IV. anni 1920-1922 (123-188) (pp.280-419) ------------------------------------------------------------------------------------------- Venezia 1920 (123-127) 123 La prima esecuzione della Francesca da Rimini, «Il Giornale di Venezia», *.2.1920 Ai tanti successi che coronarono tutte le esecuzioni della «Francesca da Rimini» di Zandonai, si aggiunge quello ottenuto iersera a Venezia. Successo reale, sentito, unanime da parte di un pubblico che gremiva il teatro. Applausi scroscianti e chiamate insistenti suggellarono la fine di ogni atto. Il pubblico veneziano ha mostrato di apprezzare nel suo giusto valore l’opera tutt’altro che facile da valutare ad una prima audizione, ha mostrato di essere maturo e colto per comprendere una manifestazione artistica di alta portata, che non sfoggia lenocinii per ingraziarsi gli ascoltatori, che domanda anzi un giudizio pacato e meditato. Il maestro Fabbroni nel concertarla e dirigerla ha vinto una battaglia. È questa una di quelle opere che non può dirigere chi non possieda un sottilissimo e suscettibile senso artistico, un orecchio vigile ed esperto, una conoscenza precisa dell’orchestra e delle sue possibilità. Il Fabbroni ha mostrato di possederle queste doti, e per ciò gli è stato possibile trarre dalla «Francesca», che è opera di particolari, tutti gli effetti che concorrono ed occorrono a darle la sua vera fisionomia. Il direttore d’orchestra non ha un momento in cui possa allentare la tensione della sua attenzione, tale essendo l’elaborazione strumentale e vocale di quest’opera che un attimo di abbandono può comprometterne il delicato equilibrio. Distribuzione di coloriti, sfumature di rilievi, accorgimenti ritmici, bacchetta precisa, occhio attento a tutto, sono coefficienti che hanno portato la suggestiva e completa esecuzione di iersera al successo che merita l’opera. La quale – come abbiamo detto nell’articolo di ieri – non ha risorse melodiche ma solo risorse di fattura, di grande, di geniale, di poderosa fattura. Essa è fatta per mettere a prova una capacità. Quella del maestro Fabbroni è riuscita vittoriosa. Insieme con una buona orchestra egli ha avuto un buonissimo palcoscenico. La Crestani ha impersonato con un’arte squisita Francesca da Polenta, facendola vivere nella tragica angoscia della sua vita segnata dal mal destino e tutta invasa dalla prepotenza di un amore colpevole. Ella ha cantato con una grande sicurezza di intonazione e con intensa passione la sua parte nella quale si alternano dolcezza e veemenza. Così pure il Folco-Bottaro, che dall’aver cantato la parte di Paolo nei principali teatri d’Italia ha acquistato una sicurezza d’azione che s’accoppia magnificamente colla eccellente qualità del suo canto. Ebbe un caldissimo applauso a scena aperta nel terzo atto, E la rude e violenta figura di Gianciotto, alla quale l’orchestra batté una cornice di ferro all’entrata nel secondo atto, ebbe una plasticità di rilievo da parte del baritono Roggio quale soltanto un serio artista poteva darle. Ottimo Malatestino il Cilla. Egli ha mezzi vocali notevoli e sente bene il personaggio. Seppe mantenersi degnamente fra i principali interpreti, ottenendo anche un applauso a scena aperta nella prima parte del quarto atto che è tutta occupata dalla sua figura perversa. La Magnoni, la Ticozzi, la Zeni, lo Jacoppini, il Giunta disimpegnarono con la loro consueta bravura le parti minori. Peccato che il Giunti, 1 nella parte di Ser Toldo, sia stato sacrificato dalla poco lieta trovata di farlo cantare nel naso. È un’infelice ricerca, di brutto effetto, di dare un carattere (che riesce caricaturale) ad un tipo che non è un tipo e che non ne ha punto bisogno, per nessuna ragione. Buone nelle parti delle donne di Francesca la Santoro, la Carrara, la Ravelli e la Balsamo. Il loro affiatamento riuscì delizioso nei canti madrigaleschi del primo e del terzo atto, Insieme col coro maschile, che compare in poche battute nel secondo atto, esse furono istruite ed affiatate dal maestro Cusinati col senso d’arte e colla conoscenza del canto d’assieme che egli possiede. Coadiuvarono infaticabilmente il Fabbroni e il Cusinati i maestri Zardo e Russo e il direttore di scena Capuzzo. Poco i macchinisti!... La messa in scena è buona e abbastanza fedele alle didascalie de libretto. È però da sperare che nelle sere seguenti la caldaia in cui bolle la pece greca nel secondo atto stia pure senza mandar fumo. Sarà un’illusione scenica di meno, ma una felicità di più per i polmoni degli spettatori. Stasera la «Francesca» si ripete e siamo certi che il successo confermerà l’esito della prima esecuzione. La direzione del teatro inviò un telegramma di felicitazione al maestro Zandonai e uno alla Casa Ricordi, segnalando il successo dell’opera e del maestro Fabbroni. 124 s.m., ‘Francesca da Venezia», *.2.1920 Rimini’ di Zandonai al Malibran, «Gazzetta di L’aspettativa per l’opera di Riccardo Zandonai, che giungeva sulle scene veneziane con un ritardo tale da suscitare le più malinconiche considerazioni sulla decadenza del nostro ambiente musicale e teatrale, era immensa e lo dimostrò la folle enorme, malgrado gli aumentati prezzi dei posti, che gremiva iersera il «Malibran» dandovi un aspetto imponente. Il pubblico veneziano ha mostrato di comprendere l’opera nuova che giungeva a lui dopo una lunga serie di successi e di apprezzare tutta la nobiltà e tutta l’importanza del lavoro che rappresenta non soltanto una... variazione sullo sfinito, purtroppo, tema del melodramma moderno più o meno abilmente costrutto, ma la concezione di uni spirito nobile, forte, sereno, contrastante fermamente con gli ideali di molta parte dei pubblici d’oggi; ha mostrato di comprendere ancora che il giovane maestro trentino ha dato con la sua «Francesca» prova di tale serietà d’intendimenti e di così robusta preparazione da doversi considerare oggi come uno dei nostri più valorosi musicisti. Ed il successo fu degno dell’opera: caloroso, serio, convinto. Non eccessi d’entusiasmo ma sincerità di applauso. Discussioni, opposizioni o meglio obbiezioni convinte e certo non del tutto infondate ed apologie ugualmente disinteressate: insomma il successo che dovrebbesi desiderare per ogni opera d’arte. Le cifre del successo: venti chiamate, precisamente quattro dopo ogni calar di sipario, agli esecutori ed al maestro Fabbroni, un entusiastico applauso a scena aperta a Costantino Folco Bottaro nel terz’atto ed uno cordiale a Luigi Cilla nella prima parte del quarto. Della magnifica affermazione dell’ingegno dello Zandonai, che io avevo ascoltato in una bellissima edizione diretta dallo stesso autore recentemente, ho cercato di dare una sommaria relazione ieri, ed oggi, dopo averla riudita nella edizione, lo dico subito, veramente degna di ogni elogio curata da Piero Fabbroni, non posso che confermare il mio modesto giudizio sul valore della sua concezione musicale. Io ammiro 2 grandemente l’opera dello Zandonai, ma non posso nascondermi che nella mia ammirazione entra in massima parte il godimento intellettuale e la gioia di ritrovarmi dinanzi ad una bella creazione di un ingegno nostro che ha in sé la forza e la volontà di rinnovare il nostro infelicissimo teatro musicale degli ultimi tempi. Certo «Francesca» non è il melodramma tradizionalistico, è il dramma musicale dove è abolito il pezzo di forma chiusa e dove la melodia non si svolge secondo leggi o norme di pura architettura musicale, ma è melodia nata attimo per attimo dal sentimento governatore della parola e che nella parola non ha quella vera «espressione» che soltanto alla musica è possibile, il melodramma insomma quale fu sentito e concepito già da Claudio Monteverdi. In esso l’orchestra costituisce l’atmosfera che ravvolge l’espressione del dramma, dataci dalla declamazione e dal verso: l’elemento sinfonico viene quindi anch’esso ad essere subordinato all’elemento poetico. I personaggi si distinguono con ritmi speciali ed il substrato armonico ne esprime il carattere; non ricorre quindi la vecchia formula del leit-motif. I temi appaiono, scompaiono, variati, trasformati, quasi irriconoscibili, e non servono affatto da aiuto mnemonico * È merito di Piero Fabbroni, artista di rara coscienza, di aver saputo dare alla partitura una giusta ed equilibrata esecuzione superando le non lievi difficoltà di concertazione e riuscendo ad ottenere, si può dire perfetta, quella fusione fra la parte vocale e orchestrale che è elemento indispensabile per una lucida e bella interpretazione, per la comprensione e per il successo dell’opera. L’orchestra sotto l’impulso della sua energia determinatrice, con una omogeneità, una fusione ed una precisione di tecnica veramente mirabili, ha vivificato i bagliori della tavolozza dello Zandonai tutta accesa di un vibrante senso del pittoresco, ed ha contribuito a mettere in piena luce ogni bellezza dello spartito. Lucia Crestani è stata protagonista magnifica. Essa ha cantato con dolcezza squisita e con calore ed ha vivificato il personaggio con un’interpretazione piena di passione, di vita, di umanità. Ben si comprende come l’autore la consideri una delle migliori interpreti della sua opera prediletta e l’abbia voluta con sé nelle edizioni da lui stesso curate. Folco Bottaro ebbe un successo personalissimo, Egli ha profuso nella parte di Paolo la pienezza della sua voce drammatica ed ha cantato con grande sentimento: ebbe calore d’accenti, dolcezza di sfumature. Quale interprete si dimostrò intelligentissimo, misurato, ebbe atteggiamenti varii, plastici, quali esige la parte, non solo musicalmente ma anche scenicamente difficilissima Enrico Roggio ha incarnato la parte di Giovanni lo Sciancato da grande artista. Nel costume, nella truccatura, nel modo di rendere con misura e verità anche il personaggio fisico e morale, si appalesò attore intelligente e geniale. Vocalmente sfoggiò voce possente, intonatissima, morbida. Luigi Cilla fu un ottimo Malatestino di cui seppe comporre con grande efficacia la bieca figura. Fu molto ammirato anche per gli splendidi mezzi vocali di cui dispone e per il buon metodo di canto. Al successo dello spettacolo contribuirono la signor9na Celestina Magnoni, una ottima Samaritana, la signora Ebe Ticozzi (Smaragdi), il Jacoppini (Giullare), il Giunta (Ser Toldo) e lo Zoni (Ostasio). il complesso delle ancelle, signorine Santoro, Carrara, Ravelli e Balsamo, con la freschezza delle voci, la correttezza nell’intonazione, la lodevole distribuzione dei coloriti seppe dare rilievo degno al 3 cicaleccio del primo atto ed alla canzone della primavera, una pagina che un lirismo sottile e seducente vivifica e sorregge. Il coro ha fatto onore al suo maestro, il Cusinati, ed è riescito anche a movimentare il difficilissimo episodio della battaglia in modo superiore a ogni elogio. Una parola di particolare plauso va tributata al giovane violoncellista Enzo Mertinenghi pel modo squisito con cui ha eseguito (malgrado un incidente dell’ultima ora lo avesse privato del suo ottimo violoncello necessariamente sostituito con altro di poca sonorità e morbidezza) la melodia passionale dal disegno caratteristico che appare nel finale del primo atto, intonata dai musici che dall’alto della terrazza della casa di Francesca salutano l’arrivo di Paolo. Magnifici scenari, decorosi costumi resero con buona fedeltà il quadro d’ambiente. «Francesca da Rimini» ha vinto anche a Venezia una bella battaglia e l’ha vinta felicemente e per virtù propria. Nelle recite future, superato il nervosismo del pubblico ed eliminata qualche incertezza dell’esecuzione, inevitabili in una «première», il successo sarà certo anche più entusiastico. Dopo il successo di «Francesca» la Direzione del Teatro inviava i due seguenti telegrammi: «Casa Ricordi - Milano Comunichiamo con lieto animo caloroso successo dell’opera «Francesca». Venezia nella geniale concezione di Riccardo Zandonai, magistralmente interpretata da Piero Fabbroni salutava una nuova vibrante affermazione del genio italiano». «Maestro Zandonai - Teatro Costanzi Roma Mentre la sala del nostro Malibran risuona dalle acclamazioni all’opera vostra geniale nobilmente interpretata da Piero Fabbroni direzione Società Teatro invia deferente cordiale saluto a Voi insigne Maestro che Venezia confida poter preso ospitare.» 125 s.m., “Francesca da Rimini” di Zandonai, «Gazzetta di Venezia», s.d. [31.1.1920](*) La fama di Riccardo Zandonai è da molto tempo giunta a Venezia, dove non si può ignorare il succedersi ed il rinnovarsi di successi che il giovane maestro trentino da oltre dodici anni ormai raccoglie sui palcoscenici dei maggiori teatri d’Italia e d’America e nelle maggiori e più austere sale di musica pura. Ma il pubblico veneziano, dolorosa constatazione, ignora completamente tutta la produzione musicale, che a tali successi ha dato e continua a dare origine e che ormai dà diritto al suo autore di annoverarsi fra i più seri, fra i più promettenti musicisti in quest’epoca triste di decadenza musicale. Riccardo Zandonai è nato a Sacco di Rovereto. Ha studiato a Pesaro sotto la guida di Pietro Mascagni, e della scuola la produzione sua spesso risente. Prima ancora di essere licenziato dal Conservatorio, egli compose un poemetto sinfonico che fatto conoscere ad Arrigo Boito suscitò in questi ammirazione così piena da indurlo da presentarne e raccomandarne l’autore a Tito Ricordi che fu largo di aiuto, ne acquistò tutte le opere, tutte portandole sulle principali scene dedicandovi cure amorose e spianando al maestro la via dell’avvenire più brillante. La prima opera scritta dal Zandonai per incarico del Ricordi è «Il grillo del focolare», rappresentata per la prima volta a Torino nel 4 1908, nella quale egli rivelava le sue doti eminenti di artista creatore in un’epoca di balbettamenti sinfonici, così da imporsi al pubblico ed alla critica più severa. A Milano nel 1911 egli dava la sua seconda opera teatrale «Conchita», che racchiude pagine assai pregevoli e suggestive: la Spagna è resa musicalmente con acuto senso del pittoresco raggiungendo, con grande abilità, notevolissimi effetti di colore mentre robusta è la concezione di tutto il lavoro dove il maestro si addimostra efficacissimo interprete delle anime tormentate ed irrequiete dei due protagonisti. Solo un anno dopo Milano era chiamata a giudicare la terza opera «Melenis» che appalesa la febbre ardente dell’autore. Nel 1914 [1913] e precisamente ai 3 dicembre egli pose la parola fine alla «Francesca da Rimini» che fu rappresentata per la prima volta a Torino sulle scene del Regio il 14 febbraio del 1914 avendo a principali interpreti Linda Canneti, Francesco Cigada, Giulio Crimi e Giordano Paltrinieri, concertata e diretta dal maestro Panizza e subito dopo eseguita al Teatro Rossini di Pesaro diretta dall’autore. Di tutte le opere dello Zandonai la «Francesca» è quella che ebbe il più largo consenso ed il maggior numero di riproduzioni: fu data infatti ormai a Milano, a Genova, a Roma (due volte), a Verona, a Brescia, a Pisa, a Rovereto, a Trieste, ecc. sempre con grande successo. L’ultima fatica d’operista dello Zandonai a tutt’oggi è «La via della finestra», una commedia musicale in costume del 1830 su libretto di Giuseppe Adami, rappresentata la prima volta nell’estate del 1919 a Pesaro, che ha segnato un nuovo orientamento nell’arte o meglio nella forma e nella tecnica del maestro, i cui germi però già si rivelavano in «Francesca». Non al solo teatro però Zandonai ha indirizzata la sua produttività. Di lui infatti sono noti, per ricordare le composizioni maggiori e più apprezzate, il «Pezzo medioevale» [Serenata medioevale] per violoncello ed orchestra; una suite per grande orchestra diretta dallo stesso autore nel marzo del 1915 all’Augusteum intitolata «Primavera in Valle di Sole» composta di sei scene o meglio di sei impressioni sinfoniche distinte con questi titoli: Alba triste, primavera nel bosco, ruscello, sciame di farfalle, l’eco, raffiche di marzo [?!]; un «Concerto per violino», varie liriche interessantissime per canto e pianoforte, ecc. Egli ha scritto inoltre una «Messa da requiem» per incarico dell’Accademia filarmonica romana delegata dal Ministero della P.I. di provvedere all’esecuzione di un’annuale messa di commemorazione di Re Umberto I, e che fu appunto eseguita al Pantheon il 14 marzo 1916. Con questa composizione, che è a sole voci, egli ha saputo felicemente cogliere la profonda e sublime essenza delle parole di alcune parti della Messa e pur non distaccandosi per la forma dalla consueta architettura della polifonia vocale senza scostarsi da quelli che sono i canoni fondamentali della musica chiesastica, è riescito ad esprimere, con rinnovato e moderno sentimento, l’eterna poesia, l’epica grandezza del dolore, della morte, della vita promessa che dalle sacre parole si elevano. Egli attende ora a musicare altre due opere pel teatro il cui soggetto ha già ispirato altri autori: «Zoccoletti» e «Giulietta e Romeo». * La leggenda di Paolo e Francesca ha acceso l’estro di molti musicisti. Basti dire che la «Francesca» dello Zandonai è la trentaduesima opera che tratta l’immortale soggetto senza contare i tre poemi sinfonici di Antonio Bazzini, di Pietro Maurice e di Pietro Tschajckowsky [sic], le due cantate di Nicola Zingarelli (Roma 1825) e di Angelo Flégier (Parigi 1869), e gli intermezzi di Antonio Scontrino per la tragedia di d’Annunzio e di Gabriele Pierné pel dramma di Mario Crawford. 5 La prima di tali opere che si conosca è dovuta a Luigi Carlini su parole di F. Romani rappresentata al teatro S. Carlo di Napoli il 19 agosto 1804. Una scritta da Pietro Generali su parole di Paolo Pola fu rappresentata la prima volta la sera di Santo Stefano del 1829 sulle scene della nostra «Fenice» dove cinque anni dopo ne veniva eseguita un’altra di Antonio Brancaccio. Altre due furono rappresentate per la prima volta al teatro «Eretenio» di Vicenza, una nel 1923 dovuta a Feliciano Strepponi ed una nel 1848 dovuta a Francesco Cannetti. * Il libretto della «Francesca» di Riccardo Zandonai è formato dal testo della tragedia di Gabriele d’Annunzio, opportunamente sfrondato di alcuni episodi scenici e di molti brani narrativi. La riduzione fu curata da Tito Ricordi e bisogna convenire che egli è riescito mirabilmente nel suo intento di alleggerire la compagine folta del testo dannunziano riducendola a libretto d’opera senza che i tagli operati guastino la linea artistica, la continuità logica della tragedia. La vicenda drammatica è rimasta quindi in fondo immutata. Il libretto oltre che eccellente pel taglio delle scene rimane smagliante per la forma letteraria. * «Francesca da Rimini» è opera d’arte nel più lato senso della parola. Racchiude infatti pregi intrinseci d’arte, primi fra tutti la fusione dell’ambiente drammatico coll’ambiente musicale e la ricchezza, la varietà, la potenza dell’orchestrazione e dell’armonizzazione. La declamazione musicale, per quanto non costantemente originale, è varia. In «Francesca» la parte drammatica e coloristica è in prevalenza su quella lirica. Il musicista riesce a scrivere pagine di efficacia non dubbia quando l’azione assume un carattere fosco ed angoscioso: viceversa, là dove il canto d’amore dovrebbe esplicarsi maggiormente libero, flessuoso e spontaneo, sembra he la sua ispirazione si trovi un po’ inceppata ed in contrasto colla ricerca tormentosa dei colori e degli effetti orchestrali. Questo si nota sia nell’episodio del secondo atto fra Paolo e Francesca, sia specialmente nell’ultimo duetto d’amore assai meno significativo di altre scene come quella, ad esempio, torva e vibrante tra Gianciotto e Malatestino che la precede. Questo carattere essenziale di drammaticità, se per le figure di Gianciotto e Malatestino, «lo sciancato» e «quel dall’occhio», trova riscontro nella ferocia espressa così piena e terribile nella poesia del d’Annunzio, non la trova invece per le figure di Paolo e Francesca poiché la tragedia dannunziana non tocca mai nei protagonisti un fondo d’intensa, piena e travolgente drammaticità: in essa i due cognati, pur di continuo presi nel vortice del loro peccato, sono così ciechi di passione che vi cedono come inconsapevoli: anime essenzialmente sognanti, subiscono il fosco dramma di morte che inesorabilmente li irretisce quando più sono dimentichi e sazi di baci e di carne, piuttosto che dominare, anche se poi ne saranno travolti, con volontà energica e cosciente il destino che li colpirà con lo stocco di Gianciotto. Ha inteso lo Zandonai intonare e maggiormente avvicinare fra loro le quattro figure della tragedia? Non sarebbe forse riescito più efficace mantenere come nell’opera dannunziana il contrasto fra la fiera brutalità degli uni e la spiritualità e la passionalità degli altri? L’altra caratteristica della musica di «Francesca» è il colore d’ambiente. Lo Zandonai è uno straordinario colorista: egli maneggia l’orchestra con abilità superlativa e sa, con pochissimi elementi tematici, imbastire un quadro lussureggiante e darci una sensazione perfetta dell’ambiente duecentesco. Per questo forse la sua musica interessa più di quel che non commuova. 6 Certo che talvolta l’effetto è un po’ troppo voluto e ricercato e la condotta polifonica e l’impasto e la distribuzione coloristica ricordano i modi mascagnani e pucciniani, i progressi nell’orchestrazione venuti a noi d’oltr’Alpe e la tavolozza wagneriana, straussiana e debussiana, quantunque nessuno spunto melodico di Zandonai trovi la sua radice in questi autori. Certo, ancora, che l’idea musicale non appare mai, o di rado, dominata dal soffio potente e largo della vera ispirazione, e la melodia manca di ampiezza. Zandonai stesso ha compreso tutto questo perché proprio egli ha tentato di giustificarlo. Egli ebbe in fatto a dire testualmente: «affascinato dalla bellezza dei versi ho sentita la necessità di lasciarne vivi ed intatti, quanto più era possibile, la struttura, la parola ed il ritmo e per seguire i versi e renderne l’espressione, qualche volta anche ho dovuto rinunziare alla larghezza della linea melodica, all’ampiezza di uno sviluppo musicale», ed aggiunse: «Noi abbiamo attraversato un periodo di transizione: eravamo per così dire trascinati dalle correnti che venivano dall’estero. A noi giovani specialmente si faceva una colpa di non “sapere”, di non essere tecnicamente evoluti; la critica ci chiamava addirittura ignoranti, se non tentavamo le vie più ardue ed involute. Da tutto ciò siamo stati costretti a subire e a uniformarci un po’ all’influsso delle scuole straniere e specialmente alle due tendenze, ai due caratteri più personali sbocciati nell’arte della musica teatrale dopo Wagner, Strauss e Debussy». Le pagine migliori o quanto meno di effetto più immediato sono: la scena delle ancelle ed il poeticissimo incontro di Paolo e Francesca nel primo atto; l’incontro di Paolo e Francesca sulla torre, l’episodio del lancio dalla finestra imbertescata, l’entrata di Gianciotto, la libazione dei due fratelli cui Francesca porge la coppa ricolma dopo la battaglia ed il trasporto di Malatestino ferito nel secondo; il duetto d’amore, le canzoni delle ancelle che lo precedono e la perorazione orchestrale del terzo; nel quarto il primo quadro truce e violento in cui si imprimono tragicamente le due sinistre figure di Malatestino e Gianciottoe la superba, avvincente scena d’amore fra Paolo e Francesca. Dei quattro atti, il terzo è il migliore, il più ispirato e meglio condotto; il meno felice è il secondo; il più efficacemente drammatico è il quarto, prima parte. * Il pubblico veneziano, dati i successi incontrastati ottenuti ovunque da «Francesca da Rimini», non è chiamato stasera a dare il battesimo all’opera e nemmeno un giudizio, diremo così, d’appello. Egli è chiamato soltanto a convalidare l’altrui giudizio. Non dubito che anche a Venezia la nobile opera dello Zandonai incontrerà il pieno favore. Essa fu concertata con amorosa cura da Piero Fabbroni la cui coscienza artistica ed il cui valore ben ci affidano della perfezione dell’ esecuzione, che ebbe a coadiutori validissimi ed intelligenti il maestro Ettore Zardo e Ferruccio Cusinato che istruì i cori. Interpreti principali ne saranno artisti di bella fama quali Lucia Crestani, Costantino Folco Bottaro ed Enrico Roggio che già eseguirono l’opera varie volte con grande successo anche sotto la direzione dello stesso autore. -------(*) [NOTA: nella parte sottostante, non riprodotta, si annuncia che Francesca da Rimini andrà in scena in serata al Teatro Malibran: si deve considerare questa come la prima rappresentazione, dato che l’articolo di s.m. sembra riferirsi alla prova generale. Per questa ragione l'articolo è databile al 31 gennaio 1920]. 126 7 Cesare Corinaldi, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Giornale di Venezia», *.2.1920 Nobile ed audace, caratteristica ed originale, l’arte di Riccardo Zandonai, di cui la Francesca da Rimini – autentico capolavoro della lirica contemporanea – è l’espressione più pregevole: per la stretta comunione che avvince la tragedia Dannunziana allo spartito musicale così da fonderli in un’unica opera d’arte veramente magnifica, per la non comune signorilità della forma, per la scultoria e vibrante drammaticità resa con intuito profondo, per la espressività degli accenti, per la sentita finezza dei canti, in cui è profusa ogni grazia ed ogni dolcezza, per la esuberanza delle coloriture ricche di delicata poesia, di squisita freschezza e di smaglianti, vividi bagliori. Compito arduo assai dovette essere pel maestro l’accingersi a vestire di note musicali la Francesca Dannunziana, sia perché trattasi di un’opera poderosa di organicità molto complessa, sia perché nella riduzione per la scena lirica la tragedia perde gran parte della sua impetuosa drammaticità e del suo fiero ardore, sia perché manca di talune situazioni fortemente suggestive – secondo me – assolutamente necessarie per la logica comprensione dell’azione, mentre invece il libretto di Tito Ricordi contiene episodi di scarso interesse musicale, che lo Zandonai ha potuto trattare musicalmente mercé il suo fine buon gusto e la sua aristocratica abilità tecnica. Con le mie modeste osservazioni non voglio però comunque denigrare l’opera compiuta dal Ricordi, che si è dimostrato un abile riduttore – a cui non manca certo un felice senso del teatro lirico – compiendo con rara maestria un lavoro particolarmente delicato. Per quanto non tutta l’azione che si svolge sul palco abbia la virtù di interessarci, ma anzi talora ci lasci piuttosto indifferenti, pure nell’insieme ci appare assai notevole – anche nella riduzione per la scena lirica – la teatralità del poema Dannunziano: tale è poi la comunione che fonde insieme la tragedia colla musica di Riccardo Zandonai, che – allorquando quella lo consente – si sprigiona da quest’ultima tutto il vibrante istinto della teatralità del musicista, così da apparirci poderosamente forte. Dominatore della massa orchestrale sopratutto con i mezzi e con le più iperboliche combinazioni strumentali – talora però troppo preponderanti sulle espressività vocali –, lo Zandonai ci dà l’impressione del suo grande senso teatrale: con i ritmi più audaci, con l’insistente uso ed abuso di taluni impasti volutamente monotoni, che ci infondono un senso di oppressione e di incubo, con le dissonanze e le cacofonie più strane, con la ridda tumultuante ed irrefrenabile di suoni, superbamente scatenata dalla massa orchestrale – talora però eccedente così da turbare la compostezza della linea musicale – egli rende scultorialmente tutta la vibrante tragicità del poema Dannunziano *** Ricco di movimento, di armonie imitative e di elementi descrittivi, lo spartito della Francesca da Rimini, in cui tutte le facoltà tecniche del musicista sono audacemente portate a quel confine che sarebbe assai pericoloso oltrepassare, è ricco di pregevole preziosità stilistica ottenuta con una armonizzazione assai ricercata e con impasti magnifici da cui si sprigionano canti meravigliosi per colore e finezza, che ci appaiono profondamente ispirati, sebbene forse non l’anima dell’artista ma la sua tecnica sapiente li abbia creati. Tuttociò è assai ammirevole ed ha un grande valore musicale ed artistico, tuttociò mi piace e mi dona uno squisito godimento cerebrale, ma non ha la virtù di commuovermi e di infondere nell’anima mia – e ritengo anche a quella altrui – quelle dolcezze indefinibili che inumidiscono il ciglio. 8 Con ciò non intendo certo di rilevare nella musica dello Zandonai un’assenza di spontaneità e di ispirazione melodica: tutt’altro, lo credo sincero perché in lui la concezione ideologica e la forma devono essere intimamente connesse, perché troppa freschezza sgorga dalla sua musica e perché talora – se non spesso – giungono a noi canti di ispirazione melodica dolcemente poetica ed espressiva. È doveroso invece di segnalare che la melodia squisitamente dolce ed i canti che fioriscono nella sua musica ricca di delicati e sottili disegni, da cui emana spesso un leggiadro ed inebbriante profumo di freschezza, sono generalmente originali sia nella concezione che nella forma. Sinceramente personale, adunque, che l’arte di Riccardo Zandonai non imita né quella del Verdi né quella del Boito, che non segue né la scuola Wagneriana né la Straussiana, sebbene in certi astrusi acrobatismi ed in certe arditezze di costruzione e di strumentazione troviamo qualche caratteristica dell’arte di Riccardo Strauss, sebbene in questa sua Francesca si nota anche qualche raro passaggio Wagneriano, – qualche rara reminiscenza Verdiana, che ci ricorda sopratutto l’Otello, – qualche canto armonicamente svolto ed istrumentato alla maniera Mascagnana, in attimo di terrore e di angoscioso sbigottimento reso con mezzi già usati da Giacomo Puccini nella sua Fanciulla del West. A parte tali rilievi che nulla tolgono ai meriti eccezionali di Riccardo Zandonai, a parte che in Francesca da Rimini si denota l’assenza di una vera e propria linea melodica mentre abbondano i canti frammentari, i temi non svolti ed è troppo insistente la identità di talune forme risolutive, a parte che la preponderanza orchestrale è assai prepotente, così da dominare talora esageratamente i personaggi sul palco e da renderci indifferenti alla loro azione ed alle loro espressioni canore, a parte che nell’insieme l’opera non presenta una perfetta unità organica, specialmente per colpa del librettista – a parte tuttociò – con Francesca Zandonai ci ha dato la sua opera più completa: un capolavoro squisitamente nobile e degno. Con acuto senso d’arte e con intuito profondo non comune, questo giovine musicista nostro – vanto ed onore dell’arte lirica italiana – ha reso musicalmente tuttociò che di poetico, di passionale, di supremamente tragico contiene la riduzione di Tito Ricordi ed ha vibrantemente umanizzato la sua musica caratterizzando le dramatis personae con superba arte scultoria, così che anche musicalmente ci appaiono colle loro bieche e forti passioni, coi loro istinti impetuosi e gagliardi e con la loro indomita fierezza. Specialmente la rude e vigorosa figura di Giovanni lo Sciancato e quella torva e triste di Malatestino dall’Occhio sono rese con acuto e geniale senso drammatico, giacché tutta la loro umanità e le loro principali caratteristiche sono impresse nella musica e sono riprodotte poi strumentalmente in modo da farceli distinguere l’uno dall’altro, anche nelle scene ove cozzano impetuose le loro passioni, e da darci la viva impressione di talune loro particolarità. Potrebbe, ad esempio, esser meglio riprodotta l’andatura zoppicante dello Sciancato? Assai efficace, infatti, il vigoroso ritmo ineguale e saltellante, rudemente squillato dagli ottoni: ritmo dinamico per eccellenza, che ce lo annunzia e che insistentemente accompagna ogni suo movimento e spesso taluni suoi atteggiamenti. La felina malvagità del suo triste fratello minore e la sensazione di incubo e di angoscia che ci è data dai suoi impeti biechi e feroci è caratterizzata musicalmente da una sequenza di accordi di terza a cui succede un salto discendente, e da un susseguirsi di note in gran parte sincopate, spesso raggruppate a terzina, di efficacissimo colore. In tutta la prima parte del quarto atto – di magnifico effetto teatrale – e specialmente nella scena tra Francesca e Malatestino tale forma è 9 usata con persistente insistenza, in modo da infondere al commento musicale che accompagna l’azione scenica una caratteristica drammaticità poderosamente forte. L’angoscia della dolce sorella di Francesca è resa pure da un ritmo composto con un movimento sincopato, riprodotto fugacemente – oltre che nel primo atto – anche nella seconda parte del quarto, allorquando Francesca ricorda nostalgicamente la sua piccola Samaritana. Oh, come lo Zandonai ha sentito musicalmente tutta la triste poesia di questa breve scena tra Francesca e Biancofiore! E potrebbe esser più espressivamente passionale la frase dolcissima che soavemente ci canta il violoncello allorché Paolo il Bello compare per la prima volta innanzi alla bellissima figlia di Guido Minore da Polenta? Questa meravigliosa ed indovinatissima frase di sentita ispirazione melodica e di gusto squisito la risentiremo spesso, talora un po’ trasformata nel ritmo, ogni qual volta Paolo Malatesta apparirà sul palco; nei duetti tra i due cognati; nella prima parte del quarto atto allorché Malatestino con sottile perfidia insinuerà in Gianciotto il sospetto della colpa; verso la fine dell’opera, cantata da Paolo con la frase Ti trarrò, ti trarrò dov’è l’oblio... e poco dopo agitatamente dall’intera orchestra, fino a che il truce Giustiziere con un impeto violento scuoterà l’uscio della stanza, ove si svolge poi la terrificante tragedia di sangue. *** Mentre nel primo atto – malgrado l’assenza di situazioni teatrali vere e proprie – Riccardo Zandonai ha creato pagine veramente squisite per freschezza e per delicatezza, mentre nel terzo ce ne dette di dolcemente poetiche e di nobilmente passionali, in cui si rileva spesso un’elevata e pura ispirazione; nel breve duetto tra Paolo e Francesca del secondo fu piuttosto arido, forse perché troppo intento a rendere la dinamica del movimento scenico e poi tutta la furiosa potenza della mischia: valendosi dei più iperbolici mezzi tecnici, riuscì infatti a darci una musica essenzialmente superdinamica di poderoso effetto teatrale, in cui si denota qualche caratteristica dell’arte Straussiana. Non troppo interessanti invece riescono le scene burlesche con cui si inizia il primo atto e quella tra Messer Ostasio e Ser Toldo, sebbene trattate con mano felice; ma quando dall’interno si ode venire leggero il canto delle Donne di Francesca di indovinato sapore arcaico accompagnato dal liuto e dall’arpa e commentato dall’orchestra con quella semplice melodia delicatamente espressiva che poi si risente nel brevissimo Preludietto della seconda parte del quarto atto, allora l’animo nostro è toccato da tanta bellezza e finezza di colore. E che dire del duetto tra Francesca e Samaritana che subito segue? Che dire dei canti squisitamente dolci che lo compongono, in parte riprodotti poi nella breve scena nostalgica del quarto atto, a cui già accennai? Che dire della frase «Verrà in breve anche il tuo giorno...» soavemente cantata da Francesca e del canto a due che segue poco dopo: E si vivrà, ohimè, si vivrà tuttavia... canto di un’espressione profonda, pervaso da un’infinita tristezza veramente commuove? Quanta freschezza poi nei canti di Biancofiore, di Garsenda, Altichiara e di Donella, quanto squisito sentimento nella frase annuncia e saluta l’apparizione del Malatesta, cantata prima violoncello e sviluppata poi dall’orchestra, quanta fragrante poesia Coro delle Donne di ottimo gusto arcaico: che di che dal nel 10 Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana... dolcemente accompagnato dal liuto e dal piffero. Il finale dell’atto non poteva esser reso con maggiore soavità e con più fine senso poetico. Non mi intratterrò ora sul secondo atto e sul quarto, su cui ho già avuto occasione di esprimere il mio modesto giudizio, ma bensì sul terzo che è l’atto indubbiamente migliore per la sentita nobiltà dell’ ispirazione ha sgorgato dall’anima del musicista. Oh, com’è resa la concitazione drammatica del breve dialogo tra Francesca e Smaragdi con quale grazia e con quanta finezza è composta la Canzone della Primavera, tutta soffusa di leggiadra poesia, con quanta nobile purezza e sentita passione lo Zandonai ha saputo elevare le figure di Paolo e di Francesca come ha dolcemente colorito il finale dell’atto colla rievocazione dello squisito Canto Primaverile, così da ritrasportarci nel campo purissimo di una celeste poesia! Nel magnifico duetto tra Paolo e Francesca, trapunto di squisite bellezze, specialmente si nota la frase Inghirlandata di violette m’appariste ieri... che Paolo mormora dolcemente e che nel corso dell’atto ci è strumentalmente con estrema delicatezza, così quella pure di Paolo: resa Nemica ebbi la luce, amica ebbi la notte... ricca di dolorante passionalità, così quella di Francesca: Ahi, che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra!... di grande valore espressivo. Riassumendo: mi è grato di riaffermare che la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai è la più nobile e fulgida espressione dell’arte lirica odierna, colla certezza che il pubblico veneziano tributerà un nuovo trionfo al musicista sommo che colla magnifica arte sua onora questa divina terra nostra, che dell’arte fu e sarà sempre la culla gentile127 Francesca da Rimini, «Il Gazzettino», s.d. Il temperamento caratteristico del maestro Zandonai, che si è messo in prima linea fra gli odierni scrittori d’opera italiani, ha trovato nella «Francesca da Rimini» l’espressione del suo più perfetto equilibrio. Temperamento eminentemente orchestrale, già colla «Conchita» aveva creato una musica che è tutta un’orgia di gesti orchestrali, di ritmi nervosi e irrequieti, di combinazioni di timbri eteroclite, di armonie sregolate che miravano appunto più all’effetto d’assieme che non a un risultato schiettamente musicale. Colla «Conchita» lo Zandonai imponeva il suo valore: se molte riserve si fecero allora sulla natura della sua ispirazione, molti elogi e grande ammirazione si ebbero per la potenza con la quale egli dominava l’istrumentale e lo drammatizzava. 11 Si parlò di Strauss e di Wagner e di Berlioz. Certo lo Zandonai deve aver conosciuto molto davvicino le loro partiture; molto più quelle, anzi, che le partiture italiane. Tuttavia se un’influenza si deve segnalare nell’orchestra dello Zandonai, credo che ci si può fermare al nome dello Strauss: è un’ orchestra straussiana, come straussiane sono nello Zandonai la scarsezza d’invenzione e una certa aridità tematica, alle quali supplisce, oltre all’arte di colorire, l’arte di sviluppare orchestralmente. Nella «Francesca», abbiamo detto, l’orchestra è più equilibrata. L’orgia si è stancata, e come un’eco ne risuona nella battaglia del secondo atto, in cui le note fragorose fanno fra di loro una battaglia vera in orchestra. Ed è l’atto meno musicale, anche nell’appassionarsi dell’amore fra Paolo e Francesca, anche alla fine dell’atto che sembra risentire della stanchezza per lo sforzo anteriore. In tutto il resto i timbri e i coloriti si distribuiscono in ingegnose e piane combinazioni, e in ricerche di effetti oltre che puramente orchestrali anche psicologici o descrittivi a seconda dell’azione che illustrano. In ciò noi seguiamo col più vivo interesse l’opera dello Zandonai, che con uno scarso e non sempre eccellente e originale materiale tematico fa della musica ottima, costruisce un’armatura armonica e contrappuntistica robusta e ben proporzionata, compone in una parola un’opera d’arte di cospicuo valore, che si eleva notevolmente sulla media delle moderne opere italiane. Ed è opera d’arte italiana. La sua sostanza è italiana, la sua melodia, il suo spirito sono italiani, e anche il suo vestito, comperato fuori, è stato cucito da mano nostrana. La tragedia dannunziana si svolge – a parte le poche scene violente – in un’atmosfera di musica vaga e sensuali. iridata di mille colori, festosa e gentile oppure attraversata da ondate or cupe or calde di passione. Alle voci consuete dell’orchestra, che si passano come in un giuoco frasi e temi, si uniscono voci inconsuete di viole arcaiche e liuti, strumenti d’antiche musiche ora caduti in disuso e richiamati dallo Zandonai ad aggiungere un color d’epoca alla sua «Francesca». Vi suona anche un flautone poco usato, di moderna invenzione italiana, dalla voce bassa e accaldata. Vu dovrebbe suonare una viola pomposa, che però l’autore non sempre adopera neppure quando egli stesso dirige. Gli artisti cantano in un linguaggio melodico che cerca di sviscerare il dramma e le persone. Cerca e vi riesce. Abbiamo voluto prospettare con rapidi tocchi sintetici gli aspetti più salienti della musica dello Zandonai e della «Francesca». Il pubblico che accorrerà stasera al teatro Malibran ad ascoltarla ne rileverà quei particolari che non ci è stato consentito di seguire passo passo; e l’intima unione che lega musica e libretto, e il nobilissimo sforzo del maestro Zandonai di fare un’opera che serva a richiamare i musicisti d’Italia sulla strada il cui passo è stato aperto da Giuseppe Verdi quando scrisse l’«Otello» Gli esecutori Per la prima rappresentazione di questa sera le parti sono così distribuite; Francesca, Laura Crestani – Paolo, Folco Bottaro Costantino – Gianciotto, Enrico Roggio – Malatestino, Luigi [Cilla] – La schiava, Ebe Ticozzi – Ser Toldo, Enrico Giunta – Ostasio, Angelo Zo[...] – Il giullare, Varo Jacoppini – Samaritana, Celestina Magnoni – Biancofiore, A[nn]ina Santoro – Garsenda, Ada Carrara – Altichiara, Elvira Ravelli – Adonella, Teresina Balsamo. 12 Direttore e concertatore il maestro F[abbr]oni, istruttore dei cori il maestro Cusinati. ----------------------------------------------------------------------------------------- Ancona 1920 (128-130) 128 La «Francesca da Rimini» 18.11.1920 al Teatro delle Muse, [testata non ind.], Iersera – per la quinta di «Francesca da Rimini» – il teatro delle Muse era più della quarta affollato ed elegante. Buon segno. Vuol dire che dopo il confronto con «Aida» l’avvenirismo musicale di Zandonai comincia a diffondere il suo fascino sottile ed a fare proseliti. Buon segno. Non restare insensibili dinanzi alla modernità che palpita nella musica di «Francesca da Rimini» vuol dire aver compiuto dinanzi alla propria cultura, dinanzi alla forza percettiva dell’intelletto e del sentimento, una evoluzione di importanza non trascurabile, tale da far pensare e sperare che – in un giorno non lontano – Wagner possa far di nuovo il suo ingresso al Teatro delle Muse con accoglienze assai più festose che non abbiano – illo tempore – salutato la vicenda di Tristano. È – del resto – la forza delle cose e degli eventi che così vuole. «Aida», non per la sua ispirazione immortale, ma per la sua forma, appartiene a un’età trapassata nella quale era bello e necessario che quella forma esistesse per divertire, per convincere, per esaltare. Oggi la tecnica ha aperto orizzonti vastissimi a scoperte di ingegnosità che stupiscono per la loro singolare virtù; oggi il canto ha espressioni diverse da quelle che s’usavano un tempo e trova una diversa via per giungere al cuore che – purtroppo – è anch’esso mutato e pulsa con ritmo consono al ritmo della vita attuale, dissimile – a linea quasi capovolta – da quell’altra. Certo Zandonai – a traverso la musica della sua «Francesca» dà la esatta impressione di quello che debba essere una mente di lirico in un momento di ebbrezza e questa ebbrezza comunica all’anima di chi ascolta – suggestivamente – quasi con una velenosa malìa. Ne è la riprova la crescente affluenza del pubblico – specialmente di quello popolare – dopo i teatri sbalorditivi di «Aida» i quali al superficiale osservatore avrebbero fatto credere in una inevitabile debacle di «Francesca da Rimini». Al contrario, questo guizzo di vita ancor più vibrante ed entusiasta di prima ch’essa dà – nel confronto delle impressioni – induce a fiducia confortante e lieta Dopo questa simpatica constatazione, notiamo con piacere il molto lusinghiero successo conseguito dal signor Piccaluga, tenore, qui giunto appena un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, ed andato in iscena senz’alcuna prova. Successo pienamente meritato per le sue doti artistiche che sono distintissime e tali da porre il tenore in un grado assai elevato di fronte ai suoi colleghi nella interpretazione del difficile personaggio. Il signor Piccaluga, che ha a sua disposizione una voce non molto ampia ma molto gradevole, è cantore di stile, e di stile grazioso, che sa manifestarsi in una ricchezza di colorazioni vocali degne di un maestro. Ciò che valse a conquistargli subito il favore del pubblico, anche perché, a corredo dei suoi mezzi canori e del suo elegantissimo [e] veramente squisito modo di fraseggiare, il signor Piccaluga porta l’ausilio di una interpretazione scenica accurata, indovinata e geniale. Fu festeggiatissimo. Gli altri artisti ed il direttore d’orchestra ebbero i consueti applausi. Stasera si ritorna all’«Aida». 13 Domani sesta recita di «Francesca» con lo stesso tenore Piccaluga, a prezzi popolari. Sabato «Aida». Domenica alle 14,30 matinée con «Francesca» e alla sera «Aida». 129 Momo Longarelli, Il successo ad Ancona della «Francesca da Rimini», «Il Giornale d’Italia» 24.11.1920 Ancona, 23 novembre Pubblico numerosissimo dona, ad ogni ripetuta rappresentazione della Francesca da Rimini del maestro Zandonai largo e maggior consenso di ammirazione e di plauso. La bella tragedia adriatica, ché tutta si svolge in faccia all’Adriatico, per la prima volta è stata data ad Ancona in questa stagione lirica; nella prima serata attrasse gli applausi di ammirato stupore, poi è penetrata nel pubblico con una cosciente ammirazione. È merito dell’impresario Ragazzini avercela signorilmente apprestata alle Muse, con ricchezza di scenario, con eletti elementi d’arte. La tragedia di Francesca da Rimini con parole di tenerezza e di gentilezza, con parole di definitiva umanità, ci fu donata in poche terzine da Dante, il quale volle che la folle passione di Paolo e Francesca salisse all’immortalità dell’arte in un velo di pudore che più l’umanizza. Silvio Pellico la sdilinquì, per il teatro, in morbosa romanticheria. Gabriele d’Annunzio ne fece una tragedia «di sangue e di lussuria»: egli stesso lo confessa nel proemio. E la tragedia di sangue e di lussuria, ridotta ma non mutata nella forma e nella costruzione, è stata dal magistero di Zandonai risospinta tra ineffabili velami di gentilezza e di tenerezza. Svincolarsi dall’opera dannunziana sia pur vivificata dal canto è impossibile; ma nel legame dell’opera dannunziana è superbo merito del maestro Zandonai di aver donato alla tragedia quel senso di trepida umanità che d’Annunzio aveva mortificato proprio nel sangue e nella lussuria. Egli la commenta: non sterile cantata, ma vivificazione dell’opera. E l’orchestra e il canto si muovono in un’atmosfera di melanconia primaverile, in una strumentazione dove tutte le audacie della tecnica sono magistralmente adoprate non per parossismi di novità, non per sbalordorî effetti, ma per vincolare le sensibilità a più intime comprensioni. La «viola», il «liuto», il «flauto basso» gareggiano a significar la parola della passione a dar la linea di un commento orchestrale deliziosamente decorativo. E tutta la drammaticissima scena ultima del primo atto, quando Francesca coglie una grande rosa vermiglia e la offre ammaliata al bel signore che non l’accetta perché non lui è il marito ma il procuratore – ed è Paolo – e la rosa cade; in quella scena l’orchestra dice quanto è umanamente possibile per esprimere quel nodo interiore che si stringe e che è tutto il dramma. E la canzone del calendimarzo: Marzo è giunto e febbraio gito se n’è col ghiado. Or lasceremo il vaio per veste di zendado 14 ha la malìa di quelle antiche canzoni fatte di anime più che di suoni in cui il Trecento fioriva tutta sua gentilezza. Malìa dell’antico, ma perenne, che ci riprende, che ci carezza. Qualche segno è questo di ciò che più è penetrato in noi: ma tutta è bella, la bell’opera. Dai canti abbacinati di passione di Paolo e di Francesca: da qualche motivo di marcia funebre dell’entrata in scena di Malatestino, al grandioso commento orchestrale del dramma e del fato. E tutto fuso, voci e strumenti, tutto unificato nell’anima della tragedia è per merito del direttore e concertatore dello spettacolo, maestro Giuseppe Sturani, il quale discende da illustre famiglia anconitana. Francesca è impersonata dalla signora Linda Barla-Ricci, che nella sua bella linea statuaria ammorbidisce il gesto della drammatizzazione. Ha voce stupenda e canto sicuro e commosso. Si mostra donna di passione più che di lussuria. Ha parte difficilissima: dal recitativo musicale alla cantata più viva, ella è signora della scena per tutti i quattro atti. E pur nell’ultimo atto ha voce fresca, chiara e potente. Rara potenzialità di mezzi vocali e di espressioni. È sicura vittoria la sua. Adolfo Pacini si presenta come Gianciotto. Ha voce bella e potente: ha una viva intuizione del personaggio storico, sicché ce l’ha dato nella linea di una figurazione tipica. È caldo di drammatizzazione e potente di espressione e nel canto e nel gesto. Paolo è Nino Piccoluga [Piccaluga], tenore dalla voce adusata a timbri ed a sfumature di vivace commozione. Si muove come affascinato dalla sua passione, che canta in lui con arte sottile e con intuito di artista già esercitato alle vittorie. Malatestino – Carlo Bonfanti – ha una espressione tragica ammirevole: esprime il suo contenuto drammatico con una potentissima padronanza della scena. È un espressivo «fanciullo perverso» dalla bella voce. E poi tutte le donne di dolcezza che fanno corona di canto alla tragedia – Samaritana (Ada Ospitali), Biancofiore (Emma Lattuada), Garsenda (Gina Pedroni), la Schiava (Giuseppina Ciampaglia) – hanno voci ricche di toni e di espressione. Su la gran tragedia della donna di passione, Biancofiore, la fanciulla di tenerezza, getta un’onda primaverile con la sua voce che squilla ed offre la sua ghirlandetta ripetendo: Possa malinconia con ciò passare. 