PAOLO SORDI L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL NUOVO RITO PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI E DISCIPLINA DELLA FASE DI TUTELA URGENTE 1 SOMMARIO 1. Caratteri generali del nuovo rito e sua collocazione sistematica. 1.1. La finalità del nuovo modello processuale. 1.2. La specialità del nuovo rito. 1.3. Il carattere necessario del nuovo rito. pag. 3 pag. 4 pag. 5 2. Ambito di applicabilità. 2.1. I licenziamenti la cui impugnazione è soggetta al nuovo rito. pag. 7 2.2. Le azioni di accertamento promosse dal datore di lavoro. pag. 10 2.3. Il fallimento del datore di lavoro. pag. 10 2.4. Le questioni relative alla qualificazione del rapporto. pag. 11 2.5. Le domande fondate sugli identici fatti costitutivi. pag. 12 2.6. La contemporanea pendenza di cause aventi ad oggetto diritti del lavoratore diversi da quelli derivanti dall’illegittimità del licenziamento. pag. 15 3. La fase “urgente”: a) l’introduzione della causa. 3.1. La competenza per territorio. 3.2. Il ricorso. 3.3. Il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti. 3.4. La notificazione del ricorso. 3.5. La costituzione del convenuto. 3.6. Preclusioni e decadenze. pag. 17 pag. 17 pag. 18 pag. 19 pag. 19 pag. 20 4. segue: b) la trattazione e l’istruzione della causa. 4.1. La concentrazione della trattazione. 4.2. Gli adempimenti preliminari del giudice. 4.3. L’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione. 4.4. La superficialità dell’istruttoria. 4.5. I singoli mezzi istruttori. 4.6. Le istanze istruttorie delle parti. 4.7. I poteri istruttori officiosi. 4.8. Le formalità non essenziali al contraddittorio. 4.9. Alcuni incidenti processuali. pag. 21 pag. 22 pag. 22 pag. 22 pag. 24 pag. 25 pag. 25 pag. 26 pag. 29 5. segue: c) la decisione. pag. 30 6. Il problema del giudicato. pag. 31 7. Questioni di rito. 7.1. L’applicabilità in via analogica dell’art. 4 d. lgs. n. 150 del 2011. 7.2. Il contenuto dell’ordinanza di mutamento di rito. 7.3. Il regime dell’ordinanza di mutamento del rito. 7.4. Il cumulo di domande. 7.5. Il regime degli effetti della domanda. 7.6. Il regime delle preclusioni e delle decadenze. pag. 36 pag. 38 pag. 39 pag. 41 pag. 42 pag. 43 8. Rapporti con gli altri riti previsti dall’ordinamento. pag. 44 9. Le misure organizzative. pag. 47 2 1. Caratteri generali del nuovo rito e sua collocazione sistematica. 1.1. La finalità del nuovo modello processuale. – Il legislatore, contestualmente alla modificazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (e, cioè, del sistema delle tutele sostanziali contro i licenziamenti illegittimi), ha introdotto una importante novità sul piano processuale. Ha previsto, infatti (art. 1, commi 47-69, della legge n. 92 del 2012), una specifica disciplina per le «controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro». La limitazione dell’àmbito di applicabilità del nuovo rito alle sole controversie nelle quali si discuta dell’applicazione di una o più delle tutele previste dall’art. 18 del legge n. 300 del 1970 costituisce un primo indizio nel senso dell’esistenza di uno stretto nesso, sul piano sistematico, tra le disposizioni processuali e quelle sostanziali in materia di recesso datoriale. E l’esattezza di tale assunto è confermata anche da un semplice sommario esame della nuova disciplina delle controversie in questione. In effetti, il legislatore ha delineato un procedimento che si articola in una prima fase (che, per comodità, d’ora in avanti chiameremo anche fase “urgente”, senza però voler attribuire all’aggettivo alcun significato tecnico) caratterizzata da termini più ristretti (anche se non di molto) rispetto a quelli stabiliti per le controversie di lavoro dal capo I del titolo IV del libro secondo del codice di rito, da una trattazione deformalizzata e da un’istruttoria superficiale che deve condurre, nel più breve tempo possibile, ad un primo pronunciamento giudiziale, in ordine alla legittimità o meno del licenziamento, reso nella forma dell’ordinanza e svincolato da qualsiasi esigenza cautelare (non è infatti richiesto, per l’accoglimento del ricorso, che il diritto del lavoratore sia minacciato dal rischio di un imminente ed irreparabile pregiudizio); possono seguire, poi, una fase di opposizione (sempre in primo grado, davanti allo stesso Tribunale che ha emesso l’ordinanza) a cognizione piena ed approfondita e i consueti altri due gradi di giudizio, rispetto ai quali pure sono previsti dispositivi acceleratori; sono state introdotte, infine, misure dirette ad assicurare l’effettivo rispetto, da parte dei giudici del lavoro, dei più ristretti termini processuali stabiliti. Sembra evidente che la previsione di una disciplina processuale diretta ad assicurare la contrazione dei tempi necessari per la definizione di una controversia nella quale si verta in tema di tutele previste dal nuovo art. 18 della legge n. 300 del 1970 costituisca, da un lato, il necessario completamento dell’intervento del legislatore del 2012 diretto a ridurre il tasso di incertezza relativo ai possibili esiti dell’impugnazione di un licenziamento (incertezza che dipende, oltre che dal tipo di conseguenze collegate alla valutazione rimessa al giudice, anche dalla distanza di tempo che separa la formulazione di tale valutazione dal momento del licenziamento1), e, dall’altro, un congruo contrappeso all’introduzione degli insuperabili limiti massimi all’ammontare della somma che il lavoratore può ottenere quale indennità risarcitoria del pregiudizio economico causato dall’iniziativa datoriale, imposti dal nuovo art. 18 per la maggior parte delle ipotesi di illegittimità del licenziamento. Anticipando gli esiti dell’analisi che si svolgerà nel prosieguo, può dirsi che il nuovo modello processuale va ricondotto nella categoria delle tutele sommarie non cautelari. È però doveroso riconoscere anche che la finalità del nuovo rito non sembra essere solamente quella – tipica delle tutele sommarie non cautelari – di consentire la formazione anticipata di un titolo esecutivo, ma anche quella di pervenire, nel più breve tempo possibile, ad un 1 In questo contesto si spiega anche la riduzione, da 270 a 180 giorni (disposta dall’art. 1, comma 38, della legge n. 92 del 2012), del termine – stabilito dall’art. 6, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, a pena di inefficacia dell’impugnazione del licenziamento – entro il quale deve essere depositato il ricorso giudiziario avverso il recesso datoriale. 3 accertamento sulla legittimità o meno del licenziamento idoneo, in mancanza di attivazione del rimedio oppositorio, ad acquistare caratteri di stabilità e definitività. Il nuovo procedimento, dunque, è diretto a realizzare, oltre che l’interesse del lavoratore, anche quello del datore di lavoro. Non osta a tale conclusione la constatazione dell’ormai residuale àmbito di applicabilità della tutela risarcitoria con tendenzialmente integrale corresponsione delle retribuzioni maturate tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione (sanzione che, con il protrarsi dei tempi di definizione della controversia, aumenta la sua gravosità per la parte datoriale); infatti, non può negarsi che, in ogni caso in cui un licenziamento sia contestato dal lavoratore che lo abbia subito, sussista l’interesse dell’imprenditore affinché, in presenza di un’impugnazione giudiziale del licenziamento, si pervenga nel più breve tempo possibile ad un definitivo pronunciamento giudiziale circa la legittimità del recesso e, soprattutto, circa la sussistenza o meno del diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro (diritto previsto dal nuovo art. 18 non solamente per il caso del licenziamento discriminatorio, ma anche per una altra nutrita serie di ipotesi), misura la cui esecuzione è tale da determinare comunque rilevanti conseguenze sull’organizzazione aziendale. In sostanza, la riduzione dei tempi del processo con riferimento alle controversie in tema di licenziamento è stata considerata dal legislatore come un significativo tassello del più generale intervento mirante a «realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione» (art. 1, comma 1, della legge n. 92). Com’è stato detto, si tratta di un esempio di impiego del processo civile in vista di obiettivi di politica pubblica, ulteriori rispetto alla tutela giurisdizionale dei diritti individuali2. 1.2. La specialità del nuovo rito. – L’altra evidente caratteristica dell’intervento del legislatore è la scelta di non ricorrere a qualcuno dei modelli processuali già rinvenibili nell’ordinamento, ma di crearne uno nuovo, in chiara (ed immediata) smentita del lodevole proposito di semplificazione dei riti che aveva condotto, meno di anno prima, all’emanazione del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. Si aggiunga che quello creato dal legislatore del 2012 è un rito difficilmente assimilabile ad uno di quelli già presenti nell’ordinamento. Invero, come pure è stato notato3, esso presenta alcune caratteristiche proprie del procedimento di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 della legge n. 300 del 1970, altre tipiche del procedimento sommario di cognizione disciplinato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c. ed altre ancora comuni alla disciplina del procedimento cautelare uniforme (artt. 669-bis ss. c.p.c.). È pertanto impossibile qualificare il nuovo modello processuale come una species di qualcuno di quei genera e occorre invece riconoscere che si tratta di un rito con proprie caratteristiche che si affianca a quelli già noti. Una simile conclusione non è priva di conseguenze: una volta ammessa la piena specificità del procedimento di cui all’art. 1 della legge n. 92 del 2012, al fine di risolvere questioni di natura interpretativa poste dalla sua disciplina, non è possibile ricorrere sempre e comunque a soluzioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in riferimento ad uno dei tre modelli processuali prima ricordati; quelle elaborazioni vanno sicuramente tenute presenti, ma limitatamente ai singoli tratti di disciplina che siano sovrapponibili con quelli del nuovo rito; e comunque sempre previa verifica della compatibilità della soluzione con le specifiche caratteristiche e la ratio del procedimento introdotto dal legislatore del 2012. Invece, al fine di colmare le lacune della disciplina della legge n. 92 del 2012 (nella quale manca la regolazione di numerosi aspetti del procedimento, anche di indubbia rilevanza, come, ad esempio, la competenza per territorio), occorre, in generale, far riferimento alle disposizioni codicistiche in materia di controversie di lavoro4. Vale a dire che la disciplina dettata dagli artt. 409 2 R. CAPONI, La corsia preferenziale per alcune cause di lavoro rallenta le altre in assenza delle adeguate risorse, in Guida dir., 2012, n. 18, 9. 3 G. BENASSI, La Riforma del mercato del lavoro: modifiche processuali, in Lav. giur., 2012, 752. 4 Conformi: L. DE ANGELIS, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in Working Papers Massimo D’Antona, www.lex.unict.it, 10; C. CONSOLO-D. RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e 4 ss. c.p.c. si applica alle controversie in questione per tutto quanto non previsto dall’art. 1, commi da 48 a 65 (ovviamente a condizione che sussista la compatibilità di cui si è detto in precedenza). Seppure nella legge n. 92 del 2012 manchi un’espressa disposizione in tal senso, tale conclusione può essere agevolmente argomentata sulla base dell’espressione utilizzata dal legislatore, il quale non ha qualificato la disciplina da esso dettata come esaustiva; esso invece si è limitato a prevedere che quella disciplina «si applica» alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, presupponendo, quindi, che si tratti di una disciplina “aggiuntiva”, per così dire, a quella che ordinariamente regola quella categoria di controversie. E tale è, appunto, quella del Capo I del titolo IV del libro secondo del codice di rito che, a norma dell’art. 409, n. 1, c.p.c. si applica a tutte le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato privato. A conforto di tale conclusione si aggiungano, da un lato, la già segnalata irriducibilità del nuovo rito ad uno degli altri procedimenti “speciali” (con conseguente impossibilità di ricorrere alla disciplina di questi ultimi per colmare le lacune di quella della legge n. 92 del 2012) e, dall’altro, che, considerato l’oggetto delle controversie di cui qui si tratta, è sicuramente maggiormente coerente con il generale ordinamento giuridico processualcivilistico ricondurre tali cause al rito codici stico del lavoro, piuttosto che al rito ordinario. 1.3. Il carattere necessario del nuovo rito. – Un’altra caratteristica fondamentale del nuovo procedimento risiede nel fatto che, come accennato, per le controversie alle quali esso è applicabile (v., infra, n. 2), il rito di cui all’art. 1 della legge n. 92 del 2012 costituisce l’unica modalità di esercizio dell’azione giudiziale. In altri termini, non è concessa alla parte interessata la facoltà di scelta tra l’ordinario rito del lavoro di cui al codice di procedura civile e quello introdotto dal legislatore del 2012, essendo il ricorrente tenuto a seguire questo secondo5. Ciò si desume in maniera incontrovertibile dal tenore del comma 47 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, a norma del quale «le disposizioni dei commi da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti». Come si vede, la disposizione prevede come inevitabile l’applicazione delle regole enunciate nei commi successivi alla categoria di controversie da essa contemplata. Questione diversa è, però, quella relativa alla possibilità per le parti di “saltare”, per così dire, la prima fase del giudizio di primo grado. Qui, infatti, non si tratta di riconoscere alle parti di scegliere un rito piuttosto che un altro. Si tratta invece di verificare se, ferma restando l’applicazione della disciplina processuale dettata dall’art. 1 della legge n. 92 del 2012, le parti possano iniziare la controversia a partire da quella che, nel disegno complessivo del nuovo modello processuale, è la seconda fase del giudizio di primo grado, introdotta con un ricorso in opposizione al provvedimento conclusivo della prima fase “urgente”. Ove si ritenga di fornire risposta affermativa a tale interrogativo, resterebbe comunque ferma l’applicazione di tutta la parte della disciplina del nuovo rito relativa al giudizio di opposizione, a quello di reclamo e a quello di cassazione: non vi sarebbe, dunque, alcuna deroga al generale principio dell’indisponibilità del rito per le parti. Una seconda premessa che deve essere svolta è l’inutilizzabilità, al fine della risoluzione della questione, di soluzioni elaborate per analoghe questioni poste rispetto a quei modelli processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr. giur., 2012, 736. Analogamente, D. BORGHESI, Conciliazione e procedimento speciale dei licenziamenti per la riforma Fornero, in Lav. giur., 2012, 914, afferma che «il nuovo processo speciale va inserito nella cornice del processo del lavoro». 5 Conformi: L. DE ANGELIS, op. cit., 11; A. BOLLANI, Il rito speciale in materia di licenziamento, in M. MAGNANI-M. TIRABOSCHI (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffré, 2012, 315; L. CAVALLARO, La riforma cd. Fornero: questioni processuali, Relazione all’incontro di studi “La tutela del lavoratore tra novità normative e revirements giurisprudenziali”, Agrigento, 21 settembre 2012, pag. 3 del dattiloscritto; G. PACCHIANI PARRAVICINI, Il nuovo art. 18 st. lav.: problemi processuali e sostanziali, in Mass. giur. lav., 2012, 755. Contra, senza motivazione, C. CONSOLO-D. RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr. giur., 2012, 735. 5 processuali che, come già segnalato, presentano qualche tratto in comune con quello di cui qui ci stiamo occupando. Così, non rileva segnalare che, con riferimento al procedimento sommario di cognizione, la giurisprudenza sembra propensa a riconoscere al ricorrente la facoltà – da esercitare prima della pronuncia dell’ordinanza istruttoria – di chiedere ed ottenere la conversione del rito da sommario ad ordinario6. È agevole, infatti, rilevare come l’ordinamento preveda la piena facoltatività – per la parte attrice – della scelta per il rito sommario di cognizione, scelta che invece, come detto, non è riconosciuta dalla legge n. 92 del 2012 al lavoratore che intenda impugnare il licenziamento, onde il problema si pone in termini del tutto diversi nei due casi. È inutile anche volgere lo sguardo al procedimento di repressione della condotta antisindacale. Invero, anche in questo caso, l’associazione sindacale è del tutto libera di proporre un’azione ordinaria a tutela del proprio diritto; conseguentemente, non ha alcun senso chiedersi se essa possa introdurre un procedimento ex art. 28 legge n. 300 del 1970 iniziando dalla fase di giudizio (quella di opposizione al decreto) che, come detto, coincide con quella che il sindacato può comunque promuovere (con un ordinario ricorso) senza necessità di invocare la tutela sommaria ed urgente assicurata dalla norma statutaria. Volendo dunque concentrare l’attenzione sulle specificità della disciplina nel nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti, il ragionamento deve necessariamente prendere le mosse dall’individuazione delle differenze tra la prima e la seconda fase nelle quali si articola il giudizio di primo grado. Come si vedrà più ampiamente nel prosieguo dell’esposizione, la diversità risiede essenzialmente nella qualità della cognizione del giudice, nel senso che, nella fase “urgente”, il giudice deve pervenire ad un giudizio di mera verosimiglianza e probabilistico circa i fatti rilevanti per la decisione della lite; invece, nel giudizio di opposizione, la cognizione è piena ed approfondita. È del tutto evidente, poi, che una istruttoria superficiale se, da un lato, consente di ridurre i tempi di durata del procedimento, dall’altro offre alle parti minori garanzie circa la corrispondenza del giudizio espresso dal giudice alla verità materiale. In questo contesto, il comune consenso delle due parti ad omettere la prima fase equivale, in sostanza, alla preventiva manifestazione della loro indisponibilità ad accettare l’esito sfavorevole della cognizione superficiale dei fatti di causa ovvero, per dirla diversamente, costituisce l’espressione anticipata della loro volontà di sottoporre i fatti controversi al più completo ed approfondito accertamento istruttorio consentito dall’ordinamento, accertamento che esse ritengono imprescindibile per la piena attuazione del diritto ad agire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi assicurato a tutti dall’art. 24 della Costituzione. Ora, se si considera che una simile volontà è sicuramente tutelata anche dalla disciplina dettata dalla legge n. 92 del 2012 (la quale prevede, appunto, la facoltà di impugnare l’ordinanza a cognizione sommaria), negare alle parti, che hanno espresso il loro comune intento sul punto, la possibilità di anticipare il momento di svolgimento di un accertamento di questo tipo sembra consentito solamente se tale anticipazione (e, cioè, l’omissione della prima fase “urgente”) comporti la lesione di qualche interesse, superiore alle parti stesse, tutelato dall’ordinamento. A ben guardare, non pare che nella vicenda in esame sia ravvisabile un pregiudizio del genere. In effetti, l’omissione della prima fase del giudizio di primo grado, in primo luogo, non produce alcuna conseguenza sul regolare andamento dell’attività degli uffici giudiziari. Invero, da un lato, essa non altera la distribuzione degli affari tra gli uffici giudiziari, essendo comunque rispettate le regole in tema di competenza per materia e per territorio; dall’altro non è suscettibile di determinare alcun incremento di contenzioso, anzi, semmai, potrebbe avere effetti opposti, considerato che la singola controversia darebbe luogo, in primo grado, ad un solo giudizio invece che due (quello della fase “urgente” e quello della fase di opposizione). In secondo luogo, non si determina alcun allungamento dei tempi, perché, posto che le parti hanno comunque mostrato l’intenzione di addivenire al giudizio a cognizione piena, la scelta di saltare la fase a cognizione 6 Così Trib. Varese, 4 aprile 2011, in www.ilcaso.it. 6 superficiale può comportare solamente una riduzione del tempo necessario per l’emanazione della sentenza che definisce il giudizio di primo grado. Né è possibile sostenere che la scelta delle parti comprometterebbe la coerenza del modello processuale articolato dal legislatore del 2012 e, in particolare, lo scopo da quest’ultimo perseguito. Infatti, se è vero, come segnalato, che il legislatore ha individuato nella riduzione dei tempi necessari perché la magistratura si pronunci sulla legittimità dei licenziamenti non accettati dai lavoratori un obiettivo funzionale al successo del più ampio disegno riformatore mirante alla crescita economica ed alla creazione di occupazione, è anche vero che tale obiettivo è comunque condizionato – anche ove si rispettino tutte le articolazioni del meccanismo processuale ideato dal legislatore – dalle iniziative adottate dalle parti protagoniste delle singole controversie; a queste ultime, infatti, è conservata intatta la facoltà di prolungare la controversia fino al giudizio di cassazione, non essendo stato limitato in alcuna maniera né il potere di ricorrere contro la pronuncia di primo grado, né quello di ricorrere in cassazione; in sostanza, anche alle parti delle cause di impugnazione dei licenziamenti, sono attribuite le medesime facoltà riconosciute alle parti di una qualsiasi causa di lavoro e il cui esercizio incide in maniera drastica sulla durata complessiva della controversia. Altri sono, come si vedrà, gli accorgimenti adottati dal legislatore per assicurare il risultato finale della contrazione dei tempi processuali (essenzialmente: la deformalizzazione della trattazione della causa, sia in primo, sia in secondo grado, e la previsione di una corsia preferenziale per le cause di licenziamento) e sulla loro efficacia non incide in alcuna maniera la scelta di saltare la prima fase del giudizio di primo grado. In conclusione, non sembra che esistano serie ragioni per escludere che, consenzienti entrambe le parti, la causa a partire da quello che, nel modello processuale previsto dal legislatore, è il giudizio di opposizione all’ordinanza conclusiva della prima fase. Quanto, poi, alle modalità attraverso le quali tale volontà si può manifestare nel processo, si rinvia a quanto si dirà nel paragrafo 11. 2. Ambito di applicabilità. 2.1. I licenziamenti la cui impugnazione è soggetta al nuovo rito. – Come detto, la nuova procedura riguarda le controversie aventi ad oggetto «l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni». Il chiaro tenore letterale della disposizione non consente dubbi sul fatto che il rito speciale si applica quale che sia, tra le tutele contro i licenziamenti illegittimi disciplinate dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, quella invocata dal lavoratore. Pertanto sono soggetti al nuovo procedimento non solamente i ricorsi diretti ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, ma anche quelli con i quali il lavoratore richieda solamente l’indennità risarcitoria prevista dai nuovi commi quinto e sesto dell’art. 18. Analoga conclusione vale per il caso in cui, nel proprio ricorso, il lavoratore, deducendo l’esistenza di uno dei vizi che, secondo la nuova versione della norma statutaria, dà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, eserciti la facoltà di opzione per l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità e chieda esclusivamente la condanna del datore di lavoro al pagamento di tale emolumento (non dovrebbero nutrirsi dubbi circa la possibilità per il lavoratore di esercitare la predetta opzione già nel ricorso ex art. 1, comma 47, della legge n. 92 del 2012, il testo del nuovo terzo comma dell’art. 18 non contenendo novità idonee a smentire le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza, con riferimento alla precedente versione della disposizione, circa l’efficacia dell’opzione per l’indennità sostitutiva esercitata dal lavoratore prima della pronuncia della sentenza che dispone la reintegrazione nel posto di lavoro7). 7 V. Cass., 25 gennaio 2011, n. 1690 (in un caso in cui l’opzione era stata esercitata nel ricorso cautelare); Cass., 28 novembre 2006, n. 25210, in Notiz. giur. lav., 2007, 206. 7 Non altrettanto vale, invece, per i ricorsi diretti ad ottenere la concessione di altre forme di tutela contro i licenziamenti viziati, come, ad esempio, quella prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 oppure quella stabilita nei contratti collettivi per il licenziamento ingiustificato del dirigente o, ancora, la concessione dell’indennità sostitutiva del preavviso in caso di licenziamento in tronco intimato nell’area della recedibilità ad nutum rispetto al quale si accerti l’insussistenza della giusta causa (diverso è il problema dell’ammissibilità di simili domande se proposte in via subordinata alla domanda principale di tutela ex art. 18, sul quale si veda quanto detto infra). Poiché ai licenziamenti collettivi illegittimi si applicano le tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (anche a quelli intimati dopo l’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, che ha cura di individuare, tra gli apparati sanzionatori contemplati dalla nuova versione della norma statutaria, quello applicabile ad ogni singolo tipo di vizio: v. art. 1, comma 46), anche le impugnazioni di tali recessi datoriali rientrano nell’àmbito di applicabilità del nuovo procedimento8. Del resto, le esigenze di certezza e concentrazione dei tempi processuali che ispirano la nuova disciplina processuale sussistono nella medesima intensità tanto se si tratta dell’impugnazione di un licenziamento individuale, quanto nell’ipotesi di impugnazione di un licenziamento collettivo. In considerazione della disposizione transitoria espressa dall’art. 1, comma 67, e secondo la quale «i commi da 47 a 66 si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge», si deve ritenere che, a decorrere dal 18 luglio 2012, debbono essere proposte secondo il nuovo rito tutte le impugnazioni giudiziali di licenziamenti, anche quelle relative a licenziamenti intimati prima di quella data, e tuttavia a condizione che si applichi il regime previsto dal testo dell’art. 18 precedente alla novella del 2012. In effetti, questo è un punto che merita di essere rimarcato: condizione affinché l’impugnazione di un qualsiasi licenziamento (indipendentemente dal fatto che sia stato intimato prima o dopo il 18 luglio 2012) sia soggetta al nuovo rito è il fatto che il recesso illegittimamente adottato dal datore di lavoro sia sanzionato con una delle misure previste dall’art. 18 nel testo di tale norma applicabile ratione temporis. Con la conseguenza che, se un licenziamento illegittimo risalente ad epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 non rientra tra quelli ai quali, secondo l’art. 18 all’epoca vigente, si applicava la tutela reale, la sua impugnazione andrà proposta seguendo le comuni regole del rito codicistico del lavoro, anche se quella stessa fattispecie sia oggi compresa tra quelle sanzionate dal nuovo testo dell’art. 18. L’esempio più notevole, in proposito, è costituito dal licenziamento orale intimato, prima del 18 luglio 2012, da un datore di lavoro che occupava meno di 16 dipendenti: non rientrando tale fattispecie di licenziamento illegittimo nella sfera di applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo vigente all’epoca del compimento dell’atto, la sua impugnazione, diretta ad ottenere la tutela di diritto comune, deve essere proposta seguendo la disciplina dettata dagli artt. 409 ss. c.p.c., a nulla rilevando il fatto che, a seguito della novella del 2012, quella fattispecie dia luogo, oggi, all’applicazione di una delle tutele previste dall’art. 18 (v., infatti, il nuovo primo comma di tale norma)9. 