In questo numero - la libera compagnia padania

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Anno XII - N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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Anno XII
Bimestrale edito da La Libera Compagnia Padana
68
Novembre-Dicembre 2006
In questo numero:
Ripartiamo
dalla cultura
pag. 3
I Celti
nel Veneto
occidentale
Fitte comunità di
agricoltori -guerrieri
Cenomani
nel veronese
pag. 25
Carta europea
dell’autonomia
locale
pag. 36
La Libera Compagnia
Padana
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La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara
Tel. 333-1511182
E-mail: [email protected]
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Direttore Editoriale:
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Redazione:
Alfredo Croci
Corrado Galimberti
Silvia Garbelli
Mariella Pintus
Sergio Salvi
Carlo Stagnaro
Grafica:
Laura Guardinceri
Sui Quaderni sono stati pubblicati interventi di:
Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè,
Adriano Anghilante, Aureli Argemì, Camillo Arquati,
Lorenzo Banfi, Augusto Barbera, Fabrizio Bartaletti,
Alessandro Barzanti, Ettore Beggiato, Alina Benassi Mestriner,
Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi,
Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini Dossena, Diego Binelli,
Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio,
Massimo Bonini, Archimede Bontempi, Romano Bracalini,
Nando Branca, Marco Brigliadori, Gustavo Buratti, Beppe Burzio,
Luca Busatti, Lorenzo Busi, Ugo Busso, Massimo Cacciari,
Giulia Caminada Lattuada, Alessandro Campi, Alberto E. Cantù,
Antonio Cardellicchio, Mauro Carena, Massimiliano Carminati,
Claudio Caroli, Marcello Caroti, Roberto Castelli, Giorgio Cavitelli,
Sergio Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cernuschi, Leone Chesini,
Gualtiero Ciola, Bastianu Compostu, Carlo Corti, Michele Corti,
Mario Costa Cardol, Fabrizio Costan Biedo, Giulio Crespi,
Alfredo Croci, Pierluigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo,
Roberto De Anna, Alain De Benoist, Antonio De Felip,
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Corrado Della Torre, Rolando Di Bari, Alessandro D’Osualdo,
Marco Dotti, Costantino Fabris, Giovanni Fabris, Leonardo Facco,
Gigi Ferrario, Rosanna Ferrazza Marini, Alberto Filippi,
Davide Fiorini, Giovanni Fontana, Marco Formentini,
Roberto Formigoni, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti,
Sergio Franceschi, Elio Franzin, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli,
Corrado Galimberti, Stefano Galli, Silvia Garbelli,
Giorgio Garbolino Boot, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone
Gerboli, Michele Ghislieri, Marco Giabardo, Davide Gianetti,
Renato Giarretta, Guido Giovannetti, Giacomo Giovannini,
Roberto Gremmo, Flavio Grisolia, Michela Grosso,
Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Hans Hermann Hoppe,
Matteo Incerti, Thierry Jigourel, Eva Klotz, Luca Lanzini,Sarah
Lawrence, Donata Legnani Maggi, Alberto Lembo, Pierre Lieta,
Roberto Locatelli, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri,
Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Aldo Marocco,
Antonio Martino, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli,
Cristian Merlo, Sirola Metella, Ettore Micol, Gianfranco Miglio,
Leo Miglio, Giogio Milanta, Giancarlo Minella, Alberto Mingardi,
Renzo Miotti, Piergiorgio Mirandi, Franco Miroglio, Aldo Moltifiori,
Maurizio Montagna, Costantino Morello, Giuseppe Motta,
Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Gilberto Oneto,
Giancarlo Pagliarini, Ugo Palaoro, Paolo Pamini, Alessia Parma,
Patrizia Patrucco, Mario Predabissi, Elena Percivaldi,
Angelo M. Petroni, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Guglielmo
Piombini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri, Quirino Principe,
Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Alberto Quadrio Curzio,
Laura Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar, Romano Redini,
Patrick Riondato, Andrea Rognoni, Rocco W. Ronza,
Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi,
Oscar Sanguinetti, Rossana Sapori, Lamberto Sarto,
Gianni Sartori, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione,
Laura Scotti, Ermanno Serrajotto, Alessandro Severi, Leo Siegel,
Marco Signori, Giovanni Simonis, Stefano Spagocci,
Marcello Staglieno, Carlo Stagnaro, Alessandro Storti,
Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Stefano Talamini,
Candida Terracciano, Tito Tettamanti, Stefano Tomiato,
Mauro Tosco, Fabio Trabucco Ratto, Claudio Tron, Nando Uggeri,
Fredo Valla, Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi, Antonio Verna,
Alessio Vezzani, Alessandro Vitale, Eduardo Zarelli,
Davide Zeminian, Antonio Zòffili, Marino Zorzi.
Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34,
legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona (NO)
Registrazione: Tribunale di Verbania: n. 277
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti a
“La Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a
contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia
Padana. Il materiale non viene restituito.
Periodico Bimestrale
Anno XII - N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Bavaglio tricolore - Brenno
1
Ripartiamo dalla cultura - Silvia Garbelli
3
Le minoranze liguistiche allofone
sul territorio tedesco. Loro dislocazione
e salvaguardia - Fabio Trabucco Ratto
10
Il Trophée des Alpes: un antico segno
di oppressione - Gilberto Oneto
19
I Celti nel Veneto occidentale.
Fitte comunità di agricoltori-guerrieri Cenomani
nel veronese - Leone Chesini
25
Chi è responsabile della comunicazione
nella Lega Nord? - Alessandro Severi
31
Carta europea dell’autonomia
locale - Consiglio d’Europa, 1985
36
La Rubrica Silenziosa
40
Biblioteca Padana
48
Norme per i collaboratori ai Quaderni Padani
60
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Bavaglio tricolore
F
ra le varie perle che ruotano attorno alla Finanziaria 2007 si trova anche un intervento
collegato, dedicato a disposizioni urgenti di
carattere finanziario. Si tratta del Decreto Legge
03.10.2006 n. 262 , pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello stesso giorno. In mezzo a molte altre
cose, è piuttosto dolorosamente interessante
l’Articolo 32, titolato “Riproduzione di articoli di
riviste o giornali”, il cui testo dice: “1. All’articolo 65 della legge 22 aprile 1941, n. 633, dopo il
comma 1, è inserito il seguente: “1-bis. I soggetti
che realizzano, con qualsiasi mezzo, la riproduzione totale o parziale di
articoli di riviste o giornali, devono corrispondere un compenso agli editori per le opere da cui i
suddetti articoli sono
tratti. La misura di tale
compenso e le modalità
di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i soggetti di cui
al periodo precedente e le
associazioni delle categorie interessate. Sono escluse dalla corresponsione del compenso le
amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165”.”
In pratica si vieta la riproduzione di testi senza
l’autorizzazione del periodico da cui è tratta e
senza il pagamento di un compenso la cui determinazione non è più neppure lasciata alla libera
contrattazione fra le parti, ma sottoposta alle “associazioni di categoria interessate”. Quali sono?
La SIAE, gli ordini, le associazioni di giornalisti o
tipografi, i sindacati? Non è neppure definito cosa
si intenda per “riproduzione parziale”: basta una
frase o un periodo per fare scattare le disposizioni
di legge? Di una legge che non tenta neppure di
mitigare i suoi intenti liberticidi. Se così fosse,
nella felice Repubblica italiana non si potranno
più citare, riportare né – evidentemente – commentare testi e affermazioni senza l’esplicita autorizzazione di chi li ha redatti. Si tratta di un colossale bavaglio alla libertà di espressione e di
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stampa. Il diktat riguarda la carta stampata ma
anche – a maggior ragione – l’informazione in rete: più nessuno su Internet potrà riportare testi
altrui. Fino a oggi bastava non abusare della lunghezza delle citazioni e citare la fonte, ora bisognerà esibire regolare autorizzazione e ricevuta
di pagamento, con bolli, timbri e ceralacca?
Così lo Stato italiano tenta di togliere un altro
prezzo di libertà.
È piuttosto strano che non molte voci si siano
levate contro questo ennesimo sopruso, forse
perchè le malefatte governative sono così estese e
numerose che non si può
stare dietro a tutte. Nella
sostanza, poco infatti
cambia anche che le
Commissioni riunite Bilancio e Finanza della Camera abbiano approvato
il 18 ottobre successivo
un emendamento del deputato radicale della “Rosa nel Pugno” Maurizio
Turco che chiede la soppressione dell’articolo incriminato del decreto fiscale collegato alla Finanziaria. La soppressione
definitiva di tale articolo
dovrà infatti essere rimessa al voto dell’aula. Se il
governo porrà la fiducia sull’approvazione dei
suoi provvedimenti, difficilmente il pronunciamento del Parlamento sarà recepito. In ogni caso
(e quando questo numero dei Quaderni sarà stato
distribuito i giochi saranno stati fatti) si tratta di
una tremenda manifestazione di illiberalità: è il
frutto di una mentalità oppressiva che odia ogni
forma di libera espressione del pensiero. È una
sommatoria di fascismo e di leninismo, è un
concentrato di italianità. É importante che la
norma non passi ma è comunque ignobile che
una cosa del genere sia stata pensata e tentata a
livello di governo.
L’applicazione della norma riguarderebbe molto da vicino chi si occupa di diffusione culturale e
in particolare le Associazioni come la nostra che
affidano soprattutto alla carta stampata e a Internet i propri messaggi. Come questo genere di anQuaderni Padani - 1
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Silvio Lupo è andato avanti. Classe 1915,
era il decano degli autonomisti piemontesi e dei soci de La
Compagnia, cui era iscritto dalla sua fondazione. É stato collaboratore dei Quaderni.
Alpino della Julia, reduce dall’Albania,
aveva redatto numerosi articoli sul
significato delle truppe ad arruolamento
territoriale: tema di cui era esperto
assieme alla storia celtica.
Dagli anni ’70 era attivo nelle associazioni
e nei gruppi autonomisti, nel 1993 era
stato eletto consigliere comunale a
Novara nelle file di un Movimento di cui
ha vissuto con dolore il progressivo
sfaldamento, che nella sua città ha
assunto connotati particolarmente
devastanti.
Anni fa, a Montecrestese, Silvio Lupo
era stato maestro di cerimonia nel
“battesimo” del menhir che era stato
innalzato dalla nostra Associazione: La Libera Compagnia vuole
ricordarlo così, nella sua veste di druido saggio e di tenace custode
delle nostre radici identitarie.
2 - Quaderni Padani
gherie tricolori potrà condizionare
il nostro lavoro?
I Quaderni non sono una pubblicazione in distribuzione attraverso i
normali canali commerciali e sono
di fatto un bollettino interno riservato ai soli Soci, cui nessuno – almeno finora – può proibire di mostrarli e farli leggere a chi pare loro. Per questo la disposizione non
dovrebbe toccarci, neppure quando
riproduciamo testi altrui di cui si è
sempre e comunque scrupolosamente citata la paternità.
Diverso potrebbe essere l’esito degli stessi testi e articoli quando
vengono riprodotti – con il resto
dei contenuti dei Quaderni – sul
nostro sito. Attendiamo per questo
gli sviluppi applicativi della nequizia legislativa e ci uniformeremo al
comportamento di tutti gli altri
soggetti interessati, tenendo ben
presente che la cosa toccherebbe
praticamente tutti i siti Internet
che si occupano di informazione,
divulgazione e cultura.
Una cosa la possiamo però fin d’ora affermare con certezza: noi non
pretenderemo autorizzazioni né
pagamenti per la riproduzione di
testi che noi abbiamo prodotto e
pubblicato. Il nostro obiettivo è
quello di fare circolare il
più liberamente e ampiamente possibile le nostre
idee e cercheremo di non
farci imbavagliare da imposizioni della censura italiana. Pertanto d’ora in poi
su tutte le nostre pubblicazioni e sul nostro sito
comparirà in bella evidenza la seguente scritta: “La
riproduzione totale o parziale dei nostri testi è libera, alla sola condizione
che venga citata la fonte.
Questa vale come esplicita
dichiarazione di autorizzazione e solleva chiunque effettuerà la
riproduzione anche da ogni obbligo di
corresponsione di qualsiasi compenso”.
Brenno
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Ripartiamo dalla cultura
di Silvia Garbelli
S
ono passati circa dieci anni da quel memorabile e significativo 15 Settembre 1996.
Lungo le rive del fiume Po, dalle sorgenti
alla laguna di Venezia, tanti Padani si erano raccolti con la consapevolezza di partecipare a un
rito battesimale. Sembrava che la legittimazione della statualità padana potesse avvenire con
grande facilità e soprattutto a breve termine.
Paradossalmente, questa legittimazione tarda a
concretizzarsi, proprio a fronte delle condizioni
fallimentari dello Stato italiano, la cui sopravvivenza è vincolata allo sfruttamento socio-economico della Padania. Le cause sono ovviamente più di una, e questa non vuole essere la sede
per un’analisi politica. Ci basti però ricordare
come sia stata persa un’importante occasione
per raggiungere un livello di autonomia proprio
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
attraverso la sconfitta al referendum di quella
riforma costituzionale tenutasi gli scorsi 25 e
26 Giugno. La cosiddetta Devolution, propugnata principalmente dalla Lega Nord con la
Casa della Libertà, non ha ottenuto i necessari
consensi popolari per diventare legge. Stravolta
nei contenuti e nella sostanza rispetto a quanto
presente nel programma elettorale del 2001 (affrontata nei Quaderni Padani n. 57-58 e 60),
non avrebbe certo soddisfatto le forti richieste
di autonomia e indipendenza dei Popoli Padani.
Il fallimento dell’intera coalizione della Casa
della Libertà esigerebbe di ripensare al futuro.
Ma si lascia ai politici e ai suoi famosi autori, i
“Saggi di Lorenzago di Cadore”, la responsabilità di risponderne, non solo istituzionalmente,
agli elettori. L’esito della consultazione popola-
Quaderni Padani - 3
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re è schiacciante: se, infatti, la maggioranza dei
consensi favorevoli si riscontra in prevalenza
nelle zone corrispondenti alle regioni Lombardia e Veneto, nel resto della Padania la situazione è “a macchia di leopardo”. In Italia si afferma, invece, il voto di segno opposto.
Ritorna quindi d’interesse la Costituzione con
la riforma del Titolo V attuata dalla coalizione
di Centrosinistra. Datata 2001, resta a tutt’oggi
in vigore e contempla l’articolo 132, che permette di attuare nuove aggregazioni territoriali.
Così, dopo i primi giorni di rituali polemiche
fra i due schieramenti politici, senza alcun Congresso per stabilire la linea futura, alcuni esponenti della Lega Nord, avanzano, a livello ufficiale, l’ipotesi di puntare tutto sulla realizzazione del Lombardo-Veneto. Si porrebbe, anche da
parte loro, una profonda e seria riflessione, ma,
come d’incanto, si levano e immediati, i pareri
di varie personalità del panorama mediatico.
Dalle colonne del più diffuso quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, si avvicendano tante,
troppe, voci sul tema del Lombardo-Veneto.
Questi pareri, sorti improvvisamente come funghi nel sottobosco della politica italiana, sono
4 - Quaderni Padani
di varia tipologia ma prevalentemente velenosi,
e vanno analizzati con attenzione. Così, si è attuato un calibrato gioco di pro e di contro circa
la proposta dell’ipotetica aggregazione territoriale. È una gara unitarista e patriottarda: in
tutti gli articoli si individua, più o meno malcelata, la presenza della “dose minima” di interesse nazionale (italiano). In tutti si nega o si critica l’esistenza della Padania, ma nessun autore è
in grado – ovviamente - di definire cosa sia l’italianità e l’identità italiana. Vediamo in sintesi
questi frutti della più scaltra strategia dell’italica concezione, ideologicamente trasversale, del
“divide et impera”.
Il primo ad aprire quello che viene definito
“dibattito”- ma non vi è alcun contraddittorio in ordine cronologico, domenica 2 luglio, è Ernesto Galli Della Loggia sul “Il paradosso del
Lombardo-Veneto”. Da direttore della Collana
L’identità italiana della casa editrice Il Mulino,
egli non potrebbe mai negare la natura disomogenea delle attuali regioni, Stati preunitari prima dell’imposto processo risorgimentale. Si erge, con notevole difficoltà, a paladino di una
unità statuale le cui storture sociali sono state
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sempre mal sopportate da Lombardi e Veneti (e
da tutti gli altri popoli padani). L’intero articolo, utile elenco delle diversità storiche caratterizzanti la formazione delle Regioni in oggetto,
elenca con dovizia di particolari eventi, personaggi, elementi religiosi, sociali ed economici
talmente peculiari da rendere impossibile l’eventuale fusione politico-amministrativa del
Lombardo-Veneto. Si apprezza che Galli riconosca “una sorta di sinergia...in sostanza estranea
al paradigma fondativo della comunità politica
italiana, un’“espressione di una cultura anch’essa perlopiù lontana dalla koiné d’impronta
statal-nazionale storicamente affermatasi nell’Italia postunitaria”. Ma in fine di articolo, Galli
si pente di mostrarsi consapevole di tali diversità, abiurando: “Quello che ho tratteggiato è
tuttavia un quadro esclusivamente storico: sul
piano delle conseguenze pratiche esso ha un valore solo virtuale.” Il suggerimento di “sottrarsi
all’egemonia ideologica nazional-italiana e della elaborazione culturale di grande portata
identitaria e dopo semmai politica” è, invece,
l’obiettivo che i padanisti si pongono da tempo.
Il 3 Luglio si replica. Dario Fertilio, in un articolo (Lombardo-Veneto, un paese che forse non
c’è) intervista Claudio Magris, testimonial, né
lombardo né veneto, ma a favore della causa
unitarista italiana e concorde con Galli Della
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Loggia. Le motivazioni sono in salsa letteraria:
si cita il mondo triestino di Svevo; ci si avventura in frasi altisonanti retorico-patriottiche buone per l’aggiornamento del deamicisiano libro
Cuore: “l’appartenenza non formale a un corpo
più grande di quello che percepiamo immediatamente, il sentirsi italiani – se è inteso correttamente non come nazionalismo giacobino livellatore e deformazione di se stesso - non nega
affatto le peculiarità”. Dunque, sì alle differenze, ma che non siano troppo evidenti. Rilevando
qualche forte “dubbio” sulle conoscenze storiche di Magris, spiace riconoscere che questo fu
proprio quanto è accaduto nel cosiddetto risorgimento. E Fertilio, per italico interesse nazionale, deve ritornare sul terreno letterario, a lui
più consono. Magris cita il romanziere Ippolito
Nievo, Verri e Manzoni, Carlo Goldoni come
fossero folkloriche bandierine di delimitazione;
afferma: ”Istintivamente non sento affatto il federalismo di Cattaneo più lontano dell’unitarismo di Mazzini…” o “Mi dichiaro contro il centralismo, compreso quello regionale” e sembra
preferisca proprio il giacobino centralismo italiano. Un po’ di chiarezza storica non guasterebbe.
Il 4 Luglio: le statistiche. Le cifre delle tabelle
dell’Osservatorio di Renato Mannheimer (Lombardo-Veneto, un progetto spinto dalle urne)
6 - Quaderni Padani
confermano il divario elettorale tra Nord e Sud
degli elettori del centrodestra all’ultimo referendum. Si individua la motivazione in “una
comunanza in termini di valori valoriali e culturali”. Con grande scoperta e stupore - dell’autore - si cita un sondaggio recente in cui la parola innovazione nel Lombardo-Veneto significa
“lavorare in modo più efficiente, di più” e “nel
Centro-Sud, viceversa, fare qualcosa di creativo”. E a fronte di queste lapalissiane verità,
Mannheimer suggerisce che la “questione Lombardo-Veneto va attentamente studiata, come
fecero alcuni, anni fa, per la questione settentrionale”. Semplici dati economici sarebbero
stati più esaurienti, ma favorevoli alla causa
dell’indipendenza e l’autonomia padana.
Il 5 Luglio si raddoppia. Il più corposo dei due
articoli è Lombardo-Veneto, come si costruisce
un mito, dello storico Guiseppe Galasso; decisamente di buon livello, ma contraddittorio. La
tesi iniziale finisce per sconfessare l’analisi dettagliata. Il sottotitolo è “Dall’assolutismo alla
favola del buon governo di Vienna”, ma l’elenco
dei vantaggi avuti sotto l’Impero asburgico
smentisce l’autore: oltre a “un sicuro sviluppo
economico”, “i meriti austriaci sono evidenti:
una buona legislazione civile, un buon ordinamento comunale, la migliore scuola e il minore
analfabetismo d’Italia, il progresso nelle comuAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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nicazioni”. Ma perché Galasso parla di un inesistente “senso di soffocamento intellettuale
quando in Lombardia vi era la massima libertà
di stampa? O dei “Mille in maggioranza lombardi”, adducendo un’inesistente afflato popolare?
E sotto lo Stato italiano le condizioni di vita sono davvero progressivamente migliorate? Il senso patriottico italico “è solo alle partite”, come
dice una canzone di Giorgio Gaber? È
un semplice esempio di incoerenza
italonazionalista. L’altro articolo è invece di Giancarlo Galan, presidente
della Regione Veneto, da cui ci aspetteremmo un intervento prettamente
giuridico-amministrativo. No: ripete
pedissequamente quanto detto da Galli Della Loggia più altri riferimenti
letterari su Jacopo Ortis, che, “con Venezia e la sua più che millenaria storia repubblicana rappresentano.. mito
e nostalgia di una civiltà scomparsi,
che resero originale il contributo veneto all’Unità d’Italia..” Un vergognoso oltraggio alla Serenissima e alla verità storica del plebiscito-truffa di annessione al Regno d’Italia del 1866, riscoperta dall’indipendentista veneto
Giuseppe Segato, recentemente scomparso. O che Galan si confonda forse
con un altro tipo di tributi? Infatti,
esprime ottimismo su una possibile
macroregione, “assieme al Friuli-Venezia Giulia, Croazia, Slovenia e Carinzia. L’importante è non confondere
il federalismo fiscale con il secessionismo o con il più triviale egoismo sociale”. Beata e profonda ignoranza, indegna per il popolo veneto, di forte
identità culturale.
L’8 Luglio si cambia prospettiva. L’identità culturale lombardo-veneta vista dal Sud; Il mito del Nord produttivo? Non è nato oggi. È il rancoroso,
patetico e nazionalpopolare sfogo di tal Gianni
Donno sulla eterna differenza di due nazioni,
Padania e Italia etnica, ancora giocato su posizioni di (strumentale) razzismo, che rendono
all’autore una pessima fama. Confonde l’azione
politica della Lega Nord con le reali esigenze di
autonomia e indipendenza dei popoli padani; fa
poi riferimento a una situazione “alla fine degli
Anni Settanta”; è la personificazione del livore
di quell’unità imposta dai Savoia ma tuttora pagata dai Padani. Non merita altre parole.
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Il 9 Luglio, ecco il parere del giurista, ex-senatore della sinistra indipendente, economista,
saggista e attuale commissario della Federcalcio
italiana, Guido Rossi, intervistato dal solito Dario Fertilio. Ci si attenderebbe un taglio tenicogiuridico, ma nel suo Il nuovo Gattopardo si
trova di tutto un po’. L’autore definisce subito il
Lombardo-Veneto il Paese del piagnisteo”
(“Servono gli Asburgo, e scalpitano per l’indipendenza. Riuniti all’Italia, e subito prendono
le distanze dalle pretese della burocrazia romana” ). Da professore di filosofia del diritto dichiara che la consuetudine di Lombardi e Veneti è “la loro unità psicologica nella lamentela”.
È l’unica forma d’identità, “capace di riunire
milanesi e veneziani nel nome del no a Roma”,
perché le differenze renderebbero impossibile
una simile aggregazione. Sostiene che, “l’elogio
delle diversità” teorizzato da Carlo Cattaneo cirQuaderni Padani - 7
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ca “l’operosità del Nord contrapposta al resto
neghittoso degli italiani”, sia stato “trasformato
in un banale motivo polemico di insofferenza fiscale.” E con un riferimento alla cultura illuminista lombarda e al cattolicesimo di quella veneta, incita a restare buoni schiavi italiani: “Non
c’è alcuna ragione che possa giustificare un Lombardo-Veneto separato dal resto dell’Italia. Senza
il mercato italiano..sarebbe destinato a scomparire.” Per Rossi, conclude Fertilio, “…continua a
sembrare, piuttosto, un incubo.” Con l’auspicio
che Rossi si dedichi anima e corpo al risanamento del corrotto gioco del calcio italiano,
collante della cosiddetta Unità.
Il 10 luglio compare l’articolo di Roberto
Chiarini, docente di Storia alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano. È un intervento analitico piuttosto concreto
su La questione settentrionale nasce con la Re-
8 - Quaderni Padani
pubblica. Con una certa onestà intellettuale, si
individuano più cause che rendono incerta l’attuale situazione, fra cui l’azione leghista, caratterizzata da “mutevolezza della domanda politica, espressa (secessione, macroregioni, federalismo) con la contraddizione della stessa cultura
politica adottata”, e la tardiva “messa a fuoco
del problema”. Sottovalutato fin dal “momento
di formazione dello Stato…un forte sentimento
di un orgoglio del Nord “, operosa vittima di
“sperequazioni economiche”, venne ignorato
sia dal conflitto ideologico occorso durante il
periodo fascista, sia dai “rapporti tra potere centrale e interessi locali” di matrice cattolico-democristiano nel secondo dopoguerra, sia più
tardi, “nel 46-47, al momento della fondazione
del nuovo Stato repubblicano.” Per Chiarini, sono però “lagnanze” che verranno sfruttate politicamente. Astutamente, si affretta a demonizzare il ruolo del revisionismo,
riconoscendo la presenza di
“un abbozzo di pensiero storico a sostegno della rivendicazione federalista. La causa starebbe nella “crisi dei partiti di
governo, specificatamente della Democrazia Cristiana” a
“riattivare gli antichi (e mai
sopiti) pregiudizi dell’antipolitica, dell’anti-statalismo e dell’anti-centralismo”. Ma la soluzione sarebbe ancora “una
cultura nazionale di governo”:
troppo centralista.
L’11 Luglio ecco una lezioncina tutta in sintonia con la più
becera storiografia italopatriottarda: Il Lombardo-Veneto è il regno dell’antipolitica
di Luciano Cafagna. Ancora
sulla Questione settentrionale
(non si parla affatto di Padania), “nata sulle ceneri della
grande crisi fiscale”, come recita il sottotitolo. L’inizio è
una vera e propria esaltazione
della migliore/peggiore storiografia risorgimentale. Anzi,
l’operosità di quelle popolazioni infastidisce Cafagna: “la
stragrande maggioranza era
restata a casa…a curare le rotazioni agrarie…o ad allevar
bachi e trarne la seta nelle baAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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cinelle…”. Secondo l’autore, è perché in quelle
regioni la politica è “o cosa secondaria o addirittura da guardarsi con sospetto”; si sorprende
per “la scarsità della tematica politica in un così
straordinario intellettuale, aperto in ogni direzione” come Carlo Cattaneo. Sostiene di individuare le premesse della questione settentrionale nello scontro fra questa cultura d’impresa e
“il fallimento finanziario dell’Italia trivellatrice
della politica”. Cafagna si lancia, dunque, in
un’analisi economica, accozzaglia di sprechi generalizzati, sindacalisti e opere pubbliche, inflazione e indebitamento. Lavorate, schiavi di Roma!