130 Alessandro Benedetti, La grandiosa accoglienza al Maestro Zandonai alle Muse, [non id.], 24.11.1920 La serata La grandiosa serata di gala in onore dell’illustre compositore trentino, M.o Riccardo Zandonai, ha assunto iersera un carattere spiccatamente solenne per le entusiastiche manifestazioni di simpatia di cui fu fatto oggetto il graditissimo ospite nostro. Il teatro delle Muse era affollatissimo ed elegantissimo e gli applausi che salutarono come di consueto gli artisti ad ogni fine d’atto diventarono acclamazioni imponenti e commoventi ogni qual volta – e furono parecchie – insistentemente evocato, comparve al proscenio Riccardo Zandonai. Il pubblico ha colto la propizia occasione per dimostrare al famoso compositore italiano la propria incondizionata ammirazione per la meravigliosa opera che oggi domina sovrana sul campo teatrale del mondo. La folla ognora crescente che si reca alle recite di «Francesca» è la prova più sicura della potenza che il fascino della musica zandonaiana esercita su chiunque facendogli provare il desiderio di risentire quella musica nella quale si scoprono sempre bellezze nuove. Ier sera tutti gli esecutori gareggiarono in bravura per far 15 onore all’autore il quale ebbe per tutti indistintamente effuse e cordialissime parole di elogio – artisti, direttore d’orchestra, direttore dei cori, masse corali e orchestrali, comparse fatto segno da parte di tutti al più deferente ed ossequioso omaggio. Parecchie e parecchie volte l’illustre maestro – che assistette alla rappresentazione dal palco di casa Micheli – dovette presentarsi alla ribalta ad ogni chiudersi del velario sia in compagnia che da solo. Al suo apparire il pubblico scattò in piedi applaudendo, mentre dietro Zandonai, a distanza, si affollavano artisti, comprimari, masse, tutti battendo entusiasticamente le mani. La dimostrazione ha assunto un carattere di affetto che fa onore ad Ancona sempre pronta ad esercitare signorilmente i suoi doveri di ospitalità. Il M.o Zandonai si tratterrà in Ancona tutt’oggi: questa sera ha luogo un grande ricevimento in suo onore in casa Borghetti. Al celebre compositore, al cittadino di Rovereto, al grande Italiano il nostro rispettoso e beneaugurante saluto. Un profilo di Riccardo Zandonai Cammina per la propria strada aperta ed assolata , con passo sicuro e cuor tranquilli, senza sostare e compiacersi del cammino già fatto, senza avviature sollecite, cortesie beneauguranti: la buona ventura è lui stesso. Sa di giungere e come, più lontano, con fiera e libera semplicità. Non ha bisogno, egli artista di autentica vocazione, spirito focoso ma fortificato in disciplina severissima e che poggia sopra una pura e quadrata certezza morale, di permute o concessioni, né lo seducono le mistificazioni che facilmente impaniano il pubblico. Resiste, per altro, in questo trentacinquenne montagnolo trentino, una energia ritorta, una nodosità verzicante di capitozza che s’abbarbica profonda e le sue foglie hanno un tessuto più fibroso ed un più denso colore di quelle delle piante tirate su con potature avvedute e molte stabbiature. Si nutre della sua terra questo giovane che è, fra i nostri musicisti, italianissimo. Quattro opere principali: Il Grillo del Focolare, Conchita, Melenis, Francesca da Rimini, che suscitarono in Italia ed all’estero fervore di lodi ed appassionate discussioni, costituiscono la prima fase dell’ attività creatrice di Zandonai. Le recentissime riprese della Francesca a Verona ed a Bologna furono definitiva conferma della vitalità piena di quest’opera e del primo caloroso successo quale attende Conchita e Francesca – non c’è da temere – quando prossimamente affronteranno il gran pubblico dell’Opéra a Parigi. Scaltrito nelle tecniche moderne e d’avanguardia, le equilibra nel suo spirito con un largo senso di classica purificazione. Ma l’esperienza tecnica è in lui semplicemente accidentale, accessoria; mezzo non fine, forma spontanea per esprimersi. Poiché egli – è qui la sua originalità – ha delle idee. Possiede il fiuto sicuro del teatro, il segreto delle affascinanti ambientazioni. La sua progressione cromatica – sua perché questo metodo se lo è rilavorato e sviluppato intimamente, non adoperandolo come una estrinseca applicazione materiale d’accatto – non è che il diretto risultato della progressione della parte cantata. Zandonai, senza atassici vagabondaggi e senza violentare il suo istinto, trova i suoi accordi costantemente sulla guida del canto. Perspicua caratteristica, inoltre, di Riccardo Zandonai è l’aderente valorizzazione della parola, la duttilità stupenda che si piega alle espressioni più varie, liquide e dense: ondulazione vibrante, arabesco funzionale e costruttivo, drammatico. Lirica pura, se Dio vuole. Tentando l’assaggio e la scomposizione dell’estetica di Zandonai, ciò che s’avverte lucido e fermo è che il sistema, dal quale mai deroga, 16 della progressione cromatica è attuato per sola, un’unica attiva e positiva forza appassionata fantastica. Egli reagisce direttamente ai suoi materiali. Importa accennare che questo procedimento cromatico Zandonai usa con la stessa coerenza e fedeltà nel dramma come pure balza fervido nelle sue opere il lirismo delle parti vocali che vivono di una lor vita essenziale, marcate dal carattere nettamente italiano del suo temperamento. I brani costruiti quasi come arie, che si possono incontrare, risultano come vivide unità musicali, perché esprimono una concreta e profonda emotività. Siamo fuori, decisamente, da incalorite premiture tecniche o, peggio, da trufferie di mestiere. I professori, noteremo per incidenza e per lor consolazione, potranno rintracciare nella recente ristampa del trattato orchestrale del Berlioz curato dal maestro Panizza per la Casa Ricordi, alcune innovazioni tecniche di Zandonai. Benissimo, ma quel che vale è la sua ricchezza ed originalità di idee, il vigor coloristico, il commosso sentimento della natura, l’incisività psicologica delle creature evocate, la versicolore allontanante atmosfera di sogno che ammorbidisce le crudezze dei contrasti, le tenere, nostalgiche velature. Ardito, gli ostacoli lo affascinano; a lui piace collaudarsi e piegare le sue energie alle attitudini più diverse. La prima opera – non tenendo conto delle moltissime composizioni giovanili – Il grillo del focolare è una commedia musicale. E vinse la prova durissima. Dalla Femmina ed il bamboccio di Pierre Louys, racconto scarsissimo di risorse teatrali, crea Conchita arsa d’erotismo crudele sullo sfondo delle più abbaglianti e torride luminosità mediterranee. Fu un successo, che non ha bisogno di calzanti aggettivazioni. Dal romanticismo tenue, domestico, tutto trine e trasparenze vaporanti del Grillo del focolare alla lussuriosa e scattante passionalità di Conchita, giustifica ancora la varietà e la fecondità eccezionali di questo maestro l’orizzontalismo di Melenis, dramma a rilievi netti, ad arcature larghe, solenni, in cui il coro signoreggia. Così giungiamo a Francesca, alla tragica umanità dei due cognati, al più felice sforzo di creazione artistica: un vertice nella odierna produzione musicale europea. Fin dal 1916 – e fu rappresentata nella passate estate – ha compiuta un’altra commedia musicale: La via della finestra. Ritorna così, Zandonai al punto di partenza, iniziando il secondo periodo della sua impetuosa attività creatrice che non ha abbandoni e riposi. E si è taciuto, riferendoci solo alle opere della produzione marginale del maestro, alle esperienze culturali che si estendono dalla pittura alla letteratura. Alunno, a Pesaro, del Liceo Rossini sotto Pietro Mascagni, compiva il corso novennale in soli tre anni. La miseria, ferocissima ma fortificante, non gli consentiva studi più riposati. Trentacinque anni: breve vita, già bene spesa, totalmente dominata dall’arte; mirabile esempio non solo intellettuale ma etico. Gentile anima rude. Un uomo dalle scarpe grosse, con un cervello stracarico di idee, che anche per un musicista non sono mai troppo abbondanti. ----------------------------------------------------------------------------------------- Bari 1920 (131-135) 131 Francesco Turchi, La prima rappresentazione di “Francesca da Rimini”, «L’Avvenire delle Puglie», *.12.1920 17 Riccardo Zandonai nell’aderire alla preghiera di Tito Ricordi cioè di scrivere la Francesca da Rimini non ebbe, secondo me, altra cura, altro pensiero che quello di penetrare nell’anima della vittima, gustarne le brevi gioie sempre coperte da una nube di tristezza e si suoi dolori nel sapersi amata senza poter rispondere alla voce prepotente di questo amore. Egli, come il poeta D’Annunzio, vollero [sic] analizzare la superba e divina sintesi di Dante, che immortalò nelle poche terzine della cantica la breve e avventurosa vita della sposa di Gianciotto. L’analisi non potrebbe essere più perfetta, più reale, ed è un’analisi che desta in noi, nel più intimo, quegli stessi sentimenti che un giorno condussero ad una morte i due innamorati, vaganti tuttora per la grandiosa concezione dantesca, nel cielo tragico dell’inferno. Zandonai ebbe quindi un grande campo da mietere con la storia dolorosa dell’eroina riminese. Il suo genio, che raggiunge le vie più pure dell’infinito nella sinfonia, comprese subito quale parte sopra tutto doveva prediligere nella nuova opera d’arte così come egli l’aveva concepita. E mentre il poeta doveva coltivare in particolar modo la musica delle parole, egli doveva, a suo tempo, coltivare quella del sentimento. Ma entrando subito nel merito, constato innanzi tutto che il comento orchestrale che dovrebbe sottolineare il canto prende invece sovente il predominio su di questo. Vi sono anzi dei momenti che accennano ad ondate melodiche che danno una sensazione di benessere, ma l’orchestra impaziente quasi di dire la sua parola, ne rompe forse poco opportunamente l’incanto. Il fatto di Francesca trova però nella musica di Zandonai una tale potenza descrittiva che impressiona e commuove. Si può dire che fin dal brevissimo preludio sul quadro della casa dei Polentani lo spettatore è già compreso della tragedia che svolgerà fulminea dinanzi ai suoi occhi. Il leit motiv che si accenna per la prima volta sulla veranda fiorita a comento del coro di squisita fattura idilliaca lo inspira un sentimento pacato di dolore; in esso già si pregusta tutta la violenza di una passione, che proromperà funesta nell’anima romantica di Francesca. Quelle brevi note affidate ai violoncelli sono in una parola la voce che dall’al di là ci giunge delle povere vittime quasi per domandare anche a noi dopo oltre otto secoli una lacrima, una parola commossa. È un leit motiv superbamente vagneriano, che indica tutta la bontà e la virtù d’una scuola, ma che nulla distrugge dell’originalità del maestro che lo concepì. In tal modo la potenza sinfonica si afferma nell’opera, quasi col desiderio di esserne l’esclusiva padrona. Nel finale del primo atto sembra veramente che voglia cedere un poco il campo, quando le ancelle salutano il bel cavaliere che giunge e che dovrà impalmare la gentile castellana. È una ondata di puro canto italiano che si eleva nell’aria, in un misticismo di sentimenti, in un idillio di passione che non intende varcare i limiti dell’ideale per restare bello, sereno, degno dell’anima di Francesca. E mentre le ultime note accompagnano la dolce fanciulla verso colui che crede suo sposo, gli archi commentano con una delicatezza squisita il primo incontro fra i due amanti. Il leit motiv ritorna spesso nell’opera come il ricordo di quel primo incontro, con la stessa poesia, e su di lui si svolge tutta la forza dell’amore che erompe dai due giovani. Anche quando Francesca, credendo alla colpa di Paolo, lo investe, il cavaliere chiede pace alla morte ma il suo canto invece la cita sorrisa sempre dalla bella visione provata nel giardino di Francesca quando vi andò per la prima volta. 18 Tra il fragore delle armi, il gridio dei combattenti, vi è un’oasi di pace dove si rifugia Francesca e dove corrono entrambi stanchi i due fratelli, l’uno da signore, l’altro da vittima. Il maestro non dimentica ma l’idillio, che sempre più ingigantisce e sul tema del leit motiv sa bene svilupparlo mentre ferve la mischia e più feroce diviene l’ira dei combattenti. Sugli spalti muoiono i difensori e già nella corte sorride la giovinezza del cuore da cui è ammansito anche Gianciotto. Né il velo che la morte sta per stendere su Malatestino attenua il colore del quadro. Tutto vive nella concezione magnifica dell’autore, che tutto sa penetrare e riprodurre in una gamma musicale grandiosa ed infinita. Alla battaglia del di fuori violenta e crudele ne risponde un’altra, quella di due anime che resistono ancora pur comprendendo l’inutilità di una lotta che non può avere che un solo epilogo. E noi sentiamo che la melodia c’investe e ci commuove, quella stessa melodia che poi ci esalta nel grandiosi finale sulla vittoria delle armi e sulla vittoria dell’amore, La suggestione d’una passione irriducibile fa deviare il maestro dalla sua strada, che trionfalmente percorre. Egli intende riprodurre i sentimenti, più che dar campo alle parole. La sua melodia vuole essere descrittiva non solo per lo stato di due cuori, ma per il mondo e per le cose che li circondano. Ed è perciò che noi sentiamo in essa e il canto della natura e quello degli uomini, noi pregustiamo e la se[re]nità del cielo e il tumulto di due anime, noi vi salutiamo la primavera che sorge, tra il tripudio dell’universo e c’idealizziamo sul pieno meriggio d’un amore che sorridente si avvia alla morte [?!]. Il maestro tutto vuol dire con la magia del suo genio, l’occhio suo tutto osserva, tutto ammira con la stessa poesia che eternò nel mondo il fato di Francesca. Poco importa a lui se dice troppo, se qualvolta è soverchio, egli vuol descrivere minutamente, analiticamente, appassionatamente, innamorato come è della sua eroina, quasi volesse far tornare in mezzo ad un mondo così gretto ed egoista il bagliore d’una vita che pure tragica ebbe un sole che ancora la illumina e la immortala. Si dirà forse che lo Zandonai non raggiunga il facile effetto con la sua musica. Se volesse ottenerlo, a lui non mancherebbe modo da suscitare vive sensazioni anche tra il pubblico più difficile. Invece sembra che egli lo rifugga e sotto questo punto di vista sarebbe possibile spiegarsi quella certa uniformità e quella mancanza di contrasti troppo vivi sia nella concezione idealistica e sia nella tavolozza orchestrale. Egli ha scritto quanto a lui sembrava buono e bello e vi ha dato una sua spiccata personalità, pure ammettendo che abbia subìto il fascino di qualche lontana reminiscenza. La musica di Francesca è senza dubbio il frutto dello studio interno e profondo d’un’anima superiore. Ed anche quando il ferro fratricida spezza il cuore dei due innamorati, Zandonai non dà campo al suo genio di svolgere quanto gli avrebbe suggerito la forza della tragedia. Francesca è morta e con essa tutto va a finire. Qualche altro accenno, qualche altra rievocazione, e poi più nulla. Con una tale vastità di campo sinfonico il canto non poteva avere il suo sviluppo. In qualche momento tenta di rompere i cancelli fortemente serrati per sprigionarsi ma viene presto raggiunto. Ma tutto il dialogo ha una tale armonia che supera la suggestione delle antiche arie e delle cabalette. Paolo, Francesca cantano il loro amore nei suoi più minuti palpiti e lo riversano sugli altri, quasi per chiamarli a compagni delle loro sofferenze. Ascoltai iersera delle frasi 19 larghe, insinuanti, degli spunti melodici d’una dolcezza infinita e degli scatti passionali che tutta rivelano la forza della lotta tra il dovere e l’amore, contenuti se il primo avesse avuto ragione, superbamente potente nel caso che il secondo fosse restato vincitore. Se una piccola riserva vi è da fare su questa Francesca, è appunto nella ferma palese volontà del Maestro di dilungarsi eccessivamente in alcuni brani trascurandone invece altri, a grave scapito della varietà e dell’efficacia drammatica. A me sembra che qualche sapiente taglio darebbe maggiore snellezza all’ azione e suggestione alla musica. Nel quarto atto, uno dei più belli dell’opera, il Maestro segue ed incalza l’azione e riesce assai efficace. Il duetto tra i due fratelli ha un sapore tragico impressionante; e assai incisivo riesce il ritorno del leit motiv [nel]l’ultimo incontro fra i due innamorati, quasi a rievocare i versi danteschi Non v’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice della miseria [Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice ne la miseria] Credo di aver manifestato intera la mia impressione, quella s’intende d’un entusiasta e non di un critico nel senso scientifico della parola. Riccardo Zandonai e la sua anima nostalgica, tuttora compresa dei dolori e dei lutti che martoriarono per tanti anni la sua cara patria, ha portato lo stesso sentimento nostalgico in questa rievocazione dell’ eroina di Rimini, che commosse fino al pianto il poeta divino. Lo Zandonai volle così dimostrare l’eterna giovinezza della nostra storia, della nostra poesia, là dove ancora regnava lo straniero. Oggi che la bandiera garrisce anche tra le balze trentine, la nostalgia rimane nell’opera musicale ma è una nostalgia che invoca il passato di due anime che per l’amore si resero colpevoli e sfidarono la morte, e quindi la rievocazione d’un sentimento che vivrà perenne finché il sole... risplenderà sulle sciagure umane. L’esecuzione Constatiamo subito che il complesso artistico di questa Francesca è sotto ogni punto di vista buono. La Barla Ricci Linda ha una scuola di canto perfettissima. La sua voce assai pastosa possiede ottimi gli acuti e le note di mezzo. L’interpretazione che dà della eroina non ha nulla di studiato, perché essa ha approfondito bene la figura morale della castellana e con un intuito degno di ogni elogio ne rivela le bellezze. Corretta fino al momento che cede alla forza dell’amore, l’artista è potentemente drammatica quando sta per dimenticare la sua fede. Il tenore Santonocito lo abbiamo molto ammirato nella parte di Paolo. Anch’egli possiede dei mezzi vocali assai potenti, che hanno saputo superare le difficoltà della partitura. Specie nell’aria del terzo atto il Santonocito è d’una forte drammaticità. Il baritono Maugeri riproduce assai bene il carattere e la figura di Giovanni lo sciancato. Della sua voce egli ne fa quel che vuole e non la risparmia davvero. Artista nel vero significato della parola, non tralascia nulla che dia maggiore risalto al personaggio di Giovanni che domina così funesto nel dramma. Il tenore Lanzini Luigi dà un’impronta tutta sua personale al personaggio di Malatestino. Possiede anch’egli una buona voce ed è assai padrone della scena. 20 Il basso Mongelli Andrea, figlio di Bari, sebbene alle prime armi, promette molto. Nella piccola parte di Ostasio dimostra già una sicurezza di scuola ed una padronanza di scena assolutamente invidiabili. La Romanelli Maria, la piccola Samaritana, ha una buona voce ma nell’ interpretazione della gentile fanciulla <non> è sembrata leggermente esagerata. Carezzevole e affettuosa nel canto che modula con grazia e maestria, non deve sentire necessità di cercare effetti con forze che disdicono alla semplicità del personaggio che essa rappresenta. Degne poi di speciale elogio per l’insieme delle voci e per l’ interpretazione sono le quattro ancelle di Francesca, la Pollay, la Nobili, la Dell’Acqua, la Fabbri. Buoni anche l’Agozzino, la schiava ed i signori Mattioli, Schottler. Che dire poi dell’orchestra? Essa trionfa, è la vera parola. L’interpretazione che dà della musica non trova parole per essere espressa. Comprendo che una pagina musicale come quella scritta dallo Zandonai possa trasportare all’entusiasmo, ma questo entusiasmo può restare anche nascosto, se l’interprete non sa palesarne le più recondite bellezze. L’orchestra del «Petruzzelli» ha tutta penetrato nell’intima essenza della musica e così l’ha rivelata. Ha ben ragione dunque il caro autore di dimostrarsi grato verso i suoi primi collaboratori. La messa in scena è poi curata nei suoi minuti particolari ed è pastosissima. Il successo Il successo dell’opera fu completo. Il pubblico accompagnò col maggiore interesse l’esecuzione e la sua attenzione rimase vivissima per l’intero spettacolo. Per la cronaca aggiungerò che l’autore e gli artisti ebbero tre chiamate alla fine del primo atto, tre al secondo, tre al terzo, una alla prima parte del quarto e tre alla seconda parte. Bari non poteva manifestare in modo più degno la sua simpatia al caro Maestro ed ha dato prova di saper decretare il successo, quando l’opera parla al cuore e suscita nell’anima i più forti sentimenti. La sala sfolgorante di luce presentava un aspetto magnifico. Nei palchi e nelle poltrone si ammiravano le più belle signore della nostra società. Notata la presenza di quasi tutte le autorità, fra cui il Prefetto e la sua gentile Signora, il Sindaco avv. Bovio, il generale Cangemi con la sua gentile signora. Una serata meravigliosa che fa onore alla nostra città e che inaugura sotto auspici così buoni un a stagione che riuscirà fra le migliori delle altre città. 132 g.d., L’inaugurazione della grande stagione lirica al “Petruzzelli” col trionfo della “Francesca da Rimini”, «Corriere delle Puglie», 21.12.1920 La sala del nostro Massimo presentava ieri sera un colpo d’occhio meraviglioso. Un pubblico eletto, fine, entusiasta dell’opera magnifica del giovane maestro trentino, decretò all’autore uno dei più calorosi successi che egli possa vantare nella sua carriera di musicista. La Francesca è opera di un talento musicale che si eleva su ogni paragone, per solidità di conoscenza tecnica e per facilità e ricchezza di ispirazione e di effetti teatrali. Riccardo Zandonai ha la forza del commento orchestrale che segue l’azione che si svolge sulla scena; la sua musica esprime con le diverse voci orchestrali i diversi sentimenti delle persone del dramma; egli fa fremere e vibrare lo strumentale per ricavare l’effetto drammatico e dare vita e colorito all’idea musicale 21 che primeggia nell’opera, su di un tema deliziosissimo che canta il dolce peana dell’amore. Vivacità di strumentazione e dolcezza di ritmi, originalità armoniche ed eleganza di forma danno a quest’opera di Riccardo Zandonai un’impronta particolare di grazia e di robustezza che trascina all’entusiasmo. La musica La musica della Francesca non è scritta sul sistema di molti autori moderni che fanno predominare l’orchestra sull’azione e pensano di ricavare l’effetto dal semplice lavorio dello strumentale; qui tutte le voci armonizzanti dell’orchestra commentano meravigliosamente le passioni che turbinano nella tragedia d’annunziana, ciò che dimostra come l’autore ha sentita tutta la grandezza della concezione del poeta ed ha descritto con un lavorio pieno di armonie vibranti i diversi stati d’animo dei personaggi. Il canto è sempre chiarito, né viene soffocato dall’orchestra, per quanto ad essa si amalgama in una euritmia bellamente colorita. L’idea musicale si adatta al testo poetico in modo che nulla è stato trascurato dal compositore, che in ogni strofa, in ogni verso, in ogni parola ha sempre trovato lo slancio vigoroso dell’ispirazione. L’opera si apre con un breve preludio che annunzia l’arrivo del giullare; qui un tema dolcissimo, svolto da un a solo di viola, è ispirato a soave mestizia, che si tramuta poscia in un ritmo vivace di tutta l’orchestra, la quale accompagna il cicaleccio delle donne di Francesca. Segue il duetto fra Ostasio e il Notaio. La figura di Sor Toldo [Ser Toldo] è caratterizzata da un disegno orchestrale largo che accompagna il recitativo. L’uscita di Francesca e Samaritana si annunzia dall’orchestra con una specie di nenia dolce e melanconica; è una bella pagina che dà la sensazione dell’ansia di un cuore in attesa, dell’evanescenza di un sogno a lungo sospirato. Samaritana prega la sorella di non lasciarla sola, e la musica ha tutta la dolcezza e la sensibilità di un’anima buona, ingenua, melanconica. Il canto delle due sorelle, di una grazia melodica squisita, si sposa al canto delle donne che viene sottolineato dagli strumenti ad arco. Incalzando, l’orchestra si rende sempre più flebile, più carezzevole, più lenta e preannunzia il leit-motif. È l’amore che s’infiltra nei cuori e che canta su un tema musicale di peregrina bellezza. Comincia con un a solo di violoncello che poi s’innesta a tutta la massa orchestrale che commenta l’anima di Francesca e l’inconsapevolezza dell’anima sua. È una larga melodia piena di un delizioso fascino che domina l’azione, il canto augurale delle donne sovrasta l’orchestra che minia con una larga espressione di archi la passione di Francesca mentre ella dona la rosa vermiglia al suo creduto fidanzato. Il secondo atto s’inizia con una frase musicale che è il tema su cui è tessuto, diremo così, il personaggio di Gianciotto, giacché viene ricordato tutte le volte che lo sciancato appare sulla scena. La frase vien ripetuta in una assonanza di ritmi durante la battaglia; l’orchestra descrive tutta la violenza dei belligeranti, la foga degli uomini d’armi, l’ardore e il desiderio della vittoria. Si frammischiano suoni di campane a stormo, note squillanti di buccine, grida di balestrieri e lamenti di donne che di tanto in tanto sovrastano l’orchestra. Nel momento in cui giunge Paolo, ritorna la frase musicale della fine del 1. atto, in un tono minore, e quasi a denotare l’ambascia del disgraziato amante non si sviluppa intera, ma riprende di tanto in tanto e passa come in un lamento dall’uno all’altro strumento, orchestralmente magnifica. 22 La musica richiama il motivo con cui l’atto si è iniziato e viene svolto con una larga espressione mentre Gianciotto, uomo rude e feroce, rimprovera i suoi uomini. Il tema varia coll’arrivo di Malatestino; l’animo brutale e feroce di costui viene indicato dai suoni aspri degli archi, che ricavano un meraviglioso effetto battendo sulle corde con movimenti sincopati. La battaglia si accentua ancora e finisce con un assordante orchestrale, il cui effetto viene raggiunto tanto dal punto di vista teatrale che da quello dell’estetica musicale. Il terzo atto è il migliore dell’opera: un vero capolavoro. Si apre con un preludio nel quale riappaiono i ritmi della danza della prima scena. Una nota melanconica e dolce descritta dagli archi contrasta coll’allegria delle donne di Francesca che commentano gli amori di Lancillotto. Una breve romanza di Smaragdi ha un senso di squisita dolcezza. Il quartetto delle ancelle, la ballata della Primavera, accompagnata da piffero, mandola, flauto e clarino, ha un sapore arcaico di meravigliosa fattura. La scena che segue fra i due cognati che leggono insieme il libro galeotto è preceduta da un lavoro orchestrale mirabile che descrive l’angoscia e l’aspettativa di Francesca, in un’atmosfera musicale dove variano e s’innestano tutti i motivi dell’opera: è come una pioggerella minuta di note che esprimono la melanconia che invade l’anima dell’eroina della tragedia: in lontananza si sente ancora come un’eco il motivo della ballata della Primavera, mentre le note varianti dei corni descrivono il passo dei cavalli che trasportano altrove Malatestino e Gianciotto. Entra Paolo: l’orchestra ripete la frase in tono maggiore dominante in tutta l’opera e che prorompe nell’esplosione delle due anime amanti. Il motivo carezzato dal violoncello nel primo atto ritorna anche qui, e si snoda sulle corde del primo violino, accompagnato da tutta l’orchestra. È l’amore che non ha più freno e ritegno e freme in una risonanza armonica che rasenta il sublime. Il 4, atto si apre col duetto di Francesca e Malatestino; l’orchestra ha suoni cupi; si ode il grido lacerante di Montagna, chiuso prigioniero nelle secrete, grido che dà un senso di orrore. Entra Gianciotto: il tema caratteristico che lo distingue ha una efficacia straordinaria per il ritmo rude e spezzato., Francesca trenta di sorridere, ma il grido strozzato di Montagna che si rinnova porta in lei un soffio di gelo e un brivido di spavento. Nel duetto fra Malatestino e Gianciotto si ripetono i ritmi accennati e quando il primo ghigna il nome di Paolo l’eco della frase d’amore risalta ancora quasi con un senso di derisione interpretata dagli strumentini che sovrastano su tutto il contesto orchestrale superbamente descrittivo. La seconda parte del quarto atto comincia con un allegretto triste. Francesca manda via le ancelle per rimanere con la sola Biancofiore, alla quale rievoca la signora di Samaritana [?]. Una suadente melodia accompagna le parole Ti ricordi tu di Samaritana? Biancofiore: Sì, Madonna. La sua dolcezza non s’oblia. Nel cuore serbata io l’ho con gli angeli. L’arrivo di Paolo è annunziato dal motivo predominante del 1. e 3. atto, che in tutta l’orchestra ha una espressione di spasimo e d’angoscia. I due amanti sono giunti al parossismo della passione e il brano che 23 commenta questo stato d’animo è magnifico. Il sopraggiungere di Gianciotto, la sua vendetta, la catastrofe della tragedia, sono resi da un grandioso insieme orchestrale che con un crescendo meraviglioso chiude l’opera. L’esecuzione Vorremmo dire largamente dell’esecuzione, ma lo spazio tiranno e l’ora tarda (lo spettacolo è finito all’una dopo mezzanotte) non ci permettono di dilungarci troppo. La nostra impressione, divisa dall’intero pubblico, è che nulla è stato trascurato perché ogni minimo particolare avesse il suo risalto. Gli artisti si misero con grande impegno perché il trionfo fosse degno dell’autore. E trionfo vero fu per Riccardo Zandonai e per la sua Francesca, che è una delle più potenti opere del teatro lirico moderno. Linda Barla-Ricci emerse nelle sue belle qualità di cantante superando facilmente le gravi difficoltà della parte. Dotata di una voce ben timbrata, fresca ed estesa, ella passa dalle note gravi alle acute con arte squisita; il suo canto vibrante nei punti drammatici, diventa dolce, pieno di carezzevole espressione, bellamente modulato nel brani passionali. Francesca insomma trovò nella Barla-Ricci una interprete veramente superba: ed il pubblico le tributò calorosi applausi riconoscendo pienamente la valentia della cantante e dell’attrice. Paolo ebbe nel bravo tenore Santonocito un interprete degnissimo per canto e per azione. Il Santonocito ha qualità canore veramente notevoli: robuste nelle accentuazioni drammatiche, mostra un’ottima scuola che gli permette di salire senza sforzo agli acuti squillanti e di valersi di una mezza voce deliziosa. E fu perciò meritatamente applaudito. Luigi Lanzini (Malatestino) ha voce fresca, intuonata, simpatica; l’arte sua è di un realismo intenso, sì che il personaggio fu rispecchiato in tutta la sua bruttura morale per virtù dell’artista. Carmelo Maugeri (Gianciotto) si affermò subito un baritono al completo dei più poderosi mezzi vocali: ed ebbe momenti felicissimi di una grande efficacia. Il duetto con Malatestino fi cantato dal Maugeri con tanta espressione che il pubblico proruppe in un lungo applauso alla nota finale che il magnifico cantante sostenne con grande vigore e con mirabile resistenza. Maria Romanelli, un’artista che ha bella e deliziosa voce, che ci auguriamo di udire ben presto in altri più importanti opere, rese la figura di Samaritana con tutta la dolcezza, l’ingenuità e la grazia del personaggio gentile. Un’ottima schiava Ninì Algozino, che ha voce intinata ed estesa di contralto così da essere sicura della più brillante carriera. Graziose le quattro ancelle di Francesca: Laura Polly (Biancofiore), Lina Nobili (Gassenda [Garsenda]), Eva dell’Acqua (Altichiara) e Adelina Fabbri (Donella). Molto bene il basso Andrea Mongelli, dalla voce grave e robusta; Alfredo Mattioli; Giorgio Schottler, che interpretò con grande efficacia la duplice parte del Giullare e del Torrigiano. I cori, specialmente quello delle donne, si mostrarono molto ben affiatati così da meritare vive parole di lode al maestro De Pascale. Movimentata l’azione della battaglia, cosa che non credevamo potesse riuscire di così grande effetto scenico. L’orchestra, poi, diretta dall’autore fu superiore ad ogni elogio. Riccardo Zandonai, che ha saputo infondere tanta potenza drammatica nell’opera che meritatamente corre per le scene di tutti i teatri del mondo, ha infuso tutto l’ardore della sua anima nel dare all’esecuzione orchestrale quel colorito e qual fascino armonico che ieri sera rapì il pubblico, trascinandolo all’applauso entusiastico. E dell’orchestra van notati i due giovani professori De Grandi (1. violino) e Gardelli (1. violoncello) che eseguirono magistralmente gli a solo. 24 Le scene sfarzosissime e i costumi molto belli rispecchiano il tempo dell’azione scenica con molta esattezza storica. La cronaca Per la cronaca accenniamo: applausi a scena aperta alla Barla-Ricci, al Santonocito, al Maugeri ed al Lanzini, e chiamate agli artisti ad ogni fine d’atto. Il maestro Riccardo Zandonai, accolto appena salito al seggio direttoriale da un lungo interminabile applauso, fu chiamato due volte alla fine del primo atto fra ovazioni calorose, alte due volte dopo il secondo atto. L’entusiasmo raggiunse il colmo alla fine del terzo atto e divenne frenesia alla fine dell’opera. Il maestro Zandonai vanta così un nuovo grande trionfo. Moltissimi artisti, cultori, amici, ammiratori e giornalisti si recarono a salutare negli intermezzi l’insigne maestro, al quale portarono anche il saluto del Sindaco e della civica amministrazione, l’assessore cav. uff. Nicola Relta Lupis ed il segretario generale del Comune cav. Serena. Ma non saremmo completi nei nostri rapidi accenni se non rivolgessimo la nostra parola di vivissima lode all’impresa del Petruzzelli, al cav. uff. Antonio Quaranta, che ancora una volta ha saputo rendersi benemerito del nostro paese portando il Petruzzelli alla giusta considerazione dei più grandi teatri d’Italia. 133 L’inaugurazione del «Petruzzelli» con la «Francesca» di Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 22.12.1920 Ieri sera si è inaugurata la grande stagione lirica al Teatro Petruzzelli con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai concertata e diretta dallo stesso autore. Il teatro magnifico presentava un colpo d’occhio meraviglioso. Un pubblico fine, elegantissimo si affollava in ogni ordine di posti dal parterre alla galleria, nervoso, ansioso di giudicare l’opera insigne del maestro trentino. Quando Riccardo Zandonai salì sul podio direttoriale un grandissimo applauso lo salutò, sintomo del grande trionfo che si andò delineando di atto in atto fino a raggiungere l’entusiasmo più schietto alla fine dell’opera. Non è facile dopo una sola rappresentazione della Francesca poter ritrarre l’impressione del pubblico e di un pubblico come il nostro abituato a giudicare senza pregiudiziale e senza preconcetti, ma soltanto con il convincimento sereno e assoluto che solo si può rendere dopo parecchie recite. Comunque il gran pubblico ieri sera rimase ammirato dinanzi alla squisita fattura del primo atto, mostrò di non gustare molto il secondo, il più difficile, proruppe in entusiastiche ovazioni al terzo tutto ricco di sentimento e di brani musicali veramente ammirevoli, si appassionò poi profondamente al quarto atto, decretando il trionfo dell’opera e del maestro, che fu fatto segno ad una manifestazione imponente. Riccardo Zandonai fu infatti chiamato alla ribalta due volte dopo il primo atto, tre volte dopo il secondo, e fu lungamente acclamato al finale del terzo ed alla fine dell’opera. Autorità, notabilità, amici, ammiratori, giornalisti, si recarono a felicitarsi con l’ospite illustre a cui l’assessore Relba Lupis e il segretario generale del Comune cav. Serena portarono il saluto della civica amministrazione. L’esecuzione fu ammiratissima per merito principalissimo dello stesso Zandonai che seppe portare l’orchestra ad una perfezione mai raggiunta. Tutti a posto i singoli esecutori. La Barla Ricci fu una protagonista magnifica; splendido il tenore Santonocito, inarrivabile «Cianciotto» il 25 baritono Maugeri. Ottimi tutti gli altri e specialmente il Lanzini, la Romanelli, l’Alconzino, la Nobili. Affiatatissimi i cori diretti dal maestro cav. De Pasquale. Gli scenari semplici, di buon gusto e perfetti. Insomma una solenne inaugurazione e un meraviglioso successo di cui va data lode altissima all’impresa del cav. uff. prof. Antonio Quaranta, col quale vivamente ci rallegriamo. 134 La grande stagione lirica al Petruzzelli. «Francesca da Riccardo Zandonai, «Giornale delle Puglie», 21-22.12.1920 Rimini» di L’avvenimento d’Arte eccezionale – cui la presenza di Riccardo Zandonai conferiva speciale attrattiva e solenne significato – richiamò ieri sera a convegno nella sfolgorante sala del nostro Massimo le più fini eleganze della nostra Bari: spettacolo atteso con ansia vissuto nel tragico poema, che sulla scena si coloriva di quella fosca luce medioevale così divinamente fissata dal divino Alighieri. Francesca da Rimini – nella sua nuova veste musicale – giungeva a noi dopo circa sei anni di vita, da quella prima rappresentazione al Regio di Torino, che consacrava definitivamente Riccardo Zandonai all’Arte lirica italiana e suscitava intorno al suo nome quell’unanime consenso che i pubblici più severi dell’Italia e del Mondo gli hanno a piene mani tributato. Con un gesto audace – che in uno spirito mediocre sarebbe apparso insana follia – egli affrontava in un duello eroico la gloria di Dante e la fama di Gabriele d’Annunzio: e d’improvviso domandava ai Grandi una parola per il suo canto, ed il suo canto era una battaglia. È in questa audacia la prima sua forza; non attardiamoci a svelare come egli abbia vinto, né indugiamoci nelle suggestioni della poesia – linguaggio parlato che obbedisce a leggi fisse, definite in un modo soggettivo indefinito – né ripetiamo noi pure, ciò che altri ha ripetuto, essere esteticamente o superfluo o assurdo trarre da una lirica poetica sublime una lirica musicale sublime. Le tede ardenti dell’Arte, che tracciarono l’aspra via al sentimento, percosse dalla bufera della passione non hanno una patria privilegiata nel tempo e nello spazio: esse infiammano il cuore del Poeta, che non ha una patria nel tempo e nello spazio. Dopo Dante, Pellico; dopo Pellico Gabriele D’Annunzio; dopo Gabriele D’Annunzio Riccardo Zandonai si abbeveravano a questa torbida fonte di passione assaporando in un filtro maliardo la limpida vena di questa tragica figlia del Signore da Polenta, della quale il fato triste ed infelice ha ripieno di sé la leggenda antica e moderna. Dante legò la morte di quel dolore nelle gemme delle sue terzine; ed è questa la semplicità eroica. Pellico la diluì in evanescenze romantiche e la morte apparve una malinconia di cuore malato, incapace a sostenere, con l’ardore, la vita. Gabriele D’Annunzio la rivisse nel tempo con lo sguardo dell’esteta: freddo ricostruttore, paziente orafo, sagace animatore di vita, infallibile artefice. Riccardo Zandonai aveva così la via segnata per la sua ispirazione. Il poema tragico di Gabriele D’Annunzio, adattato per le esigenze del teatro melodrammatico da Tito Ricordi offriva in una completa sintesi il violento contrasto delle passioni che s’agitavano nelle truci vicende delle famiglie medioevali, che hanno resa la Storia italiana così ricca di rozza umanità, così fosca di luce sanguigna. Il libretto Il I. Atto prepara la tragedia. Atto giudicato superfluo ai fini della vera economia dell’opera ed io condivido pienamente questa opinione. 26 Nella casa di Guido da Polenta – mentre le ancelle di Francesca cianciano con un Giullare e Francesca s’intrattiene con sua sorella Samaritana, piccola colomba – messer Ostasio da Polenta in complicità del notaio ser Toldo Berardengo compiono il tradimento. Francesca deve sposare Giovanni, detto lo Sciancato dei Malatesta da Verrucchio, che ha inviato suo fratello Paolo, detto il Bello, per compiere la cerimonia per procura. Tutti conoscono il tradimento, meno Francesca, tutti conoscono quanto orrido sia il vero sposo Gianciotto: ma tacciono, perché, se questo fosse svelato a Francesca, questa non lo sposerebbe mai. Così quando Paolo le appare nel giardino della casa paterna, sospinta da un subitaneo ed improvviso amore ella dapprima non regge alla bella vista, poi in silenzio spezza una rosa vermiglia dal cespuglio fiorito e gliela offre, in silenzio, mentre le sue donne cantano una canzone di maggio. Al II. Atto Francesca vive nel suo dolore, segnato dal tragico destino che la vuole moglie di Giovanni lo Zoppo. La scena è sulla torre della casa dei Malatesta, mentre ferve una lotta di fazione comunale contro i Parcitadi, altra famiglia riminese, avversa ai Malatesta, cui aspira togliere il primato. Francesca è tra gli armati che preparano la difesa e l’offesa. Appare Paolo. Da quel giorno che la rosa vermiglia si posò nelle mani del bel Malatesta la pace gli è fuggita dal cuore, come è fuggita dal cuore di Francesca. In silenzio i due cognati soggiacciono al loro triste e dolce amore: in silenzio, mentre gli sguardi si sfuggono, i cuori si cercano. Ferve la zuffa. Francesca vuol assistere, domanda un elmetto per coprirsi. Paolo offre il suo. Eretto sull’orlo della saettiera Paolo scocca le sue frecce infallibili, ma un dardo par quasi trapassargli le chiome, e l’amore di Francesca balza ferito da quel dardo che ha appena sfiorato Paolo. Ella a lui corre: alla carezza improvvisa della cognata Paolo si sbianca: non è ferito, ma quella carezza gli ha fermato il cuore, ebbro di gioia. Improvviso – seminando il terrore tra i suoi uomini – sopravviene lo Sciancato: tutti si ritraggono, si ritrae Francesca, si ritrae Paolo. Egli chiama suo fratello, che si distacca dalla folla degli armati. Lo Sciancato si congratula col fratello per una infallibile saetta che ha ammazzato messer Ugolino Cignatta, di parte avversa. Francesca ritorna e reca vino da bere al marito sopravvenuto. Una nuova ha portato Gianciotto: Paolo è stato nominato Capitano del Comune di Firenze. Ma ecco un grido di Francesca, che guarda dal fondo della torre la battaglia [e] preannunzia il ferimento di Malatestino, l’ultimo dei tre fratelli. Malatestino appare portato su d’una barella e vaneggia. Tutti temono per la sua ferita; ma lo Sciancato osserva il suo cuore: è a posto: è, in tutto, un colpo nell’occhio. Dal suo vaneggiamento Malatestino si sveglia, si guarda intorno, è stupito del luogo dove si trova, ne domanda il perché e scopre che un occhio gli è stato pestato dal furore nemico. Dallo stesso furore egli pure ripreso, incurante del dolore e dell’angoscia, urla ai suoi uomini, commossi per il suo male: A cavallo! A cavallo! e si lancia perdutamente nella mischia furibonda. (Omissis)(*) Questa è la tragedia dannunziana. Di cui io non rileverò le rare bellezze e specialmente i difetti, che si racchiudono brevemente in due constatazioni, indispensabili in una tragedia che ha essenza tipicamente classica e che potrebbe per il suo pathos rivaleggiare con le più pure 27 bellezze greche. La prima è nella lentezza dell’azione, che stanca e aduggia troppo il pubblico, desideroso sin dall’inizio – per quella infarinatura di cultura che gli permette una certa erudizione, una certa conoscenza del soggetto ed una certa libertà di giudizio – di evitare particolari che, per quanto ornamentali e necessari alla coloritura dell’ambiente, sono giudicati superflui, per raggiungere la catastrofe finale. La seconda è nella sovrabbondanza di quei particolari che plasmano l’azione in una luce barocca classicheggiante che distrugge la vena purissima del sentimento e la snellezza dell’architettura scenica, elemento capitale in tutti i poemi tragici. I pregi oltre che nella armonia del verso, elemento questo assai sfruttabile dal musicista, sono nella forte tinta che ogni personaggio riveste, inquadrato in un tempo che ha fascini magnetici di poesia e di ispirazione. E sono sopratutto nella materia tragica del poema che si respira in un’atmosfera di dolori, di ferocia e di amore. I pregi sono nella stupenda visione di questo nostro medio-evo che ha bellezze di pura e forte ispirazione alla quale non è insensibile la fascinatrice voce dell’Arte. La musica A questo fascino ha obbedito lo Zandonai, orgoglioso di sapere e poter trarre dai più profondi recessi delle finzioni poetiche le più semplici e composte finzioni melodiche. Ottimo sussidio in lui è stata l’orchestra, della quale egli si rivela signore sovrano, troppo signore forse, per non saper dominare il suo temperamento che. come quello del D’Annunzio, è di sagace costruttore e di paziente cesellatore. Già in Conchita egli aveva rilevate queste sue virtù, che io vorrei non si confondessero col virtuosismo, virtù di conoscitore mirabile di toni e di distributore policromatico che qualche volta, qui come in Conchita, riesce di soffondere di vivo colorito un ambiente, ad isolarlo nella fantasia, a circoscriverlo nel mondo della poesia della quale egli si rivela un devoto alunno. Educato ad una scuola di neo-classicismo – quella scuola che in Italia con Pietro Mascagni avrebbe fatto superbi allievi se l’illustre Maestro non fosse stato distratto dall’ insegnamento – egli ha appreso a contemperare con saggia euritmia le tradizioni della musica italiana – diventata improvvisamente romantica con Giuseppe Verdi – con le nuove correnti che in Germania dapprima ed in Francia dopo hanno schiusi gli orizzonti modernissimi della musica. Era questa la scuola di Pietro Mascagni, e mascagnano egli resterebbe in questo senso se, superando la scuola ed il suo stesso istinto di ricercatore acuto e profondo, non avesse in tempo opportuno fissata la sua anima in quella nostra musica orchestrale e corale – classica quanta oltre mai – e che con lieve sforzo si può riscontrare in parecchi brani del III. Atto. In questi brani la ricerca dello studioso, che vuole trarre dagli strumenti preziose rarità sonore, tace. E nella semplicità nuda e casta e nella semplicità serena e inconsapevole sorge l’imagine musicale che canta, come nella canzone alla Primavera, come nella scena finale del III. Atto, come nel dialogo di Paolo e Francesca nel IV, come infine nella Scena della rosa al I. Atto. Canta anche nel silenzio sapiente di tutte le voci: più viva espressione d’un sentimento lirico questa che non tutte le corde vibranti in un inno polifonico. Egli ha saputo – ed è questo uno dei suoi migliori pregi – caratterizzare la linea poetica dei suoi personaggi. Lo Sciancato appare sulla scena tra le asprezze di tutte voci, come aspra è l’anima sua; ma Francesca ripete eternamente il suo amore con Paolo sin dal primo incontro in un motivo dominante di passione e di dolore che è come lo schema essenziale su cui è intessuta tutta la trama musicale del poema. 28 Non mi attarderò a rilevare – brano per brano – il colore ch’egli ha profuso in alcune scene, qualcuna di sapore perfettamente arcaico che era nelle intenzioni di Gabriele D’Annunzio, tutto ciò giova forse a dimostrare come egli abbia vissuto liricamente il soggetto. Giova anche a conoscere uno Zandonai erudito liricamente come il librettista lo era poeticamente. Ma non aggiunge un merito maggiore all’Artista, che è creatore di anime e vivificatore di passioni. Pur attraverso le incertezze di scuola, attraverso le preoccupazioni di tecnica, attraverso il volontario freno che ha voluto imporre alla sua lira, Riccardo Zandonai resta una delle belle affermazioni dell’Arte lirica italiana che con questa Francesca si accresce d’una gemma inestimabile alla quale il pubblico barese – severo per tradizioni, severo per educazione, severo per cultura – ha tributato ieri sera così calorose ed affettuose accoglienze. L’esecuzione L’esecuzione orchestrale fu impeccabile. Dirigeva personalmente l’Autore e più scrupoloso impegno non poteva imporre alla massa, che obbediva ai suoi richiami come attratta da una volontà dominatrice. Così ancora una volta l’orchestra del nostro Massimo confermava quella meritata fama che negli ultimi anni non ha disdegnato paragoni dei migliori teatri d’Italia [sic]. Così ancora una volta le affettuose cure riposte da ogni singolo artista nel secondare gl’impulsi del Maestro furono coronati ieri sera da applausi dei quali Riccardo Zandonai porterà seco gradito ricordo. Linda Barba-Ricci [Barla-Ricci] era Francesca, truccata con una chioma di oro-rame che aggiungeva al personaggio leggendario che incarnava una fatale luce sanguigna. La sua interpretazione fu sobria e perfetta. Difficile compito il suo, quando doveva sostenere l’odioso paragone di attrici sovrane nell’Arte drammatica. Vibrante di vita, di sentimento, di passione, seppe con una voce limpida chiara, fluidissima negli accenti più concitati, mirabilmente armonizzare la melodia e la poesia in una compiutezza lodevolissima Buon Paolo fu il tenore Santonocito, egli pure chiamato ad una difficile parte, che nel III Atto specialmente seppe egregiamente far risaltare. Ed è con doverosa lode che rammento con quanto impegno e con quanta virtù seppe rendere la parte di Gianciotto il baritono Carmelo Maugeri, al quale si deve forse una più perfetta interpretazione del personaggio, sussidiata a rigorosa azione drammatica. Perfettamente a posto fu anche il Lanzini (Malatestino). Egli e Maugeri resero la 1. parte del IV Atto con una efficacia non comune e riuscirono più che in altri punti della tragedia a far vibrare la platea di tragico furore. Degne di lode sono Maria Romanelli (Samaritana), che nella sua breve parte rivelò pregevoli doti che certamente ammireremo compiutamente in prossimi debutti; l’Algozzini (la schiava) voce calda, aperta, freschissima, le quattro ancelle e il giovane baritono Andrea Mengelli (Ostasio) che ha saputo non demeritare le speranze che il pubblico nostro aveva in lui riposte. Dovrei in fine parlare dei cori e dello scenario. Scrivo dei primi con animo lieto: essi sono da anni affidati al De Pascale e non possono ingenerare dubbio alcuno sulla sicura maestria della sua bacchetta. Scrivo del secondo con animo perplesso – o io m’inganno! *** La cronaca segna: applausi e chiamate ad ogni finale di Atto: 3 al I., 2 al II., 3 al III., 2 al IV. Riccardo Zandonai fu fatto segno alle più calorose simpatie. Palchi e platea vollero dimostrare all’illustre 29 maestro con quanto affetto Bari ha ricevuto il dono della sua opera migliore. Il baritono Maugeri fu applaudito a scena aperta al IV. Atto. Stasera: riposo. ---------(*) Continua ancora a lungo nella descrizione. 