Vivere nella crisi una vita vivibile In questo contributo si cerca di

VIVERE NELLA CRISI UNA VITA VIVIBILE
In questo contributo si cerca di vedere che cosa le fedi e le religioni possono/devono fare per
una convivenza nella città globale. Subito si pensa a: dialogo, pluralismo, pace, ospitalità. Ma vediamo in
quale quadro si colloca una loro possibile azione. 1
Riconoscimento
Nella crisi dell’etica tradizionale, si cerca un’etica della crisi, un’etica per un tempo di crisi.
L'etica come sapienza e come arte cerca modi di vivere e convivere col minimo di dolori e offese e il
maggior bene possibile. Il suo principio essenziale si può individuare nel fondamentale riconoscimento
degli altri, di propria iniziativa affinché diventi reciproco. Le differenze, l’ampio pluralismo di valori,
sono da accogliere con tolleranza positiva, o almeno senza discriminazioni gravi. Se non ci intendiamo,
almeno non distruggiamoci. Il “non uccidere” (non offendere, non disprezzare) è la condizione minima
del con-vivere, e subito si apre alla positiva necessaria collaborazione. Tollerare, in senso positivo (dal
latino tollere), vuol dire non solo lasciar esistere, o peggio eguagliare tutto nel non valere nulla, ma
significa accogliere, sollevare, farsi carico del bisogno altrui, dare attenzione all'altrui apporto,
rispondere. Nel pluralismo, ognuno avanzi le sue proposte, ma senza imporle. Siamo in generale
convinti che questa sia un’etica plurale vivibile, che corrisponde al sistema democratico. Il quale ha i
suoi limiti e rischi, ma senza di esso rimarrebbe la sola legge della forza, della competizione o della
sopraffazione. La legge della forza-senza-legge non protegge nessuno: anche il più forte del villaggio
umano quando dorme è debole, ha bisogno di chi lo protegge e dipende da questi. Non c’è forza sicura
di sé, se non dà sicurezza agli altri. La superiorità di forza incita l’inferiore all’inseguimento: l’escalation
nell’armarsi minaccia il forte come il debole. O si è sicuri insieme, o non si è sicuri. Solo un’accettabile
parità di diritti e di mezzi, e soprattutto una parità di valore (equi-valenza) rende la vita vivibile. Un'etica
della equi-valenza permette di vivere. Se viviamo, possiamo poi migliorare le condizioni della vita.
Nel clima del pluralismo, la formazione morale consiste nel ricevere spunti da tradizioni varie,
scegliendo ciò che in coscienza sembra migliore, più giusto, più favorevole al convivere pacifico, cioè al
poter vivere. La formazione di una coscienza attenta e riflessiva è il cuore di quella formazione morale.
Importa non la semplice presa d’atto di qualunque proposta valoriale e di qualunque influenza, ma
l’individuazione di quelle scelte e di quelle pratiche che meglio possono rispondere alla coscienza della
dignità umana. Ma, prima ancora, occorre che scegliamo un comportamento che permetta ancora di
scegliere. Se non abbiamo gli stessi valori ultimi, istituiamo almeno un’etica dell’attesa, della possibilità,
1
In questo testo utilizzo e rielaboro, tra il resto, alcuni passaggi dal mio libro Elogio della gratitudine (Cittadella
Editrice, Assisi 2015), pubblicato nella collana L'etica e i giorni, diretta da Giannino Piana e Paolo Allegra.
appunto della tolleranza, della non-distruzione, del rispetto anche di ciò che non condivido.
Sopravvivere è bene, ma sopravvivere con dignità è meglio. La consapevolezza della dignità ti
dice: “Vivi perché ne sei degno, perché vali, non solo perché campi, non solo perché ti sei sbarazzato di
chi ti avversava”. Il pluralismo etico non può rinunciare al senso critico, alla discussione e al confronto
pacifico tra le scelte. Altrimenti la vita insieme diventa invivibile: se non è guerra è insignificanza. La
tolleranza vuol essere positiva: evitiamo la guerra, ma cerchiamo, anche all’orizzonte, una pace giusta e
comune.