8 Conforme L. CAVALLARO, op. cit., 2. Diversa è l’impostazione di L. CAVALLARO, op. cit., 1, secondo il quale il nuovo testo dell’art. 18 funziona «come norma processuale, preordinata all’individuazione delle controversie che vi debbono essere assoggettate: le quali saranno tutte (e solo) quelle per le quali la nuova versione dell’art. 18 St. lav. prevede l’applicazione di qualcuna delle sanzioni ivi previste per il caso d’invalidità del licenziamento, indipendentemente dal fatto che poi, in concreto, tale disciplina sia applicabile ratione temporis». La tesi non sembra persuasiva: in primo luogo, essa è poco coerente con il tenore letterale del comma 47 che fa riferimento alle impugnative dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 «e successive modificazioni», con ciò mostrando chiaramente di volersi riferire alle controversie concernenti la legittimità di recessi datoriali ai quali si applica la norma dello Statuto dei lavoratori in una qualsiasi delle sue versioni succedutesi nel corso del tempo; in secondo luogo, essa introduce un elemento di disarmonia nel disegno del legislatore (mirante chiaramente a riservare il nuovo procedimento processuale ai licenziamenti ricadenti nell’àmbito di applicabilità di qualcuna delle tutele assicurate dall’art. 18), ricomprendendo senza alcuna ragione sistematica tra le cause soggette al nuovo rito anche alcune categorie di quelle nelle quali non si deve discutere affatto dell’applicazione della predetta norma statutaria. 9 8 Il regime processuale introdotto dal legislatore del 2012 non si applica, poi, alle cause già instaurate alla data del 18 luglio 2012, neppure per i gradi di giudizio promossi successivamente a tale data. Infatti, la citata norma transitoria del comma 67 fa esplicito riferimento alle «controversie» instaurate dopo l’entrata in vigore della legge n. 92 ed è indubbio che una causa che, a quella data, risultasse già pendente in primo o secondo grado sia una controversia «già instaurata», onde l’impugnazione contro la relativa sentenza (pronunciata dopo il 18 luglio 2012) va proposta secondo le ordinarie regole dell’appello ex artt. 433 ss. c.p.c. e del ricorso per cassazione ex artt. 360 ss. c.p.c., senza possibilità di integrare queste discipline codicistiche con quella dettata, per quei gradi di giudizio, dai commi 58-66 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012. Meno agevole è la soluzione della questione dell’applicabilità del nuovo rito alle impugnazioni dei licenziamenti irrogati ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni il cui rapporto di lavoro sia stato contrattualizzato. In effetti, a norma del comma 7 dell’art. 1 della legge n. 92, «le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono princìpi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo». Ai sensi del successivo comma 8, poi, «ai fini dell’applicazione del comma 7» il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione «individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche». Il problema sta nello stabilire se le disposizioni della legge n. 92 la cui applicabilità ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è condizionata all’adozione, da parte del Ministro per la pubblica amministrazione, delle iniziative di cui al citato comma 8 siano tutte quelle contenute nella legge (e, dunque, anche quelle relative al nuovo procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti) ovvero solamente quelle aventi ad oggetto la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro. Nel primo senso depone il riferimento, senza alcuna eccezione, alle «disposizioni della presente legge» con il quale si apre il comma 7; nel secondo la qualificazione – espressa subito dopo dallo stesso comma – di quelle disposizioni come princìpi e criteri «per la regolazione dei rapporti di lavoro». Pur nella consapevolezza del fatto che la formulazione dei commi 7 ed 8 è tale da rendere opinabile qualsiasi proposta interpretativa, si ritiene preferibile la seconda delle opzioni enunciate. Effettivamente, oltre al già segnalato dato testuale che sembra restringere l’area delle disposizioni non immediatamente applicabili a quelle idonee a costituire principi regolativi dei rapporti di lavoro, si deve aggiungere la considerazione, di natura sistematica, secondo la quale, rispetto alla disciplina processuale dettata dai successivi commi 47-69, non sembra concepibile riconoscere uno spazio di intervento al Ministro per la pubblica amministrazione per interventi di «armonizzazione». In altri termini, l’estraneità delle norme processuali alla disciplina transitoria di cui ai commi 7 e 8 sembra confermata sia dal tenore letterale di quest’ultima, sia dalla sua incompatibilità “ontologica” con una normativa di natura processualcivilistica, per sua natura tendenzialmente uniforme per tutte le controversie aventi ad oggetto rapporti contrattuali della stessa natura (altrimenti detto: mentre è comprensibile che il recesso della pubblica amministrazione sia regolato da norme diverse da quelle che disciplinano l’analogo atto dei datori di lavoro privati10, non altrettanto può dirsi a proposito della disciplina processuale delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti11. Il fatto che, seguendo l’impostazione qui propugnata, finiscono con l’essere regolate dai commi 47-69 dell’art. 1 della legge n. 92 anche impugnazioni di licenziamenti (come quelli intimati ai dipendenti pubblici) ancora soggetti (fino all’adozione dei provvedimenti previsti dal comma 8) 10 E, infatti, così è sempre stato. Ci si permette, al riguardo, di rinviare a P. SORDI, Licenziamenti/IV) Impiego pubblico privatizzato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2002. 11 E, infatti, nonostante le profonde differenze di disciplina sostanziale tra rapporto di lavoro subordinato nel settore privato e impiego pubblico “contrattualizzato”, la disciplina processuale è sempre stata uniforme, salvo che per aspetti del tutto marginali (v. artt. 413, quinto comma, e 417-bis, c.p.c.). 9 all’art. 18 nel testo precedente a quello riformato dal legislatore del 2012, non costituisce un ostacolo all’accoglimento della tesi. Si è già visto, infatti, come il nuovo rito processuale si applichi comunque a controversie aventi ad oggetto la legittimità di licenziamenti intimati prima del 18 luglio 2012 e, quindi, disciplinati dal precedente testo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970. L’applicazione della nuova procedura è condizionata, dunque, dall’oggetto della domanda così come prospettata dal ricorrente. Può darsi che costui invochi una delle tutele ex art. 18 deducendo una fattispecie sostanziale alla quale quelle tutele sono sicuramente estranee. Può farsi, al riguardo, il caso del lavoratore assunto a termine che, eccependo la nullità del termine, chieda la conversione del rapporto e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Quest’ultima domanda – seppur chiaramente infondata in diritto – è altrettanto sicuramente ammissibile anche se proposta seguendo il nuovo rito speciale (ovviamente dovrà essere rigettata dal giudice senza necessità di alcuna attività istruttoria circa la validità o meno del termine apposto al rapporto)12. Analoga conclusione vale nel caso in cui il lavoratore assunto in prova invochi l’applicazione dell’art. 18 deducendo l’illegittimità del recesso, per l’inadeguata durata della prova o l’esistenza di un motivo illecito, ipotesi nella quale la giurisprudenza di legittimità esclude l’applicabilità della norma statutaria13. O, ancora, nell’ipotesi in cui il lavoratore, deducendo un vizio delle dimissioni da lui rassegnate, chieda la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, tutela appunto inapplicabile a tale fattispecie. 2.2. Le azioni di accertamento promosse dal datore di lavoro. – Com’è noto, si ammette che, tutte le volte in cui ricorra il necessario interesse ad agire, il datore di lavoro possa promuovere un giudizio chiedendo l’accertamento della legittimità del proprio recesso14 (e addirittura anche che il datore di lavoro, ancor prima di recedere dal rapporto, possa chiedere che determinati comportamenti posti in essere dal lavoratore integrino gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento15). Tali domande, che, in generale, restano ammissibili anche dopo l’introduzione, da parte del legislatore, di uno specifico rito per le controversie in materia di licenziamenti, continueranno a dover essere proposte secondo le comuni regole dettate dagli artt. 409 ss. c.p.c. Infatti il nuovo rito è previsto espressamente per le sole cause aventi ad oggetto «l’impugnativa» dei licenziamenti (art. 1, commi 47 e 48) e tali non possono essere definite le menzionate azioni di accertamento promosse dallo stesso datore di lavoro16. Ovviamente, non si può escludere che, in simili casi, il lavoratore convenuto in giudizio proponga a sua volta domanda riconvenzionale diretta ad ottenere, previa declaratoria dell’illegittimità del licenziamento, l’applicazione di qualcuna delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Tuttavia questa eventualità non sembra che possa rappresentare un valido motivo per discostarsi dall’inequivoco tenore letterale della norma che, come detto, riserva il nuovo rito alle sole azioni di impugnazione dei licenziamenti. 2.3. Il fallimento del datore di lavoro. – Circa i rapporti con la competenza del Tribunale fallimentare stabilita dall’art. 24 del r.d. 16 marzio 1942, n. 267, va ricordato come, prima dell’introduzione del nuovo rito per l’impugnativa dei licenziamenti, la giurisprudenza di legittimità 12 Conforme A. VALLEBONA, La riforma del lavoro, Giappichelli, 2012, 73. Cass., 17 novembre 2010, n. 23231; Cass., 18 novembre 1995, n. 11934. 14 Cass., 9 maggio 2012, n. 7096; Cass., 14 luglio 1998, n. 6891; Cass., 15 gennaio 1996, n. 279, in Giur. it., 1996, I, 1, 1054. 15 Cass., 26 maggio 1993, n. 5883, in Giust. civ., 1993, I, 2661. 16 Contra, L. DE ANGELIS, op. cit., 14, sulla base della considerazione che, secondo la giurisprudenza di legittimità, simili azioni sono proponibili dal datore di lavoro a condizione che il licenziamento sia stato impugnato; l’argomento non sembra pertinente, poiché in questi casi si tratta dell’impugnazione (ritenuta dalla giurisprudenza necessaria perché possa considerarsi sussistente l’interesse ad agire del datore di lavoro) stragiudizialmente proposta dal lavoratore e l’unica azione giudiziale che si riscontra è quella del datore di lavoro che, come detto nel testo, non può essere in alcuna maniera essere qualificata come «impugnativa di licenziamento». 13 10 affermava la persistente competenza del giudice del lavoro a decidere della domanda del lavoratore diretta ad ottenere, previa dichiarazione dell’illegittimità o dell’inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, in quanto tale domanda non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull’interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all’interno dell’impresa fallita, sia per l’eventualità della ripresa dell’attività lavorativa (conseguente all’esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell’azienda, o a un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, ed i diritti previdenziali, estranei all’esigenza della par condicio creditorum17. È evidente che la nuova articolazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo propria dell’attuale versione dell’art. 18 impone qualche precisazione al riguardo. In effetti, l’applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza ora richiamata dovrebbe comportare il riconoscimento della persistente competenza del giudice del lavoro a conoscere della domanda di reintegrazione nel posto di lavoro; spetterebbe invece al tribunale fallimentare la competenza a decidere sulle domande aventi ad oggetto la concessione della semplice tutela indennitaria o comunque il pagamento delle retribuzioni conseguenti al licenziamento illegittimo, tutti casi in cui l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento costituisce solo la premessa logico-giuridica della decisione relativa al pagamento delle somme spettanti al lavoratore. Il problema scaturente dalla nuova articolazione del sistema di tutela contro il licenziamento illegittimo sta, evidentemente, nel fatto che – contrariamente al regime previgente – il tipo di vizio riconosciuto dal giudice non è indifferente rispetto al titolo di tutela da accordare al lavoratore, il quale, pertanto, potrà essere costretto – anche al fine di evitare il maturare della decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966 – ad impugnare il medesimo recesso datoriale sia davanti al giudice del lavoro (denunciando in quella sede qualcuno dei vizi previsti dai commi primo, secondo, terzo, quarto e settimo, primo e secondo periodo, dell’art. 18, ovvero del comma 5, primo e terzo periodo, della legge 23 luglio 1991, n. 223), sia davanti al tribunale fallimentare (facendo valere qualcuno degli altri vizi indicati nelle due predette norme). 2.4. Le questioni relative alla qualificazione del rapporto. – Il citato comma 47 precisa che il nuovo rito deve essere esperito anche nei casi in cui, per decidere sulla domanda relativa all’impugnativa del licenziamento, «devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro». La norma, evidentemente, intende riferirsi ai casi in cui, a fronte di una qualificazione formale del rapporto come lavoro autonomo18, il prestatore ne deduca la natura subordinata e su tale presupposto qualifichi il recesso della controparte come licenziamento soggetto all’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Ci si può chiedere se rientri in tale ipotesi anche il caso in cui il lavoratore somministrato denunci l’irregolarità della somministrazione ai sensi dell’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Che in questa fattispecie non si ponga una questione di qualificazione del rapporto (pacificamente di natura subordinata, indipendentemente dalla regolarità o meno della somministrazione) è constatazione tanto esatta quanto ininfluente al fine di verificare l’applicabilità o meno del nuovo rito, posto che ciò che è decisivo è il tipo di domanda formulata dal lavoratore: se è chiesta l’applicazione di una delle tutele previste dall’art. 18, il ricorso ex legge n. 92 sarà ritualmente proposto (anche se eventualmente infondato), in caso contrario, no. E tale conclusione vale, più in generale, in tutti i casi in cui si faccia questione di imputazione del rapporto di lavoro (come, ad esempio, quando il lavoratore deduca che il rapporto, formalmente imputato ad un’azienda, in realtà deve essere ricondotto ad un gruppo di imprese). 17 Cass., 29 marzo 2011, n. 7129; Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, in Giust. civ., 2007, I, 12349; Cass., 27 febbraio 2004, n. 4051, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 242. 18 O altre simili fattispecie, come quella del fittizio contratto di associazione in partecipazione. 11 Al riguardo è importante sottolineare come la norma non parli di “domande” relative alla qualificazione del rapporto, bensì di “questioni”. Ciò dovrebbe indurre a ritenere che, anche in simili casi, la domanda sul merito della quale, nel giudizio regolato dal nuovo rito, il giudice può pronunciare è pur sempre solamente quella relativa alla pretesa illegittimità del licenziamento e alle conseguenze di tale illegittimità. Così come dovrebbe ritenersi che il lavoratore, nella controversia soggetta al nuovo rito, possa formulare esclusivamente tali domande, onde se, nel ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, il prestatore proponga anche una domanda diretta ad ottenere una pronuncia di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con l’impresa, il giudice dovrà dichiararla inammissibile19. In sostanza, quella della natura giuridica del rapporto tra le parti è solamente una delle tante questioni che il giudice dovrà risolvere per pervenire alla decisione su quella che resta l’unica domanda sul merito della quale egli può statuire e, cioè, la domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento. Ed allora, nel caso in cui il Tribunale, pur convincendosi – nonostante la diversa qualificazione sostenuta dall’azienda – della natura subordinata delle prestazioni di lavoro eseguite dal ricorrente, concluda tuttavia per la legittimità del recesso datoriale, l’unica pronuncia che potrà emettere sarà quella del rigetto del ricorso, senza possibilità di statuire alcunché circa la natura del rapporto. 2.5. Le domande fondate sugli identici fatti costitutivi. – Il comma 48, peraltro, dispone che con il ricorso possono essere proposte, oltre alle domande relative all’impugnativa del licenziamento, anche quelle «che siano fondate sugli identici fatti costitutivi». Occorre pertanto precisare cosa debba intendersi per «identici fatti costitutivi» e, in particolare, se il citato comma 48 consenta di proporre solamente le domande che annoverino nella loro fattispecie costitutiva tutti i fatti costitutivi della domanda diretta ad ottenere la concessione della tutela di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 azionata dal lavoratore nel proprio ricorso oppure se siano ammissibili anche le domande nella cui fattispecie costitutiva rientrino (non tutti, ma) solamente alcuni dei fatti costitutivi della domanda di impugnativa del licenziamento. Ad esempio, il lavoratore che deduca che il rapporto intercorso con l’azienda, formalmente qualificato come autonomo, avesse invece natura di lavoro subordinato e che il recesso della controparte (da qualificare conseguentemente come licenziamento) fosse privo di giusta causa e di giustificato motivo, può proporre, contestualmente alla domanda diretta ad ottenere una delle tutele previste dall’art. 18, anche una domanda di condanna dell’azienda al pagamento della tredicesima mensilità e del t.f.r., domande fondate appunto sulla natura subordinata delle prestazioni lavorative da lui eseguite? Tra i fatti costitutivi di queste altre domande rientrano non tutti quelli sui quali si fonda l’impugnativa di licenziamento (rappresentati da: pregresso rapporto di lavoro subordinato, recesso dal rapporto da parte dell’imprenditore, vizio di tale recesso), ma solamente uno di essi (il pregresso rapporto di lavoro subordinato). È evidente, dunque, che la risposta all’interrogativo circa l’ammissibilità o meno di simili domande sarà diversa a seconda che si ritenga che l’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, nel pretendere l’identità dei fatti costitutivi, richieda che la domanda diversa da quella di impugnativa del licenziamento comprenda, tra i suoi fatti costitutivi, tutti quelli sui quali si fonda l’impugnativa del recesso datoriale, ovvero che sia sufficiente che ne ricorra almeno uno. Orbene, si deve riconoscere che probabilmente la formulazione letterale della disposizione («identici» fatti costitutivi) potrebbe giustificare la soluzione maggiormente rigorosa, quella, cioè, che ammette solamente le domande che annoverino tra i propri fatti costitutivi tutti e solamente 19 Nel senso che, invece, il lavoratore possa proporre una vera e propria domanda di accertamento della natura subordinata del rapporto, tutte le volte in cui essa sia strumentale alla richiesta di applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, D. BORGHESI, op. cit., 912. 12 quelli sui quali si fonda la domanda con la quale il lavoratore chiede l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 197020. Però una simile impostazione finisce per sacrificare oltre ogni ragionevole limite le più elementari esigenze di economia processuale. Si pensi al caso in cui il ricorrente chieda l’applicazione di qualcuna delle tutele contemplate dai commi dal quarto al settimo dell’art. 18 e, in via subordinata – ove non risultasse l’esistenza del requisito dimensionale previsto dall’ottavo comma dello stesso art. 18 – la concessione della tutela di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966; in un simile caso, il giudice che, pur riconoscendo l’esistenza del vizio del licenziamento denunciato dal lavoratore, ritenga che l’impresa occupi meno di sedici dipendenti, non potrebbe emanare i provvedimenti previsti dall’art. 8 della legge n. 604 appunto perché – ove si dovesse ritenere che, a seguito della riforma dell’art. 18, il requisito dimensionale sia divenuto fatto costitutivo del diritto del lavoratore illegittimamente licenziato ad una delle tutele in oggetto – la relativa domanda sarebbe inammissibile in quanto non fondata su tutti i fatti costitutivi di quella svolta ex art. 18 legge n. 300 del 1970 (difettando, appunto, quello rappresentato dal requisito dimensionale). Maggiormente convincente è, pertanto, un’interpretazione dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, che contemperi adeguatamente le due esigenze in gioco: da un lato, come detto, quella di evitare uno spreco di attività processuale, dall’altro, quella di tener ferma la ratio fondamentale del nuovo rito, che è quella di fornire una risposta più tempestiva possibile alle questioni connesse con la legittimità o illegittimità di un licenziamento non accettato dal dipendente. In questa prospettiva non è sostenibile neppure un’impostazione che consenta la proposizione, nel nuovo procedimento delineato dal legislatore del 2012, di qualsiasi domanda (diversa da quella relativa alle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970) che comprenda, tra i propri fatti costitutivi, anche uno soltanto dei fatti sui quali si fonda la domanda ex art. 18. In questa maniera, infatti, l’oggetto del giudizio sarebbe suscettibile di ampliamenti tali da coincidere, o quasi, con l’intera gamma delle controversie ipotizzabile a proposito di un rapporto di lavoro cessato ad iniziativa del datore di lavoro. Con il rischio, facilmente pronosticabile, dell’impossibilità – anche per gli uffici giudiziari maggiormente virtuosi – di rispettare i termini processuali previsti dal legislatore e la compromissione dell’obiettivo principale perseguito mediante l’introduzione del nuovo rito. Si aggiunga che contro l’interpretazione che si contesta depone anche la disposizione dell’art. 1, comma 65, della legge n. 92 del 2012 (sulla quale v., infra, n. 13) a norma della quale alla trattazione delle controversie in oggetto debbono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze. È evidente, infatti, che una simile previsione presuppone che la categoria di cause destinatarie della “corsia preferenziale” sia composta da un numero ristretto di controversie, pena la sua sostanziale inutilità. Orbene, al fine di individuare la soluzione maggiormente soddisfacente, si potrebbe prendere le mosse dalla constatazione che i fatti costitutivi delle domande che invocano l’applicazione dell’art. 18 nella versione introdotta dalla legge n. 92 del 201221 possono essere ricondotti a due categorie: da un lato, quelli che sono costitutivi di ognuna delle quattro forme di tutela (cc.dd. “reintegrazione piena”, “reintegrazione attenuata”, “tutela indennitaria forte”, “tutela indennitaria debole”) previste dall’art. 18, dall’altro quelli che sono costitutivi solamente di uno (o alcuni) di quei quattro tipi di tutela. Il primo dei predetti due gruppi di fatti costitutivi è composto da (1) la sussistenza di un pregresso rapporto di lavoro subordinato e (2) un recesso datoriale 20 Secondo L. DE ANGELIS, op. cit., 14, deve ritenersi insufficiente «una identità solo parziale dei fatti costitutivi». È vero che, come detto in precedenza nel testo, il nuovo rito per l’impugnativa dei licenziamenti deve essere seguito anche in caso di impugnazione di recessi datoriali precedenti al 18 luglio 2012 e ai quali, quindi, si applica (non l’attuale, bensì) la vecchia versione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Tuttavia il discorso verrà svolto con riferimento al nuovo testo della norma statutaria, essendo l’applicazione della precedente testo destinata a divenire sempre più residuale con l’andar del tempo, fino a scomparire del tutto tra non molto. Si vedrà, comunque (infra, nota 23), come la soluzione raggiunta rispetto al vigente testo dell’art. 18 sia applicabile anche alle controversie relative ai licenziamenti risalenti ad epoca precedente all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012. 