Qualche breve e umile riflessione conclusiva.
L’elemento culturale è stato usato/abusato come una vera e propria arma dell’ideologia centralista italiana: storia, geopolitica ed economia
sono da riscoprire attraverso la prospettiva revisionista, tanto temuta dagli adoratori del tricolore unificatore. I padanisti e i lettori dei Quaderni Padani sanno bene come difendersi da
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questi “attacchi patriottardi”: spunti e riferimenti bibliografici non mancano. Come è loro
noto, le differenze di Lombardia e Veneto sono
le migliori ragioni per mantenere e consolidare
la preziosa essenza dell’identità millenaria. La
gloriosa esperienza socio-economica acquisita
sotto l’Impero asburgico è un’eredità del passato, una dote creata da avi forti, onesti e laboriosi, ma non può certo condizionarne il futuro.
Inoltre, è loro noto che le aggregazioni, secondo il principio del professor Gianfranco Miglio,
devono contare su determinate caratteristiche,
con forze numericamente maggiori se si è di
fronte al subdolo oppressore italiano. Ripartiamo dunque dalla nostra cultura, ancora soffocata, demonizzata e poco diffusa, ma diversa da
quella ufficiale propinata nella scuola e sui quotidiani italiani: per noi, contro quei “bravi intellettuali schiavi di Roma”, ma anche a sostegno
di tutti quegli esponenti politici che abbiano
davvero a cuore le istanze dei popoli padani e le
loro identità.
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Le minoranze linguistiche
allofone sul territorio tedesco
Loro dislocazione e salvaguardia
di Fabio Trabucco Ratto
n Germania il problema della tutela delle minoranze autoctone con radici etnicoculturali
proprie appare molto meno complesso che in
altri Paesi, principalmente per il fatto che non
sono presenti realtà marcatamente separatiste,
nonché in quanto la politica tedesca nei confronti delle minoranze è sempre stata all’avanguardia e non ha costituito un ostacolo alla vita
sociale e culturali delle etnie presenti sul territorio. Esistono, infatti, normative ad hoc per i
singoli gruppi minoritari esistenti nel Paese, le
quali sono però in numero estremamente ridotto essendo la loro consistenza non superiore alle
quattrocentomila persone, cioè circa lo 0,5%
della popolazione totale. Perciò la Germania costituisce uno dei paesi europei con il minor numero di minoranze etniche stanziate al suo interno, rispetto ad altri Stati dove la presenza di
comunità allofone è di gran lunga maggiore. A
ciò si aggiunga che le stesse risultano localizzate in alcune zone circoscritte del Paese e con un
peso politico molto debole.
I
In questa sede non sono invece affrontate le
etnie frutto della recente immigrazione in Germania che pure sono molto cospicue e ben più
consistenti rispetto alle minoranze insediate da
secoli raggiungendo un totale di circa 7 milioni.
In particolare si ricorda che la comunità più numerosa è quella dei turchi (circa 2 milioni), seguita dagli ex-iugoslavi (circa 1 milione), dagli
italiani (circa 600 mila)(1) e dai greci (circa 350
mila)(2).
In particolare nella Germania riunificata possiamo individuare solamente quattro minoranze
storiche(3) che sono:
1. Danesi dello Schleswig;
2. Frisoni, divisi in settentrionali e orientali, della Frisia tedesca;
3. Polacchi della Westfalia;
4. Sorabi della Lusazia.
Nei paragrafi che seguono ci proponiamo un
loro esame con particolare attenzione alla loro
dislocazione e alle norme poste a loro tutela. In
Germania sono comunque presenti anche co-
(1) La comunità italiana si è sempre dimostrata molto attiva
dal punto di vista culturale, tanto è vero che il primo giornale italiano in Germania risale ai primi anni Cinquanta. Infatti, il Corriere d’Italia venne fondato nel 1951 all’interno
della Missione cattolica italiana di Monaco di Baviera e fin
dall’inizio fu distribuito su tutto il territorio federale. I giornalisti italiani in Germania si sono riuniti nell’associazione
Media Club, che si è ufficialmente costituita nel 2000 allo
scopo di tutelare gli organi dell’informazione italiana in
Germania. Cfr. P. FABBRI, Germania: Media Club, intervento
al convegno di Friburgo del 18-19 marzo 2005 su “I media
italici in Europa come veicolo di integrazione culturale”, in
http://www.mediaecomunicatoriitalici.net/interna.asp?sez=7
02&info=112410.
(2) Sul tema del multiculturalismo a seguito dell’immigrazione in Germania si veda V. GÖTZ, Multiculturalismo e valori costituzionali in Germania, in T. BONAZZI, M. DUNNE (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, Bo-
logna, 1994, 185-200.
(3) Per notizie relative ai gruppi linguistici stanziati in Germania e sulla politica linguistica tedesca cfr.: G. BARBINA, La
geografia delle lingue, Roma, 1993, 156, nota 3; S. MANCINI,
Minoranze autoctone e Stato, Milano, 1996; E. PALICI DI SUNI
P RAT , Intorno alle minoranze, Torino, 2002, 113-114; F.
TOSO, Frammenti d’Europa, Milano, 1996, 219-225. Inoltre
si veda L. BREGANTINI, I numeri e i luoghi delle minoranze
etniche dall’Atlantico al Pacifico, Gorizia, 1997, 23, 25, 32,
37, 56-57, 108-109, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti relativi ai dati delle consistenze numeriche i quali si
rifanno soprattutto alle ricerche curate dal MINISTERO DELL’INTERNO, Ufficio centrale per i problemi delle zone di confine e delle minoranze etniche, L’Europa delle minoranze:
primo rapporto, Roma, 1994, dal CONSEIL D’EUROPE, La situation des langues régionales ou minoritarie en Europe, Strasbourg, 1994 e dall’EUROPEAN BUREAU FOR LESSER USED LANGUAGES, Contact Bulletin, 8, 2-3, 1991.
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Aree con presenza di minoranze linguistiche in Germania
A – Danesi dello Schleswig, B1 – Frisoni orientali, B2 – Frisoni settentrionali, C – Polacchi della Westfalia, D –
Sorabi della Lusazia
munità di Rom (stimati in circa 80 mila)(4) e di
Ebrei (circa 30 mila unità), ma non si dispongono informazioni sufficienti sulla loro distribuzione in aree specifiche.
Da parte sua la Grundgesetz, cioè la Costituzione (rectius: Legge Fondamentale) tedesca del
23 maggio 1949(5) non fa cenno alcuno alla tutela delle minoranze linguistiche stanziate sul
(4) Il numero degli Tzigani e dei Rom di cittadinanza tedesca può essere solamente stimato. Al riguardo ricordiamo
che a partire dal 1982 il Consiglio centrale degli Tzigani e
dei Rom tedeschi gode della protezione del Governo federale
e si è attivato al fine di ottenere il risarcimento per i sopravvissuti all’Olocausto, nonché per i diritti della minoranza e
la tutela della lingua Rom, lottando contro discriminazioni e
pregiudizi. Con riferimento alle comunità nomadi della Germania cfr. J. PACKER, K. MYNTTI, The Protection of Ethnic
and Linguistic Minorities in Europe, Åbo, 1993.
(5) La Costituzione tedesca del 1949 fu elaborata da una delegazione dei Länder occupati dalle potenze occidentali e
successivamente approvata da ciascuno di essi. Tuttavia, proprio perché non poté essere ratificata da tutto il popolo tedesco, diviso in due distinti Stati, non prese il nome formale di
Costituzione, bensì quello di “Legge Fondamentale”. Con la
riunificazione tedesca del 1990 non ha mutato la sua denominazione in quanto fu estesa ai cinque Länder orientali ma
ancora senza una formale ratifica da parte dell’intero popolo
tedesco.
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territorio, tanto meno vi è alcuna disposizione
relativa alla lingua tedesca quale idioma ufficiale
della Repubblica federale. Tuttavia, nel corso del
1994 fu presentata un’apposita proposta di legge
costituzionale volta a introdurre un nuovo articolo, secondo cui “Lo Stato tutela l’identità delle
minoranze etniche, culturali e linguistiche”(6).
Tale proposta venne però respinta a causa della
scarsa consistenza delle minoranze linguistiche
presenti in Germania.
Si è infatti ritenuto che il problema delle minoranze linguistiche non sia una questione di
rilievo federale poiché esse sono presenti soltanto in alcuni Länder e infatti norme specificamente dedicate alla tutela dei gruppi minoritari
sono contenute nelle Costituzioni dei due Stati
federati maggiormente interessati al problema(7)e cioè lo Schleswig-Holstein (in cui ne sono concentrate due: Danesi e Frisoni) ed il Brandeburgo (in cui sono stanziati i Sorabi).
In particolare l’art. 5 della Costituzione dello
Schleswig-Holstein(8), modificata nel 1990, prevede la libertà di riconoscere una minoranza nazionale, senza dispense dagli obblighi generali
dei cittadini, per cui i gruppi danese e frisone
hanno diritto alla piena tutela e alla promozione. Inoltre, viene precisato che l’identità culturale e la partecipazione politica di minoranze
nazionali e di gruppi sono tutelate dal Land, dai
Comuni e dalle associazioni comunali.
A tale riguardo occorre ricordare che stante in
Germania la competenza dei Länder in materia
culturale (comprensiva dunque anche della salvaguardia delle minoranze linguistiche e nazionali) per i gruppi minoritari tedeschi risulta per
molti aspetti più importante ottenere una rappresentanza nel Parlamento regionale piuttosto
che in quello federale.
Circa le azioni positive previste dal potere pubblico tedesco nei confronti della minoranza danese va ricordata la predisposizione di condizioni
elettorali più favorevoli attraverso l’eliminazione
della clausola di sbarramento (Sperrklausel) del
5% dei voti e del raggiungimento di almeno tre
seggi nelle circoscrizioni uninominali, ai fini
dell’accesso alla ripartizione dei seggi parlamentari dei rappresentanti delle tre minoranze linguistiche nazionali riconosciute (Danesi e Frisoni nello Schleswig, Sorabi nella Lusazia).
( 6 ) Sulla proposta costituzionale in argomento cfr.: D.
FRANKE-R- HOFMANN, Nationale Minderheiten – ein Thema
für das Grundgesetz? Verfassung – una völkerrechtliche
Aspekte des Schutzes nationaler Minderheiten, in “EuGRZ”,
1992, 401 ss.; H. SCHULZE-FIELITZ, Verfassungsrecht und
neue Minderheiten. Verfassungstheoretische Überlegungen
zur “multiculturellen Gesellschaft”, in T. FLEINER-GERSTER,
Die multikulturelle und multi-ethnische Gesellschaft, Fribourg, 1995, 163 ss.; P. HÄBERLE, Die europäische Verfassungsstaatlichkeit, in “Kritische Vierteljahresschrift für Ge-
setzgebung und Rechtswissenschaft”, 1995, 304.
(7) Cfr. P. HÄBERLE, Europäische Recthskultur, Baden-Baden,
1997, 315 ss.
(8) Cfr. E. PALICI DI SUNI PRAT, op. cit., 114.
(9) Nel referendum del 10 febbraio 1920 si pronunciarono a
favore della Danimarca 75 mila votanti a fronte dei 25 mila
che optarono per la Germania.
A seguito di ciò, a far data dal 14 e 15 giugno successivi, lo
Schleswig settentrionale, pari a 3.891 Kmq di territorio, fu
riunito alla Danimarca.
12 - Quaderni Padani
1. I Danesi dello Schleswig
La frontiera tra la Germania e la Danimarca fu
sempre oggetto di controversie e di tensioni,
culminate verso la metà del secolo scorso nelle
cosiddette guerre dello Schleswig-Holstein.
Il Land che porta tale nome, attualmente tedesco con capitale Kiel, coincide con la parte
iniziale della penisola dello Jütland nella grande
pianura settentrionale e venne acquisito per intero alla Danimarca in virtù di quanto stabilito
dal Congresso di Vienna del 1815, ma la popolazione era in assoluta maggioranza di lingua tedesca. Al tentativo del re Federico VII di imporre
la legislazione danese sul territorio, i Tedeschi
dello Schleswig-Holstein insorsero nel 1848
provocando l’intervento della Prussia. Il conflitto si concluse due anni dopo con la mediazione
delle grandi potenze europee che imposero nel
1853 una struttura federale alla monarchia formata dalla Danimarca e dai Ducati meridionali.
Ma una seconda sollevazione tedesca si ebbe
nuovamente nel 1863 alla morte di Federico VII
e gli insorti, grazie all’appoggio della Prussia e
dell’Austria, riuscirono ad avere la meglio sull’esercito di Copenaghen.
A seguito di ciò, con il Trattato di Londra del
1864, l’Holstein fu assegnato all’Austria, mentre
lo Schleswig (con il Ducato di Lauenburg) passò
alla Prussia. Infine, con la Convenzione di Gastein del 14 agosto 1865, che poneva termine
della guerra austro-prussiana del 1866, i due
Ducati vennero uniti in un’unica provincia annessa alla Prussia.
Al termine della prima guerra mondiale conclusasi con la sconfitta tedesca, il 10 febbraio
1920 la zona nord dello Schleswig, in cui la popolazione era mista, fu interessata da un referendum(9) che portò alla scissione dell’antico
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Ducato in due territori: la parte settentrionale, a maggioranza danese,
chiese e ottenne di tornare sotto
l’amministrazione di Copenaghen,
mentre la parte meridionale, a maggioranza tedesca, rimase compresa
nella nuova Germania. Tale assetto
fu poi mantenuto dopo il secondo
conflitto mondiale per delimitare
l’attuale Land dello Schleswig-Holstein.
In territorio tedesco, lungo il nuovo confine e soprattutto nei centri
rurali di Rendsburg/Eckernfoerde,
Schleswig/Flensburg (nel distretto
di Flensburgland) e di Nordfriesland
(nell’omonimo distretto)(10), rimasero tuttavia nuclei consistenti di
popolazione danese, che attualmente ammontano a circa 50 mila persone(11).
Dopo la seconda guerra mondiale, i Danesi dello Schleswig meridionale tornarono a chiedere con
insistenza la riannessione della loro regione alla Danimarca(12) e la
questione fu inizialmente risolta
con l’iniziativa del Land dello Schleswig-Holstein che il 26 settemSuddivisione dello Schleswig per il referendum del 1920
bre 1949 riconobbe ufficialmente
la minoranza(13), cui rispose il Governo danese minoranza tedesca” del 27 ottobre 1949(14) che
con una “Dichiarazione ai rappresentanti della sanciva la tutela per la comunità tedesca dello
(10) Cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 56.
(11) Tuttavia, secondo dati degli anni 80 i parlanti quotidianamente danese nello Schleswig sarebbero circa 8 mila, cfr., ib.,
op. cit., 23, 108, nonché CONSEIL D’EUROPE, op. cit., 20 e MINISTERO DELL’INTERNO, op. cit., 75. Andando a ritroso nel tempo il
censimento prussiano del 16 giugno 1925 indicava solamente
5.628 danesi, rispetto ai 4.188 della precedente rilevazione del
1° dicembre 1910, cfr. A. MEILLET, Les langues de l’Europe
nouvelle, avec un appendice de L. Tesnière sur la statistique
des langues en Europe, Paris, 1928, 322. Addirittura le statistiche tedesche del 1933, quando il nazismo già era salito al potere, indicavano solamente 2.826 danesi e 1.310 bilingui, cfr. A.
DAUZAT, L’Europe linguistique, Paris, 1953, 192. Inoltre, dopo
la seconda guerra mondiale, molte famiglie si dichiararono danesi anche se parlavano ormai solo il tedesco e alle prime elezioni della Dieta federale tedesca che si tennero il 14 agosto
1949, il partito minoritario danese, cioè l’Associazione dello
Schleswig meridionale (Südschleswigscher Wählerverband),
ottenne 75.388 suffragi cioè il 5,4% del corpo elettorale dell’intero Schleswig-Holstein, ma al rinnovo del 6 settembre 1953
non superò i 44.585 voti, pari al 3,5% degli elettori, perdendo
così i due deputati in precedenza ottenuti e il 15 agosto 1957
scese ulteriormente a 32.262 voti, cfr. G. HÉRAUD, Les accords
germano-danois de minorités, in AA.VV., Mélanges en l’honAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
neur de Gilbert Gidel, Paris, 1961, 314-315. Ancora, secondo
un’inchiesta dell’UNESCO pubblicata sul quotidiano tedesco
“Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 31 luglio 1959, solamente il 60% della minoranza tedesca in Danimarca si serviva della
lingua madre nelle sue relazioni quotidiane e la metà dei bambini frequentava la scuola tedesca. Parallelamente, solo il 5%
del gruppo danese di Germania utilizzava giornalmente il suo
idioma e gli stessi esponenti del partito rappresentativo della
minoranza si esprimevano spesso in tedesco, cfr., G. HÉRAUD,
Les accords, cit., 314, nota 6.
(12) Nel 1949 un referendum non ufficiale volto a promuovere l’annessione alla Danimarca di una parte dello Schleswig
meridionale indicava la cifra di 99 mila danesi, cioè la maggioranza della popolazione dei distretti interessati.
(13) Si trattava della “Dichiarazione sulla situazione della minoranza danese”, pubblicata in Gesetzund Verordnungsblatt
für Schleswig-Holstein, 1949, 183. A seguito del riconoscimento tedesco della comunità danese, il Ministro della Pubblica Istruzione del Land dello Schleswig-Holstein emanò le
istruzioni sullo statuto scolastico della minoranza che entrarono in vigore il 1° aprile 1950.
(14) Tale Dichiarazione è conosciuta sotto il nome di “Kopenhager Vermerk” e venne adottata dal Ministro di Stato
danese Hans Hedtoft.
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Schleswig settentrionale. A seguito di brevi negoziati queste intese furono il prodromo all’accordo bilaterale tra i due Paesi – le cosiddette
Dichiarazioni congiunte di Bonn del 29 marzo
1955(15) – il quale garantiva ampie forme di tutela per le rispettive minoranze(16). In particolare queste dichiarazioni, su base reciproca, soddisfecero molto la minoranza tedesca dello Schleswig, la sola a beneficiare nell’immediato dopoguerra di un riconoscimento internazionale, se
si eccettua quella tedesca del Tirolo meridionale
a seguito degli accordi italo-austriaci di Vienna
del 1946.
Occorre sottolineare però come i suddetti accordi non comportarono la concessione di
un’autonomia territoriale alle zone abitate dalle
rispettive minoranze bensì istituirono un sistema individuale di garanzie volto alla difesa delle
specificità culturali attraverso organizzazioni
private d’interesse pubblico. In particolare erano
sanciti il principio della non discriminazione
delle persone e quello della promozione delle
lingue e delle culture, stabilendo il carattere essenzialmente volontario della qualifica minoritaria per cui “l’appartenenza all’etnia e alla cultura [danese o tedesca] è libera e non può essere
contestata, né verificata dalle autorità”.
Alle dichiarazioni bilaterali del 1955 fecero seguito le disposizioni già viste contemplate nella
Costituzione dello Schleswig-Holstein relativamente alla tutela delle minoranze stanziate sul
territorio del Land.
Da parte loro i Danesi dello Schleswig diedero
vita fin dal 1920 a una propria organizzazione
politica, la Sydslesvigsk Forening - SSF (Unione
dello Schleswig meridionale), al fine di tutelare i
suoi interessi nei rapporti con la maggioranza
tedesca, la quale ha accesso al Parlamento regionale grazie alla particolare disposizione della
legge elettorale per le minoranze linguistiche
più sopra richiamata(17).
Tuttavia, nel quadro di una convivenza pacifica e di una forte collaborazione anche tra enti
locali ai due lati del confine, non è ritenuta indispensabile una particolare formalizzazione di
forme di tutela, giacché esiste la possibilità di
far eventualmente valere singole rivendicazioni
di carattere concreto qualora se ne presenti la
necessità. Infatti il caso tedesco-danese deve ritenersi del tutto peculiare nel panorama della
tutela delle minoranze linguistiche vista la forte
integrazione delle due comunità alloglotte nei
rispettivi Stati(18).
(15) Sugli accordi tedesco-danesi del 1955 si vedano: G. HÉRAUD, Les accords, cit., 313-323, nonché S. MEERSTORFF, Die
Rechtsstellung der ethnischen Minderheiten in der Bundesrepublik Deutschland, Frankfurt, 1987, 12 ss. Il testo di tale accordo bilaterale è reperibile su Internet all’indirizzo:
http://www.geschichte.schleswig-holstein.de. Al riguardo ricordiamo che il 29 marzo 2005 a Copenaghen i Primi Ministri di Germania e Danimarca, Gerhard Schroeder e Anders
Fogh Rasmussen, hanno celebrato il cinquantesimo anniversario della sottoscrizione delle “Dichiarazioni congiunte
Bonn-Copenaghen” (Bonn-Kopenhagener Erklärungen) che
furono controfirmate per la parte tedesca dall’allora Cancelliere Konrad Adenauer e sono considerate, a buon diritto,
come uno dei migliori esempi giuridici, attualmente in vigore, di tutela delle minoranze linguistiche. In tema si veda:
Germania e Danimarca celebrano i 50 anni di politica comune per la tutela delle minoranze linguistiche, in
http://www. minoranzelinguistiche.provincia.tn.it.
(16) Per la parte danese l’accordo riguarda i circa 20 mila tedeschi che vivono nella contea di Soenderjylland nello Schleswig settentrionale, cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 100. Sull’evoluzione storica della minoranza tedesca in Danimarca si
veda G. HÉRAUD, Les accords, cit., 315.
(17) Sulla partecipazione al Parlamento del Land dello Schleswig-Holstein del SSF il quale mira a ottenere la parificazione del danese e del frisone al tedesco, nonché la garanzia
di essere rappresentato nel Governo del Land, oltreché nel
suo Parlamento, cfr. l’articolo: Minoranze finalmente riconosciute ufficialmente. Il SSW deve partecipare al governo
dello stato federale, in http://www.gfbv.it/2c-stampa/2005/050225it.html. Come già si è visto, invece, sin dal
1953 il SSF ha perduto la sua rappresentanza a livello federale poiché nonostante l’eliminazione della Sperrklausel in
favore dei partiti delle minoranze linguistiche, la dispersione geografica dell’elemento danese gli impedisce di conquistare seggi nelle circoscrizioni, a fronte di un sistema elettorale che organizza una doppia attribuzione dei seggi: una
metà a scrutinio uninominale nell’ambito delle circoscrizioni e l’altra a scrutinio di lista proporzionale nell’ambito
dei Länder.
(18) Sulla particolarissima situazione di tutela nello Schleswig-Holstein, sia da parte tedesca che da quella danese, cfr.
F. PALERMO, Minoranze e diritto elettorale, in: http://www.eurac.edu/Press/Academia/9/Artikel2.asp.
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2. I Frisoni settentrionali e orientali
La Frisia è una regione storica dell’Europa
nordoccidentale compresa tra il corso dei fiumi
Ijsselmeer e Weser, politicamente divisa tra la
Frisia Orientale in territorio tedesco (tra l’Ems e
il Weser), e la Frisia occidentale nei Paesi Bassi
(tra l’Ijsselmeer e l’Ems).
Il popolo frisone discende da una stirpe germanica della costa del Mare del Nord e oltre alla
sua lingua ha conservato numerose tradizioni.
Il frisone è una lingua germanica tuttora parlata
e articolata in tre varianti e i dialetti frisoni attualmente parlati in Germania si suddividono in
due gruppi ben differenziati anche dal punto
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della collocazione geografica(19).
Infatti, si parlano dialetti frisoni cosiddetti settentrionali lungo le coste del Land dello Schleswig-Holstein tra il fiume Eider e il centro di
Wiedau nonché sulle isole Frisone orientali e
settentrionali(20) che appartengono alla Germania, e in particolare in quelle di Amrum, Föhr,
Hallingen, Helgoland e Sylt(21). Tutti questi territori furono riuniti da Bonn, sin dal 1970, nell’unico distretto di Nordfriesland.
In tutta l’area nordfrisona l’elemento indigeno, stimato in circa 60 mila unità, fa ormai un
uso molto limitato della lingua originaria, che è
parlata e compresa da non più di 10 mila persone(22) concentrate soprattutto nelle località isolane di Amrum, Föhr e Sylt.
Nel Land della Bassa Sassonia, invece, intorno
alle città di Emden e Oldenburg (distretto di Ostfriesland), nei centri di Butjandingen, Jererland,
Ramsloh, Saterland e Strücklingen (distretto di
Niedersachsen) e nel villaggio di Scharrel nel distretto di Cloppenburg(23), si parlano i dialetti
frisoni orientali che sono una variante linguistica, detta saterlandic, praticata ormai soltanto da
circa due mila persone(24) e tenuta in vita soprattutto nell’ambito di alcune associazioni culturali.
I due gruppi frisoni di Germania – che complessivamente ammontano quindi a circa 12 mila unità effettivamente parlanti la madrelingua( 25) – la cui storia segue essenzialmente
quella delle regioni nelle quali si trovano stanziati, sono sempre stati culturalmente più deboli
dei Frisoni occidentali, stanziati nella provincia
olandese della Frisia (Friesland)(26) trovandosi
dispersi presso popolazioni di dialetto tedesco
alle quali si assimilavano facilmente.
Tuttavia, i Frisoni settentrionali hanno saputo
esprimere a partire dal XIX secolo un certo risveglio culturale e letterario, culminato con il
sorgere di associazioni in difesa della lingua e
delle tradizioni popolari che negli anni 70 dell’Ottocento hanno anche tentato di opporsi al
processo di germanizzazione avviato dal Cancelliere Bismarck nei confronti delle minoranze
linguistiche.
Questo movimento, legato alla cosiddetta idea
“panfrisone” che trovava allora un certo seguito
anche nei Paesi Bassi, ha promosso alcune rivendicazioni di carattere culturale, soprattutto a
partire dal 1923 e in collegamento con l’effervescenza della minoranza danese dello Schleswig,
ma solo nel 1948 si è costituita una federazione
delle associazioni nord-frisoni, la Forüning for
Nationale Frashe (Associazione Nazionale Frisone) con l’intento di coordinare questi sforzi.
Dal 1949 è poi attivo anche il Nord Friisk In-
(19) Sulla lingua frisone cfr. G. KREMNITZ, Die ethnischen
Minderheiten Frankreichs: Bilanz und Möglichkeiten für
den Französischunterricht, Tübingen, 1977, nonché K. BOELENS, The Frisian Language, Leeuwarden, 1981.