135 Raffaele Gorjux, Dopo la prima della «Francesca», «Corriere delle Puglie», *.12.1920 Ricordo. Antonio Quaranta un giorno dello scorso novembre con un senso di vivo sconforto mi mostrò una lettera anonima che gli era pervenuta a proposito delle indiscrezioni del Corriere sulla grande stagione lirica inauguratasi felicemente l’altra sera al Petruzzelli. Era dattilografata su carta molto sottile; ma la carta stessa e l’inchiostro della macchina rivelavano la fattura di qualche impiegato poco scrupoloso dei suoi doveri se in ufficio trovava il tempo di occuparsi di argomenti teatrali. E la lettera – per essere anonima non poteva che dir male – sofisticava sul cartellone, se la prendeva naturalmente con gli annunci del Corriere, contestava i giudizi aprioristici del giornalista sulla Francesca ed invocava le opere wagneriane più che i capolavori del nostro teatro lirico. Sorrisi – a noi giornalisti gli anonimi capitano ogni giorno – ma pensai melanconicamente al fenomeno purtroppo inveterato nei così detti saccenti delle cose musicali, quelli cioè che vogliono mostrare una coltura che non hanno, quelli che giudicano con la preoccupazione di sembrare intenditori quando non lo sono, quelli che, come per certi filosofi, dicono bello a tutto quanto rimane astruso e non facilmente comprensibile. L’altra sera assistendo alla prima rappresentazione della Francesca da Rimini ripensandoci avrei desiderato conoscere l’anonimo per sentite le sue impressioni sulla magnifica opera di Riccardo Zandonai. Avrei desiderato chiedergli che cosa avesse sentito traverso la musica dell’ insigne maestro trentino. Avrei voluto constatare fino a qual punto potesse giungere il sentimento e la impressione del mio interlocutore per apprendere quello che forse io non ero capace di afferrare nel suo orgoglioso orrore della nostra musica. E dico nostra musica perché la musica di Francesca è musica prettamente italiana, italianamente sentita, italianamente profusa in tutta l’opera che appunto perciò rimane un capolavoro genuino del teatro lirico italiano moderno. *** Io non mi fermerò all’esame critico che il mio collega pei teatri ha seguito con tanta operosità e con tanto intuito nel suo articolo di ieri. No. Io son qui a fermare su queste stesse colonne che ebbero il merito del primo annunzio augurale la impressione che provai l’altra sera rimanendo in un angolo del teatro fra quella massa imponente che seguiva con animo vibrante ogni nota, ogni brano, ogni atto, mostrando sempre più di intendere quella musica che giungeva al cuore ed al cervello dando sensazioni che sarebbe follia voler descrivere così senza essersi raffermati nel significato altissimo della concezione che ha animato il maestro. Ma è pur facile riconoscere di primo acchito come la concezione musicale sia in piena rispondenza della tragedia dannunziana che al terzo atto rispecchia meravigliosamente la visione dantesca. E di impressione in impressione non è possibile non rilevare il merito primo e maggiore dello Zandonai nella parte egualmente notevole da lui affidata alla musica ed al canto raggiungendo così quell’insieme che 30 rapporta mirabilmente le antiche armonie in stretto contatto con la orchestrazione tal che palcoscenico ed orchestra si fondono in un insieme meraviglioso capace di dare sensazioni straordinariamente efficaci durante tutto lo svolgersi del dramma dall’inizio alla catastrofe. Voi non potete distrarvi dinanzi alla squisita fattura del primo atto eminentemente descrittivo dell’ambiente e musicalmente perfetto. E se al secondo atto rimanete alquanto sorpresi dinanzi ad un fragore che vi fa ricordare la concezione dello Strauss e vi lascia titubanti non vi affrettate a dire di non comprenderlo: risentitelo e vi troverete tutto il fragore della battaglia con l’ansia della vittoria, e la ferocia di Gianciotto e di Malatestino in meraviglioso contrasto con le ansie e la pietà di Francesca. Un poeta illustre mi diceva un giorno che la efficacia del verso nella visione evocatrice occorre sentirla a occhi chiusi. Chiudete gli occhi ed ascoltate la musica del secondo atto della Francesca; vi sentirete la battaglia delle anime e dei corpi sol che vi fermiate con il cuore e con la mente al suono che vi giungerà sempre più fremebondo e descrittivo. Ma il pubblico riesce ad afferrare con naturale e logica facilità il terzo atto ove la musica ha tesori inesauribili di ispirazione, di fremiti, di passione, così che il poeta ed il musicista si fondono meravigliosamente trascinandovi all’entusiasmo più sentito. È qui che il musicista profonde a piene mani le dovizie del genio che l’avviva, poiché nel canto e nel commento musicale quanto mai efficace voi ritraete tutta intera la parte centrale dell’opera magnifica che il talento di Riccardo Zandonai seppe intessere col ritmo e con l’armonia delle note più interpretative. Dalle dolcezze infinite che sono come fiori di aulente bellezza sulla distesa incantevole della terra verde e che si risentono nella melanconia che prevede e precede la catastrofe, si ritorna col quarto atto all’insieme orchestrale meraviglioso che solo è capace di interpretare il tragico epilogo di vendetta e di morte. Certo chi più ha l’anima educata al buono ed al bello, chi meglio ha saputo intendere e comprendere la tragedia che dall’episodio dantesco e dai versi del Pellico ebbe nel d’Annunzio più superba interpretazione, quegli potrà più coscientemente, specie dopo una prima audizione, sentire tutte le bellezze onde è soffusa la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai. Ma l’efficacia e la teatralità dell’opera risaltano subito ed impressionano ed entusiasmano anche se alcuni punti possono rimanere non completamente raggiungibili in quella che è stata la concezione artistica e musicale del maestro. Non tutti i musicisti del teatro lirico moderno sarebbero stati capaci di rivestire di musica la tragedia dannunziana. La sua mole letteraria, le difficoltà varie e complesse del poema che ne resero sempre difficile la recitazione come resero difficoltoso il successo fra le masse per la poderosità e l’altezza del verso nella espressione genuina del tempo, non avrebbe consigliato facilmente la prova. Ma la prova fu tentata, raggiunta e vinta dallo Zandonai rendendolo doppiamente meritevole de largo consenso che con la Francesca egli poté ottenere affermandosi il grande musicista che ormai tutto il mondo onora. Bisogna conoscere personalmente Riccardo Zandonai per rendersi esatto conto di tutte queste possibilità che solo si possono trovare nel suo talento, nella sua coltura, nella sua ispirazione sempre viva e sempre capaci nuove e forti creazione Nicola d’Atri, che rimane ancor oggi il più illustre critico d’arte anche se ha abbandonato la penna per i giornali quotidiani, mi scriveva di lui alcuni giorni addietro: «A quest’ora avrai conosciuto Zandonai. Quando entrerai nella sua intimità riscontrerai una bontà, una 31 gentilezza di sentimenti, una dignità di uomo e un sano orgoglio di artista che alla prima non si immaginano. E per lui, poi, parlerà la sua musica!» Così il maestro quando gli si domandò se fosse lieto delle accoglienze che gli si facevano rispondeva con una impressionante sincerità: «Io voglio che il pubblico senta e giudichi la mia musica, non che si preoccupi di me». E la musica ha trionfato, e meglio, ha cominciato a trionfare perché trionferà ogni sera come ha trionfato e trionfa in tutti i teatri del mondo riaffermando tutta intera la sovranità della genialità italiana sempre viva, sempre fresca pur nel rinnovamento che se dona nuovi capolavori non esclude e non distrugge il rispetto delle nostre tradizioni. *** Mai come questa volta Antonio Quaranta merita il plauso incondizionato del pubblico come ha avuto quello della critica. Inaugurare la stagione lirica con la Francesca da Rimini concertata e diretta dall’autore, curata nell’allestimento con sorprendente precisione, eseguita con un complesso artistico di prim’ordine e pienamente rispondente ad ogni necessità scenica e musicale è cosa che riafferma solennemente la importanza del nostro Petruzzelli nel mondo teatrale. E dice e dimostra che non tutti gli impresarii hanno anima di mercante; che ve ne sono di quelli che sanno avere sentimenti di artista. Perseveri il Quaranta in questa opera altamente lodevole [e] apprezzata: ne sarà contento anche l’anonimo in un momento dio sana resipiscenza che non manca mai a noi meridionali anche quando non si è fra i migliori. ----------------------------------------------------------------------------------------- Napoli 1920 (136-143) 136 Filippo Carlo Piovan, “Francesca” al San Carlo, n.id., s.d. Riccardo Zandonai è un grande musicista, e la maggioranza dei napoletani, ieri sera al S. Carlo, non l’ha compreso; e non l’ha compreso – io primo – perché la subitanea apparizione artistica di Francesca sulle scene di Napoli è stata così rapida, così immediata che – salvo alcuni: i più esperti e i più profondi, o quelli che già l’avevano intesa – non hanno avuto tempo di valutare il pregio di questa musica nuova. In altri termini, è stata così rapida e varia l’impressione negli spiriti ch’essa ha lasciato, vorrei quasi dire, un senso di incompiutezza nella riflessione. Domani, quando Francesca si ripeterà, io non dubito che a Napoli la si intenderà meglio e di più. Con tutto questo, per la cronaca della serata, è bene dire subito che il maestro e gli artisti furono festeggiatissimi e chiamati alla ribalta più volte alla fine di ciascun atto. *** Gabriele d’Annunzio ha scritto Francesca da Rimini come si scrive un poema. Ponendo ciò accanto a molti pregi poetici, qualche difetto, ma – quello che più importa – creando opera di quadro e di movimento difficilissimi. E difficili per due ragioni: la prima, per la consueta difficoltà di moto e di atteggiamento nelle masse corali; la seconda perché, dato lo spirito dannunziano del dramma, tale moto e tale atteggiamento dovevano avere un carattere tutto particolare. Qui doveva anche sopperire e l’acuto ingegno di Tito Ricordi che ha ridotto l’opera per la musica, e, ma in maniera superlativa, il genio musicale di chi traduceva nell’impressione e negli effetti musicali l’espressione poetica. 32 A questo è riuscito meravigliosamente Riccardo Zandonai. In quanto che la sua musica riflette, amplifica, sublima e interpreta non solo lo spirito del verso e della parola, ma lo spirito totale della tragedia. Non può sfuggire questo a chicchessia. L’arrivo di Paolo, così sapientemente preparato al primo atto, come la prima apparizione di Francesca, come l’entrata violenta di Malatestino, sono armonie, anzi, temi strumentali esemplari nel senso della comprensione drammatica della persona e del verso: caratteristici infine pel riguardo alla persona, pur senza la minima slegatura – appunto perché sapientemente preparati – dalla precedente e dalla seguente costruzione melodica. A Napoli è stato più inteso lo spirito lirico della musica di Riccardo Zandonai che lo spirito epico: lo spirito tragico è stato apprezzato a parte. Nella realtà, gli accenti epici del secondo atto non sono, in certo senso, del tutto originali. Attentamente seguendo, si ha la strana impressione di una misura coercitiva, presa dallo stesso Zandonai sulle sue stesse reminiscenze musicali. Onde un bene e un male. Più bene che male, del resto: una diminuzione nell’effetto totale per l’insinuazione prudente qua e là di caratteri propri ed esclusivi nella continuità musicale, e, al tempo istesso, un senso di compiutezza e di pienezza sinfonica che fa, non senza individuale compiacimento, pensare all’ ariston metron d’ellenica memoria. Anche se la massa corale del secondo atto non ha saputo perfettamente rendersi disinvolta, il motivo strumentale l’ha aiutata quindi a compiere il suo ufficio. Meno densa e più debole assai invece la scena delle danzatrici e delle cantatrici del terz’atto. Non nel Maestro questa volta il difetto, ma nelle gravi difficoltà, che solo artisti molto evoluti avrebbero potuto sorpassare, per render viva, anzi per far rivivere questa scena, nei suoi pieni caratteri storici e nella sua essenza di fantasia e di lirismo. Questa, per l’esecuzione, si può dire l’unica scena che lasciasse un poco a desiderare. Anche le danzatrici non furono perfette nell’interpretazione moderna – cioè come vogliamo e desideriamo che sia noi moderni e certo, Gabriele d’Annunzio, e, credo, Riccardo Zandonai – della danza medievale. Singolari invece per accenti musicali e per scerna la delazione e la vendetta di Malatestino: inaspettata. Infatti, com’è nuova la trovata di d’Annunzio di far Malatestino delatore offeso nel desiderio, così è nuova la musica di Zandonai. Ci saremmo aspettati un cauto motivo cui potesse rispondere, nel verso, la frase timorosa e bassa, come quella di Andret nel poema d”Isotta e Tristano: «Io di ciò vi farò chiaramente vedere». E invece no, qualcosa di satanico, qualcosa che esprime l’animo sciancato dell’uno e orbato dell’altro, è nella scena, oltre all’atmosfera della giustizia, del fato, del presagio, del rammarico, della vendetta. Tutto questo Riccardo Zandonai, davvero signore dell’orchestra, ha tradotto in maniera profonda e delicata. Profonda. Giacché profondità esiste in Zandonai, pur nella varietà stessa dell’espressione, pur nella disinvoltura – disinvoltura seria, non superficiale – con la quale egli tratta i suoi temi; certezza di tocco, sicurezza che la tinta – se mi è lecito, a meglio esprimermi, spiegarmi con la similitudine della pittura – data così, di necessità nella gran maggioranza, e, sopratutto, nello spirito del creatore che osserverà al fine la creatura compiuta, produrrà un effetto determinato e certo. Questa non è audacia, né in poesia, né in pittura, né in musica: è il sesto senso perfettissimo, oltre il dubbio, dentro la bellezza, grazia di comprensione della collettività, in momenti artistici senza dubbio straordinari. Senso che pervade e rende sublime il lirismo musicale di Riccardo Zandonai. E lo si spiega riportando la 33 varietà dell’impressione, la stragrande ricchezza d’immagini sinfoniche, accennate, compiute, interrotte, alla natura medesima dell’autore che è un Trentino redento. Egli che ama la caccia e il monte, l’Adige e lo scialle veneziano, il piccolo Cimitero solatio del suo paese e l’azzurra nostalgia del suo cielo, o che – se pur avesse dimenticate queste cose – non può dopo tutto abdicare al suo sangue, egli deve sentire in tal modo; e questa varietà d’impressioni, questa successione di momenti armonici, nonché un fondo di santità mistica, che spesso la musica riporta, ci fanno intendere la Francesca da Rimini da quel capolavoro che essa è, e costituiscono i pregi più cospicui dell’opera. 137 Giovanni Bellezza, La prima rappresentazione di ierisera al “San Carlo” della “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Giorno», 16.1.1921.(*) La musica Gabriele D’Annunzio – (ahi, come lo risentiamo oggi ancora una volta vicino al nostro spirito, lontano dalla sua politica!) – fa soprattutto sentire nella sua produzione poetica teatrale quel fluttuare d’onde musicali che Schiller avvertiva preventivamente nel suo intimo nel compore i suoi poemi. Tutto è sostanzialmente ritmico – parole, vicende, immagini – nei poemi dannunziani. La tragedia di Francesca non è che una lirica in cui l’urlo si ovatta d’una strofa, e il sangue si cela in una rosa rossa. Francesca, la Nave, la Pisanella, il Martirio di San Sebastiano hanno canti e suoni. Francesca da Rimini, attraverso il poema di D’Annunzio e l’opera di Zandonai, è musica due volte. Zandonai intese come una direttiva estetica questo super-lirismo. La figlia di Guido da Polenta ha nell’opera una imponenza protagonistica che adombra tutte le figure che le sono intorno, e quasi rende fanciulla la personalità di Paolo. Non è ella la luce e Paolo il suo riflesso? Ora tutta la linea artistica di Francesca è in questa enunciazione: ch’ella abbandona il capo indietro per cedere al vento della melodia. «Amor le fa cantare», sono le sue parole nell’evocare e nel sentire le musiche, le danze, le canzoni dei cicli cavallereschi. Tutta l’opera è dunque avvolta in questa atmosfera di lirismo. Il canto senza amplificare le sue spirali, è fluidizzato di soffii lirici. Tutto lirico è il suo sinfonismo coloristico, nei tratti impressionistici e imitativi, nelle voci strumentali che riflettono, con tanta vitalità dell’opera, gli stati d’animo dei personaggi. I loro disegni ritmici ne seguono le graduazioni e le mutabilità. L’opera non ha dei «leit-motiv» propriamente detti. I suoi temi sono appunto semplicemente dei disegni ritmici che delineano con un tratto musicale particolare ogni persona drammatica. Paolo, il «Signore dell’ Amore», ha quel passo melodico del violoncello – che doveva essere la «viola pomposa» dell’epoca – e che lo accompagna anche quando la sua persona ha soltanto un influsso spirituale nelle scene. Disegno ritmico iniziato sin dal primo atto dietro le quinte, e che, pure alterato da sensazioni armoniche – dato «in minore» al second’atto – appare e riappare in tutta l’opera sino alla cantica finale. Il disegno ritmico di Gianciotto ha qualcosa di claudicante nei sui suoni. Lo Sciancato è fissato così figurativamente nel quadro musicale. La raffigurazione bieca di Malatestino, con le sue bizzarre battute del legno degli archi sui contrabbassi e l’effetto fosco ottenuto dall’applicazione delle sordine alla quarta corda. Francesca si presenta negli effluvii di quel coretto di donne di sapore arcaico che ne riflette la poesia al suo primo apparire, dopo la scena 34 del giullare e l’inganno delle sue nozze ordito da suo fratello Ostasio col notaio Ser Toldo. Questa cantilena interna delle donne – ritmata dal liuto, con le viole e l’oboe – è il primo brano notevole dell’opera. Francesca pare esali da questo evanescente favonio canoro che si propaga poi in un sommesso murmure orchestrale. Francesca comincia a vivere il suo dramma, che è dapprima presentimento, per essere poi incantamento, e per finire in travolgimento. Il presentimento sboccia da due fiori: dall’animo suo estasiato e dall’animo accorato e dolorante della piccola e bionda sorellina sua, Samaritana. Com’è dolce l’andante «O sorella! Sorella» nello sviluppo dell’estasi dell’una, dello sbigottimento dell’altra! E quanto soave contrasto è nel largo cantabile a due voci delle sorelle! Sulla loggia, la viola pomposa – ch’è poi l’incantevole violoncello di Viterbini – su un lentissimo tremolo d’archi dell’orchestra, e accompagnamento del liuto – mirabilmente suonato da Raffaele Calace – enuncia l’evento. Paolo appare. Un allegro brillante del cicaleccio delle donne. Il violoncello melodizza insistente il tema di Paolo. La celeste appoggia l’ansia sussultante di Francesca. Il coro delle donne in un arcadico osannare – «Per la terra di maggio/l’arcadore in gualdana» – par che compia un rito nuziale. Francesca porge la rosa vermiglia a Paolo. Il violoncello modula più dolcemente la sua cadenza carezzosa. L’orchestra ha una ripresa piena che va rallentando e perdendosi come in una sospirazione. Pare quasi che tutte le rose della spalliera del castello si siano sfogliate spandendo intorno un profumo inebriante. Viene a formarsi così l’effetto di questo finale ammaliante, che sparge intorno un senso d’indicibile poesia. Il maestro Zandonai mi ha fatto notare un particolare tecnico importantissimo. L’esclamazione fatidica «Egli è venuto», all’arrivo di Paolo, in quest’atto, è caratterizzata da due accordi di tritono, cioè intervalli assolutamente proibiti nella contrappuntistica, e che formano la base armonica dell’intero spartito della Francesca, ripetendosi nell’opera, ed in ispecie nella catastrofe finale. * Un quadro interamente diverso il secondo. Lo spartito specifica l’introduzione dell’atto con la designazione grave e pesante – accelerato, precipitando – sino al tempo calmo dell’entrata di Francesca sullo spiazzale di battaglia della torre guelfa dei Malatesta. L’atto è eminentemente descrittivo, d’una potenza coloristica impressionante. Il maestro ha potuto cospargere attraverso la scena – nell’imprimere il quadro di questa battaglia, di balestre, di fuoco greco, di mangani, di falariche, di bertesche – una ricca e magnifica tavolozza sinfonica. Ha potuto farne risultare un effetto imponente di fusione, che nella ridda strumentale e dei clamori, nell’avvicendarsi delle campane a stormo e degli aspri squilli di trombe, poteva essere una confusione, la quale è stata meravigliosamente evitata. Il dramma di Paolo e Francesca riluce pure – come un contrasto calmo, che fa sentire pertanto la sua battaglia intima – in quella spettacolosa contesa d’armi. Paolo, offerto alla donna che gli s’affianca come uno scudo nel suo pericolo, quasi cerca una fine alla sua pugna interiore, nel saettare vittoriosamente l’Ugolino. Ma non dev’essere quella la sua morte. Un dardo gli passa i capelli senza colpirlo. Tutta questa scena ha una particolare bellezza drammatica, che la tumultuosa scenografia del quadro non lascia rilevare abbastanza. Il largo sostenuto onde Francesca esprime quella specie di «giudizio di Dio» in raffronto alla frode perdonata dell’anima di Paolo, come il 35 «Padre nostro» seguente, e il grido devoto di Francesca: «Inginocchiati! Inginocchiati!», dopo la constatazione della salvezza dell’amante – sono pagine d’un grande artista. Ecco Gianciotto e il suo ritmo claudicante, e la scena del vino greco. Colori di scorcio tra gl’interstizi del quadro di sfondo, nel quale s’insinua alla sua volta il dramma già in atto di Francesca. Nell’invito «largo e solenne» ch’ella fa a Paolo di bere, l’augurio triste della buona ventura ai due fratelli – et anche a lei – sobbalza come il primo singhiozzo della mortale corona di angosce. La frase è ancor più rilevata da una breve perorazione innestata al tema di Paolo. I legami del dramma si tendono e s’annodano. È là il nemico truce: Malatestino, giunto malconcio dalla battaglia con l’occhio crepato da un colpo di pietra. Gli archi dei contrabassi battono il dorso sulle corde. Il concerto musicale sente di metallo rugginoso. La scena pietosa intorno al ferito è breve, come la pietà è vana. Il piccolo sciacallo è già in piedi più feroce, nel grido: «A cavallo! A cavallo!», con cui s’inizia la ripresa della battaglia. La tremenda botte di fuoco è manganata dall’alto della torre. Squillano le bùccine sulla scena (quelle bùccine fatte apposta per quest’opera e che servirono pure alla Nave del Montemezzi) – e il frastuono formidabile è colorato sinistramente dalle vampe della città che arde nel sangue. Le campane a stormo si confondono con gli urli umani e i fragori delle armi. È una impressione soggiogante. Ogni finale d’atto di quest’opera ne ha una, tra la poesia e l’orrore. * La camera di Francesca. La musica la dipinge come i suoi quadrelli istoriati, i fregi floreali, e i suoi festoni di canzonette amorose. Niuna bellezza maggiore è in quest’opera come quella della sua ambientazione, che rivela un’altra forma di lirismo: quello, dirò così, architettonico e ornamentale. Nell’aria è l’effluvio di Calendimarzo e delle canzoni a ballo. Lo fan sentire le donne di Francesca, e Francesca già ne ha inebriato il cuore e la fantasia, che quasi chiedono un refrigerio all’ossessione del desiderio di Paolo e alla perplessità paurosa dell’avventura. La scena ansante di Francesca e della schiava Smaragdi – per il beveraggio che dovrebbe paralizzare la vigilanza avversa – traduce questo stato d’animo. Come in quest’opera la musica rileva colora, delinea, denuda – come una possente radiografia di note! – questa materia fondamentale delle opere d’arte che è costituita dai prospetti degli stati d’animo! Francesca – che confessa alla schiava di non saper più pregare – non sa ella stessa se far chiamare o non far chiamare Paolo. Ma irrompono in buon tempo le donne e i musici. Si danza e si canta la Primavera. Ecco del Botticelli musicato. Im maestro ha qui ancora serbato la forma arcaica del brano, senza ricorrere a involuzioni melodiche e armoniche. Il canto a due voci ha due riprese, nella lenta figurazione della ballatella che lega di ghirlande le danzatrici, e mette in pugno alle cantatrici un simbolo di rondini. L’ultima parola della «stanza»: Primavera!, è come un unissono d’usignuoli che ha il profumo d’un’aiuola di quei narcisi onde Francesca e le sue donne si sono adorni i capelli. L’eco che si spegne lascia questa sensazione fragrante, che ha avuto a sé riportati, con largo sviluppo, i soffi odorosi dei temi del primo atto. Un tumulto orchestrale muta la sensazione. Smaragdi ha introdotto Paolo. Le prime parole dei due amanti hanno il suono sommesso di chi sente l’anima che si accinge più ad orare che ad espandersi nella passione. Fra quelle due anime e il bacio c’è come un senso di brivido del sacrilegio. L’incontro ha qualche cosa di ieratico che tende quasi più 36 all’inginocchiatoio che al talamo. Acutamente il maestro ha intuìto questa situazione psicopatica. Così il duetto si distacca, nella sua espansività, dai grandi modelli come quelli degli Ugonotti e del Faust, che portano gli ascoltatori negli spazi smisurati della grande melodia. Qui ogni frase d’amore è a fior di labbra, e par che non voglia trascinare il cuore sulla bocca. Pure, gli elementi isolatori si dileguano. La colpa finisce per essere dimenticata. Comincia ad alitare la loro Primavera. L’artista frattanto non dimentica i suoi coloriti. Sulla frase di Francesca: «Guardate il mare come si fa bianco» è una squisita pennellata imitativa di un’ondata. La donna è già spossata di contenutezza. Dopo quei tratti di mormorazioni e di silenzi, il libro galeotto – senza espandere il canto, anzi quasi soffocandolo – non dà che un ritmo plastico: il bacio. Un grido: Francesca. Un bisbiglio: Paolo. E alla Primavera della passione fiorita di quella stanza s’intreccia l’eco lontana del Calendimarzo delle fanciulle. Ancora un finale di grande poesia e di commozione intensa. In quest’atto, nell’attesa di Paolo, è introdotto ad appoggiare il suo tema il flauto basso (un’ottava sotto), già adoprato da Mascagni nella Parisina. * Tutto è torvo nella prima parte dell’atto quarto. Il battito legnoso dei contrabassi infosca il duetto insidioso di Malatestino con Francesca. Incombe sulla scena l’influsso di questo «castigo d’inferno», come lo chiama Gianciotto. I suoni hanno qualcosa di tenebroso. Tutto l’atto mantiene una sensazione di brividi, non certo fugati dal suono zoppicante che accompagna Gianciotto. Il maestro ha qui trovato dei contrasti d’una rilevante importanza artistica. Egli ha commisto di leggiadri ritmi di grazia, nei declamati e cantabili di Francesca, il cupo sfondo della situazione. Anche Gianciotto ha nel suo frasario della gaiezza galante. È una schermaglia sottile – e quasi involontaria in entrambi – che la musica traduce, per chi la segue attentamente, con una rara ricercatezza. Ma questo sprazzo di sole – che ha tutto l’aspetto d’un paesaggio – in quella tenebra, è subito ricoperto dall’urlo del prigioniero sotterraneo al quale Malatestino ha reciso il capo. L’urlo orrendo fa fuggire Francesca. E i due fratelli, Malatestino e Gianciotto, si trovano di fronte. L’orchestra ha dei tocchi lenti e insistenti di marcia funebre. L’atto segue una salda e impressionante linea sinfonica. Il duetto fra i due giustizieri è tutto avvolto da un ansante sincopato, in un alternarsi di terzine e duine, con qualche rapido tocco di cornette in sordina. Vi s’innesta, a tratti, come in dileggio, il tema di Paolo, riportato in grottesco. Tutto ciò esplode nella furia non più repressa di Gianciotto e nel suo impeto di volontà di scoprire quella notte istessa il tradimento. E nel suo insieme, tutta questa musica sinistra è veramente terrorizzante. * C’è una sosta di triste dolcezza nell’altra parte dell’atto. Lo spartito segna – nella verità e nel contrasto – allegretto triste. Siamo al principio della catastrofe. Quel violoncello d’amoree come rinnova i suoi singulti! Francesca è in sonno. Un soffio strumentale la culla. Zandonai gridava alle prove ai suoi esecutori: «Fatemi sentire il niente!» È in non pochi punti dell’opera che egli sente la necessità di raggiungere precisamente una percettibilità musicale che sia appena un fluido. E buoni risultati di fluidità questa Francesca ne ha ottenuti. 37 Il suono della celeste si fa sentire nella mestizia notturna. La scena – è stato detto – conduce il pensiero e il sentimento a quella di Desdemona, ma Zandonai s’è tenuto ben lontano dal rievocare qualsiasi rimembranza – anche d’identità puramente occasionale – della Canzone del Salice e dell’Ave Maria. In quest’ultimo atto di Francesca, per quanto l’ambiente possa parere simigliante, la struttura musicale è essenzialmente diversa. Di una soavità toccante è la scena di Francesca e Biancofiore, che riporta in quest’atto il tenero canto di Francesca e di Samaritana, come al ricordo dell’angoscioso presentimento della piccola sorellina bionda, poiché anche Biancofiore è piccola e bionda, e non giunge ad accendere la sua lampada al torciere. Si riode la dolcissima frase: «O Sorella, sorella», e il violoncello singulta l’immagine di Paolo. Biancofiore se ne va; e Paolo è anelante, avido di voluttà, nelle braccia di Francesca. Questo secondo duetto dei due amanti è pieno di slancio. Sentiamo evolversi e svilupparsi il noto tema di Paolo; e una cantica unisona quasi suggella, in un ampio esaltamento, la consacrazione dell’olocausto. La catastrofe è fulminea. Quasi più plastica che musicale. La musica non ha più niente da dire. Tornano, nel tragico momento, i ritmi di Malatestino e Gianciotto; e, come ho accennato più su, l’opera finisce coi due famosi accordi di tritono. Un pieno orchestrale quasi strozzato; tutto è finito. «Amor condusse entrambi ad una morte!...» Il successo L’esecuzione Quella di Francesca è una musica eminentemente aristocratica, tutta ricercatezze sottili. Il pubblico ne intese e comprese in ispecie tutta la parte di sentimento e di poesia; e con ciò vi fu il trionfo completo del lirismo dell’opera. E a niuno sfuggì il vasto disegno strumentale, che salda tutta l’opera in una superba unità di concezione e di struttura, in cui la forza di espressione e di colorazione del sinfonista delinea tutta la personalità dell’operista moderno. La sensibilità del nostro pubblico non si lasciò cogliere dalle impressioni intense della parte truce – che ha così sorprendentemente possanza nell’opera – e fu in questa parte meno espansiva. Ma quanto slancio di spiriti eccitati al trascinante finale del primo atto e dopo il terzo e alle toccanti soavità del quarto, ed anche all’impressionante quadro della battaglia!... Le chiamate agli artisti e all’autore furono quattro al primo atto, cinque al secondo, sei al terzo, in una progressione crescente, che prese le proporzioni – nel ripetersi delle acclamazioni del terzo – d’una calda e lunga ovazione. Applaudiva unanime tutto il teatro, e al pubblico si unirono in un particolare omaggio i professori d’orchestra. Questi applausi furono men vivi alla drammaticità bieca degli altri due atti, forse per l’impressione stessa ch’essi produssero; ma il successo di Francesca a Napoli, nella sua pienezza, nella sua importanza, nella sua elevatezza, era misurato com’è lo stesso dramma musicale: nella grandezza della sua saldatura. Questo successo non farà che crescere a dismisura nelle successive rappresentazioni. L’opera è di quelle che si riassaporano e si compenetrano a fondo. L’esecuzione – nella profonda e minuta comprensione che dell’opera diede l’autore, e sotto la sua direzione animatrice, viva, palpitante, suggestionante, che trascinava tutti, in sicurezza e in forza di 38 rendimento e in bellezza di fusione – fu per consenso unanime un vero modello. Gilda Dalla Rizza è veramente la grande poesia di quest’opera, nella plasticità, nella mirabile raffigurazione del personaggio, nella sorprendente linea d’arte di questa sua magnifica creazione. L’interprete e la cantante, in un vero prodigio armonioso, formano una bellezza sola. Quella meravigliosa voce che ha così singolari inflessioni, che fa del sentimento un incantesimo e della drammaticità una commozione veemente, assume nei canti di Francesca tutta la grandezza d’un poema. Ogni frase risponde a un ritmo di questa stupenda armoniosità artistica; e i gesti, l’atteggiamento, l’espressione del viso, sono elementi che compongono in grado supremo la meraviglia. Francesca è splendidamente integrata nel temperamento, nelle qualità, nell’aspetto, nell’intelligenza, nell’anima di questa creatrice di grandi figure. Nulla di più nobilmente elevato, e nulla di più irresistibilmente adorabile. Le lunghe, entusiastiche, clamorose ovazioni del pubblico consacrarono indimenticabilmente la grande trionfatrice dell’interpretazione dell’opera. La parte di Paolo è assai difficoltosa e d’una responsabilità artistica e personale straordinaria in un personaggio destinato a funzionare da campione di bellezza. Il tenore Di Bernardo ha una voce calda e canta con espressione; e la raffigurazione del personaggio si antenne nelle sue linee. Vigoroso, rude, caratteristico, superbo Gianciotto fu il baritono Franci, che sfoggiò con la consueta prodigalità la smagliante sovrabbondanza della sua voce. Una affermazione di artista completo, in una parte d’importanza considerevole, il tenore Papaccio. La sua interpretazione di Malatestino eleva di colpo ai gradi superiori il cantante e l’interprete. Un successone. Graziosa, avvincente, nella bella voce che esprimeva con tanto accoramento il dolor di sorella, nella parte di Samaritana la valentissima Nadina Gontarouk. E una bella e notevole linea di personaggio, per la schiava Smaragdi, la simpaticissima Mita Vasari. Ottimo il baritono Zuccarelli, un Ostasio dalla voce robusta e incisiva; e veramente eccellente il gruppo delle ancelle ed in ispecie, per le graziose voci, Margherita Corelli (Biancofiore) e Bice Citarella. Una magnificenza le scene, splendide di visuale, di costruzione, di evidenza storica; ed ammirevoli di ricchezza e di proprietà i costumi. L’orchestra è stata in tutto degna dell’illustre maestro e dell’insigne direttore. Così il grande spettacolo di questa splendida opera è veramente completo. ---------(*) NOTA: Nella parte seguente del giornale si annuncia che Zandonai sta componendo l'opera Giulietta e Romeo. 138 Saverio Procida, “Francesca Mezzogiorno», 16-17.1.1921 da Rimini» del maestro Zandonai, «Il Il successo Si può essere brevi nella cronaca per dilungarsi sull’opera d’arte, che merita, per la sua nobile bellezza, un esame approssimativamente largo. La cronaca è riassunta in tre parole: Un gran successo. Il maestro Zandonai ha trovato nel nostro più eletto pubblico – e la magnifica sala d’iersera ricordava i tempi delle solenni premières sancarliane – l’opportuna sensibilità per gustare di prim’acchito la linea elevata, nell’ornamento e nella sostanza musicale, dell’opera, di questa poetica 39 trasfigurazione d’un fiero peccato d’amore. Il palpito ardente e soave, fra tanto ferro di Medio-evo, che D’Annunzio ha sentito nella Francesca, s’è trasferito nella musica del maestro di Rovereto. Questo ha subito compreso il pubblico napoletano fin dalle prime scene di Francesca ed ha seguito con interesse il quadretto iniziale che ambienta la corte polentana. Il primo coretto di languori amorosi intorno a Francesca ha cominciato l’opera di suggestione. Ma la Francesca non chiude mai i suoi pezzi e l’impressione non può tradursi in applausi. Si coglie la delicata impressione di tenera tristezza dell’uditorio al dialogo fra Samaritana e Francesca, di cui più giù diremo l’importanza tematica. L’esagitazione corale – qui e altrove il coro fu eccellente, a tutt’onore del maestro Papa – all’arrivo di Paolo già avvince il pubblico. Tutta la scena finale dell’atto l’immerge in un’atmosfera di poesia. Gli ultimi palpiti dell’orchestra sono interrotti da applausi e a velario chiuso c’è un’esplosione magnifica, che rende trionfale l’accoglienza al prim’atto. Dai palchi e dalle poltrone – indice di successo autentico – tutti si levano in piedi. Cinque chiamate piene coronano l’impressione di soavità. Gli artisti – la Della Rizza [Dalla Rizza] aveva già preso per sé un bell’applauso – si trascinano dietro il suo maestro, che in fine è lasciato solo a godersi le acclamazioni, cui s’unisce l’orchestra. Il second’atto – definibile un vero tempo sinfonico – ha, data la sua struttura e la sua esuberanza descrittiva, un successo cordialissimo. Il pubblico s’è interessato al turbine strumentale della battaglia e non gli è sfuggito la tragedia passionale che nasce fra le saette per giudizio di Dio. Anche quest’atto è acclamato, in fine, con tre chiamate agli esecutori e una allo Zandonai, che ha saldamente condotto l’orchestra con un vigoroso senso del ritmo. Al terz’atto il successo cresce ancora. La canzone a ballo diffonde una frescura di cui è sensibile l’effetto sulla massa. La grande scena d’amore – pagina di poesia musicale non facile ad afferrarsi nella sua progressione di canto – è intesa invece con immediatezza. Neanche il miagolio d’un poppante in platea – o Erode, come ti compresi in quel punto! – disperse l’emozione del pubblico. Cinque chiamate unanimi alla Della Rizza, aggiogante per espressione e accento, al Di Bernardo e al maestro. Ma ci sono per Zandonai altre due chiamate, che suggellano il gran successo di Francesca nel punto culminante della sua espressione musicale e poetica. Il quart’atto resiste a questo climax, che avrebbe potuto nuocergli. Il duetto della delazione agguanta per la sua dialogazione secca e cupa. Ormai il pubblico segue con interesse il compositore anche dove egli incide in declamati il dramma. La seconda parte di quest’atto commuove un uditorio che avrebbe diritto a sentirsi affaticato, E il breve e ardente duetto finale scuote ancora allo scoppio delle due voci sul tema d’amore. La catastrofe fulminea non disperde il fascino. E altre quattro chiamate consacrano il successo di Francesca. Gl’interpreti A Gilda Della Rizza i primi onori. Ella ha dato a Francesca la soave bellezza della sua voce squillante e pastosa, un accento nobile e incisivo, una foga interiore di spasimo che non ismania in gesti ma si plasticizza nella sua arte di declamazione. Il suo trionfo di cantante non offusca quello dell’interprete sicura e sollecita di ogni particolare psicologico o scenico del personaggio. Il pubblico la salutò come collaboratrice del maestro. Il tenore di Bernardo ha larghezza di fraseggio, impeto drammatico, azione efficace. Il Franci dette a Gianciotto la robustezza dei suoi mezzi, una sagace coloritura nel declamato, qualche impeto vocale che 40 riaffermò la fresca rotondità delle note di questo baritono prezioso per la sua duttilità di cantante e di attore. Non credo che Malatestino potrà mai trovare un tenore come Papaccio, che gli dia la baldanza, lo squillo, il sicuro movimento scenico offertogli dal giovanissimo artista. Fu una rivelazione, iersera. Ottima Smaragdi Mita Vasari. Con molta espressione e giustezza cantò in una parte breve ma d’importanza musicale. Nadina Gontarouk (Samaritana) e le quattro donzelle di Francesca – signorine Citarella, Corelli Corsi e Cammarota – si fecero onore nei difficili dialogati e nella canzone a ballo, di così ardua intonazione. Un Ostasio di bella presenza e di chiara declamazione il baritono Zuccarelli; il Giullare ebbe nel Niola un attore di scena disinvolta e un buon Toldo il Burri. A questo insieme vocale molto accurato nelle troppe parti secondarie dell’opera corrispose una messa in iscena splendida. La corte col loggiato del palazzo Polentano, la Torre mastra del 2. atto, con tutto il suo complicato macchinario bellico, che funzionò in bagliori di fuoco greco e in lancio di saette; la stanza di Francesca istoriata in perfetto stile di affreschi e suppellettili e il salone d’armi dei Malatesta sono veri quadri inappuntabili come fasto. L’impresa Laganà ha riscattato varie colpe del passatoi con l’allestimento perfetto di questo spettacolo, che il vestiario ricco completa nel suo aspetto pittoresco. L’opera d’arte Fin dalla comparsa della Francesca – sette anni or sono, a Torino – io ebbi occasione di manifestare pubblicamente il mio giudizio. E oggi, anche dopo più maturo studio, nulla ho da mutare alle prime impressioni. L’opera dello Zandonai non ha come introduzione che poche battute, per attaccar subito dopo un chiaro e snello dialogato fra le donne di Francesca e il Giullare. Questa scena svelta e scorrevole ha un sobrio accompagnamento orchestrale, che non forma ancora un vero disegno, come più tardi ne vedremo, ma delle pennellate, in modo da lasciare all’intreccio delle 4 voci e alle repliche del giullare aspetto di libero recitativo moderno. E così continua fino al duettino fra il notaio Ser Toldo e Ostasio (secondo tenore e baritono) nel quale pezzettino il maestro ha inteso assimilare al testo tutto moderno dell’opera un brano caratteristico di antico recitativo – di tradizione italianissima – basandolo sopra un tessuto strumentale che lo coordina al carattere generale della musica, pur lasciandolo vocalmente isolato. Ma come tentativo di innesto, tra fisionomia antica ed intimo allacciamento moderno, io preferisco assai di più la scena seguente, un vero episodio squisito, che inquadra l’entrata di Francesca. D’una gentilezza malinconica sono le note di lei inserite sul coretto plorativo delle donne: Ohimè che io adesso provo Che cosa è troppo amore. La melodia, lo strumentale, hanno un sapore arcaico nella cantilena a coro che l’orchestra finemente sottolinea nel fonderla con tutti gli incisi quasi sognanti di Francesca e col soavissimo rimpianto di Samaritana, la piccola sorella cui lo Zandonai dà subito un personale carattere di grazia dolente e d’amara pena, che tornerà nella seconda parte dell’atto quarto, a evocazione elegiaca d’un funesto presagio. 41 Per intanto, già in questa scena la coloratura orchestrale sul canto delle due sorelle è tetra, a singhiozzi repressi. Come sono funebri i due incisi di Francesca: Egli è venuto. È venuto, sorella! Man mano il canto di Francesca si modifica in un lieto presagio (Verrà in breve anche il tuo giorno!) ma le due voci si fondono di lì a poco, per ritornare alla tristezza fondamentale di questa squisita scena. Un animatissimo attacco del coretto preannunzia a Francesca l’arrivo dello sposo. Sorge qui il tema di Paolo, che uno strumento ricostruito a posta dagli antichi modelli – la viola pomposa, di timbro più chiaro del violoncello – inizia melodiosissimamente, svolgendo la spirale con nobiltà grave, che subito ci conquista per il suo inclito portamento e che dominerà in orchestra sino alla fine dell’atto. È questa la scena più suggestiva dell’opera. Francesca ha note di trepida emozione. Samaritana irrompe con lo scatto drammatico: O Francesca, Francesca, che hai tu veduto? – mentre l’orchestra amalgama queste espressioni diverse di emotività diverse con un insistente mormorio, in gran parte di archi, a guizzi ritmici ed un semplice cantabile di Francesca «Portami nella stanza e chiudi la finestra» dà un senso di raccoglimento estatico che le sordine degli strumenti mantengono. Ma di nuovo il coro, che in questo brano è di un colore ineffabile, interviene con l’arcadica maggiolata di chiusa e l’orchestra vi ricama un dolce susurro, intanto che Francesca porge a Paolo la rosa spiccata dal rosaio vermiglio. Cresce man mano questo voluttuoso flusso sinfonico e quasi perora. Ma poi ridiscende e vi domina un tenero effluvio del piffero, che già si era unito al coro per dargli carattere pittoresco e molle. E l’atto si chiude su di uno smorzo delizioso che pare un sospiro di amore. *** Tutto muta nel secondo atto, fin dalle brevi battute minacciose che l’aprono. È questo un atto di colore, di impressione, che va considerato nel suo insieme di descrittività continua, concepito come un blocco sinfonico che quassi soffoca la drammaticità della rivelazione d’amore nel folto del cimento, tra le grida di furore p di trionfo e lo stramazzo dei morenti. Tutto vi è imitato: i ghirigori del fuoco greco, le parabole delle frecce, i massicci movimenti del mangano e l’orchestra tesse tutta questa onomatopea belligera in un disegno generale che sinfonizza l’azione, vi incorpora le frasi, i declamati, persino i drammatici accenti e una libera melodia di Paolo, che si fa largo attraverso gli incisi caldi di Francesca. Sembra che l’orchestra voglia cessare, dopo un bel richiamo del tema di Paolo, che ha percorso in largo il finale primo; ma è una sosta. Presto sorge un movimento cupo in cui dominano contrabassi e trombe, e un rintocco di campana impasta le grida dei balestrieri. Si ha appena il tempo di notare un recitativo melodico di Francesca sul giudizio di Dio, che dovrà uccidere Paolo alla finestra imbertescata oppure condonare il peccato. Spunta anche un brano di melodia drammatica nella scena del dardo che rasenta il capo di Paolo e un mirabile breve declamato «Inginocchiati, inginocchiati», ma il grido dei balestrieri rattizza la foga orchestrale fino all’arrivo di Gianciotto, che si presenta con un minaccioso brontolio di contrabassi, con incisi vocali a scatti, reiterati ed uguali. Ancora una sosta nel duetto fra Gianciotto e Francesca, che ha una forma quasi galante di dialogo melodioso mentre gli sposi si dissetano col vino greco. Ma beve anche Paolo ed allora l’orchestra si intorbida. Come brontolano i 42 tromboni a cupe sincopazioni, quando Gianciotto dice a Francesca: «Donna, versategli una piena coppa e bevetene un sorso». È tristemente elegante la frase di Francesca: «Bevete, mio cognato, nella coppa dove ha bevuto il fratel vostro». C’è lo stento, e l’orchestra l’annota con una pretta figurazione wagneriana, dapprima torva, poi triste. Preme l’orchestra e si abbuia, mentre è portato in iscena Malatestino, il cui tema ha una strana rassomiglianza ritmica con gli accordi misteriosi della cappa magica nell’Oro del Reno. Questo Malatestino stridulo e feroce ja una bella delineazione musicale, nella sua breve ma accentuatissima fisionomia. Un inatteso e caratteristico grido ne scolpisce il superbo disprezzo di piccola tigre. È bello il suo impeto – a cavallo, a cavallo – e prelude di poco alla furia orchestrale nel lancio del mangano, che manda faville di fuoco greco. Una frase la domina per accentrare su di sé tutto lo strepore selvaggio della furia bellica, che chiude come ha aperto l’atto. La descrizione comprime o al più circoscrive la grande corrente drammatica di questo atto dal poeta commista alla strage, in uno dei suoi più favoriti atteggiamenti di sensualità acre attizzata dal sangue. *** Ma il terzo atto ci riconcilia alla dolcezza del primo. E con la poesia di amore che nobilita il peccato nella suprema indulgenza dell’arte. Il tema di Paolo si presenta subito come a cifrarsi di passione. Francesca legge l’istoria di Lancillotto e le damigelle stillano un riso che l’orchestra mesce nella tavolozza leggiadra ond’è affrescato il dialogare delle quattro donne di Francesca. Si fa sempre più fine e gentile il coretto fra l’uno e l’altro tocco drammatico. – Tocchi soltanto – negli accenni al beveraggio della Torre Mastra e all’occhio terribile di Malatestino. Ecco ora la canzone a ballo, allegoria di primavera. Un olezzo. È canto fresco di una grazia più da Rinascimento che da Medio Evo – direbbe un pedante dell’estetica – ma così soave e gentile, così fiorito e vezzoso, che l’orchestra se lo pispiglia con tutte le sue più apriche ingemmature, con tutte le sue più rosate aurore, durante l’armoniosa cantilena delle donzelle, che la chiudono in una grande carezza vocale. È un brano di suggestione magnifica che profuma d’amore la soglia del gran duetto. Paolo entra fra queste fragranze dell’aprile [marzo] e subito la scena procede in una specie di melopea legata. È legata da una orchestrazione che anima ed agita soavemente i cuori. Non vi è più stacco di voci fino al termine dell’atto. Dove la melodia vocale ha un rilievo d’amoroso languore, l’orchestra diviene capillare e teme quasi di gravare sulla cantilena, e le parole di Francesca: Non richiamate, prego, L’ombra del tempo in questa fresca luce Che al fine mi disseta. fluiscono in suoni vaporosi. Alla risposta di Paolo: Inghirlandata di violette m’appariste ieri la celeste entra con un effetto quasi floreale, come il solo strumento di flebilità che possa reggere con lieve accompagnamento una anima rapita in una visione. E continua in aurea semplicità questa orchestrazione portentosa di circospezione e di rispetto, la sua larga ascesi contemplativa, di un 43 misticismo erotico, che va di levità in levità sino alla commozione più dolce all’infiltrarsi del tema dominante di Paolo sull’inciso: Ora perché vi togliete dal capo la ghirlanda? La lettura del libro è ripresa con qualche tono grave. L’orchestra è più che mai leggiera, trasparente, ha quasi un arresto, poi ricanta il tema protagonistico, lo modula diversamente, lo lascia crescere fino al bacio, dove finalmente essa perora, ma dolce sempre – e un flusso interno, come un’eco tardiva delle voci primaverili, susurra in cadenza fra i due sospiri melodici degli amanti: Paolo! Francesca! *** Siamo alla catastrofe. La prima parte del quarto atto ansima nel dialogo che io chiamerei di ribrezzo fra Malatestino e Francesca. La musica ha nella brevità il suo tono tragico. Vi sono suggestivi brividi orchestrali per il prigioniero che urla ed alfine tace di un silenzio di morte. L’avvertimento: «Cognata, buon vespro», ha un guizzo truce. Il dialogo fra Gianciotto e Francesca va lesto e ha sobrio trattamento orchestrale. C’è quello ben più drammaticamente importante della delazione. E difatti il commento si fa più aspro, più incisivo. Sono più tocchi, gravi e rapidi, che colorazioni descrittive. La declamazione vocale è ora secca ora tortuosa. L’orchestra si concentra in un ritmo di brivido reiterato, a scatto, con una trattazione sobria che divien tragica quando Malatestino asserisce di aver veduto e promette di far vedere. Il «voglio» sonoro e irruento di Gianciotto aggela. Giacché si procede per alternative di cupo e di soave, in questa tragedia tutta teatralmente ben calcolata, l’ultimo quadro ha ambientazione di elegia. Perché tacerlo? Lo Zandonai ha risentito in questa parte l’influenza dell’Otello di Verdi. Non c’è una sola nota che simile al divino quarto atto del bussetano. E tuttavia la tristezza elegiaca, il colore, il sentimento del presagio mortale derivano da quell’eccelsa fonte del patetico sublime. Sono identità ideali, non materiali. Certo, questa scena è di una bellezza compiuta. Le ancelle vegliano il sonno e l’incubo di Francesca. Poi ella si riacqueta, ma domina la malinconia, che esala dalle voci sommesse e dai toni lamentosi dell’orchestra. Si giunge così al soavissimo duetto di Biancofiore e Francesca. Come ogni nota di questo squarcio stilla dolore, presentimento, angoscia quasi inconsapevole. Torna il dolcissimo tema di Samaritana, che Francesca evoca e si imperla di tenerezza plorante, e geme dentro. Ogni inciso sinfonico è un singhiozzo su cui gravi, quasi spettrali, piombano le note basse di Biancofiore: Dio vi guardi, Madonna! Il duetto ultimo degli amanti è concitato, di una impetuosità malsicura, ha soste di dolcezza, ma quasi l’urge la necessità. Gianciotto è all’ uscio. Batte, entra, uccide, e l’orchestra ha il tempo appena di dare gli accordi ferali, il sincopar torbido, come a liberarsi. Pochi accordi e il velario si chiude. *** Francesca è lirismo. Ed il dramma deve passare come una bufera. Sintetizziamo con metodo telegrafico. La Francesca è un’evoluzione dello stile di un musicista già illustre come Zandonai, doviziosa sensibilità di artista in un temperamento sinfonico, che possiede ricchezza di colore, nobiltà di disegno, gusto aristocraticissimo, elasticità e morbidezza di strumentatore. 