21 13 viziato; invero, questi due fatti sono richiesti dall’ordinamento perché possa essere accordata una qualunque tra le quattro tutele contemplate dall’art. 18; mancando uno di essi, nessuna di quelle tutele può aver corso. Al secondo gruppo appartengono, invece, quei fatti che sono richiesti esclusivamente per l’applicazione di una o più (e, comunque, non tutte) di quelle tutele. Ad esempio: il motivo illecito determinante o gli altri motivi di nullità di cui al primo comma (richiesti esclusivamente per la concessione della tutela reintegratoria piena); l’insussistenza del fatto contestato o la previsione dello stesso fra le mancanze punibili con una sanzione conservativa (previsto soltanto per la “reintegrazione attenuata”); il requisito dimensionale di cui all’ottavo comma dell’art. 18 (necessario solamente per le tutele di cui ai commi dal quarto al settimo); e così via22. Ed allora potrebbe ritenersi che i fatti costitutivi che debbono essere «identici» siano solamente quelli appartenenti alla prima delle due categorie sopra menzionate. Vale a dire che con il ricorso ex art. 1, comma 48, legge n. 92 del 2012 con il quale il lavoratore impugna il licenziamento, egli potrà proporre anche le domande che, al pari di quelle ex art. 18 legge n. 300 del 1970, riconoscano tra i propri fatti costitutivi sia il preesistente rapporto di lavoro subordinato, sia l’illegittimità del licenziamento23; ciò pur se la fattispecie costitutiva di tali ulteriori domande, da un lato, comprenda anche fatti ulteriori rispetto a quelli richiesti per la concessione delle tutele previste dall’art. 18 e, dall’altro, non includa tutti gli altri fatti costitutivi della domanda svolta dal ricorrente in riferimento all’art. 18 (cioè quelli ulteriori rispetto alla preesistenza di un rapporto di lavoro subordinato e al licenziamento viziato). Ad esempio, debbono essere considerate ammissibili ex art. 1, comma 48, legge n. 92 del 2012: la domanda, proposta in via subordinata, di concessione della tutela di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966 in caso di mancato accertamento del requisito dimensionale stabilito per l’applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 197024; la domanda di risarcimento dei danni ulteriori 22 Deve pertanto essere rimeditata la massima giurisprudenziale secondo cui fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento siano esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo (Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, in Giust. civ., 2007, I, 1239, seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità). Tale impostazione, infatti, era coerente con un sistema di tutela contro il licenziamento illegittimo (quello proprio dell’originaria versione dell’art. 18) caratterizzato dal fatto che le conseguenze erano le stesse (il diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività di cui parla la massima citata) quale che fosse il vizio che affliggesse il recesso datoriale. Non altrettanto può dirsi a proposito del sistema di tutele attualmente vigente, in base al quale sono individuabili quattro “diritti soggettivi” (tra loro alternativi) del lavoratore illegittimamente licenziato, ognuno dei quali deve dunque avere una sua propria specifica fattispecie costitutiva idonea a distinguerlo dagli altri. 23 Una simile conclusione è utilizzabile anche nelle controversie concernenti i licenziamenti intimati prima del 18 luglio 2012, appunto perché rispetto ad essi, la giurisprudenza affermava che i fatti costitutivi della tutela offerta dal vecchio art. 18 della legge n. 300 del 1970 sono appunto l’esistenza di un rapporto subordinato e un licenziamento viziato (v. la precedente nota 21). 24 Conformi A. VALLEBONA, op. cit., 73; L. CAVALLARO, op. cit., 7. In proposito si può anzi ricordare come, secondo la giurisprudenza formatasi nel previgente regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi, proposta dal lavoratore una domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, tale petitum doveva ritenersi comprensivo di quello concernente il riconoscimento della minore tutela di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966, con la conseguenza che non violava il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato la sentenza con la quale il giudice, ritenendo carenti le condizioni per l’operatività dell’invocata tutela reale, condannava il datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore o, in alternativa, a corrispondergli l’indennità di cui al citato art. 8 (Cass., 9 settembre 1991, n. 9460). In un’analoga prospettiva, si è affermato, in tema di inefficacia del licenziamento, che, se il dipendente illegittimamente licenziato aveva chiesto l’applicazione dell'art.18 della legge n. 300 del 1970, e quindi anche il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno in cui il licenziamento ha trovato attuazione, il giudice, accertato che non sussistono i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, doveva accordare, sussistendo i relativi presupposti, la tutela in tal caso applicabile (dichiarazione di inefficacia del licenziamento e risarcimento del danno), essendo tale tutela omogenea e di ampiezza minore rispetto a quella prevista dall’art. 18 (Cass., 11 settembre 2003, n. 13375, in Foro it., 2003, I, 3321). Ovvero che non era ravvisabile mutamento della causa petendi nell’ipotesi in cui il dipendente che aveva impugnato il licenziamento, deducendone la illegittimità per mancanza di giustificato motivo, proponeva con ricorso introduttivo domanda di tutela reale, mentre, in sede di precisazione delle conclusioni, richiedeva quella obbligatoria, in quanto, in detta ipotesi, il 14 (ad esempio, alla salute o all’onore) rispetto a quelli che debbono ritenersi coperti dalle indennità risarcitorie contemplate dai commi dal quarto al settimo dell’art. 1825; la domanda del dirigente volta ad ottenere l’indennità prevista dal contratto collettivo per ingiustificatezza del licenziamento e proposta subordinatamente al mancato accoglimento della domanda di reintegrazione per la natura discriminatoria del recesso datoriale; la domanda, formulata in via subordinata rispetto a quella principale di illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa, diretta alla condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, previa la riqualificazione del recesso datoriale come licenziamento per giustificato motivo26. Non è invece proponibile con il ricorso ex art. 1, comma 48, la domanda diretta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento di differenze retributive, neppure se scaturenti dalla diversa qualificazione del rapporto (in termini di subordinazione invece che di autonomia, come formalmente risultante)27; né quella di pagamento del t.f.r. (considerato che il fatto costitutivo di tale credito è l’estinzione del rapporto di lavoro in sé e per sé considerata, indipendentemente dalla parte che abbia assunto l’iniziativa di risolvere il rapporto e, nel caso in cui sia stato il datore di lavoro, dalla legittimità o meno del licenziamento). Identica conclusione vale per un’altra ipotesi prospettata in dottrina, quella del lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto che impugni il licenziamento assumendo che la malattia sia stata determinata da un comportamento colposo del datore di lavoro posto in violazione dell’art. 2087 c.c. e che contestualmente proponga anche domanda di risarcimento dei danni biologico e morale; infatti, tra i fatti costitutivi di questa seconda domanda non rientra l’illegittima risoluzione del rapporto ad iniziativa del datore di lavoro28. 2.6. La contemporanea pendenza di cause aventi ad oggetto diritti del lavoratore diversi da quelli derivanti dall’illegittimità del licenziamento. – Ovviamente, mentre per le domande dirette ad ottenere la concessione delle tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 debbono necessariamente essere proposte secondo le regole del nuovo rito, l’introduzione, nella controversia regolata dalle nuove disposizioni delle domande che si fondano sugli identici fatti costitutivi rappresenta il frutto di una scelta meramente discrezionale del lavoratore, come reso evidente dal predicato verbale («possono») utilizzato. Tornando agli esempi già prospettati, nulla impedisce al lavoratore di proporre un ricorso ex legge n. 92 del 2012 deducendo che il datore di lavoro occupava più di 15 dipendenti e chiedendo solamente l’applicazione di qualcuna delle tutele previste dall’art. 18 e un altro ricorso, questa volta ai sensi dell’art. 414 c.p.c., diretto ad ottenere la concessione della tutela offerta dall’art. 8 della legge n. 604 del 196629 oppure la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno alla salute causato dal licenziamento illegittimo. Più in generale, deve dirsi che l’introduzione nell’ordinamento processualcivilistico di un rito riservato alle impugnazioni dei licenziamenti rende concreta un’eventualità che in precedenza mutamento riguardava solo gli effetti ricollegabili alla tutela richiesta da ultimo, che sono compresi in quelli cui dà luogo la tutela originariamente invocata (Cass., 27 agosto 2003, n. 12579; Cass., 19 novembre 2001, n. 14486); così come doveva ritenersi ammissibile la domanda, proposta per la prima volta in appello dal lavoratore illegittimamente licenziato, diretta ad ottenere la riassunzione ex art. 8 della legge n. 604 del 1966, ove in primo grado il lavoratore medesimo avesse proposto la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18, atteso che la prima doveva ritenersi compresa, come minus, in quest’ultima (Cass., 11 settembre 1997, n. 8906, in Foro pad., 1998, I, 10). Insomma, dalla pregressa giurisprudenza emerge con nettezza l’impostazione secondo la quale la domanda di concessione della tutela assicurata dall’art. 18 conteneva implicitamente anche quella di minore intensità prevista dall’art. 8. 25 Conformi, D. BORGHESI, op. cit., 912, e L. CAVALLARO, op. cit., 5. Contra, A. VALLEBONA, op. cit., 74. 26 Conforme, L. CAVALLARO, op. cit., 5. 27 Conforme A.VALLEBONA, op. cit., 74. Invece, nel senso dell’ammissibilità di simili domande, v. D. BORGHESI, op. cit., 912, e G. BENASSI,op. cit., 752. 28 Contra, G. BENASSI, op. cit., 753. 29 Ammesso che non si possa ancora ritenere valido il pregresso orientamento della giurisprudenza di legittimità di cui si è dato conto nella nota 22 e secondo il quale la domanda di applicazione della tutela ex art. 18 legge n. 300 del 1970 era implicitamente comprensiva della richiesta della minore tutela di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966. 15 (quando, cioè, il lavoratore poteva azionare con lo stesso ricorso sia diritti connessi all’illegittimità del licenziamento, sia qualsiasi altro diritto derivante dal rapporto di lavoro) ben difficilmente si verificava nella pratica: quella della contemporanea pendenza di due cause tra le parti di un rapporto di lavoro aventi ad oggetto rivendicazioni relative a diritti diversi scaturenti tutti da quel rapporto: una nella quale il lavoratore chiede l’applicazione di qualcuna delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, l’altra nella quale il medesimo lavoratore chiede la condanna dello stesso datore di lavoro all’adempimento di qualcuno dei debiti scaturenti dal rapporto di lavoro (pagamento di differenze retributive, compensi per lavoro straordinario, ecc.). Simili evenienze sono normalmente ricondotte dalla giurisprudenza nell’àmbito di applicabilità dell’istituto della continenza di cui all’art. 39 c.p.c. Precisamente, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, la continenza ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti e di titolo e da una differenza quantitativa dell’oggetto, ma anche quando fra le cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui sono prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte o in relazione di alternatività e caratterizzate da una coincidenza soltanto parziale delle causae petendi, nonché quando le questioni dedotte con la domanda anteriormente proposta costituiscano il necessario presupposto (alla stregua della sussistenza di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica) per la definizione del giudizio successivo, come nell’ipotesi in cui le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti derivanti dallo stesso rapporto e il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni30. Il rimedio previsto dall’art. 39, secondo comma, c.p.c., com’è noto, è quello secondo cui, se (come nelle ipotesi che qui ci interessano) il giudice preventivamente adito sia competente anche per la causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al primo giudice. L’ordinamento, cioè, predispone un meccanismo perché le cause siano concentrate davanti al medesimo giudice e si realizzi così il simultaneus processus. Orbene, la norma del codice di rito appena richiamata non è applicabile alle fattispecie di cui qui si tratta, essendo incompatibile con la disciplina specificamente dettata dalla legge n. 92 per il caso in cui nel giudizio di opposizione all’ordinanza che ha definito la prima fase siano proposte anche domande estranee al nuovo rito. In simili casi, infatti, il comma 56 (sul quale v., amplius, infra, n. 6) impone la separazione delle cause. La disciplina specifica del nuovo rito, dunque, prevede espressamente che domande ex art. 18 legge n. 300 del 1970 e domande a queste estranee (seppur fondate sullo stesso rapporto contrattuale) non possano essere trattate e decise in un unico contesto neppure quando siano state proposte dalle stesse parti nel medesimo giudizio. È evidente, pertanto, che non può ritenersi compatibile con un simile procedimento un meccanismo (quello definito dall’art. 39, secondo comma, c.p.c.) diretto, al contrario, a concentrare in un unico processo cause originariamente proposte separatamente. Per analoghe ragioni non è neppure ipotizzabile, nel caso in cui le due controversie pendano davanti allo stesso giudice nello stesso stato e grado di giudizio, una loro riunione ai sensi dell’art. 151, primo comma, disp. att. c.p.c. La conseguenza di quanto detto è, dunque, che le diverse cause (quella di impugnazione del licenziamento e quella avente ad oggetto diritti fondati su fatti costitutivi non identici) proseguiranno autonomamente. Si deve peraltro segnalare come, con riferimento alla previsione dell’art. 702-ter c.p.c. che prevede un’analoga deroga al principio generale del simultaneus processus nel caso in cui nel procedimento sommario di cognizione sia proposta una domanda riconvenzionale che non possa essere decisa con il rito sommario, la dottrina ha espresso l’avviso che, nei casi in cui la domanda principale e quella riconvenzionale siano legate da connessione forte o per pregiudizialità, il sistema deve comunque garantire, a chi al richiede, coerenza fra le decisioni e, pertanto, si è ipotizzato che, 30 Cass., sez. un., 1° ottobre 2007, n. 20596, in Riv. dir. proc., 2008, 1759, nonché le coeve ordinanze nn. 20598-20600. 16 in tali casi, la necessità dell’istruzione non sommaria di una delle cause comporta per tutte il mutamento del rito da sommario a cognizione piena31. Trattasi, all’evidenza, di un’interpretazione correttiva della norma codicistica, che peraltro può trovare un appiglio nella previsione del terzo comma dello stesso art. 702-ter c.p.c., secondo la quale il giudice, se le difese delle parti richiedono una istruzione non sommaria, converte il rito. Invero, anche le domande riconvenzionali sono riconducibili nell’ampia categorie delle difese delle parti e dunque potrebbe sostenersi che, effettivamente, se sulla base di una valutazione complessiva di domanda principale e domanda riconvenzionale il giudice si dovesse convincere della necessità di un’istruzione non sommaria (e nella formazione di tale convinzione egli deve tener conto anche dell’eventuale nesso di pregiudizialità-dipendenza che lega le due domande), ecco che il mutamento del rito per entrambe le cause si rivela una misura del tutto coerente anche con la disciplina positiva del procedimento sommario di cognizione32. Non altrettanto potrebbe dirsi a proposito della disciplina del nuovo rito per le impugnative dei licenziamenti, la quale non offre alcuno spunto in tal senso, onde l’interprete dovrebbe rassegnarsi all’idea che il legislatore abbia scientemente sacrificato sull’altare della rapidità dell’accertamento giudiziale della legittimità dei licenziamenti anche esigenze fondamentali in un ordinato svolgimento dei rapporti tra privati qual è quella di evitare decisioni giudiziali contrastanti circa l’esistenza o meno di diritti e rapporti giuridici. Su tale questione si rimanda a quanto esposto nel paragrafo 10. 3. La fase “urgente”: a) l’introduzione della causa. 3.1. La competenza per territorio. – Dispone l’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 che la domanda si propone con ricorso «al tribunale in funzione di giudice del lavoro». Anche se nulla è specificato in ordine alla competenza per territorio, è indubbio che questa è regolata dall’art. 413 c.p.c.33, norma sicuramente compatibile con il nuovo rito e, anzi, di necessaria applicazione, non potendosi tollerare lacune circa l’individuazione, sotto tutti i profili, del giudice competente a decidere la causa. 3.2. Il ricorso. – Il ricorso deve avere i requisiti (non dell’art. 414, bensì) dell’art. 125 c.p.c. Quindi il lavoratore deve indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni, non anche i mezzi istruttori dei quali intende avvalersi. Non si può sostenere l’opinione opposta sulla scorta della constatazione secondo cui, nei fatti, il ricorso del lavoratore non potrà discostarsi dalle modalità di redazione previste dall’art. 414 c.p.c., pena il rischio che la domanda risulti generica o sfornita di prova e sul rilievo che il richiamo ai poteri del giudice di cui all’art. 421 c.p.c. operato dal comma 49 costituirebbe una spia dell’impossibilità per il giudice di sanare le decadenze derivanti dagli artt. 414 e 416 c.p.c.34. Invero, quanto al primo argomento, non si vede per quale motivo il fatto che il lavoratore (così come la sua controparte processuale) sia esonerato dalla necessità della deduzione delle istanze istruttorie già nel suo primo scritto difensivo esporrebbe il ricorrente al rischio di vedersi rigettare la domanda per carenza di prova, considerato che la parte – come si è visto – è 31 F.P. LUISO, Diritto processuale civile, IV, Giuffré, 2011, 119; G. BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, 331; S. MENCHINI, L’ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corr. giur., 2009, 1030. Sulla base della medesima preoccupazione, in giurisprudenza è stata dichiarata l’inammissibilità di entrambe le domande: Trib. Biella, 9 febbraio 2010, in www.lexform.it. 32 Per un’analoga impostazione, v. A. CARRATTA, Procedimento sommario di cognizione (dir. proc. civ.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2009, 5 33 Conformi L. DE ANGELIS, op. cit., 17; L. CAVALLARO, op. cit., 8. 34 G. PACCHIANA PARRAVICINI, op. cit., 756. 17 perfettamente legittimata a formulare le proprie istanze istruttorie in udienza e, ciò facendo, non corre alcun rischio di soccombere per mancata indicazione dei mezzi istruttori. Quanto al riferimento all’art. 421 contenuto nel comma 49, trattasi di disposizione del tutto irrilevante al fine di appurare se anche i primi scritti difensivi delle parti nella prima fase del nuovo procedimento siano o meno soggetti alle prescrizioni degli artt. 414 e 416 c.p.c., una volta che si ammetta (come è doveroso: v., infra, n. 4) che esiste comunque un momento ultimo oltre il quale le parti non possono avanzare richieste di ammissione di nuove prove. Tanto chiarito, resta comunque la possibilità che il ricorso proposto dal lavoratore sia redatto in maniera difforme rispetto al modello rappresentato dall’art. 125 c.p.c. In proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza, la mancanza di uno o più dei requisiti di cui all’art. 125 c.p.c. non causa la nullità dell’atto, non comminata da alcuna disposizione di legge, salvo che non determini il mancato raggiungimento dello scopo dell’atto di cui volta per volta si tratta35. Applicando quindi il generale principio enunciato dall’art. 156 c.p.c. al ricorso in oggetto, può concludersi nel senso che tale atto deve essere dichiarato nullo se privo delle indicazioni necessarie a rendere chiari petitum e causa petendi, poiché in tal caso esso non è idoneo al raggiungimento del suo scopo, non potendo né il convenuto difendersi adeguatamente, né il giudice essere in condizione di esercitare efficacemente il suo potere di conduzione della lite. Nulla deve però essere dedotto dal ricorrente circa l’eventuale periculum in mora, perché, come già detto, non si tratta di un procedimento cautelare e la concessione o meno della tutela prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 prescinde completamente dall’esistenza del rischio che il diritto del lavoratore sia soggetto ad un imminente pregiudizio irreparabile. Al deposito del ricorso ex legge n. 92 deve essere attribuito effetto impeditivo della decadenza prevista dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, se non altro perché tale ricorso è ormai l’unica modalità di esercizio dell’azione di impugnativa del licenziamento consentita dall’ordinamento. 3.3. Il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti. – A seguito della presentazione del ricorso, il giudice deve emettere un decreto con il quale fissa l’udienza di comparizione delle parti e il termine per la notificazione dell’atto introduttivo. Nessun termine è imposto al giudice per la pronuncia di tale decreto (a differenza di quanto previsto dall’art. 415 c.p.c.). Tuttavia, poiché è stabilito che l’udienza debba essere fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso e che il termine per la notificazione di ricorso e decreto non possa essere stabilito oltre il venticinquesimo giorno antecedente quello dell’udienza, è ovvio che il giudice debba procedere nel più breve tempo possibile all’emanazione del decreto medesimo. Come già accennato, l’udienza deve essere stabilita entro quaranta giorni dal deposito del ricorso; è certo che tale termine non sia perentorio36, tale non essendo espressamente qualificato dal legislatore, né potendosi desumere da alcuna altra disposizione una deroga alla regola generale (art. 152 c.p.c.) del carattere ordinatorio dei termini processuali. Si è già detto di come, a differenza di quanto previsto dall’art. 415 c.p.c., non è la legge che fissa il termine per la notificazione di ricorso e decreto, bensì lo stesso giudice, volta per volta, nel proprio decreto, la norma limitandosi a stabilire che tale termine debba essere «non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza»; tale non felicissima espressione deve necessariamente essere intesa nel senso che il venticinquesimo giorno antecedente a quello dell’udienza costituisce il limite massimo oltre il quale il giudice non può andare nell’individuare il termine ultimo assegnato al ricorrente per la notificazione. Infine, nello stesso decreto, il giudice assegna al convenuto un termine per la propria costituzione. Anche qui, la norma si limita a disporre che tale termine non possa essere «inferiore a cinque giorni prima» dell’udienza di comparizione delle parti. 35 36 Cass., 15 maggio 2002, n. 7055; Cass., 14 marzo 2001, n. 3695. Conformi: L. CAVALLARO, op. cit., 8; A. BOLLANI, op. cit., 315. 18 Non è chiarissimo cosa il legislatore abbia voluto intendere con una simile espressione: che la costituzione del convenuto debba avvenire non oltre il quinto giorno antecedente quello dell’udienza oppure che tra la costituzione del resistente e il giorno dell’udienza debbano intercorrere al massimo cinque giorni? Probabilmente l’intento era quello di far sì che il convenuto abbia a disposizione almeno venti giorni (tra la data della notificazione – al massimo venticinque giorni prima dell’udienza – e quella ultima utile per la costituzione tempestiva – cinque giorni prima dell’udienza stessa –) per predisporre le proprie difese, analogamente a quanto accade nel rito codicistico del lavoro per effetto del combinato disposto degli artt. 415, quinto comma, e 416, primo comma. Ma l’espressione utilizzata dal legislatore per enunciare tale necessità non è certamente perspicua. Si può allora ritenere che, aldilà di qualsiasi indagine circa l’esatto significato da attribuire al testo legislativo, una prassi che sicuramente risulta rispettosa del dettato normativo – sia sul piano sostanziale, sia su quello letterale – è quella di stabilire comunque, quale termine ultimo per la costituzione del resistente, quello del quinto giorno antecedente l’udienza di comparizione delle parti. Non è previsto che il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti sia comunicato al ricorrente (analogamente a quanto si ritiene valga per il decreto ex art. 415 c.p.c.37). 3.4. La notificazione del ricorso. – La notificazione deve essere eseguita dal ricorrente, eventualmente anche a mezzo di posta elettronica certificata. Valgono, per il resto, tutte le ordinarie regole che presiedono alla notificazione degli atti introduttivi di una lite, ivi incluso l’art. 151 c.p.c. che attribuisce al giudice il potere di prescrivere che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge nel caso, tra gli altri, in cui sussistano «esigenze di maggiore celerità», ipotesi sicuramente ravvisabile nel procedimento in questione. Si deve comunque trattare di modalità di notificazione idonee ad assicurare la trasmissione dell’integrale contenuto dell’atto introduttivo, in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio e del diritto di difesa del convenuto. Nelle controversie promosse contro pubbliche amministrazioni si applica sicuramente l’ultimo comma dell’art. 415 c.p.c. 3.5. La costituzione del convenuto. – Nulla è detto circa le modalità della costituzione del convenuto. Ma è ovvio che essa debba avvenire mediante deposito in cancelleria di memoria scritta. Ciò, se non altro, almeno in attuazione del principio espresso dall’art. 416, secondo comma, c.p.c., sembrando eccessivo far discendere dal fatto che tale norma sia espressamente richiamata dal comma 53 dello stesso art. 1 della legge n. 92 del 2012 per la costituzione del convenuto nella fase di opposizione e non anche per il medesimo incombente nella fase “urgente”, la conclusione secondo cui, in questa prima fase, il resistente pootrebbe costituirsi anche solo col ministero del difensore, senza necessità di depositare alcun atto38. La difesa in giudizio delle pubbliche amministrazioni è regolata, anche nelle controversie in oggetto, dall’art. 417-bis c.p.c., norma sicuramente compatibile con la specialità del rito in questione. Circa il contenuto della memoria di costituzione, poiché la norma (ai commi 53-56) disciplina le ipotesi della chiamata in causa di terzi e delle domande riconvenzionali solamente quando tratta del giudizio di opposizione, dovrebbe concludersi nel senso (coerente con la natura “urgente” della prima fase) che in questa fase simili iniziative siano precluse alla parte convenuta39. Quanto, poi, all’onere (espressamente imposto al resistente dall’art. 416, terzo comma, c.p.c.) di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti 37 Cass., 5 marzo 2003, n. 3251. Come sostenuto, invece, da G. TREGLIA, Brevi note sul nuovo processo per licenziamento introdotto dalla riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2012, 766. Nel senso del testo G. BENASSI, op. cit., 753. 