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3.a vi sono infine alunni che si ritirano dall’impegno scolastico a causa di una complessa situazione di
sofferenza personale - in altri termini di scarsa autostima - che impedisce di avventurarsi in campi in cui
il ragazzo abbia il presentimento del possibile fallimento. Questo accade frequentemente ad alunni che
presentano effettive difficoltà (tutte quelle sopra indicate), ma a volte la reazione di ritiro o blocco - che
si manifesta come grave svogliatezza o vero e proprio blocco psicologico - risulta del tutto
sproporzionata rispetto alle difficoltà. Essa nasce a volte da condizioni di fragilità emotiva legate a
situazioni familiari, anche contingenti (una malattia in famiglia, la nascita di un fratellino, crisi tra i
genitori, confronti frustranti con fratelli maggiori o minori, ecc.). Spesso essa viene presa per banale
pigrizia, cioè da un atteggiamento superficiale verso i propri compiti, mentre si tratta di un segno di
fragilità, travestito a volte da sfrontatezza. In questo caso il bisogno educativo specifico consiste nella
realizzazione di una relazione basata sulla comprensione della situazione emotiva e nella creazione di
condizioni di rimotivazione dell’alunno.
In tutti i casi in cui l’apprendimento risulta problematico - a causa di disturbi o per qualunque altra causa –
le perduranti difficoltà, accompagnate da insuccesso scolastico, comportano uno stato di frustrazione da
cui il soggetto sano non può non difendersi. Si tratta di un serio problema di autostima, una ferita che si
riapre ogni volta che viene proposta la prestazione. Il “gradino” davanti a cui si bloccano tanti alunni con
DSA e con altri disturbi si forma anche quando le difficoltà non dipendano da cause neurobiologiche.
Quando ci si trova di fronte ad alunni che, quali che ne siano le conseguenze, presentano una sorta di
resistenza o elusione sistematica al coinvolgimento nelle attività di apprendimento scolastico, si deve
riconoscere a tale comportamento un carattere reattivo rispetto alla minaccia che l’insuccesso rappresenta
per la personalità in formazione. Si devono distinguere, a questo proposito, due situazioni che spesso
vengono confuse, anche per la mancanza di un preciso supporto linguistico, che possono essere designate
con i termini pigrizia e svogliatezza, riconoscendo
1) alla pigrizia il carattere attivo di scelta furbesca di amministrare il proprio successo tirando al
minimo, nella sicurezza di poter risollevarsi quando si profili il peggio;
2) alla svogliatezza il carattere passivo-reattivo di reazione di ritiro come difesa da una minaccia di
grave svalutazione personale, espressione di uno stato di profonda insicurezza rispetto alle proprie
capacità e al proprio valore personale.
Secondo questa distinzione, la pigrizia va dunque intesa come eccesso di sicurezza e la svogliatezza
reattiva come espressione di insicurezza. Si possono schematizzare come segue le differenze tra le due
situazioni, ricordando che, naturalmente, nella realtà le cose sono molto più sfumate:
Pigrizia
Svogliatezza reattiva
carattere attivo
carattere passivo-reattivo
scelta di amministrare il proprio successo tirando al
minimo
reazione di ritiro come difesa da una minaccia di
grave svalutazione personale
profonda insicurezza rispetto alle proprie capacità e
al proprio valore personale
sicurezza di poter risollevarsi: eccesso di sicurezza
Spesso i motivi di sofferenza per le difficoltà e l’insuccesso nell’apprendimento, in quanto impegnano in
modo eccessivo sul piano emotivo, bastano da soli a generare difficoltà nell’apprendimento, anche
esaltando più o meno piccole difficoltà sino allora poco significative. Ma tale svogliatezza reattiva risulta
praticamente immancabile e tanto più tenace quando nella vita del soggetto sia già presente un altro
fattore di attacco all’autostima. Si può dire, un po’ grossolanamente, che, se l’alunno già si trova ad
elaborare un problema di carattere centrale per l’integrità della sua identità personale (abbandoni o
situazioni di tensione in famiglia, o malattie proprie o di familiari, o, in certi casi, nascita di un fratellino,
ecc.), egli dovrà investire tutto sé stesso in tale compito, sperando che esso non sia più grande di quanto
egli stesso possa sopportare, cioè elaborare. Se a questo si aggiunge il problema, anch’esso con valore di
minaccia centrale per la personalità, dell’insuccesso scolastico, sia in forma conclamata, sia anche soltanto
come timore di non essere all’altezza, allora solo la difesa psicologica del ritiro sarà possibile, altrimenti si
avvierebbe un processo di nevrotizzazione.