Etica universale
Un orientamento valido per una vita vivibile nel pluralismo etico può essere la ricerca di quegli
elementi universali, o pressoché universali, che, pur con delle differenze, si riscontrano in tutte le civiltà
storiche. La verifica dei tempi lunghi e della diffusione nelle varie culture umane è ciò che garantisce a
determinate regole morali una certa validità per una vita vivibile degli esseri umani tra loro. Questo è il
criterio che ha mosso alcuni studiosi ad individuare gli elementi di una “etica mondiale”, o universale.
Hans Küng traccia alcuni minimi divieti-indicazioni: «Non uccidere, rispetta ogni vita; non
rubare, agisci in maniera corretta e leale, collabora a un ordine economico giusto; non mentire, parla e
agisci con sincerità e cerca sempre di nuovo la verità; rispettatevi e amatevi a vicenda, uomini e donne
nella coppia, e tutti nella solidarietà sociale» 2.
Pier Cesare Bori (1937-2012) riscontra alcuni convincimenti etici fondamentali, su un piano
morale più alto e più intimo, eppure molto diffusi; sono valori che la parte migliore dell’umanità ha
posto a base del suo vivere in società, ha espresso in una straordinaria varietà di culture popolari tra
loro non isolate e ha trasmesso soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al momento
presente. Oltre la “regola aurea” – che è presente in tutte le culture e dice in sintesi di «trattare gli altri,
nel fare e nel non fare, come si desidera essere trattati noi» – Bori individua anche alcuni princìpi di
vita:
«Il diritto che non si attua senza il sentimento dell’obbligo verso ogni essere umano; il rispetto, privilegio e onore
riconosciuti ai deboli; la superiorità di chi sa non rispondere al male col male, ma con la forza persuasiva della parola
indifesa; il valore dell’agire secondo coscienza, a prescindere dai frutti; l’idea che occorra saper governare se stessi e la
propria casa per governare anche gli altri; l’idea che la maggior guerra sia quella contro se stessi; l’esistenza assunta come
somma di benefici che occorre restituire; il rispetto e la pietà per ogni vivente; la vita che si acquista perdendola; la
tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia» 3.
Il tessuto e lo strappo
2
3
Cf., H. Küng, Progetto per un’etica mondiale, Milano 1991; cf. anche Küng e Kuschel, Per un’etica mondiale, Milano 1995
P. C. Bori, Per un consenso etico fra culture, Torino 1995, pp.106-108.
La crisi etica consiste proprio nella scarsità di intesa sociale, implicita e vissuta, attorno a questi
punti di riferimento (minimi e massimi) e alla relativa prassi. Con una valutazione più preoccupata e
pessimista, si potrebbe dire che oggi la regola pratica prevalente è questa: “chi può faccia, chi non può
taccia” e “i forti possono, i deboli devono”. Questo è ciò che fa, senza dirlo, l'ethos del liberismo e
individualismo accentuato all'estremo.
Sembra che a questa massima risponda la grande politica, specialmente quella internazionale, ma
spesso anche intrastatale, l’economia («Questa economia uccide», ha scritto papa Francesco 4), la
pervasiva corruzione. Bisogna però non farsi impressionare solo dai “costumi di corte”, più rumorosi e
imperativi, e dal mainstream reclamizzato. Sebbene, nella società dell’iper-spettacolo (tutto in piazza),
influisca anche sulla vita privata, sulle relazioni prossime quotidiane, sulla consistenza familiare, sulle
collaborazioni di lavoro, quella massima nichilista non annulla tutta una rete umile di discreto rispetto,
aiuto, solidarietà. A un’obiezione sulla pervasività della violenza nella storia umana, Gandhi rispondeva
che se essa fosse totale, l’umanità si sarebbe già distrutta, e paragonava la società umana a un tessuto,
guastato da strappi grandi e piccoli, ma non distrutto 5. Il tessuto è più dello strappo. Né ottimismo né
pessimismo, né l’ingenuità illusa, né la paura aiutano a valutare la vita etica delle società umane. La
valutazione realistica possibile deve comunque far leva su appoggi umanamente positivi, per
svilupparne l’effetto in termini di umanità della convivenza.