39 Conformi: D. BORGHESI, op. cit., 913; G. BENASSI, op. cit., 753; L. CAVALLARO, op. cit., 9. 38 19 affermati dal ricorrente, sembra superfluo discutere circa l’applicabilità o meno di tale onere anche nel procedimento di cui si tratta, per la semplice ragione che la sua inosservanza non produce conseguenze in rito, ma direttamente sul convincimento del giudice circa il merito della controversia, anche in virtù del disposto dell’art. 115, primo comma, c.p.c. (e ciò, a maggior ragione, in un giudizio a cognizione sommaria come quello costituito dalla prima fase del nuovo rito, a cognizione, come si vedrà, sommaria). 3.6. Preclusioni e decadenze. – Nessuna decadenza è prescritta a carico né del ricorrente, né del resistente con riferimento alla proponibilità di eccezioni40 e di istanze istruttorie. Con specifico riferimento alle domande, pur restando ferma la regola generale secondo la quale l’oggetto della domanda deve essere specificato già nell’atto introduttivo e non può essere modificato nel corso del giudizio, si deve ammettere un’eccezione nel caso in cui il licenziamento sia stato comunicato per iscritto, ma senza indicare la sua motivazione. Per tale vizio, infatti, il nuovo sesto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 prevede la modesta sanzione della condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria variabile tra sei e dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (c.d. “tutela indennitaria debole”); se nel corso del giudizio emerga il motivo per il quale il datore ha receduto dal rapporto, sembra inevitabile consentire al lavoratore di modificare di conseguenza le proprie conclusioni e di integrare le proprie deduzioni in fatto e in diritto (oltre che, ovviamente, le istanze istruttorie), al fine di poter chiedere la tutela (più intensa di quella indennitaria debole) corrispondente al motivo addotto dall’azienda a giustificazione del licenziamento e indicato solamente in corso di causa. Tale assunto discende dal disposto del citato sesto comma dell’art. 18, il quale, pur prevedendo la ricordata tutela indennitaria in caso di licenziamento non motivato, aggiunge però che si applicano le più intense tutele di cui ai commi quarto, quinto e settimo quando il giudice «sulla base della domanda del lavoratore» accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento. Dunque il legislatore richiede che vi sia un’esplicita domanda del lavoratore in tal senso (come, del resto, è inevitabile, sulla base dei generali principi che informano il nostro processo civile). E tuttavia, considerata la pluralità e varietà dei vizi del recesso datoriale che danno luogo all’una piuttosto che all’altra forma di tutela, sembra eccessivo pretendere, a pena di inammissibilità, che il lavoratore formuli già nel ricorso la relativa domanda (con il collegato onere di deduzione dei relativi fatti costitutivi in relazione ai quali, stante l’omissione della motivazione, il lavoratore può avanzare solamente mere ipotesi). L’unica prescrizione dettata dal legislatore del 2012 attiene alla produzione documentale, l’ultimo periodo del comma 48 imponendo alle parti di depositare i documenti in duplice copia; è tuttavia evidente che (anche per la mancata previsione di una qualsiasi sanzione) l’inosservanza di tale prescrizione non produce alcuna decadenza in capo alle parti, sempre abilitate ad integrare la loro produzione mediante il deposito della copia mancante del documento. Si aggiunga che, in ogni caso, non sembra consentito desumere da tale disposizione l’onere per le parti, a pena di decadenza, di produrre i documenti dei quali intendano avvalersi contestualmente al deposito del loro primo scritto difensivo; la norma stabilisce semplicemente che, se le parti intendano produrre documenti, debbono depositare due copie di ciascun documento, non anche che esse debbano necessariamente depositare tutti i documenti unitamente al ricorso e alla memoria di costituzione. 4. segue: b) la trattazione e l’istruzione della causa. 40 Conforme L. CAVALLARO, op. cit., 9, il quale esclude giustamente la possibilità di applicare in via analogica l’art. 702-bis, quarto comma, ultimo periodo, c.p.c. Circa l’impossibilità di itnegrare la disciplina del nuovo rito ex legge n. 92 del 2012 con quella propria del rito sommario di cognizione, si rinvia a quanto detto in generale nel paragrafo 1. 20 4.1. La concentrazione della trattazione. – Il comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 stabilisce che «il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile». Da questa scarna disposizione (ispirata, evidentemente, all’art. 669-sexies, primo comma, c.p.c. in materia di procedimenti cautelari) sembra doversi desumere anzitutto che, pur mancando un’esplicita precisazione al riguardo41, il legislatore abbia inteso delineare un procedimento nel quale, ove possibile, la trattazione e l’istruzione della causa siano concentrate in un’unica udienza. Ciò non significa che siano incompatibili con il nuovo rito adempimenti istruttori che richiedano necessariamente un rinvio ad altra udienza o che simili rinvii siano comunque vietati; si vuole dire semplicemente che, ove possibile, la trattazione deve essere concentrata nella stessa udienza di comparizione delle parti. Si potrebbe pertanto riproporre la questione relativa alla sussistenza o meno dell’onere per le parti di citare i testimoni da essi indicati già alla prima udienza di comparizione che, con riferimento alle controversie individuali di lavoro disciplinate dal rito codicistico, ha dato luogo a contrastanti soluzioni da parte della giurisprudenza di legittimità42. Si deve tuttavia riconoscere che l’opinione che postula l’esistenza dell’onere per le pari di intimare i testimoni a comparire già alla prima udienza non sembra comunque compatibile con le specificità della disciplina del rito introdotto dal legislatore del 2012 il quale, come visto, si caratterizza anche per il fatto che alle parti non è imposto di dedurre, a pena di decadenza, tutte le loro istanze istruttorie già nei rispettivi primi scritti difensivi; ed in un simile contesto non si vede davvero come possa addirittura ipotizzarsi che le parti abbiano l’onere di citare per la prima udienza come testimoni persone che potrebbero benissimo non aver indicato nel loro atto di costituzione oppure per rispondere a domande su circostanze che, in quell’atto, non erano comprese tra quelle oggetto di richiesta di ammissione di prova testimoniale. Si vuole dire che, alle obiezioni che, del tutto condivisibilmente, la dottrina ha costantemente opposto al richiamato e più risalente orientamento della Suprema Corte43, si deve aggiungere che, in ogni caso, esso non appare compatibile con un meccanismo processuale che consente alle parti di indicare per la prima volta all’udienza di comparizione i mezzi istruttori dei quali intendono avvalersi. 41 Invece espressamente prevista nella disciplina del procedimento sommario di cognizione: v. art. 702-ter, quinto comma, c.p.c. 42 Il tradizionale orientamento secondo cui rientra tra i poteri del giudice del lavoro quello, previsto dall’art. 420, quinto comma, c.p.c., di disporre, nell’udienza di discussione, l’ammissione e l’immediata escussione dei testi con la conseguenza che grava su ciascuna delle parti l’onere di citare per tale udienza i testi di cui chiede l’ammissione e che l’inosservanza di tale prescrizione è a causa di decadenza a carico della parte istante (Cass., 7 giugno 1995, n. 6368, in Arch. loc., 1995, 814; Cass., 29 aprile 1994, n. 4161; Cass., 13 aprile 1987, n. 3681; Cass., 14 febbraio 1984, n. 1133) appariva superato, dopo che Cass., 16 aprile 1997, n. 3275, in Giust. civ., 1997, I, 1795, si era espressa nel senso che nel rito del lavoro vige il principio che il giudice provvederà nella stessa udienza di ammissione della prova testimoniale alla audizione dei testi, comunque presenti, ma non potrà dichiarare decaduta la parte della prova per la mancata presentazione di essi, essendogli consentito di poterli citare solo in forza del provvedimento di ammissione, con la conseguenza che il giudice dovrà fissare altra udienza per la prosecuzione della prova. Tuttavia, più recentemente, Cass., 8 aprile 2008, n. 9136, ha ribadito la validità dell’impostazione maggiormente risalente. 43 F.P. LUISO, Un opportuno ripensamento della Suprema Corte, in Giust. civ., 1997, I, 1795; G. IANNIRUBERTO, Il processo del lavoro rinnovato, Cedam, 1999, 153; P. SANDULLI-A.M. SOCCI, Il processo del lavoro, Giuffré, 2000, 216; L. NEGRINI, Una soluzione ragionevole per il procedimento di assunzione della prova testimoniale nel rito del lavoro, in Nuova giur. civ. comm., 1998, 241; F. CENTOFANTI, Intimazione dei testimoni nel rito del lavoro e correlata decadenza dalla prova in prima udienza: la Cassazione innova nella continuità, in Mass. giur. lav., 1997, 658. Con riferimento al rito introdotto dalla legge n. 92 del 2012, L. CAVALLARO, op. cit., 10, ha utilizzato l’argomento fondamentale di tale orientamento dottrinale (e, cioè, che prima dell’ordinanza di ammissione della prova testimoniale non ci sono testimoni e, pertanto, neppure possono ipotizzarsi decadenze connesse con la loro mancata citazione a comparire) per pervenire alla stessa conclusione sostenuta nel testo. 21 4.2. Gli adempimenti preliminari del giudice. – In tale udienza il giudice deve procedere, secondo i principi generali, agli accertamenti preliminari relativi alla regolare costituzione del contraddittorio: verifica della regolarità della notificazione (e, al riguardo, il rispetto dei termine a difesa di venti giorni costituisce senz’altro formalità «essenziale al contraddittorio»: v., in proposito, infra) e della costituzione delle parti ai sensi dell’art. 182 c.p.c.; verifica della integrità del contraddittorio nel caso in cui ricorra un’ipotesi di litisconsorzio necessario. In tutti questi casi, il carattere concentrato della trattazione della causa nella prima fase non impedisce che il giudice possa e debba somministrare i provvedimenti previsti in generale dall’ordinamento processualcivilistico in simili evenienze. Così, sicuramente il giudice dovrà concedere al ricorrente un nuovo termine per eseguire la notificazione nel caso in cui questa sia nulla o inesistente ovvero sia avvenuta in violazione del termine minimo previsto a favore del convenuto44. Così come dovrà assegnare un termine perentorio nelle ipotesi previste dall’art. 182 c.p.c. e per integrare il contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. 4.3. L’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione. – Compiute queste verifiche preliminari, il giudice deve procedere a «sentire le parti». Si potrebbe ritenere che il fatto che il comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 contenga questa semplice indicazione, in luogo della più articolata attività richiesta al giudice dai primi tre commi dell’art. 420, escluda la necessità per le parti di comparire personalmente all’udienza e per il giudice di procedere al loro interrogatorio libero ed al tentativo di conciliazione. Una simile conclusione non sembra però condivisibile. In effetti, se si ammette che al procedimento di cui si tratta si applicano tutte le norme regolatrici delle controversie individuali di lavoro che non siano incompatibili con la specialità del nuovo rito, si dovrebbe ritenere l’applicabilità anche della disciplina dettata dai primi tra commi dell’art. 420 c.p.c., sicuramente coerente con il procedimento in oggetto. Conseguentemente le parti hanno l’onere delle parti di comparire personalmente all’udienza e di essere informate sui fatti di causa. Dal canto suo, il giudice, anche in tali controversie, sarà tenuto ad interrogarle e a tentare la conciliazione, formulando alle parti una proposta transattiva, il cui rifiuto senza giustificato motivo costituirà comportamento valutabile ai fini della decisione. Così come dovrà ritenersi che la conciliazione eventualmente raggiunta durante la fase “urgente” del nuovo rito sia assistita dal regime di stabilità di cui all’art. 2113, ultimo comma, c.c. Invero, anche la sede conciliativa costituita dall’udienza fissata nel nuovo procedimento relativo alle impugnazioni dei licenziamenti può essere ricondotta (al pari dell’udienza ex art. 420 c.p.c., neppure essa menzionata espressamente dalla predetta norma del codice civile), a quella dell’art. 185 c.p.c. 4.4. La superficialità dell’istruttoria. – Quanto all’istruttoria, la formula utilizzata dal comma 49 è davvero infelice. Nell’evidente intento di stabilire che essa, in questa prima fase del procedimento, debba essere sommaria, il legislatore si è ispirato, anche sotto questo profilo, all’art. 669-sexies c.p.c., ma ripetendo solamente la prima parte del corrispondente precetto contenuto in tale disposizione (vale a dire quella che prevede la necessità di assumere solamente gli «atti di istruzione indispensabili»), non anche la seconda (quella, cioè, che collega il requisito dell’indispensabilità «ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto») che è proprio ciò che vale a caratterizzare nel senso della sommarietà l’istruttoria che si compie nei procedimenti cautelari45. 44 Conforme L. CAVALLARO, op. cit., 9. Analogamente, l’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (ormai superato dalla riforma operata sul punto dall’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150) in materia di azioni contro le discriminazioni faceva riferimento agli «atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto». 45 22 Ed infatti, per quanti sforzi si vogliano compiere, sul piano logico non v’è alcuna differenza tra atti istruttori «indispensabili», atti istruttori «ammissibili e rilevanti» (tale è la formula utilizzata dal successivo comma 57 al fine di definire l’istruttoria propria della fase di opposizione), mezzi di prova «rilevanti» (art. 420, quinto comma, c.p.c.)46. Né sembra che si possa ricorrere alle acquisizioni giurisprudenziali in ordine all’interpretazione dell’analoga espressione utilizzata dall’art. 437, secondo comma, c.p.c. Infatti in quest’ultimo caso la nozione di indispensabilità dei mezzi istruttori è stata elaborata essenzialmente in rapporto alle preclusioni previste a carico delle parti dal rito codicistico del lavoro relativamente al giudizio di primo grado, aspetto del tutto estraneo alla fase del giudizio di impugnazione dei licenziamenti di cui qui si sta trattando. Ed allora, al fine di riempire di contenuto il precetto del comma 49, occorre necessariamente tener conto delle indicazioni circa i caratteri della prima fase del nuovo procedimento che si traggono da altri precetti dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012. E tali indicazioni sono tutte nel senso dell’intenzione del legislatore di definire un procedimento idoneo a consentire la formazione, nel tempo più rapido possibile, di un primo pronunciamento giudiziale circa la legittimità di un licenziamento intimato nell’area di applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. In tale direzione depone, anzitutto, già lo sdoppiamento del primo grado di giudizio in due fasi, sdoppiamento che non avrebbe senso se l’attività che il giudice deve compiere per pervenire alla decisione (e, in particolare, quella istruttoria che, com’è noto, comprende gli adempimenti che richiedono il maggior tempo) fosse la stessa; conseguentemente, poiché l’istruttoria che deve essere compiuta nella fase di opposizione è sicuramente quella piena (consistendo nell’assunzione di tutti i mezzi istruttori «ammissibili e rilevanti») è giocoforza concludere nel senso che l’istruttoria propria della prima fase debba da quella distinguersi sotto qualche profilo, in particolare al fine di renderla più snella. In secondo luogo, la già segnalata impossibilità per le parti di chiamare in causa terzi e di proporre domande riconvenzionali nella prima fase del giudizio di primo grado (facoltà che invece esse conservano integre nella fase di opposizione) conferma che quella prima fase è concepita come caratterizzata dalla massima concentrazione. Infine, occorre considerare che opinare diversamente (ritenendo, cioè, che anche la prima fase del giudizio di primo grado sia a cognizione piena) condurrebbe alla conclusione secondo la quale il legislatore del 2012 avrebbe introdotto per le impugnazioni dei licenziamenti un procedimento articolato addirittura su quattro gradi a cognizione ordinaria (vale a dire uno in più rispetto a quelli che caratterizzano il comune rito del lavoro), il cui unico temperamento sarebbe la previsione di una trattazione deformalizzata (misura di invero modesta portata acceleratoria, come si vedrà) e che comunque non costituisce un elemento che vale a distinguere la prima fase da quella di opposizione, posto che anche in questa seconda il giudice deve procedere omettendo le formalità non essenziali al contraddittorio. Ciò (oltre ad essere in clamorosa antitesi con le intenzioni dichiarate dal legislatore, anche negli atti parlamentari) renderebbe incomprensibile la ragione per la quale il legislatore avrebbe, contestualmente, introdotto tutta una serie di misure dirette alla semplificazione dell’attività processuale e alla riduzione dei termini. 46 Per analogo rilievo, v. L. CAVALLARO, op. cit., 5. Nel senso della sostanziale equivalenza tra indispensabilità degli atti istruttori ex art. 669-sexies c.p.c. e rilevanza degli stessi ex art. 702-ter, A. CARRATTA, Nuovo procedimento sommario di cognizione e presupposto dell’ “istruzione sommaria”: prime applicazioni, in Giur. it., 2010, 904; Id., Procedimento sommario di cognizione, cit., 7. Invece D. BORGHESI, op. cit., 915, trae proprio dal fatto che la legge n. 92 parla di atti istruttori indispensabili – che è la formula utilizzata per l’istruttoria, appunto sommaria, propria dei procedimenti cautelari – per la fase “urgente” e di atti istruttori rilevanti – che è la formula utilizzata per l’istruttoria del procedimento sommario di cognizione, vale a dire di un rito semplificato ma a cognizione piena – per il giudizio di opposizione, la dimostrazione del fatto che la prima fase in cui si articola il nuovo rito è appunto a cognizione somamria, mentre la seconda fase è a cognizione piena. 23 Tutte le considerazioni di natura sistematica appena esposte impongono pertanto di ritenere che l’istruttoria propria della fase “urgente” sia ridotta rispetto a quella propria di un giudizio a cognizione piena47. Si tratta ovviamente di precisare in cosa consista tale riduzione. Si può escludere che essa comporti una selezione dei fatti sui quali svolgere l’istruttoria, non essendovi alcun elemento testuale o sistematico che consenta di affermare che il giudice possa omettere di procedere ad accertamenti su qualcuno dei fatti richiesti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 per l’applicazione di una delle tutele da esso previste ovvero su qualcuno dei fatti dedotti dal datore di lavoro a sostegno della legittimità del proprio operato. Si deve pertanto concludere che l’indispensabilità richiesta dal comma 49 vada intesa come posta in relazione all’urgenza del provvedimento richiesto, in conformità con la modifica suggerita dalla dottrina quando il disegno di legge era ancora all’esame del Parlamento e il segmento della disciplina relativo alla prima fase del nuovo procedimento era contenuta in un articolo significativamente intitolato «Tutela urgente»48. Ecco allora che la prima fase in cui si articola il giudizio di primo grado del nuovo procedimento è sommaria, non solamente nel senso che la trattazione è deformalizzata, ma anche nel senso che l’istruttoria consiste nell’assunzione dei soli mezzi istruttori necessari a consentire al giudice la formazione di un giudizio di mera verosimiglianza circa l’esistenza o meno del vizio (o dei vizi) del licenziamento denunciati dal ricorrente49. 4.5. I singoli mezzi istruttori. – Ciò non significa affatto, però, che vi siano, tra le prove tipiche, alcune incompatibili con tale fase. Infatti, la sommarietà del procedimento, così come sopra precisata, non impone al giudice di limitare l’attività istruttoria ai mezzi di prova di più semplice e rapida assunzione; gli impone, invece, di assumere solamente quelli necessari per pervenire ad una ricostruzione meramente probabilistica dei fatti oggetto di causa50. Così, non v’è ragione per dubitare dell’ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio (che, del resto, è uno strumento praticamente indispensabile per il giudice, una volta che si ammetta la proponibilità, in simili procedimenti, anche delle domande dirette ad ottenere il risarcimento del danno alla salute eventualmente causato dal licenziamento illegittimo). Qui, infatti, non v’è la necessità (propria invece dei giudizi cautelari) di rispettare i limiti di tempo imposti dall’esigenza di scongiurare il verificarsi dell’irreparabile pregiudizio al diritto del ricorrente51. L’estraneità del rito in oggetto alla tutela cautelare (i cui esiti sono provvisori e sempre suscettibili di essere modificati da un successivo giudizio di merito) rileva, in materia di prove tipiche, sotto altro profilo, sempre in materia di prove tipiche. Precisamente, non sembra corretto escludere la possibilità per le parti di ricorrere al giuramento decisorio o a quello suppletorio; il fatto che tali mezzi siano finalizzati alla decisione della causa, se costituisce un elemento che depone in senso contrario alla loro esperibilità nei giudizi cautelari, è invece del tutto coerente con 47 Contra A. BOLLANI, op. cit., 320, secondo il quale l’ordinanza pronunciata dal giudice nei procedimenti in questione si fonda su un accertamento istruttorio pieno e conclude nel senso che la riforma ha, di fatto, introdotto un grado aggiuntivo di giudizio (ivi, 321). In senso analogo, L. CAVALLARO, op. cit., 3, secondo il quale la sommarietà del procedimento non sta nella qualità dell’accertamento giudiziale, tendenzialmente analogo a quello della normale cognizione, quanto dal modo in cui esso è condotto, che si vorrebbe scevro da formalismi superflui; anche questo Autore però, sottolineando che tali formalismi sono del tutto assenti nel rito del lavoro, finisce con il riconoscere che la diversità con tale rito sarebbe impalpabile. 48 R. CAPONI, op. cit., 10. 49 Nel senso che nella prima fase del giudizio di primo grado «il convincimento in fatto è per definizione superficiale, riguardando il “fumus” di fondatezza della domanda», A. VALLEBONA, op. cit., 74. 50 In un primo provvedimento giudiziale è stato affermato che nella fase “urgente” possono essere ammessi mezzi di prova diversi da quelli documentali «solo se assolutamente necessari alla decisione, anche in considerazione del carattere di articolare rapidità che il legislatore ha voluto attribuire al procedimento»: Trib. Rovigo 11 ottobre 2012, Est. Ferrari, N.F. c. S.M. s.r.l. 51 Peraltro, la giurisprudenza di legittimità appare orientata a ritenere la c.t.u. compatibile anche con procedimenti prettamente cautelari: Cass., 22 ottobre 1997, n. 10388. 24 la natura del nuovo procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti, il provvedimento definitorio della cui prima fase è sicuramente idoneo (v., infra, n. 5) ad acquisire la stabilità propria della cosa giudicata. 4.6. Le istanze istruttorie delle parti. – Aspetto diverso da quello della compatibilità delle prove tipiche con il nuovo rito è quello che attiene alla definizione del perimetro entro il quale il giudice deve scegliere i mezzi istruttori da assumere. Al riguardo, il comma 49 dispone che il giudice compie gli atti istruttori «richiesti dalle parti» e quelli «disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile». Quanto ai primi, si è già detto che il richiamo all’art. 125 c.p.c. quale modello per l’atto introduttivo della presente procedura impone di escludere che le parti abbiano l’onere di indicare, a pena di decadenza, già nel loro primo scritto difensivo, i mezzi istruttori dei quali intendano avvalersi. E tuttavia, se si concorda sul fatto che il legislatore abbia delineato un procedimento tendenzialmente concentrato in una sola udienza, si deve anche convenire nella necessità che le parti formulino definitivamente le loro istanze istruttorie subito dopo l’interrogatorio libero e l’esperimento del tentativo di conciliazione (nonché la decisione sulle eventuali questioni pregiudiziali). Ciò, direi, prendendo spunto dalla previsione dell’art. 420, quinto comma, c.p.c., la quale colloca appunto in quella fase dell’udienza la decisione del giudice sui mezzi di prova già proposti dalle parti e su quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima. Sembrerebbe ovvio, pertanto, che, anche nel procedimento di cui stiamo trattando, quello debba essere il momento in cui il giudice adotta la propria decisione circa l’istruttoria da compiere e, conseguentemente, anche il limite temporale ultimo perché le parti formulino le loro istanze al riguardo52. 