Vale la pena di sottolineare che, essendo tale svogliatezza una forma di difesa psicologica, si tratta di
un fenomeno reattivo e i comportamenti reattivi sono tipicamente
1) non proporzionali al pericolo obiettivo a cui reagiscono e
2) immediati (cioè automatici e irriflessivi).
Come tutti i dispositivi naturali specializzati per la difesa, tali comportamenti reattivi hanno bisogno di
precedere ogni valutazione riflessiva. Vale a dire che il bambino o ragazzo è preso da uno stato di chiusura
e di blocco, poi, naturalmente, può essere aiutato o darsi da fare lui stesso per abbassare la difesa. Questa,
per sua natura, tende a non calare da sola in presenza della situazione che la genera, e a rinnovarsi ogni
volta. Tuttavia, pur nascendo da uno stato di insicurezza, il rifiuto di coinvolgersi nell’apprendimento
scolastico può assumere forme baldanzose e di sfida, di cui uno sguardo superficiale può non riconoscere il
carattere compensatorio1. È anche vero, tuttavia, che, a volte, problemi affettivi , ecc. non indeboliscono il
percorso di apprendimento, ma danno anzi luogo ad un maggior investimento nel successo scolastico, con
la formidabile valenza che esso rappresenta di rafforzamento dell’autostima. Laddove già vi siano motivi di
incertezze nell’apprendimento, scatta invece, generalmente, la reazione difensiva della svogliatezza
reattiva, sino al blocco psicologico vero e proprio.
Nei bambini piccoli – e certamente ancora all’inizio della primaria - la reazione di ritiro di fronte a ciò
che essi temono di non saper fare è così scoperta che l’adulto – in genere, ma non sempre! - ne riconosce il
carattere reattivo e sa che l’insistenza del genitore o dell’adulto può solo portare ad un suo rafforzamento,
sino al vero e proprio blocco, che tende a permanere per molto tempo e a non recedere nemmeno quando
il compito posto sia chiaramente accessibile. Caratteristico il fatto che il bambino che reagisce in tal modo
non affermerà mai che si ritira perché non sa svolgere il compito, ma tenderà piuttosto a chiudersi nel
mutismo o ad addurre altre cause, a scopo - per così dire - di istintivo depistaggio, per proteggere il nucleo
della personalità in formazione da possibili verità distruttive dell’autostima. Allo stesso modo il bambino
più grande o il ragazzo che manifesta svogliatezza reattiva vuole negare a se stesso la dinamica messa in
atto. Non offrendo la prestazione, si difende dalla manifestazione dell’incapacità a prezzo di ricorrere ad
una forma di autoinganno, ben nota in psicologia, come se dicesse (un atteggiamento analogo si verifica
spesso nelle situazioni di gioco): “… è perché non voglio: se volessi…” . In tal modo, non cimentandosi,
preserva la propria l’immagine di sé.
1.1 Riconoscere le situazioni di svogliatezza reattiva. Criteri per affrontarle.
Una larga parte degli alunni che rifiutano l’impegno scolastico è costituita da bambini e ragazzi cui, per
motivi legati alle situazioni di vita, di lavoro, ecc., manca una guida, un aiuto e delle regole per lo
svolgimento dei compiti e lo studio a casa, bambini e ragazzi che vivono in una situazione di grande
disordine. Ciò determina rapidamente situazioni di labilità degli apprendimenti, di scarsa motivazione, di
difficoltà e insuccesso e dunque di progressiva disaffezione e svogliatezza.
Ma il quadro delle situazioni di ritiro dall’impegno di apprendimento scolastico è più vasto.
