COSTRUIRE UN’ALTRA ECONOMIA
Paul Krugman, THE NEW YORK TIMES 28 Aprile 2010
E’ possibile ridurre drasticamente le emissioni di gas serra senza danneggiare l’economia? Qual
è il modo migliore per farlo? E quando dobbiamo cominciare?
Se diamo retta agli scienziati del clima, avremmo dovuto ridurre le emissioni di anidride carbonica
e di altri gas serra già da molto tempo. Se continueremo così, non potremo evitare un aumento
della temperatura globale con conseguenze apocalittiche.
Per evitare questa apocalisse, dobbiamo imparare a fare a meno dei carburanti fossili, in primo
luogo del carbone. Ma è possibile ridurre drasticamente le emissioni di gas serra senza distruggere
l’economia?
Visto dall’interno, il dibattito sulle politiche economiche legate al clima, proprio come il dibattito
sul cambiamento climatico, è molto diverso da come appare sui mezzi d’informazione. Il lettore
può avere l’impressione che esistano dei dubbi sulla possibilità di ridurre le emissioni senza
danneggiare l’economia. In realtà, a parte quelli interessati a mantenere le cose così come sono,
tutti gli esperti di economia ambientale concordano nel ritenere che con un programma basato
sulle regole di mercato - che riduca le emissioni di carbonio facendo pagare chi le produce- si
possono ottenere buoni risultati a costi modesti, anche se non irrisori.
Gli esperti sono invece molto meno concordi sulla rapidità con la quale dovremmo agire per
contrastare il cambiamento climatico: se sia necessario cominciare subito a introdurre misure
conservative importanti o se è possibile farlo gradualmente nel corso dei prossimi decenni.
Uno dei principi fondamentali dell’economia è che la transazione tra adulti consenzienti devono
essere vantaggiose per entrambi. Se in questo momento il prezzo di un oggetto è 10 dollari e io lo
compro, significa che per me vale più di 10 dollari.
Se voi lo vendete a quel prezzo, significa che fabbricarlo vi è costato meno di 10 dollari. Quindi nel
mercato degli oggetti la transazione è vantaggiosa sia per chi vende che per chi compra. Non solo.
Se nel mercato degli oggetti la concorrenza funziona, così che alla fine il prezzo riflette il rapporto
tra il numero di oggetti che le persone vogliono comprare e quello che altre persone vogliono
vendere, il risultato è il massimo vantaggio sia per i produttori sia per i consumatori.
Il libero mercato è “efficiente”: significa che nessuno può diventare più ricco senza che qualcun
altro diventi più povero. Ma l’efficienza non è tutto. In particolare non c’è motivo di presumere
che il libero mercato sia sempre giusto. La teoria dell’efficienza, per esempio, non ci dice se
dovremmo avere una qualche forma di assicurazione sanitaria garantita per tutti, se dovremmo
aiutare i più poveri e così via.
La logica dell’economia elementare ci dice piuttosto che dovremmo cercare di raggiungere i nostri
scopi sociali con interventi ”dopo mercato”. Cioè dovremmo prima lasciare che i mercati facciano
il loro lavoro, usando in modo efficiente le risorse del Paese e poi usare la ridistribuzione del
reddito fiscale per dare una mano a quelli che sono rimasti tagliati fuori.
E se la transazione tra adulti consenzienti impone un costo anche a chi non fa parte dello scambio?
Se fabbricate un oggetto e io lo compro, con un vantaggio per entrambi, ma per produrre
quell’oggetto avete dovuto scaricare rifiuti tossici nell’acqua potabile di qualcun altro?
Quando ci sono esternalità negative, cioè costi che alcuni attori economici impongono ad altri
senza compensarli in termini monetari, non possiamo più pensare che, lasciata a se stessa,
l’economia di mercato faccia la cosa giusta.
Allora come dobbiamo comportarci?
Gli studi di economia ambientale servono a trovare una risposta a questa domanda.
Un modo per evitare le esternalità negative consiste nello stabilire regole che vietino, o almeno
limitino, i comportamenti che impongono agli altri costi particolarmente alti.
E’ quello che abbiamo fatto nella prima fase di regolamentazione ambientale all’inizio degli anni
settanta: le auto dovevano rispettare certi standard di emissione delle sostanze chimiche che
producono smog, le fabbriche dovevano limitare il volume di rifiuti che scaricavano nei corsi
d’acqua.
Negli Stati Uniti questo sistema ha dato buoni risultati, facendo migliorare la qualità dell’aria e
dell’acqua.
Ma se in alcuni casi una regolamentazione diretta delle attività inquinanti ha un senso, in altri non
funziona altrettanto bene, perché non lascia spazio alla flessibilità e alla creatività.
E’ il caso delle piogge acide.
Negli anni ottanta si scoprì che l’anidride solforosa prodotta dalle centrali elettriche tendeva a
combinarsi con l’acqua piovana e a produrre acido solforico (H2SO4) che distruggeva la flora e la
fauna.