4.7. I poteri istruttori officiosi. – Per quanto concerne, poi, i poteri istruttori officiosi, la loro latitudine non sembra che possa essere apprezzata prescindendo dal richiamo al disposto dell’art. 421 c.p.c. operato dal legislatore. Vale a dire che il legislatore del 2012 non ha attribuito al Tribunale un’illimitata e generica facoltà di ammettere d’ufficio mezzi istruttori, ma solamente il medesimo potere riconosciuto in generale al giudice del lavoro dall’art. 421 c.p.c. Questo è un aspetto meritevole di essere sottolineato: non sembra possibile affermare che tra le «formalità non essenziali al contraddittorio» sia compresa anche quella della necessità dell’istanza di parte per procedere all’ammissione dei mezzi istruttori. In altri termini, il fatto che il comma 49 abbia cura di precisare che gli atti istruttori che il giudice deve compiere sono o quelli richiesti dalle parti o quelli ammessi d’ufficio (non illimitatamente, ma solamente) ai sensi dell’art. 421 c.p.c.53 impone di escludere che, nella fase “urgente” del nuovo rito, il giudice disponga di un potere probatorio ufficioso più ampio di quello ordinariamente riconosciutogli dalla disciplina propria delle controversie individuali di lavoro. Ed allora, in primo luogo, va confermato il limite costituito dalle allegazioni delle parti, non potendo il giudice, neppure quello del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti, disporre indagini su fatti ulteriori rispetto a quelli dedotti dalle due parti in causa54. 52 Diversa l’opinione di L. CAVALLARO, op. cit., 5, e G. TREGLIA, op. cit., 767, secondo i quali le parti sarebbero libere di promuovere istanze istruttorie lungo tutto l’arco del procedimento. Anche con riferimento al procedimento sommario di cognizione, la dottrina afferma in prevalenza che le parti sarebbero abilitate ad avanzare istanze istruttorie per tutto il corso del processo: C. CONSOLO, Spiegazioni, cit., 189; MENCHINI, op. cit., 1031; invece, nel senso che, per ragioni sistematiche derivanti dalla necessità di assicurare la ragionevole durata del processo e la coerenza con il modello processuale delineato dal legislatore, G. ARIETA, Il rito “semplificato” di cognizione, in judicium.it, 19; G. OLIVIERI, Il procedimento di primo grado, in Giur. it., 2010, 732, e, in giurisprudenza, Trib. Varese, 18 novembre 2009, in Guida dir., 2009, n. 50, 47. 53 Precisazione che rappresenta un’ulteriore sensibile differenza rispetto alla disciplina del procedimento cautelare uniforme, laddove l’art. 669-sexies c.p.c., nel prevedere che il giudice proceda agli atti di istruzione indispensabili, non vincola tale attività alle istanze delle parti, né ai limiti imposti dall’art. 421 c.p.c. 54 V., tra le tante, la recente Cass., 4 maggio 2012, n. 6753. 25 In secondo luogo, si ripropone nel presente procedimento il dilemma circa la possibilità per il giudice di ricercare autonomamente fonti materiali di prova o se invece anche al riguardo egli sia limitato dalle indicazioni contenute negli atti delle parti, onde potrebbe procedere d’ufficio all’assunzione delle sole prove le cui fonti siano già acquisite al processo in virtù dell’attività difensiva delle parti55. Ma, soprattutto, ciò che forse merita di essere sottoposto a verifica è l’applicabilità della ricorrente massima giurisprudenziale secondo la quale il giudice deve far ricorso ai poteri officiosi attribuitigli dall’art. 421 c.p.c. solamente quando dalle allegazioni delle parti e dal materiale probatorio acquisito al processo già emergano significativi dati di indagine56. In effetti non è agevole coniugare un simile principio con la natura superficiale dell’istruttoria che si deve compiere in un giudizio, come quello della fase “urgente” del nuovo rito, caratterizzato dal fatto che il convincimento che il giudice deve maturare è di mera verosimiglianza dell’esistenza del diritto azionato dal lavoratore. Ci si può chiedere, in particolare, se, a fronte di risultanze istruttorie che depongano in senso favorevole ad una delle parti, senza però assurgere al livello di piena prova, il giudice possa disporre d’ufficio altri mezzi istruttori o si debba arrestare e formulare il proprio giudizio che, appunto, è di ricostruzione meramente probabilistica dei fatti (mentre l’attribuzione al giudice del potere-dovere di assumere d’ufficio mezzi istruttori è finalizzata proprio ad attuare pienamente il principio della ricerca della verità materiale). Non vi possono essere dubbi, poi, sull’ammissibilità delle prove atipiche, almeno negli stessi limiti in cui esse sono ammesse nel giudizio ordinario dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice, è possibile che questi ponga a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo57 e purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione, rimanendo, in ogni caso, escluso che tali prove atipiche possano valere ad aggirare preclusioni o divieti dettati da disposizioni sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda il necessario ricorso ad adeguate garanzie formali58. 4.8. Le formalità non essenziali al contraddittorio. – Come accennato, l’altro profilo nel quale si manifesta il carattere sommario del giudizio è il suo carattere deformalizzato, il legislatore avendo previsto che il giudice proceda nel modo che ritenga maggiormente opportuno e omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio. Non è agevole individuare tali «formalità non essenziali al contraddittorio» che, pur essendo previste dalla disciplina ordinaria del processo, il giudice deve trascurare. Ciò essenzialmente per il fatto, già segnalato (supra, n. 1) secondo cui al rito in oggetto si applica, per tutto quanto non previsto dalla legge n. 92 del 2012, la disciplina codicistica delle controversie individuali di lavoro, la quale è già di per se stessa caratterizzata da un notevole tasso di “semplificazione” rispetto a quella del rito civile ordinario. Ne discende che la “trasposizione” nel procedimento di cui stiamo trattando, della formula relativa all’omissione delle formalità non essenziali al contraddittorio propria della disciplina del rito cautelare uniforme e del rito sommario di cognizione produce effetti molto più modesti che in questi due casi. 55 Per le varie posizioni espresse al riguardo dalla dottrina, si vedano L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Jovene, 1996, 189; F.P. LUISO, Il processo del lavoro, Utet, 1992, 192; G. TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Giuffré, 1999, 153. 56 Cass., 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass., 5 febbraio 2007, n. 2379; Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Foro it., 2005, I, 1135; Cass., 6 luglio 2000, n. 9034, in Riv. giur. lav., 2001, II, 637. 57 Cass., 25 marzo 2004, n. 5965; Cass., 27 marzo 2003, n. 4666, in Giur. it., 2003, 2013; Cass., 26 settembre 2000, n. 12763, in Giur. it., 2001, 1378. 58 Cass., 5 marzo 2010, n. 5440, in Giur. it., 2010, 2589. 26 Ed infatti, premesso che non potrà comunque determinarsi il vantaggio costituito dall’affrancazione dalla necessità della concessione dei termini per la trattazione scritta ex art. 183 c.p.c. o del duplice termine per lo scambio degli scritti difensivi finali ovvero della fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni (adempimenti la cui esclusione discende, non già dalla previsione di un procedimento de formalizzato contenuta nel comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, bensì dalla segnalata applicabilità al nuovo rito della disciplina generale del rito codicistico del lavoro), si deve convenire anche che non si potrà mai omettere il rispetto delle formalità previste per la costituzione stessa del contraddittorio. Quelle, cioè, dirette ad assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa delle parti. Così, come già detto, sicuramente non si potrà derogare al termine minimo di venti giorni concesso al convenuto per approntare la sua difesa. Infatti, posto che è assolutamente pacifico che la concessione al convenuto di un termine per esaminare il ricorso avversario e predisporre le proprie difese costituisca una formalità essenziale al contraddittorio59, deve anche ritenersi, in aggiunta, che, contrariamente al modello processuale costituito dal procedimento cautelare uniforme (nel quale il legislatore ha lasciato al giudice ampia discrezionalità nel determinare la durata del termine a difesa60), nel caso del nuovo rito per le impugnazioni dei licenziamenti, le indicazioni contenute nel sesto periodo del comma 48 circa il termine per l’esecuzione della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti e per la costituzione del convenuto sono chiaramente rivelatrici dell’intenzione del legislatore del 2012 di prefigurare un termine minimo che comunque deve essere concesso al resistente al fine di predisporre la propria difesa. Analogamente, in caso di eccezioni tempestivamente sollevate da una delle parti, si dovrà assicurare alla controparte la possibilità di adeguatamente replicare e dedurre circa la necessità di nuovi mezzi istruttori; e la stessa facoltà deve essere assicurata ad entrambe le parti in caso di ammissione d’ufficio di mezzi di prova ai sensi dell’art. 421 c.p.c. ovvero nel caso in cui il giudice ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevabile d’ufficio (in ossequio al principio consacrato nell’art. 101, secondo comma, c.p.c.). Sembra al pari indubbio che natura di formalità essenziale al contraddittorio debba essere riconosciuta anche al diritto delle parti di esprimere, una volta esaurita la fase istruttoria, le loro valutazioni finali, mentre rientra sicuramente nella discrezionalità che la norma attribuisce al giudice la scelta delle relative modalità (discussione orale immediata, rinvio ad altra udienza per la discussione, concessione di termine per il deposito di note scritte). Va egualmente escluso agevolmente che la deformalizzazione pretesa dalla norma attenga alla distribuzione dell’onere della prova tra le parti, aspetto che nulla ha a che vedere con le modalità di svolgimento del processo61 Ed allora si può convenire sul fatto che le formalità non essenziali al contraddittorio che possono essere omesse siano essenzialmente quelle attinenti all’assunzione delle prove costituende. Premesso che, anche al riguardo, deve essere mantenuto fermo il rispetto della garanzia minima rappresentata dal diritto di entrambe le parti di essere presenti agli esperimenti istruttori su 59 In giurisprudenza, con riferimento all’analoga espressione contenuta nell’art. 669-sexies, primo comma, c.p.c., v. Trib. Lecce, 26 aprile 1994, in Foro it., 1994, I, 2249, nel senso che deve considerarsi essenziale affinché il ricorso cautelare possa raggiungere il suo scopo, che è anche quello di consentire alla controparte di difendersi adeguatamente. In dottrina, in generale, sulla necessità, di rilevanza costituzionale, della concessione al convenuto di un termine dilatorio inderogabile per la predisposizione delle difese, nei procedimenti sommari nei quali la legge riconosce al giudice un’elevata discrezionalità nella guida dello svolgimento del processo, A. GRAZIOSI, La cognizione sommaria del giudice civile nella prospettiva delle garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 168. 60 E ciò anche nel caso di concessione della misura cautelare con decreto emesso inaudita altera parte, poiché il secondo periodo del secondo comma dell’art. 669-sexies c.p.c. si limita a stabilire il termine entro il quale deve essere fissata l’udienza di comparizione delle parti e il termine massimo entro il quale deve essere eseguita la notificazione del ricorso e del decreto, non anche il termine minimo che deve intercorrere tra la notificazione e l’udienza. 61 Conforme, in una fattispecie relativa al processo sommario di cognizione, Trib. Piacenza, 27 maggio 2011, in www.ilcaso.it. 27 un piano di parità, va segnalato che, con riferimento all’identica espressione utilizzata dall’art. 702ter, quinto comma, c.p.c., in giurisprudenza è stata dichiarata l’inammissibilità della prova testimoniale richiesta senza idonea capitolazione delle circostanze di fatto sulle quali i testimoni avrebbero dovuto essere interrogati e senza l’indicazione nominativa di questi ultimi62; con riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, è stato disposto che, considerata la celerità che deve contraddistinguere il procedimento, le nomine dei consulenti di parte sono ammesse solamente fino all’udienza di giuramento del c.t.u. e non sono osservate le procedure previste dall’art. 195, con conseguente onere dei consulenti di parte di partecipare alle operazioni peritali e di evidenziare in quella sede le loro osservazioni63. In dottrina, si è detto che testimoni e c.t.u. debbono giurare, ma capitoli e quesiti possono essere deformalizzati e financo elisi64; che il giudice potrebbe porre ai testi domande anche fuori dal capitolato di prova dedotto dalla parte65, pur se nell’àmbito delle relative allegazione di fatto66; che il giudice possa disporre anche al di fuori dell’accordo delle parti l’assunzione della prova testimoniale secondo la modalità di cui all’art. 257-bis c.p.c.67. Al riguardo, al fine di evitare che tutto sia lasciato alla personale sensibilità di ciascun giudice, sembra opportuno individuare almeno un criterio generalissimo che valga a costituire un attendibile strumento di orientamento per l’interprete. A questo fine, sembra inevitabile prendere le mosse dalla ratio della deformalizzazione prevista dal legislatore; essa, all’evidenza, è funzionale alla concentrazione dei tempi di definizione della controversia. Ed allora, non si vede davvero perché dovrebbero essere omesse formalità la cui soppressione non comporta alcun apprezzabile risparmio di tempo. E così, iniziando dalla prova testimoniale, sembra ovvio che non può essere omesso quanto richiesto dall’art. 251 c.p.c., in difetto del quale, anzi, neppure potrebbe parlarsi di prova testimoniale. Circa la previa indicazione delle persone da interrogare, non si vede davvero quale aggravio sui tempi di definizione della causa possa derivare da tale adempimento che, del resto, sembra davvero «essenziale al contraddittorio», poiché non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che per la controparte sia essenziale conoscere, oltre che i fatti sui quali il testimone verrà interrogato, anche il nominativo di chi sia chiamato a rispondere a quelle domande. Venendo alla deduzione della prova testimoniale per capitoli separati e specifici, abbiamo già visto come sia stato lo stesso legislatore, nel non prevedere l’onere per le parti di indicare già nei rispettivi primi atti difensivi i mezzi istruttori dei quali intendano avvalersi, ad introdurre nel nuovo modello processuale un elemento di fortissima contraddizione con la proclamata intenzione di costruire un procedimento idoneo a consentire al giudice di pervenire nel più breve tempo possibile ad una decisione. Ciò comporta, come detto, la possibilità che le parti possano liberamente integrare le loro richieste istruttorie nel corso della prima udienza ed è evidente che, in quel contesto, è molto più agevole chiedere genericamente la prova testimoniale su tutte le circostanze di fatto dedotte nel ricorso o nella memoria di costituzione, piuttosto che formulare articoli specifici e separati, come preteso dall’art. 244 c.p.c. Ma è altrettanto evidente che richiedere che i difensori delle parti procedano a tale capitolazione nel corso dell’udienza comporterebbe inevitabilmente una dilatazione dei tempi 62 Trib. Mondovì, 12 novembre 2009, in Giur. it., 2010, 899. Trib. Mondovì, 12 novembre 2009, cit. 64 C. CONSOLO, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corr. giur., 2009, 885. Nel senso sia della necessità della prestazione dell’impegno di cui all’art. 251 c.p.c. (così come manipolato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 149 del 1995), sia della superfluità della capitolazione, a condizione che le circostanza su cui la parte chieda di sentire il testimone siano sufficientemente specificate, anche M.A. LUPOI, Sommario (ma non troppo), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 1256. 65 G.F. RICCI, La riforma del processo civile, Giappichelli, 2009, 110. 66 L. DITTRICH, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2009, 1595, il quale precisa che non altrettanto potrebbe ritenersi per l’interrogatorio formale (su quest’ultimo punto, concorde C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. III, Giappichelli, 2010, 189; invece diversa l’opinione di G.F. RICCI, op. loc. cit.). 67 C. BESSO, Il nuovo rito ex art. 702 bis c.p.c.: tra sommarietà del procedimento e pienezza della cognizione, in Giur. it., 2010, 725, nt. 35. 63 28 della stessa. Ed è dunque per questo solo motivo (e non certo perché la previa capitolazione costituisca di per sé un adempimento idoneo ad allungare i tempi di definizione della causa, essendo semmai vero il contrario) che probabilmente deve ammettersi che le parti siano abilitate a richiedere l’ammissione della prova per testi senza necessità di una analitica capitolazione, fermo restando comunque la possibilità di formulare tale istanza solamente con riferimento ai fatti ritualmente dedotti in giudizio. Deve, infine, ritenersi essenziale al contraddittorio il riconoscimento alle parti della facoltà di fare osservazioni sull’attendibilità del testimone e di pretendere i chiarimenti necessari (art. 252, seocndo comma, c.p.c,.) e di chiedere al giudice di rivolgere al testimone ogni domanda utile a chiarire i fatti sui quali esso depone (art. 253 c.p.c.). Passando alla consulenza tecnica d’ufficio, per quanti sforzi si vogliano fare, non sarà mai possibile immaginare una modalità di svolgimento di tale accertamento maggiormente concentrata rispetto al modello già offerto dal rito codicistico del lavoro all’art. 422. Com’è noto, è qui previsto che il giudice, nominato «in qualsiasi momento» uno o più consulenti tecnici, possa assegnare alle parti un termine perentorio non superiore a cinque giorni per note sui quesiti da formulare all’ausiliare (nonché un termine non superiore a sei giorni per la nomina dei consulenti di parte: art. 145 disp. att. c.p.c.); il consulente può essere autorizzato a riferire verbalmente ovvero, in caso di relazione scritta, gli può essere concesso all’uopo un termine non superiore a venti giorni. Non si vede davvero come i tempi per il compimento delle operazioni peritale potrebbero essere ulteriormente compressi. Se si aggiunge che la prestazione del giuramento assume anche al riguardo formalità in difetto della quale neppure potrebbe parlarsi di consulenza tecnica d’ufficio, che la formulazione del quesito deve necessariamente essere riportata nel verbale d’udienza (per le più elementari esigenze di certezza e di rispetto dei poteri defensionali delle parti) e che la facoltà delle parti di ricorrere alla nomina di consulenti di parte rientra in pieno nell’esercizio del diritto di difesa, si può agevolmente concludere che, rispetto al mezzo in questione, la prescrizione secondo la quale il giudice omette ogni formalità non essenziale al contraddittorio si riduce all’impossibilità di applicare il complesso meccanismo previsto dall’art. 195, terzo comma, c.p.c. (ammesso e non concesso che esso sia, in generale, compatibile con il rito lavoristico). In conclusione, la previsione della de formalizzazione non sembra idonea a determinare particolari vantaggi sul piano della contrazione dei tempi. Ma ciò non deve sorprendere, se si considera che essa si colloca nell’àmbito di un procedimento che è assoggettato, in generale, alla disciplina codicistica delle controversie di lavoro, vale a dire a un rito che è già di epr sé scevro da formalismi. Una disposizione che consente al giudice di omettere le formalità non essenziali al contraddittorio produce effetti molto significativi se applicato a cause regolate dal rito ordinario, consentendo di evitare di seguire pedissequamente il complesso iter prefigurato dall’art. 183 c.p.c. ovvero quello di cui agli artt. 190 e 281-quinquies, c.p.c. La medesima disposizione, invece, non ha molto senso, occorre riconoscerlo, se si inserisce in una disciplina come quella del rito del lavoro. 4.9. Alcuni incidenti processuali. – Questione diversa rispetto a quelle affrontate sinora è quella relativa alla compatibilità con il particolare carattere della prima fase del nuovo rito di incidenti quali la verificazione della scrittura privata, la querela di falso, l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale, il rinvio alla Corte di giustizia delle Comunità europee di una questione pregiudiziale di interpretazione del diritto comunitario. Iniziando dalla prima delle predette ipotesi, indubbia essendo la facoltà della parte di disconoscere la scrittura privata anche nel procedimento in questione, si dovrebbe ammettere con altrettanta sicurezza la facoltà della controparte di proporre istanza di verificazione. Le segnalate caratteristiche dell’istruttoria nella fase “urgente”, infatti, non consentono di ritenere incompatibile con tale fase un accertamento istruttorio per il solo fatto che esso sia caratterizzato da complessità. Il limite, piuttosto, è costituito, anche con riferimento al procedimento di verificazione, dal suo carattere di indispensabilità, nel senso che il giudice può evitare di dar corso a tale procedimento se 29 ritenga che la genuinità o meno della scrittura in questione sia elemento irrilevante alla formazione del giudizio di verosimiglianza che caratterizza la prima fase del nuovo procedimento. Analoghe considerazioni sembrerebbero valide rispetto alla querela di falso, con l’avvertenza che la valutazione della rilevanza del documento che l’art. 222 c.p.c. impone al giudice, andrà compiuta anche qui nella prospettiva del predetto giudizio di verosimiglianza. Non vi sono ragioni, infine, per escludere l’ammissibilità degli incidenti di costituzionalità e di pregiudizialità comunitaria, i quali attengono, non già all’attività istruttoria, bensì, per così dire, alla rimozione di ostacoli giuridici all’effettivo dispiegarsi di diritti soggettivi già enucleabili dall’ordinamento. Negare la praticabilità di tali incidenti significherebbe precludere la possibilità stessa di tutela dei diritti soggettivi delle parti in un procedimento che, come già accennato e come si vedrà meglio in seguito, è destinato a sfociare in un provvedimento giudiziale idoneo ad acquisire la stabilità tipica del giudicato. Si può invece escludere con sicurezza la compatibilità, con la prima fase del nuovo giudizio di impugnazione dei licenziamenti, dell’istituto dell’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi di cui all’art. 420-bis c.p.c., destinato ad introdurre nella controversia un complesso procedimento dai tempi inconciliabili con quelle richiesti dalla nuova procedura ex legge n. 92 del 2012 e non indispensabile al fine della tutela delle posizioni soggettive delle due parti della controversia, tutela perfettamente ottenibile anche senza mettere in moto quel procedimento. Quanto alle vicende anomale del processo, non sembra che possano ipotizzarsi soluzioni diverse da quelle in generale valide tanto per il rito civile ordinario, quanto per quello lavoristico codicistico. Così, in caso di mancata comparizione di entrambe le parti, non v’è alcuna ragione per derogare alla disciplina di cui agli artt. 181 e 309 c.p.c. In particolare, non si vede per quale motivo l’indubbia concentrazione della trattazione che caratterizza il nuovo procedimento debba far premio sulle generali esigenze di garanzia delle parti che sono alla base della disciplina del codice di rito in tema di diserzione bilaterale delle udienze. Analogamente, la mancanza di un termine esterno, seppure non rigido (come per esempio l’esigenza di evitare che si verifichi il pregiudizio irreparabile), esclude che possa dubitarsi dell’applicabilità degli istituti della sospensione e dell’interruzione della causa di cui agli artt. 295 ss. c.p.c. Ovviamente compatibile col nuovo rito è, infine, la disciplina dell’estinzione (artt. 306-310 c.p.c.). 5. segue: c) la decisione. L’art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012 prevede che, all’esito della prima fase, il giudice decide circa l’accoglimento o il rigetto della domanda con ordinanza immediatamente esecutiva. Trattandosi di ordinanza, si applica l’art. 134 c.p.c., onde il provvedimento può essere pronunciato in udienza ovvero fuori udienza. Deve considerarsi sicuramente legittima la prassi secondo la quale il giudice si riserva la decisione concedendo un breve termine alle parti per depositare note scritte (facoltà della quale, a causa della ristrettezza dei tempi imposti alle precedenti attività defensionali e della delicatezza dell’oggetto delle controversie in questione, è pronosticabile che le parti si avvarranno con una certa frequenza). Ciò pur se si deve negare che la concessione di tale termine costituisca una formalità essenziale al contraddittorio, potendo le parti adeguatamente esercitare il loro diritto di difesa in sede di discussione orale. Pertanto è inevitabile riconoscere al giudice un ampio potere discrezionale circa l’accoglimento o meno dell’istanza delle parti in tal senso. Nonostante che il comma 49 preveda, quali unici esiti del procedimento, l’accoglimento o il rigetto della domanda (vale a dire, decisioni nel merito), è ovvio che la fase in questione può 30 concludersi anche con pronunce in rito, quali quelle dichiarative dell’incompetenza per territorio o della nullità del ricorso. Il regime dell’ordinanza è descritto nei commi 49 e 50 dell’art. 1. Il primo stabilisce che essa è immediatamente esecutiva; il secondo che la sua efficacia esecutiva non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice «definisce» il giudizio di opposizione (non è necessario – affinché venga meno l’efficacia esecutiva dell’ordinanza – che la sentenza che conclude il giudizio di opposizione passi in giudicato, poiché sarebbe davvero contrario a qualsiasi principio di ragionevolezza che l’accertamento sommario prevalesse su quello pieno, seppur non ancora definitivo). La dottrina ha già manifestato perplessità circa la legittimità costituzionale di quest’ultima previsione (peraltro analoga a quella prevista dall’art. 28, secondo comma, della legge n. 300 del 1970 con riferimento al decreto con il quale il giudice dichiara l’antisindacalità della condotta datoriale), sottolineando come l’esclusione della sospensione e della revoca leda il diritto di difesa della controparte68. Ed in effetti si deve riconoscere che, se è sicuramente legittima l’attribuzione dell’esecutività ad un provvedimento (quale l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”) emanato a seguito di un’istruttoria meramente sommaria, non altrettanto può dirsi circa la stabilità di tale immediata esecutività, suscettibile di resistere anche alle diverse indicazioni derivanti dagli elementi acquisiti nel corso del successivo giudizio a cognizione piena. La legge tace completamente sul regime dell’ordinanza nel caso in cui essa non sia tempestivamente opposta (ovvero delle parti della statuizione giudiziale non oggetto di tempestiva opposizione). Tuttavia, il fatto che il legislatore abbia previsto un termine perentorio («a pena di decadenza», recita il comma 51 dell’art. 1 della legge n. 92) per la proposizione dell’opposizione dovrebbe indurre senz’altro a ritenere che l’ordinanza (o la parte dell’ordinanza) non oggetto di tempestiva opposizione acquisisca la stabilità propria della cosa giudicata69. Il problema piuttosto sta nel definire i confini dell’accertamento contenuto nell’ordinanza non opposta che diventa vincolante per le parti e per i giudici chiamati a decidere altre controversie tra le stesse parti. Sull’argomento, si rinvia a quanto esposto nel paragrafo 10. Proprio perché in mancanza di opposizione l’ordinanza è destinata a concludere definitivamente il procedimento, è sicuro che il giudice debba statuire anche sul riparto delle spese processuali. 