Un’amplissima aneddotica potrebbe essere portata a dimostrazione dell’importanza di saper
riconoscere le situazioni di svogliatezza
da parte dei docenti, e dei guasti prodotti laddove, non consapevoli del significato reattivo di essa, il
bambino o ragazzo venga semplicemente fatto da essi oggetto di un’intransigente imputazione di colpa. In
genere una simile svogliatezza si riconosce per il carattere estremamente tenace, a volte il rifiuto, invece di
essere esplicito e scoperto, si manifesta con un improvviso insorgere di una specie di torpore di carattere
elusivo:
- sbadigli, una disattenzione inspiegabile a quanto viene detto e ridetto per costringere l’alunno
all’attenzione;
- errori numerosissimi e del tutto sproporzionati rispetto alle sue capacità e conoscenze;
- a volte, davanti al compito, l’alunno è preso da un’eccitazione del tutto simile a quella degli alunni
iperattivi: ride, scherza, fa battute su tutto, ecc. in modo irrefrenabile;
1
Va da sé che quando l’insuccesso sia divenuto condizione stabile e la distanza dal percorso comune ponga l’alunno in una condizione di evidente
estraneità rispetto alle attività di apprendimento della classe, la svogliatezza non ha nemmeno bisogno di particolari spiegazioni ed è, in genere,
presente anche se i motivi di sofferenza personale non siano più attuali.
- a volte procede con una lentezza esasperante restando in un mutismo inspiegabile.
Alcuni di questi bambini o ragazzi mostrano, a volte, in forma episodica oppure in altre discipline o in altri
campi, abilità persino brillanti, che confermano le loro potenzialità. In quei momenti o ambiti l’alunno
sente di imbroccare il compito, avvertendo una sicurezza che lo gratifica profondamente, salvo tornare ad
alzare rigidamente strenue difese nei campi e situazioni in cui l’insicurezza permane.
Si possono ricordare, a scopo indicativo, condizioni che spesso fungono da causa per l‘insorgere del ritiro
dell’alunno dal coinvolgimento nell’apprendimento. Alle spalle dell’alunno si possono trovare situazioni
come le seguenti:
situazioni di abbandono o percepite come tali dal bambino o ragazzo, problemi connessi a tensioni
tra i genitori o alla loro separazione (soprattutto se vi sono situazioni oscillatorie o non ben decise);
problemi di autostima insorti con la nascita di un fratellino o sorellina,
anche la morte di un genitore può generare la stessa risposta (a volte quella opposta, di forte
impegno, definita anche “autosufficienza compulsiva”);
- madre o padre depressi oppure gravi e lunghe malattie in famiglia, con ospedalizzazioni, ecc., a volte
fino alla morte del parente, ecc.; oppure un fratello o sorella disabili;
malattie pregresse o presenti dell’alunno stesso (epilessia, forti crisi respiratorie, allergie potenti e
pervasive, ecc.) e ospedalizzazioni in età precoce. Le situazioni di malattia, proprie o di familiari,
possono aver lasciato una specie di vissuto di morte o una specie di pericolo di annientamento, tale
per cui la minima avvisaglia di minaccia alla perfetta integrità dell’io è percepita come rischio di
soccombere e fa scattare la difesa;
il fatto stesso di avere genitori prestigiosi o sorelle o fratelli eccellenti o perfetti, soprattutto se in un
clima familiare di aspettative alte e rigide: l’alunno – soprattutto se meno brillante o con qualche
singolarità di funzionamento mentale meno favorevole - percepisce il modello come inaccessibile e
scatta il ritiro; queste situazioni non sono sempre facili da cogliere perché la famiglia sembra non
presentare problemi e l’alunno risulta perfettamente capace, ma sono molto diffuse;
ecc.
Spesso, In questi casi, il bambino si ritira, non si concede, non si espone, rimane aggrappato alla propria
unità con se stesso, come se ad arrischiare un piccolo impegno all’esterno potesse perdere se stesso: non
”decentra”. A meno che, come si è detto, non adotti una strategia che si potrebbe dire antidepressiva: il
bambino o ragazzo assume tratti di tipo iperattivo, divenendo preda di un’eccitazione divertita e
instancabile: in questa intensa e continua produzione di movimento ed energia l’alunno si percepisce
intensamente, compensando il senso di perdita che lo minaccia.