44 Egli ha voluto entrare nel dramma, e attraverso il lirismo ha cantato, ha depurato con grazia vocale ciò che prima esplodeva con effervescenza sinfonica. Qua e là l’impressionista risolleva il capo, e in tutto il secondo atto, e in qualche squarcio del primo quadro dell’ultimo atto, la tramatura orchestrale soverchia perfino l’espressione. Ma sono irruzioni del sinfonista nato, che forza con l’istinto l’equilibrio dell’artista. Dove il dramma allaga la scena, egli lo segue dappresso, lo rende in trasparenza, in soavità, in ispirazione melodica, precisa e franca, alleggerendo, semplificando, raffinando il suo strumentale al quale ha dato un carattere così personale, così omogeneo, così squisito da renderlo più che sapiente, significativo. La trattazione orchestrale, nella Francesca, è robusta, ma è anche elegante, duttile, cristallina. E tutta la vocalità dei personaggi cifra d’italianità questo canto d’amore e di passione non eruttiva, ma finita e spontanea. Molto guadagnerà quest’opera a essere riascoltata, giacché è il frutto di una evoluzione mentale che rimonta al carattere indelebile della musica nazionale e vi apporta la grazia della esperienza moderna, col contributo di un sinfonismo che non torce né l’idea, né la sua veste melodica o declamativa. La Francesca è, ripeto, il nuovo orientamento di un ingegno robusto e sicuro. L’artista canta vaneggia e geme su note umane, non per congegni metallici. Non è ancora uguale l’ispirazione ma è netta e chiara dov’è viva. Questo maestro giovane e vigoroso, insomma, è un astro che sfavilla in un cielo nostro. 139 Diego Petriccione, “Francesca Carlo”, «Roma», 17.1.1921 da Rimini” di Riccardo Zandonai a “S. I quattro atti nei quali è divisa la tragedia di Gabriele D’Annunzio – ridotti da Tito Ricordi con opportuno senso di misura, sfrondandoli di quanto non era necessario alla vicenda scenica, e così di un numero rilevante di versi – hanno dato agio a Riccardo Zandonai di scrivere un’opera – sinfonica, rispondente pienamente al suo eletto temperamento di musicista. Poiché – è oramai cosa acquisita – bisogna riconoscere nel compositore della «Francesca da Rimini” un «sinfonista» di singolare valore. Riccardo Zandonai sente «sinfonicamente», rende con ricca tavolozza quanto vuol significare nella espressione musicale e dà così rilievo a figure ed a cose con risultato notevole. E poiché è un musicista italiano, questa sua «italianità» lo induce a non trattare da umile ancella mai la melodia. Egli sa, nell’opera che abbiamo ascoltato con un compiacimento, dare così al canto degno posto con frasi – talvolta di ampio respiro – sempre elette, sempre svolte con arte squisita. Ma nella «Francesca» domina sopratutto il sinfonista. I quattro atti sono vari, sono musicalmente di un interesse sempre grande. L’artista ha inteso profondamente la tragedia di «Francesca e Paolo», l’amore che li «condusse ad una morte» ed ha saputo rendere il loro dramma e tutta la possanza della loro passione con accenti sinceri, fin dall’inizio del lavoro. Ecco così la bella frase d’amore (che si allarga e domina poi nel grande «duo» del terzo atto, nella magnifica scena d’amore soffusa di tanta bellezza) annunziarsi fin dal primo incontro di Paolo e Francesca, quando ella, la dolce figliuola di Guido da Polenta, sente nel tumulto che ha nell’anima essere Paolo lo sposo dell’anima sua. 45 Il primo atto della «Francesca da Rimini» così racchiude in sé tutta la soavità, tutta la dolcezza amorosa, che poi divampa in fiera passione. È tutto un fiorire primaverile in quel primo atto. Calen di maggio esulta. Dal giullare, che fa una ricercata sulla viola e canta, al cicaleggio delle donne di Francesca, al Coro interno delle stesse che fa esclamare a Francesca: «Amor le fa cantare!», alla dolce scena fra Samaritana e Francesca, soffusa di tanta melanconia e che determina, nel discorso musicale, già la figura della protagonista della tragedia, al mirabile quadro dell’incontro primo di Paolo e Francesca, che non si scambiano parole ma sentono la dolce estasi d’amore, passa nel primo atto la grazia squisita di un artista che sa e rende il nascere di un amore che poi conduce ad «una morte». Non so chi abbia detto che quel primo atto, nell’economia scenica del lavoro, non sia necessario. Certo, musicalmente, il giudizio sarebbe errato. Per intendere tutta la possanza del terzo atto della «Francesca da Rimini» di Zandonai non è possibile allontanare la mente dal quadro così fresco, così squisitamente disegnato, così finemente colorito del primo. Quando, nell’infuriare della battaglia al secondo atto, Francesca s’incontra con paolo sulla piazza della torre rotonda della casa dei Malatesti, ella ha già subito l’inganno di essere stata data in isposa a Gianciotto lo sciancato, e noi siamo già nel pieno della tragedia. I due già sono per diventare amanti. Ed è musicalmente reso ciò con risultato veramente notevole. Qui il sinfonista ha modo di far valere tutti i suoi mezzi. Può raggiungere gli effetti che crede meglio e necessari al lavoro. E nel divampare della battaglia ecco la voce di Francesca pregare, e nell’orchestra passa lo sgomento, l’ansia di lei, commisto al cozzo della passione di parte dei balestrieri, mentre le campane suonano a stormo. La musica sale per gradi fino a raggiungere il finale poderoso, quando la gente dei Malatesti grida vittoria. Ma noi già conosciamo in questo secondo atto chi siano Gianciotto e Malatestino. Nel tema musicale del primo è tutta la rudezza dell’uomo, ma non perfido; violento, crudele ma sincero; mentre nel fosco tema che caratterizza Malatestino appare tutta la figura obliqua di quel perverso che poi, nel primo quadro dell’atto quarto, manifesta meglio ancora tutta la sua indole, la sua sozza passione per Francesca, nella scena che prepara la catastrofe finale. Ed ecco qui necessaria una osservazione. L’impiego dei «temi-guida» è fatto in tutta l’opera con mirabile accorgimento. Naturalmente è una derivazione questa schiettamente wagneriana, come sinfonicamente lo Zandonai sa nell’orchestrale avvalersi dello studio fatto sulle opere del grande autore della «Tetralogia»; studio che onora il musicista nostro perché ha saputo far proprio quanto era stata conquista musicale dell’altro. I «temi-guida» seguono, annunziano, commentano la figura di ciascun personaggio ricordano il singolo episodio e si intrecciano nel discorso musicale c on vera perizia da parte di un Maestro che sa cavarne partito ed avere una fisionomia propria. Questa nota personale, che è poi necessaria per ogni vero artista, risulta nel lavoro perché il musicista vuole essere sincero, perché è sincero. L’opera è «sua» perché così l’ha intesa, perché non si è accinto a scriverla per semplice spirito di imitazione o per mostrare la propria valentia di sinfonista, ma perché egli si è commosso al dramma ed ha trovato i corrispondenti accenti di commozione. Ecco così spiegata tutta la efficacia del terzo atto, nel quale il ricordo dantesco della passione di Paolo e Francesca: Noi leggevamo un giorno per diletto Di Lancillotto come amor lo strinse; 46 Soli eravamo e senza alcun sospetto... assurge nella musica a pura espressione passionale drammatica. Passa davvero nella grande scena di dedizione, della passione avvolgente del «due cognati», nella frase, nella musica, nell’orchestrale il fremito d’amore di Paolo che bacia Francesca sulla bocca... Esser baciato da cotanto amante! Non ha forse, nella parte seconda del quarto atto, turbato un po’ il musicista il ricordo della scena di Desdemona nell’«Otello» verdiano, prima di dire le sue orazioni, mentre la morte è pronta per ghermirla a mezzo della vendetta di Otello? Certo la posizione scenica è quella. Ma ben diversamente il dramma qui precipita alla catastrofe. Qui tutti i «temi» principali dell’opera si fondono. La frase d’amore è interrotta dall’urlo di Gianciotto, dal suo irrompere nella camera con la punizione dei due cognati in peccato d’amore... Dunque, Riccardo Zandonai ha vinto anche fra noi la sua bella battaglia d’arte. Ha vinto perché è sopratutto un Maestro sul serio, perché sa quello che può concedere al pubblico con la sua arte, nel disporre dei propri mezzi con sicurezza. Non mi dilungherò a rilevare questo o quel pregio della tragedia musicale. Mi piace rilevare soltanto che il pubblico è stato di parere concorde, applaudendo il valoroso compositore, evocandolo singolarmente alla ribalta dopo ogni atto. Della esecuzione orchestrale è giusto rilevare i pregi. L’opera è stata concertata e diretta dallo stesso Zandonai. Tutte le finezze dello spartito, tutti i coloriti, tutte le sfumature, sono stati da lui curasti, messi nel dovuto rilievo, in valore. Onde da questo lato si può dire che il risultato è stato eccellente. In quanto alla esecuzione scenica e vocale, il primo posto spetta alla signora Gilda Dalla Rizza, che ha dato tutto il rilievo scenico necessario alla figura di Francesca. Ha reso nel canto e nell’azione la passione di lei per Paolo, il tormento, l’angoscia e poi il fatale abbandonarsi alla passione amorosa. Meno felice ci è sembrata la scelta degli altri esecutori. La parte di Paolo era affidata al tenore Di Bernardo, che ha simpatici mezzi vocali ma non sempre ci è parso sicuro nella intonazione e sopratutto nell’arte di saper legare i suoni. Gianciotto lo sciancato era il baritono Franci, non precisamente all’altezza del proprio compito. Mediocre il Malatestino di Papaccio, che non ha potuto rendere il carattere del bieco fratello di Paolo Malatesta nella determinazione scenica e vocale del personaggio. Mediocre la Gontaronck [Gontarouck] nella parte di Samaritana, la soave sorella di Francesca. La parte di Ostasio è stata resa dal baritono Zuccarelli. Discreta Smaragdi Vasari. Le altre parti delle donne di Francesca hanno avuto una volonterosa esecuzione dalle altre zelanti cantatrici. Per la «Francesca da Rimini» la messa in iscena non ha lasciato desiderare. 140 r.f., “Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai al “San Carlo”, «Il Mattino», 16-17.1.1921 Appena apparsa la tragedia d’annunziana, per il suo largo, armonico e euritmico disegno, per l’émpito dei suoi suoni ora potenti e ora delicati, qualcuno l’aveva già considerata come una trama da meraviglioso e italianissimo libretto, cui mancasse solo la musica. 47 Tito Ricordi ha infatti dalla più obbiettiva e impersonale tragedia di Gabriele d’Annunzio, sfrondandola di molte decorazioni ornamentali e anche di molte imaginose vaghezze, tratto un libretto rimasto tale da raffigurare e rappresentare una autentica medieval Italia guelfa e ghibellina, rinascente nel suo linguaggio, nelle sue consuetudini guerresche e civili, nelle sue donne inghirlandate di cortesia, nei suoi cantori con l’anima piena dei nuovi modi poetici del «dolce stil novo» e nei suoi uomini di ferro e sangue. Era naturale che in tanta ricostruttiva complessità di sentimenti ed elementi il dramma interiore di Paolo e Francesca non potesse sempre avere il gran palpito dantesco e la breve incalzante, infernal veemenza del fatto tragico che danna i due cognati in strettura e cintura da immortali terzine. Nella poesia di Gabriele d’Annunzio, come nella musica di Riccardo Zandonai, Francesca ama, per così dire, coi sogni, con le visioni, coi presagi, con le ansie che risvegliano in lei la caccia selvaggia di Nastagio degli Onesti e il libro che narra i baci di Tristano ed Isotta, assai più che con lo spirito e la carne. Ciò vuol dire che d’Annunzio, nella estrinsecazione dei casi di amore e morte di Francesca e Paolo si è prefisso di far vivere i due innamorati eterni in un’atmosfera di lirismo entro la quale la peccatrice dantesca par sempre dire a chi l’ascolta: –«ed io ti conterò tutti i miei sogni» e dare, come Smaragdi, sempre l’«acqua al rosaio», cioè gemme e fiori alla Poesia e fiati e voci alla Musica, Invece il dramma di Gianciotto e quello di Matatestino sono concepiti da un poeta direttamente e scultoriamente tragico. Tale diversità fra il flusso del lirismo a similitudini e l’urto e la stasi di una tragicità immediata e rapida, è musicalmente assai bene còlta e a tratti anche troppo sensibile nell’opera di Riccardo Zandonai. È alternativa che colora e varia la dilatazione dei versi danteschi fra le feste e anche i festoni della poesia d’annunziana e da lì è passata felicemente nella musica del Zandonai. «Senza stile non vi è poesia» – diceva il Tommaseo. E neppure musica, anche se il compositore che non sia, come Wagner, un poeta egli stesso è sempre forzato ad assimilarsi lo «stile» di un altro, in ispecie quando questi non è Illica, Forzano o Adami ma Gabriele d’Annunzio. Riccardo Zandonai, da quel forte e accorto, non sadico e non isterico, strumentatore e coloritore che è, ha trovato, più che in «Conchita» o in «Melenis» nella «Francesca, pronti germi d’ispirazione e nitide forme di sviluppo. È, in quest’opera, pur a momenti mossa così a sbalzo o incisa a cesello e frammentaria, più che in ogni altra precedente, organico. E anche più logicamente sinfonico. Riccardo Zandonai è non solo padrone sicuro dell’orchestra in piena compagine ma anche quale fine artefice di particolari a nitido rilievo e di raffinata sensibilità, anche se questa ultima è alle volte un po’ fittizia o «preziosa». Non va mai a caccia grossa o spicciola di effetti volgari e sa esser sempre docile al superiore freno dell’arte. In «Francesca», ancor meglio di prima, benché già in «Conchita» un «intermezzo» non gli servisse a far spolverare i mobili sulla scena da qualche domestico ma a rendere il vociante brusìo di una strada e l’ossessa crudeltà della protagonista non lo facesse entrare in un manicomio musicale. Riccardo Zandonai non è un tecnico freddo né un assorbitore servile di musica estera anarchica o futurista, ma ben intende che il tecnicismo deve esser non solo forma ma anche contenuto e meglio sa che l’aver ribagnato in tradizionale e lustrale acqua fonica italiana quel tanto di oro o di fango stranieri che sono entrati nelle sue vene musicali gli è giovato non poco a metterlo in primissima linea fra i compositori italiani. E lo sarà sempre più, se non darà retta a chi gli rimprovera di non esser abbastanza melodico, cioè di non isolare, gonfiare, 48 sentimentalizzare e patetizzare la melodia secondo il più resistente cattivo gusto teatrale. La melodia ha una sua corporea e spirituale ragione di essere non individualmente a sé, a stacco, a pezzo di bravura per i cantanti, ma come interior soffio vitale vocalmente o strumentalmente generato dall’ integrità di un poema, dalla consanguinea efflorescenza di una passione umana. Fece quindi benissimo Riccardo Zandonai, nella «Francesca», a svolgere a «dialogo» e a «brani declamati» i duetti fra Francesca e Paolo, poiché «dialoghi» e «brani declamati» dovevano essere. E se uno di questi duetti è soffocato dal fragore e dai furori dell’atto della battaglia, è giusto che così sia. Noi non siamo teneri del [col] cosidetto realismo musicale ma ancor meno del [col] vecchio romanticismo a cabaletta, a duettone e a concertato finale. Certo, in «Francesca» Riccardo Zandonai, come abbiamo già detto, è più organico che nelle sue altre opere, ma abbiamo parlato anche di episodicità e frammentarietà. Una contraddizione, dunque, o una avventatezza nostra? Solo apparente. Riccardo Zandonai, che è in prevalenza un ricercatore e «trovatore» di effetti ritmici e coloristici, fu istintivamente tratto da quanto vi è di descrittivo e imaginoso nella tragedia di d’Annunzio spesso all’ «episodio» e al «frammento». Ora le freschezze e originalità vocali e strumentali di parecchi «episodii» e «frammenti» impressionano e piacciono subito e si staccano nel ricordo dal resto del tessuto musicale. Però, solo a una prima audizione. Nelle audizioni successive noi le sentiremo fluire e confluire nell’atmosfera totale, lirica e tragica, dell’opera e concorrere a formarne l’unità di respiro, di ànsito, di leggiadria e di ferocia. Lo stesso valga pei «temi-conduttori» delle principali «dramatis personae». Queste sono infine, per la rispondenza fra poesia e musica, per la loro corporatura fisica e la loro spiritualità sognante, tali da esser degne di apparire nell’azione e sparirne con un loro individuale «leit-motiv» nell’animo de sulla bocca. Niente di più buffo dell’uso o abuso dei temi-conduttori fatto dagli operisti moderni per personaggi che sono così scarsi di poetica e musicale umanità interiore o superiore. Gradassate da omuncoli e boria di donne da poco. È sproporzione ed equivoco nei quali Riccardo Zandonai non poteva smarrirsi, data l’ottima scelta del soggetto e la statura e struttura morale dei protagonisti che dentro vi si saturano – ove occorra anche sino all’estenuazione – di poesia, Morale, s’intende, da «Principe» del Machiavelli e da «Apologia» di Lorenzino de’ Medici. Non ci par esatto il rimprovero d’assenza di concentrazione mosso da qualche critico all’autore di «Francesca». Sì, egli varia e svaria qualche volta troppo volubilmente e facilmente, ma quando il dramma dei cognati danteschi e d’annunziani lo esige si fa denso, breve, rude, incisivo. Così nella delazione di Malatestino e in genere in tutta la caratterizzazione di questa bieca e perversa figura, come in quella sciancata di Gianciotto e nella catastrofe finale. E così – strumentalmente – nel sinfonismo delle scene di battaglia e nel quadro melodico entro il quale, dall’apparizione di Paolo al dono di Francesca della rosa oltre la cancellata, celebra e sente la sua natività ampia e decorativa, più d’annunziana che dantesca, il dolce peccato dei due amanti. È amore che ha il suo sviluppo a medieval «giudizio di Dio» e a pena umana di ogni tempo nel duetto del secondo atto, fra le sfumature psichiche di quello della lettura galeotta e del bacio nell’atto terzo e i suoi più vividi accenti di passione nell’ultimo convegno fra Francesca 49 e Paolo, insidiati a morte dall’occhio sano e dall’altro crepato e dalla libidine torva di Malatestino. E nel loro dramma s’insinua, serpeggia, si strascica collateralmente quello di Gianciotto con altri spiriti e altri suoni. «Francesca» è forse più intima, meno presa dalla fatalità o più consapevole di essa quando si raccoglie in sé stessa a parlare con la sorella Samaritana e con le donne. In ispecie, nel colloquio a canto e a sororal sentimento con Samaritana nel primo atto e quando nella seconda parte del quarto atto rievoca con così verace tenerezza l’immagine sparita della «piccola colomba», È riuscito quasi sempre in «Francesca» a Riccardo Zandonai di [a] ottenere una mirabile – aliante o impetuosa – fusione fra i cori e i protagonisti. E coi canti delle donne al primo atto, di schietto non lezioso sapore arcaico, e con la primaverile, limpida, marzolina «canzone a ballo» nell’atto terzo, e con rotto, roco urlio dei balestrieri intorno a Paolo desioso di una vittoria senza sangue, e a Francesca intenta a scongiurare il suo destino, a Malatestino ferito e lanciante il suo grido: «A cavallo!» e a Gianciotto condottiero e nemmeno senza pietà. È fusione, nel finale a baleni e tuoni, strida e dissonanze del secondo atto, magnificamente e razionalmente polifonica, con dentro a rivoli, come poi sonorissima nella chiusa dell’atto terzo e in palpito nel duetto ultimo dell’opera, la melodia che nel primo atto dalla «viola pomposa» si espande e si allarga fra le donne e le rose in fiore per passar via da lì fra gli uomini in cotta e ferro, fra i mangani terribili, le balestre precise e gli stocchi omicidi. Il pubblico ha ieri sera accolto «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai con la più calda cordialità e con la più perspicace comprensione dei suoi elementi essenziali. Ha compreso subito di trovarsi di fronte a un’opera che fa «eccezione» per italianità musicale e poetica di forma e di sostanza e per nobiltà e vastità di linea sinfonica, nella nostra più recente produzione lirica. La più viva e pronta ammirazione hanno destato il finale melodico del primo atto, quello sinfonico dell’atto secondo, io duetto degli amanti nel terzo atto, il conflitto serrato e a ritmo spezzato con la cupa risonanza orchestrale, e il duetto di Paolo e Francesca alla fine dell’opera dopo una breve scena d’angoscia prorompente in unisono gaudioso. Ma la «Francesca» non è donna, e opera, che si dà e si svela e rivela tutta in una notte. Nelle rappresentazioni che seguiranno di «Francesca» gli spettatori si renderanno conto di molte squisitezze vocali ed energie strumentali che ad una prima audizione sfuggono o si disperdono. Vorremmo che la «canzone a ballo» del terzo atto avesse nelle voci delle quattro donne una risultanza più tipicamente suggestiva. Gilda Dalla Rizza è una Francesca di ideale compiutezza artistica ed estetica. Vive e modula in canto malioso, chiaro ed espressivo e atteggia in azione, stasi e dinamismo deliziosamente decorativi e rappresentativi tutte le vicissitudini dell’amatrice nostalgica e presaga si sventura. Ah, come intende che Francesca non è Basiliola né altra creatura di sadismo o erotismo moderno! Il tenore Di Bernardo è stato un Paolo eccellente e ha cercato di tristaneggiare il meno possibile anche nei punti in cui è alquanto iniettato di wagnerismo. Gianciotto, aspro, realistico e sciancato, ove è necessario e voluto dall’autore, non solo di corpo ma anche nel canto e nel recitativo, il Franci. Un Malatestino di franca, tagliente caratterizzazione nella scena della ferita, nelle orribili offerte e torbide lusinghe a Francesca e nell’episodio della delazione, il Papaccio. La Gontarouck, soave Samaritana, la Vasari (Schiava), lo Zucarelli, Ostasio di risoluta efficacia, e gli altri e le altre hanno concorso a rendere così pieno e integrale il successo di «Francesca». Le feste fatte dal pubblico a 50 Riccardo Zandonai, evocato insieme agl’interpreti e solo più volte dopo ogni atto e salutato alla fine da una schietta ovazione, son state, durante tutta la serata, caldissime. Questa volta l’impresa ha curato la messa in iscena, davvero bella e decorativa ed illusiva, col massimo scrupolo. Ha sentito l’importanza e la responsabilità dell’avvenimento artistico. «San Carlo» sembrava ritornato ai tempi dei grandi spettacoli e delle opere nuove degnamente offerti alla valutazione e al giudizio dei suoi frequentatori. In proposito, non è difficile accontentarli poiché tante e tante opere notissime da anni alle altre maggiori e minori città italiane sono ancora a noi ignote. 141 Ares, La “Francesca da Rimini” del maestro Riccardo Zandonai al Teatro S. Carlo, «Il Pungolo», 17.1.1921 Il brivido sublime che l’opera d’arte pura, la musica avvincente, il poema sinfonico, il meraviglioso quadro scenico, la squisita perfetta plastica duttilità del canto, l’impeto tragico della «catarsi» imminente sulla divina passione dei due cognati, il «pathos» lirico e drammatico del desiderio e della vendetta in Malatestino e Gianciotto, il profumo aliante della primavera come fondo dell’immortale episodio dantesco, trasfusero, con una travolgente ondata, negli spettatori frementi di sabato sera, noi lo risentiamo qui nel palpito di queste rapide fugaci note con cui tenteremo fissare per i nostri lettori i caratteri smaglianti dell’arte musicale del genialissimo maestro trentino. Si respirò, l’altra sera al S. Carlo, l’alito vasto di una apoteosi artistica, d’una glorificazione: l’applauso scrosciante, continuo, prolungato, il grido unanime dell’ammirazione incondizionata, la ridda delle chiamate e delle rombanti acclamazioni non furono solamente l’omaggio dovuto al maestro, inclito fiore di nostra gente italica; erano peranco l’eco del risveglio della coscienza artistica, l’impeto sonoro dell’anima estetica in rivolta contro tutti gli impressionismi musicali degli ultimi epopti [sic] melici che hanno distrutto, senza un rimorso, le tradizioni più luminose della nostra divina melodia; erano insomma il suggello sicuro di un’aurora di rinnovellamento, di palingenesi, che nel flutto armonioso dello Zandonai trovarono l’interprete magico, malioso, suggestivo, abbacinante. Questo spieghi il consenso multanime dello sfolgorante pubblico che gremiva la deliziosa sala del nostro massimo nonostante le appassionate divergenze di gusti, i dibattiti del ridotto, il feticismo delle dottrine e delle classificazioni erudite: le ovazioni che non finivano più, le proteste contro il tossicolìo endemico dei barbogi contemporanei dei palchi e dei seni nudi, lo zittìo contro i vagiti frignanti in platea, contro il cicalìo garrulo delle signore, dimostrano con troppa evidenza la potenza dinamica dell’opera d’arte vera sull’anima delle folle, la magìa dello stile sinfonico, il fascino mai interrotto in quattro ore di spettacolo d’una esuberante polifonia pittorica che non permetteva l’onore dell’applauso in una continua vorticosa dorica successione di toni, di temi, di spunti melodici integrati e convergenti al giuoco sempre più serrato dell’azione drammatica. Il velario si alza, nel primo atto, sulla corte dei signori di Polenta, che ha sullo sfondo chiaro la verde cornice d’un verziere digradante lontano. Pochissime rapide scultoree battute preludianti un indiavolato dialogato che guizza, scintilla, spumeggia con una cascatella perlacea e nitida di commenti orchestrali appena delineati, tra le ancelle di Francesca: Garsenda, Biancofiore, Altichiara, Donella; un giullare è arrivato nella corte, motteggia con arguzie lievi, s’offre ridente al 51 gaio sarcasmo femminile, accenna ad antiche canzoni, sulla trama d’uno snello recitativo che sfuma poi nel delizioso declamato del giullare Come Morgana manda a re Artù lo scudo che predice il grande amore del buon Tristano e d’Isotta fiorita mentre l’accompagnamento orchestrale sottolinea in sordina sulla variazione d’una sola nota come una languente monodia. Ed il giullare accenna un dolcissimo motivo di viola Or venuta che fue l’alba del giorno Re Marco e il buon Tristano si levaro ma ecco dirompe in orchestra uno scoppio fragoroso di note, un rincorrersi incalzante, fremente, convulso di ritmi appena abbozzati, come i lampi d’un fosco crepuscolo: è l’arrivo di Ostasio, la fuga delle damigelle su per le scale della loggia, il dialogo furente, concitato tra il giullare sbigottito e l’irato signore e spira intanto in tutta la musica un’aria di tempesta che va lentamente dileguando nel dialogo di Ostasio col notaio ser Toldo, complici insieme del fraudolento imeneo. S’ode venire dalle stanze alte il canto delle donne, ed ecco l’orchestra inizia un freschissimo tessuto strumentale di voci lontane, di nenie profonde e sospirose; uno squisito preludio precede il coro plorante e soave Oimè che adesso io provo che cosa è troppo amore. Oimè Una cobbola suadente d’antichi minnesingheri, di randagi trovieri s’innesta alla linea orchestrale con un respiro sinfonico sempre più preciso, una deliziosa nostalgia di nordico «lied» s’effonde in una musica che si regge su pochissime note quasi a rendere più bene [!] e lieve l’etereo coretto. Francesca, stretta alla Samaritana, appare sulla loggia, lo sguardo fisso, assorto nella vaporosità estatica d’una visione arcana da cui la ridesta il lamento caldo, appassionato, qualche volta frenetico della dolente fida sorella che chiede: Dove andrai? Chi mi ti toglie? Risponde Francesca come presaga del suo destino ermetico: Egli è venuto. E l’orchestra s’interrompe in singulti, in ritmi di spasimo, in repressi palpiti di tetra sinfonia: passa rapidamente nel quadro armonico il vaticinio dell’imminente fasto, ma Francesca lo dirada indugiando in tenie carezze sulla sorellina piangente e la placa con una lieta fusione di toni, quando canta Anima cara, piccola colomba, perché sei tanto sbigottita? Pace, datti pace! Verrà in breve anche il tuo giorno. ma subito l’orchestra ripiglia l’angoscioso, spasmodico agitato iniziale nell’accordo: 52 E si vivrà, oimè, si vivrà tuttavia! e il tempo fuggirà, fuggirà sempre! Irrompe d’improvviso io coro delle donne preannunzianti l’arrivo dello sposo. L’ansia trepida di Francesca, il chiacchierìo civettuolo delle fanciulle che guizzano commenti, l’animazione della scena nell’orgasmo dell’arrivo, il dolore infinito della Samaritana sono espressi in orchestra con un flutto, una marea polifonica ondeggiante tra lo spasimo, il grido, il tripudio, attraverso una agitazione di motivi sempre più violenta, mentre Francesca si slancia su per la scala che mena al gran loggiato, poi s’arresta, ridiscende, si getta con repentino moto tra le braccia della sorellina e mescolano le due donne insieme le loro lagrime, ed ai funerei singulti della Samaritana, d’impeti canori in cui s’esala tutto l’amore e il dolore umani. Giunge Garsenda e annuncia che lo sposo arriva dalla parte del giardino; pallida ed ebbra, Francesca grida: No, no! Correte donne correte, ch’ei non venga! Uno strumentale agitatissimo accompagna e intensifica la suggestione nell’incomposta lotta che si urge in Francesca, squilli di trombe irrompono, l’impeto della sinfonia dolorosa sale ancora e si allarga nell’ampio respiro superbo maestoso quasi ieratico d’un rito ed ecco compare d’un tratto il tema dolcissimo di Paolo sul flebile tremulo cullìo della «viola pomposa», e s’inizia, col coro che avverte l’arrivo, una meravigliosa melodia d’un molle sapore orientale, sottolineata da un brivido di violini, da un fruscio di archi, dal pavido pettegolìo pastorale del piffero ed appare oltre il cancello, iridata la chioma da un pulviscolo di luce, il bellissimo Paolo: canta la canzone ancora delle donne: Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana va caendo vivanda su un motivo originalissimo che è pianto, è nostalgia, è sogno, è chimera, simile al sirventese dei menestrelli, aliante un profumo fusco di miti verzieri. Francesca coglie una fiammante rosa da un cespo vicino, va a Paolo fissa negli occhi suoi, tesa nel serpentino fascino lento della tacita offerta, gliela porge, mentre il canto sfuma in un sospiro ultimo e la musica s’attenua sempre più in una nebbia ritmica in cui ancora scatta e si spegne il pianto della sorella desolata. È un finale d’una fattura nello stesso tempo arcaica e moderna, che in una fusione di dissonanze e assonanze, in una mirabile plasticità e rilievo di toni maggiori e minori rende appieno l’ammaliante suggestione del divino quadro tutto soffuso d’un idillio elegiaco e di fiammanti venature di passione e di dolore. Una serie di quadri sinfonici, come fantastici rosoni d’un tempio olimpico, vibrano in un’atmosfera tematica in cui la variazione cromatica, la [.]poif[.]rfa strumentazione, il dislivello armonico del commento orchestrale concorrono all’unisono della polifonia totale per comporre il fulcro lirico e tragico della favola scenica. Solo ad un 53 eclettico o ad un facile e distratto auditore essi possono apparire come prodigi di tecnicismo, come un sapiente lavorìo di tarsio o di encausto intorno alla figura musicale di Francesca e di Paolo; per noi viceversa essi dimostrano la profonda concezione che l’autore insigne ha in sé elaborato della persona drammatica e lo sforzo diuturno e non di rado raggiunto di scolpire o dipingere in musica i tipi immortali dell’episodio dantesco. Questo atto che è il più lungo, il più perfetto, il più bello di tutta l’opera, produsse sugli spettatori rapiti 9n un’estasi melodica, in una voluttà acustica deliziosa, la più profonda impressione: gl’interpreti principali furono evocati col maestro ben nove volte alla ribalta e tutto il teatro respirò per qualche attimo la grandiosa aura d’un trionfo antico. L’atto secondo denota fin dalle poche, soffocate, violente note del preludio lo spirito bellico, l’ànsito ferino della strage con cui si preparano alla pugna selvaggia contro i nemici la gente d’arme dei Malatesta sulla piazza d’una torre rotonda. Tra i fumidi vapori del fuoco greco che si prepara vigila in cima alla rocca minacciosa il mangano micidiale cui fa buona vedetta un vigile balestriere: la musica assume subito l’impeto convulso, spasmodico d’una fedele dipintura orchestrale; tutto questo atto infatti risente troppo dei procedimenti e delle reminiscenze orchestrali di Riccardo Vagner [sic], della tecnica furibonda di Strauss con le sue onomatopee sinfoniche, le cacofonie, le omofonie con qualche sforzo un po’ ricercato di effetti nuovi che forse guastano la riproduzione esatta dell’episodio guerresco. Le convulsioni così frequenti nell’orditura turbinosa della partitura si convellono come in uno spasimo di liberazione, un uragano di note tempesta, imperversa, scroscia, stride, romba con l’urlìo della masnada pugnace, il fulminare dei sifoni, il lancio delle pietre, il guizzo delle falariche mentre la ferocia, la sete del sangue, i grumi sanguigni impregnano di acre sentore i truci sincopati dell’orchestra e la gualdana infuria in orridi avvolgimenti e strie e lampi di ritmi dando la sensazione d’un immane colubro che avvolga in vaste spire tutta l’azione. La concitazione che accompagna il dialogo tra Paolo e Francesca, il suo urlo di orrore e di dolore: Videro gli occhi miei l’alba la videro i miei occhi sopra di me con l’onta e con l’orrore che erompe in un agitatissimo trambasciato flutto vorticoso di melodia; il coro fitto di clamori e di clangori dei balestrieri che risuona in orchestra come un peana di grandioso effetto; il pittoresco contrasto tra il delirante febbrile orgasmo d’amore e di rimorso tra i due cognati, innanzi alla bertesca fiammeggiante e il divampar dei fuochi; il gemito dei morenti; il cozzo ripullulante delle armi e delle petriere formano con il rimbombar cupo dei contrabassi, il rullar dei tamburi, il lugubre rintocco della campana di richiamo, un possente quadro coreografico inciso in una orchestrazione che palpita d’orrori e di morte che stordisce e stanca un poco per la ricerca dell’effetto, appena interrotto dalla scena d’inconsapevole abbandono con cui Francesca stringe il capo di Paolo, pallido e smarrito di desiderio e di ebbrezza, credendolo ferito. È un accenno di melodia che esprime la foga repressa dell’amore vittorioso più che mai di tra la furia della strage e della ruina. 54 Su la marea urlante delle masnade eccitate impera sovrana la voce di Gianciotto che sale trionfante e luccicante d’armi e d’ira, l’orchestra commenta con una successione di scatti, di grida, come un punteggiato rude di strepori metallici: sono come scoppi ritmici, esplosioni e raffiche dello strumentale lentamente assopentisi nella melopea serena d’un madrigale solatìo quando Gianciotto vede la sua donna che gli offre una coppa di vino greco ed egli ne beve, ed invita a berne il fratello compiacendosi della vittoria conseguita. La musica si raddolcisce in idillio, fiorito come una villanella od una romanella giuliva, ma quando Francesca dice a Paolo offrendogli la coppa: Bevete, mio cognato, nella coppa dove ha bevuto il fratel vostro serpeggia in orchestra l’impeto stenico d’una catastrofe vicina: è il rumoreggiare lontano d’un tamburo che lancia come un monito del fato prossimo su di una tenue palinodia di violini, intrisa di lagrime, di murmuri, di sospiri. L’arrivo di Matalestino ferito e sanguinolento, la sua belluina impetuosità di strage il suo furore epico: A cavallo, a cavallo! ed il rincalzar assiduo della pugna, la caligine dei fuochi lavorati, il dimenare vario degli armati nel cimento atroce riconducono l’orchestra al sinfonismo pittorico e descrittivo che avvolge completamente il dramma delle persone e può considerarsi come un intermezzo quasi decorativo, volto a rappresentare l’anima dei tempi fondi e barbari in cui vivono e si agitano le persone del dramma. L’atto si chiude con un coro di trombe di vario gigantesco mimetico flusso tonale imprecante come una maledizione. L’atto terzo riproduce la camera di Francesca aperta sull’ampio cerulo palpito del mare su cui pendule ridono trepidando le stelle: Francesca seduta al leggio legge la galeotta istoria di Lancillotto mentre le damigelle ciarlano con garrulo brio. C’è nella modulazione patetica dell’orchestra il contrasto palese tra il chiuso dolore di Francesca e la gioconda levità primaverile delle donzelle, ma la dolcezza della melodia si perde nel dialogato convulso tra Francesca e Smaragdi in cui l’urlo della donna innamorata trabocca e sovrasta su l’orchestra che ha repentini arresti, mormorii di dolore, esigui palpiti di note come un pianto sommesso. Giungono i musici richiesti da Francesca e intonano i primi tocchi pre[l]ud[i]anti sul gorgheggio ebbro delle donne che si preparano alla canzone a ballo: e questa finalmente sospira tremula con le prime note con la fresca carezza d’uno zefiro aliante su margini fioriti. Marzo è giunto e febbraio gito se n’è col ghiado. È questo un quadro che traspira una fragranza soave di note e di ritmi che non è possibile rendere intuitiva ai nostri lettori se non evocando loro l’allegoria primaverile di Sandro Botticelli. L’ondulamento sinuoso delle figure delle movenze, l’intreccio del ritmo agile, fluido, delicato, vanente, l’effluvio misterioso d’un risveglio che corre sfiorando di piccoli soffi in tutta la strumentazione del quadro trasfondono un senso profondo di sovrana bellezza. 55 La musica finisce col coro in un gemito per ripigliare con un fremito di violini il tema di Paolo quando, partiti i musici e le fanciulle, Smaragdi silenziosamente dispare. Echeggia il grido d’implorazione suprema di Francesca sull’orlo del dolce abisso voluttuoso ed appare sulla porta Paolo, inaspettato reduce, e la musica ritorna soavissima, intima come una furtiva carezza su bisbiglianti variazioni di viola cullanti un tema appena albeggiante e nel seguente dialogo tra i due rapiti amanti si trasforma in melodia di grande e variopinto respiro, tesa a riprodurre la memore passione dei cognati a manifestarne con plastica armonia l’anima tutta. Si accostano gli amanti al fatale leggio, la lotta tra il desiderio ed il rimorso, tra la paura del divino fallo e l’ebbrezza già conquisa s’impernia nel declamato ritmico del racconto letto: l’orchestra tace, riprende i susurri, modula in infinite guise il bacio imminente e finalmente si esala, nella congiunzione delle bocche adorate nel guizzo fremente d’una armonia voluttuosa e tutta la divina bellezza dell’evocazione dantesca, la pietà che fa cadere, si diffonde in note piene di pianto represso e di fantastico oblio. Il quarto atto ci trascina vertiginosamente verso il tragico epilogo. La prima parte si svolge nella sala d’armi ottagona del castello: il tragico duetto con cui s’apre il quadro, tra Francesca spaventata dall’orrore e dall’odio del bieco Malatestino, gonfio d’ambiguo astio contro la divina cognata: l’urlo spasmodico del prigioniero che incombe sui due ribelli entrambi al destino cruento che si prepara sono espressi in musica da una concitazione torbida di note: l’orchestra si agita, divella i ritmi con flessile, tortuosa, ircana delineazione intorno alla figura di Malatestino perverso che riempie di sé il quadro: l’istrumentazione si spezza a salti in uno stridulo urlìo di trombe quando Malatestino irrompe nell’umida segreta, pronto all’eccidio, saturo di sangue: all’entrata di Gianciotto l’orchestra riproduce come un convulso dibattersi d’agonia si smorza in roco dialogato secco e feroce nel breve tragico duetto di Malatestino con Gianciotto in cui io fiero tigre instilla nel fratello il tossico mortale del sospetto e della vendetta. Il grido finale, tuonante furore e passione dalla gola arsa di Gianciotto: «Voglio!» si conclude in un rapidissimo finale, fosco e corrusco d’agitazione e di odio. La seconda parte dell’atto che ripete la camera di Francesca s’inizia con un melodiar lento e sonnolento come una nenia pastorale. L’episodio gentile in cui Francesca rievoca nella mite carezza di Biancofiore la blanda anima sororale della perduta Samaritana fiorisce in orchestra con un’ultima esuberanza di freschi ritmi: il fato incalza, la notte scende con le sue maliose visioni e Paolo è nelle braccia dell’ amante assetata le bocche amate si ricongiungono; la musica commenta schematicamente con brevi tocchi sinfonici come perplessa ed esitante in presenza della tragedia. Cadono avvinti d’amore i due cognati, ma subito il grido e lo strepito di Gianciotto alla porta si ripercuote nell’urlo altissimo, delirante, infinito della Francesca; la musica getta gli ultimi spasmi, lugubri echi del fato compiuto e il marito vendicato spezza sul ginocchio prono lo stocco sanguinoso. Il dramma è finito. Zandonai si asside con questa partitura tra i maestri più illustri della musica contemporanea. È per naturale conseguenza, per leggi evolutive dei gusti e dei tempi che egli rifugge costantemente dal comune, ma è rimasto immune dal malvezzo dei moderni di strozzare un’idea melodica appena nata e renderla irriconoscibile. Si nota in lui una preoccupazione continua del tessuto armonico, ma la novità delle armonie inquadra la melodia italiana con una sobrietà di tinte che non degenera mai nella estensione sesquipedale della vecchia aria. Il sistema musicale dello Zandonai, meglio e con più consono 56 spirito che in altri infiniti cultori dei neumi, tenta comprendere in sé non solo le nostre tonalità, ma anche le scale liturgiche antiche, la musica dei popoli orientali sulle flebili astrali ondulazioni icastiche di Claudio Debussy, per cui quasi scompare il solito concetto della consonanza. L’Adler opina che anche questo non sia nuovo e la tecnica nuova somigli molto alla eterofonia di cui parlano Aristosseno, Plutarco e Platone. Viva è la tendenza di ritornare in quest’opera alle fonti ed alle forme ingenue e primitive sia medioevali che barbare: come continuo e l’impiego, nella polifonia, di parti medie che sono affatto indipendenti dalla tonalità della composizione e che combinano soltanto con le altre voci del ritmo. Molti vedono nel naturalismo esotico di Conchita e nel lirismo drammatico della Francesca un disquilibrio delle varie parti perché la fervida pittura, il vivido bozzetto, l’intermezzo coreografico sembrano rompere la compiutezza integrale dell’ordito scenico e sinfonico e dimenticano che l’arte è rappresentazione della vita e la vita non è solamente tragedia od elegia, canto od azione, ma varietà continua ed euritmica di linee e di quadri. È la nota che noi vediamo rifulgere in Riccardo Zandonai di più durevole luce: l’italianità della sua musica poi sgorgante come polla inesauribile con nuove riscintillanti colorazioni, rende la «Francesca» uno dei lavori più riusciti e più vicini all’anima popolare quando ne sarà compreso il possente significato. La signorina Gilda Dalla Rizza fu una Francesca di dantesca efficacia: tutta la femminilità ammaliante del tipo, la dolcezza di Clara, la sognante malinconia di Tecla, il murmure nostalgico di Ofelia, la delicata ingenuità di Cordelia, l’eterno femminino di tutti i tempi e di tutti i paesi che nella passione e nel dolore di Francesca ridestano gli echi di tutte le creature sovrane dell’amore, ebbero nell’affascinante, tanagrica, abbagliante artista la figurazione altissima della scena, l’animazione travolgente del canto vario, ricco di tonalità infinite e pieghevoli, duttili, fluide alla diversità molteplice delle situazioni sceniche. Ella in Francesca compone una stilizzata musicale evocazione di tutti i ritmi della passione, la sua voce di estensione melica portentosa, calda, vibrante, che si libra alle vette soprane nel grido convulso e si attenua al molle susurro del sogno e del rimpianto, che passa senza sforzo dallo squillo al gorgheggio, dalla foga alla quiete patetica della canzone, la mirabile padronanza del difficile giuoco scenico, l’intuizione pronta del dinamismo psicologico composto in un’ armonia statuaria d’atteggiamenti, di movenze, di gesti fanno di cotesta artista, che così bene intarsia la bellezza ed il fascino della persona squisita nel fresco sinfonico dello Zandonai, un astro del nostro teatro lirico. Il tenore Di Bernardo apparve un Paolo di gentile e nobile tempera trecentesca: il suo canto fraseggiato, vasto d’impeti, esente dalle facili intemperanze canore che seducono così facilmente gli interpreti mediocri, rese viva ed evidente la passione contenuta del personaggio nonostante qualche raro ricordo di misticismo e una parsimonia di moto in alcuni momenti troppo cinetici della partitura. Il Franci fu un Gianciotto d’un verismo impressionante; la plastica figurazione scenica, il fervido canto inciso di gagliarde volate e di stupende coloriture tragiche, la moderata forza repressa del gesto, la giusta proporzione attuata tra le manifestazioni estrinseche ed intrinseche della personalità storica da rappresentare lo rendono giustamente degno della sua fama. Magnifico Malatestino il Papaccio: sinuoso, tortuoso, flessile nell’ atteggiamento e nelle intonazioni, fu di una mirabile evidenza tragica 57 nel fosco duetto del 4. atto dando prova di un intelletto artistico di sicuro avvenire. Benissimo tutti gli altri nelle parti secondarie; fusi ed euritmici i cori per cui un plauso di cuore vada al maestro Papa; delle masse in movimento, dei costumi che non peccano del più lieve anacronismo in una variopinta armonia del pittoresco stile del Dugento; suggestive le scene e specialmente quella del II. atto, e la camera di Francesca sul glauco mare sotto le stelle rutilanti, gioiello di scenografia dalle più moderne risorse. E non è giusto concludere queste note senza congratularci, col più puro entusiasmo, col comm. Laganà, che allestendo uno spettacolo di cui solo il passaggio regge il confronto, ha dimostrato «lippis et tonsoribus» che i prodigi del piacere estetico possono attuarsi anche a Napoli, quando un impresario intelligente ed esperto «vuole ciò che si puote». ---------- [NOTA: la sera precedente era stata rappresentata Iris di Mascagni, diretta dall’autore] 142 Silvino Mezza, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, «Don Marzio», 17-18.1.1921 L’opera di Riccardo Zandonai – che abbiamo ascoltata l’altra sera con dilettosa compiacenza – va saggiata con criteri tutt’affatto dissimili da quelli grandemente e solitamente in onore presso i giudici cui è addimandata la valutazione d’un lavoro scenico, quale che sia, che altra gloria non brama oltre quella, incerta e fallace, che vien fatto di raccogliere entro l’ambito chiuso del teatro. Perché grave errore commetterebbe chi tentasse l’avventura d’un giudizio sintetici, caratterizzandolo con una delle consuete espressioni definitive, che soltanto affiorano sulle facili bocche degli stolti, senza aver prima e molto meditato su tutta l’ampia e varia opera d’un musicista d’eccezione che, in questa «Francesca», aduna la somma delle sue virtù estetiche, cribrandole attraverso una tecnica depuratrice d’ogni compromesso, sia pure fugace, col deprecato convenzionalismo lirico, infrenando e rattenendo il prorompere d’ogni impeto non ancora pervenuto ad un grado d’essenziale nobiltà, convogliando e disciplinando con singolare magistero le forze emotive del suo intelletto che ribollono flagellate dall’afflato ciclonico della passione irresistibile ed incestuosa dei due amanti leggendarii. Ecco perché può dirsi sicuramente che lo Zandonai non crea, ma inventa. Egli, alla ricerca senza tregua di nuovi modi e di forme nuove, elabora tutte le osate audacie stilistiche dopo averle assimilate e fatte sue, sì che dalla mistione dei sangui ne sgorghi una linfa personale che defluisca tra i tessuti dando loro vita e vitalità, anima e calore. Come un letterato che spasima per rinvenire nei musei dell’aggettivazione un attributo che abbia profumo di freschezza, così lo Zandonai si tormenta nell’ansia di nuovi suoni, imagini acustiche d’un convulso periodare lirico che aborre da tutto ciò che alla melodia s’accosta, come per schivare l’orribile contatto. Tutta l’arte di lui – che è. d’altronde, quella dei modernisti, tendano essi verso Debussy o Ravel o d’Indy o altri «impressionisti» della depauperata scuola contemporanea – si racchiude e si integra in una invariabile legge pittorica che importa pennellate larghe di colore, allorché il cuore batte il suo ritmo più possente, o s’indugia in delicate minuzie d’alluminatore se la notte il mare un fiore un gesto devono trovar comento in quell’orchestra che lancia i suoi clangori d’imperio, prepotente e soverchiante, quasi a mostrar le maglie spezzate dell’odiosa catena di lunga schiavitù. 