(20) Tuttavia, tre isole dell’arcipelago delle Frisone settentrionali – Fano, Mano e Romo – ricadono in territorio danese.
(21) Cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 57.
(22) Cfr., ib., op. cit., 108, nonché CONSEIL D’EUROPE, op. cit.,
21 e MINISTERO DELL’INTERNO, op. cit., 77.
(23) Cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 56.
(24) Cfr. ib., op. cit., 108, nonché EUROPEAN BUREAU FOR LESSER USED LANGUAGES, op. cit., 2.
(25) Cfr. ib., op. cit., 25.
(26) I Frisoni occidentali stanziati nei Paesi Bassi ammontano a circa 400 mila persone e costituiscono circa il 65% dell’intera popolazione della provincia della Frisia (il 3% circa
della popolazione totale del Paese) che ha come capoluogo
Leeuwarden e comprende anche le isole Frisone occidentali
(Ameland, Terschelling, Texel e Vlieland). Altri centri della
provincia sono: Drachten, Harlingen e Sneek. Cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 62, 133.
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Cartolina propagandistica per il referendum
nello Schleswig del 1920
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Richoldus Uffo, il primo re di Frisia. Stampa
del XVIII secolo
stituut (Istituto della Frisia del Nord) che svolge
funzioni di codificazione e rivitalizzazione della
lingua. Giova ricordare comunque che il frisone
settentrionale viene insegnato nelle scuole della
regione(27).
3. I Polacchi della Westfalia
Nel Land della Renania Settentrionale-Westfalia, soprattutto attorno alle città di Essen, Bochum e Dortmund, vivono ancora alcune migliaia di persone di lingua polacca, discendenti di
quelle colà trasferitesi a partire dalla metà dell’Ottocento, quando il governo tedesco, alla ricerca di manodopera a basso costo per le miniere e
l’industria pesante, incentivò l’emigrazione di
contadini polacchi dalla Slesia. In determinati
momenti i minatori della regione di origine polacca raggiunsero il 30% della popolazione residente e la loro organizzazione sindacale, sopravvissuta fino all’avvento del nazismo, fu un elemento di coesione che consentì ai polacchi della
Westfalia (Westfalcyks) di conservare un’identità
specifica a dispetto degli sforzi di assimilazione
compiuti a varie riprese dalle autorità tedesche.
Già nel primo dopoguerra, comunque, la mag16 - Quaderni Padani
gior parte dei Polacchi era ormai linguisticamente assimilata: su un totale di 300 mila persone, almeno 250 mila, nel 1939, avevano germanizzato
il loro cognome e a essi vanno aggiunti coloro
che decisero di rientrare in patria.
Dopo il 1945 il numero delle persone in grado
di parlare il polacco era sceso ulteriormente: nel
1946 i madrelingua polacchi erano circa 80 mila,
ma attualmente è calcolato in meno di 5 mila il
numero di coloro che fanno di tale idioma un uso
prevalentemente familiare(28). Tuttavia non va dimenticato che negli anni 90 a seguito della caduta del blocco comunista, il numero dei polacchi
stanziati in Germania è salito per effetto della forte immigrazione giungendo sino a toccare punte
di 250-300 mila persone(29).
Le associazioni culturali dei Polacchi di Westfalia, che furono dichiarate fuori legge dal nazismo e successivamente riammesse, hanno tentato di rivitalizzare la lingua polacca e le tradizioni peculiari di questo gruppo, facendo perno
soprattutto sulla religione cattolica come fattore aggregante: essa continua a essere praticata
dall’assoluta maggioranza dei cittadini tedeschi
di origine polacca.
Rispetto alle altre tre minoranze nazionali riconosciute i Polacchi risultano però di gran lunga
svantaggiati in quanto non godono di un particolare riconoscimento giuridico da parte della Costituzione del Land della Westfalia in cui sono insediati e questo contribuisce sicuramente al detrimento di tale lingua minoritaria.
4. I Sorabi della Lusazia
I Sorabi o Vendi, detti anche “Serbi di Lusazia”
rappresentano un gruppo peculiare di lingua slava occidentale e religione cattolica stanziatosi
nella regione della cosiddetta Lusazia, nell’ex
Germania orientale e più precisamente a ovest
del fiume Oder che a partire dal 1945 segna il
confine con la Polonia(30) discendenti delle anti-
(27) Sul bilinguismo frisone-tedesco si veda K. BOELENS, Frisian-Dutch bilingual primary-schools, The Hague, 1976.
(28) Cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 108-109 con dati degli anni
70 relativi a coloro che parlavano quotidianamente il polacco, anteriormente all’inizio dell’immigrazione massiccia degli anni Novanta.
(29) Si vedano i dati degli anni Novanta relativi alla comunità
polacca di Germania riportati in MINISTERO DELL’INTERNO, op.
cit., 79.
(30) Sulla comunità soraba di Germania si veda E. CLEVA, Reto-ladini, carno-vendi e friulani negli albori della storia,
Trieste, 1971, nonché G. STONE, The Smallest Slavonic Nation: the Sorbs of Lusatia, London, 1972.
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che tribù slave che i tedeschi del Medioevo chiamavano Wend. I Sorabi rimasero esclusi dal processo di
germanizzazione di questa
regione dopo l’espansione
verso est degli Stati feudali
tedeschi, alla fine del secolo
X, in quanto il loro territorio mal si prestava alla colonizzazione tedesca.
In particolare i Sorabi,
che costituiscono la minoranza linguistica più consistente e significativa dell’intera Germania, sono stanziati tra l’alta valle della
Sprea nel Land della Sassonia nei distretti di Bautzen,
Hoyerswerda, Kamenz, Niesky e Weisswasser, nonché
nella zona di Cottbus, nel
Land del Brandeburgo nei sei distretti di Calau,
31):
Cottbus, Forst, Guben, Luebben e Spremberg(
^
in particolare la città di Bautzen/Budysin costituisce la vera “capitale culturale” dei Sorabi. Si tratta di un’area non compatta geograficamente nella
quale l’elemento sorabo convive sin dalla fine del
VI secolo(32) con le popolazioni di lingua tedesca
incontrate durante la marcia verso ovest dai
gruppi slavofoni, rimanendo esclusi dal processo
di germanizzazione di questa regione in quanto il
loro territorio mal si prestava alla colonizzazione
tedesca.
I dialetti sorabi, o sorbi, costituiscono nel loro
insieme una lingua ben differenziata nell’ambito
degli idiomi di ceppo slavo, caratterizzata da tratti fonetici arcaici rispetto al polacco e al ceco moderni che sono le lingue geograficamente e culturalmente più vicine.
La frammentazione dialettale e geografica consente di riconoscere all’interno dei serbski due
principali sottogruppi, che hanno sviluppato
standard letterari differenziati: il basso sorabo,
diffuso nella valle della Sprea e nei distretti di Calau, Cottbus, Forst, Guben, Luebben, Rothenburg
e Spremberg, nel Brandeburgo, e l’alto sorabo,
parlato nelle zone di Bautzen, Kamenz, Hoyerswerda, Löbau, Niesky e Weisswasser in Sassonia(33).
I Sorabi non diedero mai vita a un proprio Stato indipendente, restando di volta in volta sotto
l’amministrazione polacca, boema o tedesca: nel
1815, con il Congresso di Vienna, il loro territorio
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Aree di diffusione del frisone (frysk)
fu diviso fra Sassonia e Prussia ed entrò poi a far
parte dell’Impero tedesco. Tuttavia, malgrado la
loro tormentata storia sono però riusciti a mantenere tradizioni autonome.
Con l’Ottocento, una parte della popolazione
soraba, tradizionalmente dedita all’agricoltura,
iniziò a trasferirsi nei centri industriali della regione, favorendo il sorgere di una borghesia colta
e di un ceto intellettuale che, attratta dal panslavismo e influenzato dal romanticismo tedesco,
diede vita alle prime associazioni culturali interessate alla rivitalizzazione della lingua soraba.
Nel 1816 sorsero così la Serbske Predarske Towarstvo, fondata a Lipsia, e la Mać ica Serbska, a
carattere più apertamente nazionalista.
Durante il Cancellierato di Bismarck, a fronte
della progressiva industrializzazione della loro regione, i Sorabi dovettero affrontare numerosi
tentativi di assimilazione forzata condotti nell’ambito della Kulturkampf. In reazione a questi
movimenti vessatori, il movimento culturale so(31) Ricordiamo che, nel 1952, l’ex Repubblica Democratica
Tedesca soppresse e smembrò i Land in 14 Distretti amministrativi. Circa la distribuzione dei Sorabi sul territorio tedesco cfr. L. BREGANTINI, op. cit., 57.
(32) Si trova traccia per la prima volta dell’esistenza dei Sorabi in documenti risalenti al 631 quando, nel corso della migrazione dei popoli, stirpi slave colonizzarono il territorio ad
oriente dei fiumi Elba e Saale. Tuttavia solamente nel XVI
secolo, sotto l’influenza della Riforma protestante, nacque
una lingua soraba scritta.
(33) Cfr. ib., op. cit., 57.
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rabo si diede allora una
orientale nei confronti del
struttura più compatta che
gruppo sorabo poteva riteportò nel 1904 alla fondanersi del tutto inesistente.
zione della Serbski Dom,
L’intervenuta unificazione
cioè la prima biblioteca sotedesca del 1990 non ha
raba, destinata a diventare
avuto conseguenze signifiil simbolo della lingua e
cative per lo status della
dell’identità della minoranlingua e della cultura soraza; nel 1912 avvenne la fuba, che continua a godere
sione di tutte le principali
formalmente dello stesso
organizzazioni politico-culriconoscimento e tutela
turali in un unico movipreviste ai tempi del regimento chiamato Domowime comunista.
na (Patria).
Tuttavia, a difesa della miAlla fine della prima
noranza dei Sorabi è sucguerra mondiale, con l’apcessivamente intervenuto
poggio dei Cechi, i Sorabi
l’art. 25 della Costituzione
rivendicarono invano dadel Brandeburgo, approvavanti alle grandi potenze il
ta nel 1992, che garantisce
riconoscimento internazioil diritto alla popolazione
nale e l’indipendenza del L’eroe nazionale frisone, Re Redbad
soraba alla tutela, il manteloro Paese. Dal canto suo il
nimento e la cura della sua
neonato governo della Repubblica di Weimar si li- identità nazionale e della sua collocazione territomitò a delle generiche concessioni in campo cul- riale tradizionale. Land, Comuni e associazioni di
turale ed educativo.
Comuni assicurano lo sviluppo di questo diritto,
Con l’ascesa al potere del nazismo, il processo con particolare riferimento all’identità culturale e
di germanizzazione fu accelerato e conobbe an- a un’effettiva partecipazione politica della popolache forme brutali di repressione delle istituzioni zione soraba.
culturali lusaziane con l’arresto di molti intelletIl principale problema della minoranza è però
tuali e attivisti, anche se non si giunse mai a una quello della crisi demografica al suo interno, e
deportazione in massa della popolazione soraba.
dell’attrazione che la cultura e la lingua tedesca
Al termine della seconda guerra mondiale, la esercitano soprattutto sulle giovani generazioni.
Lusazia venne occupata prima da truppe polacche
Attualmente i Sorabi sono ridotti a circa 60 mie poi da quelle russe, e le amministrazioni milita- la persone,(34) pari allo 0,1% dell’intera popolazione di Germania – ma nel 1868 erano più del
ri permisero la ricostituzione della Domowina
^
che ha tuttora la sua sede a Bautzen/Budysin, fa- doppio e al censimento del 1955 circa 80 mila, di
vorendo anzi, in funzione antitedesca, i progetti cui 70 mila parlanti la lingua – insediati soprattutto nelle zone rurali di una regione storicamenpolitici favorevoli all’indipendenza.
Tuttavia, nel 1949, con la creazione della Re- te a maggioranza tedesca(35) a cui si aggiunse il
pubblica Democratica Tedesca che entrò nell’or- fatto che il governo dell’ex DDR aveva oltre a tutbita sovietica, le aspirazioni di indipendenza non to favorito lo stanziamento di migliaia di profuvennero accolte perdendo il sostegno di tutti i ghi tedeschi provenienti dai territori annessi alla
paesi slavi. Tuttavia, il regime comunista garantì Polonia dopo la seconda guerra mondiale, ragion
almeno apparentemente ai Sorabi forme signifi- per cui non appare così irreale il rischio che i Socative di riconoscimento della loro specificità lin- rabi, in un futuro più o meno prossimo, possano
guistica e culturale: nel 1950 il sorabo fu ammes- essere destinati a scomparire come gruppo linso negli usi scolastici, vennero create cattedre di guistico autonomo.
lingua e letteratura nei principali atenei della regione (Cottbus e Lipsia), e alla minoranza in questione fu garantita un’adeguata rappresentanza in (34) Cfr. ib., op. cit., 109, nonché CONSEIL D’EUROPE, op. cit.,
e MINISTERO DELL’INTERNO, op. cit., 80.
seno agli organismi regionali e nazionali. Inoltre, 20
(35) Si ricorda comunque che circa 4 mila Sorabi o Vendi soa partire dal 1969, il sorabo fu dichiarato seconda no stanziati in Austria nel Land della Carinzia, cfr. ib., op.
lingua ufficiale nella regione di Cottbus anche se, cit., 32, 49, 85, nonché C. MOSELEY, R.E. ASHELEY, Atlas of
di fatto, la tutela posta in essere dall’ex Germania the world’s languages, London, 1991, 249
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Il Trophée des Alpes:
un antico segno di oppressione
di Gilberto Oneto
C
hi viaggia sull’autostrada
francese verso Nizza non
può non notare, a La
Turbie, una imponente struttura marmorea sulla collina
proprio sopra Monaco, nota
come il Trophées des Alpes,
il “Trofeo delle Alpi”.
Si tratta di quello che resta
del monumento eretto fra il
6 e il 7 avanti Cristo per celebrare la fine delle guerre intraprese da Augusto fra il 25
e il 14 a.C. per sottomettere
tutte le popolazioni alpine.
La forma era di una imponente torre circolare eretta
su un basamento quadrato,
circondata da un colonnato e
sovrastata da una statua dell’imperatore. L’insieme monumentale, costruito in blocchi di calcare ricoperti di
marmo di Carrara, aveva una
altezza complessiva di più di
50 metri, che lo rendeva
(con il suo biancore accecante) visibile e imponente per
un lungo tratto di costa. Sorgeva a lato della via Julia Augusta (proseguimento dell’Aurelia) che solo qualche
anno prima (13-12 a.C.) era
stata completamente pavimentata e dotata di un sistema di pietre miliari dedicate
ad Augusto. L’intento di costituire un primario caposaldo paesaggistico e di
simboleggiare il completo dominio di Roma anche sugli elementi naturali e sulla morfologia
delle terre sottomesse era piuttosto evidente, come era sottolineato il richiamo simbolico della
sua collocazione, nel punto in cui le Alpi inconAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Il Trophée des Alpes
trano il mare, quasi a sottolineare la vittoria del
mondo mediterraneo su quello montano.
I trofei di questo tipo erano normalmente dedicati a divinità della vittoria: il Trofeo di Augusto sorgeva nell’ambito di un’area sacra devoluta
a Heracles Monoikos, Ercole, eroe civilizzatore e
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Ricostruzione dell’iscrizione sulla base del testo pliniano
costruttore di strade attraverso le montagne, il
cui destino era simbolicamente assimilato a
quello dell’imperatore. Augusto era così divinizzato con il pretesto della sottomissione dei barbari.
L’imponenza dell’opera e della dedicazione era
del tutto proporzionata alla fatica che Roma aveva dovuto fare per sottomettere i popoli alpini. A
questo proposito serve fare alcune considerazioni di carattere generale: erano passati tre secoli
– una enormità – dal primo affacciarsi romano
sulla valle padana e quindi sulla Gallia Cisalpina,
nel lontano 295 a.C., con la battaglia del Sentino. Questo testimonia della durezza e della costanza con cui i nostri popoli avevano saputo re-
sistere. Prima di poter celebrare la sottomissione dei popoli alpini, Roma aveva da tempo conquistato l’intero bacino mediterraneo, ma anche
la Gallia e la Britannia. Non basta: la celebrata
occupazione militare non sempre significava
reale conquista. In realtà infatti almeno lo stato
dei Cozii conserverà una sua formale indipendenza fino al 64 d.C. e per la creazione della
Provincia Poenina (comprendente l’alta Ossola,
il Vallese e altre valli) si dovrà attendere fino al
100 d.C. In ogni caso sembra azzardato parlare
di reale “pacificazione” di tutte le vallate alpine:
le rivolte resteranno endemiche e il passaggio
dei valichi sempre piuttosto difficoltoso.
Si può in qualche modo perciò affermare che
Ricostruzione del testo attuale
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la costruzione del Trofeo sia stata forse un po’
affrettata, dettata più da
preoccupazioni propagandistiche (di minaccia
per i nemici e di rassicurazione per gli amici)
che da una vera consapevolezza di “scampato
pericolo”: una sorta di
elemento di esorcizzazione, un grosso segno
apotropaico.
Del monumento alla
vittoria aveva però tutti
i caratteri architettonici
ed estetici, che derivavano dall’antica abitudine
di erigere cumuli di armi nemiche catturate:
anche a La Turbie sono
scolpite nel marmo panoplie di armi sottratte
ai nemici vinti. C’è poi
l’iscrizione che glorifica la dedica all’imperatore,
le sue vittorie e che riporta il lungo elenco dei
popoli sottomessi. L’iscrizione era stata riportata
da numerosi contemporanei, fra cui Plinio.
Nella parete in marmo del fronte principale è
inciso: “All’imperatore
Cesare Augusto, figlio
del Divino Giulio, Pontefice Massimo, acclamato imperatore per la
quattordicesima volta, e
rivestito della diciassettesima potenza tribunizia. Il Senato e il popolo
romano, perché sotto la
sua condotta e i suoi auspici, tutti i popoli alpini
che si trovavano fra il
mare Superiore (l’Adriatico) e il mare Inferiore
(il Tirreno) sono stati
sottomessi al potere del
Popolo Romano. Popoli
alpini vinti:
Trumpilini (Val Trompia); Camunni (Val Camonica); Venonnetes, Venostes, Isarci, Breuni,
Genaunes e Focunates
(Alpi tirolesi); VindelicoAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Il frontone oggi
rum gentes quattuor: Cosuanetes, Rucinates, Licates e Catenates (Lago di Costanza); Ambisontes
(Alpi bavaresi); Rugusci, Suanetes, Calucones e
Brixenetes (Alpi bavaresi); Leponti (Val d’Ossola);
Uberi, Nantuates, Seduni e Varagri (Vallese); SaI popoli alpini sottomessi da Augusto
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Ricostruzione della panoplia sul fronte principale
lassi (Val d’Aosta); Acitavones (?); Medulli e Ucenni (Bassa Savoia); Caturiges (Chorges, Delfinato);
Brigiani (Briançon, Delfinato); Sogionti (Sisteron, Delfinato); Brodionti (Digne, Delfinato); Nemaloni ed Edenates (?); Vesubiani (La Vésubie,
Alpi Marittime); Veamini, Gallitae e Triullati (?);
Ecdini (Tinée, Alpi Marittime): Vergunni (Vergons, colle di Tout-Aures, Alpi Marittime); Egui e
Turi (Borgo San Dalmazzo, Cuneese); Nematuri
(Liguria occidentale); Oratelli (Alpi Marittime?);
Nerusi (Vence, Alpi Marittime); Velauni (Briançonnet, Alpi Marittime); Suetri (Castellane, Alpi
Marittime).”
I popoli sono riportati nella dicitura originaria e di ognuno di essi viene qui fornita la collocazione geografica verificata o fortemente presunta. Un punto interrogativo contraddistingue
le tribù per le quali non esiste alcuna ipotesi attendibile di collocazione sul territorio. Questo
potrebbe essere il possibile risultato di un cambiamento di denominazione, dell’inesistenza di
documentazione per le comunità più minuscole
ma anche l’esito di una - purtroppo piuttosto
comune – azione di “pulizia etnica” con il conseguente sterminio di un popolo o di una sua
massiccia deportazione.
È anche piuttosto sintomatico che siano stati
tralasciati numerosi altri popoli (Segouii, Segusini, Belaci, Tebauii, Sauincates, Venisami, Ie-
Ricostruzione del Trofeo originario secondo Jean Camille Formigé, 1920
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merii, eccetera) che sono invece citati su analoghe dediche alle vittorie augustee sull’Arco di
Susa, sul mausoleo di Escoyères (nel Queyras) e
in altri siti.
Con la caduta del dominio romano, il Trofeo
ha subito devastazioni (forse anche cariche di significati politici) e riutilizzi di vario genere. Nel
medio evo è stato prima abitato e poi trasformato – in virtù della sua collocazione strategica –
in fortificazione. All’ultimo utilizzo militare ha
posto fine una disposizione di Luigi XIV nel
1705. Per secoli le rovine sono state utilizzate
come cava di materiale edile: le parti superstiti
dell’iscrizione sono state ritrovate nei muri di
numerosi edifici del vicino villaggio e proprio da
queste si è potuto ripartire quando si è intrapresa l’opera di restauro. Il primo intervento di
consolidamento del basamento – che minacciava di sbriciolarsi causando il crollo anche dell’ultimo mozzicone di torre – è stato effettuato
fra il 1857 e il 1859 dal governo sardo cui la
Contea di Nizza apparteneva da secoli. Con il
passaggio alla Francia, la rovina è stata classificata nel 1865 monumento storico di interesse
nazionale. Fra il 1905 e il 1909 si hanno i primi
scavi archeologici sistematici, e fra il 1913 e il
1915 si ha una prima parziale ricostruzione di
alcune colonne con l’utilizzo dei resti ritrovati.
È a partire dal 1927 che si raccolgono con sisteAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
“Turbia, Rivière de Gênes ”, litografia, 1938
Stato del monumento nel 1905
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Attuale veduta su Monte Carlo dal monumento
Il monumento oggi
maticità tutti i frammenti del Trofeo presenti in
vari musei o riutilizzati
in altri edifici e, per opera principalmente di Jules Formigé (architetto
capo dei Monuments Historiques dal 1920 al
1949, finanziato dal mecenate americano Edward Tuck), viene parzialmente ricostruito il
monumento con una
alacre opera di anastilosi,
qualche volta anche un
po’ fantasiosa. Così, non
senza un po’ di imbarazzo, si inaugura il risorto
monumento nel 1934
nella veste che si può vedere oggi. Il
romantico e pittoresco rudere sopravissuto al tempo è stato trasformato
in un pezzo di quello che si ipotizza
potesse essere il monumento originario, con la ricostruzione completa
della parete con l’iscrizione dedicatoria (nella quale sono stati inseriti i
pezzi autentici ritrovati) e di una parte del colonnato circolare. Naturalmente si tratta di una ricostruzione
largamente opinabile (infatti esistono
numerose versioni di possibili diverse
ricostruzioni) che è però ormai entrata nell’immaginario collettivo.
Oggi il monumento è aperto al pubblico e dai suoi camminamenti si può
godere di un’ampia visuale sul sottostante panorama (modello Manhattan) di Monaco e Monte Carlo. La ricostruzione, che è quasi certamente
stata ispirata dalla volontà di riproporre un segno di grandezza imperiale, in realtà serve a ricordare una antica oppressione.
Bibliografia
❐ AA.VV. “ Le Trophée des Alpes ”. In
Nice Historique, n. 2, 2005
❐ Formigé, Jules. “Le Trophée des
Alpes (La Turbie)”. In Gallia, n. 2,
1949
❐ Lamboglia, Nino. “Il Trofeo di Augusto alla Turbia”. In Itinerari Liguri,
n. 4, 1938
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I Celti nel Veneto occidentale
Fitte comunità di agricoltori-guerrieri
Cenomani nel veronese
di Leone Chesini
U
no dei dati più interessanti emersi dalle recenti ricerche è l’attribuzione ai Cenomani
del territorio veronese. La documentazione
archeologica, che è riferibile quasi esclusivamente a necropoli, tranne alcuni ritrovamenti
sparsi e a un importante tesoretto di monete
celtiche da Nogarole Rocca, documenta un’occupazione graduale del territorio da parte di popolazioni celtiche a partire dal V-IV secolo a.C.
fino alla fase della romanizzazione (II-I secolo
a.C.). Quest’ultima non dovette essere molto
gradita da questi “alleati” di Roma, dato che sono proprio di questo periodo le iscrizioni in alfabeto leponzio (e non latino) rinvenute nel Veronese e nell’alto Mantovano e che sono state interpretate dagli studiosi come un fenomeno di
Abstand e cioè di resistenza linguistica
La maggiore concentrazione di insediamenti
si trovava nella media pianura con una fitta rete
di abitati tra gli attuali centri di Povegliano
(Poiàn), Vigasio (Vigasi), Santa Maria di Zevio
(Santa Maria) e Isola Rizza (La Rissa), quasi
tutti toponimi celtici, a poca distanza dalla città
di Verona su di una linea che copre tutta la fascia a sud delle città dal Mincio (Menso) all’Adige (Adese).
Le direttrici dalle quali è giunta nel Veronese
questa celtizzazione così massiccia sono principalmente due: da ovest, lungo l’antica Via gallica che proveniva dalla valle del Rodano, nella
Gallia transalpina, e che transitava per Torino e
quindi per Milano, collegandosi con le direttrici
che scendono dai laghi lombardi e dal Canton
Ticino, e che raggiungeva Verona dopo essersi
incrociata con l’altra fondamentale via di penetrazione da nord, la val d’Adige. Questa importante via, che scende dal passo del Brennero, attraversava il territorio dei Reti che, pur mantenendo la propria caratteristica fisionomia culturale sono investiti dal VI secolo a.C. da espresAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
sioni di celtismo, come accade in Veneto. Nel III secolo a.C. si verifica però il progressivo appiattimento della cultura retica, in coincidenza
con l’affermarsi della koiné gallo-romana e deve
essere riferita proprio a questo periodo la notizia
di “Trento città dei Galli”, tramandata da Pompeo Trogo, storico di epoca augusta, compendiato da Giustino e anche dal geografo Tolomeo nel
II secolo d.C. (se lo dicono loro!). Ma la val d’Adige fu probabilmente la via che portò anche al-
Lama di spada, da San Lorenzo di SebatoLothen
tri Celti in Padania, basti pensare ai Boi che abitavano la regione di Bologna (Bulagna-Bulandalanda dei Boi), che erano originari della Boemia
o della Baviera e che quindi devono aver passato
le Alpi al Brennero e discesa la val d’Adige e, trovati i Cenomani in tutto il territorio a nord del
Po, passarono il grande fiume e si stabilirono in
Cispadania e sull’Appennino padano ricacciando
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Lama di spada, da Ciringhelli di Vigasio
oltre lo spartiacque quei pochi Etruschi che lo
avevano varcato. Così hanno creato quel confine
linguistico che è tutt’oggi il più importante all’interno del mondo cosiddetto neolatino, che si
chiama “Linea gotica”, ma che sarebbe più giusto chiamare “Linea celtica” dato che separa le
lingue Gallo-romanze da quelle Romanze meridionali.