Nel 1977 il governo americano provò per la prima volta ad affrontare il problema e stabilì che
tutte le centrali a carbone dovevano essere dotate di depuratori per eliminare l’anidride delle
emissioni. L’imporre una norma così drastica a tutte le centrali sarebbe stato problematico, perché
adeguare gli impianti più vecchi sarebbe stato toppo costoso. Ma imponendo la norma solo alle
nuove centrali, il governo si lasciò sfuggire l’opportunità di mettere sotto controllo l’inquinamento
negli stabilimenti che avrebbero potuto adeguarsi senza spendere troppo. A meno che non
decidessero di assumere il controllo diretto dell’industria elettrica, nominando funzionari federali
e dando istruzioni specifiche a tutte le centrali, non sembrava esserci modo di risolvere il
problema.
Arthur Cecil Pigou, un accademico del 1920 che ha scritto un saggio The economics of welfare,
considerato il testo base dell’economia ambientale.
C. Pigou non affronta in particolare il problema dell’inquinamento ma la sua analisi si apre con un
esempio che dev’essere sembrato obsoleto perfino negli anni venti: il caso il cui “le attività per la
difesa della selvaggina di un proprietario terriero provocano un’invasione di conigli nella tenuta
del suo vicino”. L’autore vuole enunciare un principio : le attività economiche che impongono
costi non ripagati ad altre persone non devono necessariamente essere vietate, ma almeno
scoraggiate.
Il modo migliore per farlo è imporre un prezzo a quelle attività.
Perciò propone che le persone che producono esternalità negative paghino un prezzo
corrispondente ai costi che impongono agli altri, in pratica una tassa.
La sua versione più semplice è l’imposta sugli effluenti: chiunque scarichi sostanze inquinanti in
un fiume, o le emetta nell’aria, deve pagare una somma proporzionale alla quantità di materiale
inquinante scaricata.
La ricetta Pigou rimase ignorata per quasi mezzo secolo, perché con l’arrivo della Grande
Depressione gli economisti dovevano risolvere problemi più urgenti. Ma dopo l’introduzione delle
norme ambientali è stata rispolverata: gli economisti hanno cominciato a fare pressione per una
soluzione “ basata sul mercato”- che spingesse il settore privato a limitare l’inquinamento
stabilendo un prezzo da pagare- piuttosto che per un sistema di controlli e regole.
La variante più diffusa della tassa di Pigou è il cosiddetto cap and trade, un sistema di permessi di
emissioni negoziabili.
In base a questo modello, viene concesso un numero limitato ( cap) di autorizzazioni a emettere
una specifica sostanza inquinante. Le aziende che vogliono produrre più inquinamento di quello
consentito possono comprare le quote di altre aziende, mentre quelle che ne hanno in eccesso le
possono vendere (trade).
Questo è un incentivo a ridurre l’inquinamento perché, se entrambe riescono a tagliare le loro
emissioni, le prime non dovranno comprare altre quote e le seconde potranno venderne di più.
Il Clean air act del 1990 ha introdotto negli Stati Uniti questo sistema; le centrali elettriche
potevano comprare o vendere il diritto di emettere anidride solforosa, lasciando alle singole
aziende il compito di gestirsi entro i nuovi liniti.
Il risultato è stato che le emissioni di anidride solforosa delle centrali elettriche sono state
dimezzate e il prezzo dell’elettricità e sceso invece di aumentare.
Le emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra sono le classiche esternalità negative.
Nicholas Stern, autore di un Rapporto commissionato dal governo britannico, le ha definite ”il più
grande fallimento del mercato a cui il mondo abbia mai assistito”.
Ora un programma cap and trade sul modello di quello usato per ridurre l’anidride solforosa
può essere la strada migliore?
L’opposizione a questo sistema assume due forme: alcuni sostengono che sarebbe più efficace
un’azione diretta (l’eliminazione delle centrali a carbone); altri sostengono che la soluzione ideale
è una tassa sulle emissioni.
A sostegno della prima forma si potrebbe dire che gli economisti amano troppo il mercato e
pensano che con gli incentivi economici si possa sistemare tutto.
In realtà non è possibile stabilire il prezzo di qualcosa se non si è in grado di calcolarlo
esattamente, e questo può essere difficile e costoso.
Quindi, a volte, è meglio stabilire delle semplici regole su quello che si può o non si può fare.
Si pensi che, quella statunitense è ancora la più grande economia del mondo (rappresenta il
24/25%del PIL mondiale) e di conseguenza uno dei maggiori produttori di gas serra, ma non il
maggiore in assoluto. La Cina, che brucia molto più carbone per dollaro di prodotto interno lordo,
ha superato gli Stati Uniti tre anni fa. I Paesi più sviluppati (Europa, Stati Uniti e Giappone) sono
responsabili della metà delle emissioni globali di gas serra e diminuiranno nel corso del tempo.