58 In «Francesca» la norma concettuale del colore – traslata da gli istituti di belle arti nei conservatorii di musica – trova la sua larga adozione. È un fluttuare continuo di melismi, un vaneggiamento armonico d’apparente inconsistenza, è l’irrealtà fatta suono che determina un’ atmosfera innegabilmente leggiadra di balenii musicali, di barbagli, di fluori torpenti, che accarezzano, che cullano, che turbano. L’imitazione e la ricerca di temi significativi – specialmente quello rude di Malatestino (una «terzina» ed una «duina» battuta neutramente dai contrabassi) e l’altro di Gianciotto, pesante come il tema di Hunding ne «La Walkiria» – non modifica il concetto generale informatore dell’opera che solo ambisce di disegnare più che altro lo stato d’animo dei personaggi, la cui vicenda scenica trova maggiore estrinsecazione rappresentativa in questo o quello strumento, in un «pieno» d’ottoni o in un «passaggio» di strumentini, che non nella perfetta corresponsione delle voci e dell’orchestra, le une all’altra congiunte in un più intimo e sano accoppiamento ideologico. Onde il secondo atto, quello della battaglia, a me sembra il più vicino alla bellezza, a quella forma di bellezza che – seppure esoterica e meramente meccanica – involge e presume poteri di consumato tecnicismo, dei quali lo Zandonai possiede assoluta ed incontrastata signoria, tale da piegare al dominio di prevalenza plurifonica ogni espressione collettiva e dinamica di vita in cui occorra descrivere chiacchierio di donne oppure folla in tumulto: la battaglia della Torre Mastra, col fragore delle sue armi e con lo strepito delle soldatesche ubbriache di violenza e di strage. Queste son le pagine più potenti e più efficaci della partitura, dove – per dirla alla buona – c’è più musica e dove i «tagli» apportati per l’ economia rappresentativa del teatro spiacciono a coloro che invano questa potenza, questa efficacia, questa musica chiedono all’autore negli episodii successivi. Ché infatti al musicista audace che si apprestava a strappar dalle labbra di Francesca i primi ed incomparabili endecasillabi danteschi per sostituirvi, coi polimetri dannunziani, voce di canto, noi potevamo pretendere che la creatura d’amore fosse rimasta quale appunto il Divino poeta ce l’apprese, soavissima fra le peccatrici, vermiglio fiore di passione sbocciato tra le mura ferrigne d’un maniero turrito, esalante languori di poesia, protesa corpo ed anima in un anelito di tenerezza traboccante, simbolo terreno dell’Amore in lotta contro la Morte, come più tardi la leggenda isottea da cui Trageda e Maestro hanno attinto, abbeverandosene a lunghe sorsate. Ma è appunto l’Amore che codesta Francesca di Zandonai non conosce. Invano l’autore ricorre ad artifici strumentali per esprimere dal suo cuore una sola stilla di dolcezza; invano ricorda – ché pur presente ed immanente è la progressione trascinante del duetto di Tristano – la singolare analogia psicologica dei due amanti trasumanati nelle ombre del boschetto di Cornovaglia; invano sollecita ad ingiuste sonorità parossistiche quell’orgasmo estatico che dà solo l’amore e che solo al cuore, al cuore e non al cervello, si può chiedere. Purtroppo non è consentito né a me né ad altri d’intrattenere i lettori d’un quotidiano con la disamina attenta ed analitica di quest’opera che – frutto d’un intelletto nobilissimo pervenuto alla sua piena maturità – va ascoltata con rispetto e con reverenza e che, comunque giudicata, contiene molta musica di pregevole fattura, monito ed incitamento ai moderni compositori scapigliati che sogliono chiamar «cabala» le leggi armoniche e «ricetta» le norme contrappuntistiche di cui, senza averne l’aria, lo stesso Zandonai ha fatto tesoro, osservandole più e meglio di molti altri che hanno pessima rinomanza di «passatisti» tabaccosi. *** 59 Il pubblico fu subito preso dal malioso impasto di toni e di colori, di tinte e di sfumature incorporee onde al primo atto, [è] acquarellato il coro delle donne e la scena del giullare e, più tardi, quel vago preludiare, meno di un alito immateriale di primavera e di rose che annunzia l’apparizione di Paolo. E l’uditorio, che comprese quanta possanza d’invenzione contengano alcune misure di suggestiva drammaticità nel secondo atto, dette corso al suo pieno ed incondizionato consenso, che però parve più riservato dopo l’atto terzo, in cui giust’appunto attendeva l’autore per giudicarlo nel duetto d’ amore, senza del quale una «Francesca da Rimini» in musica non ha ragion d’essere. Così dopo il primo episodio del quarto atto, che non incontrò larghezza di consentimento quale sopra tutto l’eccellente esecuzione meritava, il pubblico rattenne il favore dei suoi applausi che, anche in minore misura, furono tributati al chiudersi del velario sulla tragedia. Ciò perché davvero l’opera abbisogna di molte audizioni per essere penetrata nella sua profonda essenza musicale che non è dato a tutti di conoscere d’un tratto, avendo per guida il solo intuito, senz’altra preparazione che le sole rimembranze del quinto canto e quel tanto di musica che le imprese liriche partenopee scodellano per coloro che son paghi di passar comunque la serata a teatro. La «Francesca» allestita con prestigioso decoro scenico, con scrupolosa cura di attrezzi, di armi, di suppellettili, di luci, di vestiarii – presiedette a questa intelligente fatica Tina d’Angelo – ebbe un’ esecuzione superba: quella che di diritto spetta al nostro maggior teatro. Gilda Dalla Rizza, la giovane cantatrice che da un pezzo ha varcata la soglia augusta della celebrità, fu una Francesca quale la nostra fantasia colle immaginarla, d’angelicata compostezza trecentesca, creatura di sogno, evocazione plastica di quella donzella che l’Urbinate ritrasse per la sovrumana tela degli Sponsali custodita a Brera. La sua voce, che a niun’altra si eguaglia, fatta di vibrazioni nervose e d’improvvise ed inattese soavità – che degradando nel registro grave appaiono come ardenti di esagitazione interiore – sorprese e soggiogò quel pubblico – cui già erano note le risorse preziose di quella laringe d’oro – sì da indurlo ad un applauso a scena aperta al quale parteciparono anche molte piccole mani inguantate protese dall’alto: sì che può essere una prova di progredire artistico, ma anche di sincero ed irresistibile compiacimento per l’esecutrice insigne... E, per ordine di merito, occorre tenere conto del primo e grazioso successo del giovane tenore Papaccio che dette al feroce e bieco Malatestino tutto il complesso carattere di prepotenza e di obliqua perfidia, quale lo volle la finzione dannunziana. Fraseggiò con bell’ impeto drammatico la sua parte, massime nel quart’atto dove, attraverso le angustie della vociferazione impostagli dalla partitura, seppe trovare accenti di cupa ed impressionante efficacia. Il baritono Franci fece del suo meglio, ad onta che un improvviso reuma avesse alterate la limpidezza di molte delle note della sua chiave. Il tenore Di Bernardo non dispiacque. Il coretto delle donne, tra cui notevoli la Vasari e la Corelli, cantò spesso con grazia. Incisivo il baritono Zuccarelli, un buon Ostasio. Volonterosi il Niola ed il Burri. L’orchestra diretta dall’autore – che è un magnifico animatore delle sue partizioni – suonò con precisione, con slancio e, molte volte, con grande delicatezza di effetti. 143 G. Federici, Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai al S. Carlo, «Le Maschere», 30.1.1921 60 Siamo di fronte alla forte e incalzante tragedia del fato di Paolo e Francesca che D’Annunzio dal gran pulpito delle immortali terzine dantesche trasse in una tragedia tutta sua. Ma prima della tragedia D’Annunzio intesse un poema; poema tutto compreso in sottili sfumature, in tragiche bufere d’anime espresse in rassegnate rinunzie e più toccanti, in un complesso di lirismo, di sogno che dà all’amore di Francesca un’essenza di visione e di presagio. E il tutto intersecato e frammezzato, ma non coperto, dalla accanita medioeval lotta dell’Italia guelfa e ghibellina coi suoi rudi uomini d’arme e di sangue. Tale la tragedia di D’Annunzio che Tito Ricordi per esigenze tecniche ha sfoltito delle sue più belle vaghezze e imagini, del suo maggior lirismo che è nelle sfumature, delle più raffinate decorazioni poetiche; decorazioni, vaghezze, imagini che formano la tragedia. Così visto obbiettivamente e così ridotto, lo scheletro del poema dannunziano ci si presenta in cinque vari episodi che non convincono abbastanza e che più ancora non hanno la linea scenica nell’urto fra il lirismo e la durezza della lotta d’armi, e senza quell’avvincente incalzarsi degli avvenimenti che tiene lo spettatore e che lega l’azione di più atti in una unica complessa azione. E la ragione di tale manchevolezza consiste nell’aver voluto ridurre un poema tragico in una tragedia scenica. L’opera grandiosa del musicista, la grande fatica di Zandonai egregiamente si è esplicata nel commentare i cinque episodi. La musica di Zandonai evidentemente sente la sproporzione del libretto, ma è potente lo stesso nella perfetta fusione e nella interpretazione sottilissima e sentita dei momenti psicologici (talvolta troppo sottile). L’intero spartito non ha la frase armonica che individualizza ogni opera e tanto meno, per conseguenza, i «leit-motif» [sic]. Lo spartito si basa su di accordi di tritono, completamente fuori dalle leggi del contrappunto, e che si ripetono due sole volte nell’opera: al primo atto, quando Francesca dice «Egli è venuto», e nell’ultimo atto, alla catastrofe finale. Quattro temi musicali delineano le quattro figure dei personaggi principali: il ritmo di Francesca lieve e soave di liuti, viole e oboe si presenta al primo suo apparire nel coro arcaico delle donne e predomina nella scena di presentimenti della sorellina Samaritana che non vorrebbe lasciarla partire. E con l’ansia di Francesca di conoscere il suo sposo incomincia il secondi ritmo di Paolo. Paolo comparisce accompagnato dal dolce suono della celeste e l’ incantevole suo tema, che forma la fine dell’atto, è modulato sulla viola pomposa, antico strumento dalla voce più squillante del violoncello, con accompagnamento di liuto. Ed è questo il primo bel passo musicale, legato, armonico, vibrante, reso più suggestivo dal coro a mezza voce del maggio e dalla stessa scena tutta dannunziana di Francesca che, rapita, porge a Paolo, ch’ella crede il suo sposo, anch’esso rapito dalla bellezza di lei, una rosa rossa colta da un rosaio di rose rosse, mentre Samaritana piange e la viola modula e strascica i suoi ultimi dolcissimi accordi. Il secondo atto incomincia col tema di Gianciotto, rude, possente e nello stesso tempo spezzato, quasi sciancato come il Malatesta. La designazione sullo spartito è grave e pesante, ed infatti siamo sui merli del castello dei Malatesta e fervono i preparativi per la pugna. Paolo comanda la difesa e Francesca non teme il pericolo: lo aiuta e teme per lui, e vuole che si nasconda. La musica nell’impeto della battaglia invade l’intera orchestra; squilla sulle trombe e su quelle tali buccine che serviranno pure alla Nave di Montemezzi, in una fusione sinfonica perfetta coprendo spesso il duetto inefficace, fino all’apparizione di Gianciotto col suo ritmo sciancato e rude sugli 61 archi. Il nemico è respinto. Si beve il vino greco, ed in un largo sostenuto Gianciotto invita a bere i due cognati nella stessa coppa. E qui si riaffaccia il tema di Paolo. ma ecco che entra in iscena Malatestino, dall’occhio crepato, terzo fratello, che vien trasportato svenuto. L’orchestra attacca il quarto tema, direi quasi viscido, inquietante sulla quarta corda degli archi in sordina, ritmicamente accompagnato dal battito del dorso degli archi sulle corde dei contrabassi, accompagnamento che fece rimanere perplesso in un primo momento il pubblico. Ma il feroce piccolo essere è già in piedi fremente e al grido «A cavallo, a cavallo» si lancia nuovamente nella mischia che si riaccende. La fine dell’atto, fra i bagliori di fuoco e lo scoccare dei massi dalle catapulte e dei dardi dagli archi, di un effetto scenico reso con grandiosità, è maestoso, imponente sulle trombe che rispondono in sincopato alle buccine ed ai corni di caccia, in una potente e travolgente visione d’orrore. Il terzo atto, nella camera di Francesca, è mote e suadente. In esso arieggiano i ritmi di Francesca e di Paolo, e colpisce la meravigliosa canzone marzaiola a ballo sull’oboe e il liuto inneggiante alla primavera, meravigliosa per limpidezza e freschezza e che io classificherei un quinto tema, il tema della primavera, perché si fa sentire ancora vagamente qua e là fino alla fine. Siamo finalmente alla vera tragedia. Paolo entra introdotto dalla schiava per volere di Francesca. Son soli. Incomincia il duetto d’amore: un duetto recitativo, timido, a voce bassa, dove l’amore è nello spirito e non nei sensi, dove la frase è strozzata. Un vecchio signore e me vicino si dimena sulla poltrona. È un musicomane, evidentemente. Tutte le volte che il soprano o il tenore cominciano una frase musicale e la spezzano quando appena la s’incomincia a percepire, egli si fa più rosso in viso. E infine, non potendone più, rivolto a me: –Wagner! – esclama con esasperazione. –Wagner – rispondo stringendomi nelle spalle. L’atto si chiude in un proporzionato crescendo fino al bacio fatale e in un decrescendo di grande poesia e di commozione intensa nel grido: «Francesca!» e nel bisbiglio, quasi rantolo: «Paolo», mentre trema l’eco lontana delle fanciulle che cantano la canzone marzaiola. Il quarto atto, diviso in due quadri, incomincia rude sui temi dello sciancato e di Malatestino. È la scena della delazione, meravigliosamente dipinta dalla musica torva e potente. Malatestino accusa Paolo e Francesca presso Gianciotto. È un dibattito acuto e furioso fra la tenacia maligna del piccolo sciacallo Malatestino e la potente forza di Gianciotto, teatralmente e musicalmente belli. E nel secondo quadro si passa al nostalgico ricordo di quella primavera lontana, di quella viola pomposa e di quel soave amore sororale di Samaritana. Siamo di nuovo nella camera di Francesca. È notte. Gianciotto a quell’ora dev’essere già partito, e Francesca attende Paolo. Ma è inquieta. Qualche cosa come un presagio le annunzia una sventura. L’ancella Biancofiore si trattiene ancora un po’ con lei ed ella si ricorda di Samaritana, la dolce sorellina che piangeva prima ch’ ella partisse pel suo destino. Il ritorno nostalgico della musica è di grande effetto. Ma Paolo giunge. Son soli. Questo secondo duetto è ardente, quasi disperato: pauroso. La catastrofe è fulminea sui temi cupi e disperati di Gianciotto e Malatestino. Tutto precipita con celerità ed il finale giunge con i due accordi di tritono, fondamentali, impressionanti. Il finissimo pubblico che letteralmente riempiva il teatro dette una prova luminosa della sua intelligenza e squisitezza di gusto, gustando in una sola audizione e applaudendo freneticamente la musica sottile, 62 eminentemente aristocratica di Zandonai. Se si tien conto delle quattro chiamate al primo atto di artisti e autore, cinque al secondo e sei al terzo, lunghe ovazioni unanimi a cui s’unì anche l’orchestra, il successo si può dire clamoroso. E a ciò concorse la perfetta esecuzione curata sui più piccoli dettagli. Gilda dalla Rizza fu una Francesca ineguagliabile. In lei applaudiamo ancora una volta non solo la portentosa limpida e modulata voce, ma anche l’arte scenica e la perizia della recitazione. Ottimo anche il tenore di Bernardo nella sua difficilissima parte. La sua voce calda dall’impeto drammatico e la proporzione della sua recitazione ne fecero un Paolo ammirabile. Il baritono Franci dette alla parte di Gianciotto il vero colorito rude imperioso con l’aiuto della sua liquida abbondante voce. Una rivelazione fu il giovanissimo tenore Papaccio nella parte di Malatestino. Il Papaccio fu d’una efficacia scenica sorprendente, che piacque a tutti, oltre al timbro della sua voce ben modulata. Gli altri a posto: la Gontarouk in Samaritana, il baritono Zuccarelli nella parte di Ostasio, ecc. ecc. La Francesca si ripeterà molte altre volte. ----------------------------------------------------------------------------------------- Milano 1920 (144-150) 144 Orefice, «Francesca da Rimini» di Zandonai al Teatro Dal Verme, «Il Secolo», 23.1.1921 L’opera di Riccardo Zandonai, che è certamente fra le più importanti venute ad arricchire il nostro teatro lirico in questi ultimi anni, ha servito oltre a tutto a sfatare un preconcetto che dopo i tentativi della Giglia di Iorio di Franchetti e della Parisina di Mascagni sembrava ormai accettato universalmente: quello che il teatro dannunziano non fosse musicale, o per lo meno non dovesse portar fortuna ai musicisti. L’organicità, infatti, di quest’opera e il suo stesso valore sentimentale e drammatico le provengono piuttosto dal riflesso degli elementi di suggestione del poema che direttamente da quello della musica. Dir ciò non significa disconoscere il valore del musicista. Il quale ha saputo sposare, sapientemente sempre e spesso anche con commozione sincera, la sua ispirazione a quella del poeta, così da porre in efficace rilievo, non solo, ma da accentuare anche il disegno dell’opera d’arte, com’è ufficio, per necessità, della musica. Una sola riserva dovrebbe farsi in proposito. Lo Zandonai usa dell’ orchestra con rara perizia; ma essa, che nella Francesca non ha sempre un vero interesse sinfonico, tende a imporsi e a sovrapporsi anche là dove le esigenze del dramma richiederebbero la più chiara e intensa utilizzazione del canto e della declamazione. L’orchestra dello Zandonai, che pure sa trovare voci sottili e garrule e morbide e delicate, grida invece, talvolta, grida troppo. E chi grida – si sa – non ha sempre ragione. Tuttavia, l’arte istrumentale dello Zandonai rimane sempre l’elemento più interessante del suo talento di compositore. La sua vera invenzione, infatti, palesa ancora con evidenza un processo assimilativo che, pur permettendo alla personalità dello Zandonai di affermarsi con rara energia, le nega i caratteri più sinceri e distintivi di uno stile vero e proprio. Né il suo pensiero, nobile e quasi senza eccezione, e di volta in volta elegante o passionale, gli sgorga sempre fresco dal cervello o senz’enfasi dall’anima. 63 Vista così in blocco l’arte dello Zandonai, è superfluo qui scrutarne e discuterne i dettagli. Per quanto un esame di tal genere, a proposito della Francesca ci indurrebbe forse e conclusioni diverse da quelle che si fanno generalmente intorno a quest’opera e che sembrano le più fondate e le più razionali. Come pesare, ad esempio, il valore poetico del primo atto con quello drammatico del secondo o quello passionale del terzo? Nel suo criterio d’impressione, chi ascolta ha ragione di preferire l’una pagina all’altra. Ma tutte recano i segni della tempra robusta del musicista, dei suoi pregi e insieme dei suo difetti; e in ciò sta appunto – come dicemmo – l’organicità dell’opera. Essa ritorna fra noi dopo un suo forzato giro nei principali teatri italiani. E di ciò è da rallegrarsi come di un segno del nuovo orientamento del nostro pubblico verso un ideale d’arte più nobile; e un po’ anche come una prova dell’elevazione del livello della media dei nostri artisti. Perché la Francesca non è tra quelle opere che «tutti possono cantare», come suol dirsi. Certo però questa del Dal Verme è una delle migliori edizioni. Vi primeggia Augusta Concato, una Francesca di ideale figura e dalla voce un po’ tagliente ma di un’estensione e di un’intensità che ricordano quelle dei nostri migliori soprani dei bei tempi andati. Come attrice la Concato, pur nella misura del gesto e dell’espressione, sa raggiungere un’efficacia emotiva notevolissima. Il baritono Enrico Roggio, che ha fatto della tipica figura di Gianciotto uno studio assai accurato, vi lumeggia le migliori doti della sua versatilità artistica. E un buon Paolo è il tenore Nino Piccaluga. la sua voce, di un carattere un po’ oscuro nei centri, acquista salendo calore e vigoria, e si fonde bene colle alte sonorità dell’orchestra, che il suo canto deve spesso dominare. Va pure ricordata la Zita Fumagalli (Samaritana) e il Treves (Malatestino), ottimi nelle loro parti importanti. L’orchestra, diretta dal maestro Angelo Ferrari, apparve fusa e colorita nel suo dinamismo ritmico e in quello fonico anche, avuto riguardo alla difficoltà di rendere perfettamente tutte le sfumature e le finezze della tavolozza istrumentale. L’allestimento scenico, al quale la direzione del Dal Verme ha dedicato evidentemente le migliori cure, è degno dei maggiori teatri. 145 G.M.C., «Francesca da Rimini» al Dal Verme, «La Sera», 23.1.1921 Questa «Francesca» che apparve per la prima volta al Regio di Torino nel 1914, e che noi gustammo due anni dopo in una bellissima esecuzione scaligera, era rimasta poi, per alcuni anni, in penombra. Ma da un po’ di tempo assistiamo ad una ripresa rigogliosissima, che riconduce la maggiore opera dello Zandonai sulle scene principali d’Italia e di fuori, e non sulle principali soltanto, da Trieste a Napoli, da Mantova a Bologna, e in America, e al Cairo. Dappertutto – a quel che si apprende – il pubblico l’accoglie con vivo favore e se dobbiamo ascoltare i discorsi della farmacia teatrale, anche le imprese, alle quali pure costa assai più di tante altre opere di minore impegno, si dichiarano soddisfatte del successo finanziario. La coincidenza non può essere casuale, e bisogna dunque che il pregio intrinseco, e non solamente quello formale, entri per grande parte nelle ragioni del rinnovato successo. In verità, questa Francesca non si concede tutta, né immediatamente, a chi l’ascolta: all’amoroso uditore attento e diligente serba ogni sera nuove grazie e bellezze non prima rivelate; ma anche al primo suo mostrarsi, anche allo spettatore semplice appare veramente una bella e nobile cosa. 64 Virtù della vicenda scenica? Non direi. Ché sebbene questa Francesca sia stata martellata in magnifici versi dall’«Imaginifico» ed abilmente ridotta per la scena di musica, nessuno – dopo il gran padre Dante – ha saputo ispirarci pei cognati incestuosi quella pietà profonda che nel divino poema fa sì che un incesto immondo si ammanti nelle pieghe di un doloroso ma umano peccato d’amore. Già. Il sommo poeta si compiacque di trasformare con la sua arte insuperata un crimine volgare in una leggenda di suprema bellezza: eppure, più vicino come egli era all’evento, non ignorava che Francesca era sposa da anni di Giovanni Malatesta e madre di un paio di bambini, e che nelle braccia del cognato era stata spinta soltanto dalla propria e dalla sudiceria di lui, e che insomma era questione di mancanza di senso morale, e non di Fato più o meno greco. Ma tutti quelli che hanno rimesso le mani in questa leggenda, poeti e musicisti, questi per necessario vassallaggio filosofico verso di quelli, non son riusciti a mantener rovesciate quelle leggi etiche che Dante solo aveva potuto capovolgere. Paolo e Francesca, nel quinto canto dell’Inferno, sono due eroi doloranti e miserevoli d’un amore fatale e irresistibile; Giovanni resta nell’ombra e non conta. Invece, in tutte le manipolazioni successive della leggenda Paolo e Francesca, per quanto belle e dolci e profonde cose si vadano e ci vadano dicendo non riescono a velare la loro turpitudine: e Giovanni Ciotto balza fuori diritto, eroico nella sua ferocia, e compie una giusta vendetta. *** Comunque sia, anche con questo rovesciamento di valori morali, vi era nel libretto d’annunziano tanto volo lirico e tanta violenza tragica da trarne fuori un’opera di proporzione e di armonia. Ci voleva l’artista nobile e degno che, assorto nella sua visione d’arte, non si curasse delle tradizionali esigenze della platea. E questi è stato certamente Riccardo Zandonai. Sarebbe intempestivo dire oggi come e con quali procedimenti lo Zandonai è riuscito a fare opera di austera dignità. Questa è ormai giudicata dalla critica, e il pubblico di venti e più teatri italiani che la riapplaudisce con unanime fervore dimostra che anche ad esso, indipendentemente dalle disquisizioni dei professori, l’opera piace e più ancora piacerà nel seguito. Si parla di frigidità nell’espressione passionale; ma nel finale del primo atto, nella scena d’amore del terzo, nel commiato dalla sorellina ed altrove qua e là si sente tratto tratto quel brivido che non può esser dato soltanto da un piacere estetico. Si parla di mancanza di originalità; ma lo Zandonai, pur valendosi con profonda cognizione di mezzi e procedimenti che altri usò, imprime sovente al suo discorso una sigla personale. Ed è ricco nella forma, vario nel colore, nobilissimo sempre e sempre efficace, mentre attorno alla vicenda tragica si svolgono con eleganza squisita i particolari decorativi, vuoi corali, vuoi orchestrali, che dànno all’orecchio una vera gioia sonora. *** Così avvenne che l’altra sera al Dal Verme l’opera dello Zandonai, ascoltata con raccolta attenzione da un pubblico non foltissimo ma eletto, fu salutata da sinceri applausi al finire di ogni atto ed anche, qua e là, a scena aperta. Particolarmente fu applaudito il superbo finale del primo atto e la «canzone a ballo» e il «duo» del terzo, e furono gustati i particolari ornamentali che arricchiscono tutta quanta la partitura. Ed è giusto, perché nell’allestire questa Francesca l’impresa del Dal Verme ha usato una particolare diligenza, sì da farne il migliore spettacolo della stagione. Ogni cosa è stata curata con amore, dalla scelta degli artisti alla composizione dei quadri, alla ricca varietà 65 dei costumi, all’armonia delle luci. Il maestro Ferrari ha posto ogni impegno nella difficile concertazione, ottenendo dalla sua orchestra che pure non è ricca di archi, quanto occorrerebbe: effetti di sonorità e fusione e stacchi di tempi veramente lodevoli. Tutte le parti secondarie – che qui hanno tanta importanza – hanno fatto egregiamente il loro dovere, tanto che le quattro damigelle nella canzone a ballo furono meritatamente applaudite. Particolarmente graziosa Biancofiore apparve la Zonghi, ed ottima Samaritana la FumagalliRiva. Buon Ostasio il Grandis, al quale però non perdono i candidissimi guanti «glacés» che indossava mentre afferrava pel collo il Giullare. Ma il terzetto Concato, Piccaluga, Roggio merita una lode veramente speciale. Ciascuno di essi ha composto la figura scenica del suo personaggio con grandissima cura ed efficacia e tutti e tre hanno cantato con bellissime voci. La signorina Concato possiede un organo di particolare limpidezza, di rara estensione, uguale e fresca in tutta la sua gamma: Francesca dolorosa e appassionata in tutto il suo asprissimo ruolo. Il Piccaluga (Paolo) – quasi nuovo anch’egli alla scena – ha una robusta voce che nonostante il timbro baritonale [....]nte, ascende sicura agli acuti nei quali si fa brillante e calda. Il Roggio è sempre l’artista intelligente e corretto che già conoscemmo, e fa di Gianciotto una fiera e robusta figura piena di truce espressione. Accanto a loro il Treves è stato un Malatestino torvo e perverso, che ha cantato con sicurezza e precisione la sua parte non agevole. E da per tutto ma particolarmente nel turbinoso secondo atto fu lodevole il movimento delle masse sulla torre fiammeggiante nella battaglia, e degni d’ogni lode i cori, ottimamente disciplinati. 146 M.C., «Francesca da Rimini» di R. Zandonai al «Dal Verme», «L’Italia», 23.1.1921 Più fortunata delle altre opere omonime tratte dal V Canto dell’Inferno, da quelle di Mercadante e di Morlacchi alla recente Paolo e Francesca di Mancinelli, la quarta opera di Zandonai in ordine di tempo vivrà sulle scene. Della tragedia dannunziana, la più umanamente sentita e scritta fra le diverse del poeta, e delle terzine immortali che alla tragedia fornirono la materia, il Zandonai seppe far suo il contenuto poetico: poesia d’ambiente, poesia di costumi, poesia di odii e di amori e sopratutto seppe creare intorno alle figure dei protagonisti quella atmosfera di estasi smemorata di tutto quanto non sa le loro passioni, assetate di ebbrezze peccaminose negli uni o di torve vendette negli altri. Merito precipuo dello Zandonai fu quello di non aver suscitato contrasti colla musica all’ambiente medioevale in cui si muovono le figure del poema: e così la gioconda serenità della casa di Francesca, arrisa dal vasto cielo che inazzurra ...la manica dove il Po discende per aver pace coi seguaci sui e la dura vigilia d’armi sugli spalti del Castello di Gianni Ciotto, e l’uniforme e pigro trascorrere del tempo nella appartata chiostra in cui era segregata la castellana, e quell’ardere cupo di gelosie, di odi e di misfatti che prepara e consuma i delitti: tutto si inquadra nella varia cornice musicale che il Zandonai seppe foggiare per la sua Francesca. L’opera già corse i teatri: da Torino ove si diede la prima volta, alla Scala dove fu riprodotta nel 1916, conobbe quasi tutte le scene italiane: meno favorita all’estero, ebbe tra noi quasi sempre favorevole il giudizio dei pubblici. 66 Non giova soffermarsi a richiamare la mancanza della trovata musicale per rendere efficace il secondo atto, quello dell’assedio: sappiamo che dal più al meno tutte le battaglie che si vollero descrivere musicalmente, siano quelle convenzionalissime espresse nel Macbeth o nella Forza del destino, o quelle più elaborate di Parisina o dei poemi eroici straussiani, hanno tutte mancato il loro effetto, e si capisce: poiché una mischia si può concepire come un campo in cui rumori disordinati si sovrappongono, non certo come un torneo in cui giostrino preordinate figurazioni musicali; ne informi la baruffa dei Maestri Cantori che è riuscita un capolavoro per la simmetria delle parti che concorrono a formare il fugato. Aggiungasi che anche nella tragedia è questo atto il meno fortunato, sia per la inverosimiglianza della lunga sosta di Paolo e Francesca a discorrere della loro fiamma nascente tra tanto concitato battagliare dei saettatori e dei manovratori di ordigni di guerra, sia perché l’azione poetica non ha agio di espandervisi. Neppure giova rilevare qua e là segni di procedere prolisso: a questo, come opportunamente si fece ieri sera nel secondo atto e alla fine dell’ultimo, si può ben provvedere con qualche ben inciso taglio. Ma di fronte a queste mende – troviamo fra le opere degli ultimi anni quale ne vada immune! – quanta nobiltà sempre nel sostenere il discorso musicale, quale varietà nello sviluppare il commento al forbito canto di Paolo e Francesca nei duetti, che penetrante mestizia nel brano sinfonico che accompagna la scena dell’incontro al finale del primo atto, quale eleganza fresca di quella gioia di vivere che ci figuriamo arridesse a quelle adunate di cavalieri e damigelle medievali, sentiamo spirare dai piccoli cori e dai canti a quattro voci femminili, e infine, ultimo ma non inferiore di pregio, quanta forza nel ruvido ed energico substrato orchestrale che accompagna le scene tra Francesca e Malatestino, quella seguente fra Malatestino e Giovanni Ciotto all’ultimo atto! Questo mezzo atto, a nostro parere, per quanto non contenga di che accarezzare melodicamente l’orecchio degli ascoltatori, è, se l’opera musicale venga considerata come un complesso in cui musica, parola ed azione debbono fare delle loro tre anime un’anima sola, la parte veramente perfetta dello spartito. Dopo il quadro di preparazione costituito dal primo atto, oltrepassato la soglia del secondo atto, la musica di Francesca da Rimini, fattasi palpitante nel duetto del terzo atto, insinuante per freschezza d’invenzione là dove Paolo, trasognando, canta la sua visione: Inghirlandata di violette m’appariste ieri ad una sosta... indi mormorante, nella aspettazione dell’inevitabile, durante la lettura del libro che fu galeotto ai nuovi amanti, pervasa da un soffio cocente nell’attimo di demenza che fece Paolo tutto tremante come canta il Poeta, – si nobilita sempre più ed acquista in espressione quando dal brusco contrasto della truce scena della delazione e del malinconico commiato delle damigelle, assurge alla più intensa passionalità nel breve duetto che precede la repentina catastrofe che sospingerà gli amanti tra la dolorante schiera di coloro cui trascina la bufera infernal che mai non resta. Il crescendo di interesse musicale e di intensità emotiva che si sviluppa dall’inizio alla fine dello spartito si rispecchiò nel lieto successo che arrise ieri sera all’opera: tre chiamate dopo il primo atto, altrettante dopo il secondo, un applauso a scena aperta dopo 67 l’evocazione di Paolo, cinque alla fine dell’atto, e quattro o cinque alla fine dell’opera, segnarono le tappe del lusinghiero successo. La concertazione dell’opera segna un vero titolo di merito pel maestro Ferrari: l’equilibrio delle parti, la sottolineatura di particolari, la vigoria degli stacchi, la pastosità delle varie emotivazioni [sic], tutto egli curò con grande diligenza, sicché ne emerse una interpretazione efficace alla quale solo si potrebbe osservare qualche esagerata tendenza ai rallentamenti nel duetto del terzo atto. La sig. Concato fu scenicamente e vocalmente una Francesca quale non si avrebbe potuto desiderare migliore: investita completamente nella sua parte, diede forma di squisitezza alla femminilità della Riminese, come specialmente apparve nei deliziosi duettini con la Samaritana nel primo atto e con Biancofiore nell’ultimo. Il tenore Piccaluga, prestante di aspetto e ricco di una voce maschia e squillante, sostenne con grande sicurezza e baldanza la non lieve sua parte: ben meritato fu l’applauso che seguì la evocazione dell’incontro con Francesca nel terzo atto, e la scena finale dell’opera. Il Roggi, che già in questa stagione si era fatto favorevolmente notare come Scarpia e come Rigoletto, incarnò il personaggio del difforme Giovanni Malatesta con grande verità rappresentativa: la ferocia degli atti, la impetuosità del gesto, la concitazione della voce furono studiate da lui nei più minuti particolari. Ottima la sig. Fumagalli-Riva nella parte di Samaritana, e le sig.e Zonghi, Avezza, Garroni e Pizzoli nelle parti delle damigelle. Alla messa in scena la direzione del teatro diede ogni cura, sicché anche sotto questo aspetto lo spettacolo si può qualificare di primissimo ordine: gli arrida la fortuna di numerose repliche e di ripetuti successi. 147 La «Francesca da Rimini» al Dal Verme, «L’Avanti!», 23.1.1921 La Francesca da Rimini di Zandonai fu data per la prima volta a Milano alla Scala cinque anni or sono e vi ottenne un legittimo e serio successo. Non grandi entusiasmi, si capisce. È opera concepita con talento, distinzione e coltura, con sincero fervore, ma non di quelle che afferrano irresistibilmente. La composizione stessa del libretto non consente un’emozione progressiva e continua. Il primo atto, musicalmente assai degno, è tutto episodico e non ha riferimenti coll’azione vera e propria che nel fugace incontro di Paolo e Francesca e nell’inquietudine di Samaritana. Il resto è frasche... [?] elegante, di un’espressione e di un sapore troppo letterario per costituire pur quel color locale e quell’atmosfera del tempo, a cui si aspirerebbe. Anche il secondo atto è nelle sue linee predominanti tutto esteriore, tutto speso a descrivere i preparativi e gli incidenti guerreschi, così che i momenti lirici, che soli contano per la sensibilità dello spettatore, restano come soffocati ed oppressi dall’agitarsi della folla, dal fischiar delle balestre, dall’avvampar del fuoco greco. Certo, anche in questi due atti lo Zandonai ha profuse pagine interessanti, ricche di sentimento e di colore come il coretto delle donne, il rimpianto di Samaritana, il finale del primo atto; e il duetto di un ardore contenuto, pieno di dolorosa ambiguità, fra Paolo e Francesca nel secondo; ma sono brani fugaci, frammentari e quasi in margine della tragedia vera e propria, per suggestionare durevolmente il pubblico. Dove l’azione diventa avvincente e l’ispirazione del maestro, d’ordinario un po’ frigida, si riscalda e s’infiamma, è al terzo atto, largamente melodioso, delicato e suggestivo, pieno veramente di profumo e di mollezza primaverile, col canto e il leggiadro ballo delle ancelle, 68 coll’impeto di desiderio e la fiamma di passione che abbattono Francesca fra le braccia di Paolo. L’ultimo atto, all’interessante episodio fra Gianciotto e Malatestino, pieno d’incubo tragico, n0n aggiunge gran cosa. Il duetto fra i due immortali amanti non traduce lo struggimento e il febbrile spasimo che dovrà avvincerli per l’eternità, pur fra la turbinosa violenza della «bufera infernale». A giudicare dal tono dimesso delle loro effusioni, più enfatiche che travolgenti, si direbbero degli amanti che si vogliono illudere, non degli smarriti in un oceano di voluttà. Tuttavia anche questo atto, non meno dei precedenti, malgrado l’ora tarda, fu ascoltato con attenzione ed applaudito con cordiale insistenza; così come si ebbero numerose chiamate agli esecutori tutti ad ogni calar di velario, alla signorina Augusta Concato, protagonista, al tenore Piccaluga e al Roggio, anche a scena aperta. La Concato è stata infatti una bellissima Francesca per la voce calda ed insinuante, dolce ed appassionata, cui [così] aggiunge una azione di una grazia estetica forse eccessivamente stilizzata, ma di una nobiltà e di un fascino notevoli. Anche il Piccaluga ha cantato con un vigore ed una sicurezza d’accento non comune, sapendo essere scenicamente di una grande ed espressiva distinzione. Delicata Samaritana la Zita Fumagalli Riva; un aspro Gianciotto il Roggio, e buon Malatestino il Treves. La Zonghi, l’Avezza, la Garrone e le altre furono eleganti, disinvolte e sicure ancelle, e ottimi il Longone ed il Friggi. Complessivamente accurata e lodevole l’esecuzione orchestrale diretta dal maestro Ferrari; pittoresca la messa in scena, ma di stili un po’ troppo promiscui e anacronistici; sontuosi i costumi. Stasera Tosca e Carillon magico, domani ultima mattinata col Mefistofele e nell’entrante settimana il Barbiere di Siviglia. 148 G.B.N., «Francesca da Rimini» di R. Zandonai al Dal Verme, «La Perseveranza», 23.1.1921 Fra le produzioni liriche nazionali di questi ultimi anni, «Francesca da Rimini» – la quale appare spesso sulle scene dei teatri italiani e dell’ estero – è forse la sola che, malgrado l’importante consacrazione del primo, brillante successo di Torino, compiutasi alla Scala nel 1916, non sia stata più riprodotta a Milano. Si è fatto ieri sera, al Dal Verme, ammenda di una grande trascuranza; doverosa ammenda, perché trattasi d’un lavoro che molto si eleva dalla sfera comune. Opera organica nella sua complessa architettura, è in pari tempo documento – tanto raro ai giorni che corrono – di probità, di sincerità artistica. Il suo autore non si preoccupò di fare breccia colla volgare esteriorità dell’effetto. Se ne è anzi quasi totalmente disinteressato, mirando piuttosto – e vi riescì più volte – a rendere strettissimi i rapporti tra dramma e musica, la quale – malgrado la spiccata impronta moderna che esclude la forma chiusa – col suo materiale armonistico sovrabbondante di procedimenti cromistici, risulta quasi sempre chiara, illustrativa, tanto per merito dell’elemento sinfonico quanto di quello della declamazione cantata. La musica è riescita a integrare la produzione d’annunziana generosamente sfrondata da Tito Ricordi, facendo talvolta dimenticare che quest’ultima non fu ideata a immagine e somiglianza del melodramma. Essa esercita ancora molta suggestione raccolta nella cornice lirica dallo Zandonai bene intonata al quadro medioevale. coi suoi vaghi spunti decorativi e colle tinte fosche, sanguigne della plumbea tragedia. 69 Ma pure manca all’opera d’arte quel «quid» che può procurare profonde impressioni, anche non tenendo conto dell’azione negativa esercitata dal secondo atto quasi sempre tumultuoso, farraginoso e anche frammentario, ideato con annebbiata visione del risultato della scena, da Gabriele D’Annunzio. Manca sopratutto l’ultimo episodio dell’opera, ove la musica doveva essere incandescente come la mattina vulcanica (anche se a questa temperatura non si elevano i versi della tragedia) tanto da esaltare al massimo grado la violenta passione dei due eroi della vicenda leggendaria; quella fiamma distruggitrice di anime e di sensi che, in una quasi identica situazione, invade la scena – dando il brivido agli spettatori – durante il duetto dell’atto secondo di «Tristano e Isotta». Gli è che qui l’ispirazione non assurge a vette eccelse. I pregi formali non possono pretendere – quantunque ammirevoli per raffinatezza e buon gusto – di fare vibrare profondamente le corde dei nostri intimi sentimenti. Ma quali opere modernissime, in grazia, sanno conseguire questo risultato? Lo Zandonai ha diffuso anche in «Francesca» quella squisita sensibilità estetica che fin qui in lui tiene il posto del vero sentimento. Ma la scena culminante della tragedia, lo spasmodico duetto d’amore di Paolo e Francesca domandava bene di più. Per ciò essa lascia freddi, insoddisfatti; non rafforza così l’eccellente impressione prodotta in ispecial modo dal delizioso, poetico incontro dei due protagonisti con cui si chiude il primo atto veramente indovinato da capo a fondo; impressione che non diminuisce al susseguente primo quadro dell’atto quarto, pel quale il compositore seppe trovare una ideazione appropriata e tratteggiare con essa, valendosi di molta sobrietà di mezzi, la truce drammaticità della scena tra Gianciotto e Malatestino. Sono però questi titoli cospicui – a parte molti altri particolari i quali non domandano oggi ulteriori commenti critici – che possano appagare le esigenze del moderno teatro di musica e dei molti i quali attribuiscono all’arte rappresentativa un obbiettivo di elevazione intellettuale. Di questa opinione fu ieri sera la quasi totalità dei numerosi frequentatori del Dal Verme. Essi hanno espresso intorno a quest’opera un giudizio più calorosamente ammirativo di quello pronunziato cinque anni fa dal pubblico della Scala. Alla fine d’ogni atto ripetute furono le chiamate agli artisti e al maestro Ferrari, con accentuato fervore di battimani al terzo, interrotto da applausi a scena aperta alla canzone di «Calendimaggio» [Calendimarzo], e a una appassionata del tenore nel duetto tra Paolo e Francesca. L’esecuzione cooperò non poco al brillante successo dello spettacolo, senza dubbio uno dei migliori dell’attuale stagione del Dal Verme. La signora Concato mostrò di possedere per la parte della protagonista i migliori attributi. Furono anche apprezzati il tenore Piccaluga, che rappresentava «Paolo il Bello», e io baritono Roggio è stato un ottimo «Gianciotto» nel senso completo della parola e il tenore Treves, «Malatestino». Le signore Zonghi, Avezza, Garrera [sic] e Pizzioli [sic] si meritarono l’applauso per la difficile canzone di Calendimaggio. Lo spettacolo avrà certamente numerose repliche. 149 g[aetano] c[esari], La «Francesca da Rimini» al Dal Verme, «Corriere della sera» 23.1.1921 Abbia o non abbia contribuito la ricorrenza del centenario dantesco a mettere in più viva circolazione l’opera che trae il soggetto dalla eroina della passione amorosa immortalata nella Commedia; siano o non 70 siano complici di questo parallelismo di avvenimenti più o meno danteschi altre forze che assecondano od avvinghiano le attività nel campo teatrale, certo è che la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai corre, in quest’anno di grazia, i palcoscenici d’Italia con imprevedibile frequenza, date la piuttosto lenta carriera dell’opera, la sua incerta popolarità e la fragile fortuna onde venne accompagnata dal 1914 in qua. Il Dal Verme, fra il pullulare delle molte Francesche, non ha voluto rimanere assente. Così ne ha messo ieri in iscena una sua, abbastanza decorosa pei tempi che corrono; sufficientemente accurata e sfrondata nel vanamente tumultuoso secondo atto per tentare le vie del favore, se non del cuore del pubblico. Ora la cronaca, che ricorda di aver seguito con spirito di benevolenza lo Zandonai alle sue prime armi d’operista nello stesso Dal Verme, rappresentandosi Conchita e Melenis, la cronaca, per essere esatta interprete delle impressioni suscitate da uno spettacolo, deve registrare un successo d’applausi, una accoglienza confortata da tutte le più lusinghiere manifestazioni di rito, ma non la esplosione vivace di uno stato di commozione o di godimento: cosa di cui sono capaci solo le vere e grandi opere d’arte. Gli è che a questa Francesca – ricca di quadri di un colore antico e tutto nostro, svolta in quattro atti istoriati vivacemente come quattro arazzi trapuntati dalla fervida fantasia dannunziana, gentile di figurazioni e fosca di motivi drammatici, – manca il fuoco della passione espressa nel suono. Finché Zandonai resta puro e semplice illustratore del quadro scenico la sua musica si ambienta abbastanza per integrare con una sensazione acustica la poesia contenuta nella visione della scena e dei personaggi. Ne fa fede il finale del primo atto, in cui l’incontro di Paolo e Francesca è efficacemente accompagnato da una aurora di suoni intercalati dagli strumenti imitanti la violetta, il piffero, il liuto, mentre le donne di Francesca incorniciano la scena fondendo le loro voci in quell’alba d’amore. Ne fanno fede ancora i coretti e le danze delle donzelle inghirlandate, nel terz’atto; certi tratti colti nelle figure di Gianciotto e Malatestino, felicemente resi dalla musica nella prima parte del quarto atto, e quell’incalzare continuo dei suoni assecondanti, insieme al declamato, il volgere degli eventi nella tragedia: specie di dinamismo acustico filiato logicamente dall’azione. Ma se tutto ciò, insieme all’interesse destato dalla tragedia per sé, può bastare a tener desta l’attenzione di chi ascolta, più non basta quando Paolo e Francesca, soli sulla scena o sotto l’ influsso della storia di Galeotto, hanno da mettere a nudo due anime travolte dall’incendio di una passione funesta. Allora i suoni dello Zandonai non riescono a scolpire come l’arte vorrebbe. La sua cantillazione, sulle labbra dei due amanti, si perde troppo nell’indeterminato. Dalle sue note non trapela il guizzo di una fiamma interna, sia che l’orchestra tocchi i vertici massimi delle sonorità o che le voci cerchino nel declamato le flessioni più acconce. Già fu notato anche nelle altre opere dello stesso compositore: la musa dello Zandonai, in questi momenti dominati dal sentimento, è di una frigidità quasi assoluta. Ora è facile immaginare quanto soffra di un tale difetto, costituzionale della natura del musicista, un’opera come la Francesca, imperniata tutta sul tema della più accesa e tragica passionalità. L’amore, dopo aver trovato il suo più alto poema nei pochi versi onde la colpa di Francesca s’abbella nell’Inferno dantesco, non ha strappato un accento all’arte a lui più vicina, nelle molte note dello Zandonai. L’opera si regge in grazia a tutto ciò che musicalmente le è secondario: al valore poetico del dramma e talvolta anche a quello delle esecuzioni cui è affidato. 71 Ieri, a dir vero, l’allestimento della Francesca è sembrato, se non sotto tutti almeno sotto parecchi aspetti, pari alle esigenze principali dello spartito. E deve anche essere detto che se il duetto fra Paolo e Francesca nel terz’atto è stato interrotto da un applauso e, tutto sommato, è riuscito a sostenersi, il merito principale spetta alla Concato ed al tenore Nino Piccaluga. Due buone voci, quelle della Concato e del Piccaluga, e due temperamenti capaci di ravvivare la declamazione musicale ad onta di una tessitura in parecchi punti audace. Al loro concorso deve assai l’interpretazione dell’opera anche negli altri atti, tanto che il pubblico, giusto con essi, li ha voluti ripetutamente evocare al proscenio. Subito dopo questi due perni della Francesca, vuol essere citato il baritono Roggio, Gianciotto efficace per voce ed intuito drammatico; ed insieme a lui il Treves nella parte di Malatestino. Infine non possono passare sotto silenzio Noretta Zonghi e la Fumagalli Riva, come Biancofiore la prima, sotto il costume di Samaritana la seconda. La concertazione orchestrale e vocale, curata dal maestro Ferrari, è apparsa lodevole. Senza rigidità metronomica e staccando giustamente i movimenti, egli diresse la Francesca sicuro di sé e dell’efficacia degli effetti ottenuti. Scenicamente non hanno guastato le poche innovazioni apportate: hanno giovato anzi all’evidenza ed alla poesia dell’azione. Per questo il Ferrari meritò di partecipare, insieme a tutti gli altri artisti, agli onori della serata. 