Nel Veronese la ricerca archeologica non è finora riuscita a individuare le aree abitative che
erano sicuramente in prossimità delle necropoli,
forse a causa di profondi interventi agrari o perché le case erano costruite in legno. Sicuramente è questo un campo che merita ulteriori indagini anche se il ritrovamento di numerose necropoli con tombe dai corredi cospicui ci fornisce un quadro completo e ben documentato dell’età celtica di questa parte della Gallia cisalpina,
vergognosamente tenuto nascosto dalla “cultu26 - Quaderni Padani
ra” ufficiale romanofila e dallo Stato italiano
centralista che diffondono solo retorica classicheggiante a scapito della sacrosanta celticità di
queste terre. In Francia, tutti sono fieri dei loro
antenati Gaulois e i Tedeschi, pur essendo più
propriamente germanici o gallo-germanici, sono
orgogliosi che la parte centro-sud del loro paese
fosse parte della grande Gallia, per non parlare
delle isole britanniche: tantiPadani sembrano
invece provare subalternità nei confronti della
Magna Grecia, tanto cara ai loro detrattori.
Nel paese dei Cenomani, dal Veronese al Mantovano e Bresciano, la pratica funebre è quella
del biritualismo con l’inumazione per le donne e
i bambini, e l’incinerazione riservata ai guerrieri. Un eccezionale rinvenimento, nel 1998, presso una necropoli di 181 tombe celtiche del II-I
secolo a.C., in località Lazisetta, (l’Adeseta) di
Santa Maria di Zevio, presso il corso dell’Adige,
ha riportato alla luce una tomba a carro. Il guerriero qui sepolto è stato prima bruciato su di
una pira insieme a offerte di tranci di carne di
maiale, e poi le ceneri e le ossa incombuste (raccolte in un panno e mischiate con monete e oggetti d’ornamento) sono state deposte nella fossa assieme ad armi, attrezzi agricoli, strumenti e
al vasellame usato per il banchetto funebre. Il
tutto è stato coperto da un carro da guerra rovesciato, con le quattro ruote smontate, una sola
delle quali è però stata deposta nella fossa con il
cerchione ritualmente piegato.
Nelle necropoli di Lazisetta, Mirandola e Fenil
Novo, distanti poche centinaia di metri una dall’altra, ci sono numerose tombe con presenza di
armi ancora nel II e I secolo a.C., a prova della
radicata presenza della casta guerriera in una
società da tempo “riappacificata”: evidentemente
i “nostri” non si erano ancora assoggettati all’invasione romana della terra che ormai non era
più la loro. Le spade, di impressionanti dimensioni (che si possono ammirare al Museo civico
di storia naturale di Verona), sono piegate e ritorte ritualmente per rimarcare la fine del loro
uso e simboleggiare così, secondo credenze magico-religiose, la loro inutilità nella vita ultraterrena. Numerose sono quelle decorate con triskel, intrecci, dragoni che si fronteggiano con le
fauci spalancate, figure antropomorfe formate
da bizzarri motivi curvilinei. Vi compare anche
il “signore degli animali”, l’arcaico dio Kernunnos, dalle sembianze zoo-antropomorfe, con
enormi corna. Il significato delle decorazioni va
al di là del puro fatto esornativo e si lega certamente a funzioni di carattere apotropaico, ma
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anche a credenze di ordine magico-religioso. Un
recente studio di M. Szabo sull’armamento decorato giunge alla conclusione che il significato
della ornamentazione dei foderi sia fondato su
un sistema religioso che vuole esprimere la presenza della divinità cosi fortemente sentita dai
guerrieri celti. La presenza di una figurazione
“antropomorfa” con attributi fantastici (le corna
o i serpenti, ad esempio) è palese ed esplicita nei
foderi di Ciringhelli di Vigasio, mentre in altri
casi motivi di origine vegetale, animale e antropomorfi fusi insieme, rendono quasi incomprensibile il tema figurato. La diffusione su scala europea di questi motivi decorativi mostra l’esistenza di legami profondi fra la cultura celtica
cisalpina e quella transalpina.
Particolare attenzione merita la monetazione
celtica nel Veronese in quanto risale al IV secolo
a.C. e rappresenta la più antica emissione monetale del nostro territorio. I Celti sono così stati i
primi in assoluto a coniare delle monete nel Veronese, in Padania e nell’Europa centrale, a segno di una civiltà avanzata, ben due secoli prima
della romanizzazione.
Eccezionale è il ritrovamento di un vero e
proprio tesoretto di 310 monete nei pressi della
rocca di Nogarole, in una zona attraversata dal
fiume Tione (Tiòn) che ha restituito numerose
testimonianze dell’Età del ferro. Di queste monete, che sono state coniate in un lungo arco di
tempo che va dal IV al III secolo a.C., 18 sono
del tipo Arslan V-VI con leone naturalistico, di
provenienza probabilmente insubre, mentre tutte le altre sono del tipo Arslan VII-VIII con leone-scorpione, coniate in area boico-cenomane.
Per quanto riguarda il secolo successivo, il Veronese è letteralmente disseminato di monete
celtiche che sono state rinvenute soprattutto
nelle ricche e numerose necropoli della fascia
tra alta e media pianura, in località dai nomi
squisitamente celtici come Lazisetta, Mirandola,
Casalandri, Ortaia, Le Buse, Crocetta (Crosèta),
Bertolaso, Cassinate, e Ciringhelli (Serenghèi),
dalla radice celtica “Ser” o ”Cer” (altura) e
“Ghei” (Galli-Ghelti), “altura dei celti”. Numerose sono le attestazioni anche nel territorio pedicollinare di Montorio, Casterna e San Giorgio di
Valpolicella. L’ultimo è un borgo arroccato su di
una collina dai fianchi scoscesi, dominante una
vasta parte di pianura che spazia da Verona al
Lago di Garda e oltre, anticamente chiamato
Ganda (toponimo diffuso nelle Alpi di probabile
origine celtica o forse retica che indicava un
luogo dov’erano cave di pietra), che sopravvive
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
nel nome popolare del paese di San Giorgio inganna poltròn: evidentemente quel “in-gana”
ha ingannato molti e non solo quei “poltroni”
che salendo a piedi verso il paese lo vedevano
sempre lì a due passi, ma non ci arrivavano mai.
Qui, dove ora sorge la chiesa costruita durante
il regno del re longobardo Liutprando e nella
quale si possono ammirare decine di Soli delle
alpi e ruote solari, bizzarri animali e simboli pagani, esistevano un precedente tempio e un
adiacente laboratorio metallurgico del V secolo
a.C. La celticità di questa zona è provata anche
dalle are di età romana dedicate alle varie divinità degli Arusnati, il popolo autoctono della
Fodero di spada, da Ciringhelli di Vigasio
Valpolicella, la cui origine celtica è dimostrata
dalla desinenza in “ati”. Questi adoravano Lualda (Lugus?), Ihamnagalla, Sequanagalla, le Ninfe Auguste e le Anguane (fate dei boschi e delle
sorgenti). Nella Lessinia (montagna veronese)
sorgevano nella seconda Età del ferro due importanti abitati d’altura (castellieri), Castel Sottosengia e Monte Loffa, a pochi chilometri uno
dall’altro, in prossimità di vie di comunicazione
come la val d’Adige e la pedemontana est-ovest.
In questi siti sono stati rinvenuti reperti tipicamente celtici come fibule Hallstattiane e LaTèniane, gioielli e oggetti d’ornamento decorati
con pasta vitrea, fusarole, coltellacci e attrezzi
agricoli, oltre che numerose monete. In questa
fase il tipo più documentato (16 esemplari) è
quello con leggenda in caratteri nord-etruschi
Toutiopouos, databile alla metà del II secolo
a.C., coniato probabilmente a Milano dagli InsuQuaderni Padani - 27
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bri. Segue il tipo con leggenda Massa e leonescorpione (11 esemplari) coniato probabilmente
dai Cenomani. É attestato anche il tipo con leone-lupo coniato in area lombardo occidentalepiemontese, oltre che i tipi Pirakos e Rikoi, forse gli ultimi emessi dai Celti padani prima di
soccombere alla “civiltà” romana. Dal castelliere
del Monte Loffa sono emersi evidenti segni di distruzione dell’abitato che fu incendiato e raso al
suolo alla fine del II secolo a.C.
Molto importanti sono le iscrizioni in alfabeto
leponzio che sono venute alla luce negli ultimi
due decenni nel Veronese e nell’alto Mantovano,
in quanto si tratta delle iscrizioni in tale alfabeto, più orientali mai rinvenute, che si inseriscono nel quadro della celticità linguistica della Pa-
I Celti: 1. Valeggio, 2. Povegliano, 3. Vigasio,
4. Santa Maria di Zevio, 5. Isola Rizza
dania e non solo. Ma il dato più significativo è il
fatto che sono state redatte in alfabeto leponzio
e non latino ancora nel II e soprattutto nel I secolo a.C., in fase di avanzata romanizzazione.
Questo dato è dunque un chiaro segno di una
volontà di connotazione anti romana, effettuata
tramite l’alfabeto leponzio inteso come “alfabeto
nazionale celtico-padano”, quello che in termini
socio-linguistici si definirebbe un fenomeno di
28 - Quaderni Padani
Abstand e cioè l’espressione della volontà di
prendere le distanze da un “altro” (i Romani in
questo caso) verso il quale esistono motivi politici e culturali di opposizione. Questo sbugiarderebbe le “fonti” latine che parlano dei Cenomani
come fedelissimi alleati di Roma. I testi provengono principalmente da tre località: Valeggio sul
Mincio, Santa Maria di Zevio e Isola Rizza (Casalandri), queste due ultime sorgono lungo il
corso dell’Adige, già individuato come direttrice
di penetrazione celtica nel Veronese. Dalla necropoli di Valeggio sul Mincio, fra le varie iscrizioni datate al I secolo a.C., si segnala una sigla
di un nome proprio Ver, sigla che dovrebbe essere connessa con ver, prefisso di uper come in
nomi tipo Vercingetorix. Questa radice, molto
diffusa nel mondo celtico e che significherebbe
“elevato”-“superiore”, potrebbe essere alla base
del nome di Verona nel senso del composto Vernemeton o Ver-dunum, “fortezza elevata”. Il primo nucleo protostorico di Verona è infatti sorto
sul monte delle Torricelle (Le Toresele), nel
punto in cui l’Adige “scava” proprio sotto al
monte, disegnando quell’ansa nella quale verrà
poi costruita la Verona di età romana, un insediamento facilmente difendibile oltre che utile
per l’avvistamento e il controllo della navigazione sull’Adige e della strada pedemontana (via
gallica).
Dalla necropoli di Santa Maria di Zevio sono
emerse due iscrizioni: Uiro, che trova confronti
in ambito celtico ed è frequente nell’onomastica
gallica in composizione e non; e Ateporix, forma
onomastica squisitamente celtica. Dalla zona di
Fenil Novo viene l’iscrizione kulopout, interpretabile come un composto con confronti con il
gallico Andocoulo per il primo elemento e con
boud “vittoria” per il secondo (boud, peraltro, è
una fra le formanti più frequenti nell’onomastica celtica continentale: l’esempio più famoso è
Boudicca, la Giovanna d’Arco dei Celti britanni).
Infine da Casalandri di Isola Rizza è da segnalare l’iscrizione a testo kos’io: la forma rimanda
verosimilmente alla base ghosti, già identificata
in kozis dell’iscrizione di Prestino e in xosio di
quella di Castelletto Ticino. Si tratta di un dato
importante per il disegno della celticità continentale ma anche per quello della celticità tout
court in quanto conferma la presenza nel celtico
della forma *ghosti (cfr. gotico gasts, antico
nordico gestr, latino hostis, anglosassone e antico alto tedesco gast, eccetera) che, prima di
queste attestazioni, era considerata assente dal
dominio linguistico celtico. D’altra parte questa
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parola non poteva mancare nel
gran numero di parole del Veroceltico in quanto è presente nelle
nese sono di origine celtica coaltre lingue euriane, delle quali i
me: braghe (da “bracae”), camiCelti erano, nel I millennio a.C. i
sa (da “camisia”), còtola (Gaelico
più forti portatori, dalle loro sedi
“kilt”), tabàr (da “labarum”), tanell’Europa circumalpina. Ma, a
miso (Francese “tamis”), visinél
parte queste iscrizioni di 22 secoli
(vortice), trosa (fetta, Bretone
fa, la lingua padana è a tutt’oggi
“troha”), trucàr, (tagliare, Gaelisostanzialmente di matrice celtico “truk”), sgrisoloni (brividi,
ca anche se ha subito una forte
Bretone “skrij”), roso (stormo,
influenza latina e germanica. I
Irlandese “ros”), rumàr (cercare
linguisti infatti classificano le vaaffannosamente, Celtico armoririe parlate padane (Piemontese,
cano “rum”), mota (mucchio,
Lombardo occidentale e orientale,
Francese “mede”), ligaòr (ramarLigure, Emiliano e Romagnolo,
ro, Gaelico “luachair”), guindol
Veneto e Friulano) come facenti
(vortice, Bretone “gwent”), gruparte di un’unica koinè padana (il
gno (ammasso, Irlandese “grun“Gallo-romanzo cisalpino”). In Fodero di spada, da Santa non”), sgrèbani (luoghi sassosi,
questo quadro linguistico, il Vero- Maria di Zevio, località Gaelico “gri”), gueiàr (punzecnese rappresenta il Veneto occi- Mirandola, tomba 131
chiare, Cornovagliese “geu”),
dentale pur mancando dei tratti
gerla (cesta da portare sulle spalpiù caratteristici del Veneto come
le), frasa (neve gelata, Irlandese
la l evanescente; c’è l’è al posto
“fras”), ciuca (sbornia), brol
del xè per il verbo essere, lu inve(frutteto), caréga (Inglese “chace di elo per la terza persona sinir”), sisòra (Inglese “sisors”),
golare e la caduta della maggior
brigàr (dal Celtico “brigos”, forparte delle vocali finali, (esempio:
za), brancolo (Inglese “branch”),
veneto palo, veronese pal, veneto
butél (ragazzo, Celtico “bid”), bocuciaro, veronese cuciar ecceteria (Gaelico “borr”), barchessa
ra). Queste differenze sono sicu(portico, Celtico “barga”), arente
ramente da attribuire allo stan(vicino, Celtico “are”), solo per
ziamento più massiccio dei Celti
citarne alcune.
cenomani nel Veronese che nel
Passando alla toponomastica, ci
resto del Veneto, pur avendo l’isi rende conto ancora di più di
dioma veneto la stragrande magquale sia stata la portata del pogioranza delle caratteristiche linpolamento celtico nel Veronese.
guistiche che lo fanno apparteneAnalogamente al resto della Pare alla grande famiglia delle lindania infatti, circa l’80% dei togue celto-romanze europee, che
ponimi sono di origine celtica,
sono: la costruzione delle frasi,
con percentuali “bulgare” sopratl’uso dei tempi, la “localizzazione” Fodero di spada, da Santa tutto fra i microtoponimi della
dei verbi e le forme di negazione Maria di Zevio, località fascia prealpina.
(come nelle lingue anglosassoni). Mirandola, tomba 131. Il suffisso più caratteristico della
Un esempio di postposizione della Interpretazione del viso toponomastica celtica è quello in
negazione: veronese “Ghe vetu umano con utilizzo di ele- “ago”, “aga”, “igo”, “iga” (nel Vemiga?”, tedesco “Gehst Du ni- menti vegetali.
ronese spesso “ega”), “ico” e
cht?”. Altre caratteristiche celti“ica”. Esempio: Gargagnago, deriche sono: i fenomeni palatali, l’assenza dei dit- vante dal celtico “Karn” (pietra), “Gand” (cava) e
tonghi, le vocali “celtiche” ü e ö, purtroppo “ago” (campo, Latino “ager”, Tedesco “lager”. Il
scomparse nel Veronese dal 1700, ma ancora paese si trova infatti ai piedi della collina di San
ravvisabili nelle parole dette con particolare en- Giorgio, anticamente chiamato Ganda per le sue
fasi, la caduta delle vocali finali e l’assenza delle cave ed era il posto dove veniva trasportata e venconsonanti doppie.
duta la pietra (lastame calcareo) nella pianura.
Oltre a questi elementi sintattici e fonetici, un
Della stessa etimologia è il famoso sito megaAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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Vasellame bronzeo della tomba 7. Santa Maria di Zenio, necropoli di Lazisetta
litico francese di Carnach, ma sono migliaia i toponimi di questo tipo nell’Europa centrale “celtica”. Altri toponimi analoghi rintracciabili nel
veronese sono: Alcenago, Vago, Legnago, Verago, Jago, Mondrago, Tregnago, Canzago, Maregnago, Azzago, Lumiago, Marega, Gnirega, Mazzurega (Masuréga), Vignega, Poiega, Dosdega,
Miega, Marniga, Marciaga, Ossenigo, Pradònego,
Senaga, Braga, Valdòneghe, Maroiaga, Marcenigo, Maternigo, Lonico, Vigo, Brognoligo, oltre
che l’antico nome del Lago di Garda “Benacus”
(Irlandese “benach”, cornuto).
Sono di origine celtica anche i toponimi con
finale in “lano”, “ano”, “on”, come: Lugagnano,
Lughezzano(dal dio celtico “Lug-Lugus”, come
Lugano e Lione, Lugdunum), Azzano, Magnano,
Povegliano, Cercomano, Caranzan, Oppeano,
Canton, Anson, Armaron, Orgnano, Quinzano,
Meggiano, Trezzolano, Cuzzano, Arbizzano, Cattignano, Scorgnano, Grezzana, Marzana: ma la
lista di questi toponimi è interminabile. Celtico
è anche il nome dell’Adige, da “Ad” (antico) e
“Vis” (fiume).
Da “briga” (collina, Bretone “bre”, Tedesco
“Berg”) derivano: Breonio, Brentino, Brenzone,
Brentane, Brenton, Brancon, Braga, Brancaglia,
che sono della stessa etimologia di Bregenz,
(Austria), Briançon, (Francia), Bressanone, (Brixen), Brescia, Brianza e molti altri. Sicuramente
celtici sono i toponimi con finale in “ara-are”
30 - Quaderni Padani
come: Domegliara, (Domjara), dal celtico “DunDunum” (fortezza) e “are”, (vicino). Nei pressi si
trova infatti il “Mont Indon”, il quale per la sua
posizione e morfologia, potrebbe avere avuto
una fortezza o un tempio celtico sulla sua sommità.
Importante è infine il microtoponimo “Campi
Renghi” di una spianata allo sbocco della Val
d’Adige in quanto, oltre a essere indubbiamente
di origine celtica (da “ronch”, collina), l’autore è
convinto si tratti dei famigerati “Campi Raudi”
(campi rossi, e in effetti il terreno qui è rossiccio), mai identificati con certezza dagli storici,
“presso Verona o Vercelli”.
La storica battaglia fra Cimbri e Romani del
110 a.C. deve aver avuto luogo proprio qui, dove
i Cimbri avrebbero potuto dilagare nella pianura
padana se i Romani non avessero sbarrato lo
sbocco della valle. Nei pressi si svolse infatti anche la storica “Battaglia di Rivoli” fra l’esercito
di Napoleone e quello austriaco e, poco distante,
a Ponton, si trovava (e si trova tuttora) l’unico
ponte sull’Adige della zona e quindi si tratta di
un’ area storicamente strategica. Dopo questa
battaglia, i Cimbri si sarebbero potuti stabilire
sulle montagne circostanti dove rinforzati dai
Goti prima e dai Longobardi poi, avrebbero conservato la loro lingua fino quasi ai nostri giorni,
essendo ormai poche decine le persone che parlano Cimbro.
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Chi è responsabile
della comunicazione
nella Lega Nord?
di Alessandro Severi
Trascrizione di due puntate della trasmissione
“Radio Londra”, andate in onda su Radio Padania Libera (?) il 18 e il 25 settembre 2006. A seguito di queste puntate, la trasmissione è stata
sospesa.
1
Come anticipato lunedì scorso, oggi parleremo
di comunicazione, cioè di come si comunica col
grande pubblico. È un termine molto generico
ma che acquista un significato ben preciso nel
campo del marketing di cui è uno strumento.
Marketing: ecco un’altra parola moderna spesso impiegata a sproposito e di cui pochi di noi
hanno un’idea precisa, per cui spesso le viene attribuita una connotazione negativa.
Tempo fa, un amico di Bergamo (che spero sia
in ascolto), si scandalizzò perché dicevo che anche un ideale come quello della Lega si deve
“vendere come un fustino di detersivo”. Gli sembrava scandaloso. E invece i principi e le regole
della comunicazione sono identici sia che si voglia convincere una persona a votare per un partito, a comprare un succo di frutta, o a credere
in Dio. Il contenuto evidentemente è ben diverso, ma le regole di comunicazione sono identiche, e la Lega non le conosce.
Devo subito chiarire che in questa trasmissione cercherò di analizzare il modo con cui la Lega comunica, senza mai giudicare il contenuto
di quello che dice. In altre parole, parlerò non di
contenuti ma di contenitori.
Anche se in una puntata precedente di Radio
Londra avevo definito il modo di comunicare
della Lega come “dire le cose giuste nel modo
sbagliato”, oggi non proporrò nessun giudizio,
solo analisi. Il giudizio lo darete voi ascoltatori.
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
E ora veniamo al sodo.
Per comunicare con effetto bisogna avere in
testa ben chiare, ma proprio ben chiare, queste
idee:
1. A chi si vuol parlare;
2. Cosa si vuole dire;
3. Come dirlo;
4. Il fine ultimo: che cosa ci si propone di ottenere.
Tenendo bene in testa queste cose - e con un
po’ di pratica - possiamo riuscire a guardare una
pagina pubblicitaria in una rivista, uno spot televisivo, o un manifesto, e capire a chi sta parlando il pubblicitario, e cosa vuole ottenere, che
non è sempre quello di vendere un prodotto.
Cominciamo dal primo punto: a chi si vuole
parlare.
Faccio un esempio: in Inghilterra la Jaguar –
una marca di automobili di lusso - ha iniziato
una campagna pubblicitaria in cui parla di prezzi, di consumi e di performance. Finora la sua
pubblicità non ha mai parlato di prezzi e di consumi. Chi chiede subito il prezzo di una macchina di lusso vuol dire che non può permettersela.
E allora perché fa questa pubblicità adesso? È
chiaro: al volante di Jaguar si vedevano solo persone sopra i cinquanta, con capelli bianchi o almeno brizzolati e certamente un bel conto in
banca. È evidente che la Jaguar sta cercando
una clientela più giovane e meno ricca. Vuole
ampliare il mercato. La macchina è la stessa, ma
il messaggio ora è diverso.
Ho detto poco fa che le regole della comunicazione - diciamo più generalmente della pubblicità - sono le stesse, sia che si vendano prodotti
commerciali, idee o una fede religiosa. Questo lo
dico un po’ per scandalizzare, però sappiamo
tutti che un prete parla in un modo quando é
sul pulpito, in un altro in confessionale, e in un
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altro quando insegna il catechismo ai bambini.
Il contenuto é lo stesso ma il modo di parlare é
diverso perché parla a persone diverse.
E la Lega? A chi parla la Lega? La Lega parla
sempre e solo ai leghisti. Parla un linguaggio
destinato ai leghisti, che piace ai leghisti.
A questo punto facciamo un passo indietro e
chiediamoci: perché le società commerciali e industriali fanno della pubblicità? Perché?
Diciamo che - grosso modo - si fa una campagna pubblicitaria o per acquisire nuovi clienti, o
per fidelizzare i consumatori esistenti. In politica si fa propaganda o per rassicurare gli elettori
che già votano per il partito o per ottenere nuovi
consensi fra chi vota per altri partiti. Cioè elettori esistenti o nuovi elettori. È una scelta importantissima. In Germania - ad esempio - dove
tutti bevono birra, i produttori di birra non
spendono soldi per fare nuovi consumatori.
Conviene far bere un po’ di più i consumatori
esistenti. È una scelta.
Torniamo alla Lega. Ho detto prima che se
con occhio un po’ esperto si guarda un pezzo di
pubblicità o propaganda, si può riuscire a capire
a chi e diretto e che cosa si propone. E quando
io guardo la pubblicità, diciamo la propaganda,
della Lega, vedo che è sempre e solo indirizzata
a mantenere la lealtà degli elettori esistenti, soprattutto dei militanti. Quasi mai ad acquisirne
di nuovi. In altre parole, la Lega predica ai convertiti.
Non dico che sia bene né che sia male. In Lega
ci sono menti politiche ben più raffinate della
mia e che sanno quello che fanno, ma è certo
che la comunicazione della Lega non è diretta
ad acquisire nuovi consensi. Altrimenti qualcuno ci spieghi perché avevamo più consensi
quando non avevamo media nostri: quotidiano,
radio, televisione e un settimanale.
Ragioniamo un momento: quanti di noi sentono dire a dei non leghisti frasi come “beh in
certe cose la Lega ha ragione”, “su questo sarei
d’accordo con la Lega”, “Bossi non tutti i torti”,
eccetera. Questi si chiamano leghisti potenziali
o elettori potenziali, nel marketing si direbbe
consumatori potenziali. Ora immaginate che
questa massa di elettori potenziali (e sono una
grande massa, se si pensa che in Padania noi abbiamo solo il 7-8% dei voti), immaginate che
questi possibili leghisti sentano Borghezio che
urla insulti da un palco, Calderoli che in televisione dice che una legge che ha contribuito a
varare è “una porcata”, o che dice che vuole regalare a Bush la famosa maglietta.
32 - Quaderni Padani
Un leghista approva, ma i possibili elettori
vengono - secondo voi - incoraggianti a convertirsi alla Lega?
La risposta è no, evidentemente, perché questo contribuisce a dare alla Lega una reputazione di rozzezza. Cose così hanno il solo scopo è
di fare piacere a leghisti convinti, duri e puri e
basta: “Predicare ai convertiti”, appunto.
Allora la Lega fa bene a comportarsi così? La
risposta è questa: dipende dall’obiettivo che si è
proposta.
Se vuole far piacere ai leghisti esistenti fa bene; se invece vuole acquistare nuovi consensi
sbaglia perché li allontana. Se vogliamo mostrare al pubblico in generale che siamo seri e competenti e affidabili, mandiamo avanti Pagliarini e
dirigenti del suo calibro. Se vogliamo parlare solo ai fedeli: avanti Stefani! Avanti Calderoli!
Basta sapere quello che vogliamo.
Contrariamente al noto proverbio: è l’abito
che fa il monaco.