Vi sono anche alunni, naturalmente, che di fronte alle situazioni esposte, hanno le qualità e le risorse
interne per lavoraci sopra e che reagiscono alle difficoltà in modo positivo.
In primo luogo il docente deve preoccuparsi di mantenere l’alunno entro un legame positivo con sé e con
la scuola, facendogli sentire la propria solidarietà per la sua condizione di difficoltà, continuando a
pretendere - proprio sulla base di tale comprensione solidale - il suo impegno nelle attività di
apprendimento (sia pure con atteggiamento flessibile), ponendo all’occorrenza obiettivi ben calibrati. Lo
scioglimento della difesa costituita dalla svogliatezza deve essere l’obiettivo prioritario. Essendo la
svogliatezza reattiva espressione di insicurezza, cioè di una forma di paura, vale più che mai per essa la
regola della gradualità: l‘alunno deve potersi trovare di fronte a compiti semplici, che saprà svolgere,
aumentando progressivamente le difficoltà. In tal modo potrà sperimentarsi come capace, ricevendo
quella gratificazione da successo che costituisce la forma fondamentale di motivazione all’apprendimento
insieme all’apprezzamento dell’insegnante per il piccolo successo ottenuto e per l’impegno messo.
Naturalmente, i problemi possono essere molto complessi e può essere comunque necessario, in certi casi,
che, oltre all’azione ben commisurata del docente, avvenga qualche significativo cambiamento nella vita
dell’alunno.
1.2 Il caso della fobia scolare.
Una situazione che viene spontaneo accostare a quelle sopra descritte, ma sostanzialmente diversa in
quanto non riguarda propriamente il ritiro dall’impegno scolastico, ma il ritiro di fronte all’ambiente scuola
è costituito da un vero e proprio disturbo specifico, denominato Fobia Scolare, che scatta al momento di
andare e restare a scuola, staccandosi in tal modo dai genitori e dalla propria casa. Si tratta di bambini e
ragazzini che, nella forma più eclatante del disturbo, non vogliono staccarsi dai familiari all’arrivo a scuola
(e già prima di uscire hanno tentato di evitare la partenza, anche nascondendosi, ecc.), a scuola piangono,
stanno male, non si lasciano persuadere se non per brevi momenti, ricadendo poi nello stato di ansia,
dicendo che stanno male e trovando il modo di farsi venire a prendere dai genitori, a volte cercando di
andarsene da scuola di nascosto. Ogni vittoria del bambino - o ragazzino: anche alla secondaria di primo
grado si presentano queste manifestazioni - rafforza il comportamento di fuga dalla situazione, rendendo
più debole la possibilità di uscirne; e, d’altra parte, il grado di sofferenza emotiva può essere tale che la
scuola si sente di dover responsabilmente cedere alle richieste e chiamare i genitori. Questi devono essere
orientati a rivolgersi allo specialista, preferibilmente senza informarne il bambino, per avere indicazioni
sulle strategie da adottare (oltre che approfondimenti sulla base della loro descrizione della situazione e
informazioni sul disturbo): si tratterà di riuscire a far restare a scuola l’alunno, che può persuadersi sapendo
che il genitore è nell’atrio della scuola o che si allontanerà solo un po’, ecc.. La gradualità contrattata può
migliorare le cose ed evitare la tenacia del rinforzo negativo che si instaura in caso di cedimento. Il grado di
capacità empatica dei diversi docenti ha un peso nel problema, ma la dinamica del disturbo è centrata sul
timore di abbandonare la famiglia e il nido, e solo subordinatamente sul timore di ciò che incontra a scuola
(anche se il disturbo si concentra sull’ambiente scuola). Esso riguarda, infatti, la funzione di attaccamento2
ed è espressione del più generale disturbo di ansia da separazione, di cui può essere la manifestazione
dominante. Tipiche del disturbo, a volte gestite in modo da mascherarlo, sono le numerosissime assenze e
il loro immotivato prolungamento in caso di influenza, ecc.: invece dei tre-cinque giorni prevedibili,
l’assenza dell’alunno continua ogni volta sino a dieci-quindici giorni di assenza; spesso l’alunno non rientra
per diversi giorni al termine di un periodo di vacanza. Il senso dell’anno scolastico, anche dove le presenze
non sforino il tetto stabilito, risulta in tal modo seriamente vanificato per le continue rotture di continuità.