150 Guido Podrecca, Dal Verme - «Francesca da Rimini» di Zandonai, «Il Popolo d’Italia», 23.1.1921 È una delle rare novità – alquanto attempata – che rompono a lunghi intervalli la monotonia delle stagioni milanesi e che si distacca nelle intenzioni dalla triade dei veristi fino a poco fa dominatori indisturbati della scena lirica. Si distacca anche dall’impressionismo, in quanto pulviscolo luminoso che nasconde i volumi o la loro assenza, e in quanto il Zandonai si propone delle solide costruzioni melodiche in un’atmosfera ampiamente armonica. Se le propone, ma non può attuarle completamente per la contraddizione che nol consente tra il sinfonismo portato nel melodramma con una varietà incalzante di ritmi e di tonalità che mozza ogni possibilità di ampio respiro nella melodia canora; sia essa il largo, drammatico declamato monteverdiano, sia il luminoso saliente periodare belliniano. Ma Zandonai fa dei nobili sforzi a che lo strumentale non sopraffaccia le voci. Egli è perfettamente padrone, in scioltezza e libertà, dell’ orchestra, che tratta con mano sicura come un grande istrumento e mostra di considerare più come mezzo che come fine a se stessa. Onde la sua padronanza tecnica non urta come la presunzione dell’obbiettivo raggiunto, ma appare un presupposto necessario come la competenza del pittore nella preparazione dei colori sulla tavolozza, laddove troppi si ritengono creatori solo pel fatto che conoscono gli strumenti e il modo di maneggiarli. La tecnica degli effetti armonici e del colore, in molti compositori raffinati ed abili – specialmente in Francia – tiene spesso luogo dell’essenza, ossia del valore tematico, onde il mezzo d’ espressione, sapientemente impiegato nelle esercitazioni sinfoniche, finisce col nascondere molte volte una desolata verità: che l’autore non ha nulla da esprimere. E sotto la pompa lussureggiante delle tinte, degli impasti e delle combinazioni, a chi ben guarda e in fondo, si discopre il più squallido. In questo poema del D’Annunzio, che ha solida l’ossatura tragica e che consente, nella solennità ampia della linea, il rabesco di suggestivi 72 particolari, Riccardo Zandonai lascia qualche volta a nudo l’impeto canoro, attenuando la polifonia numerosa, ed è su questi punti particolarmente che può soffermarsi l’attenzione dell’uditore convergente sui temi. Allora questi appaiono più intieramente sentiti, quando esprimono dolcezza raccolta e pudica di sensazioni, quasi una nostalgia di certe pagine idilliache del «Grillo del focolare» o un presentimento amabilmente giulivo della «Via della finestra». Nei momenti drammatici prevale invece il sinfonista ed allora la forza dell’accento non sempre sovrasta l’esuberanza del commento orchestrale. Queste sono riserve teoriche; ma quanto è gradito segnalare in onta di esse un successo pieno e incontrastato come quello che ieri a sera coronò l’opera del maestro trentino a commento di una delle più possenti ispirazioni della musa dannunziana. Affrontare l’immenso argomento di passione che d’Annunzio racchiuse nella cerchia torrida del dramma con una vivezza abbagliante d’immagini e magniloquente ampiezza di verso, sarebbe stato ardimento aspro anche per una perfetta maturità musicale. Zandonai vi si buttò con baldanza giovanile e riuscì a trasfonderla nei tempestosi assieme del secondo atto e nell’epilogo di violenza e di strazio; ma dove il suo temperamento si trasfuse più efficace e limpido si è nelle situazioni liriche e placide del primo e del terzo atto che hanno pagine di indubbia efficacia espressiva. Certo non si toccan le vette dell’ispirazione né qui né altrove, ché ai nostri musicisti appar convenzionalismo abbandonarsi alla fluenza del periodo melodico, quasiché fosse meno convenzionale la semplice accentuazione della parola. Ma anche con questi voluti legami il temperamento del compositore prende a tratti il sopravvento, ed allora se non si ha una vera aria (o non sfuggono tutti i moderni questa terribile pietra di paragone col pretesto che sia sorpassata?) si hanno degli ariosi di bell’impeto e di intenso sentimento. Se l’ora non incalzasse, vi sarebbe molto da dire sulle rinunzie ai pieni sviluppi tematici, dei quali si sente la mancanza in momenti – come la battaglia – che nella loro esasperata sonorità mancano di eloquenza appunto perché manca una intensa espressione tematica esprimente le vicende della lotta e il tripudio della vittoria. E il pensiero corre non ai Debussy o agli Strauss o agli Strawinsky e ai Schönberg, ma ai Rossini e ai Verdi che i nostri giovani hanno abbandonato illudendosi di averli superati. Zandonai, compositore che non farà mai, neppur con Conchita o con Melenis, cosa grossolana e che ha un temperamento fortemente teatrale, ha avuto la fortuna per questa riproduzione del suo capolavoro di una esecuzione assolutamente degna di sì nobile fatica. La Concato è indubbiamente una Francesca ideale nella figura, nell’ espressione, nella voce di cristallo intatto. Nel suo canto fermo e puro nulla del sentimento è sacrificato alla bellezza dell’inavvertito sforzo canoro. Nel terzo atto – il più profondamente intimo – ebbe a compagno un altro artista di grande valore, il Piccaluga, che accoppia alla voce morbida e di facile ascesa una vibrante espressione drammatica di ampio stile. Magnificamente atteggiato nella figura torva il Roggio, che ha dato di Giovanni Malatesta una interpretazione sobria, possente nell’impulso dei bei mezzi vocali e del gesto, di eccezionale efficacia. Intorno ai protagonisti una intonata armonia di atteggiamenti e di voci da parte delle donne: la Fumagalli, un chiaro soprano, la Della Gorgona, forte contralto, e le ancelle Zonghi, Avezza, Pizioli, Garrone, tutte belle e ben impiegate voci. Anche gli uomini: Grandis, Treves, Longone, Frizzi, Mirta cooperarono ottimamente all’insieme. 73 Si devono lodare anche l’apparato scenico e i costumi pittoreschi e di artistiche intenzioni, e particolarmente la concertazione delle masse di scena e d’orchestra dovuta al M.o Ferrari. Conclusione: uno spettacolo eccezionale che venne coronato da un progressivo successo. E ne siamo lieti per i nostri autori moderni che hanno diritto a quella considerazione che troppo spesso si accorda agli stranieri, troppo spesso meno meritevoli e sempre inferiori nell’ispirazione che, ad onta di tutto, nei nostri si conserva liricamente italiana. ----------------------------------------------------------------------------------------- Palermo 1920 (151-156) 151 g.p., Francesca da Rimini di R. Zandonai, «Giornale di Sicilia», 23.3.1921(*) La sala grandiosa del «Massimo», gremita fino all’inverosimile di pubblico scelto dappertutto, intellettuale in gran parte nel loggione, poiché vi si erano allogate alcune centinaia di studenti universitari, presentava l’aspetto delle grandi premières, dapoiché iersera nel nostro maggior teatro lirico si è data la «Francesca da Rimini», l’opera di Riccardo Zandonai, che avrebbe dovuto darsi nel 1915 e che lo scoppio della guerra mondiale non fece realizzare. Ma il ritardo, prolungato forse da altre circostanze, ha in qualche modo giovato, giacché l’edizione che se ne dà ora a Palermo è delle più nobili ed elevate, concertata e diretta dal grande maestro, autore dello spartito. Ed il pubblico ha potuto assistere alla rappresentazione d’un lavoro d’arte che della grandiosità possiede tutte le caratteristiche: essenza tragica dell’argomento, nobiltà della forma letteraria, elevatezza della concezione musicale, imponenza della messa in scena. La grande opera d’arte dannunziana ha avuto in tal modo una ricostruzione meravigliosa nel campo lirico. Essa dovrebbe svolgersi in quattro atti, ma praticamente i due quadri del 4°, per ineluttabili ragioni di mutamento di scena, la portano a cinque atti. Ebbene, si assiste allo svolgimento d’un lavoro di tal mole con attenzione vivissima, con interesse sempre crescente, entusiasti dall’ onda copiosa di poesia di cui la musica dello Zandonai è circonfusa nel 1° e nel 3° atto; impressionati dal quadro bellico che si svolge nel 2°, dalla tragica potenzialità del 1° quadro dell’atto quarto, dalle tre tendenze diverse di sviluppo che assume nel 2° quadro la concessione musicale: nostalgica all’inizio, riboccante d’amore in seguito, per finire alla catastrofe orrenda, che ha rilievo scultoreo: è l’opera di grande stile, al grandioso poema dannunziano fa degno riscontro il poema musicale di Riccardo Zandonai. ------ L’opera s’inizia con un allegretto mosso gradevolissimo e dopo poche battute si apre il velario, l’orchestra ha accennato il tema del giullare e l’allegro cinguettio delle quattro damigelle di Francesca si svolge rapido, scoppiettante, in contrasto al tono semi-beffardo dell’astuto tremacoldo. Bello lo spunto del racconto, troncato dalle note iraconde di Ostasio, che maltratta e scaccia il giullare. Ed il quadro musicale assume ora un aspetto meraviglioso mentre echeggia il coro delle donne «Ohimè che adesso io provo – Che cosa è troppo amore...» e si svolge il melanconico duetto fra i soprani (Francesca e Samaritana), troncato a sua volta dalle note incalzanti con le quali le damigelle annunziano a Francesca l’arrivo di Paolo. 74 Il coro delle donne canta «O dattero fronzuto», mentre la commozione di Francesca si stempera in uno scoppio di pianto illuminato subitamente da un lampo d’intensa gioia alla vista del presunto sposo che si comunica nello scultoreo recitativo «Chi ho veduto? – Ah tu ora...». S’inizia il magnifico finale con l’a solo di violoncello sostenuto dall’oboe e dal liuto, mentre l’orchestra svolge un poema musicale suggestivo, estasiato, il coro delle donne canta «Per la terra di maggio» e Francesca con le sue donne che la seguono in corona va ad offrire a Paolo una rosa vermiglia. Il coro delle donne rallenta dolcemente fino a spegnersi, mentre la melopea orchestrale ha termine con un pianissimo meraviglioso che suggestiona l’uditorio e lo spinge all’applauso entusiastico. Il maestro Zandonai e gli artisti sono evocasti cinque volte alla ribalta in un delirio di applausi. Il 2° atto s’inizia con note gravi e a volta concitate che danno l’idea dell’azione bellica che vi si svolge; l’orchestra la rileva e la commenta con effetti eccellenti. Degni di rilievo: l’episodio amoroso svolto nel duetto tra soprano e tenore, quello truce dell’arrivo di Gianciotto, rischiarato un po’ dalla bella frase del soprano «Bevete, mio cognato...», che l’orchestra commenta in modo supremamente squisito, e l’altro feroce, il ferimento di Malatestino seguito dalla ripresa della battaglia, fra il suono delle buccine e il fragore orchestrale, che dà l’idea del combattimento accanito. ------ Ma al 2° atto, denso di movimento e di [•] bellica, ne succede uno denso di poesia [•]. Lo inizia un delicato breve preludio [••] lettura di Francesca dell’ istoria di Lancillotto, la sua disperazione per il vino bevuto nella torre mastra che le ha sconvolto l’anima, che si svolge nel breve duetto tra soprano e mezzosoprano. Il canto della Ballata per festeggiare il calen di Marzo, cioè la primavera, fragrante episodio d’alta poesia, e poi il gran duetto tra soprano e tenore denso di passione, uno dei più belli del genere che siano stati scritti. Squisitamente delicata la frase del tenore «Inghirlandata di violette...», e il duetto si svolge con crescendo paradisiaco fino all’acme del bacio nella lettura della istoria, mentre il movimento orchestrale ha una parentesi d’acceleramento e un coro lontano inneggia alla primavera che arriva. Poi le voci rallentano, l’orchestra volge al pianissimo imitando il sospiro d’amore di Paolo e di Francesca. È questa la parte dell’opera che ha impressionato, ben a ragione, maggiormente il pubblico, estasiato da tanta ricchezza di poesia quasi mistica. L’entusiasmo degli spettatori non ha avuto più freno e dopo tre chiamate agli artisti hanno fatto allo Zandonai un’infinità di calorosissime ovazioni, che hanno commosso l’illustre autore. L’atto 4° s’inizia nel 1° quadro con un movimento orchestrale pronunziato che ne fa presagire l’alta drammaticità. Infatti al duetto aspro e gravido di minaccie tra soprano e tenore (Francesca e Malatestino) si svolge l’episodio più drammatico dell’opera, l’accusa di Malatestino contro Francesca, nel duetto tra tenore e basso. Il maestro Zandonai nell’interpretazione di questo supremo momento tragico ha concepito pensieri musicali che destano meraviglia ed impressione profonda, anche maggiore di quella che si prova ascoltando il fosco duetto fra i due bassi nel «Don Carlos». Tutto l’avvenimento tragico dell’opera appare condensato in questo supremo duetto, che l’orchestra sostiene e rileva nel modo più significante, con una veracità di espressione che gli conferisce un carattere tremendo e solenne al tempo istesso. L’effetto di questo 1° quadro del 4° atto sull’animo degli spettatori è decisivo quanto quello del terzo, sebbene le impressioni siano di natura affatto diversa, anzi antagonista. 75 Il 2° quadro s’inizia con un movimento musicale mesto e doloroso, le ricordanze si addensano nel duetto tra Francesca e Biancofiore, ampliando il quadro di mestizia che la musica dello Zandonai pone così bellamente in rilievo. Ed al momento doloroso segue uno scatto di passione suprema col duetto tra soprano e tenore, momento di ebbrezza che precede la catastrofe. La musica ha accenti sublimi di amore delirante e canta la suprema dolcezza della vita; ma per brevi istanti d’indicibile gaudio, giacché la catastrofe sopraggiunge rapida e inesorabile. Le note dolorose che seguono l’uccisione di Francesca e di Paolo con un crescendo di bell’effetto pervengono ad un fortissimo orchestrale con cui l’opera ha termine. Gli artisti e il maestro Zandonai sono stati evocati numerose volte alla ribalta alla fine dell’opera, che ha conseguito un grande e vero successo. ----- L’esecuzione vocale è stata mirabile per il complesso, che merita in generale il più vivo elogio. Il soprano signorina Scavizzi è un’artista eccellente e per mezzi vocali efficientissimi e per azione scenica conclusiva; ha cantato la difficilissima e faticosa parte con arte squisita meritando applausi calorosi. Il soprano signorina Donatello, dotata di bella voce, ha cantato benissimo nella parte di Samaritana. Il mezzosoprano signora Lombardi Arangi nella brevissima parte di Smaragdi, che ha cantato per favore, ha avuto campo di addimostrare le sue qualità di squisita artista dalla voce calda, voluminosa, estesissima, dall’azione scenica impagabile. Il gruppo delle quattro damigelle di Francesca era costituito da quattro brave artiste: la Rettore (Biancofiore), l’Avezza (Garsenda), la Fenoglio (Donella), la Perosio (Altichiara), le quali hanno cantato in modo eccellente, specie nella ballata del 3° atto, e sono state applaudite. Fra gli artisti il tenore Caceffo (Paolo) ha impressionato favorevolmente per la sua bella, calda ed estesa voce drammatica. Ha cantato in modo eccellente i duetti d’amore col soprano e con grande squisitezza la frase delle violette al 3° atto, meritando gli applausi più sinceri. Il baritono Mauceri [sic] (Gianciotto) ha sostenuto la difficilissima parte con grande intelligenza e con mezzi vocali eccellenti. La sua interpretazione è superiore ad ogni elogio e nel duetto del 1° quadro dell’atto quarto con Malatestino assurge ad un’ altezza drammatica degna della massima ammirazione. Il pubblico lo ha lungamente e meritatamente applaudito. Ed ha applaudito del pari il tenore Nessi, che ha cantato nell’odiosa parte di Malatestino in modo inappuntabile e con molta efficacia. Ottimamente il baritono Menni (Ostasio), il Gi[....] (Toldo) e il Santolini (Giullare). Eccellenti le masse corali e l’orchestra che sotto la direzione del grande maestro ha suonato splendidamente. Ma una parola d’ammirazione è doverosa per quel grande artista che è Mario Sammarco, che preposto alla direzione artistica del Massimo, ha voluto che nel programma delle opere si comprendesse la «Francesca da Rimini», mettendola in iscena col maggiore sfarzo. Lodevolissima altresì è stata l’azione dell’ing. Guido Valcarenghi, rappresentante artistico della casa Ricordi. ---------(*) Reperto gravemente logorato nella piegatura del foglio e inoltre assai sbiadito e scritto in caratteri minuscoli, così da non permetterne la lettura integrale. 152 76 F.P. Mulè, Il trionfo della “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «L’Ora», 2-3-.3.1921 Si risale nel tempo. Cespugli che verzicano, rose che disbocciano vermiglie nella Primavera. Per la pineta folta va sfavillando il sole, e s’odono nella chiarità serena le storie di Tristano, di messer Lancillotto del Lago... Le donne ascoltano cupide i giullari, con grande allegrezza: pause brevi nel cozzo ferreo delle ire di parte che insanguinavano le mani e le città. Così Garsenda e Biancofiore e Antichiara [Altichiara] e Donella, le donne di Francesca, in un’ampia corte d’una casa dei Polentani. Così Francesca, ella stessa. Gli uomini vivono d’ambizione, d’odio, di ferocia; le donne recano in sé una più gentile umanità: aspettano l’amore, o amano, ristabilendo, secondo il clima storico, l’equilibrio etico della vita. Amare, morire. Canta Samaritana, la giovine sorella di Francesca: E si vivrà, oimè, si vivrà tuttavia! E il tempo fuggirà, fuggirà sempre! E Francesca canta con lei: E si morrà, oimè, si morrà tuttavia! E il tempo fuggirà, fuggirà sempre. Riccardo Zandonai intrecciò le due voci feminee in guisa da risultarne – ritmo, modulazione, colore – oltre che un rimpianto, un ammonimento, quasi, del destino. Amare, morire: ala di vento è la vota: spira e passa. Riccardo Zandonai, cosciente o nell’inconsapevolezza dell’intuito, pur seguendo la tragedia apprestatagli da Gabriele D’Annunzio, ebbe sempre innanzi a sé quel triste umano fato, e il fato che pesa inesorabile sulla tragedia dei due cognati nel divino canto dantesco. Per via della sua musica la storia di Francesca e di Paolo – che, tornata dall’inferno in terra diventa un caso comune d’adulterio – si ricongiunge, nei momenti essenziali, col significato che Dante diede, che Dante volle dare al peccato dei due cognati. Francesca è veramente Francesca là dove Dante la lanciò per l’eternità, nella bufera infernale, a scontare sì la sua pena, ma fra le braccia di Paolo. E così Paolo. Sono in Dante spiragli pei quali s’intravede la realtà terrena della tragedia, ma questa si compie e si purifica nell’eternità della pena. Quel che si svolse in terra è il presupposto, l’antefatto: la tragedia di Dante è in quanto si compie nell’inferno. Si compie e non avrà mai fine, perché la pena continuerà senza mai fine. Da qui l’elemento della pietà, inseparabile dall’episodio dantesco. Cattolico, Dante ha condannato, ma uomo piange, cadendo a terra «come corpo morto», Non giustifica, ma fa di più: divinizza. Fa intangibile quell’amore. Non fu esso un atto di volontà, ma opera del destino. Fatalità d’amore, eternità di gastigo, pietà: queste le tre forze strapotenti che fanno dell’episodio di Francesca la tragedia più profonda e più originale che genio di poeta abbia mai concepito. Quanto da essa lontane le varie ricostruzioni che se ne sono tentate! Ugo Foscolo ammonì. E Dante, in verità, schiaccia. Riccardo Zandonai segue, sì, come ho detto, il tessuto drammatico apprestatogli dal D’Annunzio, ma ha nell’anima Dante. Lo hanno notato i critici? Non so. Se non lo hanno notato, non sanno essi ancora dove sia da ricercare il meglio, il più nobile, il più caratteristico nell’opera 77 del musicista. Peggio poi se abbiano giudicato quest’opera alla stregua d’un qualsiasi dramma erotico. Quelli che sono i suoi pregi essenziali potrebbero apparire difetti. Potrebbero, ad esempio, sembrar monotoni quei passi – e sono frequenti – nei quali i dialoghi tra Francesca e Paolo procedon quasi sui modi del canto liturgico. Musica quasi religiosa nell’andatura grave e sostenuta delle frasi melodiche, nel trapunto armonico, nel chiaroscuro dell’orchestra. Religiosa, dico, nel significato assoluto che ha la parola religione: Qualcosa che supera la volontà umana, una potenza misteriosa alla quale non puoi ribellarti e devi soggiacere: l’amore, non sola fatalità d’amore: quella che indusse Francesca e Paolo «ad una morte». Solenne nella sua contenuta tenerezza è la confessione del peccato in Dante; quasi ieraticamente parlano Francesca e Paolo nella musica di Riccardo Zandonai. Tanto esiste nella musica il senso di religiosità ch’io dico che una frase di Paolo, là dov’egli modula: Inghirlandata di violette m’appariste ieri a una sosta questa frase, pur nella sua freschezza ed eloquenza teatrale, sembra turbi l’austerità di quel discorso musicale sgorgante largo, in ampi respiri, dalla più riposta intimità dell’essere. Nulla di mondano e di profano nella rivelazione melodica di quest’amore colpevole. È un tradimento alla fede coniugale e al proprio sangue, pure la musica si snoda, fluisce, si accentua in onde canore e sinfoniali che hanno qua e là la linea severa d’un oratorio. Riccardo Zandonai ebbe ognor presente lo spirito e il significato dell’episodio dantesco. Dolore. Tutto, o quasi, è dolore nella rivelazione d’amore. Il fato impera. Vorrebbero le due anime disgiungersi, ma sono sospinte irresistibilmente l’una verso l’altra; e il grido travolgente della passione prorompe, sì, quando il cuore più non può contenerlo, ma si dispiana tosto nella solennità della travagliosa elegia. Sembra che Riccardo Zandonai pianga sul destino dei due cognati nell’atto stesso in cui dà loro il linguaggio d’amore. È il processo interiore di Dante. E se non esistesse il quinto canto dell’ Inferno, Francesca e Paolo si esprimerebbero certamente con melodie d’altro carattere, più terrenamente, più mondanamente: spesso questa musica d’amore non è più la veste della tragedia D’Annunziana, ma un commento mirabile delle terzine dantesche. Ed è qui la sua virtù essenziale e più alta, qui il suo fascino squisito e la suggestione che essa esercita su chi è fatto per intendere. Molti elementi, che la tragedia di Francesca ha perduto facendosi terrena, qui ritornano riavvicinandoci a Dante. Rivissuta così la figura di Francesca, il resto della musica ne è un logico complemento psicologico ed estetico. L’atmosfera sentimentale e musicale dell’opera s’irradia da Francesca e con lei s’intona meravigliosamente. Non vale che le donne di Francesca ciarlino spensierate col giullare, non vale che esse cantino la ballata per salutare il marzo. Gaia, rorida, odorosa ballata, che nel suo ritmo reca la freschezza e l’incanto della Primavera giovinetta, pure essa spande non so qual senso di malinconia, che le viene dal dolore di Francesca. Dolore, amore. E sempre, i contrasti di quest’opera, si colorano di quell’amore, di quel dolore, fuoco centrale, che tutto illumina, tutto fondendo in unità inscindibile. Anche la scena della battaglia, nel secondo atto vertiginoso e sonoro. Quanta ferocia e quanto sangue attorno al bisogno d’amore di Francesca! Anche l’episodio del quarto atto allorché Malatestino, perverso e subdolo, uccide Montagna prigioniero recandone la testa avviluppata in un drappo sanguinante. 78 Troppa ferocia e troppo sangue. Vita di belve è quella. La musica di Riccardo Zandonai rasenta il più aspro e rude realismo dipingendo a grosse macchie di colore, perché più essa è rude ed aspra, più intendi e ti avvicini allo stato d’animo di Francesca, al suo dolore, alla sua passione, che trova inflessioni di spasimo indicibile e si risolve in cadenze materiate di lacrime cocenti. Questo contenuto di dolore si annunzia tosto, al primo atto, nella modulazione che Riccardo Zandonai ha dato alle parole di Biancofiore, allorché ella, chiedendo al giullare di cantare una canzone, gli dice: Ne sa Madonna Francesca una bella, che comincia: «Meravigliosamente un amor mi distringe». Una frase musicale acerbamente sconsolata, per la quale sappiamo chi sia Francesca e come viva e a che cosa tenda. E sappiamo anche lo stile musicale di Francesca. L’elegia tragica ha il suo deciso cominciamento. Non fa più meraviglia che Francesca sia annunziata da un canto quasi funebre: Oimè che adesso io provo che cosa è troppo amore, Oimè ch’egli è un ardore che il cor mi coce. Oimè Francesca sembra nasca sulla scena e al suo tremendo destino sull’onda desolata di questo canto modulato dalle sue donne e che trasvola dalla voce delle donne agli strumenti, dagli strumenti sulla scena e si spande per tutta la casa dei Polentani, e dalla casa ai clivi attorno, per la pineta dove la luce smuore. Per virtù di canti, per virtù di suoni la luce smuore nelle cose e nelle anime, che è apparsa Francesca e Paolo giunge; giunge recando l’amore e la morte. È un fremere vasto, un sussultare vasto di tutta l’orchestra. Giunge l’amore, ma in compagnia della morte. Il triste presentimento è nell’aria, è nelle anime. È in Francesca. Trema Francesca, sbigottita, e piange. «Tacete! Tacete!» Una corda geme, insistente. Vorrebbe esultare e geme, insistente. Quadro scenico, quadro drammatico, quadro musicale di bellezza sovrana, degno in tutto della tragedia dantesca e d’un grande poeta dei suoni. Basterebbe ad acquistar nome imperituro ad un musicista. Su esso i venturi si fermeranno affascinati, come ad una delle maggiori realizzazioni estetiche del nostro tempo. Ma qui ora si entra nel valore musicalmente drammatico, o teatrale che dir si voglia, di Riccardo Zandonai. Non è il caso, in verità, di indugiarvisi. Importa specialmente stabilire in qual modo Francesca rivivesse nella fantasia del maestro, quello appunto che a tratti sintetici ho tentato di fare. Il valore musicalmente drammatico di Riccardo Zandonai è ormai noto da anni. Lo abbiamo ammirato in altre sue opere. E qui ritorna in elaborazione di progresso. Anche qui ciascuna persona del dramma reca la propria individualità musicale piena e recisa, inconfondibile con quella delle altre persone. Individualità musicale non conseguita meccanicamente con calcolato abuso di motivi conduttori, ma pel carattere diverso della musica onde ciascuna persona del dramma si esprime. Ho detto di Francesca. Paolo, non ostante la diversità del tema, vive nella stessa atmosfera lirica. Vicina a questa, come dietro un vaporoso velo d’innocenza e di malinconia, fiorisce in tutta grazia la Samaritana, mettendo soavissime venature di tenerezza nel fosco della tragedia. La colomba che canta. Scabra e veemente la muscolatura melodica, armonica e strumentale di 79 Giovanni lo sciancato. Balza costui dai contrasti sonori con un rumor secco di rugginose armature. Chi al secondo atto, in una tregua della battaglia, si annunzia imperioso, violento, ricorruscante com’egli fa, è fatale debba versare il sangue di Francesca e di Paolo. È fatale debba versarlo chi, nel dialogo rivelatore con Malatestino prorompe, com’egli fa, in ruggiti di belva. Ma quei ruggiti gli rompono l’anima. Ed è qui, in questo fulmineo annientamento della sua vita, la sua umanità profonda. Senso d’umanità che manca in Malatestino, più prossimo alla belva che all’uomo. Sinuosa e fraudolenta la sua coscienza, sinuosa e fraudolenta sempre la musica onde si esprime. Egli è la ferocia, il sangue. Il dialogo concitato, pauroso, formidabile tra questi due sciagurati, rotto e balzante sul tema ferrigno e aguzzo dello Sciancato, è e rimarrà una delle pagine più superbe del dramma musicale contemporaneo. Chi ha avuto la concezione musicale di questo dialogo può affrontare tutti gli argomenti e dar vita di canti e di suoni a tutte le coscienze. Egli, pure serbandosi fedele al suo stile, è sulle orme estreme e maggiori di Giuseppe Verdi, allorché, sceso dai vertici della forma melodrammatica con le pagine più possenti dell’«Otello» e con l’eloquentissima, melodica declamazione del «Falstaff» si propose dare all’Italia il dramma e la commedia musicale italiana. E impressa d’indelebile, aristocraticissima italianità è la «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai, il quale sa tutte le conquiste che la musica fin qua ha fatto, ma di esse si avvale per non soffocare, come in altri accade, ma per rendere più caratteristica l’espressione del proprio sentimento che, anche là dove la ricerca dell’eleganza può sembrare eccessiva, mai non perde la sua chiarezza, il suo sapore, la sua euritmia decisamente italiana. Ché se l’orchestra nel dovizioso susseguirsi dei ritmi è un continuo poema, meglio che sia così: il quartetto e la sinfonia non sono soltanto gloria straniera. E qual miracolosa tavolozza questa di Riccardo Zandonai! Può dar fondo alla natura. E lo farà. È di razza leonina. * Il successo dell’opera è stato trionfale, come nelle altre città, e ciò torna ad onore del nostro pubblico, il quale, a una prima audizione, pur non potendo afferrare se non la grandiosità di linea e il fulgore totale che si irradia dalla vasta mole sonora, sentì che si trovava innanzi a un’opera d’arte di singolarissimo valore. Ma è una di quelle opere che vanno risentite: i suoi particolari bellissimi si concedono poco alla volta. E sono innumerevoli. Più di venti volte fu chiamato al proscenio il maestro Zandonai, tra ovazioni ed acclamazioni festose e convinte. L’opera, concertata e diretta dallo stesso autore, apparve nei suoi segreti più riposti. Gli spiriti ai quali essa obbedisce si svelarono prodigiosamente. Riccardo Zandonai è anche uno straordinario animatore dell’orchestra e della scena. I cantanti lo secondano mirabilmente, mirabilmente gli obbediscono l’orchestra e i cori. Francesca è la signora Lina Scavizzi. Creatura fremente, ella fa sentire nelle vibrazioni della sua bella voce la mala passione che la strugge, l’ansia, lo sbigottimento, l’ardore, il terrore onde a volta a volta è dominata Francesca. Paolo stupendo il tenore Socrate Caceffo, figura aitante, voce rara di tenore, eguale e tutta argento, spontaneità di canto, nobiltà di scena. È destinato a salire alto. Credo che nessuno oggi possa rendere il carattere di Giovanni lo Sciancato come lo rende il baritono Carmelo Maugeri. Egli piega la sua magnifica, poderosa voce a tutte le inflessioni, a tutti gli accenti che 80 il creatore di una persona drammatica possa desiderare nel suo interprete. È un artista di grande stile e di grande avvenire. Bella la signora Maria Donatello nelle vesti di Samaritana. Figura e canto di dolcezza e di grazia che danno una squisita commozione. Malatestino dall’Occhio è il tenore Giuseppe Nessi. Veramente mirabile. D’un’efficacia assoluta. Nel grande duetto con lo Sciancato raggiunge la perfezione. Ostasio corretto e colorito il Menni. Vaga e soave Biancofiore la signorina Aurora Rettore ed oltremodo musicale la signorina Maria Avezza. La ballata del terzo atto ha in loro e nelle signore Perosio (Antichiara [Altichiara]) e Fenoglio (Donella) quattro commendevoli esecutrici. La signora Lombardi Arangi, per un omaggio al maestro Zandonai, assunse la breve parte della Schiava, e la cantò naturalmente alla perfezione. Stupendamente il tenore Gilardi nella duplice parte di ser Toldo Berardengo e del Balestriere e il Santolini (Giullare e Torrigiano). Intonatissimi i cori, preparati alla perfezione dal maestro Rio. Il maestro Profeta eseguì limpidamente l’a solo di viola e il maestro Carafa fu oltremodo ammirato pel modo veramente magistrale onde colorì l’a solo di violoncello nel finale incantevole del primo atto. Scenari e costumi degni del Massimo. Mi piace terminare con una lode vivissima all’ingegner Guido Valcarenghi che, mandato qui dalla casa Ricordi, curò in ogni più minuto particolare l’andata in iscena dell’opera, e al comm. Mario Sammarco, direttore artistico della stagione, la quale non potrà svolgersi se non con alto senso di responsabilità e di decoro. Non per nulla Mario Sammarco è un signore autentico della scena lirica. 153 Al Massimo - La seconda della “Francesca da Rimini”, «L’Ora», 4-5.3.1921 Pubblico imponente, come alla prima, elegantissimo, in ogni ordine di posti. Oltremodo affollato anche il loggione. Il successo dell’opera è stato iersera anche più trionfale. L’onda continua del canto e dell’orchestra si propaga nella sala con fascino ognor crescente. Il nobile carattere delle melodie rifiorenti sull’elegante e modernissimo tessuto armonico solleva gli spettatori in un’atmosfera d’arte superiore. Nulla di esteriore in questi peregrini discorsi melodici, in queste frasi scandite e accentuate con vero travaglio di passione: tutto è profondità scaturente in compiutezza di espressione da una poderosa fantasia di poeta e che rende a meraviglia gli alti spiriti onde la tragedia è pervasa. Iersera il pubblico cominciò ad entrare nei preziosi particolari della miracolosa partitura e qua e là, alle scene salienti, dovette fare sforzi per contenere gli applausi e le acclamazioni, coi quali qualche volta tentò di interrompere il fluire dei canti e dei suoni. Quest’opera non consente interruzioni: è un’architettura lirica di suprema compattezza ed equilibrio. Nessuno oggi disdegna il plauso del vulgo quanto Riccardo Zandonai. Nessuna lusinga, mai, al gusto delle platee. Fa arte, Non vuole abbassarsi fino al pubblico mediocre, ma vuole che il pubblico s’innalzi fino a lui. E vola, in piena libertà d’ispirazione. Così la Francesca, mentre dà un ineffabile godimento estetico, ha sul pubblico una sicura virtù educativa. Sono ore di vera e propria elevazione spirituale. Anche l’esecuzione è stata mirabilissima, da parte di tutti gli interpreti, dell’orchestra, dei cori, i quali non sono stati preparati, 81 come per equivoco abbiamo pubblicato, dal maestro Rio, ma dal maestro Amedeo Barbieri. Alla fine d’ogni atto, innumerevoli chiamate al proscenio, e a Riccardo Zandonai furono tributate feste entusiastiche e interminabili, da commuoverlo profondamente. 154 Al Massimo - La serata d’onore di R. Zandonai, «L’Ora», 28-29.3.1921 Pubblico eletto ed imponentissimo gremì sabato l’abbagliante sala del Massimo per rendere omaggio al maestro Riccardo Zandonai, del quale ricorreva la serata d’onore e di addio. Le feste che il pubblico tributò al giovane e illustre musicista sono indescrivibili. Le musiche profonde e affascinanti di Francesca scossero ed estasiarono ancora una volta le anime sollevandole in un’atmosfera d’arte superiore e strappando acclamazioni e ovazioni altissime. E con quale ardore di stima e di simpatia cantarono i singoli interpreti. E come fu veramente grande il baritono Maugeri nel rendere la ferrea figura di Gianciotto! Interpreti, coristi, tutto il palcoscenico e l’orchestra si unirono alla fine d’ogni atto al pubblico nel fare plauso al possente animatore. La dimostrazione inobliabile culminò dopo la squisitissima, sognante Serenata Medievale e il caratteristico Intermezzo della Conchita dello stesso maestro Zandonai, di cui si volle ad alte grida il bis. Il pubblico sembrava preso da delirio e la tempesta degli applausi si prolungò per una diecina di minuti. Il maestro, costretto a presentarsi innumerevoli volte alla ribalta, appariva profondamente commosso di quell’ondata schietta e ardente d’entusiasmo. A Riccardo Zandonai dall’Impresa, dagli artisti, da estimatori ed amici furono offerti molti doni di valore. Al Maestro che parte con la sua gentile signora mandiamo il nostro cordiale saluto e l’augurio fraterno che Giulietta e Romeo, l’opera alla quale attende, sia una nuova gagliarda affermazione del suo genio rinnovatore dell’arte musicale italiana. Bei fasci di fiori furono offerti anche alla valorosa signora Scavizzi, che sabato, con l’ultima della Francesca da Rimini, terminava i suoi impegni con l’impresa. [...] 155 Claudio Luciani, “Amor condusse noi ad una morte” - Ricordando... Una data - Un documento del battesimo glorioso di “Francesca da Rimini”, «Il Piccolo», 6.3.1921 La tragedia «Amor che al cor gentil ratto s’apprende. «Amor che a nullo amato amar perdona «Amor condusse noi ad una morte. Addio corte dei Polentani, con il giardino e le arcate, le colonnette e la loggia; addio, sorella Samaritana, sorriso divino di giovinezza, desolata e triste dell’abbandono... È arrivato lo sposo. Egli è il più bello cavalieri del mondo. Avventurata, avventurata colei che gli bacerà la bocca. Avanzati sola, Francesca. Con passo lieve, tra le tue donne, Biancofiore, Altichiara, 82 Adonella: raccogli nell’arca fiorita una rosa vermiglia. Offrila allo sposo giunto in silenzio. Domani, fatalmente, ti troverai sospinta verso il tuo destino vermiglio. La rosa offerta fiorirà, fiorirà in miracolo di passione e di sangue. Domani sarà pauroso il risveglio. L’astuzia tortuosa di un notaio, l’ambizione rapace di Ostasio e di Guido da Polenta, con l’inganno atroce come una vendetta, ti hanno gettata nelle braccia di Gianciotto. Inutilmente, inutilmente, cercherai lo sposo perduto, cercherai di Paolo il Bello. Inutilmente lagrimerai la giovinezza tua, la bellezza tua, superba e meravigliosa come un prodigio, sfiorita, nelle mani rozze di Gianciotto... Ma Francesca non è creatura di lagrime, di rimpianti desolati, di nostalgie inutili. Francesca è creatura d’amore, di passione e di sangue. Tutta la sua vita è come la fiamma che ella tiene in pugno, senza paura. La fiamma vibra, rosseggia, sanguina. La fiamma è bella. Con la Morte e con la vita ella giuoca, come con una fiamma. Eccola sulla torre di battaglia. Tra i balestrieri ed i torrigiani, tra le balestre e le baliste e gli arganelli. Tra la lotta e la Morte. Tra la Morte e l’Amore. Eccola. E la parola è pronunziata. Ed il destino è segnato. Con fermi occhi, Francesca, hai atteso il Giudizio di Dio. Senza tremare. Tu chini gli occhi, ora, e tremi per la paura del destino segnato; per la paura del tuo amore, di te stessa simile alla fiamma. Eccolo colui che ti perde. Eccolo, l’adolescente Malatestino. Giunge polveroso e sanguinante e ferito. Fatto di coraggio e di ferocia, ebbro di tumulto e di lotta e di grida e di strage... Sulla sua adolescenza ardente e violenta passa l’immagine di te. Tu lo sferzi, tu lo sproni, tu l’aizzi, tu l’avvampi con la tua bellezza; tu gli ravvolgi l’anima di fiamma... Malatestino dall’Occhio ti ha perduto. Vi ha perduti. Ecco Gianciotto. Ecco il ferro, ecco la Morte. Ecco il sangue vermiglio, il destino vermiglio, fioriti dalla rosa. Ecco la tua Vita e la tua Morte, Francesca... La tragedia si è compiuta. Dal tempo lontano, dal Duecento fiorito di canzoni e di storie d’amore, balza in tutta la luce viva il poema di sangue e di lussuria. Tutte le attese e tutti i rimpianti e tutte le esitazioni, la musica di Riccardo Zandonai le ha dette. Ha detto il prodigio delle rose in fioritura, ha detto l’attesa e l’amore. Ha detto l’incalzare del Destino, inevitabile e tragico; si è piegata di dolcezza; si è rotta di tormento. Dalla sua arte, Francesca è balzata ancora una volta con occhi dolcissimi e bocca violenta. Ha recato la sua anima insanguinata. Tale noi la vedemmo, nel sogno. Tale, tra le creature tutte, superba d’amore, ardente di lussuria, magica di bellezza. Ancora una volta la tragedia è fiorita, come il rosaio vermiglio, nell’ arca bisantina. E nelle nostre anime, avvinte, incalzate tormentosamente di modernità, ha lasciato la traccia del suo profumo e del suo sangue... 156 F.d.M., La musica di Riccardo Zandonai, id. La Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai è l’opera musicale più notevole prodotta in quest’ultimo decennio. Poche opere, di autori italiani, a eccezione del Mefistofele di Arrigo Boito, presentano un complesso così notevole come questa. In generale, il melodramma – se ne 83 togliamo i tentativi originali certo, ma indubbiamente privi di quelle caratteristiche che impongono alle folle il capolavoro dello Schumann, del Debussy e del Gilbert – il melodramma altro non è che l’arioso del tenore, la romanza della soprano, la cavatina, il duetto d’amore, il quartetto e il preludio, collegati da un amalgama stentato di note: ciò stesso fu grande presso i classici, diventa meschino, malgrado l’orchestrazione prosopopeica, in molti moderni. ** Riccardo Zandonai, a simiglianza in questo del suo gigantesco omonimo germanico, il Wagner, ò fatto l’opera completa, senza legature artificiose, senza lacune, senza pezzi, Dalla prima all’ultima nota, la Francesca da Rimini si sostiene sempre allo stesso livello, pur avendo, sì, quelle ondulazioni che sono proprie a tutte le musiche della natura. È un cerchio mirabile, ogni molecola del quale è necessaria alle altre per la saldezza della sua compagine armonica. Musica, direi, acquea, nella quale tu senti ora il murmure delle bonacce, ora il ritmo colossale delle maree, ora l’urlo forsennato dei cavalloni; ma che è sempre lo stesso carattere, la stessa fluidità, la stessa ampiezza infinita. Più che il melodramma come comunemente va inteso, pare a me che lo Zandonai abbia voluto realizzare la sinfonia, nella quale le voci umane sono strumenti talvolta predominanti, ma mirabilmente fusi nel ritmo orchestrale, sono accenti necessarii nella selva beethoveniana dei suoni. E ciò senza quelle astrusità che taluni vogliono vedervi, poiché a me pare che la melodia si sviluppi sin dal principio, senza soste, unica e varia nello stesso tempo, accompagnata e scandita dal mareggiare dell’armonia. Lo Zandonai non à affastellato reminiscenze, non à fatto pompa presuntuosa di erudizione: l’opera è sbocciata naturalmente dall’anima dell’anima sua geniale e matura, è fiorita chiara e logica, limpida e definitiva come tutti i capolavori. Ascoltandola, pare a noi che essa non potesse essere che così; noi ci aspettavamo che essa fosse tale quale è. E per questo il godimento è grande, per questo noi ci abbandoniamo inconsapevolmente all’onda dei suoni, che l’anima nostra accompagna con mille echi gioiosi. Nel blocco cristallino dell’opera non v’à incrinature né opacità, mai. L’amore e il dolore di Francesca, la passione e la follia di Paolo, la gelosia e la rudezza di Gianciotto, la ferocia sinistra di Malatestino, il candore timido di Samaritana, ànno accenti e voci universali, senza cader mai in quelle volgarità plateali da cui pure non seppero sempre e a bastanza difendersi musicisti fra i più eccelsi. Qui Bellini canta dal principio alla fine una sua melodia che Beethoven e Wagner rivestono ardentemente dei loro ritmi sonanti. Fiori purpurei di passione si schiudono, tra una pioggia interrotta di gelsomini; il vento impetuoso della nona sinfonia si sposa alla primavera che schiuse la porta dell’abituro di Siegmund. E ciò è Zandonai. ** Nella Francesca è anche mantenuto miracolosamente, oltre che il colore delle passioni e dell’ambiente, anche quello del tempo: pregio questo di primissimo ordine e che in ben pochi autori troviamo così perfettamente intonato, senza stanchezze e senza distrazioni ed oblii. Il fosco e passionale duecento forma lo sfondo anche musicale dell’opera, e ciò non soltanto quando le vivuole e i leuti accolgono Paolo Malatesta in Ravenna, o quando Malatestino ferito è trasportato sul ballatoio della torre, o gli amanti leggono le istorie di Lancillotto del Lago; ma pure nei minimi particolari, nei dialoghi delle ancelle e dei valletti, nel gesto del Torrigiano che prepara il fuoco greco, nelle parole della schiava, negli urli lontani del Podestà prigioniero. 84 La tragedia stessa, nella quale il D’Annunzio aveva versato a piene mani le gemme rutilanti della sua arte animatrice, ci pare completa ora solo che lo Zandonai vi à trasfuso l’anima sua musicale. ** L’esecuzione è riuscita veramente impeccabile, fin da martedì, come poche volte avviene in una prima rappresentazione. L’orchestra à illuminato tutta la bellezza dell’opera con intelletto d’amore, rendendone il carattere con evidenza rara. Lina Scavizzi è la più perfetta Francesca che abbia mai calcato le scene, poiché all’arte impeccabile, alla voce squisita accoppia la bella persona che prese Paolo fin oltre la morte. Socrate Caceffo, dalla voce chiara, magnificamente timbrata, è un tenore di grande avvenire: è un Paolo eccellente. Ottimo Gianciotto il baritono Maugeri, composto, misurato, ricco d’invidiabili mezzi vocali. Il tenore Nessi incarna a meraviglia la figura di Malatestino. La signora Lombardo Arangi à fatto rifulgere le sue eccezionali qualità d’artista pure nella piccola parte della schiava. Egregiamente ànno partecipato al successo trionfale anche gli altri esecutori, tra cui non ultimi i cori, e la messa in iscena suggestiva e sfarzosa, curata con signorilità e fine gusto dall’Ing. Guido Valcarenghi e dal nostro illustre concittadino Comm. Mario Sammarco, cui dobbiamo il piacere della direzione artistica di questa tanto promettente stagione lirica del nostro Massimo Teatro. --------- Ricordando... Una data - Un documento del battesimo glorioso di «Francesca da Rimini» Roma attendeva «Francesca» con un’ansia che era fatta di curiosità fervida e di esaltazione vibrante. Il Poeta aveva dato alle prove tutta la sua passione frenetica. Il «Costanzi» splendeva di una magnificenza non mai veduta. Tutti i poeti e tutti i prosatori, tutti i critici e tutti gli esteti eran convenuti d’ogni parte d’Italia e d’altre Nazioni per l’avvenimento singolare e grandioso. E il successo della tragedia fu delirante... Sul palco scenico, il Poeta aveva al suo fianco Edoardo Scarfoglio, Vincenzo Morello e Paolo Michetti: tre anime fraterne, tre fiaccole dell’intellettualità più nobile, un trittico ben degno di partecipare a tanta gloria –, ed il Poeta, raggiante, con quel suo fresco vivo e metallico riso gioioso, riceveva gli omaggi vibranti ed incessanti che tutti gli ammiratori con alterna vicenda gli recavano mentre ancora dalla sala del «Costanzi» giungeva l’eco fragorosa delle acclamazioni altissime. In quell’ora, in quell’istante che consacrava «Francesca» alla gloria, gli occhi e l’anima del Poeta si volsero verso un nostro concittadino che a Roma s’era recato come per assistere alla celebrazione di un rito sacro e solenne, e che assistendo alle prove di «Francesca» era stato testimone della superba fatica dell’artefice, infaticabile e meraviglioso. E a questo nostro collega – il Conte d’Ugenta – Egli – il Poeta – volle offrire un ricordo singolare – il bel disegno di De Carolis – che era il suggello fiammante di «Francesca» con le firme autografe di tutti gli artisti che, interpretando le dramatis personæ della tragedia, avevano contribuito al suo successo e alla sua gloria. Oggi che la magnifica tragedia ha avuto un nuovo trionfo a traverso il superbo poema musicale di Zandonai, vogliamo riprodurre questo originale ricordo, in memoria di quella sera inobliabile che segnò il battesimo glorioso di «Francesca»: una data che ci è caro rivivere con immutato cuore, con bagliori di giovinezza e di entusiasmi inesausti e inestinguibili........ 85 ----------------------------------------------------------------------------------------- Trieste 1921 (157-158) 157 Francesca da Rimini Lavoratore», 25.9.1921 di R. Zandonai al Politeama Rossetti, «Il Assetato di buona musica, dopo una vera indigestione di operette e riviste delle quali ben pochissime degne di considerazione per elementi formali elevati, il pubblico affollò ieri in modo, se non superlativo, lusinghiero per l’impresa, platea, gradinata e gallerie, e ciò nonostante il rilevante aumento dei prezzi, che suscitò vivi commenti, non benevoli certo per l’impresa, fra gli intellettuali squattrinati, cui sarà tolta – a meno di una insperata vincita al lotto – la possibilità di penetrare in quel «sancta sanctorum» riserbato ai pescicani e bipedi affini. E saremo in vena di fare altre amare constatazioni nei riguardi del caro-teatro se il proto, vista l’ora tarda, non lanciasse delle occhiate così espressive da indurre prontamente a smettere e ritornare in argomento: la tragedia musicale e l’esecuzione. Sui caratteri estetici della «Francesca da Rimini» abbiamo parlato a lungo due anni or sono, quando il poema d’amore e di morte dei due cognati che Dante vede nella divina visione trasvolare per il cielo corrusco «come colombe dal disìo chiamate fu allestito sulle scene del Verdi, sotto la personale direzione dello Zandonai. Diremo soltanto che anche in questa nuova edizione, curata dall’impresa Lovrich in modo degno d’encomio, il poema musicale che ebbe la fortuna di ascendere la scena lirica e mantenere gagliardamente – a differenza d’altre opere musicali germogliate dal ceppo dannunziano – ci parve ricco di poesia e pervaso di sottile musicalità. Certo non tutto quello che luce è oro: vi appaiono qua e là ricordanze stilistiche e ritorni melodici, e l’enfasi a volte sostituisce la vigoria passionale e drammatica. Ma nell’insieme è opera schietta che ritrae delle migliori qualità artistiche del giovane maestro trentino, così italianamente affermatosi sul nostro non troppo lieto teatro lirico. In queste opere nelle quali il colore ha il predominio, e il compito di commentare l’espressione lirica dei personaggi, la verità umana di lamenti e sospiri, di passione e di odio, è affidato allo strumentale, sta in orchestra il primo coefficiente di successo. È noto che le ottimissime falangi orchestrali, sotto la guida dello Zandonai, ci offrirono già un commento di suprema distinzione, delicatamente suggestivo nel gioco continuo di luce ed ombra. Iersera la concertazione dell’opera non ci è sembrata delle migliori: la rumorosità soverchiò spesso le voci, messe ancora a dura prova da un eccessivo allargamento dei tempi, per cui molte bellezze apparvero, se non perdute, molto attenuate. Dalla genialità del maestro Barone dovevamo attenderci qualcosa di meglio, di più cesellato. Sul palco invece le cose andarono nel miglior modo possibile. Gl’infelici amanti ebbero la fortuna di avere per interpreti due artisti di indiscutibile valore: Linda Barla-Ricci e Filippo Piccaluga. Ma bisogna convenire che gli onori massimi andarono particolarmente alla prima, uno dei pochi soprani di schietto temperamento lirico-drammatico. Dotata di voce ampia, purissima, sicura, vibrante di passionalità, Linda Barla-Ricci seppe riprodurre con squisitezza poetica il carattere di Francesca, e specialmente nell’episodio della lettura del «libro galeotto» e del bacio fatale l’arte sua fu suscitatrice di profonda emozione. Le fu degno compagno il tenore Piccaluga, artista di grande avvenire, che al personaggio di Paolo conferì vigoria di mezzi vocali ed accenti di bella espressività nell’incalzare della travolgente passione 86 amorosa. Voce dunque dall’ampio respiro, di magnifico squillo e sicura nell’ascensione ai suoni acuti. Il baritono Enrico Roggio seppe dar rilievo poderoso al triste personaggio di Giovanni lo sciancato, il rude uomo di guerra: sfoggiò voce piena ed armoniosamente timbrata; l’azione sua fu sobria, espressiva e incisiva. Un Malatestino di valore fu il Nessi, che si affermò tanto per virtù vocali che interpretative; Ostasio veramente efficace fu il Bevilacqua, che si fece notare per bella e pastosa voce. Ottimi poi tutti gli altri interpreti, che contribuirono con le loro virtù canore alla miglior riuscita dello spettacolo: la brava Delfina Menotti, la Zappata, Gioconda Pagnini ed Etta Obersnù che anche negli atteggiamenti rivelarono spiccato senso d’arte. La massa corale – se si toglie qualche scusabile incertezza – apparve per intonazione e coloriti meritevole di lode sincera. La messa in scena, accurata, indovinato il gioco delle luci. Decoroso e fresco il vestiario. Per la cronaca diremo ancora che gli applausi scrosciarono frequenti dopo ogni atto. E gl’interpreti dovettero presentarsi ripetutamente al proscenio. Abbiamo – così per incidenza – notato come Paolo-Pittaluga sia ben più cavaliere del fu Paolo-Fleta. Mentre quest’ultimo lasciava cadere la rosa vermiglia che Francesca gli porgeva, il primo la piglia, l’annusa e se la stringe al petto. Ci ha fatto poi impressione la crescita della trecentesca «viola d’amore, divenuta ormai... violoncello visibilissimo. Fra due anni – se avremo il piacere di rivederla – la saluteremo contrabasso. Questa sera seconda di «Francesca da Rimini». 