Un elettore che non sia già schierato, dà più
importanza a una frase vuota e inutile di un Casini o di un Fini (detta in modo serio e pacato),
che a una verità urlata da un dirigente leghista
scamiciato che ha mille ragioni.
Voi direte: ma è mai possibile che un Movimento come il nostro, che difende il Nord, la
nostra cultura, il nostro mondo occidentale, abbia solo il 7-8% al Nord? Perché? Perché stiamo
comunicando in modo sbagliato.
Perché? Per un motivo che non abbiamo ancora detto: la comunicazione si fa attraverso i
media. Media vuol dire soltanto mezzi, e mezzi
di massa.
I mass media, sono stampa, radio, televisione
e affissione di manifesti. In più ci sono i comizi
nelle piazze che non sono mass media perché si
rivolgono solo ai presenti nella piazza.
In difesa della pubblicità, spesso accusata di
tanti mali, bisogna osservare che quando diciamo che una pubblicità è stupida o offensiva, significa molto spesso che abbiamo letto o ascoltato un messaggio che non era diretto a noi perché i media non sono tanto mirati. Se apro una
rivista femminile o per teen-agers dirò che vedo
della pubblicità inutile e che non m’interessa:
ma sono io che ho letto un messaggio diretto ad
altri. Evidentemente si comunica in modo diverso da una media all’altro.
In un comizio davanti a una marea di camicie
verdi e di belle bandiere padane si possono, anzi,
si devono dire e gridare cose che dette davanti
un pubblico- magari padano ma non leghista Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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non solo non avrebbero effetto, ma allontanerebbero l’ascoltatore dalla Lega.
Io sono sicuro che questi fatti sono completamente ignorati o non presi in considerazione da
chi nella Lega si occupa di comunicazione.
Bisogna avere chiaro in testa a chi si vuole
parlare, cioè cercare il proprio mercato, nel nostro caso il proprio elettorato. cioè dove seminare per poi raccogliere i frutti. La Coca Cola ha
scelto un mercato di giovani, per cui la pubblicità è fatta in modo da attirare soprattutto i giovani. Ma la Lega dove va a pescare i suoi consensi? Ci ho pensato spesso, ci ho pensato molto, e
ci ho capito poco. Vi dico solo di qualche osservazione che ho fatto, senza nessun giudizio politico, ma soltanto dal punto di vista della mia
esperienza nel marketing e nella comunicazione. Prendiamo solo la Padania e gli elettori padani: 50% dei Padani votano per il centro sinistra e questi lettori la Lega non li vuole, tant’è
vero che invece di scagliarsi contro i vari capi
della sinistra se la prende con gli elettori della
sinistra. Anche a RPL sentiamo spesso telefonate
di ascoltatori arrabbiatissimi contro la sinistra e
che chiamano tutti “comunisti”. In altre parole
la Lega non vuole i voti di chi ha votato centrosinistra: non cerca di convincerli; anzi, spesso li
insulta. Col marketing le imprese cercano di
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
convincere i consumatori di altre marche a passare alla loro. Noi no. Quindi il nostro “mercato” si autoriduce del 50%.
Alle ultime elezioni politiche tanti manifesti
della Lega dicevano: “No al matrimonio omosessuale”. Dimentichiamo per un momento questa
idea vergognosa di lanciarsi contro i gay, che
non hanno nessuna colpa e che non hanno scelto di nascere gay, e siamo cinici: quanti lettori
sono stati convinti a votare per noi sulla base di
slogan e campagne contro i gay? Quanti voti ci
abbiamo guadagnato? É impossibile dirlo. É più
facile invece dire quanto si sia perso. Faccio un
conto approssimativo: pare che le persone gay
siano il 6% della popolazione. Aggiungiamo che
ciascun gay abbia - fra padre, madre, fratelli e
sorelle - almeno tre parenti stretti che si sentono insultati dal linguaggio dei media della Lega.
Questo fa 18%. Chi ha voglia di fare qualche calcolo può anche aggiungere chi non ha nulla a
che vedere con i gay ma che trova inaccettabile
e indegno insultare queste persone. Abbiamo così eliminato un’altra bella fetta di elettori. Complimenti!
Ma perché impedire di votare Lega ai gay, alle
loro famiglie e alle persone civili che non li vogliono discriminare? Perché? Forse qualche
scienziato è riuscito a dimostrare che chi nasce
Quaderni Padani - 33
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gay è un centralista che non vuol la libertà del
suo paese, che è contento di pagare tasse per
conto di chi le non paga?
La Lega ha poi l’abitudine di lanciarsi a testa
bassa e senza esclusione di colpi in argomenti
non direttamente connessi ai suoi ideali, ma che
sono direi periferici o addirittura estranei. Penso
ai PACS, alle cellule staminali, alla Serbia e Milosevich, eccetera. Questo prendere posizione in
modo violento per una parte senza dare nessuna
libertà di scelta, esclude automaticamente un
grande numero di potenziali elettori. Evidentemente non vogliamo neanche il loro voto. Se
questa è una scelta politica cosciente va bene io parlo di comunicazione non di contenuto però stiamo marciando verso il 3%. Se ne siamo
consci e ci piace, allora è tutto OK.
E invece no, io credo che la Lega stia andando
in questa direzione semplicemente per incompetenza, perché non sa comunicare.
Voi direte: ma è mai possibile che un Movimento come il nostro, che è osteggiato da tutti
gli interessi occulti e palesi, che è riuscita a tener testa a tutti per anni e senza l’apporto di
grandi capitali, non sia capace di fare comunicazione? Ma è mai possibile?
Io vi dico di si, e la spiegazione è questa: purtroppo la comunicazione non è una scienza
esatta, è un’attività nella quale tutti possono dire qualcosa, anche chi ne capisce poco. Basta vedere un manifesto elettorale o uno spot televisivo ed è facile dire qualche cosa di sensato: quel
colore non mi piace, quella frase è più bella di
un altra, la grafica va bene o non va bene, eccetera. In realtà per fare le cose bene ci vogliono
dei professionisti.
Ci sono in Lega grandi menti politiche che
non si rendono conto che non sono capaci di comunicare, semplicemente perché non è il loro
mestiere; che credono che basti gridare o scrivere una cosa giusta e che non si rendono conto
che la comunicazione è una cosa diversa e va
fatta in modo professionale. La comunicazione
va ponderata da specialisti, non nasce spontaneamente.
Nessun uomo politico serio si sognerebbe di
ordinare degli slogan di propaganda. Ve lo immaginate un leader conservatore o Tony Blair
che prende un foglietto di carta, ci fa una bozza
e dice a qualcuno: “fate una roba così, e scriveteci sopra questo o quest’altro”. Un politico deve
avere chiaro in testa a chi vuole parlare, cioè chi
vuole convincere e di che cosa, dare istruzioni a
un professionista e lasciare che questi crei il
34 - Quaderni Padani
messaggio. Poi approverà o farà rifare il lavoro.
In questa rubrica in passato avevo già fatto
questo esempio: ricordo di avere detto che se in
via Bellerio succede un black-out e va via la corrente, interviene uno specialista non un deputato o un senatore che di corrente non capisce
niente. Ma il deputato o senatore o dirigente che
sa di non capire niente di elettricità, crede di conoscere le regole professionali della comunicazione, e invece non sa neppure distinguere fra
strategie e tattica. Certo sa benissimo come si
parla con un pubblico di leghisti in un comizio,
ma qui stiamo parlando di ben altro.
2
Lunedì scorso da Venezia avevo parlato di comunicazione in generale e della comunicazione
della Lega in particolare. Avevo detto come se
con occhio un po’ esperto uno guarda una pagina di pubblicità di un prodotto o vede uno spot
pubblicitario o un manifesto, può capire a che
genere di consumatore il pubblicitario stia parlando e di che cosa cerchi di convincerlo (che
non è sempre quello di comprare un prodotto).
Abbiamo anche detto che - grosso modo - ogni
pubblicità si rivolge o ai consumatori esistenti
per rassicurarli e trattenerli, o ai consumatori di
altre marche per attirarli verso la propria. Dentro questi due gruppi poi si cercherà di indirizzare il messaggio pubblicitario, o il messaggio
politico, più specificamente, verso uomini o
donne, giovani o meno giovani eccetera, a seconda del mezzo che si usa: media o mass media.
Se qualcuno mi ha ascoltato la settimana
scorsa ricorderà che la mia analisi della comunicazione che fa la Lega era che la Lega parla soltanto ai leghisti, cioè “predica ai convertiti” e
non cerca nuovi consensi fra quelli che hanno
votato centrosinistra, o che sono laici, gay, o che
appartengono ad altre categorie che non piacciono ad alcuni dirigenti della Lega. Soprattutto, e questo è ciò che più mi stupisce, è che non
cerca di recuperare i voti che sarebbero più facilmente recuperabili. Quali sarebbero gli elettori più facilmente recuperabili? Semplice: quelli che hanno già votato Lega e che per qualche
motivo l’hanno disertata.
Mi ero anche permesso di dire che il problema
della Lega mi sembra essere che chi fa comunicazione non s’intende di comunicazione e pensa
che basti l’intuito. La comunicazione invece è
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un’arte a parte. Quello che ho detto la settimana
scorsa era una critica aperta, e il fatto che nessun dirigente mi sia capitato tra capo e collo a
rimproverarmi o a chiudermi la bocca, vuol dire
che: o nessuno dei personaggi importanti della
Lega aveva la radio accesa a quell’ora, oppure
perché un po’ di dibattito interno è tollerato e
considerato utile. Propendo per questa ultima
supposizione, e quindi continuerò imperterrito
a dire quello che penso.
Abbiate pazienza, mi spiace sembrare di volere
dare lezioni a destra e manca, ma credo che sia
bene parlare ancora un po’ di comunicazione.
In termini semplici e sintetici: come comunica una società commerciale e, insisto, anche un
partito o movimento politico bene organizzato?
Facciamo l’esempio di una società perché più
facile: immaginiamo una società che produce
aperitivi e si accorge che le vendite sono in calo.
Il Direttore Generale chiede al reparto marketing di presentare una spiegazione. Il marketing
si avvale di ricerche di mercato, usando tecniche
molto raffinate, e trova questa spiegazione: il
nostro aperitivo viene principalmente bevuto da
persone di una certa età, mentre i giovani non
lo bevono perché ha un’immagine vecchiotta e
tradizionale. Anche i giovani che non lo hanno
mai bevuto danno questo genere di risposta. È
una questione di immagine. Non c’è da stupirsi,
capita molto spesso: il prodotto è buono ma
l’immagine è negativa e la gente non lo compra.
La cosa capita anche alla Lega Nord: presenta le
idee più giuste ma ha una cattiva immagine.
Viene percepita male.
Torniamo al nostro esempio. La Direzione di
quella marca di aperitivi decide di indirizzare i
consumi verso le fasce di mercato più giovani. E
passa la palla al Marketing (notate: la Direzione
non decide in che modo parlare ai consumatori,
non è suo lavoro. Il suo lavoro, molto più importante, è decidere strategie e investimenti e
cose del genere). Il Marketing incontrerà la sua
Agenzia di pubblicità nella persona di un cosiddetto Account Manager al quale si darà un briefing dettagliato (scusate queste parole inglesi,
ma si usa così) cioè spiegazioni e istruzioni su:
1) cosa vogliamo fare; 2) perché; 3) a che genere
di persone vogliamo parlare (prevalentemente
uomini o donne, classe sociale, eccetera); 4) cosa vogliamo ottenere e; 5) di che budget disponiamo.
L’agenzia di Pubblicità e Comunicazione ne
discute col suo reparto creativo e quando è convinta che ha fatto un buon lavoro va a presentarAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
lo alla nostra società di aperitivi. Sto solo facendo un esempio: se si tratta di una campagna di
affissione e stampa, cioè con manifesti e pagine
su riviste e giornali, i creativi magari proporranno dei personaggi che bevono il nostro aperitivo. Saranno giovani ma non giovanissimi, perché le persone che si vuole convincere sono giovani adulti. Saranno vestiti all’ultima moda ma
non all’ultimissima, abbastanza eleganti ma
senza cravatta, eccetera. Questi giovani poi
avranno un’aria simpatica ma non saranno troppo belli e attraenti (perché devono essere personaggi che si possono imitare, non invidiare, altrimenti si creano situazioni di frustrazione e
delusione che non vogliamo). Questi sono i ragionamenti che si farebbero in questo caso immaginario. La Direzione approva, oppure rifiuta
e rimanda a casa l’agenzia che dovrà ritornare
con un’altra proposta.
Una volta che la proposta è approvata dovrà
essere testata: cioè si mostrano bozze di manifesto a 100 - 200 persone che rappresentino il settore al quale vogliamo vendere il prodotto per
vedere se il messaggio è stato trasmesso bene e
capito bene. Io l’ho fatta semplice e lineare perché i dettagli qui non interessano, ma in realtà
sono in gioco molti soldi e qualche settimana o
mese dopo si tratterà di valutare se i soldi spesi
sono ritornati in cassa attraverso un aumento di
vendite o almeno un aumento di distribuzione
(nel caso di pubblicità politica se sono arrivati i
voti ).
Vi ho inflitto tutta questa tirata, e me ne scuso, ma volevo dimostrare che la comunicazione
verso il pubblico non è cosa semplice, è roba da
specialisti, anche se a prima vista pare si tratti
solo di fare un manifesto o di inventare qualche
slogan. Mi sembra che in via Bellerio invece si
pensi che queste cose si possono fare per istinto.
I “capi” invece devono stabilire chiaramente cosa vogliono e a chi vogliono parlare. Il lavoro
creativo lo devono fare gli specialisti. I “capi” devono solo stabilire le strategie. E quando devono
loro stessi, i “capi”, comparire in pubblico - questo accade nel mondo politico non in quello
commerciale - devono ascoltare attentamente i
consigli di esperti, altrimenti finiscono per dire
in televisione quello che va detto in un comizio,
dicono cose non adatte al pubblico che li sta
ascoltando. E che non sono Camicie verdi!
La comunicazione è una professione molto
specializzata e solo superficialmente può sembrare che consista solo nel fare un bel disegno,
nell’inventare un bello slogan o una frase forte.
Quaderni Padani - 35
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Carta europea
dell’autonomia locale
Consiglio d’Europa, 1985
G
li Stati membri del Consiglio d’Europa,
firmatari della presente Carta, considerando
che il fine del Consiglio d’Europa è di realizzare un’unione più stretta tra i suoi membri,
per salvaguardare e promuovere gli ideali ed i
principi che sono il loro patrimonio comune;
considerando che la stipulazione di accordi nel
settore amministrativo è uno dei mezzi atti a realizzare detto fine;
considerando che le collettività locali costituiscono uno dei principali fondamenti di ogni regime democratico;
considerando che il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici fa parte
dei principi democratici comuni a tutti gli Stati
membri del Consiglio d’Europa;
convinti che è a livello locale che il predetto diritto può essere esercitato il più direttamente
possibile;
convinti che l’esistenza di collettività locali investite di responsabilità effettive consente un’amministrazione efficace e vicina al cittadino;
consapevoli del fatto che la difesa ed il rafforzamento dell’autonomia locale nei vari Paesi
europei rappresenti un importante contributo
all’edificazione di un’Europa fondata sui principi
della democrazia e del decentramento del potere;
affermando che ciò presuppone l’esistenza di
collettività locali dotate di organi decisionali
democraticamente costituiti, che beneficino di
una vasta autonomia per quanto riguarda le loro
competenze, le modalità d’esercizio delle stesse,
ed i mezzi necessari allo espletamento dei loro
compiti istituzionali;
hanno convenuto quanto segue:
Art. 1
Le Parti s’impegnano a considerarsi vincolate
36 - Quaderni Padani
dagli articoli seguenti, nella maniera e nella misura prescritta dall’articolo 12 della presente
Carta.
Parte I
Art. 2
Fondamento costituzionale e legaledell’autonomia locale
Il principio dell’autonomia locale deve essere riconosciuto dalla legislazione interna, e per
quanto possibile, dalla Costituzione.
Art. 3
Concetto di autonomia locale
1. Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge,
sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante degli affari pubblici.
2. Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in
grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti. Detta disposizione non pregiudica il ricorso alle Assemblee di cittadini, al
referendum, o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini qualora questa sia
consentita dalla legge.
Art. 4
Portata dell’autonomia locale
1. Le competenze di base delle collettività locali
sono stabilite dalla Costituzione o dalla legge.
Tuttavia, detta norma non vieta il conferimento,
alle collettività locali, di competenze specifiche,
in conformità alla legge.
2. Le collettività locali hanno, nell’ambito della
legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non
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esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad
un’altra autorità.
3. L’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza
sulle autorità più vicine ai cittadini.
L’assegnazione di una responsabilità ad un’altra
autorità deve tener conto dell’ampiezza e della
natura del compito e delle esigenze di efficacia e
di economia.
4. Le competenze affidate alle collettività locali
devono di regola essere complete ed integrali.
Possono essere messe in causa o limitate da
un’altra autorità, centrale o regionale, solamente nell’ambito della legge.
5. In caso di delega dei poteri da parte di un’autorità centrale o regionale, le collettività locali
devono fruire, per quanto possibile, della libertà
di armonizzare l’esercizio delle loro funzioni alle condizioni locali.
6. Le collettività locali dovranno essere consultate per quanto possibile, in tempo utile ed in
maniera opportuna nel corso dei processi di programmazione e di decisione per tutte le questioni che le riguardano direttamente.
Art. 5
Tutela dei limiti territoriali delle collettività locali
Per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le
collettività locali interessate dovranno essere
preliminarmente consultate, eventualmente
mediante referendum, qualora ciò sia consentito
dalla legge.
Art. 6
Adeguamento delle strutture e dei mezzi amministrativi alle missioni delle collettività locali
1. Senza pregiudizio di norme più generali
emanate dalla legge, le collettività locali devono
poter definire esse stesse le strutture amministrative interne di cui intendono dotarsi, per
adeguarle alle loro esigenze specifiche in modo
tale da consentire un’amministrazione efficace.
2. Lo statuto del personale delle collettività
locali deve consentire un reclutamento di qualità, che si basi sui principi del merito e della competenza; a tal fine, deve associare adeguate condizioni di formazione, di remunerazione e di
prospettive di carriera.
Art. 7
Condizioni dell’esercizio delle responsabilità a
livello locale
1. Lo statuto dei rappresentanti eletti dalle collettività locali deve assicurare il libero esercizio
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
del loro mandato.
2. Esso deve consentire un adeguato compenso
finanziario delle spese derivanti dall’esercizio
del loro mandato, nonché, se del caso, un compenso finanziario per i profitti persi, od una
remunerazione per il lavoro svolto, nonché
un’adeguata copertura sociale.
3. Le funzioni ed attività incompatibili con il
mandato di eletto locale possono essere stabilite
solamente dalla legge o dai principi giuridici
fondamentali.
Art. 8
Verifica amministrativa degli atti delle collettività locali
1. Ogni verifica amministrativa sulle collettività
locali potrà essere effettuata solamente nelle
forme e nei casi previsti dalla Costituzione o
dalla legge.
2. Ogni verifica amministrativa degli atti delle
collettività locali deve di regola avere come
unico fine di assicurare il rispetto della legalità e
dei principi costituzionali. La verifica amministrativa può, tuttavia, comportare una verifica
esercitata da autorità, a livello superiore, dell’opportunità in merito ai compiti, la cui esecuzione
è delegata alle collettività locali.
3. La verifica amministrativa delle collettività
locali deve essere esercitata nel rispetto di un
equilibrio tra l’ampiezza dell’intervento dell’autorità di controllo e dell’importanza degli interessi che essa intende salvaguardare.
Art. 9
Risorse finanziarie delle collettività locali
1. Le collettività locali hanno diritto, nell’ambito della politica economica nazionale, a risorse
proprie sufficienti, di cui possano disporre liberamente nell’esercizio delle loro competenze.
2. Le risorse finanziarie delle collettività locali
devono essere proporzionate alle competenze
previste dalla Costituzione o dalla legge.
3. Una parte almeno delle risorse finanziarie
delle collettività locali deve provenire da tasse e
imposte locali di cui esse hanno facoltà di stabilire il tasso nei limiti previsti dalla legge.
4. I sistemi finanziari che sostengono le risorse
di cui dispongono le collettività locali devono
essere di natura sufficientemente diversificata
ed evolutiva per consentire loro di seguire, in
pratica, per quanto possibile, l’andamento reale
dei costi di esercizio delle loro competenze.
5. La tutela delle collettività locali finanziariamente più deboli richiede la messa in opera di
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procedure di perequazione finanziaria o di misure equivalenti, destinate a correggere gli effetti di una ripartizione impari di fonti potenziali
di finanziamento, nonché degli oneri loro incombenti. Dette procedure o misure non devono
diminuire la libertà di opzione delle collettività
locali nel proprio settore di responsabilità.
6. Le collettività locali dovranno essere opportunamente consultate per quanto riguarda le modalità dell’assegnazione, nei loro confronti, delle
risorse nuovamente distribuite.
7. Per quanto possibile, le sovvenzioni concesse
alle collettività locali non dovranno essere destinate al finanziamento di progetti specifici. La
concessione di sovvenzioni non deve pregiudicare
la libertà fondamentale della politica delle
collettività locali, nel proprio settore di competenza.
8. Per finanziare le loro spese di investimento,
le collettività locali devono poter avere accesso,
in conformità alla legge, al mercato nazionale
dei capitali.
Art. 10
Diritto di associazione delle collettività locali
1. Le collettività locali hanno diritto, nell’esercizio delle loro competenze, a collaborare e,
nell’ambito della legge, ad associarsi ad altre
collettività locali per la realizzazione di attività
di interesse comune.
2. Il diritto delle collettività locali di aderire ad
un’associazione per la tutela e la promozione dei
loro interessi comuni e quello di aderire ad
un’associazione internazionale di collettività
locali devono essere riconosciuti in ogni Stato.
3. Le collettività locali possono, alle condizioni
eventualmente previste dalla legge, cooperare
con le collettività di altri Stati.
Art. 11
Tutela legale dell’autonomia locale
Le collettività locali devono disporre di un diritto di ricorso giurisdizionale, per garantire il libero esercizio delle loro competenze ed il rispetto dei principi di autonomia locale, consacrati
dalla Costituzione o dalla legislazione interna.
Parte II
colata da venti almeno dei paragrafi della Parte
I della Carta, di cui almeno dieci prescelti tra i
paragrafi seguenti:
– articolo 2,
– articolo 3, paragrafi 1 e 2, articolo 4, paragrafi
1, 2 e 4,
– articolo 5,
– articolo 7, paragrafo 1,
– articolo 8, paragrafo 2,
– articolo 9, paragrafi 1, 2 e 3,
– articolo 10, paragrafo 1,
– articolo 11.
2. Ciascun Stato contraente, al momento del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, notificherà al Segretario Generale del Consiglio d’Europa i paragrafi prescelti in conformità alla norma del paragrafo 1 del presente articolo.
3. Ciascuna Parte può, in qualsiasi ulteriore momento, notificare al Segretario Generale che essa si considera vincolata da ogni altro paragrafo
della presente Carta, che non aveva ancora accettato in conformità alle disposizioni del paragrafo 1 del presente articolo.
Detti successivi impegni verranno considerati
come parte integrante della ratifica, dell’accettazione o dell’approvazione della Parte che effettua la notifica, e produrranno i medesimi effetti dal primo giorno del mese successivo allo
scadere di un periodo di tre mesi dopo la data di
ricevimento della notifica da parte del Segretario Generale.
Art. 13
Collettività cui si applica la Carta
I principi di autonomia locale contenuti nella
presente Carta si applicano a tutte le categorie di
collettività locali esistenti sul territorio della
Parte. Ciascuna Parte può tuttavia, al momento
del deposito del suo strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, designare le categorie di collettività locali e regionali alle quali
intende limitare il settore di applicazione o che
intende escludere dal settore di applicazione della
presente Carta. Essa può anche includere altre
categorie di collettività locali o regionali nell’ambito di applicazione della Carta, mediante ulteriore notifica al Segretario Generale del Consiglio
d’Europa.
Disposizioni varie
Art. 12
Impegni
1. Ciascuna Parte s’impegna a considerarsi vin38 - Quaderni Padani
Art. 14
Comunicazioni di informazioni
Ciascuna Parte trasmette al Segretario Generale
del Consiglio d’Europa ogni opportuna informaAnno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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zione relativa alle disposizioni legislative ed
altre misure adottate allo scopo di adeguarsi ai
termini della presente Carta.
Parte III
Art. 15
Firma, ratifica, entrata in vigore
1. La presente Carta è aperta alla firma degli
Stati membri del Consiglio d’Europa. Sarà sottoposta a ratifica, accettazione e approvazione.
Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
2. La presente Carta entrerà in vigore il primo
giorno del mese successivo allo scadere di un
periodo di tre mesi dopo la data alla quale
quattro Stati membri del Consiglio d’Europa abbiano espresso il loro consenso ad essere vincolati dalla Carta, in conformità alle norme del
paragrafo precedente.
3. Per ogni Stato membro che esprimerà successivamente il suo consenso ad essere vincolato
dalla Carta, questa entrerà in vigore il primo
giorno del mese successivo allo scadere di un
periodo di tre mesi dopo la data del deposito
dello strumento di ratifica, di accettazione o di
approvazione.
Art. 16
Clausola territoriale
1. Ciascuno Stato può, al momento della firma,
o al momento del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o
di adesione indicare il o i territori cui si applicherà la presente Carta.
2. Ciascuno Stato potrà, in qualsiasi altro successivo momento, mediante dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio
d’Europa, estendere l’applicazione della presente Carta ad ogni altro territorio designato nella
dichiarazione. La Carta entrerà in vigore nei
confronti di detto territorio il primo giorno del
mese successivo allo scadere di un periodo di
tre mesi dopo la data di ricevimento della dichiarazione da parte del Segretario Generale.
3. Ogni dichiarazione resa, in virtù dei due paragrafi precedenti, potrà essere ritirata, per
quanto riguarda i territori indicati in detta dichiarazione, mediante notifica inviata al Segretario Generale. Il ritiro avrà effetto dal primo
giorno del mese successivo allo scadere di un
periodo di sei mesi dopo la data di ricevimento
della notifica da parte del Segretario Generale.
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Art. 17
Denuncia
1. Nessuna Parte può denunciare il presente
Statuto prima dello scadere di un periodo di
cinque anni successivo alla data di entrata in
vigore della Carta nei suoi confronti. Un preavviso di sei mesi sarà notificato al Segretario
Generale del Consiglio d’Europa. Detta denuncia non pregiudica la validità della Carta nei
confronti delle altre Parti, fermo restando che il
numero di queste non sia mai inferiore a quattro.