Quindi non è possibile risolvere il problema senza la collaborazione dei Paesi Emergenti.
Quindi è fondamentale convincere la Cina e i P.E. a limitare le emissioni.
Il sistema del cap and trade consentirebbe sia in Cina che negli Stati Uniti una compravendita dei
permessi, così le imprese cinesi e quelle americane potrebbero scambiarsi i diritti di emissione.
Fissando il limite massimo a un livello che costringa la Cina a venderci i suoi permessi, in effetti la
pagheremmo per ridurre le sue emissioni; poiché è dimostrato che in Cina ridurre le emissioni
costerebbe meno che negli Stati Uniti, sarebbe un buon affare per tutti.
Se i P.E. non volessero entrare a far parte di questo sistema avremmo bisogno di una tassa sul
carbonio.
LE EMISSIONI DI CO2 NELL’ATMOSFERA
Questo grafico evidenzia la quantità di emissioni di CO2 in miliardi di tonnellate prodotte dal le varie
attività e settori economici e dai diversi Paesi.
La tassa sarebbe applicata ai prodotti importati in proporzione all’anidride carbonica emessa durante la
loro fabbricazione. Se la tassa sul contenuto di CO2 dei prodotti importati è paragonabile al costo dei
permessi di emissione interni, il risultato sarà quello di far pagare ai consumatori un prezzo che corrisponde
all’anidride carbonica prodotta dai beni che comprano, indipendentemente da dove sono stati fabbricati.
Questo dovrebbe essere consentito dal diritto commerciale internazionale e dall’Organizzazione Mondiale
del Commercio che ha l’incarico di monitorare le politiche commerciali e ha accolto positivamente l’idea di
tassare il carbonio.
IL COSTO DELL’INERZIA
Attualmente gli effetti di retroazione come il rilascio del metano dai fondali oceanici e dalla tundra,
porteranno nel 2100 ad un aumento di temperature medie di 5° rispetto al 2000. Una differenza di 5°
corrispondono più o meno alla differenza tra le temperature medie di New York e del Mississippi. Tutto ciò
comporterebbe anche un cambiamento nello schema delle precipitazioni: alcune regioni diventerebbero
molto più umide ed altre molto più aride. Con lo spostamento delle correnti oceaniche potrebbero
verificarsi drastici cambiamenti nel clima di certe regioni. Londra, infatti è alla stessa latitudine del Labrador
e senza la corrente del Golfo del Messico, l’Europa occidentale non sarebbe quasi abitabile.
L’ultima volta che la Terra è stata sottoposta a un riscaldamento paragonabile a quello previsto è stato
durante il paleocene- eocene (55 milioni di anni fa) e le temperature salirono di circa 6° nell’arco di 20mila
anni (quindi a un ritmo molto più lento di quello attuale), quell’aumento ebbe come conseguenza
l’estinzione di alcune specie.
Quindi come facciamo a calcolare quanto ci costeranno gli effetti del riscaldamento globale?
Le stime del Modello dinamico integrato del clima ( Dice) usato da William Nordhaus e dai suoi colleghi
dell’Università di Yale, calcolano il costo degli effetti negativi del riscaldamento globale in alcune zone
cruciali, soprattutto quelle costiere ed agricole, almeno ad una riduzione del PIL /Mondiale del 2%.
Questo modello ci dice inoltre che, il prezzo delle emissioni di anidride carbonica dovrebbe arrivare a
200$/T. ( più del quadruplo del costo del carbone), ma il picco si toccherebbe verso la fine del secolo,
mentre il costo iniziale potrebbe essere solo di circa 30$/T. Questa soluzione stabilizzerebbe la
concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera ad un livello che è quasi il doppio di quello della
media pre-industriale e non danneggerebbe di molto il Pianeta.
Nicholas Stern della London school of economics sceso in campo nel 2006 ha dichiarato che per limitare
le emissioni bisognerebbe agire in modo rapido e deciso per non far aumentare i prezzi ( definita climate –
policy big bang). Stern, in particolare afferma che i politici dovrebbero dare al benessere delle future
generazioni la stessa importanza che danno al benessere dei cittadini di oggi. Quindi i danni prodotti dalle
emissioni potrebbero essere maggiori di quanto faccia pensare l’analisi a favore della gradualità, perché le
temperature globali si dimostreranno più sensibili alle emissioni di gas serra di quanto si è pensato finora o
perché i danni economici di un forte aumento della temperatura saranno superiori alle stime dell’altro
modello.
Quindi la nostra decisione deve tener conto della probabilità’ non trascurabile di una catastrofe: oggi
sappiamo come limitare le emissioni di gas serra, abbiamo un’idea dei costi, ancora sopportabili, quindi
agiamo.
Paul Krugman, economista, premio Nobel per l’economia nel 2008.