È importante annotare che a volte possono mancare le manifestazioni visibili di angoscia al momento di
restare a scuola; ma l’andamento delle assenza può già da solo essere un buon indizio della presenza del
disturbo.
A distinguere questa situazione dalla svogliatezza sta il fatto che, quando l’alunno l’ha vinta e resta o va
a casa, non evita affatto gli impegni scolastici: fa i compiti e sta quieto a lavorare. Ma, naturalmente, le
assenze fanno accumulare ritardi nell’apprendimento dei contenuti disciplinari che aggiungono un nuovo
motivo d’ansia al momento di andare o restare a scuola. A soffrire del disturbo sono tra l’1 e il 5% della
popolazione infantile (fino a 11 anni circa, ma comportamenti successivi si presentano come evoluzione del
disturbo). In una scuola secondaria di primo grado di alcune centinaia di alunni è probabile che il disturbo
sia presente in modo chiaramente riconoscibile in uno, due o tre ragazzi. In altri sono presenti
comportamenti riconducibili anch’essi al disturbo in modo meno evidente. Sono questi i casi in cui la
scuola, non riconoscendo la natura di disturbo del problema, può creare guasti gravi nella storia personale
dell’alunno. Si tratta di alunni che, quando sono a scuola, possono essere piuttosto isolati e silenziosi, ma
non presentare in modo esplicito lo stato di sofferenza sopra descritto. Al problema fanno riscontro certi
problemi o aspetti dell’andamento familiare o certi atteggiamenti o comportamenti dei genitori, che
favoriscono l’insorgenza e il mantenimento del disturbo (la cui base sembra neurobiologica e con carattere
di familiarità). Possono esservi la malattia propria o di un familiare, la separazione tra i genitori o dai
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Al tema dell’attaccamento si è fatto cenno nell’Unità 2, nota 2. Si riporta interamente il breve riferimento. Il concetto di insicurezza ha acquisito un
significato scientifico particolarmente preciso con la teoria dell’attaccamento (J.Bowlby). In rapporto alle modalità in cui si realizza la relazione di
base con la figura primaria di attaccamento – in genere la madre – si determinano nel bambino condizioni interne di sicurezza o insicurezza. Vi sono
perciò bambini (e poi, salvo mutamenti, adulti) sicuri (madri responsive, pronte a comprendere i bisogni del bambino a corrispondervi con
naturalezza) - oppure insicuri-evitanti (madri evitanti, cioè emotivamente trattenute e non responsive), insicuri-ambigui-resistenti (“resistenti”
perché non si consolano nemmeno dopo la ricongiunzione con la madre nel test di attaccamento, la strange situation; qui la relazione fa capo a
madri instabili e con comportamenti e sentimenti incoerenti e contraddittori), insicuri disorganizzati (alcuni associano questa tipologia a situazioni
di violenza e abusi sul bambino o sulla madre, altri si riferiscono a situazioni di insicurezza che rimangono sospese tra le altre due forme). Le
valutazioni statistiche sulle diverse tipologie non danno esiti uniformi. Lo studioso Giovanni Liotti riferisce i seguenti dati: bambini sicuri: 50-60%,
bambini insicuri evitanti 15-20%, bambini insicuri ambigui-resistenti (5-10%), bambini disorganizzati (situazioni di sospensione: 15-20%). I dati
variano molto tra ambienti giudicati a basso rischio e ambienti a rischio.
genitori (vagabondaggio tra la casa della madre, quella del padre, quella dei nonni, degli altri nonni…),
relazioni conflittuali nella famiglia, un legame problematico con uno dei genitori, una forte ansia
protettiva da parte della famiglia, ecc. (e altre situazioni, indicate in 9.1 per gli alunni che si ritirano
dall’apprendimento). Eventuali difficoltà con il gruppo dei pari o con un insegnante fanno più facilmente
scattare la sintomatologia.
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