Nella ricerca di un'etica per la convivenza pluralistica, interroghiamo le sapienze provate e
le religioni. Queste intendono proporre un senso all'esistenza, e positivamente una riduzione del
male reciproco, del dolore, e una via di salvezza. Perché ci sia pace tra le civiltà e le tradizioni
umane, occorre la pace tra le religioni, che spesso ne rappresentano le culture profonde. Le religioni
si sono combattute e condannate, ma oggi (come in alcuni momenti più felici della storia: per
esempio l'Andalusia prima della cacciata), insieme a fenomeni di violenta esclusione, vivono una
intensa ricerca di pace positiva, di dialogo e collaborazione per servire la vita dell'umanità, pur con
le loro differenti visioni ultime.
La regola d'oro
Un elemento comune alle religioni e alle sapienze si può rintracciare, universale e costante:
è la cosiddetta “regola d’oro”: è la regola del rispetto positivo e attivo verso l’altro: propone di guardare
l’altro come sé stesso: all'altro devi sostanzialmente la stessa considerazione e cura che hai per la tua
stessa vita.
È una norma morale fondamentale e universale, presente in tutte le culture e spiritualità. 6 Noi la
4
5
6
Evangelii Gaudium, n. 53
Cf., M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Torino 1996, pp. 64-65
Un’edizione della raccolta di oltre trenta formulazioni diverse e analoghe dalle più varie tradizioni è in
www.peacelink/peyretti/regoladoro
conosciamo più facilmente nella formulazione evangelica: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano
a voi, anche voi fatelo a loro. Questa è la legge e i profeti» (Mt 7,12; cf. 22,39 e Lc 6,31). Questa è la
versione positiva. La versione negativa suona: «Non fare agli altri quel che non vorresti che essi
facessero a te».
La regola d’oro – d’oro perché preziosa, indispensabile per vivere insieme, apprezzata
universalmente – non va intesa in modo banale, scambistico-commerciale, materialistico. Va intesa
come un principio, precedente e fondante ogni soluzione morale: l’altro vale come te, ha diritti, bisogni,
attese, come te. La regola non prescrive “che cosa” fare, ma (kantianamente) “come” trattare l’altro. Il
che è anzitutto il rispetto dell’alterità, la non-imposizione del proprio criterio, il non-dominio, la nonprepotenza; la regola mi chiede di non scaricare sull’altro ciò che dispiace a me, di non essere
indifferente alla sua sensibilità, e di non fargli mancare ciò che vedo a lui necessario, con la stessa
attenzione per ciò che è a me necessario. La regola d’oro proibisce e propone. Proibisce ogni
atteggiamento di prevaricazione, propone ciò che tutti conosciamo come rispetto, buona educazione,
buon tratto, gentilezza, urbanità e umanità, l'ubuntu delle culture africane: qualità, queste ultime, che
dicono capacità e condizione minima, sine qua non, per abitare nella città di tutti con il riconoscimento
dell’umanità in tutti.
La parità essenziale, proposta dalla regola d’oro, è base e sostegno di tutti i cammini, dal minimo
della con-vivenza fino ai più generosi atti dell’etica donativa, che procede al dare più che al ricevere, al
dare senza attendere (e tanto meno pretendere) restituzione, al ricambiare il male col bene, all’amare al
modo di Cristo, «come io vi ho amato» (vangelo di Giovanni 15,12), cioè fino a dare la vita per gli amici,
quella disposizione di cui non c’è amore più grande.
