 87-102; Heiner Lichtenstein, Himmlers grüne Helfer. Die Schutz und Ordnungspolizei im Dritten Reich, Bund Verlag, Köln 1990, e Ein Lügergewirr – Der Wuppertaler Prozess gegen Angehörige des Polizeibataillons 309, in Wessen Freund und wessen Helfer? Die Kölner Polizei im Nationalsozialismus, a c. di Harald Buhlan e Werner Jung, Emons Verlag, Köln 2000, pp. 619-32; Konrad Kwiet, From the Diary of a Killing Unit, in Why Germany? National Socialist Anti-Semitism and the European Context, a c. di John Milfull, Berg, Oxford 1993, pp. 75-90; Andrej Angrick et al., “Da hätte man schon ein Tagebuch führen müssen.” Das Polizeibatallion 322 und die Judenmorde im Bereich der Heeresgruppe Mitte während des Sommers und Herbstes 1941, in Die Normalität des Verbrechens. Bilanz und Perspektiven der Forschung zu den nationalsozialistischen Gewaltverbrechen, a c. di Helge Grabitz et al., Edition Hentrich, Berlin 1994, pp. 325-85; Jürgen Matthäus, What About the ``Ordinary Men''?: The German Order Police in the Holocaust in the Occupied Soviet Union, in “Holocaust and Genocide Studies” 10/2 Oxford University Press, estate 1996, pp. 134-50, e ``Reibungslos und planmässig''. Die zweite Welle der Judenvernichtung im Generalkommissariat Weissruthenien (1942-1944), in “Jahrbuch für Antisemitismusforschung” 4, Campus, Frankfurt am Main 1995, pp. 254-74; Martin Dean, The German Gendarmerie, the Ukrainian Schutzmannschaft and the ``Second Wave'' of Jewish Killings in the Occupied Ukraine: German Policing at the Local Level in the Zhitomir Region, 1941-1944, in “German History” 14/2, Oxford University Press 1996, pp. 169-92; Paul Kohl, Der Krieg der deutschen Wehrmacht und der Polizei 1941-1944: Sowjetische Ûberlebende berichten, Fischer, Frankfurt am Main 1995; Klaus-Michael Mallmann, Vom Fussvolk der ``Endlösung''. Ordnungspolizei, Ostkrieg, und Judenmord, in “Tel Aviver Jahrbuch für deutsche Geschichte” 21 (1997), pp. 355-91, e Der Einstieg in den Genozid. Das Lübecker Polizeibatallion 307 und das Massakr in Brest-Litowsk Anfang Juli 1941, in “Archiv für Polizeigeschichte”, Schmidt-Ro«mild, Verlag Lu«beck, 1999, pp. 82-88; Edward B. Westermann, ``Ordinary Men'' or ``Ideological Soldiers''? Police Battalion 310 in Russia, 1942, in “German Studies Review” 21/1 Gerald R. Kleinfeld, Arizona State University febbraio 1998, pp. 41-68; Richard Breitman, Official Secrets: What the Nazis Planned, What the British and Americans Knew, Knopf, New York 1998 [trad. it. Il silenzio degli alleati: la responsabilita morale di inglesi e americani nell'olocausto ebraico, Mondadori, Milano 1999], in particolare pp. 27-87; Stefan Klemp, Kölner Polizeibatallions in Osteuropa: Die Polizeibatallions 69, 309, 319 und die Polizeireservekompanie Köln, e Ermittlungen gegen ehemalige Kölner Polizeibeamte in der Nachkriegszeit: Die Verfahren gegen Angehörige des Reservepolizeibatallions 69 und der Polizeireservekompanie Köln, in Wessen Frend und wessen Helfer? cit., pp. 277-98 e 602-18; Eric Haberer, The German police and genocide in Belorussia, 1941-1944. Part I: Police deployment and Nazi genocidal directives, in “Journal of Genocide Research” 3/1, Carfax Publishing, London 2001, pp. 13-29; Part II: The ``second sweep'': Gendarmerie killings of Jews and Gypsies, in “Journal of Genocide Research” 3/2 Carfax Publishing, London 2001, pp. 207-18; Part III: methods of genocide and the motives of police compliance in “Journal of Genocide Research” 3/3, Carfax Publishing, London 2001, pp. 391-404.84 - Edward B. Westermann, Hitler's Police Battalions: Enforcing Racial War in the East, Kansas University Press, Lawrence KS 2005; Jürgen Matthäus et al., Ausbildung Judenmord? ``Weltanschauliche Erziehung'' von SS, Polizei, und Waffen-SS im Rahmen der ``Endlösung'', Fischer, Frankfurt am Main 2003; Jürgen Matthäus, ``Warum wird über das Judentum geschult?'' Die ideologische Vorbereitung der deutschen Polizei auf den Holocaust, in Die Gestapo im Zweiten Weltkrieg: ``Heimfront'' und besetztes Europa, a c. di Gerhard Paul e Klaus-Michael Mallmann, Primus, Darmstadt 2000, pp. 100-24; Jürgen Mätthäus, Ausbildung Judenmord? Zum Stellenwert der ``weltanschaulichen Erziehung'' von SS und Polizei im Rahmen der ``Endlösung'', in “Zeitschrift fur