2. Ciascuna Parte può, in conformità alle norme enunciate nel paragrafo precedente, denunciare ogni paragrafo della Parte I della Carta da
essa accettato, con riserva che il numero e la
categoria dei paragrafi cui questa Parte è vincolata rimangano conformi alle disposizioni
dell’articolo 12, paragrafo 1.
Ciascuna Parte che, a seguito della denuncia di
un paragrafo, non si adegui più alle disposizioni
dell’articolo 12, paragrafo 1, sarà considerata
come avendo denunciato la Carta stessa.
Art. 18
Notifiche
Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa
notificherà agli Stati membri del Consiglio:
a. ogni firma;
b. il deposito di ogni strumento di ratifica, di
accettazione o di approvazione;
c. ogni data di entrata in vigore della presente
Carta, in conformità al suo articolo 15;
d. ogni notifica ricevuta in applicazione delle
disposizioni dell’articolo 12, paragrafi 2 e 3;
e. ogni notifica ricevuta in applicazione delle
disposizioni dell’articolo 13;
f. ogni altro atto, notifica o comunicazione relativa alla presente Carta.
In fede di che, i sottoscritti, debitamente autorizzati a tale scopo, hanno firmato la presente
Carta.
Fatto a Strasburgo il 15 ottobre 1985 in francese ed in inglese, i due testi facenti ugualmente
fede, in un unico esemplare, che sarà depositato
negli archivi del Consiglio d’Europa. Il segretario Generale del Consiglio d’Europa ne invierà
copia autenticata conforme a ciascuno degli
Stati membri del Consiglio d’Europa.
Quaderni Padani - 39
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La Rubrica
Silenziosa
La statistica è una scienza fatta di dati e cifre che quasi sempre non necessitano di commenti. Di seguito si riportano i dati di alcune indagini scelte
fra le tante disponibili e più o meno note.
Incentivi alle imprese
Anno: 2002-2003
Fonte: MET - Monitoraggio
economico e territorio
Erogazioni degli incentivi alle
imprese (in milioni di Euro) e
somme pro capite (in Euro), per
regione, nel biennio 2002-2003
Marche
Lazio
Veneto
Emilia Rom.
Tr. SudTirolo
Umbria
Toscana
113
409
360
362
86
78
335
Liguria
Lombardia
Piemonte
Molise
Abruzzo
207
1.326
649
55
231
127
146
151
168
181
Friuli
Sicilia
Puglia
Campania
Sardegna
Valdaost
Calabria
Basilicata
255
1.275
1.175
1.993
594
47
1.022
345
215
251
288
345
360
392
499
569
Rep. italiana
Padania
Italia etnica
10.917
3.292
7.625
189
129
238
40 - Quaderni Padani
77
78
80
91
92
93
95
più di 200 € pro capite
fra 100 e 200 € pro capite
meno di 100 € pro capite
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La Rubrica
Silenziosa
Protesti
Anno: 2004
Fonte: Agenzia delle Entrate
Numero di protesti
ogni 100.000 abitanti
Trentino SudTirolo
Veneto
Friuli
Valdaosta
Liguria
Piemonte
Sardegna
Emilia Romagna
739
1.132
1.157
1.365
1.584
1.680
1.693
1.703
Toscana
Umbria
Marche
Molise
2.494
2.850
2.890
2.692
Sicilia
Lombardia
Basilicata
Calabria
Abruzzo
Puglia
Campania
Lazio
3.020
3.046
3.085
3.460
3.526
3.787
4.470
5.345
Repubblica italiana
Padania
Italia etnica
2.929
2.012
3.658
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
più di 3.000 protesti ogni 100.000 abitanti
fra 2.000 e 3.000 protesti ogni 100.000 abitanti
meno di 2.000 protesti ogni 100.000 abitanti
Quaderni Padani - 41
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La Rubrica
Silenziosa
Invalidi civili
Anno: 2004
Fonte: Istat-Inps
Numero di invalidi civili
ogni 1.000 abitanti
Lombardia
Veneto
Piemonte
Trentino SudTirolo
54,8
59,0
62,4
63,4
Friuli
Emilia Romagna
Liguria
Lazio
Toscana
70,8
73,9
76,1
79,7
80,6
Valdaosta
Puglia
Sicilia
Marche
Campania
96,2
101,7
104,5
107,2
110,0
Abruzzo
Molise
Umbria
Calabria
Sardegna
Basilicata
113,2
115,9
116,0
119,5
121,0
122,6
Repubblica italiana
Padania
Italia etnica
42 - Quaderni Padani
82,8
62,9
100,3
più di 110 invalidi ogni 1.000 abitanti
fra 90 e 110 invalidi ogni 1.000 abitanti
fra 70 e 90 invalidi ogni 1.000 abitanti
meno di 70 invalidi ogni 1.000 abitanti
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La Rubrica
Silenziosa
Trasferimenti alle Regioni
Anno: 2005
Fonte: Sda Bocconi per Anci
Veneto
Euro per abitante trasferiti
dallo Stato alle Regioni
Trentino SudTirolo
Valdaosta
Friuli
Veneto
Emilia Romagna
0,00
9,37
9,58
167,52
172,48
Lombardia
Marche
Toscana
Abruzzo
Piemonte
Sardegna
Puglia
186,71
187,19
195,35
196,61
199,32
205,39
208,58
Umbria
Molise
Liguria
Lazio
217,44
219,95
226,04
249,97
Sicilia
Calabria
Campania
Basilicata
267,88
281,35
299,66
305,05
Repubblica italiana
Padania
Italia etnica
210,75
169,99
245,14
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
più di 250 € per abitante
fra 210 e 250 € per abitante
fra 180 e 210 € per abitante
meno di 180 € per abitante
Quaderni Padani - 43
Quad68imp
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14:47
Pagina 44
La Rubrica
Silenziosa
Frodi assicurative
Anno: 2004
Fonte: Isvap
Percentuale di sinistri stradali
con frodi rilevate alle Assicurazioni
Valdaosta
Trentino SudTirolo
Friuli
Umbria
Marche
Emilia Romagna
Veneto
Lombardia
0,14
0,42
0,47
0,58
0,71
0,73
0,81
0,99
Toscana
Abruzzo
Molise
Piemonte
Sardegna
Lazio
Basilicata
Liguria
1,11
1,14
1,23
1,36
2,15
2,20
2,50
2,63
Sicilia
Calabria
Puglia
Campania
4,70
5,73
7,50
12,90
Repubblica italiana
Padania
Italia etnica
44 - Quaderni Padani
2,91
1,06
4,70
più del 4% di sinistri con frode
fra l’1% e il 4% di sinistri con frode
meno dell’1% di sinistri con frode
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Quad68imp
25-02-2008
14:47
Pagina 45
La Rubrica
Silenziosa
Deficit della sanità
Anno: 2004
Fonte: Corte dei conti
Disavanzo della spesa sanitaria in Euro per abitante
Umbria
Basilicata
Puglia
Friuli
Piemonte
+ 2,99
0,96
7,72
7,79
9,60
Emilia Romagna
Toscana
Liguria
Lombardia
Veneto
Molise
10,35
11,74
27,08
34,80
47,34
56,37
Sicilia
Marche
Calabria
Abruzzo
67,02
67,24
74,68
98,44
Campania
Sardegna
Lazio
Valdaosta
Trentino SudTirolo
102,48
105,53
123,16
370,76
462,32
Repubblica italiana
Padania
Italia etnica
58,38
44,35
69,63
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
più di 100 € per abitante
fra 60 e 100 € per abitante
fra 10 e 60 € per abitante
meno di 10 € per abitante
Quaderni Padani - 45
Quad68imp
25-02-2008
14:47
Pagina 46
La Rubrica
Silenziosa
Referendum sulla riforma
costituzionale,
detta della “Devolution”
Anno: 2006
Fonte: Ministero Interno
Percentuale di voti a favore
della riforma, per Provincia
Repubblica italiana
Padania
38,3
47,4
Province più “devoluzioniste”:
Sondrio
65,4
Bergamo
62,7
Como
62,6
Verona
61,5
Treviso
59,6
Province meno “devoluziniste”:
Crotone
13,8
Vibo Valentia
16,9
Cosenza
17,1
Reggio Calabria
18,6
Catanzaro
18,6
meno del 20% di si
fra il 20% e il 30% di si
fra il 30% e il 40% di si
fra il 40% e il 50% di si
fra il 50% e il 60% di si
più del 60% di si
46 - Quaderni Padani
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Quad68imp
25-02-2008
14:47
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La Rubrica
Silenziosa
Consumo di Viagra
Anno: 1998-2005
Fonte: Ims Health
Numero di pillole consumate
ogni mille uomini nel periodo
1998-2005, per Provincia
Media italiana:
2.960
Province più consumatrici:
Roma
4.791
Pistoia
4.756
Rimini
4.627
Firenze
4.518
Pisa
4.320
Province meno consumatrici:
Potenza
991
(per via del nome?)
Nuoro
1.080
Enna
1.154
Matera
1.232
Agrigento
1.401
meno di 2.000 pillole
fra 2.000 e 2.500 pillole
fra 2.500 e 3.000 pillole
fra 3.000 e 4.000 pillole
più di 4.000 pillole
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Quaderni Padani - 47
Quad68imp
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Pagina 48
Biblioteca
Padana
Angelo Del Boca
Italiani, brava gente
Vicenza: Neri Pozza, 2005
318 pagine, 16,00 Euro
Del Boca percorre tutte le vicende storiche italiane dell’ultimo secolo e mezzo e racconta
con dovizia di documentazione
tutte le nefandezze militari tricolori, dalla cosiddetta “guerra
al brigantaggio” alle efferatezze
nazi-fasciste. Sciorina un terribile rosario di scempiaggini,
violenze e stupidità. Tutte accuratamente nascoste dalla storia ufficiale: il brigantaggio
non c’è sui libri di scuola, le
schifezze in Eritrea, in Libia, in
Etiopia e sul Carso sono sempre state taciute sotto l’immagine stereotipata degli “italiani,
brava gente”. Solo quelle fatte
in Slovenia e dintorni hanno
avuto qualche attenzione in
più negli ultimi tempi.
É un bel libro che proprio ci
voleva. Peccato però che sia
“senza capo né coda”. Nel senso che mancano l’inizio e la fine (in ordine di tempo) delle
malefatte nazionali. Manca il
momento in cui le efferatezze
moderne hanno avuto inizio
con la repressione delle insorgenze: è vero che non erano
ancora fatte in nome dell’Italia
unita ma in quello della criptoitalia giacobina, che però la
storia ufficiale dipinge come
l’inizio del Risorgimento. Erano soldati della Repubblica italiana e del Regno napoleonico
d’Italia quelli che davano con
entusiasmo una maano ai francesi a massacrare i loro compatrioti.
48 - Quaderni Padani
Manca poi l’ultimo capitolo della seconda guerra mondiale. Dopo avere giustamente sottolineato le nefandezze fasciste,
l’autore tende a giustificare con
eccesso di comprensione le nefandezze partigiane in generale
e quelle comuniste in particolare. Minimizza le schifezze delle varie volanti rosse, riduce a
nulla i massacri di poveri diavoli bollati come fascisti.
Sembra quasi che l’italica crudeltà sia secondo Del Boca solo
da addebitare alla cultura reazionaria o di destra. Così secondo lui, i garibaldini sarebbero stato i buoni (come Bronte insegna...) e i piemontesi del
reazionario re Vittorio cattivi
con i cafoni. Le imprese coloniali sarebbero manifestazioni
deleterie di nazionalismo (è ve-
ro) e Crispi era una sorta di ante-Mussolini (è altrettanto vero) ma c’è dell’altro che Del
Boca finge di ignorare. Il nazionalismo e il fascismo sono
sicuramente responsabili ma lo
sono altrettanto anche tutte le
altre ideologie nate dalla rivoluzione francese: socialismo e
comunismo compresi. Non si
spiegherebbero infatti né le nefandezze delle contro-insorgenze, né le vicende tragiche
della resistenza marxista, o delle successive violenze “rivoluzionarie” conosciute (Brigate
rosse, Sessantotto, Feltrinelli,
centri sociali, eccetera) e quelle ancora non conosciute e coperte dai misteri di Stato sotto
i quali rosso e nero si intrecciano col verde dell’Islam. Non si
spiegherebbero neppure le violenze perpetrate da governi democratici in Sud Tirolo, né le
più recenti avventure “pacifiste”, dall’uranio impoverito sul
popolo serbo a certe schifezze
in Somalia.
La causa vera delle violenze sono le ideologie giacobine, sotto
il cappello dell’unità. Viene da
pensare che sia proprio l’Italia
a fare da innesco alle violenze.
Ha ragione Sergio Romano
quando scrive che per sopravvivere l’unità ha bisogno di ferro
e sangue. Gli stati preunitari –
con la sola sintomatica eccezione dei violenti Savoia – non
avevano mai aggredito nessuno: Toscana e Due Sicilie non
avevano mai fatto guerra a nessuno. Figuriamoci i ducati microscopici o il Papa. Genova e
Venezia erano state in passato
un po’ più manesche ma non
imperialiste, e comunque niente in confronto all’Italia unita.
Del Boca è un grande storico
ma gli manca la dote essenziale
che è la serenità di giudizio. Le
lenti dell’ideologia sono deformanti e gli fanno perdere lucidità. Ha fatto un lavoro straordinario per aprire il vergognoso armadio delle nefandezze,
ma cerca di tenere chiuso qualche cassetto. Non ci sono patrioti violenti buoni o a fin di
bene. Ci sono violenti e basta.
Ottone Gerboli
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Edoardo Rubini
Giustizia veneta.
Lo spirito veneto nelle leggi
criminali della Repubblica
Venezia: Filippi Editore, 2003
293 pagine, 25,00 Euro
Un profondo afflato identitario
si riflette in questo libro di natura giuridica, la cui peculiarità è presentare una visione
completa della società veneta
attraverso l’intero apparato di
leggi, pene e reati che permisero alla Serenissima di mantenersi indipendente per circa
mille anni. Non solo per gli
“addetti ai lavori”, ma esaustiva lettura di un mondo in cui
l’essenza della Legge era al servizio di un popolo. Estremamente dettagliato, potrebbe
addirittura costituire, con qualche adattamento, un codice
penale da prendere a modello
per una Padania liberata dal
giogo italiano perché chiaro,
semplice e con il “buon senso”
della logica.
L’introduttivo Discorso alla Nazione permette di comprendere quanto sia fondamentale il
senso di appartenenza alla Terra e alla Cultura veneta. È un
attaccamento fiero, carico di
orgoglio, dunque positivo e
mai arrogante; una strenua difesa del passato, velata da una
sorta di amarezza per la grandezza perduta, lontana nel
tempo. I nomi dei più famosi
“Padri” sono richiamati in un
appello che li rievoca fin dall’Età del Bronzo, quando le
“singole comunità si reggevano con assemblee democratiche…” e le “diverse classi sociali… erano tenute insieme
da pacifici rapporti di tipo confederativo”. Così, afferma l’autore, da sempre “la Serenissima si resse sul consenso collettivo”, con una concezione
molto vicina alla sensibilità
moderna.
Una lunga serie di esempi e
aneddoti evidenzia come i
principi basilari fossero frutto
di una “forte responsabilità
della classe dirigente, costruita
su basi adeguatamente larghe
e omogenee”, e della “estro-
missione di tutte le altre fasce
sociali dalla politica attiva”. Si
perseguiva una “condivisione
di valori” che consolidava l’intera società: le “ambizioni personali erano bandite, represse
come causa d’ogni male”. Così,
l’essenza della Nazione era in
totale sintonia con ogni suo aspetto sociale e culturale.
Completava questo accurato
sistema un “alto tribunale politico” per prevenire il cattivo
operato e le degenerazioni dell’aristocrazia e dell’oligarchia
al potere: riflessioni personali
e dettagli storici sottolineano
il valore di un profondo senso
etico e meritocratico. Rubini
riscontra come nemmeno le
moderne ideologie abbiano apportato contribuiti validi. Ricorda, infatti, che “per l’uomo
di Stato veneziano, l’incarico
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Biblioteca
Padana
pubblico era un onere grosso”...“ma al servizio della Patria (veneta), non la Patria a
servizio loro.” A differenza degli Stati nazionali creati forzosamente nel XIX secolo con
violenza, come nel caso italiano, la Serenissima rappresentò
dunque uno splendido esempio
di eccezionale modello democratico, anche in considerazione della sua politica di neutralità e di un corretto sviluppo
socio-economico. Se “l’amore
per la Patria non esiste più” a
causa di un nazionalismo strumentalizzato dalle ideologie
politiche di destra o sinistra e
“per assenza di “valori etnici”,
risulta addirittura deleterio un
“revanscismo italico” dove “i
parametri di giudizio” sono le
storiche “coercizioni e violenze” o l’azione di “potenti gruppi di interesse economico, organizzati su scala sovrastatale”. Il criterio di democraticità
dello Stato, dotato di un potere
condizionante sui cittadini,
può basarsi sul semplice criterio di rappresentatività? Alla
domanda, retorica, l’esempio
di Venezia ribadisce dunque
l’esigenza di recuperare la “forte carica ideale che animava
l’intero sistema politico“ della
Serenissima”.
Il suo Ordinamento giuridico
risalente al XIII secolo si caratterizzò su “una realtà pacifica
e rilevabile da tutti i documenti storici: in barba alla grande
tradizione romanistica” con
“un diritto proprio, le cui fonti
erano costituite da statuti, deliberazioni giurisprudenziali e
consuetudini”. E la “consuetuQuaderni Padani - 49
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Pagina 50
Biblioteca
Padana
dine” è sia “il diritto vivente
nella pratica quotidiana” sia “le
procedure e criteri seguiti dagli
organismi pubblici nell’applicazione delle leggi”: l’uso patrio mantenne sempre la sua
originalità. Se questo aspetto è
stato rinnegato da esimi studiosi italiani, come il citato Besta, è perché si è spesso sopravvalutata la tradizione del diritto greco-romano. Rubini porta
l’esempio di una contraddizione relativa alle leggi sulla dote,
dimostrando che solo le leggi
di influenza longobarda potevano risolvere con precisione
l’eventuale controversia. Purtroppo, “un forte condizionamento ideologico grava sull’analisi storica: l’unitarismo italico ha teso a proiettare su Roma la paternità di qualsivoglia
espressione culturale degna di
essere studiata.” Viceversa, nell’antichità “restò marginale
l’impronta romana nell’assetto
politico e giuridico” e anche in
età imperiale “le popolazioni
non volevano il diritto romano
perché erano abituate da sempre a vivere secondo un diritto
nazionale profondamente diverso”. L’autonomia e l’autogoverno costituiscono nei secoli
la cultura dei Veneti. Vi sono
similitudini con le nazioni dell’arco alpino-adriatico, Austria,
Slovenia, Carinzia o Istria: sono le assemblee popolari, longobarde o germaniche, come il
riunirsi presso un albero di tiglio; o quella nota come Arengo, che governa e giudica a Venezia dal 697 al 1268 e coincide con la costituzione, proprio
nel 697, della Veneta Repubbli50 - Quaderni Padani
ca, segnata dall’“elezione del
primo Doge, Paoluccio Anafesto”. Non a caso, simbolo di
“indipendenza sia dall’Impero
bizantino, sia da quello germanico.”
Con orgoglioso senso di appartenenza, si esaminano le diverse parti dell’Ordinamento Veneto: le fonti del diritto (le leggi penali, le pratiche forensi, le
compilazioni statutarie), l’autorità del Diritto Comune (specificità, uso patrio e considerazioni politiche), il principio di
legalità (giustizia, carità, legalità, l’arbitrio giudiziario, le presunzioni e garanzia), i Magistrati. Piuttosto elitaria, la formazione dei giudici esperti
nelle consuetudini locali “si faceva valere in larga parte per
via orale” e presumeva “la coerenza con gli interessi generali, tanto nel penale, quanto nel
civile”, così da evitare pericolosi conflitti d’interessi. Poiché
“la libertà del singolo equivaleva alla libertà di tutta la nazione.” Secondo Costituzione, i
patrizi, generalmente in condizione di affrontare economicamente studi lunghi e costosi,
dovevano possedere “le capacità essenziali di un politico,
coglier il nucleo e valutarlo…
lasciandolo alla categoria subordinata – cancellieri, segretari, notai…”. Soprattutto, si
“mirava ad armonizzare l’ordinamento… con gradualità ”i
territori sulla terraferma di diritto imperiale, come l’Istria.
Si giudicava il reo secondo il
principio della “buona fede” o
carità, attraverso i vari gradi e
con un sistema severo di controlli, che prevedeva sempre la
pietà per il condannato e la punibilità del giudice in caso di
errore comportamentale, generalmente evitato da un “rigoroso sistema di verbalizza-
zione”. Sembra di sognare. Le
presunzioni di varia gravità e
forme di garanzia riguardavano tutta una vasta casistica
che anticipava quelle conquiste tipiche della giurisprudenza moderna. In magistratura,
le competenze e le funzioni
erano separate, ma vi era l’obbligo di assumere la carica e di
essere sottoposti a controlli
per inefficienza, oltre a un frequente avvicendamento. Vi
erano anche i Zudexi del Forestier, per il diritto internazionale; ma il supremo magistrato e capo delle forze armate
era il Doge. Se i tribuni erano
giudici eletti dal popolo a presiedere l’arengo nelle isole della Laguna, i gastaldi dipendevano dall’autorità centrale, sorta di antenati dei podestà. E il
quadro non è completo.
Seguono poi i capitoli sulle pene e i reati. Nel sistema giuridico della Serenissima tutto è
sempre estremamente dettagliato, improntato alla dignità
umana, esecuzioni comprese.
Nel libro, alle citazioni in latino si affiancano le numerose
espressioni in veneto, che mantengono la specificità di una
grande cultura. Va ricordato
che durante i secoli, le pene si
trasformarono gradatamente
in un “atto giuridico”. È lungo
e dettagliato l’elenco dei reati
punibili con la pena capitale,
che nell’Alto Medioevo includeva sia la pena di morte, il
confine a vita, l’ergastolo o la
condanna al remo di galera.
Altrettanta precisione nel Registro dei Giustiziati per il numero e tipologia dei condannati; ma, si aggiunge, “il carnefice lavorò con grande parsimonia”. Apparentemente è “cruda” la descrizione delle diverse
modalità di esecuzione della
pena capitale, da inquadrarsi
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
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in momenti storici lontani dalla nostra sensibilità ma che
servì a mantenere a lungo la
sicurezza della Serenissima.
Anche l’invio al confino e le
carcerazioni erano molto particolareggiate; si prendeva in
considerazione una vastissima
tipologia di ruoli e di misure
assistenziali per i condannati. I
lavori forzati al remo o la ferma nell’esercito per tre anni
rappresentavano un’alternativa
al soggiorno in cella e nel
XVIII secolo si preferiva ricorrere ai lavori di pubblica utilità, con l’eccezione per i nobili e i ladri. Ma non mancavano
sanzioni pecuniarie, punizioni
infamanti, come la berlina per
falsari e stregoni, torture e difese d’ufficio, addirittura dalla
seconda metà del Trecento.
E i reati considerati sono tanti:
creditizi, contro il patrimonio
o la persona o la moralità o lo
Stato. Ma la tendenza era sempre quella di mantenere la disciplina graduando e attenuando via via le pene, in base al
sesso o alle recidive. Se ne occupava il Doge in persona, come fece Giovanni Dandolo attraverso “la promissione (assemblea) dei malefici di Jacopo
Tiepolo del 1232”. Ma si coglie
la modernità e “l’anima libertaria” di Venezia soprattutto
nella parte relativa ai reati contro lo Stato, inteso come “bene
comune” nell’ideale repubblicano, rendendo così meno rilevante il reato di lesa maestà.
Né laici, né religiosi, né il Doge - come accadde nel 1355 al
cospiratore Marin Falier - erano esenti dal poter essere giudicati e condannati per alto
tradimento. Severità anche
contro l’usurpazione di cariche pubbliche o grande attenzione contro i brogli, la cui
“incessante lotta” simboleggia-
va “quel profondo anelito verso
la società politica perfetta, fonte e fondamento spirituale di
tutto l’ordinamento politico
veneziano”, afferma Rubini. E
vi fu accoglienza a Venezia per
“tutti i gruppi etnici”, riuniti
in piccole enclaves”, uniche
eccezioni, gli zingari” e i “bravi”, “sicari, sanguinolenti, forestieri”: erano brevi i permessi di soggiorno “nei confini
dello Stato”, ferme le espulsioni dei clandestini, severe le
sanzioni o le condanne per i
cancellieri e tutti coloro che li
favorivano. Si torna a sognare
ancora un sistema proprio di
uno Stato così civile, la cui esistenza fu cancellata da un falso
plebiscito sabaudo. La consapevolezza di sapere che la Veneta Repubblica e il suo sistema giuridico erano in passato
una concreta realtà in alcune
regioni padane come Veneto o
Lombardia è malinconica, se
confrontata al deprimente contesto giuridico italiano, ma è
uno sprone a recuperare, almeno, lo spirito e l’identità.
S. G.
Biblioteca
Padana
Stato di Torino, o nelle biblioteche civiche di Ivrea, Novara e
Vercelli. I protagonisti sono appunto Valdostani: montanari,
uomini delle istituzioni o del
clero, tutti appartenenti all’allora Regno del Piemonte. Sorprende scoprire quanto l’episodio dell’insorgenza e la sua feroce repressione da parte di Cavour siano paradigmatici della
futura politica forzosa per “fare l’Italia”. Se la specificità del
tema sembra dunque riguardare una piccola Terra come l’Arpitania, la peculiarità di questo
Roberto Gremmo
Montanari contro il tricolore.
L’Insorgenza valdostana
del 1853 e l’opposizione
popolare a Cavour
Biella: Storia Ribelle, 2005
228 pagine
Grazie a Roberto Gremmo, autonomista piemontese della
prima ora e ottimo autore storico, si approfondisce in un’ottica revisionistica la storia cosiddetta “pre-unitaria” italiana.
Montanari contro il tricolore,
infatti, tratta avvenimenti accaduti nell’attuale Valle d’Aosta, e rende giustizia a un
mondo finora ignorato, “racchiuso” ancora negli Archivi di
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
libro consiste nella ricerca dettagliata degli episodi e nella
precisa documentazione riportata anche in lingua francese.
Nell’esposizione, di taglio cronologico, si colgono aspetti di
acuta e ironica analisi critica
verso le cosiddette “Autorità
Civili”, che si misero da subito
al servizio del Primo Ministro
Cavour. Contro i “ribelli” montanari.
Quaderni Padani - 51
Quad68imp
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Biblioteca
Padana
Attraverso una paziente opera di
ricerca, l’autore riesce a “smontare” l’insieme delle manovre
politiche che hanno mosso opportunisticamente uno di quei
“figuri” generalmente celebrati
dalla Storia ufficiale delle scuole italiane, uno degli italopattriottardi da stradario, proprio
anche a fronte dell’atteggiamento che Cavour tenne nei
confronti di questa insorgenza
valdostana.