Secondo la distinzione che leggiamo in Pier Cesare Bori, la regola d’oro, il fondamento
insostituibile e universale, è la sapienza morale, mentre il dono-appello evangelico è la profezia del bene
divino comunicato a noi. «Se la vostra giustizia non supera quella della legge, non vivrete della vita
eterna di Dio» (mia parafrasi di Mt 5,20). Ma Cristo non è venuto ad abrogare la legge, e invece è
venuto a compierla (Mt 5,17), che vuol dire oltrepassarla senza abolirla. La morale del dono non
abolisce la regola d'oro del minimo essenziale.
Conosciamo critiche della regola d'oro (Ricoeur, Pontara, Bori, Kant, Confucio, Buktmann) 7.
Ma mi sembra valida la conclusione di Pier Cesare Bori: la regola «costituisce probabilmente il
compendio dell’insegnamento sapienziale (…); può valere come traccia etica transculturale, esprimendo
la consapevolezza che, nella comune appartenenza umana, la giusta e necessaria affermazione di se
stessi (non egoistica! Contro Bultmann e Ricoeur) deve essere mediata dal rispetto, dalla promozione e
dalla libera risposta dell’altro» 8.
7
8
Ne riferisco in sintesi alle pp. 49-52 del mio Elogio della gratitudine (Cittadella editrice, Assisi 2015).
P. 52 del libretto appena citato.
La luce che illumina ogni uomo
Dunque, se ci chiediamo, come è chiesto al mio contributo in questa ricerca, che cosa le fedi e le
religioni possono fare per una convivenza nella città globale, vediamo senz'altro che devono-possono
sviluppare dialogo, pluralismo, pace positiva, ospitalità. Ma, per tutto questo, hanno da trovare un
fondamento comune, che radica le differenze, le ramificazioni. Credo che quel fondamento (ecco un
fondamentalismo buono!) sia, in termini universali-globali, come chiede appunto la regola d'oro, il
riconoscimento del volto personale dell'altro come un'altra modulazione del mio volto. L'ottica biblica
lo chiama fratellanza (che non manca, pur contraddetta sanguinosamente, nelle aspirazioni alte della
modernità). L'ottica cristiana lo chiama appartenenza alla famiglia umana unica, che ha un unico Padre,
chiamato e pensato in molti nomi e modi, tutti insufficienti, tutti orientativi verso la verità. Dio è spirito
e la sua presenza non è tra le forze fisiche, ma è nelle coscienze umane. Colui che chiamiamo Dio, con
un nome generico personalizzato, non è in questa o quella dottrina, non è in questa o quella religione
organizzata, ma è quella «luce che illumina ogni uomo» (Vangelo di Giovanni 1, 9).
L'ecumenismo interreligioso è una bella crescente realtà del nostro tempo. Anche il
cristianesimo, che riconosce in Gesù di Nazareth l'uomo più trasparente alla vita di Dio in lui, deve
passare dal cristocentrismo allo pneumatocentrismo: il centro è lo Spirito Santo divino diffuso
nell'umanità sotto vari nomi, con la stessa effusione di bene. Ciò non toglie nulla alla portata
salvifica di Gesù , il quale, morendo per mano dell'opposizione del sistema politico-religioso, ha
annunciato e promesso che avrebbe effuso il suo spirito su ogni vivente. Non ci salvano le dottrine e
le religioni, ma l'interiore presenza del bene vivente e animante, che ci muove a soccorrere ogni
bisognoso e a valorizzare ogni luce. Il criterio che ci salva dallo scomparire nel nulla con la nostra
morte, e – prima – dal darci reciprocamente morte e dolore, non è una dottrina, ma l'amore del
prossimo. La regola d'oro, comune a tutte le spiritualità, ci guida dalla sapienza alla profezia, dal
minimo bene comune al massimo della donazione di sé agli altri, alta e creativa realizzazione della
nostra umanità.
Enrico Peyretti, 14 marzo 2016
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