Geschichtswissenschaft” 8, Metropol Verlag, Berlin 1999, pp. 673-99; Jürgen Matthäus, An vorderster Front. Voraussetzungen für die Beteiligung der Ordnungspolizei an den Shoah, in Die Täter der Shoah: Fanatische Nationalsozialisten oder ganz normale Deutsche?, a c. di Gerhard Paul, Wallstein, Göttingen 2002, pp. 137-66.85 - Peter Longerich, Politik der Vernichtung: Eine Gesamtdarstellung der nationalsozialistische Judenverfolgung, Piper, München 1998, pp. 305-10. Per un'analisi del battaglione di polizia 310, di cui si sottolinea il carattere fortemente nazificato, si veda Westermann, ``Ordinary Men'' or ``Ideological Soldiers''? cit.86 - Mallmann, Vom Fussvolk der ``Endlösung'' cit., p. 376.87 - Per uno studio più approfondito del battaglione 45, si veda Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen Ludwigsburg, II 204 AR-Z 1251/54. Si veda inoltre Dieter Pohl, Die Einsatzgruppe C, in Die Einsatzgruppen in der besetzten Sowjetunion 1941/42: Die Tätigkeits- und Lageberichte des Chefs der Sicherheitspolizei und des SD, a c. di Pete Klein, Edition Hentrich, Berlin 1997, pp. 74-75; Id., Schauplautz Ukraine: Der Massenmord an den Juden im Militärverwaltungsgebiet und im Reichskommissariat 1941-1943, in Ausbeutung, Vernichtung, Úffentlichkeit: Neue Studien zur nationalsozialistischen Lagerpolitik, a c. di Norbert Frei et al., K.G. Saur, München 2000, pp. 14052.88 - Per le indagini sul battaglione 133, si veda Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen, 206 AR-Z 267/60. Per la storia completa dello sterminio degli ebrei della Galizia orientale, si veda Pohl, Nationalsozialistische Judenverfolgung in Ostgalizien cit.; e Sandkühler, ``Endlösung'' in Galizien cit.89 - Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen Ludwigsburg. Ord. n. 410, Bild n. 493-542.90 - Il documento più importante, il rapporto Westerlein del 14 settembre 1942, è stato pubblicato sia in lingua originale tedesca sia in traduzione inglese. Si veda Adalbert Rückerl, NSVernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, DTV, München 1977, pp. 56-60; e Browning, Ordinary Men cit., pp. 31-36.91 - Il battaglione 101 è stato oggetto di due ricerche: Browning, Ordinary Men cit., e Goldhagen, Hitler's Willing Executions cit., pp. 181-280.92 - Per una trattazione più approfondita dei poliziotti in servizio stanziale, si veda Matthäus, What About the ``Ordinary Men''? cit., e ``Reibungslos und planmassig'' cit.; Dean, The German Gendarmerie cit.; e Haberer, The German Police cit.93 - US Holocaust Memorial Museum Archives, Washington DC. RG 15.011m, reel 2/file 33/frame 1. KdG Statistik, 22 aprile 1944.94 - Per una mia critica più estesa, si veda Christopher R. Browning, Daniel Goldhagen's Willing Executioners, in “History & Memory” 8/1, Indiana University Press, Bloomington, IN 1996, pp. 88-108; Browning, Ordinary Men cit., nuova edizione rivista, HarperCollins, New York 1998, pp. 191-223.95 - Citato in Browning, Ordinary Men cit., p. 72.96 - Questa tripartizione si trova anche nello ``Stanford Prison Experiment''. Craig Haney et al., Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison, in “International Journal of Criminology and Penology” 1, Academic Press, London-New York 1983, pp. 69-97; e le diapositive e il nastro dell'esperimento (The Stanford Prison Experiment: Slide Show and Cassette).97 - Le seguenti memorie di Oswald Rufeisen si basano su tre fonti: la sua intervista con Nechama Tec, riportata nel volume In the Lion's Den, Oxford University Press, New York 1992; la testimonianza da lui rilasciata prima del processo intentato dalla Gran Bretagna contro Semion Serafinowicz; e la mia intervista del 17 giugno 1998 ad Haifa, appena sei settimane prima della sua morte.98 - Tec, In the Lion's Den cit., p. 104.99 - Herbert C. Kelman e V. Lee Hamilton, Crimes of Obedience: Toward a Social Psychology of Authority and Responsibility, Yale University Press, New Haven CT 1989.100 - Waller, Becoming Evil cit.101 - Ludwig Eiber, a c. di, “... ein bisschen die Wahrheit.” Briefe eines Bremer Kaufmanns von einem Einsatz beim Reserve-Polizei-Batallion 105 in der Sowjetunion 1941, in “1999”, Verlagsgruppe Peter Lang, Frankfurt am Main 1/91, pp. 58-83.102 - Mallman, Der Einstieg in den Genozid cit., p. 86.