Una prima motivazione era di
natura puramente economica.
I protagonisti erano poveri
montanari spinti dalla fame e
da una situazione economica
sempre più precaria per le nuove tasse, volute dal governo del
Primo Ministro. Si evidenzia,
dunque, come il cosiddetto
eroe risorgimentale si trovasse
personalmente coinvolto in un
conflitto d’interessi: da “azionista dei mulini di Collegno
quale era, legiferò a favore degli importatori di cereali. Se la
politica liberistica da lui impostata “favoriva i ceti egemonici
e penalizzava le classi più povere”, la penuria di raccolti e il
conseguente aumento dei prezzi non facilitavano di certo la
situazione economica dei
montanari. L’imposizione sabauda dell’obbligo della leva
militare e la concessione governativa di “sussidi agli immigrati politici lombardo-veneti”
in seguito al conflitto del 1848
e 1849 aggravarono la situazione socio-politica di coloro
che vivevano fra le montagne.
Il malcontento era peraltro stato avvertito in altre località del
Piemonte, dove si erano già re52 - Quaderni Padani
gistrate varie rivolte spontanee
contro il rincaro del prezzo del
pane. Spinti dalla fame, i montanari iniziarono la ribellione
in Valle d’Aosta proprio il giorno di Natale. La protesta partiva dal piccolo borgo alpino di
Champorcher, forse anche a
causa del mancato risarcimento
ai parenti di tre giovani morti
nella guerra di Lombardia. Ci
si ricordava ancora delle rivolte antifrancesi del 1799 e del
1801, “indicate sprezzantemente dai potenti e dai notabili come insurrezioni degli zoccoli (socques)”. Il sostegno
morale del segretario comunale Claude Joseph Dogier e del
sacerdote Giovanni Antonio
Gorret incoraggiò i montanari;
la protesta coinvolse gente della vicina Pontbozet e di Issogne e giunse a Verrès.
L’avvenimento assumeva anche una valenza sociale. Qui i
“ribelli” s’impadronirono delle
armi; strapparono e bruciarono poi quattro tricolori, simboli di quell’oppressione a cui
giustamente si opponevano poiché “I loro nemici erano Cavour
ed il simbolo della nuova vessazione: il drappo liberale verde, bianco e rosso, mutuato
scimmiescamente da quello
giacobino d’Oltralpe.” Un forte
senso di dignità li guidava, consapevoli di avanzare delle giuste richieste. Avvertiamo quasi
un affetto nella narrazione delle vicende e dei poveri montanari e il libro va letto per conoscere al meglio i particolari.
Il 26 Dicembre a Chatillon circa 1200 uomini “gridarono di
volere l’abolizione dello Statuto, la rimozione del Ministero
di Finanze, l’abolizione delle
imposte e dei nuovi pesi e misure, ripristinamento delle feste”. Il timore dei montanari
era anche quello di perdere
parte della tradizione religiosa
che lo Stato del Piemonte sembrava volere attuare attraverso
la politica anticlericale. Il governo aveva da poco approvato
le leggi Siccardi, anticattoliche. L’intenzione degli orgogliosi “ribelli” era raggiungere
Torino, la Capitale del Regno
sabaudo e portarvi la loro protesta, ma l’intervento degli Intendenti di Aosta, Spirito Racca, e di Ivrea, Santi, e i carabinieri bloccò con violenza le
due bande di circa ottocento
montanari, che decisero, così,
di dirigersi ad Aosta.
Dopo qualche spiacevole episodio di razzia di generi alimentari, “vennero fermati con l’inganno” alle porte di Aosta, dove Vescovo, Sindaco e comandante militare, cavalier Michele Papa, trattarono con “il più
coraggioso dei montanari, Dedioddo Chanou”. Fecero deporre le armi ai Socques e sottoscrivere a Chanou un foglio
di carta, che avrebbe dovuto
recare le richieste avanzate; il
timore che i moti si estendessero anche alle valli confinanti
era molto forte. Seguì dunque
una sorta di farsa diplomatica,
preludio alla conclusione della
gran parte delle future vicende
italiane.
Numerose le assoluzioni: Racca venne scagionato: “nel tentativo di salvargli posto e carriera non mancarono di spendersi con dichiarazioni di sostegno e votazioni di vibranti
ordini del giorno i Comuni di
Ollein, St. Oyen ed Etroubles.
Così, “gli accordi si rivelarono
carta straccia…”, i ribelli “finirono sotto chiave e l’ordine
tornò in Val d’Aosta.” Ma il 29
Dicembre “gli ultimi irriducibili fecero ancora sfregio alla
tricolore bandiera”; il battaglione dei Savoia represse con
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Quad68imp
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sanguinaria violenza la rivolta
a Roen, Saint Marcel, …” e
con la riconoscenza di Aymavilles e Chatillon! Le Istituzioni erano salve ma qualcuno
doveva comunque pagare. Si
adottarono particolari misure
di prevenzione: la custodia delle armi nel Forte di Bard, prigione dei Socques e dei sacerdoti accusati di aver appoggiato le rivolte; vi fu la sospensione dei sindaci conniventi e la
proclamazione dello stato di
assedio in caso di eventuali
nuovi moti. La Valle d’Aosta
era, inoltre, presidiata da numerose forze di controllo sabaude.
“Pugno di ferro”, scrisse il Ministro dell’Interno di San Martino all’Intendente Santi. Molti
detenuti, “… 530 individui”, finirono in un carcere in pessime condizioni sanitarie anche
a causa dei malintesi linguistici fra gli inquirenti e i testimoni, che si esprimevano in lingua locale, detta con tono dispregiativo “patois”. Un gruppo di nove montanari riuscì,
nell’indifferenza delle guardie,
a riparare in Svizzera, come
accadde poi per “Tutti li compromessi nel fatto dell’insurrezione”, secondo quanto dichiarato il 12 Dicembre 1854. I settantaquattro che finirono sotto
processo il 1 Gennaio 1855 a
Torino dovevano rispondere
solo di furto di alimentari o
danni materiali.
Ma un’altra e più rilevante motivazione all’azione subdola del
Primo Ministro sabaudo era
relativa all’aspetto giuridico.
L’obiettivo era costituito dai
rapporti intercorsi fra Cavour,
il Partito Clericale e la Magistratura. Si ricorda qui come
tra Cavour e il Clero non correva buon sangue. Egli intervenne personalmente al Parlamen-
to di Torino per chiedere “la
cacciata di diversi ordini religiosi dal Regno”, proprio citando le accuse del processo ai
“tumulti della Valle d’Aosta”.
Nel settore della stampa, il “foglio cattolico torinese, L’Armonia…aveva previsto l’esplosione in tutta la Valle del regno
del terrore…”.
Il conte Edouard Crotti si prodigò in un’appassionante difesa
dei religiosi anche attraverso la
pubblicazione di “un memoriale”, ma i quattro sacerdoti furono accusati, imprigionati a
Bard per “insurrezione” e poi
trasferiti nelle carceri a Torino.
A seguito di accuse false, riportate nel libro col testo in francese i quattro sacerdoti furono
condannati per la violazione
delle Leggi Siccardi del Parlamento Subalpino, che puniva i
rappresentanti del Clero “la
censura delle Istituzioni dello
Stato”. Una “sentenza mite”,
sorta di compromesso fra le
parti in causa riconosceva l’esistenza di un partito clericale
con diritto di espressione, anche per sminuire le cause del
malessere sociale che provocò
le tensioni. In carcere restarono solo tre montanari, uno dei
quali aveva bruciato e lacerato
due bandiere, tricolori. Tuttavia, le pressioni di Cavour furono ignorate poiché I magistrati
avevano agito “secondo una
norma garantista, in vigore dal
1851 che impediva al potere
politico di interferire nelle carriere dei Giudici”. Gli orgogliosi socques dell’Arpitania e il loro clero beneficiarono di questo inatteso risvolto, si afferma.
Probabilmente questo caso potrebbe essere considerato il preludio ai tanti processi che seguiranno nella vita futura storia giudiziaria italiana. Se in
passato gli Arpitani e i popoli
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Padana
padani hanno perso la propria
indipendenza e identità, oggi,
vi sono ancora vittime dei reati
d’opinione e i condannati, va
ricordato, invocano richieste di
libertà.
S. G.
Paolo Gulisano e Brid O’Neill
La notte delle zucche
Milano: Editrice Ancora, 2006
96 pagine, Euro 7,00
Grandi zucche forate illuminate dall’interno; scheletri e cupe
figure incappucciate; risate agghiaccianti e un ritornello ossessivo: dolcetto o scherzetto?
Tutto questo è Halloween, una
moda, una festa, una nuova
consuetudine che si è imposta
negli ultimi anni, grazie alla
persuasività di cinema e televisione, dopo il pionieristico lavoro fatto da parte dei fumetti
(ricordate Linus in perenne attesa del Grande Cocomero, tra
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Padana
la scettica perplessità di Snoopy?).
Ormai la festa di Halloween è
entrata perfino nel mondo della scuola: non pochi sono gli
istituti scolastici,dalla scuola
primaria a quella superiore,
dove gli insegnanti fanno festa
insieme ai bambini, tra giochi
e disegni.
Da più parti, di fronte al crescere di questo fenomeno, si è cominciato a manifestare una
certa preoccupazione: c’è chi
vede in Halloween un ritorno a
forme di “paganesimo”, e chi
invece un rito folkloristico e
consumistico, una specie di innocuo carnevale fuori stagione.
Chi ormai più si ricorda, non
solo tra i bambini e i giovani e a
livello massmediatico popolare,
la festività cristiana che Halloween va soppiantando: Ognissanti. Il 1 novembre, quando è
ricordato nell’accezione cristiana dai mezzi di comunicazione, è praticamente confuso
con la festività dei defunti, che
cade in realtà il giorno dopo.
Eppure il nome Halloween altro non è che la storpiatura americana del termine - in inglese di Irlanda – All Hollows’
Eve: la vigilia di Ognissanti.
Questa antichissima festa arrivò negli Stati Uniti insieme
agli emigranti irlandesi, e là si
radicò, per subire poi, in tempi
recenti, una radicale trasformazione.
Dagli schermi di Hollywood la
moda di Halloween è arrivata
così da qualche anno nella vecchia Europa.
Per conoscere bene la storia di
Halloween, le sue origini, i si54 - Quaderni Padani
gnificati dei simboli e cento altre curiosità è giunto in questi
giorni nelle librerie un agile
volumetto, scritto a quattro
mani da Paolo Gulisano, uno
dei più apprezzati esperti di
Tolkien, di letteratura fantastica
e di mitologia celtica, collaboratore dei Quaderni e da Brid O’Neill, studiosa irlandese di miti
e folklore trapiantata negli Stati
Uniti. I due autori portano i lettori indietro nei secoli, fino a
quella grande festa celebrata
sin dai più lontani tempi da
parte dei Celti il 1 novembre.
Una festa antichissima che ha
attraversato i secoli, con usi e
costumi che nel tempo si sono
ridefiniti ma che hanno conservato lo stesso significato.
I due autori ripercorrono il mito e la storia di Halloween, arrivando fino al grande caso letterario e cinematografico degli
ultimi anni, quello di Harry
Potter, nelle cui storie Halloween ricorre numerosissime
volte, segnando- tra l’altro-la
data dell’attacco di Voldemort
ai genitori di Harry e la loro
uccisione.
diana privo di senso, l’opera
dello storico e biografo Lentini
è estremamente chiara e didattica.
Chi sono gli sconfitti? Uomini
e istituzioni come “il federalismo, la Chiesa e i cattolici, i
contadini e gli operai, il popolo
e i poveretti, la giustizia sociale…”; sono contestate le modalità con cui è stata attuata
l’unità degli Stati preunitari.
Con molta chiarezza, dichiara
che il suo intento è quello di
“ricomporre una nuova unità…” - sulla quale, però, ci
permettiamo di sollevare grandi perplessità – con “valori e
diritti che non furono rispettati”. Ma anche un lettore laico
apprezza la profondità di ricerca e l’analisi lucida degli eventi
storici accaduti.
Il primo “sconfitto” per eccellenza è dunque il federalismo,
sorta di chimera desiderata dallo stesso Cavour e da Giovanni
Mastai Ferretti, più noto come
Gerlando Lentini
La bugia risorgimentale.
Il Risorgimento italiano
dalla parte degli sconfitti
Rimini: Il Cerchio 1999
91 pagine, 19.00 Euro
Incisivo e scritto con un’ottica
cattolica, questo libro affronta
in tono revisionista il processo
risorgimentale, “anello debole”
di un periodo che la storiografia italiana ufficiale ritiene fondamentale per la formazione
dell’entità statuale italiana. Se,
in effetti, la particolarità di
questa fase storica si rivela
sempre più strumentalmente
utilizzata per mantenere uno
“status quo” nella realtà quoti-
papa Pio IX. Delle tre forme di
unità - federazione, confederazione o annessione - si scelse,
non a caso, la peggiore; nonostante l’intervento del Papa per
“un progetto di unificazione
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elaborato da prelati” come Antonio Rosmini e “dal giurista
redattore della Carta Costituzionale svizzera Pellegrino Rossi”.
I moti rivoluzionari del 1848 e
il rifiuto del re Carlo Alberto a
negoziare con i popoli, preclusero ogni dialogo sulla scelta
istituzionale da adottare. Le
leggi anticlericali tra il 1850 e
il 1855 e cioè la soppressione
degli ordini religiosi che non
svolgevano funzioni sociali,
contrastano il principio cavouriano del “Libero Stato in libera Chiesa”. E lo stesso imperatore francese Napoleone III fu
vittima del “doppio gioco” di
Cavour nell’accordo del 1858 a
Plombières: l’allenza contro
l’Austria era finalizzata ad attuare una futura Confederazione. Invece, seguiranno solo
“plebisciti fasulli al 99% che
avrebbero legittimato l’annessione” con violente imposizioni. In uno scenario di schiere
di falsificatori, misfatti e corruttele che determinano il
nuovo Stato centrale, si legge
di una serie eventi degni del
miglior romanzo giallo: scomuniche eccellenti come quella comminata a Vittorio Emanuele, la profezia negativa relativa ai Savoia e riportata da
don Giovanni Bosco, il misterioso annegamento di Ippolito
Nievo sul piroscafo affondato
con la documentazione finanziaria della spedizione dei Mille e i tentativi di corruzioni dei
vertici dell’alto clero. Si arrivò,
così, all’unità d’Italia. Qualcuno se ne era accorto già allora:
per Massimo D’Azeglio “non si
poteva di fondare un’associazione umana su una serie di
furberie, di perfidie e di bugie”
e per Carlo Cattaneo è “odiosa
ai popoli...l’idea nazionale; finirà col far sospirare il passa-
to”. Lentini evidenza come
l’opportunismo del “complotto
massonico-protestante”, favorito dall’intervento di interessi
e personaggi inglesi e concretizzatosi anche nella spedizione dei Mille (1860) con Giuseppe Garibaldi (Gran Maestro
del Grande Oriente Italiano nel
1861), prevalse sul rispetto per
le identità, culture della gente
e laicizzò la Chiesa cattolica.
Religiosi e popolani si trovavano spesso uniti in un fronte
comune contro leggi vessatorie e la forte tassazione anche
di generi alimentari essenziali,
come la tassa sul macinato dei
cereali nel 1868. Citando lo
storico inglese Dannis Mack
Smith, Lentini ricorda come
“nel risorgimento italiano,
troppo era dovuto al caso e
agli stranieri, mentre lo sforzo
nazionale compiuto appariva
sproporzionatamente limitato”; oltre l’incongruenza di “giustificare la conquista di Roma
e dello Stato Pontificio sia giuridicamente sia moralmente,
dato che lo Stato italiano si
era impegnato mediante trattato a difenderlo da ogni possibile invasore.”
Cosa aspettarsi dunque dalla
creazione così innaturale di
uno Stato-Frankestein, Entità
mostruosa senza vita e orgoglio proprio? Quello che viene
spesso, e a ragione, definito
“un paese anomalo”. Le soppressioni delle istituzioni religiose, le rivolte o le cosiddette
insorgenze, il fenomeno del
brigantaggio e della mafia, nati
come reazione all’insensibile
governo dei Savoia, completarono lo scenario. L’evoluzione
dello sconclusionato Regno
italiano non convince l’Autore,
che rileva la necessità di “dare
una comune coscienza nazionale”. Ottima la riflessione se-
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Padana
condo cui “al vuoto dei valori
della tradizione storica e cattolica si volle rimediare mitizzando il Risorgimento col culto di coloro che lo avevano
realizzato, elevandoli al rango
di eroi”, quelli che definiamo
eroi da stradario. Il capitolo finale, Un popolo alla deriva,
traccia una panoramica del
crescente anticlericalismo registrato tra il 1882 e il 1900,
anche attraverso le figure del filosofo cattolico Benedetto Croce, del piuttosto conciliante di
papa Leone XIII o del più combattivo don Davide Albertario,
direttore del periodico Osservatore Cattolico al tempo di re
Umberto I. Il sovrano fu pugnalato nello stesso anno a
Monza: l’episodio era il simbolo dichiarato di “uno stato di
malessere diffuso in tutta la
società” proprio perché “le
condizioni erano peggiorate
con l’unità…” Ma il fallimento
continua.
S. G.
Ernest Renan
Che cos’è una nazione?
Roma: Donzelli editore, 2004
114 pagine, Euro 12,50
Breve e conciso volume che tutti dovrebbero leggere per formarsi una propria coscienza e
conoscenza civica, dedicato a
chi vive in nazioni non ancora
riconosciute, come i popoli padani, ma soprattutto a coloro
che continuano a nutrirsi, seppur in buona fede, di confusi
sentimenti patriottici, strumentalizzati da alcune istituzioni
stataliste con il peggior opporQuaderni Padani - 55
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tunismo. Il quesito andrebbe
dunque posto a tutte quelle
“personalità” che dall’alto dei
loro scranni quasi quotidianamente diffondono a mezzo
stampa o radiofonico e televisi-
vo le loro verità circa cosiddetti
“Unità Nazionale”, “Patria” e/o
“Paese”, proclamandone una
condivisione inesistente. È dunque auspicabile che siano i singoli a conoscere i criteri e l’essenza di una vera nazione. Ma è
altrettanto fondamentale sapere
la differenza fra il concetto di
Stato come ente giuridicamente riconosciuto e Nazione come
legame storico, culturale, sociale: è il lien social o legame
sociale riconosciuto da Fustel
de Coulanges, come si vedrà.
II tema, sempre attuale, frutto
di una conferenza del 1882 di
Ernest Renan, studioso e “suddito fedele di Napoleone III”,
scaturisce dalle riflessioni amare su un periodo in cui la Francia del XIX secolo si contraddi56 - Quaderni Padani
stingue per un insieme di situazioni storico-sociali negative: “il
crollo del Secondo Impero, l’umiliazione dell’invasione, la vacanza di ogni potere legittimo,
il collasso dei suoi concittadini”. Così, sebbene la lucida analisi di Renan offra una risoluzione sociale alla Francia del 1870,
ci è possibile riflettere sugli
“elementi primari della convivenza civile e sui fattori di sopravvivenza di una collettività
anche depredata delle sue risorse e dei suoi mezzi di difesa”. Ed
è una realtà che pare ci riguardi
da vicino quella trattata nella
prima parte del libro, mentre risultano meno interessanti le restanti relative al confronto fra
Francia e Germania, alla funzione dei popoli semitici nella storia della civiltà o all’ebraismo
come razza e religione.
L’introduzione di Silvio Lanaro,
prende spunto dal contesto storico francese e costituisce una
soddisfacente chiarificazione
teorica di alcuni concetti fondamentali, come l’inefficacia della
democrazia a suffragio universale, “perché il numero è notoriamente idiota di per sé, o come il nazionalismo; originatosi
“con la guerra franco-prussiana…”. Fu infatti il dibattito sul
destino dell’Alsazia a coinvolgere non solo i preoccupati letterati Gustave Flaubert e George
Sand, ma teorici del devastante
nazionalismo ottocentesco, come Fichte o Theodor Mommsen
da una parte e lo storico NumaDenys Fustel de Coulanges, autore della Cité antique (1864)
dall’altra. Questi, definiva l’Alsazia “tedesca per la razza e per la
lingua”, ma “per la nazionalità e
per sentimento patriottico, senza dubbio, francese”, poiché la
sua gente partecipò alla “rivoluzione del 1789”. Convinto che
“la forza non fonda nulla”, egli
giungeva, con sorprendente attualità, alla considerazione che
“è facile sentirsi francesi (ma
potremmo scrivere: italiani)
quando si gode di tranquillità,
di sicurezza e di protezione, ma
è molto più arduo… quando si
deve scegliere perché una serie
di scosse sismiche sta minando
dalle fondamenta la stabilità
dell’edificio sociale”.
Su posizioni simili si trovava il
pensiero del moderato Renan,
che, con entusiasmo ipotizzava
la possibilità di “influire sul presente” rivalutando l’elemento
storico: se nel caso francese tale
opportunità non si concretizzò,
crediamo valga, soprattutto ai
nostri giorni, la pena soffermarci sulle componenti di una nazione.
Uno dei testi della conferenza
alla Sorbona assume, ai nostri
occhi, una funzione quasi profetica: “le individualità storiche”
di Francia, Inghilterra, Germania e Russia continueranno nonostante “un tentativo di dominio universale”.
Né oblio o errore storico, né religione, razza o lingua, né etnografia sono fattori fondamentali: “una nazione è un’anima, un
principio spirituale.” Un’anima
che, “presuppone un passato,
ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il
consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a
vivere insieme.
L’esistenza di una nazione è un
plebiscito di tutti i giorni, come
l’esistenza dell’individuo è un’affermazione perpetua di vita.”
Riecheggia anche la richiesta di
un eventuale referendum di autodeterminazione dei popoli
previsto dall’articolo 1 dello Statuto dell’Organizzazione delle
Nazioni Unite. E Renan prosegue con il criterio del buon senso e della logicità, ricordando
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che “le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine.”
Ma le trombonanti “personalità
istituzionali” dello Stato italiano
sembrano ignorarlo, quotidianamente, sbandierando bandiere e
interessi nazionali subiti e storicamente mai scelti. Così, “l’esistenza delle nazioni” per Renan
ha una doppia valenza: è “un bene, persino una necessità” da
contrapporre a una “confederazione europea, che probabilmente, prenderà il loro posto”;
ma addirittura “garanzia della libertà, che sarebbe perduta se il
mondo avesse una sola legge e
un solo padrone.”
Paragonate a veri e propri individui con pregi e difetto di esistere, le nazioni sono personificazioni di un’umanità vista nella sua totalità e libertà d’espressione: “le dissonanze marginali
spariscono nell’insieme.”
Sembra quasi che Ernest Renan conosca i Padani e rivolga
soprattutto a loro una riflessione con una nota di dolore e sofferenza circa il futuro. È uno
scenario in cui si prevedono dolori, ma “fintanto che questa
coscienza morale mette alla
prova la sua forza attraverso i
sacrifici richiesti dall’abnegazione dell’individuo a favore di
una comunità, essa è legittima,
ha il diritto di esistere.
Renan sembra prefigurarsi anche le eventuali obiezioni affermando: “Se si sollevano dubbi
sulle loro frontiere, consultate
le popolazioni contese. Aspettiamo, Signori; facciamo passare il regno dei geni (della politica); sopportiamo il disprezzo di
chi si sente forte. Il modo per
avere ragione in futuro è, in
certi momenti, sapersi rassegnare a esser fuori moda”. Forse, il futuro è già iniziato.
S.G.
Stephen P. Halbrook
La Svizzera nel mirino.
La neutralità armata
della Svizzera nella seconda
guerra mondiale
Locarno: Pedrazzini Edizioni Verbania: Alberti Libraio, 2002
310 pagine , 30.00 Euro
Perché un libro sulla Confederazione Elvetica? La prima risposta ci è fornita dall’autore,
avvocato statunitense, docente
di Filosofia della Storia e ricercatore di temi giuridici e militari svizzeri: ristabilire perché
contro la Svizzera “la verità
storica potesse venire alterata
per pura propaganda” nel periodo 1933-1945. Nello specifico, come suggerito nel sottotitolo, si tratta con estrema chiarezza e approfondita analisi
della neutralità armata durante la Seconda Guerra Mondiale
e della resistenza attuata contro una possibile invasione.
Particolarmente efficaci, le pagine introduttive completano
il quadro storico: nelle riflessioni all’edizione in lingua italiana si ribadisce come abbiano
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Padana
spesso pesato negativamente
giudizi condizionati da una
sensibilità contemporanea che
non tiene conto della realtà di
allora o da pregiudizi di natura
antisemitista. La Svizzera, infatti, diede asilo politico a un
gran numero di rifugiati ebrei.
Brevi cenni di storia del Canton Ticino, da sempre distintasi per spirito libertario, si intrecciano con momenti di
quella padana, come la rivolta
della Val d’Ossola e l’esilio di
Carlo Cattaneo.
Già nella prefazione, Halbrook
evidenza l’eccezionalità della
neutralità di “una nazione del
continente europeo non assoggettata all’occupazione tedesca…”, che ”ha dissuaso con
successo la Germania dall’invadere e occupare il suo territorio. Il segreto è individuato
nella presenza di tre fondamentali elementi: “una tolleranza razziale, etnica e linguistica, una lunga tradizione democratica e un sistema politico federale decentralizzato”.
Ma non è un miracolo.
La storia della Svizzera è un
appassionante cammino di libertà, dignità e orgoglio, strenuamente ricercati da popoli
che, pur appartenendo a etnie
diverse - tedesca, francese e ticinese - hanno fatto della difesa della propria indipendenza
l’obiettivo primario. Giova ricordare, che, da tradizione, la
fondazione della Confederazione Elvetica avvenne sul prato
del Grütli il 1° Agosto 1291
per la specifica volontà dei capi
dei tre cantoni alpini di Uri,
Svitto e Unterwalden, prometQuaderni Padani - 57
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tendosi reciproca difesa in caso
di attacco esterno.
A eccezione della breve parentesi di dominio napoleonico a
cavallo dei Secoli XVIII e XIX,
è tutta una storia di indipendenza coraggiosa. Precedente a
questa data, sembra sia accaduto il leggendario aneddoto
di Guglielmo Tell,
paradigmatico di un
atteggiamento tipicamente svizzero. È
il cittadino che, grazie all’abilità di valido tiratore, rifiuta
di assoggettarsi alla
bizzarra volontà del
tiranno austriaco,
mette a repentaglio
anche la vita del figlio per affermare la
propria libertà e
quella della sua Nazione, uccidendo
poi il tiranno con
una seconda freccia.
E la balestra dell’eroe nazionale non
perderà mai l’efficacia e la determinatezza, nemmeno durante la triste egemonia nazista del secolo scorso.