6. Il problema del giudicato. Si è accennato come un punto critico della disciplina del nuovo procedimento previsto dal legislatore per l’impugnazione dei licenziamenti sia costituito dall’individuazione dei limiti dell’accertamento compiuto nel provvedimento divenuto definitivo (ordinanza ex comma 49 non opposta; sentenza ex comma 57 non reclamata; sentenza della Corte d’appello non impugnata o confermata dalla Corte di cassazione) idoneo ad acquistare la stabilità propria del giudicato. In particolare, occorre appurare se, oltre alla legittimità o illegittimità del licenziamento e alla titolarità o meno, in capo al lavoratore, dei diritti configurati dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, la definitività dell’accertamento si estenda anche all’esistenza o meno del rapporto di lavoro subordinato tra le due parti. 68 R. CAPONI, op. cit., 10. Conformi: L. DE ANGELIS, op. cit., 11; A. VALLEBONA, op. cit., 75; D. BORGHESI, op. cit., 914. Nello stesso senso, rispetto al decreto ex art. 28 legge n. 300 del 1970 non opposto, Cass., 23 novembre 1989, n. 5039, in Giust. civ., 1990, I, 2123, e Cass., 5 maggio 1984, in Arch. civ., 1984, 1170. Contra, C. CONSOLO-D. RIZZARDO, op. cit., 735, con l’unica motivazione secondo la quale «ritenere che l’ordinanza acquisti un’efficacia analoga a quella del giudicato sembra eccessivo, in considerazione della forte informalità della fase sommaria e quanto meno per la parte debole del rapporto». Dubbioso L. CAVALLARO, op. cit., 10. 69 31 Trattasi di una classica ipotesi di c.d. pregiudizialità in senso logico: chiedendo al Tribunale la concessione di qualcuna delle tutele di cui al predetto art. 18, il lavoratore deduce in giudizio anche la pregressa esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la controparte e fa valere, appunto, uno dei tanti effetti di un simile rapporto giuridico. La fattispecie, pertanto, è diversa da quella della c.d. pregiudizialità tecnica, categoria che comprende le ipotesi in cui un diritto (e non un rapporto) rientra tra gli elementi costitutivi di un altro diritto. È noto come la dottrina sia divisa circa l’applicabilità dell’art. 34 c.p.c. (e dei principi da esso espressi al fine di individuare i limiti del giudicato) alle ipotesi di pregiudizialità in senso logico. Ma è altrettanto noto come la giurisprudenza di legittimità esprima una posizione negativa al riguardo, sostenendo che, indipendentemente dalla proposizione di una domanda in tal senso, il giudicato sul diritto oggetto della domanda si estenda all’esistenza del rapporto giuridico dal quale quello trae origine70. Ove si ritenesse che tale consolidato orientamento sia applicabile alla fattispecie che qui interessa, si deve concludere che la definitività del provvedimento giudiziale conclusivo della controversia che riconosce a favore del lavoratore una delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, fa acquisire carattere di stabilità anche all’accertamento positivo dell’esistenza di un pregresso rapporto di lavoro subordinato tra le due parti, sussistenza che, pertanto, non potrà più essere messa in discussione in eventuali futuri giudizi. Per quanto concerne, invece, l’ordinanza di rigetto, occorre operare la necessaria precisazione secondo la quale a quel provvedimento giudiziale va riconosciuto l’effetto di esprimere un accertamento definitivo circa l’inesistenza o l’invalidità del rapporto fondamentale dedotto in giudizio solamente se il rigetto delle domande del lavoratore si fondi proprio su quell’accertamento; invece, se il rigetto derivi dalla decisione di questioni attinenti esclusivamente ai diritti derivanti dall’illegittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere di recesso, non è possibile ritenere che l’ordinanza di rigetto faccia stato anche sull’inesistenza o l’invalidità del rapporto di lavoro subordinato tra le parti71. Volendo fare alcuni esempi: se il giudice respinga la domanda ex art. 18 legge n. 300 del 1970 perché ritenga insussistente la subordinazione e l’ordinanza non sia opposta tempestivamente, dovrebbe ritenersi definitivamente accertato che le prestazioni lavorative siano state eseguite in regime di autonomia; se invece il giudice rigetti la medesima domanda senza appurare alcunché circa la natura del rapporto, ma solamente perché ritenga che il rapporto non sia cessato ad iniziativa del convenuto ovvero perché escluda che questi occupi più di 15 dipendenti, all’ordinanza non opposta non potrebbe essere riconosciuto alcun effetto di accertamento definitivo circa l’insussistenza del rapporto di lavoro subordinato. Potrebbe darsi il caso in cui il giudice, respinga la domanda di applicazione della tutela prevista dall’art. 18 per uno dei motivi appartenenti alla categoria appena indicata per seconda e, 70 V., tra le più recenti, Cass., 9 aprile 2009, n. 8723, Cass. 18 dicembre 2008, n. 29531, e Cass. 24 marzo 2006, n. 6628, secondo cui in relazione ai rapporti di durata, se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico-giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto. 71 V. Cass., 16 maggio 2006, n. 11356, in Corr. giur., 2006, 1216 (secondo cui la pronunzia di rigetto non più soggetta ad impugnazione non costituisce giudicato implicito – con efficacia vincolante nei futuri giudizi – laddove le questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione del rapporto che ne è il presupposto logico-giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice); Cass., 17 novembre 2003, n. 17375, Cass., 14 gennaio 2002, n. 349, in Giust. civ., 2002, I, 637, e Cass., 11 febbraio 2000, n. 1532 (che hanno stabilito che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, anche nel caso di pronuncia di rigetto della domanda, estende i suoi effetti non solo alla decisione relativa al bene della vita chiesto dall’attore, ma anche a tutte le statuizioni inerenti all’esistenza e alla validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie ed indispensabili per giungere a quella pronuncia). Significativo, in tal senso, anche l’orientamento secondo il quale il provvedimento giurisdizionale di merito, pur quando sia passato in giudicato, non è vincolante in altri giudizi aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto, se da esso non sia dato ricavare le ragioni della decisione ed i princìpi di diritto che ne costituiscono il fondamento: Cass., 25 novembre 2010, n. 23918. 32 tuttavia, nella motivazione dell’ordinanza, si esprima nel senso della sussistenza della subordinazione. Ad esempio, in un caso in cui il ricorrente, deducendo la qualificazione in termini di subordinazione delle prestazioni lavorative da lui eseguite, chieda la condanna della controparte alla reintegrazione sostenendo di essere stato licenziato verbalmente, il giudice dia atto nella motivazione dell’ordinanza di rigetto che dall’istruttoria espletata emerge la natura subordinata del rapporto, ma, ritenendo provato che il datore di lavoro abbia comunicato per iscritto il proprio recesso, rigetti comunque la domanda del lavoratore. Qui dovrebbe escludersi che l’accertamento della sussistenza della subordinazione acquisti la stabilità propria della cosa giudicata. Infatti, le affermazioni formulate al riguardo nel provvedimento giudiziale non sono affatto legate alla statuizione sull’inesistenza del diritto alla reintegrazione da un nesso tale che questa seconda non sia concepibile prescindendo dalle prime, onde non è possibile predicare l’estensione dell’effetto di stabilità anche all’accertamento del rapporto di lavoro subordinato72. A questo punto, appare evidente come quanto appena esposto se, da un lato, costituisce la piana applicazione di consolidati principi giurisprudenziali, dall’altro è fonte di gravi inconvenienti in un modello processuale nel quale, come s’è visto (supra, n. 2), è esclusa in radice la possibilità di realizzazione del simultaneus processus in caso di contemporanea pendenza di controversie legate dal vincolo della pregiudizialità logica73. Ed infatti, nel caso in cui sia controversa tra le parti la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (il che può avvenire per i motivi più vari: contestazione della natura subordinata delle prestazioni eseguite, contestazione dello stesso svolgimento di attività lavorativa, contestazione dell’imputabilità del rapporto di lavoro proprio alla parte contro al quale il lavoratore ha proposto la domanda, ecc.), se il lavoratore sostenga di vantare una pluralità di diritti scaturenti da quel rapporto, egli, tutte le volte in cui qualcuno di quei diritti trovi fonte nell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, sarà costretto a introdurre almeno due controversie: una relativa alle domande di cui al predetto art. 18, l’altra per avanzare tutte le altre pretese. In base ai principi ricordati, il giudicato formatosi in entrambi i giudizi copre anche l’esistenza/inesistenza del rapporto di lavoro subordinato e, in ipotesi di decisioni segno diverso, ecco che si verificherà il contrasto tra giudicati. Al fine di evitare che si determini una simile, inaccettabile eventualità, possono essere ipotizzate due soluzioni. La prima è quella di ritenere che all’accertamento contenuto nel provvedimento conclusivo della controversia di impugnazione del licenziamento dispieghi effetti propri della cosa giudicata solamente rispetto allo specifico diritto contemplato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 azionato dal lavoratore nella controversia, non anche relativamente all’esistenza o meno del rapporto di lavoro subordinato dal quale quel diritto dovrebbe scaturire. 72 Del resto, opinare diversamente comporterebbe la necessità di ammettere l’esistenza dell’interesse del datore di lavoro, pur pienamente vittorioso, ad impugnare un’ordinanza come quella ipotizzata nel testo, e ciò in contrasto con l’altro orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’interesse all’impugnazione va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’accoglimento del gravame, e si collega alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l’impugnazione è inammissibile; conseguentemente deve escludersi l’interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione: Cass., 10 novembre 2008, n. 26921. Ciò anche se la parte prospetti l’utilità che l’auspicata diversa motivazione potrebbe avere con riguardo ad eventuali altre controversie di natura simile: Cass., 13 maggio 1997, n. 4168. 73 Eventualità del resto non del tutto sconosciuta nell’ordinamento processuale. Si consideri, in proposito, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nell’opposizione a decreto ingiuntivo, il fallimento del creditore opposto, nei cui confronti sia stata proposta dall’opponente domanda riconvenzionale, non determina l’improcedibilità dell’opposizione e la rimessione dell’intera controversia al giudice fallimentare, rimanendo il Tribunale ordinario competente per l’opposizione mentre al Tribunale fallimentare, previa separazione dei giudizi, deve essere rimessa esclusivamente la domanda riconvenzionale: Cass., 27 maggio 2011, n. 11749; Cass., 14 settembre 2007, n. 19290. Con la conseguente affermazione secondo la quale non sussiste alcuna possibilità di simultaneus processus tra l’opposizione a decreto ingiuntivo in sede ordinaria e la controversia di natura fallimentare, vuoi che quest’ultima sia già pendente presso il giudice del fallimento, vuoi che insorga nell’ambito dello stesso processo di opposizione: Cass., 11 agosto 2000, n. 10692, in Giust. civ., 2001, I, 418. 33 Trattasi di un’impostazione che è stata sostenuta da un’isolata (a quanto consta) dottrina74 a proposito dell’analogo problema che si pone nel procedimento sommario di cognizione rispetto alla disposizione dell’art. 702-ter, quarto comma, c.p.c., secondo la quale, quando la domanda riconvenzionale richiede un’istruzione non sommaria, il giudice ne dispone la separazione75. Essa non pare soddisfacente perché, in primo luogo, non esclude il rischio che si diano pronunce tra esse obiettivamente incompatibili: anche volendo negare che quella emanata nel giudizio di impugnazione del licenziamento estenda la sua autorità al rapporto giuridico (quello di lavoro subordinato) controverso, resta comunque che, se la successiva sentenza pronunciata nella causa avente ad oggetto altro diritto fondato sulla pretesa esistenza del medesimo rapporto giuridico pervenga a conclusione diversa appunto sull’esistenza di tale rapporto, si viene comunque a determinare una situazione che, seppure non sarebbe qualificabile come contrasto di giudicati in senso tecnico, è comunque intollerabile per l’ordinamento, poiché le controversie svolte hanno, in un caso, accordato ciò che presuppone l’esistenza di un certo rapporto contrattuale e, in un altro, negato l’esistenza di tale rapporto. Senza contare il fatto che, considerato che anche il procedimento di impugnazione dei licenziamenti consente (a partire dal giudizio di opposizione in poi) un accertamento pieno ed approfondito dei fatti controversi nella causa, non si comprende davvero cosa giustificherebbe la negazione, al provvedimento conclusivo di tale procedimento che abbia acquisito il carattere della definitività, dell’autorità del giudicato nell’estensione generalmente riconosciuta alle sentenze definitive, mentre tale autorità sarebbe conservata alla sentenza conclusiva dell’altra controversia tra le stesse parti ed avente ad oggetto diritti diversi da quelli riconosciuti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. A fronte di simili difficoltà, l’unica strada percorribile resta allora quella di ritenere applicabile l’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. Vale a dire che, riconosciuto che il giudicato formatosi nella controversia di impugnazione del licenziamento si estende (alle condizioni prima viste) anche all’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto di lavoro subordinato, ne consegue che, tutte le volte in cui tra le due parti sia controversa l’esistenza di quel rapporto: a) nelle controversie aventi ad oggetto altri diritti scaturenti da quel rapporto promosse dalle stesse parti successivamente alla formazione del giudicato nella causa di impugnativa del licenziamento, il giudice è vincolato al predetto giudicato che si estende anche all’esistenza (ovvero, alle condizioni sopra precisate, all’inesistenza) del rapporto di lavoro subordinato; b) in caso di contemporanea pendenza delle due cause, se in una sia già stata pronunciata una sentenza sottoposta ad impugnazione, il giudice dell’altra può sospenderla ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c.; c) nel caso in cui le due cause pendano entrambe in primo grado, quella avente ad oggetto diritti diversi da quelli di cui all’art. 18 deve essere sospesa in attesa della definizione di quella di impugnazione del licenziamento. Non ci si nascondono, peraltro, le difficoltà nelle quali incorre anche la soluzione qui proposta. In primo luogo, si deve riconoscere che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l’art. 295 c.p.c. prevede la sospensione necessaria solamente in caso di pregiudizialità in senso tecnico e non anche in quello di pregiudizialità in senso meramente logico76. E nel nostro caso – come si è visto – è proprio quest’ultima l’ipotesi configurabile. E tale constatazione, tra l’altro, pone il problema dell’individuazione di quale, tra le due cause, debba essere sospesa. In secondo luogo, la stessa Suprema Corte ripete ormai da anni: che, nel quadro della nuova disciplina di cui all’art. 42 c.p.c., come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal 74 G. SCARSELLI, Le altre impugnazioni e il giudicato, in Giur. it., 2010, 743. Problema che, come si è visto (supra, n. 2) la dottrina assolutamente prevalente (v. nota 31) risolve in altra maniera, inapplicabile al procedimento di cui qui si tratta. 76 Cass., 21 dicembre 2011, n. 27932; Cass., 25 maggio 2007, n. 12233; Cass., 16 marzo 2007, n. 6159. 75 34 giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale; che, dalla esclusione della configurabilità di una sospensione facoltativa ope iudicis del giudizio, deriva come corollario l’impugnabilità, ai sensi del citato art. 42, di ogni provvedimento di sospensione del processo, quale che ne sia la motivazione; e che il ricorso deve essere accolto ogniqualvolta non si sia in presenza di un caso di sospensione ex lege77. Le considerazioni appena svolte, tuttavia, costituiscono un problema solamente rispetto all’ipotesi enunciata in precedenza sub lettera c), cioè per il caso in cui la causa di impugnazione del licenziamento e quella avente ad oggetto un diverso diritto in cui sia controversa l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato siano contemporaneamente pendenti in primo grado78. Così limitato l’àmbito di rilevanza pratica del problema, si deve anche riconoscere la sostanziale impossibilità di individuare una soluzione che sia allo stesso tempo coerente con tutti i principi affermati dalla giurisprudenza in caso di pregiudizialità logica e rispettosa delle indicazioni derivanti dal tenore letterale delle norme che compongono la disciplina del nuovo procedimento introdotto dalla legge n. 92 del 2012. In effetti, l’esclusione del potere del giudice di sospendere il processo al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 295 e la restrizione dell’àmbito di applicabilità di quest’ultima disposizione alle ipotesi di pregiudizialità tecnica, appaiono del tutto logici e coerenti in un sistema che, per le fattispecie di pregiudizialità logica, assicura, in caso di contemporanea pendenza in primo grado delle due cause, il simultaneus processus (art. 39, secondo comma, c.p.c.) e, nel caso invece in cui in una delle cause sia già stata pronunciata una sentenza, prevede – ove questa sia non più impugnabile – il vincolo del giudicato a carico del giudice dell’altra causa e – ove invece sia pendente un giudizio di impugnazione avverso quella sentenza – la sospensione ex art. 337, secondo comma, c.p.c. Ma la coerenza di un simile sistema è irrimediabilmente compromessa se la disciplina propria del rito di cui si tratti, non solamente non assicura sempre e comunque il simultaneus processus in caso di contemporanea pendenza in primo grado delle due cause legate dal vincolo della pregiudizialità logica, ma, anzi, addirittura impone il processo separato. Ed allora, tanto vale prendere atto dell’impossibilità della quadratura del cerchio e rassegnarsi a sacrificare qualcuno dei tasselli che compongono il sistema congegnato dalle norme del codice di rito, al fine di salvaguardare l’esigenza che appare irrinunciabile, vale a dire quella di evitare il formarsi di giudicati contrastanti. Al riguardo sembra che il male minore sia appunto quello di ammettere la possibilità di sospensione di una delle due cause, provvedimento che, nell’àmbito del rito oggetto della presente trattazione appare consentito proprio perché, contrariamente a quanto avviene rispetto alla disciplina processuale generale, esso non compromette l’intima coerenza del sistema, ma, al contrario, la preserva. Quanto, poi, alla scelta di quale, tra le due cause, debba essere quella soggetta a sospensione, si ritiene che essa debba essere quella in cui non si faccia questione della legittimità del licenziamento e ciò per due motivi: primo, perché quella soggetta al rito di cui alla legge n. 92 del 2012 dovrebbe tendenzialmente esaurirsi in tempi più ristretti, in considerazione delle misure acceleratorie previste dal legislatore che, in parte, sono già state esaminate e, in parte, saranno oggetto di analisi nel paragrafo 13; secondo, perché, in ragione degli interessi coinvolti, è indubbio che la controversia sulla legittimità del licenziamento tollera meno di qualsiasi altra causa di lavoro, una sospensione. 7. Questioni di rito. 77 Tra le tante, v. Cass., 25 novembre 2010, n. 23906; Cass., 31 gennaio 2007, n. 2089, in Dir. prat. soc., 2007, n. 19, 82; Cass., sez. un., 1° ottobre 2003, n. 14670, in Foro it., 2004, I, 1474. 78 Non sembra, invece, che vi siano ostacoli all’accettazione della soluzione indicata nel testo per l’ipotesi sub lettera b), considerato che la giurisprudenza di legittimità afferma l’applicabilità dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., pure nei casi in cui tra i due giudizi esista un nesso di pregiudizialità anche soltanto logico: Cass., 3 maggio 2007, n. 10185; Cass., sez. un., 26 luglio 2004, n.14060, in Riv. giur. lav., 2005, 740. 35 7.1. L’applicabilità in via analogica dell’art. 4 d. lgs. n. 150 del 2011. – Nulla è disposto dal legislatore per il caso in cui domande soggette al nuovo rito siano azionate con un ricorso ex art. 414 c.p.c., né per quello (inverso) in cui domande diverse da quella di impugnativa del licenziamento siano proposte con ricorso formulato ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012. Al riguardo occorre anzitutto avvertire che l’erronea adozione del nuovo rito speciale piuttosto che di quello lavoristico del codice di rito (e viceversa) non comporta, di per sé, alcun conseguente problema di competenza, posto che, come segnalato, l’individuazione del giudice competente a decidere la controversia avviene, nelle due ipotesi, sulla base dei medesimi criteri. Ciò premesso, nel silenzio della legge n. 92 del 2012, si può volgere lo sguardo verso le soluzioni adottate dal legislatore al fine di risolvere gli analoghi problemi che possono porsi in controversie soggette a riti che presentano affinità con quello di cui qui si discute. Si tratta, in primo luogo, degli artt. 426 e 427 c.p.c., i quali prevedono meccanismi diretti ad assicurare il semplice mutamento di rito, tutte le volte in cui una causa relativa ad uno dei rapporti previsti dall’art. 409 sia promossa nelle forme ordinarie ovvero una causa promossa secondo il rito del lavoro riguardi un rapporto diverso da quelli di cui al citato art. 409. In secondo luogo, del secondo e del terzo comma dell’art. 702-ter c.p.c.; la prima di tali disposizioni, nel caso di ricorso, da parte dell’attore, al procedimento sommario di cognizione per far valere una domanda diversa da quelle per le quali tale rito è applicabile, prevede la declaratoria di inammissibilità della domanda, con conseguente conclusione del processo con una decisione in rito; la seconda, nel caso in cui il giudice si convinca che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruttoria non sommaria, stabilisce la conversione del rito. In terzo luogo, rileva la scelta operata dal legislatore del 2011 in sede di semplificazione dei riti civili, il quale, all’art. 4 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, ha optato per la soluzione del mutamento di rito tutte le volte in cui una delle controversie da trattare secondo uno dei modelli considerati dal decreto sia promossa seguendo un rito diverso da quello stabilito dallo stesso decreto legislativo per quella categoria di controversie. E proprio quest’ultima disposizione assume rilevanza sotto un duplice profilo. Innanzitutto, da essa può trarsi una conferma della tesi secondo la quale nel nostro ordinamento è individuabile il principio generale per cui, in caso di erronea scelta del rito, opera la regola del mutamento, invece che quella della conclusione della causa con una decisione di inammissibilità79. Inoltre, tra le diverse normative prima menzionate, l’unica che sembrerebbe attagliarsi ai rapporti tra nuovo rito speciale e rito codicistico del lavoro sembra essere proprio l’art. 4 d. lgs. n. 150 del 2011. Ed invero, gli artt. 426 e 427 regolano i rapporti tra rito ordinario e rito del lavoro, mentre qui quello che viene in rilievo è un rito a cognizione sommaria. L’art. 702-ter, dal canto suo, disciplina solamente l’ipotesi in cui una domanda che avrebbe dovuto essere trattata seguendo il rito ordinario o del lavoro (perché estranea a quelle sulle quali il tribunale giudica in composizione monocratico ovvero perché richiedente una istruttoria non sommaria) sia stata invece proposta secondo le regole del procedimento sommario di cognizione; inoltre la disciplina dettata da tale norma si giustifica con il fatto che il procedimento sommario di cognizione è contemplato dal codice di rito come oggetto di una scelta opzionale dell’attore, mentre invece, come si è detto (supra, n. 1), il rito introdotto dalla legge n. 92 del 2012 è configurato dal legislatore come l’unico cui le parti possono ricorrere in caso di impugnazione di un licenziamento ricadente nell’area di applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (così come il rito codici stico del lavoro è imposto dal legislatore alle parti in tutti gli altri casi di controversie in materia di rapporti di lavoro subordinato). 