Grazie al principio di neutralità armata, dal 1481, la difesa
della madrepatria ha garantito
alla Svizzera di evitare conflitti
con le nazioni in guerra e conservare la propria indipendenza e unità interna. Questa concezione implica non solo una
linea d’azione ma uno spiccato
senso di responsabilità del singolo cittadino; se dalla fine del
XIX secolo tutta l’organizzazione dell’esercito è di competenza federale e non dei singoli
58 - Quaderni Padani
cantoni, da sempre la libertà
della nazione si fonda sul solido senso civico e sull’abilità
del singolo uomo a utilizzare il
suo fucile. Il fucile, si affermava nell’edizione del manuale
del 1933 distribuito a ogni maschio svizzero arruolato, è
“simbolo dell’indipendenza e
della forza della mia patria…”.
Ne conseguiva la necessità di
conoscerne al meglio l’aspetto
tecnologico, di mantenersi in
costante esercizio di tiro, anche evitando spreco di muni-
zioni e, ovviamente di fornire
una pronta mobilitazione in
caso di emergenza bellica.
Nella nuova Costituzione del
1815 l’esercito è definito popolo in armi; ogni maschio dai
diciotto anni ai quaranta è tenuto ad addestrarsi per sparare
fino a trecento metri e la Federazione svizzera di tiro a segno
fu il fulcro delle numerose manifestazioni realizzate per favorire lo spirito di concordia e
la l’allenamento. Facendo riferimento alla tradizione e alla
festa nazionale del 1° Agosto,
anche nel 1940, sul Grütli ri-
fiorì lo spirito di resistenza
contro l’offensiva di Adolf Hitler.
Negli undici capitoli del libro
seguono dunque gli avvenimenti accaduti dal 1933, vigilia della Seconda Guerra Mondiale fino al 1945, liberazione
dell’Europa dall’occupazione
militare tedesca.
La lettura ci offre pagine di
profonde e coinvolgenti emozioni: la consapevolezza di essere nel mirino di un’offensiva
pericolosa e sconvolgente,
l’angoscia per l’eventuale perdita
della libertà millenaria e la tenace
speranza di poterla
preservare, a costo
della vita, con onore. E la costante e
coraggiosa reazione
di un popolo che
crede fino in fondo
nella sua indipendenza, ricorrendo a
una grande forza
d’animo, perché
spinto dall’idea di
“difesa nazionale
spirituale”.
Nuovo Guglielmo
Tell fu uno svizzero
di lingua francese
originario del cantone Vaud,
Henry Guisan, comandante capo dell’esercito (dove “non vi
sono generali all’infuori di quello nominato dal Parlamento in
tempo di guerra”). Nella sua
strategia ricorrono frequenti i
riferimenti alla forza morale
del patriottismo e alla forza
materiale dell’esercito, considerato “l’incarnazione della
Repubblica Federale”, la cui
“forza era fondata sulla diversità”. Egli aggiunse che “il federalismo è la salvaguardia del
paese, l’unificazione sarebbe la
sua rovina”. La tattica adottata
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si sviluppava dunque su un duplice livello: quello militare e
diplomatico. Fin dal 1933 si
era a conoscenza di piani di invasione della Confederazione
da parte della Germania nazista, come comprovava l’esistenza di mappe del Reich
comprendenti la Svizzera di
lingua tedesca. Ma verso il Nazionalsocialismo, afferma l’autore citando il New York Times, la Svizzera provò “scarso
entusiasmo”. Dopo l’annessione dell’Austria nel 1938, alle
frontiere si rafforzarono le fortificazioni, si adottarono nuove
misure, come un programma
di riarmo più efficace e il prolungamento del servizio militare. A livello diplomatico, vi
fu l’uscita dalla Società delle
Nazioni e la messa al bando del
Partito Nazionalsocialista, oltre all’attività di controspionaggio. L’avanzata nazista in
Europa incombeva: a seguito
della sottomissione della Cecoslovacchia, la Svizzera incoraggiava la difesa spirituale nazionale intensificando gare di
tiro a segno e coinvolgendo anche le donne.
I condizionamenti furono continui e di diversa natura. Se
economicamente la Svizzera
“dipendeva dalla Francia e dall’Italia per i viveri”, a livello
mediatico, la possente propaganda tedesca di Goebbels richiedeva addirittura che “la
stampa e la pubblica opinione
dei Paesi neutrali non criticassero mai il Nazionalsocialismo.”
Nel 1940 Belgio, Danimarca,
Norvegia e Francia si arresero
alla conquista tedesca. Fu dunque necessario modificare i
piani per la politica del Ridotto:
“una fortezza costruita dentro
un’altra” per “prolungare la difesa della fortificazione principale e ricacciare l’aggressore”.
Simbolo dell’orgogliosa dignità civica svizzera, il ridotto
nelle Alpi rappresentava l’estremo tentativo di conservarne la libertà concentrando l’azione proprio dove si prevedeva il nemico avrebbe attaccato.
E tutta la restante popolazione
sarebbe ricorsa all’autodifesa.
Ma lo spirito di resistenza fu
sempre mantenuto vivo anche
attraverso società segrete, come Esercito e Focolare o Aktion, che si occupavano di tenere contatti con tutta Europa
o contro la demoralizzazione
dei civili e il razionamento dei
viveri o i frequenti allarmi ae-
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Biblioteca
Padana
rei. Non va dimenticato l’onere
dei costi economici relativi all’ospitalità prestata - talvolta
molto criticata - ai rifugiati
ebrei e politici di diversa nazionalità, ai malati, ai prigionieri e agli orfani di guerra, di
cui la Svizzera si fece carico
con un profondo spirito umanitario. Attraverso l’operato
della Croce Rossa si salvò un
elevato numero di innocenti e
perseguitati, il che attirò le
mire di conquista naziste.
Grazie alla neutralità la Svizzera poteva mantenere rapporti commerciali con Tedeschi e
Statunitensi, gestire risorse finanziarie internazionali e assumere un ruolo strategico per
attività di spionaggio. Forse
per questo forte senso di tolleranza o per l’offensiva contro
l’Unione Sovietica vi fu il rischio di un’invasione fino alla
fine del 1944, cessato solo con
la resa dei nazisti l’8 Maggio.
Oggi i principi che hanno permesso alla Svizzera di mantenere la propria neutralità restano immutati. A conclusione, merita citare quanto dichiarato da un grande esule
lombardo, Carlo Cattaneo:
“…La libertà svizzera è un’istituzione che può proteggere
le nazioni confinanti dagli effetti dei loro propri errori e dei
momentanei loro furori. Il
santuario della libertà dev’essere il santuario dell’umanità.” Ma i Padani ne sono da
sempre consapevoli e, a Padania liberata dal giogo romano,
potranno trarne i migliori benefici.
Silvia Garbelli
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Norme per i collaboratori
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I testi possono venire forniti
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su dischetti MS-Dos.
I programmi Word sono da
preferire a quelli Wordstar che
hanno una gestione a righe
che crea qualche problema di
conversione in ambiente MacIntosh. È comunque essenziale specificare sempre con
quale versione sia stato battuto
il testo.
Il testo va impaginato a correre; sarà la Redazione a curare
l’impaginazione definitiva dei
testi in funzione delle esigenze
tipografiche.
60 - Quaderni Padani
Il materiale va consegnato ad
uno dei redattori dei Quaderni
Padani o spedito a:
La Libera Compagnia Padana
Casella Postale 55
Largo Costituente, 4
28100 Novara
Il materiale - pubblicato o non non viene restituito.
Tutte le collaborazioni sono
gratuite.
Gli autori di testi pubblicati
hanno diritto a ricevere 3 copie del numero dei Quaderni
Padani su cui è apparso il loro
contributo.
Immagini
È preferibile che i testi siano
accompagnati da immagini in
testo o fuori testo, fornite di
didascalie.
Le immagini vanno consegnate sotto forma di disegni al
tratto o di stampe fotografiche
(meglio se in bianco e nero) di
formato massimo A4 (cm 21 x
29,7).
Il formato massimo di stampa
sulla rivista è di cm 10 x14,5
(h).
Eventuali immagini già digitalizzate devono essere in formato TIF, in ambiente MS-Dos.
Nel caso di grafici o torte realizzati in altro modo, occorre
indicare con precisione il
software che li ha generati.
Redazione delle note
Le note devono essere indicate
nel testo con numero ad esponente o con numero fra parentesi.
Tutte le note vanno consegnate impaginate alla fine del testo: sarà cura della Redazione
inserirle a pié di pagina.
I riferimenti ai libri vanno indicati come segue:
Romano Bracalini, Cattaneo.
Un Federalista per gli Italiani
(Milano: Mondadori, 1995),
p.112
Il titolo è sempre in corsivo.
Ove non ci fosse l’indicazione
di editore si indichi: s.e.; ove
manca il luogo di pubblicazione: s.l.; ove manca l’anno di
pubblicazione: s.d.
Per libri già citati in precedenza nell’articolo si dirà
Romano Bracalini, op.cit.,
p.112
Per libri citati in successione
immediata si dirà:
Ibidem, p.112
I riferimenti agli articoli vanno
indicati come segue:
Corrado Galimberti, “Una lingua, un Popolo”, su Quaderni
Padani, n.1, Estate 1995,
pp.24-25
Bibliografia
Le eventuali bibliografie vanno
riportate alla fine del testo con
le modalità che seguono.
Libri (in ordine alfabetico per
autore):
- Bracalini, Romano. Cattaneo.
Un Federalista per gli Italiani.
Milano: Mondadori, 1995
Articoli (in ordine alfabetico
per autore):
- Galimberti, Corrado. “Una
Lingua, un Popolo”. Quaderni
Padani. n.1. Estate 1995.
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Piccolo Dizionario
Grammaticale
Abbreviazioni e sigle
Evitare le abbreviazioni. Ad
esempio: L’articolo 3 della legge (e non l’art.3...); il senatore
Rossi (e non il sen. Rossi), eccetera (e non ecc. o etc.).
Si possono usare abbreviazioni
come tv, dc (per democristiano
e non per Democrazia Cristiana), ndt, ndr.
Le sigle vanno scritte come nomi propri con l’iniziale maiuscola e il resto minuscolo e
non separato da punti. Ad
esempio: Anas, Anci.
Per chiarezza spiegare il significato, nel caso si usi una sigla
poco nota, la prima volta che
compare nel testo.
Esempio: l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani.
A capo
Si usi l’«a capo» con discernimento perchè serve a indicare
un periodo.
Analoghe considerazioni vanno fatte sull’opportunità di
non abusare del salto di riga
per dare risalto alla separazione fra due argomenti trattati.
In questi casi è più opportuno
utilizzare dei titolini.
Accenti
In italiano, l’accento sulla e è
grave solo su: è e cioè.
In tutti gli altri casi ci vuole
l’accento acuto: poiché, affinché eccetera.
Gli accenti diversi (circonflessi eccetera) e gli altri segni
presenti nelle lingue straniere
o nelle lingue locali (“umlaut”, “tilde” eccetera), che
non possono essere tracciati
con il programma di scrittura
usato, andranno segnati a mano in rosso sulla stampata.
Le “umlaut” (ü) possono essere sostituite dal dittongo ue.
Alfabeti diversi
Le lettere di alfabeti diversi da
quello latino (greco, cirillico
eccetera) vanno chiaramente
tracciate in rosso sulla stampata. Ove tali lettere non fossero
reperibili nel programma di
scrittura usato, deve essere lasciato uno spazio ben identificato nel testo su dischetto e il
riferimento sulla stampata deve essere molto preciso.
Citazioni
Vanno riportate fra virgolette
(“”) e devono sempre cominciare con la maiuscola. Esempio:
Ha detto: “Verrò a trovarti”.
Corsivo
Si impiega solo per:
1) le testate dei giornali e delle
riviste;
2) i titoli di libri, film, quadri,
lavori teatrali;
3) i nomi scientifici latini di
animali e piante;
4) nelle note in parentesi seguite da ndr o ndt (che vanno
invece in tondo).
Il corsivo non si adopera per
dare enfasi a una parola o a
un’espressione, né per le parole
di altre lingue, né per i nomi di
monumenti o navi. Ove nel
programma di scrittura impiegato non esistesse una specifica
caratterizzazione del corsivo, si
sottolinei la parola indicando
però sulla stampata che si intende proprio un corsivo.
Decenni
Si scrivono sempre in lettere
con maiuscola iniziale. Esempio: gli anni Sessanta.
“D” eufonica
Va usata solo nell’incontro di
due vocali uguali. Esempio:
Franco ed Enrico, ad Arona.
Nell’incontro di vocali diverse
si omette sempre. Esempio: A
una a una, e io, a Este.
Anno Xll, N. 68 - Novembre-Dicembre 2006
Grassetto
Viene impiegato per i titolini o
per segnare frasi particolarmente importanti. In caso di
programmi di scrittura che
non hanno il grassetto si indichi con chiarezza in rosso sulla
stampata dove deve essere applicato.
Maiuscole
Paese e Repubblica, Stato, Parlamento, Senato, Provincia,
Comune, Chiesa, Costituzione,
Dio eccetera si scrivono con la
maiuscola quando indicano la
“personalità” e la “unicità” dell’ente che designano; per intendere, insomma, che si stà
parlando del Parlamento (italiano e non di un qualsiasi paese), del Comune (di Milano e
non di un qualsiasi comune).
Nord, Sud, Est, Ovest si usano
con la maiuscola quando indicano realtà geopolitiche e con
la minuscola quando indicano
direzione.
Nelle denominazioni di enti o
associazioni formate da più di
un nome, prende la maiuscola
soltanto il primo. Esempio: Associazione nazionale comuni
italiani.
Per i ministeri, prende la maiuscola il primo dei termini che
designa il ministero stesso.
Esempio: ministero dei Lavori
pubblici, ministero di Grazia e
giustizia.
Si usa la maiuscola quando si
parla di Terra, Sole e Luna intesi come astri e la minuscola
quando si indica l’elemento fisico conseguente.
Nei nomi geografici, va con l’iniziale maiuscola solo il vocabolo che può stare da solo senza perdere significato. Esempio: il fiume Po, il Fiume Azzurro, il lago di Garda, il Lago
Maggiore.
Si usa la maiuscola dei nomi,
titoli di opere e denominazioni
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straniere così come appaiono
nell’originale. Esempio: Le Moniteur.
Nomi propri
Quando si parla di un personaggio è bene chiamarlo, per la
prima volta nel corso del testo,
con nome e cognome per esteso (quindi: Carlo Cattaneo e
non C. Cattaneo). Poi, se lo si
cita ancora, si può usare solo il
cognome.
Nomi stranieri
I nomi e le altre parole di lingue scritte in alfabeti diversi da
quello latino devono essere trascritti nel nostro alfabeto con
criteri sempre identici. Si usi
sempre, se esiste, una grafia
ormai consacrata. Esempio:
Gheddafi.
Per i nomi geografici si usi
sempre, se esiste, la grafia italiana. Esempio: Parigi e non
Paris, Ragusa e non Dubrovnik.
Numeri
Di norma si scrivono in cifre.
Esempio: 20 lire.
Si scrivono però in lettere:
1) i numeri da zero a dieci
compreso (due chilometri);
2) cento, mille, mila, milione,
miliardi (un milione di lire);
3) i numeri all’inizio di un periodo (Ventisette secoli);
4) i numeri che hanno un valore aritmetico attenuato (la vita
è bella a vent’anni).
Si scrivono sempre in cifre le
indicazioni di data, orario e simili. Esempio: il treno delle 6,
il 13 gennaio.
Ordinali
Si scrivono in cifre o in lettere
seguendo le regole dei numeri
e aggiungendo il segno tipografico ordinale. Esempio: il
terzo palazzo, il 23° giorno.
62 - Quaderni Padani
Ove il programma di scrittura
non avesse il segno °, lo si indichi con una lettera e lo si segni
sulla stampata in rosso. Esempio: 23o per ventitreesimo.
Si scrivono sempre in numeri
romani gli ordinali che sono
parte di un nome proprio o di
un nome di un regnante.
Esempio: la nave Berta III, Carlo V.
Percentuali
Si scriva sempre il numero in
cifre, seguito dall’espressione
“per cento” in lettere. Esempio:
2 per cento.
Il segno % si usa nei grafici e
nelle tabelle e non nei testi.
Plurale di nomi stranieri
Non prendono il plurale e restano invariati i nomi di origine straniera entrati nell’uso
corrente. Esempio: quattro
tunnel, tre cognac.
Restano nella forma plurale solo quelli entrati nell’uso corrente al plurale. Esempio: i
peones di Montecitorio.
Prendono invece il plurale i
nomi stranieri non entrati nell’uso italiano e impiegati tra
virgolette.
Punteggiatura
Davanti ai segni di punteggiatura non si deve mai mettere lo
spazio bianco che è invece obbligatorio subito dopo.
Il non rispetto di questa regola
provoca seri problemi nell’impaginatura elettronica dei testi.
Non si usa la virgola davanti a
“eccetera”.
Secoli
Si scrivono, ove possibile, in
lettere e con maiuscola. Esempio: il Trecento, il Duemila.
Negli altri casi si usa il numero romano.
Esempio: nel IX secolo.
“Avanti Cristo” e “dopo Cristo”
si abbreviano in “aC” e “dC”.
Secolo può essere abbreviato in
“sec.” solo nelle note.
Sottolineature
Ove non fosse presente nel
programma il segno di sottolineatura, si indichino sulla
stampata in rosso le parole da
sottolineare. Dove si usi normalmente la sottolineatura come segno grafico per indicare
il corsivo e si intenda invece
effettivamente sottolineare
nella stampa del testo una parola, lo si segni con particolare
cura sulla stampata.
Titoli
Gli autori devono indicare titoli e sottotitoli dei loro interventi. Essi possono essere modificati per esigenze redazionali.
Titolini
Gli interventi di particolare
lunghezza vanno suddivisi in
capitoli contrassegnati da un
titolino che andrà stampato in
grassetto.
Si consiglia di usare titolini anche per indicare il trattamento
di specifici argomenti all’interno del testo.
Virgolette
Le virgolette (“”) si usano solo
per i seguenti casi:
1) per il discorso diretto e
quando si riportano frasi e parole testuali o citazioni;
2) quando si riportano parole
di lingue straniere o locali non
entrate nell’uso corrente;
3) quando si vuole dare particolare enfasi a una parola o
mettere in rilievo che viene
usata con un senso diverso da
quello usuale.
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La forza della Padania
sono le idee
I Quaderni Padani sono pubblicati bimestralmente da La Libera Compagnia Padana, una associazione che ha fini solo culturali e che riunisce tutti
coloro che - al di là delle differenze ideologiche - credono nell’autonomia
dei popoli padano-alpini.
Il solo modo per ricevere con continuità i Quaderni è di aderire alla Libera
Compagnia.
La quota associativa annuale è di € 50.
Essa dà diritto a ricevere i Quaderni, un libro e ogni altra pubblicazione o
materiale edito dalla Compagnia.
Il pagamento può essere effettuato:
❏ Inviando la quota all’indirizzo postale de “La Libera Compagnia Padana”
(Casella Postale 55, Largo Costituente 4, 28100 Novara) con assegno non
trasferibile intestato a “La Libera Compagnia Padana”.
❏ Mediante bonifico sul Conto Corrente Bancario numero 1403, intestato a
“La Libera Compagnia Padana” presso l’agenzia di Novara della Banca Popolare di Novara (Cod. ABI 5608, Cab 10101).
❏ Mediante Conto Corrente Postale numero 38261202, intestato a “La Libera Compagnia Padana”.
Si prega di allegare o far pervenire in ogni caso alla sede postale della
Compagnia la scheda di adesione compilata in ogni sua parte.
Si raccomanda di non pagare con Vaglia Postale!
Lo statuto dell’Associazione è stato pubblicato sul numero 51-52
dei Quaderni Padani.
Le Norme per i collaboratori sono pubblicate
su questo numero.
Entrambi i documenti sono reperibili anche sul sito
dell’Associazione
La Libera Compagnia Padana
Casella Postale 55, Largo Costituente 4, 28100 Novara
Tel. 333-1511182
E-mail: [email protected]
Sito Internet: www.laliberacompagnia.org
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Scheda di adesione
a La Libera Compagnia Padana
Cognome
Nome
Luogo di nascita
Data di nascita
Residenza: Città
Prov.
Cap.
Via
tel. casa
telefonino
tel. ufficio
fax
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❐ Rinnovo ❐ Nuovo associato
Modalità con cui è stato effettuato il pagamento:
❐ Contanti
❐ Bonifico bancario
cc 1403 Banca Popolare Novara
cod. ABI 5608, CAB10101
Firma
❐ Assegno bancario
❐ Versamento in cc postale
❐ Assegno circolare
N° 38261202
Data
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Secondo quanto previsto dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, i dati personali verranno impiegati solo ed esclusivamente per
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Pagina 3
Abbiamo pubblicato:
Quaderni n. 61-62 - Settembre-Dicembre 2005
Repetita iuvant - Brenno
50 buone ragioni per l’indipendenza - Gilberto Oneto e Giancarlo Pagliarini
I numeri dell’oppressione
Quaderni n. 63 - Gennaio-Febbraio 2006
Chi sceglie i rappresentanti del popolo? - Brenno
Identità, occidente e società multiculturale - Davide Gianetti
Monopolio: una questione di Stato - Cristian Merlo
Ricordo di Silvio Vitale, patriota napoletano - Adolfo Morganti
Filippo Curletti, agente “pentito”
di Cavour - Elena Bianchini Braglia
Nel 1953 il contadinismo piemontese
sconfisse la “legge truffa” - Roberto Gremmo
Politica linguistica e minoranze autoctone
in Francia - Fabio Ratto
Lettera alla Libera Compagnia Padana - Giorgio Garbolino Boot
Quaderni n. 64-65 - Marzo-Giugno 2006
Una riserva di libertà – Gilberto Oneto
1945-04-27 “Ciò che attendiamo dagli Alleati e ciò che loro
daremo” – Il Cisalpino
1945-08-05 “La realtà nazionalista” – Il Cisalpino
1947-07-03 “Diritto di resistenza” – Il Popolo
1950-02-11 “Le regioni oggi” – L’Italia
1975-12-28 “La Padania e le grandi regioni” – Corriere della Sera
1976-03-20 “Come risolvere i problemi
del sud?” – Corriere della Sera
1987-09-11 “L’Italia delle cento leghe” - Il Sole 24 Ore
1987-09-16 “In dialetto contro lo Stato” - Il Sole 24 Ore
1990-03-21 “Per un’Italia quasi federale” – Il Sole 24 Ore
1990-06-09 “L’Italia unita dalla retorica” - IIl Sole 24 Ore
1990-07-10 “Ma è nel federalismo che emerge
la modernità” - IIl Sole 24 Ore
1990-12-27 “Caro Cossiga, la Costituzione
ti protegge” - Il Sole 24 Ore
1990 “Etica, politica e problema
della democrazia” – Orientamenti, n. 9-10
1991-02-21 “Chi alzò la spada dell’Islam” - Il Sole 24 Ore
1991-02-22 “San Tommaso senza eredi” - Il Sole 24 Ore
1991-05-10 “Un’idea orientata verso il futuro” – Europeo
1992-03-05 “Come sarà la Federazione” – Lombardia Autonomista
1992 “Io e la sinistra” – Micromega, n. 2
1992-07-29 “Che grave errore negare ai siciliani
l’indipendenza” – Corriere della Sera
1992-12-10 – “Battaglia d’arresto” – L’Indipendente
1992-12-31 – “O centralismo o sfascio totale:
rozza teoria” – L’Indipendente
1993-05-11 – “Miglio: riscoprire Sturzo? Sì, ma quello
federalista” – La Stampa
1993-08-05 “Miglio: il voto degli emigrati splendido autogol
dei partiti” – Corriere della Sera
1993-09 “Ex uno plures” – Limes
1993-10-15 “Le mie grandi regioni” – Corriere della Sera
1993 Lo Stato unitario – dal libro di Giuseppe Caravita
1994-01-26 “Sarò custode del federalismo” – Lega Nord
1994-02-22 “Ai lombardi i risparmi dei lombardi” – Il Giornale
1994-02-28 “Una Costituzione federale per restituire la libertà
agli italiani” – Lega Nord
1994-04-14 “Miglio risponde a Sartori
sul presidenzialismo” – Corriere della Sera
1994-06-14 “Il profesùr contro Speroni: no al federalismo
avventurista” – Corriere della Sera
1994-08-21 “Nel dibattito tra garantisti e rigoristi evitiamo
un’Italia a legalità limitata” – Corriere della Sera
1995-01-10 – “Il mio federalismo unica soluzione” – Il Giornale
1995-03-01 “L’Assemblea Costituente è un inganno” – Il Giornale
1995-03-29 – “Per salvare il Paese bisogna cambiare
la Costituzione” – Il Giornale
1995-05-07 “Come cambiare la Costituzione” – Il Giornale
1995-06-18 “La Repubblica incaprettata” – Il Giornale
1995-08-20 – “La corruzione nei Comuni è figlia
del centralismo” – Il Giornale
1995-08-27 “Perchè non è possibile sopprimere le regioni
a statuto speciale” – Il Giornale
1995-11-16 – “Perchè le elezioni non bastano a cambiare
il Paese” – Il Giornale
1996-01-25 – “Il coraggio di un vero federalismo” – Il Giorno
1996-05-16 – “Appello ai lombardo-veneti” – Il Giornale
1996-06 – “Evitiamo di sacrificare la diversità europea sull’altare
dell’integrazione” – Federalismo e Libertà
1996-11-12 “Travolte le garanzie della Costituzione” - Il Sole 24 Ore
1994-04 “L’interesse nazionale non esiste” - Elites
1997-09-21 “Ma questo Stato non è una creatura
viva” - Il Sole 24 Ore
1997-11-19 “Manifesto del solo federalismo possibile” – Il Giornale
1998-06-05 “Dopo la Bicamerale, ora proviamo
l’Assemblea” – Il Corriere di Como
BIBLIOGRAFIA delle operre di Gianfranco Miglio
Quaderni n. 66-67 - Luglio-Ottobre 2006
Un pugno di mosche - Brenno
● 23 Novembre 1986 - Marcia contro il fisco
Il primo fuoco di paglia - Carlo Stagnaro
Meno fisco = più libertà - Franco Miroglio
Uno che quel giorno c’era - Roberto Gremmo
Rassegna stampa
● 13 -14-15 Settembre 1996 - Manifestazione sul Po
per l’indipendenza della Padania
Dieci anni dopo - Gilberto Oneto
Monviso, il re di pietra simbolo di libertà. Un luogo sacro
per antichi e nuovi popoli - Mariella Pintus
Monviso, 13 Settembre 1996 - Gianluca Savoini
Rassegna stampa
Articoli pubblicati prima del 15 Settembre
Articoli pubblicati dopo il 15 Settembre
Il programma della manifestazione
I documenti dell’indipendenza
I numeri della manifestazione
Le pubblicazioni sulla manifestazione
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