79 A. CHIZZINI, Commento all’art. 1, in C. CONSOLO (diretto da), Codice di procedura civile commentato. La «semplificazione dei riti» e le altre riforme processuali 2010-2011, Ipsoa, 2012, 19; BALENA, Le conseguenze dell’errore sul modello formale dell’atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle sezioni unite), in Giusto proc., 2009, 661 ss. 36 Invece l’art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011, essendo diretto a risolvere le questioni di rito che possono porsi in riferimento a qualsiasi ipotizzabile combinazione tra i tre riti presi in considerazione dal decreto (quello ordinario, quello del lavoro e quello sommario di cognizione), tutti concepiti dal legislatore come gli unici cui la parte può ricorrere nelle singole controversie contemplate dallo stesso decreto legislativo, può ragionevolmente essere considerato come espressione di principi sufficientemente generali da poter essere applicati in via analogica pure alle questioni di rito connesse con il nuovo procedimento di impugnazione dei licenziamenti. Anche perché i criteri che hanno ispirato il legislatore del 2011, così come si leggono nella Relazione illustrativa al detto decreto legislativo80, appaiono sicuramente coerenti con la ratio dell’intervento della legge n. 92 in materia processuale. Non sembra che possa costituire ostacolo alla conclusione ora raggiunta l’orientamento espresso dalla Suprema Corte a proposito del procedimento speciale ex artt. 28 e 29 della legge n. 794 del 1942, in tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato, secondo il quale, quando risulti l’inesistenza dei presupposti per l’applicazione di tale procedimento, deve essere dichiarata esclusivamente l’inammissibilità del ricorso senza possibilità per il giudice di disporre la conversione del rito in un ordinario giudizio di cognizione, presupponendo il mutamento del rito l’esistenza di due procedimenti a cognizione piena, mentre lo speciale procedimento per la liquidazione degli onorari è sommario e ha un oggetto diverso rispetto a quello per il quale si procede con cognizione ordinaria81. Ed in effetti, in primo luogo, è evidente la diversità della fattispecie oggetto delle pronunce di legittimità appena richiamate con i casi, che qui interessano, dell’impugnazione del licenziamento con ricorso ex art. 414 e della proposizione di domande estranee a quelle di cui all’art. 1, comma 47, della legge n. 92 del 2012 con il ricorso di cui al successivo comma 48; in questi casi, invero, non viene in rilievo alcun mutamento dell’oggetto del giudizio così come inizialmente instaurato (seppur utilizzando un rito errato) dal lavoratore, onde non sussiste quello che, nell’opinione dei giudici di legittimità, rappresenta il vero ostacolo alla conversione del rito nell’ipotesi della liquidazione dei diritti ed onorari di avvocato. In secondo luogo, si deve riconoscere che l’orientamento della Corte di cassazione in questione si è formato in un contesto normativo che non comprendeva la fondamentale disposizione dettata dall’art. 4 del d. lgs. n. 50 del 2011 successivamente introdotta dal legislatore, la quale ben può essere considerata espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento processualcivilistico al quale si può derogare solamente in presenza di norme che depongono espressamente in senso diverso ovvero in caso di incompatibilità con la specifica natura del procedimento di cui volta per volta si tratta. Neppure paiono decisive le argomentazioni svolte in dottrina per sostenere che, nel procedimento di cui trattasi, l’errore del rito dovrebbe condurre necessariamente a decisione in rito, senza alcuna possibilità di pronuncia sul merito della controversia; ciò sulla base dell’elemento di novità (rispetto agli altri casi in cui le parti possono incorrere in analoghi errori) rappresentato dall’esistenza della “corsia preferenziale” prevista a favore delle cause relative alle impugnative dei licenziamenti assistiti dalle tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 che, favorendo chi introduca tali tipi cause rispetto a chi ne introduca di diverse, assumerebbe una connotazione accentuatamente pubblicistica, con l’ulteriore corollario secondo cui il giudice sarebbe abilitato a 80 «Nell’emanare una disciplina del mutamento di rito comune a tutte le fattispecie […] si è tenuto conto, per un verso, dell’assenza di ragioni tali da dar luogo ad un favor assoluto per uno specifico modello procedimentale, e, per altro verso, dell’esigenza di ridurre al minimo l’ambito temporale di incertezza sulle regole destinate a disciplinare il processo, al fine di scongiurare vizi procedurali che, riverberandosi a catena su tutta l’attività successiva, possano far regredire il processo, in contraddizione con i principi di economia processuale e di ragionevole durata sanciti dall’art. 111 della Costituzione». 81 Cass., 5 agosto 2011, n. 17053; Cass., 9 settembre 2008, n. 23344. Contra, in precedenza, Cass., 24 febbraio 2004, n. 3637; Cass., 27 febbraio 1995, n. 2229. 37 qualificare l’oggetto della controversia – ai fini dell’individuazione del rito correttamente utilizzabile – anche in sede di decisione della causa82. Si può replicare che nessuno nega la necessità di evitare abusivi e strumentali ricorsi al nuovo rito; si tratta solamente di individuare la soluzione più corretta alla luce dei principi generali dell’ordinamento e non si può mancare di osservare che sarebbe davvero singolare che un ordinamento processuale che prevede meccanismi diretti a consentire la prosecuzione della causa anche quando la parte attrice abbia errato addirittura nell’individuazione del giudice munito di giurisdizione, impongano invece la chiusura della controversia con una decisione di mero rito quando, nella ricorrenza di tutti i presupposti processuali, la parte abbia sbagliato solamente nella scelta del modello dell’atto introduttivo della lite. La tesi qui propugnata, del resto, imponendo l’immediata (vale a dire entro la prima udienza: v. infra) conversione del rito, impedisce alla parte che abbia strumentalmente fatto ricorso al rito ex legge n. 92 del 2012 di approfittare in maniera significativa del proprio volontario errore, posto che, come si vedrà, il giudice, nel mutare il rito, dovrà comunque assegnare alle parti termine per l’integrazione degli atti con conseguente rinvio dell’udienza e perdita del vantaggio eventualmente conseguito dal ricorrente in sede di fissazione dell’udienza di comparizione. 7.2. Il contenuto dell’ordinanza di mutamento di rito. – Venendo ora alla disciplina contenuta nell’art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011, essa prevede, quale regola generale, che, quando una controversia è promossa in forme diverse da quelle per essa prescritte, «il giudice dispone il mutamento di rito con ordinanza» (comma 1) e, quale regola particolare, che, nel caso in cui la controversia debba essere trattata applicando il rito del lavoro, «il giudice fissa l’udienza di cui all’articolo 420 del codice di procedura civile e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito di memorie e documenti in cancelleria» (comma 3). Entrambe tali disposizioni sono suscettibili di applicazione alle questioni di rito che possono presentarsi in riferimento al nuovo procedimento di impugnazione dei licenziamenti. Precisamente: il comma 3 viene in rilievo nell’ipotesi in cui la domanda formulata nel ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 sia diversa dall’impugnazione di un licenziamento rientrante nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e, concernendo uno dei rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., debba essere trattata con il rito previsto dal codice di rito per le controversie individuali di lavoro; in tal caso, pertanto, il giudice fisserà l’udienza di discussione di cui all’art. 420 c.p.c., assegnando un primo termine perentorio al ricorrente per l’integrazione degli atti difensivi e dei documenti ed un secondo termine al convenuto per replicare a tale integrazione. Invece la regola espressa dal comma 1 si applica nel caso in cui l’impugnazione di un licenziamento soggetta al nuovo rito sia proposta con un ricorso formulato ai sensi dell’art. 414 c.p.c. In questo caso non vi sarà alcuna necessità di fissare una nuova udienza, né tantomeno di concedere termine per eventuali integrazioni difensive. Infatti, in virtù delle disposizioni che regolano la costituzione delle parti nel rito del lavoro codicistico, le parti avranno già esaurientemente svolto le loro argomentazioni difensive e formulato le loro richieste istruttorie. E comunque, se pure intendessero proporne di ulteriori (ammissibili, come s’è detto, nel nuovo rito: v., supra, n. 4), non v’è alcuna necessità di fissare all’uopo una nuova udienza, ben potendo la parte esercitare tale facoltà nel corso della stessa prima udienza di comparizione. A questo punto, tuttavia, le parti potranno eventualmente manifestare al giudice la loro comune volontà di omettere la prima fase “urgente” del nuovo rito e di proseguire la causa, sempre in ossequio alle regole dettate dalla legge n. 92 del 2012, ma a partire dalla fase regolata dai commi 51 ss. dell’art. 1. Se si concorda con quanto esposto nel paragrafo 1 circa la facoltà che deve essere riconosciuta alle parti al riguardo, il giudice, a fronte dell’esercizio di una simile opzione, disporrà 82 L. DE ANGELIS, op. cit., 15. 38 di conseguenza (vale a dire che, pur convertendo il rito, procederà secondo le regole della fase di opposizione che, come detto, in poco si distinguono da quelle proprie dell’ordinario rito codici stico del lavoro). Nel caso di contumacia del convenuto, l’ordinanza di mutamento del rito deve essere comunicata alla parte contumace, in applicazione del principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità83 e costituzionale84 rispetto all’analogo provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 426 c.p.c. 7.3. Il regime dell’ordinanza di mutamento del rito. – Se si ammette l’applicazione in via analogica della disciplina prevista dal d. lgs. n. 150 del 2011, dovrebbero ritenersi estese alla fattispecie qui esaminata anche le disposizioni dettate dagli altri commi dell’art. 4. In particolare, il comma 2 definisce il regime dell’ordinanza di mutamento del rito, disponendo che essa «viene pronunciata dal giudice, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti». Questo limite temporale è stato variamente interpretato in dottrina. Precisamente, accanto a chi sostiene che la chiara lettera della norma imporrebbe di ritenere che la prima udienza di comparizione delle parti costituisce il momento oltre il quale è precluso, non solamente alle parti formulare eccezioni circa la correttezza del rito adottato, ma anche al giudice di disporre il mutamento del rito85, vi è chi, mosso dalla preoccupazione di evitare che i ritardi del giudice ricadano sulla parte che abbia tempestivamente eccepito l’erroneità del rito, propone un’interpretazione che ammette che, in tutti i casi in cui la questione della correttezza del rito sia stata tempestivamente sollevata alla prima udienza, l’ordinanza di mutamento del rito possa essere pronunciata anche fuori udienza se, entro la prima udienza, il giudice si riservi la decisione sul punto86; ancor più radicalmente contrastante con la lettera della norma è, poi, la tesi, largamente diffusa, secondo cui il giudice potrebbe pronunciare sull’eccezione tempestivamente sollevata anche in un’udienza successiva «eventualmente fissata dal giudice per provvedere sul tema»87 o addirittura in sede di decisione della causa88. Analoghe divergenze sono riscontabili in dottrina circa la revocabilità dell’ordinanza di mutamento del rito89 e la possibilità per le parti di dolersi in sede di gravame dell’ordinanza pronunciata sulla questione di rito (purché tempestivamente sollevata)90. 83 Cass., 8 gennaio 2010, n. 77; Cass., 6 novembre 2008, n. 26611 (che ha precisato che la mancata comunicazione può essere eccepita solo dal soggetto interessato – ossia il contumace che si costituisca successivamente – e non dalla parte già costituita, che non vi ha interesse se non è compromesso il suo diritto di difesa); Cass., 13 febbraio 1985, n. 1209. 84 Corte cost., 14 febbraio 1977, n. 14, in Foro it., 1977, I, 259, con riferimento, peraltro, alle cause pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 533 del 1973 per le quali era pronunciata l’ordinanza che fissava l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio per l’integrazione degli atti. 85 R. TISCINI, Commento all’art. 4, in B. SASSANI-R. TISCINI (a cura di), La semplificazione dei riti civili, Dike, 2011, 47 (la quale evidenzia anche aspetti dei lavori preparatori che deporrebbero per la sicura volontà del legislatore in tal senso), e, sembra, anche F. COSSIGNANI, Note sul mutamento del rito ex art. 4 D.Lgs. n. 150/2011, in Giur. it., 2012, 1389. 86 C. CONSOLO, Prime osservazioni introduttive sul d. lgs. n. 150/2011 di riordino (e relativa «semplificazione») dei riti settoriali, in Corr. giur., 2011, 1489; L. PENASA, Commento all’art. 4, in C. CONSOLO (diretto da), Codice di procedura civile commentato, cit., 50. 87 Così A. SALETTI, La semplificazione dei riti, in Dir. proc., 2012, 737. 88 Affermano che, più in generale, il giudice possa decidere sulla questione del mutamento di rito, tempestivamente rilevata, in un momento successivo alla prima udienza: F.P. LUISO, Diritto processuale civile, IV, Giuffré, 2011, 110; M. BOVE, Applicazione del rito lavoro nel d. lg. n. 150 del 2011, in Giusto proc., 2011, 1003; S. IZZO, Mutamento di rito, in Foro it., 2012, V, 85; A. CARATTA, La «semplificazione» dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Giappichelli, 2012, 76, nt. 117. 89 Negata da C. CONSOLO, op. cit., 1489; F. COSSIGNANI, op. cit., 1389; L. PENASA, op. cit., 54. Ammessa, invece, da A. SALETTI, op. cit., 738; S. IZZO, op. cit., 85; M. BOVE, op. cit., 1003. 90 Anche al riguardo, negativa l’opinione di C. CONSOLO, op. cit., 1489, che ammette la possibilità per la parte di dolersi in sede di impugnazione solamente della omessa pronuncia del giudice sulla eccezione di erroneità del rito da essa tempestivamente sollevata (conforme L. PENASA, op. cit., 51). Positiva quella di A. SALETTI, op. cit., 738; BOVE, op. cit., 1003. Di quest’ultima opinione sono anche F.P. LUISO, op. ult. cit., 111, F. COSSIGNANI, op. cit., 39 Si può ricordare, in proposito, l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento ad analoghe disposizioni legislative che individuano nella «prima udienza di discussione» il limite entro il quale il giudice può “rilevare” l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento di adempimenti che debbono precedere l’instaurazione della controversia91. Rispetto a tali disposizioni la Suprema Corte ha costantemente affermato che ove l’improcedibilità dell’azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine la questione non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio92. Non si può negare la diversità delle fattispecie ora menzionate rispetto a quella della corretta scelta del rito. Invero, nei casi di mancato adempimento dell’onere del preventivo tentativo di conciliazione o mancato esaurimento del procedimento amministrativo, si è in presenza solamente dell’omissione di una condizione di procedibilità dell’azione che non si può riverberare in alcuna maniera su attività e facoltà defensionali delle parti nel processo; si giustifica, pertanto, la prevalenza riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità all’esercizio dell’azione (nel senso, appunto, che, se il giudice non abbia tempestivamente rilevato la causa di – temporanea – improcedibilità ed abbia dato corso alla trattazione della causa – il cui svolgimento è regolato dalle medesime norme tanto nel caso in cui il tentativo di conciliazione sia stato esperito, quanto nel caso in cui non lo sia stato – non v’è ragione per far regredire il processo). Proprio tale constatazione, tuttavia, rende evidente come il predetto orientamento di legittimità sia espressivo di una tendenza giurisprudenziale diretta a privilegiare soluzioni interpretative che, senza incidere sulla esplicazione del diritto di difesa delle parti, “sterilizzino”, una volta esaurita la fase dei primi adempimenti preliminari alla trattazione della causa, questioni estranee al merito della controversia la cui risoluzione in un verso o nell’altro, è del tutto neutra rispetto all’attività difensiva delle parti, evitando così che esse possano determinare rallentamenti o regressioni del procedimento difficilmente compatibili con il principio costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata. In un simile quadro, allora, ci si deve chiedere se il fatto che il giudice del lavoro, nonostante la tempestiva eccezione sollevata sul punto dalla parte, abbia trattato con il rito ex legge n. 92 del 2012 domande diverse da quelle proponibili secondo tale rito ovvero abbia trattato secondo la disciplina codicistica un’impugnazione di licenziamento ricadente nell’area di applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, sia idoneo a condizionare i poteri e i diritti di difesa delle parti. La risposta all’interrogativo dovrebbe essere negativa, considerato che, con specifico riferimento all’attività difensiva delle parti, la diversità tra i due riti (quello ex legge n. 92 del 2012 e quello codicistico del lavoro), si riduce a poco più che la previsione, nel primo, della iniziale fase “urgente”, le differenze quasi annullandosi dalla fase di opposizione in poi. Onde si può tranquillamente escludere che possano darsi casi in cui l’adozione di un rito piuttosto che un altro giochi un ruolo determinante nella soccombenza di una delle parti. Ed allora, in coerenza con il già segnalato elemento testuale offerto dall’art. 4 d. lgs. n. 150 del 2011 (che, con formulazione ancor più pregnante rispetto a quelle delle norme in tema di esaurimento del procedimento amministrativo e di tentativo obbligatorio di conciliazione prima 1389, e IZZO, op. cit., 85, che però limitano la possibilità di censurare in sede di gravame l’ordinanza sul rito alle sole ipotesi in cui l’erroneità del rito non rilevata dal giudice nonostante la tempestiva proposizione della questione abbia in concreto svolto un ruolo nella soccombenza della parte, avendone limitato l’attività difensiva. Anche L. DE ANGELIS, op. cit., 16, seppure nell’ottica della sua particolare impostazione della quale si è dato conto in precedenza (v. nota 95), sostiene che la questione dell’erroneità del rito possa essere dedotta quale motivo di opposizione solamente quando l’errore abbia cagionato uno specifico pregiudizio alla parte. 91 Art. 443 c.p.c., in tema di esaurimento dei procedimenti amministrativi in materia di previdenza e assistenza obbligatorie; art. 5 legge 11 maggio 1990, n. 108, in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione per l’impugnazione del licenziamento nelle piccole imprese. 92 V., in riferimento all’art. 5 della legge n. 108 del 1990, tra le altre, Cass., 8 agosto 2003, n. 12010, e Cass., 1° agosto 2000, n. 10089, in Giur. it., 2002, 74. Rispetto all’art. 443 c.p.c., Cass., 9 maggio 2002, n. 6673, e Cass. 6 febbraio 1988, n. 1312. 40 menzionate, impone che alla prima udienza il giudice, non si limiti a “rilevare” la questione, ma addirittura pronunci il conseguente provvedimento di conversione del rito), sembra possibile concludere nel senso che l’ordinanza di conversione del rito (da art. 1 legge n. 92 del 2012 ad artt. 409 ss c.p.c. e viceversa) non sia né revocabile, né suscettibile di rimeditazione nei successivi fasi e gradi della causa. E’ stato segnalato come l’art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011 nulla disponga in ordine al dies ad quem per la pronuncia sul rito, onde si pone il problema se il giudice possa stabilire il mutamento di rito anche prima dell’udienza e, in particolare, con lo stesso decreto che fissa la prima udienza93. Al riguardo si segnala l’esistenza di qualche precedente nel senso, appunto, secondo il quale l’art. 4 consentirebbe la pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito anche d’ufficio, prima dell’udienza, senza che sia necessaria la preventiva instaurazione del contraddittorio94. La dottrina ha assunto una posizione generalmente critica nei confronti di tale orientamento giurisprudenziale, sulla base di argomenti che appaiono pienamente condivisibili. In particolare, si è giustamente sottolineato come la norma richiami espressamente la forma dell’ordinanza (che, in generale, presuppone l’instaurazione del contraddittorio) e come non vi sia ragione per sacrificare la esigenza (fondamentale nel processo) di salvaguardare il contraddittorio, a mente dell’art. 101, secondo comma, c.p.c., anche su tale specifico profilo95. Trattasi di considerazioni pienamente valide anche nel caso di mutamento di rito nelle ipotesi qui esaminate e dunque si deve escludere che il giudice possa disporre al riguardo già in sede di fissazione della prima udienza ai sensi dell’art. 1, comma 48, legge n. 92 del 2012 o dell’art. 415 c.p.c. 7.4. Il cumulo di domande. – Quanto detto sinora vale per i casi in cui il rito scelto dal ricorrente sia erroneo rispetto a tutte le domande proposte dalla parte (onde l’ordinanza di mutamento del rito ha necessariamente l’effetto di individuare il rito corretto per tutte le domande oggetto del giudizio). Ma può ben darsi che, invece, il lavoratore proponga con il suo unico ricorso una pluralità di domande, alcune delle quali soggette al rito ex legge n. 92 e altre soggette al rito lavoristico codicistico (ad esempio, impugnazione del licenziamento con richiesta di applicazione di una o più delle tutele di cui all’art. 18 e, contestualmente, domanda di condanna del datore di lavoro al pagamento di differenze retributive per svolgimento di mansioni superiori). In tal caso, quale che sia il rito prescelto, esso sarà corretto per alcune domande ed erroneo per altre. Si tratta di chiarire quali siano i rimedi in simili evenienze. Si può tranquillamente escludere, anzitutto, la possibilità di far ricorso alla disciplina dettata dall’art. 40 c.p.c., la quale, come costantemente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, si applica, non in qualsiasi caso di processo cumulato, ma solamente nelle ipotesi di connessione qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. (ipotesi a nessuna delle quali possono essere ricondotte le fattispecie di cui si sta parlando); in particolare, l’art. 40 non si applica nell’ipotesi di cui all’art. 104 c.p.c., in cui il cumulo delle domande dipende solamente dalla volontà delle parti (e tale è, appunto, il caso che qui interessa); con l’ulteriore conseguenza che, ove siano proposte nello stesso processo più domande contro lo stesso convenuto che però non siano legate dai vincoli di cui ai predetti artt. 31, 32, 34, 35 e 36, non si può dar luogo ad alcun mutamento di rito per qualcuna di esse96. La soluzione si deve dunque fondare su altre disposizioni ed è diversa a seconda dei casi. 93 A.CARATTA, op. cit., 76. Trib. Varese, 10 novembre 2011, in Foro it., 2011, I, 3449; Trib. Lamezia Terme, 9 novembre 2011, in Giur. it., 2012, 1384. 95 A. CARATTA, op. cit., 78; F.P. LUISO, op. ult. cit., 110; S. IZZO, op. cit., 85; M. BOVE, op. cit., 1003; L. PENASA, op. cit., 51. V. anche le considerazioni svolte da F. COSSIGNANI, op. cit., 1387. 96 Cass., 29 gennaio 2010, n. 2155, in Dir. fam., 2011, 93; Cass., 25 marzo 2003, n. 4367; Cass., 19 dicembre 1996, n. 11390. 94 41 In particolare, nell’ipotesi in cui un ricorso formulato ai sensi dell’art. 1, comma 48, legge n. 92 del 2012 contenga, oltre all’impugnazione del licenziamento, altre domande non fondate sui medesimi fatti costitutivi, l’unica soluzione che sembra coerente con la disciplina del nuovo rito definita dal legislatore è quella in base alla quale il giudice, con l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”, decide nel merito le domande ammissibili e dichiara l’inammissibilità di tutte le altre. Non appare possibile, invece, una separazione delle cause con conversione del rito per quelle extra art. 1, comma 48. Infatti, come segnalato (supra, n. 7), la separazione delle cause è prevista unicamente per il caso in cui, nella fase di opposizione, siano proposte domande riconvenzionali non fondate su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale (comma 56). Invece la disciplina del nuovo rito depone chiaramente nel senso dell’assoluta inammissibilità, nella prima fase, di domande riconvenzionali (fondate o meno che siano su fatti costitutivi identici a quelli della domanda di impugnativa del licenziamento). La normativa dettata dalla legge n. 92 del 2012, dunque, offre chiari ed inequivoci elementi che depongono nel senso dell’incompatibilità con il nuovo rito di qualsiasi “complicazione” della prima fase, la quale è finalizzata esclusivamente alla delibazione della domanda di impugnazione del recesso datoriale (e, per comprensibili ragioni di economia processuale, di quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi), con inevitabile dichiarazione di inammissibilità per tutte le altre domande eventualmente formulate dalle parti97. Anche il capo dell’ordinanza conclusiva della fase “urgente” contenente la dichiarazione dell’inammissibilità delle domande estranee al rito ex legge n. 92 del 2012 dovrebbe essere opponibile98. L’impugnazione, infatti, che ben potrebbe essere respinta, ove fosse accolta determinerebbe non certo la regressione del giudizio alla fase “urgente”, bensì la semplice trattazione delle domande in questione nel giudizio di opposizione, cioè in un procedimento largamente sovrapponibile a quello proprio del giudizio di primo grado secondo l’ordinaria disciplina codicistica delle controversie individuali di lavoro; ad allora appare evidente la convenienza per la parte di presentare direttamente un ordinario ricorso ex art. 414 c.p.c., potendo in questa maniere ottenere sicuramente il medesimo risultato che, impugnando invece il relativo capo dell’ordinanza conclusiva della prima fase, sarebbe meramente eventuale, rimesso com’è alla decisione del giudice dell’opposizione. L’unico vantaggio che la parte consegue scegliendo questa seconda strada è quello (comunque non trascurabile) di concentrare nello stesso procedimento giudiziario tutte le proprie domande. Nel caso opposto in cui, invece, il lavoratore proponga un ricorso ex art. 414 c.p.c. nel quale, oltre a domande alle quali si applica il rito codicistico delle controversie individuali di lavoro, formuli anche domande di impugnazione del licenziamento, non sembra che sussistano ostacoli affinché il giudice (dopo aver fissato l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. con il decreto di cui all’art. 415 c.p.c.) disponga, alla prima udienza, la separazione delle cause e, quindi, proceda alla conversione del rito limitatamente alla causa avente ad oggetto la domanda di applicazione delle tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e le altre eventualmente consentite dall’art. 1, comma 48, legge n. 92 del 2012 (e, anche qui, le parti potranno manifestare la volontà di omettere la fase “urgente”), proseguendo la trattazione secondo il rito codicistico per tutte le altre domande. 7.5. Il regime degli effetti della domanda. – Ribadito che nel caso dell’impugnazione dei licenziamenti l’errore nel rito non può mai comportare conseguenze sulla competenza del giudice adito (con connessa inapplicabilità alla fattispecie del comma 4 dell’art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011, il quale disciplina appunto tale evenienza), resta da esaminare il comma 5 del predetto art. 4, composto da due periodi. 97 Conforme, sulla base di argomentazioni analoghe, L. CAVALLARO, op. cit., 6. Al riguardo, se si vuole, può valorizzarsi anche la differenza rispetto alla disposizione dettata dall’art. 702-ter, secondo comma, c.p.c., che, nell’analoga fattispecie che si verifica quando, nel procedimento a cognizione sommaria vengono proposte domande che non possono essere trattate con tale rito, qualifica espressamente come non impugnabile l’ordinanza con la quale il giudice dichiara inammissibili tali domande. 98 42 A norma del primo, «gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento». Ciò comporta, tra l’altro, che l’erronea scelta del rito per la proposizione dell’impugnazione giudiziale di un licenziamento (impugnazione con ricorso ex art. 414 c.p.c. di un licenziamento che rientra nell’ambito di applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, ovvero impugnazione con ricorso ex legge n. 92 del 2012 di un licenziamento estraneo alle tutele offerte dalla predetta norma statutaria) non ha conseguenze sull’impedimento della decadenza prevista dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, effetto che non viene meno in caso di conversione del rito (a condizione, ovviamente, che il ricorso introduttivo rispetti le altre condizioni di validità previste dall’ordinamento per quell’atto). 7.6. Il regime delle preclusioni e delle decadenze. – Il secondo periodo del comma 5 stabilisce invece che «restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento». Una simile disposizione non ha alcuna pratica conseguenza in caso di conversione del rito da quello speciale di cui alla legge n. 92 del 2012 a quello codicistico del lavoro (appunto perché il primo non prevede decadenze e preclusioni collegate ai primi atti defensionali di ricorrente e resistente, onde è impossibile che, nel momento in cui il giudice pronuncia l’ordinanza di mutamento del rito, si siano verificati effetti preclusivi a danno delle parti). Discorso diverso vale, ovviamente, nel caso opposto, le parti ben potendo essere già incorse in preclusioni e decadenze ai sensi degli artt. 414 e 416 c.p.c. La rigida applicazione dell’art. 4, comma 5, d. lgs. n. 150 del 2011, comporterebbe la conseguenza secondo la quale le preclusioni già maturate in applicazione delle predette norme codicistiche rimarrebbero ferme anche dopo la conversione del rito (con conseguente impossibilità per le parti di formulare, ad esempio, nuove richieste istruttorie). Orbene, in sede di commento del citato art. 4, comma 5, la dottrina ha unanimemente criticato la disposizione, evidenziando come essa finisca per ledere il diritto di difesa soprattutto del convenuto, il quale, pur avendo semplicemente subito (e non determinato) l’errore sulla scelta del rito compiuto dall’avversario, è costretto a sopportare anche le conseguenze – per lui eventualmente sfavorevoli – sul piano delle preclusioni che derivano da quell’errore, il quale potrebbe esser stato anche non involontario (avendo il ricorrente inteso agire con il ricorso laburistico al fine di ottenere effetti massimamente preclusivi)99. Non sembra, però, che un simile effetto si possa produrre anche nelle controversie regolate dal nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti (e ciò indipendentemente dall’adesione o meno alle soluzioni escogitate da una parte della dottrina per ridurre, in generale, la portata del precetto espresso dall’art. 4, comma 5, d. lgs. n. 150 del 2011100). Ed infatti, non si vede come possa essere ritenuta compatibile con un rito nel quale le parti sono ammesse, nella fase di opposizione, a sollevare eccezioni e formulare istanze istruttorie trascurate nella fase “urgente”, una norma (quella espressa dall’art. 4, comma 5, secondo periodo) che precluderebbe alle parti di proporre le medesime eccezioni e richieste istruttorie già nella fase “urgente” per il solo fatto che tali facoltà non siano state esercitate nei rispettivi primi atti difensivi compiuti (per errore) secondo il rito delle controversie individuali di lavoro. 99 A. CARATTA, op. cit., 81; A. SALETTI, op. cit., 739; C. CONSOLO, op. cit., 1490. V. F. COSSIGNANI, op. cit., 1389, che prospetta un’interpretazione secondo la quale il predetto comma 5 sarebbe applicabile solamente all’attore, trattandosi di comportamento autoresponsabile, mentre per il convenuto dovrebbe valere la regola secondo la quale il passaggio da un rito all’altro non consentirà il compimento solamente degli atti ormai preclusi in entrambi i riti interessati, non anche di quelli ancora possibili per il rito ad quem; ove una simile interpretazione fosse rifiutata, lo stesso Autore sostiene che dovrebbe allora essere consentito al convenuto di recuperare le facoltà precluse in base al rito a quo mediante l’istituto della rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, ultimo comma, c.p.c. Per L. PENASA, op. cit., 60, resterebbero ferme le sole preclusioni che trovano una loro esatta corrispondenza nel rito ad quem. Maggiormente persuasiva l’opinione di A. CHIZZINI, op. cit., 19, secondo il quale nessuna preclusione processuale potrebbe maturarsi a danno del convenuto che già nel primo scritto difensivo abbia sollevato la questione del rito, senza attendere la prima udienza. 100 43 Altrimenti detto: ricordato che l’art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011 si applica alle questioni di rito relative alla scelta tra nuovo procedimento giudiziale di impugnazione dei licenziamenti e rito codicistico del lavoro non in via diretta, ma solamente per analogia, è corretto escludere tale possibilità di applicazione per quei precetti contenuti nel predetto art. 4 che appaiono incompatibili con la specifica disciplina del nuovo rito ex legge n. 92 del 2012. Tra questi ultimi va annoverata, per la ragione appena detta, anche la disposizione secondo la quale restano ferme preclusioni e decadenze maturate, prima della pronuncia di mutamento del rito, sulla base del rito erroneamente scelto dal ricorrente. 8. Rapporti con gli altri riti previsti dall’ordinamento. Quanto ai rapporti del nuovo rito introdotto dal legislatore del 2012 con altri procedimenti giudiziali, deve dirsi che, contrariamente a quanto sostenuto da qualcuno101, continuano ad essere ammissibili quelli cautelari disciplinati dagli artt. 669-bis ss. c.p.c. e, in particolare, quelli diretti ad ottenere la concessione di provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c.102. In effetti, il provvedimento emanato all’esito della prima fase del procedimento previsto dall’art. 1 della legge n. 92 del 2012 non ha natura cautelare, potendo il giudice concedere al lavoratore una delle tutele contemplate nell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 indipendentemente dalla ricorrenza di esigenze cautelari, le quali, non costituendo uno dei presupposti dell’azione, non debbono neppure essere dedotte dal ricorrente. Una rilevanza della nuova procedura sul piano della tutela cautelare cui può aspirare il lavoratore licenziato può cogliersi, piuttosto che sul piano dell’astratta giuridica ammissibilità di quest’ultima, sul piano pratico dell’effettiva possibilità di ritenere sussistenti, nelle singole fattispecie, il requisito del periculum in mora. In effetti, questo indefettibile requisito dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c. potrà ora essere ritenuto sussistente solamente se il lavoratore dimostri che il proprio diritto è soggetto al rischio di subire un’irrimediabile lesione anche durante il contenuto periodo di tempo previsto dall’art. 1 della legge n. 92 del 2012 per l’esaurimento della prima fase del nuovo procedimento103. E’ ovvio, tuttavia, che una simile prognosi dovrà essere formulata dal giudice, non già tenendo conto del termine stabilito in astratto dalla predetta norma, bensì dei tempi di definizione della prima fase di tali procedimenti effettivamente riscontrabili nella prassi dell’ufficio giudiziario di cui volta per volta si tratta, non essendo ovviamente consentito negare la tutela cautelare sulla base di valutazione di dati puramente astratti e contrastanti con quelli offerti dalla realtà. Ciò posto, occorre ora chiedersi se, una volta esperita l’azione cautelare, la parte interessata (vale a dire il lavoratore, in caso di esito per lui sfavorevole della procedura cautelare, ovvero il datore di lavoro che intenda ottenere la rimozione dell’ordine di reintegrazione ottenuto dalla controparte appunto in sede cautelare) debba promuovere il giudizio di merito seguendo le disposizioni del rito del lavoro codicistico ovvero quelle proprie dello speciale procedimento regolato dall’art. 1 della legge n. 92 del 2012 (problema che può porsi anche nel caso in cui il lavoratore abbia attivato la procedura cautelare prima dell’entrata in vigore della legge n. 92 e il conseguente ricorso ordinario sia invece proposto dopo il 17 luglio 2012). Si potrebbe essere indotti a seguire la prima delle due soluzioni prospettate, sulla scorta della considerazione secondo cui, in simili ipotesi, in realtà si è già svolta tra le parti una causa caratterizzata da cognizione sommaria e concentrazione dei tempi, onde non avrebbe senso ritenere applicabile il rito previsto dal legislatore del 2012, il quale comporterebbe la necessità di esperire 101 G. TREGLIA, op. cit., 768. Così anche A. VALLEBONA, op. cit., 75; D. BORGHESI, op. cit., 916; L. CAVALLARO, op. cit., 4. 103 In tal senso Trib. Roma, 1° ottobre 2012, Est. Buconi, D.G.C. c. B.P.L. s.p.a. 102 44 un’ulteriore fase processuale a cognizione sommaria e dai tempi estremamente concentrati, prima di poter finalmente accedere ad un giudizio (quello di opposizione) a cognizione piena. Altre e più significative considerazioni depongono tuttavia nel senso opposto. Ed in effetti, in primo luogo, sul piano letterale, il tenore dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 non sembra consentire eccezioni di tal genere, stabilendo il comma 47, come già ricordato, che sono soggette al nuovo rito speciale le «controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300» ed è indubbio che anche quelle promosse all’esito di un procedimento cautelare sono «controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti». In secondo luogo, e soprattutto, deve considerarsi che la nuova procedura prevede significativi tratti di specialità rispetto a quella degli artt. 409 ss. c.p.c. anche nelle fasi e nei gradi a cognizione piena, e ciò sempre in vista dell’obiettivo della riduzione dei tempi processuali, onde non sembra consentito – nelle vertenze iniziate con la proposizione di un ricorso in via cautelare – sacrificare radicalmente le esigenze di accelerazione del contenzioso relativo all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 che, come detto, costituiscono la ratio delle novità introdotte dal legislatore del 2012 in materia processuale. Si potrebbe allora ritenere che, per salvaguardare le esigenze da ultimo menzionate, la parte ricorrente dovrebbe seguire le disposizioni previste dall’art. 1 della legge n. 92 del 2012, ma omettendo la prima fase e proponendo così la propria azione nei modi previsti dal comma 51 del predetto art. 1 per il giudizio di opposizione (ovviamente senza essere vincolata ai termini ivi stabiliti). Tuttavia si deve riconoscere che il ricorso cautelare potrebbe esser stato respinto per difetto del requisito del periculum in mora, onde la soluzione appena prospettata finirebbe per lasciare il lavoratore privo della possibilità di ottenere un provvedimento favorevole all’esito della prima fase, pur sussistendone le condizioni. Ed allora, pur nella consapevolezza del rischio che in alcuni casi si potrà verificare una duplicazione di giudizi a carattere sommario, sembra che la soluzione maggiormente rispettosa degli interessi delle parti coinvolte e dell’intento del legislatore (oltre che quella più semplice sul piano pratico) sia quella di ritenere che, quale che sia l’esito del giudizio cautelare preventivamente esperito dal lavoratore, la parte interessata alla promozione del giudizio di merito debba comunque seguire il nuovo rito speciale e ciò fin dalla sua prima fase. Diversa questione è quella relativa alla persistente ammissibilità di istanze cautelari in corso di causa. Per quel che riguarda la prima fase del procedimento, anche qui si deve ripetere quanto già osservato in generale per i ricorsi cautelari ante causa, e cioè che non sembra ipotizzabile alcuna incompatibilità in astratto104: in effetti, se il giudice, anziché rispettare il termine di 40 giorni stabilito per la celebrazione dell’udienza di comparizione delle parti, fissi tale udienza a distanza di alcuni mesi dalla data di deposito del ricorso, non si vede come possa escludersi, sempre e comunque, l’eventualità che il diritto azionato dal lavoratore subisca pregiudizi irreparabili nelle more della definizione della prima fase del nuovo procedimento. Ovviamente, anche in tal caso, si tratterà piuttosto di valutare, caso per caso e con riferimento alla prassi del singolo Tribunale interessato, se la presumibile durata di tale fase sia talmente lunga dall’esporre il diritto del lavoratore al suddetto rischio. Soluzione diversa deve invece essere adottata rispetto alla possibilità di proporre istanze ex art. 700 c.p.c. nella fase di opposizione. Infatti, pur volendo tralasciare di considerare che, in simili 104 In senso contrario, con riferimento alla proponibilità di domande cautelari nel corso di una controversia soggetta a rito sommario di cognizione, Trib. Nola, 8 aprile 2010, in www.ilcaso.it, ma sulla considerazione, del tutto astratta (e, pertanto, suscettibile in ammissibilmente di sacrificare esigenze cautelari che effettivamente si presentino nel caso concreto) secondo cui tale rito deve rimanere confinato alle fattispecie di pronta e facile risoluzione (con esclusione di necessità istruttorie più complesse), e che la sua collocazione nei procedimenti speciali segnala, per converso, la perdurante attitudine del rito ordinario di cognizione a costituire la via maestra per introdurre domande processuali 45 casi, vi è già stata (con l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”) una prima valutazione giudiziale circa l’apparente fondamento o meno della pretesa del lavoratore, ciò che impone di escludere in radice qualsiasi possibilità di ottenere in sede cautelare il provvedimento giudiziale che non è stato concesso nella prima fase del procedimento è la disposizione del comma 50 che, come detto (supra, n. 5) assicura la stabilità dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza emessa all’esito della fase “urgente”: volendo ritenere la legittimità costituzionale di una simile previsione (legittimità sulla quale, come si è visto, possono essere avanzati seri dubbi) deve almeno ammettersi che la stabilità in questione operi in entrambe le direzioni; vale a dire che non è consentito a nessuna delle due parti in causa ottenere dal giudice dell’opposizione, prima della definizione di tale fase del giudizio, alcun provvedimento che contrasti con il contenuto della predetta ordinanza: così come, in caso di provvedimento favorevole al lavoratore, il datore di lavoro non può chiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza, alla stessa maniera, in ipotesi di provvedimento sfavorevole al lavoratore, costui non può, nel corso del giudizio di opposizione, ottenere, per mezzo di un ricorso cautelare, ciò che gli è stato negato nella prima fase del procedimento di impugnazione del licenziamento. Quanto alla speciale tutela accordata dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 al sindacalista licenziato illegittimamente, essa deve ritenersi ancora vigente e perfettamente compatibile con il nuovo rito, se non altro perché il legislatore del 2012, lungi dal sopprimere i commi dell’art. 18 che la disciplinano, l’ha invece implicitamente, ma chiaramente, confermata, modificando il riferimento al comma che prevede l’ordinanza a favore del sindacalista da «quarto» ad «undicesimo», tale essendo divenuto, dopo le sostituzioni dei primi sei commi con altri dieci commi contestualmente operata dal legislatore, la collocazione della disposizione che contempla l’ordinanza in questione (v. art. 1, comma 42, lettera c), della legge n. 92 del 2012). Ovviamente resta fermo che anche l’azione di impugnazione del licenziamento del sindacalista interno deve essere promossa nelle forme previste dal nuovo rito. Tuttavia, «in ogni stato e grado del giudizio di merito» il giudice, ricorrendo le condizioni previste dall’undicesimo comma dell’art. 18, potrà emanare l’ordinanza di reintegrazione del sindacalista. L’ampia formulazione utilizzata dal legislatore impone di ritenere che l’ordinanza in questione possa essere pronunciata anche nella prima fase del nuovo procedimento, così come nel giudizio di opposizione e anche se il provvedimento conclusivo della prima fase sia risultato sfavorevole al lavoratore (in questa maniera realizzandosi un’eccezione alla regola appena illustrata dell’immodificabilità dell’ordinanza emessa all’esito della prima fase). Altrettanto certamente è confermata la possibilità per i sindacati nazionali di proporre azione ex art. 28 legge n. 300 del 1970 lamentando l’antisindacalità di un licenziamento. Invero, gli argomenti in base ai quali si è ritenuta l’ammissibilità di simili iniziative giudiziali prima della innovazione processuale del 2012 rimangono valide anche oggi, posto che quella disciplinata dall’art. 1 della legge n. 92 non è altro che la nuova modalità di proposizione dell’impugnazione giudiziale del licenziamento da parte del lavoratore che, pertanto, non rileva sul procedimento disciplinato dall’art. 28 della legge n. 300 del 1970, il quale riguarda l’azione promuovibile dal sindacato a tutela del proprio interesse. Resta da verificare, infine, se il lavoratore che deduca la natura discriminatoria del proprio licenziamento possa promuovere azione ai sensi dell’art. 28 d. lgs. n. 150 del 2011, ovvero se tale possibilità sia venuta meno a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, con conseguente necessità di utilizzare il nuovo rito per l’impugnazione del licenziamento anche nelle ipotesi in cui questo sia viziato per uno dei motivi discriminatori presi in considerazione dall’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dall’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, dall’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, e dall’art. 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67 (che sono i motivi cui fa riferimento il d. lgs. n. 150 del 2011, unitamente all’art. 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, il quale però non può rilevare in materia di licenziamenti). Orbene, se si ammette che i provvedimenti previsti dal d. lgs. n. 150 del 2011 prescindono dal contenuto dell’art. 18 e si distinguono da questo, essendo oggetto di una specifica 46 definizione e previsione da parte del comma 5 del predetto art. 28, si dovrebbe anche convenire sul fatto che il rito che il lavoratore deve seguire nel caso in cui denunci il carattere discriminatorio del recesso datoriale dipende dal tipo di tutela da lui invocata: se propone domanda di applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, dovrà azionare il rito ex legge n. 92 del 2012; se propone domanda di concessione dei provvedimenti di cui all’art. 28 d. lgs. n. 150 del 2011, dovrà rispettare le relative regole processuali105. 9. Le misure organizzative. A norma del comma 65 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, «alla trattazione delle controversie regolate dai commi da 47 a 64 devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze». Il riferimento all’intera disciplina del nuovo rito dettata dai commi precedenti impone di ritenere che la disposizione si riferisca a tutti i gradi in cui si articola il procedimento e, dunque, valga, oltre che per le due fasi del primo grado, anche per i successivi gradi di giudizio. Il successivo comma 66 attribuisce ai capi degli uffici giudiziari il potere di vigilanza sul rispetto della disposizione dettata dal comma 65. Potere che, a norma del comma 68, si estende anche all’osservanza di quanto previsto dal comma 67, il quale stabilisce che «i commi da 47 a 66 si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Poiché si può escludere tranquillamente che tale norma attribuisca ai capi degli uffici il potere di vigilare su come i magistrati dell’ufficio applichino in ciascuna causa ogni singola norma che compone la disciplina del nuovo procedimento (e ciò sia perché un simile controllo sarebbe praticamente impossibile, sia perché rischierebbe di sfociare in un inammissibile controllo sull’esercizio della giurisdizione), si deve ritenere che la vigilanza in questione concerna il rispetto delle uniche prescrizioni che, da un lato, sono suscettibili di una agevole verifica “oggettiva” e, dall’altro, non implicano, in sede di loro applicazione, l’esercizio di quell’attività interpretativa propria dell’esercizio del potere giurisdizionale. Vale a dire, dei precetti della nuova disciplina processuale relativi ai termini imposti all’attività del giudice. In sostanza, ciò che il legislatore ha imposto ai capi degli uffici di sorvegliare è l’osservanza, da parte dei magistrati componenti l’ufficio, dei termini stabiliti per lo svolgimento delle controversie in questione. E proprio alla luce di tale precisazione deve essere correttamente interpretato anche il comma 65 ricordato all’inizio, il cui tenore testuale sembrerebbe deporre nel senso che esso imponga la preventiva individuazione di giornate di udienza da destinare integralmente alla trattazione delle cause in questione106. La diseconomicità della norma, intesa in tal senso, è di una evidenza assoluta: per quanti sforzi si facciano per pervenire ad un’attendibile stima del numero e della frequenza delle udienze necessarie per una trattazione del contenzioso in questione rispettosa dei tempi previsti dal legislatore, è evidente che l’intrinseca variabilità del numero delle controversie e della loro complessità comporterebbe il rischio sia di udienze utilizzate solo in misura parziale (per mancanza di sufficienti cause di impugnazione di licenziamenti), sia dell’indisponibilità di udienze sufficienti per far fronte ad un eventuale “picco” di sopravvenienze. Ed allora, prendendo le mosse dalla chiara ratio delle disposizioni dettate dal legislatore in tema di potere di vigilanza dei capi degli uffici – che è quella di assicurare l’osservanza, nella pratica, dei termini entro i quali debbono essere fissate le udienze di discussione stabiliti nei commi 105 Contra, nel senso che l’azione di impugnazione del licenziamento discriminatorio deve ormai essere proposta secondo le regole processuali di cui all’art. 1, commi 47 ss., legge n. 92 del 2012, potendo essere trattate con il rito ex art. 28 d. lgs. n. 150 del 2011 solamente le azioni giudiziarie contro altri atti discriminatori, A. BOLLANI, op. cit., 314. 106 Così, infatti, L. CAVALLARO, op. cit., 8. 47 precedenti per ciascun grado del giudizio e la possibilità che entro quell’udienza la causa possibilmente sia anche decisa – sembra ragionevole ritenere che ciò che è necessario, ma anche sufficiente, è organizzare il complessivo lavoro del giudice affinché quei tempi siano, appunto, rispettati. E ciò, eventualmente, anche riservando al contenzioso in questione solamente alcune fasce orarie all’interno delle udienze oppure, semplicemente, fissando tali controversie in qualsiasi udienza e qualsiasi orario, purché l’organizzazione adottata dal singolo giudice sia funzionale alla salvaguardia dell’esigenza di celere definizione delle controversie medesime così come definita dalla legge n. 92107. L’obiezione secondo la quale, così intese, le norme che qui si stanno esaminando sarebbero sostanzialmente inutili108 non sembra condivisibile: al contrario, esse esprimono con grande chiarezza l’esigenza che alle controversie in questione venga data precedenza rispetto alle altre e che il giudice organizzi il proprio lavoro in maniera di assicurare il rispetto dei termini stabiliti nei commi precedenti. Sono stati prospettati dubbi circa la legittimità costituzionale della differenziazione introdotta dal legislatore, quanto ad accesso alla “corsia preferenziale”, tra licenziamenti cui si applica l’art. 18 e quelli non assistiti da tale norma109. Non sembra, tuttavia, che tale differenziazione sia tale da consentire alla Corte di definire addirittura irrazionale e foriera di ingiustificate diversità di trattamento la scelta selettiva operata dal legislatore del 2012. Invero, muovendo da una valutazione generale degli interventi compiuti dalla legge n. 92 sul piano sostanziale (modifiche all’art. 18 legge n. 300 del 1970) e su quello processuale, si deve riconoscere che le norme dirette a favorire le controversie ex art. 18 riguardano o fattispecie radicalmente diverse da quelle disciplinate dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (quelle regolate dai commi dal primo al quarto e settimo, primi due periodi, dell’art. 18) ovvero fattispecie che, sia sul piano della disciplina legislativa, sia su quello della prassi giudiziaria, sono normalmente strettamente intrecciate con le prime (commi quarto, quinto e settimo, secondo periodo dell’art. 18), onde è razionale che siano soggette alle medesime regole processuali. 107 Sostanzialmente nello stesso senso L. DE ANGELIS, op. cit., 20. L. CAVALLARO, op.loc. ult. cit. 109 In tal senso: C. CONSOLO-D. RIZZARDO, op. cit., 735, nt. 29 (che ipotizzano la violazione dell’art. 3 Cost.); L. DE ANGELIS, op. cit., 5 (che prospetta la violazione degli artt. 3 e 24). 108 48