158 La «Francesca da Rimini» di R. lavoratore socialista», 25.9.21 Zandonai al Politeama Rossetti, «Il A distanza di due anni, questa «Francesca» che grado grado sulle scene del nostro Massimo ha saputo destare la più viva ammirazione nel pubblico triestino, ritorna oggi fra noi, auspice l’impresa Lovrich, in un ambiente più popolare, non però meno atto a gustare le bellezze del geniale spartito che in breve tempo, meglio di «Melenis», del «Grillo del focolare», di «Conchita» e di «Via della finestra» ha trovato la via di quella fama che assegna oggi a Riccardo Zandonai uno dei posti più eccelsi della moderna scuola italiana della musica. A suo tempo abbiamo già rilevato il valore intrinseco dell’opera, i suoi mirabili pregi ed i suoi difetti organici, dovuti in parte al libretto che non sempre si presta ad essere rivestito di note, ed anche iersera ci tornarono palesi gli stessi meriti e le stesse mende di questa «Francesca», la cui recente esecuzione nel suo complesso poco ha da invidiare a quella di due anni or sono. Forse, stringendo maggiormente certi tempi, si sarebbero isnellite e rese più agili alcune prolisse scene di fianco; comunque, ripetiamo, queste sottigliezze non tolgono nulla al merito del maestro Giuseppe Baroni che concertò lo spettacolo e diresse l’orchestra con minuziosa cura di artista, ricavando dall’ottima compagine orchestrale preziosi effetti coloristici, in perfetta fusione col palcoscenico. Il complesso artistico è stato degno del grande successo ottenuto ieri dall’opera. La signora Barba-Ricci [sic] è un’artista che possiede uno squillante e simpatico timbro di voce e che facilmente si piega alla ardua e faticosissima parte di Francesca. Essa incarnò la figura della protagonista con grande varietà ed efficacia. Il tenore Filippo Piccaluga, anche lui nuovo per le nostre scene, ha saputo tosto conquistarsi le simpatie del pubblico, dotato com’è di rari mezzi vocali 87 che gli consentono di spiegare, massime nel registro più acuto, note di squisita purezza. Egli fu un Paolo pieno di calore e si ebbe applausi anche a scena aperta dopo le frasi appassionate. «Perché volete voi...». Di non minore efficacia ci è sembrato il baritono Enrico Roggio (Giovanni lo Sciancato), dal volume di voce poderoso e plastico insieme e che possiede inoltre una preziosa qualità per un artista lirico: una dizione chiarissima. La signora Delfina Menotti, troppo sacrificata nella breve parte di Samaritana, si è riconfermata quella artista di grande valore che noi abbiamo già ammirata sulle scene del Verdi. Nella truce scena della prima parte del quarto atto, il tenore Giuseppe Nessi ci presentò una figura di Malatestino come meglio non si sarebbe potuto desiderare: voce squillante, dizione chiara, possesso di scena concorsero al suo meritatissimo successo. Nelle parti di fianco citiamo in prima linea la signorina Masetti (Schiava) un lodevolissimo contralto, e degne di encomio sono pure le signorine Pagnini, nostra concittadina (Altichiara), Zappata (delicato Biancofiore), Obersnù (Garsenda) e Franzini (Adonella) ed i signori baritono Bevilacqua (Ostasio), tenore Garroni (Ser Toldo), Brilli, Mosetti e Prodan. Ammirata, come al solito del resto, la carezzevole cavata del nostro Baraldi nell’assolo del primo atto. Né va dimenticato il coro che nella breve parte cantò magnificamente disciplinato, massime nel delizioso primo atto. Grazie alla competenza del direttore artistico signor Delfino Menotti, il movimento scenico è stato molto accurato ed ammirato. Gli scenari, i giuochi delle luci ed i vestiari furono decorosa cornice al quadro di assieme. A tale spettacolo il successo del pubblico non poteva mancare ed il vasto ambiente del Politeama, gremitissimo, risuonò di applausi nutriti e spontanei in chiusa di ogni atto. Ci furono quindici o sedici chiamate agli artisti ed al maestro Baroni che dell’esito del riuscitissimo spettacolo può essere ben lieto. Stasera ad ore 20 e 30 precisissime, un tanto vale per i molesti ritardatari, seconda rappresentazione dell’applaudita «Francesca». ----------------------------------------------------------------------------------------- Napoli 1921 (159-161) 159 B.P., “Francesca da 2.10.1921 Rimini” di Zandonai al “Politeama”, «Roma», L’opera è bella. L’abbiamo già rilevato quando nella passata stagione sancarliana fu eseguita per la prima volta fra noi, con un crescendo di successo di rappresentazione in rappresentazione, tutte date a teatri gremiti. Allora fu concertata e diretta dallo stesso autore. Oggi è stata concertata e diretta da Edoardo Vitale. E a noi l’opera di Zandonai è piaciuta anche di più della prima edizione. È piaciuta perché questa opera sinfonica quanto più si ascolta più interessa, e i pregi di ispirazione e di fattura risultano maggiormente. È piaciuta perché il Maestro Vitale ne ha data una interpretazione di reale valore. Nessun colorito orchestrale è stato trascurato, nessun particolare è stato obliato. I temi tutti sono stati resi chiaramente nell’orchestrale, ogni frase melodica ha avuto il suo rilievo. Il Maestro Vitale ha dato, con questa interpretazione della Francesca da Rimini, un’altra prova del suo indiscutibile valore. Quando un’opera è affidata ad un interprete, ad un direttore di orchestra così preciso quale è lui, così sicuro nella 88 distribuzione dei coloriti, nella gradazione degli effetti, si può essere certi del risultato. Ecco perché a noi è sembrato doveroso rivolgere, innanzi tutto, l’elogio sentito e meritato alla esecuzione orchestrale ed alla direzione di un Maestro che vuole e sa darci interpretazioni musicali degne veramente di illustri scene. Il successo è stato dunque, ieri sera, principalmente del Maestro Vitale. Noi abbiamo sempre affermato che quando l’orchestra è affidata alla sapiente direzione di chi sa e può, di chi è duce sicuro e un animatore nello stesso tempo, essa sa farsi apprezzare degnamente. Ieri sera erano gli stessi professori d’orchestra del San Carlo che nella passata stagione, con nove direttori, non sapevano più a quale santo votarsi. È bastato un Maestro, un solo Maestro, pel quale l’ orchestra ha fiducia, e che sa guidarla senza titubanze di sorta, con padronanza assoluta degli effetti, perché l’orchestra napoletana ritrovasse sé stessa ancora. Dunque Francesca da Rimini ha ieri sera avuto accoglienze festose. Numerose chiamate dopo ogni atto. Feste agli interpreti tutti e all’ illustre Direttore d’orchestra. Un ottimo Giovanni lo sciancato è stato il baritono Stabile. Dizione chiara, precisa, ritmica la sua, nella accentazione e nella sillabazione nitida e nella intonazione esatta. Il baritono Stabile ha saputo essere, più che un cantante, un interprete della parte di Gianciotto. Ecco un cantante che ha compreso che per essere un artista non occorre avere mezzi eccezionali; ma bastano mezzi sufficienti vocali adoperati con gusto, con chiarezza di dizione, con la progressione concordante del canto con quella dei sentimenti che si esprimono, rendendo così la voce pieghevole a tutte le espressioni del personaggio che si interpreta sulla scena. E il pubblico lo ha applaudito con convinzione e compiacimento. La Rinolfi ha reso la parte di Francesca con sentimento e con bella voce. È una parte che si adatta pienamente ai suoi buoni mezzi vocali. Ed è stata applauditissima. Anche il tenore Caceffo è piaciuto nel personaggio di Paolo. In tutte le scene con Francesca egli ha saputo nel canto, nel declamato musicale, nella figurazione scenica del personaggio, essere degno di encomio. Ma tutte le altre parti ancora sono state, in questa edizione della Francesca, presentate con speciale cura. Il gruppo delle Donne di Francesca ha avuto brave esecutrici nelle signorine Rettore, Fabbri, Perosio e Marini. Caratteristico giullare Giorgio Schottler, cantante sicuro. Ottimo Ostasio il Pinza. Soave Samaritana la Agozzino. La parte di Malatestino è stata affidata al Treves. I cori, che il Maestro Papa ha addestrati bene, si sono fatti onore. Tutta l’opera, dal quadro musicalmente suggestivo del primo atto nelle case dei Polentani, con l’incontro primo di Paolo e Francesca ricco di tanta poesia al così movimentato della scena del secondo atto sulla torre rotonda nelle case dei Malatesti, al bellissimo terzo quadro nella camera di Francesca, quando Paolo e Francesca apprendono il desiato viso esser baciati da cotanto amante, al drammaticissimo della uccisione di essi: amor condusse noi ad una morte; – tutta l’opera è squisitamente bella nella parte sinfonica, nella ricchezza melodica, nella delineazione delle figure principali, nei particolari. E mentre ieri sera il pubblico confermava il suo giudizio, già così favorevolmente espresso mesi sono, un amico mi leggeva una lettera di Zandonai, dopo il primo atto della Francesca, lettera pervenutagli allora. Il compositore gli annunziava commosso che aveva scritto il finale della sua opera nuovissima Giulietta e Romeo. 89 E gli applausi che il pubblico, in quel momento, rivolgeva al magnifico primo atto evocando alla ribalta numerose volte gli esecutori, mi sembrarono felice augurio per l’opera nuovissima e per l’arte italiana. Questa sera si darà La forza del destino. Domani sera seconda rappresentazione della Francesca da Rimini. 160 D[iego] P[etriccione], La «Francesca da Rimini - Il trionfo dell’opera e degli interpreti», «Il Mezzogiorno», 27-28.10.1921 L’Impresa Torre, mettendo in scena la «Francesca da Rimini», il cui ricordo era così vivo nel pubblico e il cui successo l’anno scorso, al San Carlo, ebbe un crescendo impressionante, ha voluto oscurare la sua stessa gloria, superando nella magnificenza dell’allestimento, nel complesso degli artisti raccolti in un solo spettacolo, nell’imponenza delle masse e nella minuzia dei particolari scenici, scenografici, figurativi d’ogni sua precedente benemerenza. La ripresa della nobile e affascinante opera di R. Zandonai era nei voti di tutti i buongustai di musica. La incisiva caratterizzazione dei personaggi, l’inclito andamento della melodia larga ed espressiva, la stupenda agitazione sinfonica che solleva il discorso musicale a imponenza ora di melopea ora di calda declamazione, la sensibilità dell’ambiente spirituale e storico, il gusto dell’affresco leggiadro e la vastità del quadro bellico, i fiati panici e il gran fraseggio della passione umana sono le qualità superiori di questa tragedia lirica che trascinarono il pubblico alla prima udizione di «Francesca». E ora le impressioni si riproducono con identica immediatezza, anzi con maggior copia, poi che la partitura dello Zandonai ha sempre nuovi profumi da rivelare a chi ha diligente l’olfatto e nuove eleganze descrittive da offrire a chi studia la dovizia orchestrale del magnifico sinfonista trentino. «Francesca», dunque, trionfò iersera nel rispettivo aspetto dei suoi vari quadri: drammatico, lirico, sinfonico, pittoresco. Il merito massimo di questa netta individuazione spetta al maestro Vitale, che mai come iersera provò di non avere scroccata l’onorificenza di Grand’Ufficiale. Egli ha tutte inquadrate e condotte al fuoco della ribalta le forze dell’esercito musicale: l’orchestra, che obbedì con slancio al comando di compattezza, di omogeneità, di polifonico impasto nel reggere la melodia vocale o nel descrivere eventi e stati d’animo; i cori che, sotto la guida dell’eccellente maestro Papa, sostennero l’ardua prova della battaglia sulla torre e le delicate miniature del primo e terz’atto; gli artisti, che non solo delle loro voci furono padroni, bensì dell’azione plastica e d’ogni reciproca concordanza di coloriti e d’espressione drammatica. Le manifestazioni entusiastiche al vigoroso concertatore e al direttoreinterprete del significativo sinfonismo della «Francesca», le chiamate numerosissime alla ribalta non furono che un equo riconoscimento delle virtù singolari di questo alacre, acuto, vivido maestro napoletano, quotato a buon diritto tra i più emeriti dirigenti d’orchestre primarie. La signora Rinolfi ha tutte le qualità vocali per infondere alla protagonista il lirismo e il drammatismo di cui lo Zandonai l’ha parimenti fornita. Caldo il suono, robusto il volume, fluidissimo il canto, la voce di questo soprano drammatico avvince per la chiarezza dell’espressione e per la intensità dell’accento. Ella iersera ebbe un completo successo. E se alla pastosa bellezza d’un organo così dotato aggiungerà una plastica più suggestiva, sarà una Francesca ideale. Deliziosa la De Voltri nella particina incantevole di Samaritana, ch’ella accettò con encomiabile gesto di cortesia. Il canto accorato e 90 soave della piccola sorella dai mesti presagi fluì dolce e tenero dalla gola aurea dello squisito soprano lirico. Ideale Senaragdi [Smaragdi] Rina Agozzino, un’altra benemerita di questa riproduzione della «Francesca». Pieno d’ardore, di baldanza squillante, di facile limpidezza melodica (egli miniò il canto delle violette), di nobile fraseggio passionale nei due duetti, il tenore Caceffo che, anche dal lato pittorico, è un Paolo eccezionale. Egli fu acclamatissimo, interrotto spesso dagli applausi. Gianciotto non poteva essere impersonato con più rude potenza d’accento, con maggiore veemenza d’ira, con più rotonda bellezza di dizione, nella figura agitata e minacciosa, che gli conferì il baritono Stabile: un grande attore e un cantante nobilissimo e intelligentissimo. Aggiustato Malatestino il Treves. Stupendo Ostasio il basso Pinza, che volle anche lui collaborare alla riuscita di questa meravigliosa «Francesca». Ottime le ancelle Rettore e Fabbri, Perozio [sic] e Marini, che dissero con scrupolosa intonazione la canzone a ballo del terz’atto. Un Giullare spigliato e misurato lo Schottler. E non c’è da lodare nessun altro. Gloria, dunque, a Torre, che fu chiamato iersera ben due volte alla ribalta. «Francesca» si ripeterà venerdì. E poi continuerà la sua corsa all’apoteosi, per almeno un mese. Stasera «La forza del destino». 161 La lirica al Politeama - «Francesca da Rimini», «Il Giornale della sera», 27-28.10.1921 L’impresa di Eugenio Torre ha voluto dare un’altra prova, e ancor più convincente delle altre, della somma cura che pone nel presentare. in questi spettacoli autunnali che cominciano a diventare una bella tradizione, opere eseguite con complessi artistici di prim’ordine e con grande larghezza di mezzi nell’allestimento. È giusto, pertanto, prima di passare alla cronaca della serata, tributare una calda lode alla impresa, che vede i suoi nobili sforzi coronati sempre meglio dal successo. La Francesca da Rimini aveva, dal ciclo di rappresentazioni sancarliano, iniettato nel pubblico il filtro della sua seduzione e del suo fascino. Chi l’aveva già sentita desiderava ardentemente di lasciarsi trasportare ancora dalle ondate melodiche e dalle rudi e possenti polifonie dello spartito; chi non l’aveva sentita aveva doppio desiderio di conoscerla, per le relazioni altrui. Una stagione lirica napoletana doveva quindi sfruttare questo stato d’animo, pur correndo il rischio degli inevitabili confronti. Ma diciamo subito che il valore degli interpreti, e sopra tutto la loro messa in valore da parte di quel prodigioso animatore che è Edoardo Vitale, han posta questa edizione di Francesca in condizioni di gareggiare con le più accurate. L’entusiasmo del pubblico, ieri sera, è la prova migliore di questo giudizio; le chiamate ad ogni finale d’atto, e specialmente del primo e del terzo (quest’ultimo una vera meraviglia per la delicatezza squisita dell’esecuzione orchestrale e vocale), e non si contavano più. E con gli interpreti si volle ripetute volte l’illustre direttore; e si volle anche il maestro Papa, che aveva addestrato i cori con amore grandissimo; e finalmente si volle anche Eugenio Torre, giustamente ricompensato così della perfetta organizzazione dello spettacolo. Isora Rinolfi fu dell’opera una protagonista ammiratissima. La sua magnifica voce, calda, vibrante di passionalità nelle molteplici 91 inflessioni, trovò i migliori effetti nel grande duetto d’amore del terzo atto, che tenne il pubblico sotto l’incanto del prodigio. Negli altri duetti con Paolo, con Samaritana, con Biancofiore, la personalissima interprete si rivelò ancora cantante di mezzi eccezionali. Il successo individuale di Isora Rinolfi fu in conseguenza caldissimo, tale da poter rendere orgogliosa la squisita artista. Un Paolo veramente eccezionale apparve il giovane tenore Socrate Caceffo, che già avevamo ammirato in altre opere. Non ci stupisce quindi che lo Zandonai lo abbia preferito come interprete della sua opera, per circa 70 recite, a Carpi, a Verona, a Mantova, a Cremona, a Piacenza, al Massimo di Palermo, ecc. Di aspetto prestante ed elegante – requisito essenziale per un Paolo – il Caceffo ha posto nella sua difficile parte – difficile per canto e per azione – tutta la sua vibrante anima di artista. Voce chiara, squillante, calda, impetuosa, piena di tenerezza e di dolcezza di inflessione nelle mirabili scene di amore: al finale del terzo atto ebbe la sua più commossa e commovente esplosione di bellezza lirica. Questa interpretazione di Paolo, che per il giovane tenore ha costituito ieri un vero autentico trionfo, lo mette in primissima linea, e noi siamo veramente lieti di constatarlo, per un giovane che si afferma così superbamente, ma con tanta dignità di artista. Un altro trionfo memorabile quello di Mariano Stabile, nella poderosa parte di Gianciotto. Questo giovane baritono, divenuti illustre in breve volger di tempo – tanto che il Toscanini non ha veduto chi meglio di lui potesse interpretare il Falstaff scaligero –, si è appropriato del truce personaggio in una maniera che possiamo chiamare addirittura impressionante. Dalla impetuosa «sortita» del secondo atto, via via attraverso le manifestazioni selvagge dell’iracondo signore, fino al culminare dell’ odio fratricida, lo Stabile ha reso la primitiva brutalità di Gianciotto con una veemenza magnifica. Il feroce zoppo non poteva trovare chi meglio di Stabile (ricordate il meraviglioso Jago dell’anno scorso) ne cogliesse con tanto crudo realismo la violenta anima. A questa superba interpretazione scenica bisogna naturalmente aggiungere la singolare potenza della voce di Stabile: ampia, ritonda, piena di colorito e ricca di calore. La quale ha completato il valore totale della stupenda raffigurazione del bieco personaggio. Mafalda de Voltri, che per gentile concessione si era prestata ad una parte di lieve importanza per una squisita cantante come lei, fu una Samaritana piena di dolcezza e di poesia. Una delicata Biancofiore la Rettori [Rettore]. Anche il Pinza in una piccola parte – quella di Ostasio – spiegò il tesoro della sua magnifica voce di basso. Incisivo Malatestino il Treves. Ottima Smaragdi la Agozzino. Un sonoro giullare il bravo Schotter [Schottler]. Tutti gli altri perfettamente a posto. I cori a meraviglia. L’orchestra degna della illustre e sapiente guida. Uno spettacolo, dunque, veramente di primissimo ordine, senza nessuna stonatura, che si replicherà molte volte e altrettante volte costituirà un trionfo. [...] ----------------------------------------------------------------------------------------- Roma 1921 (162-178) 162 “Francesca” e R. 25.12.1921 Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», L’inaugurazione della stagione lirica al “Costanzi” avverrà dunque lunedì prossimo alle 20.30 precise, nella sera tradizionale di Santo Stefano, con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, opera che è tra le più acclamate di questi ultimi tempi e che per la bellezza della 92 concezione artistica e l’ampiezza delle sue linee teatrali costituisce uno spettacolo di grande attrattiva. La scelta di quest’opera, così italiana nella musica, il soggetto stesso, i nomi degli autori – Riccardo Zandonai, nativo di Rovereto ora redenta e di Gabriele d’Annunzio che ideò la magnifica tragedia – daranno all’inaugurazione quel carattere d’italianità che era da tante parti invocato: poiché, mentre nei teatri dell’estero si fa ora un’aspra guerra ad opere ed artisti nostri, è giusto che in Italia almeno avvenga la “valorizzazione” della produzione italiana. E l’inaugurare la grande stagione lirica della Capitale con la Francesca vuol dire consacrare anche davanti agli occhi degli stranieri la continua vitalità dell’opera italiana, che si rinnova ed assume, come appunto in Francesca, le forme più moderne senza divenire astrusa per il gran pubblico; e significa anche consacrare il nome del nuovo e genialissimo operista che viene, giovane, ad aggiungersi al gruppo famoso che fa capo a Pietro Mascagni, a Giacomo Puccini, a Umberto Giordano, al Cilea, al Montemezzi. Valori d’arte e valori teatrali sono questi nomi, che molto significano all’estero. Se altri nomi, come questo di Riccardo Zandonai si aggiungono, ascriviamolo a fortuna. Ed è necessario che il massimo teatro della Capitale assuma anche questa funzione di utile propaganda, quando le circostanze lo consentano. Così lunedì sera il pubblico di Roma saluterà sul podio del “Costanzi” Riccardo Zandonai – che si affermerà anche come direttore di singolari attitudini, del resto già rivelate altrove – subendo il fascino della sua musica; e saluterà in lui il giovane ed operoso artista vissuto finora lungi da ogni scalpore, solo intento al proprio lavoro. E nel corso della stagione il pubblico di Roma, come già per quasi tutte le nuove opere dei nostri più amati ed acclamati autori viventi, fino al Trittico di Puccini, fino al Piccolo Marat, sarà chiamato giustamente a dare il primo giudizio sulla novissima opera dell’autore di Francesca, l’opera che s’intitola anch’essa italianamente alla nostra popolarissima ed affascinante leggenda di Giulietta e Romeo. 163 R[affaello] De Rensis, Messaggero», 28.12.1921 “La Francesca da Rimini ” di Zandonai, «Il All’inaugurazione solenne e austera dei concerti all’Augusteo è seguita l’inaugurazione solenne e brillante del teatro Costanzi. Intorno all’uno e all’altro una fioritura rigogliosa di canti, suoni e balli, ovunque. Navighiamo in pieno oceano musicale e la nostra barchetta si lascia dolcemente trascinare dalle ondate incessanti. I tormenti della esistenza sociale, politica, intima, specie dopo il già troppo prolungato dopo guerra, sono stati investiti dalla marea musicale che li attenua, li annulla letificando animi, spiriti e corpi. S’aggiunga che tanto l’Augusteo quanto il Costanzi, i due massimi istituti della vita artistica romana, hanno riaperti i loro battenti con lavori di autori nostri soddisfacendo un desiderio generale. Nulla di più logico, del resto, perché non si comprende la ragione di inaugurare, come si faceva per il passato sospinti da un falso snobismo, le nostre più cospicue cerimonie artistiche con il riconoscimento e l’esaltazione del genio altrui, quando di genio la nostra razza ne ha ancora da vendere. Né sostenendo e tutelando questo diritto dell’arte nostra, come noi abbiamo fatto in ogni occasione e da quando l’infatuazione esotica annebbiava le menti della generazione di cui facciamo parte, facevamo del conservatorismo servile dal quale, vivaddio, eravamo e siamo ancora lontani; ma si trattava di una sensibilità natìa (non usiamo a bella 93 posta l’aggettivo nazionale o patriottico) ottusa nei più ed oggi per virtù reattiva decisamente trionfante. In un giro non lungo di anni abbiamo avuto la fortuna di assistere alla nascita e al decadimento dell’anzidetta infatuazione esotica, col sano ritorno ad un sentimento di razza invano conculcato e rinnegato. Per circostanze indipendenti da ogni volontà si stava per iniziare le rappresentazioni al Costanzi con i Maestri Cantori. Noi di quest’opera siamo ammiratori caldi e convinti, ma ci sarebbe immensamente dispiaciuto se avesse dovuto prendere il posto della Francesca di Zandonai, la quale, a parte ogni paragone non possibile, aveva il compito di caratterizzare la cerimonia inaugurale, appunto come l’ha caratterizzata e significata. E poi, guardate un po’ com’è interessante la figura di questo nostro rude montanaro trentino: tozzo e quadrato, con l’occhio acuto e fisso verso un punto lontano, forse non percettibile, cammina calmo, sereno, senza soste, senza tornare indietro preoccupandosi appena quanto basta di ciò che avviene intorno a lui, guadagnando terreno, attingendo vertici; baldo e sicuro di giungere. Dove e quando, egli non lo sa e forse non vuol saperlo: sa soltanto che cammina diritto. Guardate invece gli altri nostri maestri giovani e di eterne belle speranze: corrono e toccano un primo scalino, si arrestano, cadono, ricorrono e ricadono, esercitando questo loro acrobatismo sempre nello stesso cerchio... o circolo vizioso. E poi si piegano a destra e a manca, innanzi e indietro, cogliendo e raccattando la materia o gli elementi di materia per riempire la bisaccia e riversarla un bel giorno, in forma di note e accordi, sul paziente pentagramma. Vi sono altri maestri ancora che logorano il loro talento nella ricerca laboriosa del nuovissimo, lasciandosi abbagliare dai trovati senza dubbio geniali ma altrettanto personali e di natura eccezionale provenienti d’oltr’Alpe. Essi si tengono deliberatamente discosti dall’anima e dal canto del popolo e perciò partoriscono un’arte di eccezione e quindi di decadenza. Sono i cosiddetti avveniristi e internazionalisti, in buona o mala fede non importa, che si scalmanano per importare una merce ostica al nostro palato e che da venti anni (ormai l’esperimento dura da troppo tempo per insistervi) non ancora ottengono una sola vibrazione della psiche collettiva. Zandonai invece è della stirpe evoluzionista tipo immortale Verdi, e dal tenue romanticismo del Grillo del focolare alla passionalità luminosa di Conchita, dalla coreografia ellenica di Melenis alla tragica umanità di Francesca, è tutto un procedere verso la conquista dell’espressione, che a traverso un magistero tecnico indiscutibilmente formidabile deve accostare l’opera d’arte alla folla. E questo accostamento, questa penetrazione, avvengono lentamente, sicuramente. La personalità in germe, latente nelle prime opere, va man mano crescendo, fiorendo e diramandosi, e con Francesca quasi carpisce quella fiaccola del genio musicale italiano... che per buona ventura non è ancora spenta. Zandonai, tra i suoi colleghi e coetanei di cui abbiamo fatto cenno, è il solo o quasi che della rinascita in Italia della musica strumentale – fenomeno importantissimo e nobilissimo – con tendenze decisamente e giustificatamente moderniste (perché nessuno oggi s’azzarda più a sostenere che si debba retrocedere nel passato) abbia saputo profittare con senso squisito di misura e di equilibrio. Questa rinascita della musica strumentale doveva influire fortemente sull’indirizzo dell’opera teatrale; ma che il sinfonismo sia proprio quello destinato a risolvere l’eterno conflitto fra la parola e la musica sovrapponendosi e dominando, non abbiamo mai creduto neppure quando il fanatismo degli strumentatori in Italia inneggiava vittorioso all’egemonia dell’ orchestra. 94 Ora questa fase è per nostra fortuna superata e la necessità di un’arte più rispondente all’indole di nostra gente va affermandosi giornalmente. Chi questa necessità istintivamente sentì subito e praticò è appunto il maestro Zandonai che, se nel momento acuto dell’orgia strumentale per poco non venne ricacciato nel branco dei passatisti, oggi si trova, perché ha camminato rapido, anche più innanzi di coloro che per voler saltare su secoli di tradizioni si sono spezzati l’osso delle reni. Egli ha sempre ascoltato la voce immensa e multiforme del popolo, pur non sapendola o volendola riprodurre: vi si opponeva la crisi tormentosa di una musicalità in fieri. L’opera Anche dalla Francesca emerge evidente il dissidio tra la materia ancora poco duttile e il sentimento umano schietto, ingenuo e profondo. Ed il dissidio non è di facile risoluzione, poiché dove il dramma d’anime leva il suo grido più alto e trova più diritte le vie del cuore delle masse, è là che l’artista ricorre, inconsapevolmente o trascinatovi dall’ istinto, a forme meno libere, più strofiche e, diciamolo pure ché nessuno più ormai se ne offende, tradizionali. Così alla fine del primo atto, in quasi tutto il terzo atto, nel recitativo di Gianciotto e nel duetto di questi col Malatestino, ecc. Ma noi non dobbiamo giudicare in appello l’opera, che rivede per la terza volta le scene del Costanzi e che gira per tutti i teatri. Non dobbiamo segnalare nuovamente la bellezza poetica di tutto il primo atto e di tutti [i] numerosi quadri descritti con mano maestra e irresistibilmente seducenti. Quella signorile gentilezza di ambiente ricondotta sul teatro da Gabriele d’Annunzio non solo è stata perfettamente intesa da Zandonai ma intensificata, illuminata con i suoi smaglianti e delicatissimi ricami sonori. Non dobbiamo notare la manchevolezza del secondo atto, in cui è stato ripetuto ed aggravato l’errore dannunziano che nella riduzione del poema drammatico a libretto avrebbe potuto essere evitato con la successione dei due episodi: ma si capisce come anche a Zandonai, che non disdegna le audacie, abbia sorriso la sovrapposizione del colloquio dei due cognati sullo sfondo fragoroso della battaglia, fecondo di effetti musicali... però non raggiunti. Né, infine, dobbiamo indicare all’ ammirazione del pubblico, che li ha compresi, ammirati, l’intero delizioso terzo atto, la scena impressionante tra l’orbo e lo sciancato del quarto atto, quella angosciosa e sensuale tra Paolo e Francesca. A noi non resta che il gradito compito di registrare la lieta accoglienza fatta all’opera e all’autore e la cronaca dell’esecuzione. La quale è apparsa assai accurata sia dal lato musicale che da quello scenico. Il maestro Zandonai è anche un’eccellente bacchetta che sa scoprire e mettere in rilievo non solo le ossature tematiche e strumentali ma anche i dettagli, gli ornamenti e i colori più tenui. E la sua opera che è, per quanto finemente e limpidamente, assai elaborata ha bisogno appunto di una bacchetta indagatrice, sicura, scrupolosa come la sua. Aggiungasi che la falange orchestrale, pronta e agguerrita, gli ha ubbidito con mirabile esattezza. Anche gl’interpreti hanno gareggiato per valentia e volontà, a cominciare dalla protagonista Gilda Dalla Rizza, che sebbene afflitta da una lieve indisposizione ugolare si è mantenuta, tranne nel primo atto, all’altezza della non facile incarnazione. Nel terzo atto, per gentilezza e stile di movimenti, per dolcezza di canto emesso con vigile distribuzione di respiri, ella ha data novella prova della versatilità interpretativa che le ha reso la rinomanza di cui gode. 95 La voce tersa, vigorosa, rotonda del tenore Michele Fleta si è effusa con fluidità ed ha perfettamente seguite le ondulazioni della sua parte; mentre non sempre il carattere di Paolo il bello, che ce lo immaginiamo contenuto e pensoso anche nei momenti di fervida passionalità, è stato reso tale da lui. Piccola menda, alla quale se vuole il Fleta, che è intelligentissimo, può facilmente riparare. Una figura fortemente scolpita è stata quella di Gianciotto, riprodotta dal giovane baritono Maugeri con opportuna brutalità e violenza. Nel colloquio, che non vogliamo chiamare duetto, tra lui e Malatestino la drammaticità della scena si è scatenata col più turbinoso vigore. Degni di encomio il tenore Palai nei panni di Malatestino perverso e feroce, e il baritono Besanzoni nella parte di Ostasio: meritevoli di menzione il Malfatti (ser Toldo), De Vecchi (il Giullare), la Vitulli, dolcissima Samaritana. Le donne di Francesca, corrette, vivaci, rispettose, malinconiche a seconda delle situazioni, hanno contribuito validamente alla riproduzione storica e politica dell’ambiente. Le lievi danze del terzo atto non son sembrate rispondenti e intonate al momento psicologico; mentre i piccoli e deliziosi cori sparsi qua e là per la partitura e il gran coro finale del secondo atto (che però per la distribuzione delle masse hanno un po’ del vecchio melodramma) si son diffusi nell’aria armoniosi e affiatati, del che va data lode all’istruttore maestro Consoli. Quando avremo nominati il régisseur Francioli e il direttore scenico Ansaldo avremo forse non dimenticato alcun cooperatore del riuscitissimo spettacolo inaugurale della stagione, che in tal modo si apre sotto i più favorevoli auspici. Alla fine di ogni atto il maestro Zandonai da solo e insieme ai principali interpreti è stato ripetutamente evocato ed acclamato. [...] 164 R[oberto] Forges-Davanzati, La «L’Idea nazionale», 28.12.1921 “Francesca da Rimini ” al Costanzi, Di aver finalmente scrollata l’inesplicabile consuetudine di inaugurare la stagione d’opera con Wagner o con altro repertorio straniero, l’ impresa del Costanzi può esser soddisfatta. Senza discutere qui del cosmopolitismo in arte, e anche accettandolo, si può esser facilmente d’accordo nel dire che in casa nostra per far bene gli onori di casa dobbiamo cominciare con rispettare noi stessi. Di avere scelta Francesca da Rimini, lo spartito più giovanilmente sano della nova generazione musicale, come spettacolo di inaugurazione, può essere ancor più soddisfatta. Iersera, nella sala del Costanzi, il gran pubblico che si ritrovava non soltanto col desiderio di ascoltare e riascoltare Francesca ma con la affettuosa disposizione di celebrare un rito d’arte e di buona mondanità, s’è raccolto volentieri con slancio spontaneo nell’applauso cordiale e ripetuto al maestro Zandonai che era sul podio a dirigere la sua musica. Iersera nella sala c’è stato buon calore di italianità. L’ovazione piena e pronta che ha salutato il Re, la Regina, il Principe ereditario; le salve d’applausi che hanno accompagnato la musica fragorosa e sussultante dell’inno reale, si sono mirabilmente fuse con tutto il sentimento del pubblico, felice di riconoscere nella Francesca i segni di nobiltà di un’arte italiana. Nel grido: viva l’Italia, ch’è stato gettato dalla galleria, non si è concluso un cerimoniale di acclamazioni ma è stato quanto era nei cuori. 96 Quando Francesca era venuta sulle scene del “Costanzi”, il suo autore, italiano, italianissimo, aveva tuttavia nel petto l’amarezza dell’esule. La sua terra, il Trentino, era Italia ed era tuttavia un cuneo straniero di prepotenza austriaca, a continua minaccia dell’Italia bella. Oggi Riccardo Zandonai sale sul podio a inaugurare la stagione della Capitale, di Roma che è finalmente capitale anche per la sua terra: e, prima che il velario si apra sul fragore dell’antica contesa guelfa e ghibellina, egli può finalmente, attaccando le note dell’inno, salutare il suo Re che è Re anche sulla sua terra, fino al Brennero. Viva l’Italia! E nel grido era salutata la poesia di Dante, che primo diede a Francesca l’immortalità, era salutata la poesia di Gabriele d’Annunzio, il poeta-soldato, era salutata la musica dell’autore redento e che, appunto in questi accenti di italianità, aveva, prima della guerra vittoriosa, gettato un’altra voce della stirpe. Viva l’Italia! E tutte le cose dette e non dette, pensate e non pensate, consapevoli o istintive, sono state raccolte da quel grido, mentre davano a questa prima rappresentazione un’intimità appassionata che altre volte era mancata. E non per questo è stato sforzato il valore artistico dell’opera, il valore dell’esecuzione. Gli applausi agli artisti e al maestro Zandonai, ripetutamente chiamato da solo al proscenio, sono stati quali dovevano essere: schietti, spontanei, calorosi. Per una musica che ha soprattutto una virtù di misura stilistica; che anche dove cede alla sonorità riesce a sfuggire la banalità retorica; che ha grazie di atteggiamenti canori, languori accorati di passione, squisite tristezze di presentimenti. Fra Puccini, che aveva nella Fanciulla del West ceduto ad un esotismo violento, e Mascagni che con Isabeau s’era abbandonato ad una esasperazione sonora ed esteriore, questa contemporanea Francesca da Rimini del giovane trentino della nova generazione musicale si presentò con virtù proprie, innegabili. Virtù di espressione più che di inspirazione. Ché anche oggi, in una riposata e tranquilla accoglienza come quella di ieri sera, le idee e gli accenti e i sentimenti musicali dell’autore appaiono fragili, limitati. L’ampiezza sonora, alla quale, come nel primo e nel terzo atto è possibile abbandonarsi, è più di sviluppo decorativo che di intimità e di linguaggio melodico, anche nei momenti di passione. La musica non raggiunge mai profondità vive di emozione, ché anzi perde le virtù di levità e di tenuità squisite dei momenti migliori dell’opera quando vuol essere travolgente come nella passione durante la battaglia, come nel colloquio finale dei due amanti prima della morte cruda. Ma quanta grazia di accenti luminosi, quanta dolcezza triste è nel femminile primo atto, tra le ancelle gaie e festose, l’attesa contenuta di Francesca, l’improvviso tenerissimo sbigottimento di Samaritana! Quale vaghezza di canto, quale atmosfera di amore e di morte è nel femminile terzo atto, nell’ingenuità di Biancofiore, nella misteriosa complicità di Smaragdi, nel colloquio d’amore in cui Paolo stesso è tutto languore e smarrimento! Queste virtù sono state iersera pienamente intese dal pubblico con una sensibilità di gusto veramente confortante. E l’opera ha avuto la riconsacrazione di un successo senza sottintesi. Sotto la direzione esperta dell’autore ha prevalso, nel canto e nell’ orchestra, l’elemento decorativo di quest’opera, che si presenta ad affreschi chiari e trasparenti, dolci e armoniosi negli episodi d’amore, esteriore e fiacco in quello della battaglia, abile di luci e d’ombre nell’episodio della denunzia rabbiosa di Malatestino. Questa Francesca più che dramma di persone vive, travolte di passione in un’ora di fosca vita e di duro battagliare, appare con una sua magia di antica istoria. Effigiata in quadri espressivi, che improvvisamente si anima e si muove 97 in una luce lunare, così come Heine imaginava ripetersi il mito di Gianfredo Rudello su dagli arazzi del vecchio castello, fluttuanti al vento notturno. Riccardo Zandonai, cui l’orchestra ha obbedito docilmente, è riuscito a mantenere sempre l’incanto di questa evocazione e dare carattere agli episodi, che pretendono a robustezza e incisione di accenti, come il soliloquio di Gianciotto e di Malatestino, fortemente eseguito dal baritono Maugeri e dal tenore Palai. Francesca era Gilda dalla Rizza, la cui voce rotonda e disegnata era iersera velata nelle note alte per un’ incresciosa indisposizione. Paolo il tenore Fleta, un artista che ha accenti di forza e di grazia vocali da farlo piegare alle più diverse interpretazioni. Il pubblico li ha chiamati, con gli altri, ad ogni fine d’atto, salutandoli di applausi meritati. Né noi sapremmo rimproverare un difetto di drammaticità nei protagonisti, poiché, se mai, lo stile decorativo dell’opera ci fa credere più interessante quella parte della loro interpretazione che è sobria di gesti, rifugge dalle espansioni canore e preferisce l’accentuazione armoniosa e la dizione scandita. Ci parvero una stonatura le danze al terzo atto, soprattutto per quelle ballerine in maglia e scarpini rosa, anacronistici e fastidiosissimi. Possibile che non ne abbia per primo sentito il fastidio il maestro Zandonai? Tutti gli atti furono applauditi; con maggior fervore il primo e il terzo e l’episodio di Gianciotto e Malatestino. È nel cuore di tutti che la nuova opera di Riccardo Zandonai, Giulietta e Romeo, sia quale merita l’arte italiana, né morta né moritura. 165 M[atteo] Incagliati, “Francesca da Rimini” di G. D’Annunzio e R. Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 28.12.1921 Non si riascolta questa Francesca senza che la fantasia evochi le pagine che intorno all’episodio immortalato dalle terzine dantesche scrisse in un lampo di genialità Francesco De Sanctis. Perché nella visione poetico-musicale di Riccardo Zandonai Francesca è quale la scolpisce il grande critico napoletano – un’opera tutta irradiata di luci e di fulgori, di sorrisi e di leggiadrie, un’opera nella quale vigila e tormenta il fato sinistro della sciagura. Lo spirito dantesco è presente, e par quasi alimenti tutta l’essenza del contenuto musicale. Il fascino dantesco La Francesca dugentesca con la musica di Zandonai e con la poesia di Gabriele d’Annunzio è dunque rinata all’arte. Vi fu nel giro dei secoli chi tentò l’ardua ricostruzione artistica ma con tale aridità d’ispirazione e con tale pesantezza intellettualistica che lo sforzo, e meglio il tentativo riuscito inane, non servì che a diminuire la luminosa creazione del divino Poeta. Ben altro occorreva possedere per vincere la prova; occorreva che un poeta come d’Annunzio rivivesse dopo Dante la passione di Paolo e Francesca traducendola in dramma e in scene reali, le creasse intorno una realtà fatta di poesia ed anche un ambiente quasi di segno poetico o di visione tragica. Occorreva poi che un cuore di musicista inspirato non rimanesse sordo alla voce che proveniva dall’anima del poeta divino e colorisse di suoni le immagini della fantasia dannunziana. Un lavoro geniale dunque, che, a distanza di secoli, prende motivo dal tema dantesco e ripete il miracolo che per lo innanzi la storia non aveva registrato e per il quale la gloria di Francesca si rinnova e s’illumina di luce nuova. 98 Il volo è prodigioso: dalle terzine immortali alla musica nata dalla comunione di due nobili spiriti, in nome della bellezza e dell’arte. Una musica che ha ormai conquistata nella universale estimazione degna rinomanza, malgrado i lai di una critica... cesarea che non si sa se sia più denigratrice dei veri valori musicali nazionali o più partigianamente fautrice dei precetti e forme d’arte che il progresso del tempo e la mutata sensibilità ha ormai sorpassati. Peggio per quella critica, come sopra, la cui sensibilità è ottusa a questi nuovi accenti. Ormai la Francesca è bene e definitivamente giudicata; e nel centenario dantesco come del resto negli anni che lo precedettero essa porta in giro il segno della non spenta genialità italica, con quel grido della passione umana che è di tutti i tempi, se pure espresso con nuovi accenti e più ampii sospiri. Ma nel seguire le vicende della rappresentazione di iersera – ed era nel breve giro di pochi anni, pel Costanzi, la terza riapparizione di questa opera italianamente ideata e italianamente canora – sembrò che la Francesca stavolta destasse e accarezzasse con più molle abbandono le sottili patetiche emozioni e tendesse a disegnare più nettamente, più decisivamente, con il moto della tragedia gentile e truce insieme, la poesia – amore e morte – dei due amanti infelici... Perché, se la tragedia di Francesca è, secondo il De Sanctis, la tragedia della donna – eternità d’amore, eternità di martirio – , la musica di Zandonai è la musica di Francesca, di cui rispecchia compiutamente l’anima e profila gli aspetti esteriori, psicologicamente, esteticamente. L’insistente motivo musicale che pervade la tragedia e tutta la investe e la colora, fa risuonare il sottile senso di speranza, di nostalgia, di angoscia che ne forma l’atmosfera. La melodia si profila, s’inarca e s’inabissa – è il grido affannoso dell’amore, è l’urlo spaventoso della paura – con tratto di una individualità ben distinta. Come Francesca appare in scena la musica parla di lei, disvela il suo interno affanno; ma poi, con l’incalzare della tragedia, quella melodia si ripete, si rinnova, si amplifica. Tutte le voci dell’orchestra si fondono nelle voci dei due amanti come ad esaltarne la passione – una passione di vita e un presentimento di morte. Poi la tragedia gonfia e straripa... Come in Dante, nell’opera di d’Annunzio e di Zandonai Francesca porta segnato sulla fronte il suo destino. Questo destino – ed è qui che si rivela la genialità del musicista – traspare attraverso la musica della Francesca. Il motivo di Francesca Il fato di Francesca! Non diversamente di come intese ed eternò l’amore della dolente dolce creatura il De Sanctis. «Sembra – scrive il De Sanctis – che nell’anima di Francesca non possa farsi adito altro sentimento che l’amore. Amore, Amore, Amore! Qui è la sua felicità e qui la sua miseria!». Ora, senza ricorrere a temi conduttori, senza la petulanza di formule viete, senza scambiare l’arte per una esercitazione di sterile speculazione – di questa fatalità Riccardo Zandonai par che nella sua musica sia riuscito a cogliere e a fissare tutto il concitato palpito. Una fatalità – la fatalità della passione, ch’è nell’anima turbata e sconvolta di Francesca, e che la musica disegna con il libero volo della fantasia, con la espressività cioè di una voce inascoltata per lo innanzi – una voce che non ne ricorda altre. Tale e tant’è la forza creatrice dell’artista. Ma – prosegue il De Sanctis – «Francesca niente dissimula, niente ricopre. Paolo – ella dice – mi ha amato perché io ero bella, ed io l’ho 99 amato, perché mi compiaceva di essere amata, e sentivo il piacere del piacere di lui... Chiama «bella persona» quello di che s’invaghì Paolo, chiama «piacere» il sentimento che ancora non abbandona; e quando Paolo le baciò la bocca «tutto tremante», certo la carne di Paolo non tremava per paura. Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà». A tant’aura di tenerezza e di dolcezza che alita nell’anima della Francesca dantesca s’inspira e assume tono l’incanto della musica di Zandonai, liberamente, agilmente, ma sempre con una nota di nostalgia, con una eco di dolente angosciosa musicalità, di commossa psicologia intima – sino a che la passione: Amor ch’a cor gentil ratto s’apprende... Amor ch’a nullo amato amar perdona... Amor condusse noi ad una morte... non prorompe, e il fremito della voluttà e la gioia del piacere non si liberano in una melodia nuova così da divampare in fiamme ardenti da tutte le voci dell’orchestra... Francesca è il leit-motif, [sic] italianamente, inteso così nelle terzine dantesche come nella musica di Zandonai. «Ella – è il De Sanctis che parla – riempie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di Francesca; la corda che preme quello che la parola parla; il gesto accompagna la voce, l’uno parla, l’altro piange, il pianto dell’uno è la parola dell’altro: sono due colombe portate dallo stesso volere...». Con quella intuizione ch’è propria degli artisti geniali, di Francesca anche Riccardo Zandonai, è bene ripeterlo, riempie tutta la scena. Francesca ha un motivo – ed è motivo d’amore e di dolore; ha un sorriso – ed è sorriso che desta insieme il piacere e la pietà; ha un fascino di vita, ma ahimè velato dal presentimento della sciagura. Ricordate la voce di Francesca? «Smaragdi, lo sparviero torna?!». La tragedia balza viva e possente dalla musica che ne illustra e ne commenta le vicende. La voce di Francesca ha come una misteriosa rispondenza sentimentale, e l’umanità di lei assurge subito all’ universale. E quanta umiltà, quanta bontà, quanto terrore nell’ espressività lirica dei canti ch’ella trae dalla sua anima, un’anima che l’artista colse in tumulto d’amore. E le altre voci, sian voci di allegrezza e sian voci di cupo terrore, e siano echi di lontani delitti, e siano tumulti di battaglia e turbamenti di ardori, hanno tutte la loro peculiare espressività secondo la propria anima: individualità di caratteri, figure secondo un disegno, secondo un criterio d’arte con impronta di valore estetico. Ah, come respira in così alterna vicenda la fantasia del musicista! Singolare e profonda psicologia umana, di contro alla ricostruzione dell’epoca della quale il musicista riesce a dare l’impressione caratteristica di un determinato ambiente ch’egli ha sognato e che ha realizzato attingendo ispirazione alle fonti della sua fantasia. Perché la Francesca ha una sua vita umanissima il cui senso trascende l’atmosfera storica della tragedia per assurgere al pathos di tutte le passioni, senza mai lasciare che nel folleggiare di spiriti diversi vada confuso lo spirito che domina ogni istante dell’opera d’arte: lo spirito di Francesca. E basta ciò per perdonare al musicista talune insistenze e predilezioni strumentali. L’opera è ormai penetrata nel gusto del pubblico. Lo spettacolo La inaugurazione dunque della stagione lirica al Costanzi si è svolta iersera con un tono di solennità e di orgoglio; la solennità insita alla data ormai memoranda del Santo Stefano – e che è una tradizione 100 tipicamente italiana – e l’orgoglio di avere iniziato la serie degli spettacoli con un’opera nazionale di un maestro nato su quei monti del Trentino che la guerra ha restituito definitivamente all’Italia, e di un Poeta che è tra i più nobili spiriti dell’arte. Riccardo Zandonai e Gabriele d’Annunzio parvero così veramente, dinanzi a un pubblico imponente – la sala era radiosa di tutte le bellezze e di tutte le notabilità artistiche e politiche e ospitava nel palchetto di Corte la Regina Elena, elegantissima, il Re in frak, il principe Umberto e la principessa Mafalda –, parvero rappresentare un simbolo – il simbolo della genialità. La cronaca è presto fatta. Il maestro Zandonai, accolto al suo primo apparire sul podio direttoriale da una calorosa dimostrazione, fu festeggiato con significative e calorose dimostrazioni lungo il corso di tutta l’opera. Duce dello spettacolo, alla sua bacchetta obbedirono con un senso di collaborazione ammirevole e l’orchestra e i cantanti. E quando, al chiudersi del velario, il maestro illustre era invocato a gran voce, l’omaggio assumeva forma di affettuosa confidenza, tanta e così diffusa era nell’animo degli spettatori la gioia di partecipare a una festa dell’arte e di tributare a chi n’era l’esponente tutto il suo legittimo orgoglio. Certo, sotto la guida dell’autore, lo spettacolo non poteva non riuscire fuso e colorito, improntato cioè a una espressività di austera bellezza. Ogni interprete contribuì dunque al trionfo che arrise alla Francesca. E prima d’ogni altro una fervida lode all’orchestra che suonò con slancio e con un senso di suggestiva poesia e nella quale emerse, al finale primo, un violoncellista insigne, il maestro Gaetano Morelli. Di Francesca Gilda Dalla Rizza mostrò innanzi tutto d’intendere il personaggio, che modellò in una sobria e artistica linea ed espresse con un senso di poesia e di femminilità – con quella femminilità che durante il terzo atto parve dare una nota di passione e di ardore e di contenuta voluttà alla tragedia musicale. Il suo canto, ch’è sempre nobile frutto di studio e di meditazione, si sciolse con tutto il fascino di accenti carezzevoli e caldi. Ogni frase si delineò con pura bellezza e ogni frammento d’amore trovò il suo motivo melico. Ma ciò che valse a dare un’individualità a questa nuova e pur ardua fatica di Gilda Dalla Rizza fu lo spirito di commozione da cui era pervaso il suo canto che, trionfando di ogni difficoltà, passò agilmente dalla linea lirica alla linea drammatica. E con un senso di gioia ella parve sciogliere, in ultimo, le più ardite e alte note della sua gola, sensibile com’è la voce alla intima espressività del canto. Il tenore Fleta, un tenore ormai che ha conquistato un posto d’onore sulla scena lirica, intese di Paolo il bello il fascino esteriore e interiore. La sua voce è doviziosa, ha largo respiro e una disciplina così ferrea ch’essa può passare da una tessitura all’altra con un senso di misura e con un criterio di buon gusto. Paolo iersera cantò con le sue più belle doviziose note, e sciolse una mezza voce così dolce da evocare il tempo in cui – ed era in teatro Alessandro Bonci, un tenore glorioso, un maestro – la fortuna di un artista non era riposta solamente nelle note acute. Una mezza voce e una profusione di acuti che dissero ed espressero tutta la passione di Paolo il bello. Il baritono Maugeri fu un Gianciotto superbo: cantante e attore vigoroso. Cantante dalla voce disciplinata e ricca di risorse; attore drammatico di impeto e di ardore. La Willaume, nella parte di Smaragdi, profuse la sua voce pastosa. La Vitulli fu una patetica Samaritana, e cantò con voce sicura e con fine buon gusto. Il bravo tenore Palai nella parte di Malatestino fu superiore ad ogni elogio per l’agilità e la resistenza della voce. La Rettore espresse il personaggio di Biancofiore 101 con un senso di dolce poesia. Fuso e di bell’impeto il coro istruito dal maestro Consoli. Magnifico, sontuoso lo scenario, cui presiedette quel grande artista ch’è Pericle Ansaldo, il quale riuscì a dar colorazione alla scena dell’ultimo atto con effetti di rara suggestione. Ed ora che la Francesca porti fortuna alla stagione del Costanzi iniziatasi così lietamente. 166 m[atteo] i[ncagliati], 28.12.1921 “Francesca” al Costanzi, «Il Piccolo», 27- [...](*) ---------(*) L’articolo riproduce quasi testualmente il paragrafo “Lo spettacolo” dal pezzo, dello stesso Incagliati, riportato dal «Giornale d’Italia» del 28.12.1921 – cfr. n. 165. 167 g.n., La sala, «Il Piccolo», 27-28.12.1921 Ecco – per le lettrici che non hanno assistito a questo spettacolo del Costanzi, dove ogni anno nella serata di Santo Stefano si celebra la maggior festa dell’eleganza – ecco com’erano vestite le signore che apparivano numerosissime in ogni ordine di posti. Non farò una rassegna particolare delle personalità e delle loro toilettes – la sola lista dei nomi richiederebbe uno spazio grande. Contentiamoci di uno sguardo sintetico gettato nei palchi e nelle poltrone per fissare le caratteristiche degli abbigliamenti come appaiono nei loro colori e nelle loro linee generali. Nelle serate che seguiranno, a teatro meno affollato, avremo agio di rendere più interessante questa rassegna della eleganza con descrizioni particolareggiate. Ma incominciamo dal notare la presenza nei palchi di Corte della famiglia reale. Il Re e la Regina siedono nel palco di proscenio, ed alla fine del primo atto, quando il pubblico s’accorge della loro presenza, scoppia un’ovazione prolungata con evviva al loro indirizzo: i Sovrani, il principe ereditario e le principesse si alzano e s’inchinano. Il Re veste in borghese. La Regina aveva un abito di satin mauve chiaro e portava sulle spalle una volpe grigia. Semplice e modesto come sempre l’abbigliamento delle principesse nei loro corsages di tinte sobrie. Nella sala è tutto un luccichìo di paillettes, di perle di jais e di lamés nei colori nero, granata e grigio-perla su fondi di tessuto nero e di toni armonizzanti. Erano drappeggiati di velluto, di satin, di crespo marocain, di chiffon, di mantilly che mostravano ornamenti di frangie di cordonetto o di perle di jeis, ornamenti costituiti in gran parte da panneaux ricamati di paillettes, pendenti dai fianchi e strascicanti. Erano centurati di nastro ciré, di fiori artificiali e di catene di metallo, e di galaliithe. Nessun cappello, o pochissime toques minuscole, drappeggiate a turbante e portate specialmente nelle poltrone. Nelle pettinature predominava lo stile semplice, rotondo, a ondulazioni, con acconciature di verreries nere, bandeaux di perle e semplici nastri cingenti la fronte. Poche le pettinature artistiche drappeggiate a volute e adorne di pettini di ultima novità. Fra le signore che ricordo di avere veduto erano degne di ammirazione la P.ssa Giovannelli, in nero, Donna Elsie Torlonia in abbigliamento 102 grigio, la marchesa Godi di Godio. La marchesa Misciatelli. La contessa Antonelli, signora Pavoncelli, signora Ceresa marchesa di Bagno. Donna Ruspoli Maria Contessa di Samnuj. Marchesa Patrizi. La signora Nicolaj in un elegante abbigliamento di duvetyne bianco adorno di astrakan nero. La baronessa Compagna. Contessa Ceriano-Grazioli. Signora Falbo, Contessa e contessine Andreozzi. Marchesa Serlupi, donna Corinna dall’Ongaro Fabris, donna Bianca Varvaro, Principessa Maria AnticiMattei. Marchesa di Bagno, signora Vurtz, contessa Guardi, duchesse Sforza Cesarini. Contessa Ceresa. Signora Tabanelli, contessa Rossi, signora Montorsi, signorina Moglia, signora Romano, ecc. 168 [Cronache romane] – Costanzi, «Rivista nazionale di musica» II/58, 30.12.1921 Francesca da Rimini. – Con gli auspici del Poeta fiorentino, di cui tutto il mondo ha testé onorato la memoria nel secentenario della nascita (ché gli amori di Paolo e Francesca ispirano alcune fra le pagine immortali di Dante Alighieri); nel nome del Poeta-Soldato abruzzese cui l’Italia nuova deve non piccola parte delle sue invano prima sognate riconquiste e della sua gloriosa vittoria, nel nome, dico, di Gabriele D’Annunzio che plasmò con gli spunti della leggenda più volte secolare dei due giovani amanti romagnoli la trama di un dramma fra i più forti e passionali che siano stati scritti per il teatro; e nel nome del trentino Riccardo Zandonai che il dramma stesso ha saputo intensificare e completare con appropriata espressione musicale si è italianamente inaugurata la stagione lirica romana. Come a Milano con il Falstaff, capolavoro della commedia musicale non soltanto nostrana, diretto da A. Toscanini, così a Roma con Francesca da Rimini, nobile ed equilibrata opera di un ingegno meritevole della nostra maggior considerazione e del nostro più profondo affetto, il Santo Stefano è stato festeggiato italianamente. R. Zandonai ha diretto personalmente la sua Francesca anche al Costanzi dopo d’averla condotta ai trionfi degli altri teatri nostri, ed anche sulle scene romane l’autore illustre, il direttore interprete autentico, unitamente ai suoi collaboratori è stato acclamatissimo. In verità rare volte si era accorsi ad una rappresentazione inaugurale con tanta serenità di spirito come a questa di cui riferisco. Nota ormai la capacità, anzi la forza dello Zandonai nel dirigere i suoi lavori teatrali e sinfonici, memori perfettamente del successo che Francesca aveva riportato or son parecchi anni sulle stesse scene del Costanzi, desiderosi di ribattezzare non soltanto all’Augusteo il fratel nostro già da tre anni redento, ognuno di quanti convenimmo all’atteso spettacolo aveva la certezza di poter assistere ad una festa, ad una grande festa dell’intelletto e dell’animo oltre che dei sensi. E l’aspettativa non è stata delusa. L’orchestra ha suonato, specie nei momenti di maggiore responsabilità, come meglio non avrebbe potuto suonare; i cori, intonatissimi e disciplinatissimi, hanno fatto onore al loro maestro Consoli, concorrendo sensibilmente alla bellezza totale dello spettacolo; ben date e distribuite le luci sugli scenari appropriati ed armonizzantisi pienamente con i costumi degli attori, fra i quali Paolo il bello impersonato dal tenore Fleta degnamente; Gianciotto rivissuto dal baritono Maugeri con tanta fierezza di accenti e con così nobile e sicuro portamento da esser giudicato con voti plebiscitari non solo un verosimile Gianciotto ma un artista di prim’ordine per virtù canore e sceniche; Malatestino perfettamente a posto nei panni e nella voce del giovane tenore Palai; Samaritana fedelmente piagnucolosa nelle vesti della brava Vitulli ed intelligente 103 confortatrice – con il valido aiuto delle altre fide impersonate dalla Donati, dalla Peroni [sic], dalla Porter, dalla Rettore, ecc. – della protagonista del dramma. Della quale avrei preferito tacere se ciò facendo non venissi meno al mio dovere. E volentieri ne avrei taciuto perché ad eccezione del giuoco scenico, mirabile sempre e non soltanto in questa fatica, null’altro avrei da lodare di una Francesca reincarnata da Gilda Dalla Rizza. Essa infatti non ci ha fatto intendere una sola delle bellissime frasi dannunziane, né il difetto della dizione è stato velato da purezza di timbro della voce, che, forse per la inadattabilità alla parte, aveva perduto ogni freschezza, ogni limpidezza, ogni pieghevolezza: se fosse stata meno piacente e meno flessuosa Paolo il bello non se ne sarebbe innamorato più per la millesima volta ed il pubblico non le avrebbe nascosto neppure in parte la sua delusione. C’è da augurarsi che l’impresa voglia aggiungere ai sacrifici compiuti per allestire un così decoroso spettacolo anche quello di mutar vesti a Francesca. L’autore per il primo ne sarà lieto, benché egli non possa che gloriarsi del trionfale successo rinnovatogli la sera del 28. [...] 169 Edoardo Pompei, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Paese», 28.12.1921 Lo spettacolo col quale si è iniziata la stagione lirica al Costanzi ha assunto quest’anno un carattere d’italianità che per uno sterile omaggio alla moda esotica da parecchio tempo era stato bandito dalle solennità inaugurali. Bisogna sinceramente rallegrarcene, tanto più che la scelta della Francesca da Rimini, di un’opera così vasta e complessa che congiunge insieme in una stessa visione possente di amore e di ardore, di passione e di morte il nome del nostro più grande poeta e del più insigne dei nostri più giovani musicisti, non poteva riuscire per la profondità del suo contenuto poetico e musicale, per l’ampiezza delle sue linee architettoniche, più gradita al pubblico eletto che raccoglievasi ieri sera nella sala magnifica del Costanzi e che le vicende sceniche, i canti e le novità di pensieri, di forme, d’impasti, di figurazioni sonore, seguì col più vivo interesse, se pure non sempre con profondo ed intimo convincimento. Tra i giovani musicisti in Italia non vi è alcuno che possa eguagliare lo Zandonai nel difficile magistero strumentale. Egli possiede non solo il dominio assoluto della dottrina e la sapienza e la coscienza degli effetti musicali, ma ha lo spirito audace della ricerca, la sicurezza dinamica del grande organo orchestrale, conosce tutte le forze sentimentali, espressive ed intime di ogni singolo strumento e di ogni famiglia di strumenti, ed ha un temperamento particolarmente adatto a rendere ogni colore nella infinita varietà dei toni, dei chiaroscuri, dei contrasti. Ma in tutto questo trapunto orchestrale, fra tanta bellezza di sottili disegni e di arabeschi musicali, l’idea melodica non ha mai respiro ampio e profondo e si ha la impressione che il compositore illustre, come già nelle sue opere precedenti, miri piuttosto, nella esuberanza dei mezzi a sua disposizione, a trascurare di proposito, per una invincibile tendenza del suo temperamento, il periodo largo, senza raggiungere nel declamato quella intensità di espressione, quel soffio possente ed ampio di ispirazione che talora le situazioni sceniche richiedono e che costituiscono e costituiranno sempre l’essenza di ogni opera destinata a vincere gli urti del tempo. 104 La Francesca da Rimini ha valore di un antico affresco giottesco in cui la rappresentazione pittorica si trasfiguri per un prodigio della fantasia umana in armonia musicale. E in verità la potenza di quest’opera, più di ogni altra sua precedente rivelatrice delle superiori qualità del compositore, non si palesa nel disegno vigoroso dei caratteri, concepiti ed espressi con un taglio netto, con un impeto melodico tale da costruire la loro personalità unica e diversa, bensì con la varietà delle tinte e con la ricchezza sinfonica. Riccardo Zandonai non vede e non sente il profilo caratteristico di ciascun personaggio ma intende e rende i colori degli abiti e dei fondi sì che le figure sono spesso ombre che si muovono in una atmosfera di colorazioni sapienti, leggiadre, tenui, dolcissime. Ma quando dall’arazzo devono emergere le persone, e le passioni umane prendere membra e voci, quando dal sogno si discende nella vita, questa appare minore del sogno, minore, più fiacca, meno suadente: le figure erano più vive nell’affresco velato che non sulla scena ove deve risuonare il grido, la parola, il canto della loro passione. Il sogno che domina nella serenità fiorita del primo atto, quando il destino sembra clemente alle due giovinezze che «amor condusse ad una morte», cade aspramente nella realtà del secondo atto, allorché il contrasto di guerra e quello delle anime in pena dovrebbe essere espresso con ben più grande robustezza di rilievi. La battaglia è intorno per le case e per le strade e infuria e insanguina Rimini. Ma una battaglia più violenta, un duello a vita e a morte si combatte nelle anime di Paolo e di Francesca tra il fragore delle arme, il saettìo dei dardi, le vampe inestinguibili del fuoco greco sulla torre dei Malatesta. Le lotte dei partigiani dei guelfi e dei ghibellini è colore; l’urto delle anime è vita. Ma il colore non è efficace, non suscita la visione, non ha quel sicuro carattere guerresco che trasporta gli spiriti più calmi nell’ardere della mischia. L’orchestra ha fragori improvvisi, dissonanze sapienti, abilità tecniche di contrappunto, ma non ha un ritmo netto, un valore melodico che solo poteva dare l’illusione e la sensazione. Così le due anime di Francesca e di Paolo, in cui l’amore arde occulto e terribile, pronto a divampare se ode la parola che dona e perdona, se scorge il gesto che consente; le due anime che diverranno i simboli eterni della passione sovrumana, non hanno un accento singolare, una espressione chiara, netta, precisa, uno di quei movimenti melodici con cui Verdi scolpiva l’ansia, l’angoscia, la gioia, ma sono voci fioche nel fragore della lotta atroce. E pure quel giudizio di Dio innanzi alla finestra imbertescata, quel Pater proferito lentamente fra il dardeggiare fitto, quel perdono concesso da Francesca con una parola di donazione piena, potevano assurgere a valori significativi musicali ed umani. La situazione scenica supera l’espressione musicale. Tra i rumori della battaglia, solo le due anime dovevano emergere. Il quadro del combattimento doveva essere il fondo su cui i due profili si disegnavano taglienti come in una pittura di Giotto, e nessuna accademia imitativa avrebbe dovuto turbare la bellezza e la potenza di quella scena di perdizione. In una situazione eguale e contraria Riccardo Zandonai è stato salvato dalla potenza del contrasto drammatico che si determina sopra uno sfondo di stanza, un fondo opaco senza movimento di masse. Nel primo episodio del quart’atto, quando Malatestino rivela a Gianciotto la tresca della bella moglie, il musicista ha una certa terribilità tragica che impressiona profondamente. I due fratelli, diversi di spirito ma egualmente segnati nel corpo, sono in urto. Malatestino, perfido, insinua il sospetto nel cuore del rude Gianciotto ed i loro accenti son melodici, hanno un severo ritmo di 105 dramma ben comentato dai legni e dalle corde dell’orchestra. Violoncelli, violini, clarini ed oboe danno un colore cupo e sordo a tutta la scena. Ma in tutti gli altri atti l’ambiente e la preoccupazione delle colorazioni musicali dominano il maestro. Colori chiari, melodie tenui e graziose, declamati eleganti ed armoniosi danno tinte musicali primaverili all’atto primo: vi è nelle voci e nell’orchestra come una fiorita gaia e delicata. Le modulazioni vocali ed il comento vario e leggero diffondono negli ascoltatori un senso di freschezza e di poesia che non sarà dimenticato. Nell’atto terzo, l’atto del sogno, l’atto del bacio tremendo e divino, i colori sono sparsi con ricchezza magnifica. Colori d’ambiente, non melodia di anime, atmosfera musicale, non grido schietto di passione, eleganze formali, non disegno sobrio e serrato. Arte decorativa, non sagoma di creature vive, impressa a punta di ferro sulla parete che deve essere accesa dalla pittura. E la fosca tragedia, nell’ultimo episodio, si spegne nel sangue senza che il fiotto rosso fiammeggi sulla scena. Ombre e non persone. «Noi che tingemmo il mondo di sanguigno» grida Francesca nel verso immortale: qui non vi è il mondo ed il sangue non gronda. L’abilità tecnica, il buon gusto, le eleganze formali, le armoniose accademie musicali non hanno energia di trasportare nella musica le persone del Canto V. I morti di Dante giacciono solitari e lontani! L’opera ha avuto nel suo complesso una esecuzione magnifica. Dirigeva l’autore. Piccolo, pallido, magro, nervoso, con gli spiriti della vita raccolti e sfavillanti nelle pupille, il maestro Zandonai appare un animatore della scena e sorge gagliardo e impetuoso fra gli strumenti dell’orchestra in faccia al palcoscenico. Il suo sguardo lucido sostiene la forza degli artisti, afferra nella sua rapina le musiche espresse dalle note, si solleva sull’orchestra vasta. Il gesto accompagna lo sguardo: gesto netto, sicuro, significativo, e al suo richiamo misterioso e possente tutte le anime vibrano come un’anima sola; tutte le volontà si tendono come una volontà sola, come l’anima, la volontà, il cuore di Riccardo Zandonai, che solo da poco tempo alle fatiche della composizione ha aggiunto quella della direzione, rivelando anche qui una bella energia comunicativa, un’anima ardente, appassionata, impetuosa, una nuova espressione della sua arte ammaliatrice, lusingatrice dei cuori umani. Egli ha tradotto la sua visione nell’animo degli esecutori e degli ascoltatori, evocato le immagini, temperato i suoni, moderati i colori, ottenendo effetti non raggiunti nella edizione precedente. Successo dunque assai lieto al quale ha notevolmente concorso la collaborazione preziosa dell’orchestra e degli esecutori rivelatisi tutti degni dell’opera d’arte e della solennità inaugurale. Gilda Dalla Rizza, la cantante deliziosa, così cara al nostro pubblico, superò senza sforzo e con invidiabile sicurezza l’ardua e faticosa tessitura della sua parte, avvincendo come sempre l’uditorio col fascino della sua voce, coll’arte mirabile del suo canto. Né l’attrice apparve inferiore alla cantante poiché nel gesto, nella grazia e nella leggiadria della persona ella seppe rendere il personaggio con robusto rilievo. Il tenore Michele Fleta per l’estensione e la duttilità della sua voce potente e vigorosa negli acuti, delicatissima nelle sfumature, vellutata nelle note medie, rese con grande efficacia la figura di Paolo, e il baritono Maugeri fu un Gianciotto eccezionale per potenza e bellezza di voce, per maestrìa di canto, per talento interpretativo. Ed ottimo Malatestino il tenore Palai, che si distinse specialmente nel grande duetto del quarto atto. Né vanno dimenticate la Vetulli [Vitulli] nella 106 parte di Samaritana e il gruppo delle quattro ancelle formato dalla Rettore, dalla Porter, dalla Peroni [sic] e dalla Donati. I cori, guidati dal maestro Achille Consoli, si distinsero per bravura e per fusione. Ricchissimi veramente e improntati ad un grande senso d’arte i quadri scenici e i costumi. Interpreti e autore furono più volte evocati al proscenio alla fine di ogni atto fra interminabili ovazioni. [...] 170 Alberto Gasco, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai, «La Tribuna», 28.12.1921 Un altro “Santo Stefano” con buona musica, cantanti pregevoli, dame seminude, uomini in marsina, piccoli pettegolezzi e flirts magnifici, sentenze di conoscitori e sorrisi di snobs infrolliti. L’inaugurazione della stagione d’opera al “Costanzi” è sempre un gaio avvenimento d’arte e di eleganza, atteso dal pubblico con impazienza estrema. Coloro che hanno il portafogli ben guernito o che possono contare su qualche biglietto di favore si mostrano pieni di fiducia per la nuova stagione; gli altri affettano una diffidenza profonda od anche un olimpico disprezzo. È giusto che sia così. Per spiegazioni, rivolgersi ad Esopo. Tout bien consideré, riconosciamo che il programma lirico di quest’anno si presenta copioso ed eclettico, sì da soddisfare alle generali esigenze. D’altra parte, notando come il massimo teatro d’opera della Capitale si trovi abbandonato a sé stesso in un periodo di crisi acuta in quanto esso non riceve aiuti dallo Stato, non ha mecenati su cui fare affidamento e riceve dal Comune di Roma una somma che fa pietà, dato il valore odierno della moneta, notando questo increscioso stato di cose, siamo tratti a dichiarare che la gestione del “Costanzi” costituisce un rischio tremendo per un’impresa che voglia conciliare le ragioni dell’arte con quelle dell’industria e allestire spettacoli degni d’alto rispetto come appunto quello che iersera ci è stato offerto. Bene inteso, se questo eccellente inizio di stagione non avesse un seguito e l’impresa tradisse le sue solenni promesse, considerando il “cartellone” come un qualsiasi... atto diplomatico destinato ad essere strappato a tempo opportuno, noi protesteremmo e strilleremmo ad oltranza: tuttavia, per il momento, dobbiamo ritenerci paghi e soddisfatti. Il Santo Stefano del 1921 ha avuto tutta la giocondità mondana e la sontuosità artistica che desideravamo. Riccardo Zandonai è venuto personalmente a ripresentarci la sua Francesca da Rimini che in questi ultimi anni ha girato il mondo sotto l’egida della fortuna. Abbiamo ritrovato Francesca prospera, formosa ed eloquente: quella, insomma, che già altre volte aveva destato in noi un interesse vivace. L’opera, ormai, si è imposta alla estimazione del pubblico internazionale ed è entrata a far parte del repertorio lirico moderno: sarebbe sterile e ingrata fatica rinnovare adesso l’esame meticoloso della partitura. Non tutto è oro, non tutto è luce: ma l’oro non è soltanto nelle chiome di Francesca e la luce del pomeriggio di primavera passa, a tratti, nell’orchestra fervida di vita e di grazia. I momenti di schietta poesia non sono rari – basta citare la conclusione del primo atto e tutto il terzo episodio che culmina con la lettura del libro galeotto – ma essi non vanno a discapito del dramma che, segnatamente nelle scene iniziali del quarto atto, prorompe con una violenza impressionante. Come già altra volta abbiamo detto, l’opera dello Zandonai, pur senza avere una individualità piena, si distacca alquanto dalle solite forme 107 del melodramma italiano contemporaneo. Si nota in essa una insolita dignità di stile, una ricchezza di dettagli sinfonici e un quasi totale abbandono delle viete formule retoriche che tanto hanno nociuto, presso gli aristarchi della critica internazionale, al buon nome dei nostri operisti. Se Wagner di tanto in tanto fa capolino, non mai si comporta da padrone e se nel tessuto armonico e orchestrale si avverte l’influenza dei modernissimi maestri d’oltralpe, è da escludersi tuttavia che lo Zandonai soggiaccia alla tirannia di costoro: egli riesce a mantenersi abbastanza libero, per quanto non possa aspirare alla qualifica di innovatore. Lo ripetiamo: questa Francesca da Rimini, che trascorre giorni tanto felici, va considerata come l’opera egregia di un periodo di transizione: melodica quanto basta per accarezzare il pubblico, armoniosa senza ricercatezze stucchevoli, irrobustita ma non appesantita da una molteplicità di elementi sinfonici, varia d’accenti e spesso vaga di colori, ha sopra tutto il pregio dell’equilibrio e del buon gusto. Se Giulietta, che è prossima a venire al mondo, avrà il fascino di Francesca, saremo soddisfatti; se vincerà la sua maggiore sorella in abbondanza di concetti e di solidità di impianto tematico, canteremo a voce spiegata la nostra allegrezza. Il giudizio espresso iersera dallo stupendo uditorio del “Costanzi” sulla musica di Francesca è stato di calorosa simpatia. Si è formato subito un corteo in onore della Ravennate e la bella peccatrice è passata tra acclamazioni di festa. Soltanto al secondo atto dell’opera, pieno di fracasso e non di peregrine idee musicali, il pubblico ha avuto un attimo di esitazione. È un peccato che Francesca non possa liberarsi da questa bardatura di guerra. Sembra che la botte di resina ardente manganata dagli armigeri di Gianciotto riversi sugli spettatori non fuoco ma ghiaccio. Per contro, il finale dell’atto primo – pagina così elevatamente poetica da far vibrare di tenerezza anche il cuore di un coccodrillo feroce –, il terzo quadro con i suoi delicati arcaismi orchestrali e le sue larghe ondate di melodia armoniosa, come pure la prima parte dell’ultimo atto, aspra, rombante di minaccie, superbamente drammatica, sono state apprezzate a giusto limite. Non abbiamo fatto il conto delle chiamate al proscenio: certamente però lo Zandonai e i suoi interpreti si debbono essere presentati almeno una ventina di volte a ringraziare l’uditorio plaudente. In complesso, dunque, una serata di esultanza. Ci è oltremodo gradito segnalare la vittoria incontestabile della musica di Riccardo Zandonai e l’assoluto trionfo della tragedia dannunziana, creazione d’arte schietta il cui valore col procedere degli anni e con il raffinarsi del gusto del pubblico appare sempre più sicuro. Paolo e Francesca, Gianciotto e Malatestino sono creature vere – grazie a Dio – e non simboli: il loro linguaggio, a volta a volta, ci incanta blandamente o ci atterrisce; il loro gesto ha non soltanto un’evidenza tragica ma una forza d’umanità che tutta avvince l’attenzione nostra. Al successo dello spettacolo ha contribuito in larga misura l’ esecuzione. Artisti scelti con singolare acume, orchestra volonterosa ed abile, massa corale potentissima, mise en scène di sfarzo regale. Ogni dettaglio è stato curato con la sollecitudine più scrupolosa. Questa edizione della Francesca da Rimini dimostra che l’impresa del “Costanzi”, quando vuole, può compiere prodigi, anche con i mezzi limitati dei quali le è dato disporre. Gilda Dalla Rizza ci aveva fatto tremare, negli scorsi giorni, per la sua salute. Si diceva che ella giacesse in letto con la febbre a cinquanta gradi – o poco meno – vigilata da cerusici di vaglia. Invece doveva trattarsi di indisposizione assai passeggera poiché la bella e 108 valente artista, riconquistate di colpo le forze, si è potuta presentare iersera nell’ardua parte di “Francesca” e conquistarsi l’applauso della folla unanime. Col procedere della serata la Della Rizza [sic] sembrava che acquistasse nuovo vigore; al terzo atto ella è stata letteralmente affascinante, sia per la soavità del fraseggio che per la sincerità degli scatti di passione, sia per la mirabile ricchezza dell’abbigliamento che per la signorile armoniosità del giuoco scenico. L’interprete leggiadra e commossa ha trovato nel tenore Fleta un compagno di meriti non comuni. “Paolo il bello” è stato confortato iersera, al terzo atto, da un’ovazione a scena aperta. A sua volta, il baritono Maugeri, un “Gianciotto” formidabilmente espressivo, ha avuto nei brani culminanti dell’atto quarto, accenti di memorabile fierezza. Grande artista questo Maugeri, sbucato dall’ombra e impostosi d’un tratto, quasi con la violenza, alla generale considerazione. Non dobbiamo essere avari di lodi verso il giovane tenore Palai, cantante e attore di infinite risorse, che ha impersonato “Malatestino” con vera perfezione. Buona la Vitulli nella parte piagnucolosa di “Samaritana” e oltremodo notevole la Willaume, una “Smaragdi” degna in tutto e per tutto di stare presso a Francesca e confortarla nell’attesa d’amore. Le altre parti, di minore rilievo, sono state sostenute, spesso con bravura, dalla Donati, dalla Peroni [sic], dalla Porter, dalla Rettore, ecc. Scenarii di una magnificenza superlativa. Specialmente al primo e al terzo atto, il quadro scenico ha costituito una vera festa per gli occhi dei felici mortali presenti allo spettacolo. È facile, tirando le somme, concludere che questa Francesca da Rimini, artisticamente tanto pregevole e allestita senza risparmio di tempo e di spesa, avrà al “Costanzi” un largo seguito di rappresentazioni fortunate. Intanto, stasera i Maestri Cantori di Wagner ci chiamano all’appello. Nessuno fra gli intellettuali romani vorrà mancare al convegno. Siamo intesi: alle 20,15 precise! I ritardatari saranno linciati e appesi al lucernario del teatro. Avvisiamo premurosamente di questo giusto ukase i tardigradi che iersera ci hanno funestato durante l’audizione di quasi tutto il primo atto della Francesca da Rimini... 171 a.d.d., Francesca da Rimini di R. Zandonai, «La Voce repubblicana», 28.12.1921 Riccardo Zandonai è un musicista che sa il fatto suo. Diligente, esperto nell’uso sapiente della tecnica orchestrale, accurato, misurato. Non ha esuberanze e non ha eccessive parsimonie; non ricerca facili effetti e non trascura tutte le risorse teatrali. Si sente che egli è padrone di una consumata esperienza, dalla quale ormai ha poco o nulla da imparare. Ma questa sua Francesca è povera di idee, o per lo meno di idee notevoli. La vicenda tragica dei due amanti, trasumanati nel respiro oceanico della poesia dantesca e rievocati in una suggestiva riproduzione di ambiente dal virtuosismo pittorico di Gabriele D’Annunzio, parla all’anima delle folle con un fascino gagliardo. Riesprimere col linguaggio dei suoni la tragedia significa allargare ancora i confini della passione umana segnati dalla poesia e trarre scaturigini di sentimento capaci di creare intorno al cuore e alla fantasia dello spettatore una irresistibile gamma di sensazioni e di emozioni. Riccardo Zandonai invece non ha né sconcertato né trascinato il pubblico: lo ha invitato a gustare graziosi motivi decorativi, colorite pennellate di sfondo, miniature e quadretti simpatici, ma la grande, 109 prorompente anima del lirismo è rimasta sorda ai richiami del travaglio d’amore e dello schianto di morte. Eppure la volontà del compositore sembra indirizzata verso la lampada della lirica, di cui fin’ora abbiamo soltanto una preziosa preparazione orchestrale. Il passaggio dalla Francesca a Giulietta e Romeo non può e non deve significare altro. Auguriamoci che il fuoco del canto d’amore nasca questa volta con uno sprazzo di faville che non si spegneranno. L’insieme dello spettacolo allestito dall’impresa del Costanzi era decoroso. Cantanti ed orchestra sono apparsi fusi sotto la guida di una vigile e scrupolosa direzione. L’autore è stato secondato da un’ orchestra valorosa; Gilda Della Rizza [sic] ha cantato con calore e la sua voce ha raggiunto tutti gli effetti di una difficile tessitura. Molto apprezzato il tenore Fleta per la sua voce calda ed estesa e per una chiara dizione che ha dato rilievo alla pallida e dolente figura di Paolo. Attore efficace e cantante robusto il baritono Maugini [Maugeri] (Giannetto) [Gianciotto] e veramente ottimo il tenore Palai nella veste del perverso Malatestino. Notevoli la Vetulli [sic], il baritono Besanzoni, il Malfatti, il De Vecchi e le donne di Francesca. Molto disciplinati i cori istruiti dal maestro Consoli, per quanto sarebbe opportuno non schierarli sul proscenio in primo piano al finale del secondo atto. Gli scenari buoni, specialmente quelli del terzo atto. Il maestro Zandonai è stato il piccolo prodigio animatore dello spettacolo che il pubblico numeroso ed eletto ha apprezzato ed acclamato ad ogni fine di atto. [...] 172 F., “Francesca da Rimini” al Costanzi, «L’Epoca», 28.12.1921 L’inaugurazione della “stagione” lirica al “Costanzi” può essere e non essere un notevole avvenimento artistico, ma è sempre un eccezionale avvenimento mondano: la prima grande riunione di tutta l’élite della capitale dopo le vacanze estive ed autunnali, la prima grande esposizione di toilettes invernali, la prima rassegna delle “novità” della stagione: cronaca, critica, pettegolezzo, malignazioni... Ho assistito iersera, ahimè, alla ventesima “inaugurazione” e ho sentito i medesimi discorsi degli anni passati, sebbene non abbia visto le stesse persone. Le fanciulle, i giovinetti attendono la “serata” del Santo Stefano con una impazienza, con un’ansia singolarissima; hanno sentito ripetere cento volte, a casa, nelle famiglie amiche, al the danzante che quella è la seratissima per eccellenza, che esser notate, che avere un successo di eleganza e di grazia fra tanta esposizione di ricchezze e di bellezze è premio generoso per ogni più faticosa, costosa e intelligente “preparazione”. Ma le mamme dai capelli bianchi o grigi – quando non sono eternamente biondi o ramati – par che provino un gusto speciale a smontare i facili entusiasmi della figliuolanza anelante a dolci emozioni. -La solita piena, si sa. I prezzi alti oggi non fanno più paura. Ma che sala, dio mio. Dove son più quelle eleganze raffinate, aristocratiche, mirabili degli anni scorsi? Gente nuova, gente grossolana, gente buffa, stasera. -Ma c’è la principessa A, la duchessa B, la contessa C... -Eccezioni, figliuola mia. Quanta gente si conosce? Poca, poca, poca... La folla, la grande folla, nei palchi e nelle poltrone, è fatta di nuovi ricchi, ottima clientela per il botteghino, magra soddisfazione per chi ricorda altri tempi, altre sale, altri sfolgorii di diademi e di collane; gioie degli occhi che non tornano più... 110 -Come la giovinezza, mammà! E segue la conversazione, con piccole variazioni sul tema ma che ripetono più o meno esattamente le chiacchiere di due, di cinque, di dieci anni fa. Sempre deliziosi i tempi andati per le mamme non più giovani, dalle quali le fanciulle di oggi, le mamme e le nonne di domani, apprendono l’arte di dir male delle “nuove generazioni” che se ne infischiano e continuano a divertirsi come prima, meglio di prima... *** Si comincia con un’opera di repertorio; e la critica cede il posto alla cronaca. -La «Francesca»! Ma perché non ce la fanno sentire tutti gli anni? È l’opera che prediligo fra le ultime venute ad arricchire il repertorio italiano. È la marchesa Di Bagno che parla così. E n’è felicissimo Nicolino d’Atri – il diminutivo può continuare per altri cinquant’anni – perché Riccardo Zandonai è un poco “opera” sua: l’ha scoperto lui. Mascagni sostiene invece che l’aveva già scoperto da un pezzo, da quando l’ebbe discepolo al Liceo musicale di Pesaro. E il rappresentante di Casa Ricordi sostiene che il merito principale è di don Giulio Ricordi che aiutò con sicura fede il giovinetto, malgrado i tiepidi successi del Grillo del focolare, di Conchita e di Melenis. Zandonai ringrazia con commosso cuore. Ma forse pensa che si è aiutato soprattutto da sé, col suo talento, con il suo studio, con la sua fede. E noi auguriamo ch’egli vada ben lontano su la via de la fortuna artistica, perch’egli è certamente il migliore dei giovani musicisti italiani – nel mondo della musica si è giovani fino a cinquant’anni: ed è da pochissimo tempo infatti che non sentiamo più parlare della “giovane scuola italiana” quando si tratti di Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano – e non si concede riposi, così che anche quest’anno assisteremo ad una sua nuova opera, Giulietta e Romeo, alla quale si può fare l’augurio più lieto, sperando che le arrida il successo che dal suo primo apparire sulle scene ha accompagnato la Francesca da Rimini. *** Un critico dei più severi, lodando nel suo complesso quest’opera di giovinezza che segna tuttavia la compiuta maturità del talento musicale e della sapienza tecnica di Riccardo Zandonai, affermò che la Francesca avrebbe guadagnato in snellezza e in bellezza con la soppressione del secondo atto: inutile e farraginoso. Il giudizio è certamente acre, per quanto tutti debbano riconoscere che il secondo sia l’atto meno felice dei quattro: poche idee e molto rumore. E tuttavia iersera anche il second’atto è stato ascoltato con deferenza e con interesse – ma quei trombettieri sul palcoscenico non potrebbero suonare l’inno di vittoria rivolti ai combattenti del... retroscena anziché rivolti al pubblico? – perché esso rivela nello Zandonai quel valente sinfonista che più tardi abbiamo meglio apprezzato nelle sale di concerti e perché il musicista trentino, pur quando la invenzione gli fa difetto, sa sfruttare con squisita abilità i temi che presceglie, tenendosi sapientemente lontano – anche quando l’occasione lo tenti come nell’atto della battaglia – da quella clamorosa banalità, da quel vuoto polifonismo orgiastico che altri maestri italiani, e non soltanto italiani, c’infliggono assai spesso con incosciente compiacenza. Riccardo Zandonai è un maestro del colore; nella Francesca sono pennellate di una vivezza, di una freschezza, di una grazia che fanno pensare a un musicista consumato nei lenocini dell’Arte. E il colore non è a scapito della melodia che nel primo e nel terzo atto trabocca dal 111 canto gentile delle ancelle come nel duetto del bacio, così vibrante di indomita passione. Non canto quadrato, non melodia a lungo metraggio; ma declamato melodico, ma largo, ampio fraseggio melodico che segna in più punti la più felice fusione dell’espressione poetica e musicale: passo risoluto tra le antiche forme e le nuove dell’arte melodrammatica nostra, che può allontanarsi fino a un certo punto dalla tradizione melodica italiana e può concedere quel tanto che non offuschi la bellezza del discorso, del canto melodico al commento orchestrale. *** Francesca da Rimini è stata ascoltata iersera con crescente diletto, dalla prima all’ultima scena. E il gran pubblico che affollava il “Costanzi” è stato assai lieto di applaudire, oltre che l’autore, il concertatore e direttore d’orchestra pieno di energia, animatore eccellente di masse, pieno di nervi e di passione, coloritore efficacissimo della sua mirabile partitura. L’orchestra, a sua volta, ha ben risposto ai richiami vivaci, sottili, amorosi dell’insigne maestro; così come il coro è stato impeccabile sotto la guida del maestro Consoli. Il pubblico ha appreso con schietto compiacimento che Gilda Dalla Rizza si era rimessa dalla lieve indisposizione che l’aveva colpita giungendo a Roma e che avrebbe indossato ancora una volta le vesti eleganti della celebre peccatrice. La Dalla Rizza ci ha dato una nuova, mirabile interpretazione della Francesca. la sua voce stupenda, la sua dizione raffinata, il suo gesto signoreggiato da una non comune intelligenza artistica, dànno il più alto rilievo ad ogni scena, ad ogni frase. Spira dal suo volto una languida tristezza che solo nel bacio di Paolo si tramuta in gioia veemente tetragona ad ogni preoccupazione. E la tristezza o la gioia si trasfondono con magnifica trasparenza dal volto nella voce, così ch’ella ci dà l’impressione squisita di una vivente realtà scenica, non facile ad ottenersi sul teatro di prosa, assai più difficile a raggiungersi nel teatro di musica. Il tenore Fleta ci è parso bene a posto nella parte di Paolo: bel giovane, ha perfezionato il suo canto togliendogli molte di quelle ineguaglianze che sminuivano il valore della sua bella voce. Sta in scena con signorile correttezza ed è certo uno dei più sicuri elementi di successo di questa interpretazione, che conta anche un ottimo Gianciotto, il Maugeri, baritono dalla voce potente ed attore efficacissimo, e un eccellente Malatestino, il tenore Palai, che potremo ancora meglio apprezzare in parti più importanti. La Vetulli [sic] – la Samaritana – e le quattro ancelle – le signorine Rettore, Porter, Pieroni [sic] e Donati – sono degne dell’insieme. Elegante e accurato l’allestimento scenico. Gli applausi sono stati molti e calorosi. E fanno prevedere un gran numero di repliche dell’opera di Zandonai. Intanto stasera in seconda recita di abbonamento, prima rappresentazione dei Maestri Cantori di Wagner, sotto la direzione del maestro Reiner. Lo spettacolo comincia alle 20.15. Niente paura: si va a cena un po’ prima. E, del resto, peggio per i ritardatari! 173 L.T., La serata inaugurale al Costanzi, «Il Popolo romano», 28.12.1921 Non c’è da disperare nell’avvenire economico d’Italia. Iersera, malgrado i prezzi enormi, il Costanzi era pieno. E tutta la gente intervenuta mostrava il volto ilare di chi non ha lasciato a casa nessuna preoccupazione. 112 C’erano più diamanti sul seno delle signore che non vi siano stelle nello zodiaco. E nel sorriso delle dame, che è sempre un po’ il termometro delle borse dei mariti, c’era l’augusta serenità di chi ha, appesa sul retropalco, una pelliccia da venticinquemila lire. Dopo di che andate a negare che la vita è bella e che i pallidi economisti non sono gli eunuchi dello spirito. Signora Emma Carelli, voi potete ancor più calcare la mano sui vostri prezzi (per rifarvi, s’intende, del disastro finanziario dell’anno scorso); ci sarà sempre della gente che accorrerà fidente a voi, come belando inconscio l’agnellino allo scannatoio. Tutta la più eletta aristocrazia e la borghesia dei più fini generi (assai notato in preponderanza il genere alimentare) era rappresentata alla cerimonia votiva di Santo Stefano. Tutti gli intenditori ufficiosi ed ufficiali della musica avevan preso posto per tempo sugli scanni del loro tribunale senza appello. Allorché la marcia reale ha annunciato la Corte, la sala presentava veramente uno spettacolo che, per rimanere nella tradizione delle parole di etichetta, poteva dirsi imponente. A un tratto le lampade si spengono e nel silenzio azzurrognolo solcato di mobili iridescenze (sono le pietre preziose delle dame?) la bacchetta di Zandonai batte il colpettino di avviso. In un’atmosfera da mistero eleusino la Francesca si inizia. E si vivrà, oimè e si vivrà tuttavia e il tempo fuggirà, fuggirà sempre!... O sì, spaventosamente su te sfugge il tempo, Francesca di Zandonai. Quanti anni son passati per te dal 1914? Innumerevoli. Sei vecchia. Questa è la sensazione dolorosa che io ho avuto di te iersera. Vecchia d’una vecchiezza spaventosamente precoce. Oimè, che i venditori di aromati, di pomate, di lavande hanno oggi tutto adulterato e sotto la loro patina falsa il fiore della carne viva non avrà più durata dell’emerocallide! Ma è forse l’ora di abbandonare la perifrasi fiorita. Zandonai può dall’alto della ormai sua indiscutibile celebrità e del suo chiaro e fortissimo ingegno ascoltare le parole brevi e precise che, se non altro, manifestano una opinione onesta. Francesca deve la sua vecchiezza precoce, secondo me, al suo respiro: respiro breve, poco ossigeno, senza di che la giovinezza muore per fatalità organica. Anche le opere musicali sono un po’ come le creature umane: non c’è buon respiro senza una inspirazione profonda. È l’inspirazione profonda che manca a Zandonai, sempre. Egli tutto apprese dal suo maestro tranne che questo: il segreto dell’inspirazione. Francesca non ha un’anima: ha dei piccoli frammenti di animule primordiali, saldati tra loro da un mastice caduco di cui, volatilizzate le resine tenaci, non rimane che creta friabile. Sette anni son bastati a render creta il mastice della forma; e la sostanza, eterogenea, si è dispersa. Troppo ha cercato un valore, Zandonai – e troppo vi ha confidato – nel lenocinio della forma armonica e strumentale come chi troppo si indugia a seguire nei suoi più minimi particolari una moda immanente. Ne viene di conseguenza – come ne è venuto all’autore di Francesca – che l’abito troppo aderente alla moda di un tempo non è più portabile quando, anche di poco, questa moda muti. E in sette anni la moda è mutata assai. Nuovi disegni, nuovi colori, nuove armonie di tagli 113 e di scorci si stanno già da tempo negli ateliers della creazione musicale preparando. Francesca senz’anima, con un vestito fuori tempo, chi più si volgerà ai tuoi richiami tra poco? E si morrà, oimè e si morrà tuttavia E il tempo fuggirà, fuggirà sempre!... Né ti fidare degli applausi di iersera, Francesca. I pubblici delle grandi occasioni sono infidi assai e se ne vanno via come “le gallinelle” per poco che la “stella Diana” della moda li attiri verso un altro quadrante del cielo musicale. Zandonai: tutto il mio augurio fervido e sincero per la nuova battaglia imminente: Giulietta e Romeo. *** La cronaca ha registrato iersera infinite chiamate ed entusiasmo delirante: per l’autore e per gli esecutori i quali tutti, cori compresi, veramente hanno fatto il loro possibile per raggiungere il buono affiatamento. La Dalla Rizza – che ormai conosciamo da tempo immemorabile: non è forse divenuta una interprete inamovibile al Costanzi? – è sempre una elettissima artista anche quando come iersera il suo canto è lievemente nasale. Il Fleta – nuovo cantore di moda – ha nella sua voce ancor non completamente trenata, elementi simpatici e promettenti. Il Palai mostra di voler avere un personalissimo stile di canto, la qual cosa è oltremodo lodevole. 174 a[driano] b[elli], La Francesca da Rimini del maestro Zandonai, «Il Corriere d’Italia», 28.12.1921 Lo spettacolo inaugurale della grande stagione lirica di carnevalequaresima al Costanzi è riuscito ottimo sotto ogni riguardo. I sovrani, insieme con il principe ereditario e le Principesse, hanno voluto assistere allo spettacolo, ed il pubblico l’ha salutati con grandi applausi. L’ampia sala era uno splendore: ovunque una folla innumerevole che non lasciava libero il minimo spazio: tutto un pubblico intellettuale, che ha seguito col massimo interesse l’opera dello Zandonai ed ha mostrato di gustarne ogni bellezza ed apprezzarne l’odierna pregevole esecuzione. Francesca da Rimini, passata in sette anni di vita attraverso i più disparati pubblici suscitando ovunque i più schietti entusiasmi, è opera che oramai non si discute più. La musica dello Zandonai piace e piace molto, perché i suoni sono in sapiente armonia tra loro, perché ogni situazione risulta in modo scultoreo ed ha pagine che vi cullano in una vera atmosfera di sogno, e perché l’armonizzazione è moderna senza pedestri imitazioni, e l’orchestra robusta, completa in modo mirabile il dramma. La melodia ha respiro breve ma è sempre convincente e rende perfettamente il senso della parola. Alla tragedia medioevale il musicista è riuscito a dare il colore di cose remote che le si addice. Il primo atto è di una felice efficacia descrittiva e nel finale il musicista diviene un colorista impareggiabile. La melodia riboccante di tenerezze affidata alla “viola pomposa” e il canto dolcissimo delle donne «Per la terra di maggio...» sopra il morbido accompagnamento orchestrale sono di una suggestiva e trascinante bellezza che non si discute. Basterebbe il terzo atto con il suo continuo progresso di 114 magnifici effetti per far decretare il trionfo all’autore genialissimo, padrone assoluto della tecnica e del teatro. Il pubblico acclamò vivamente e calorosamente l’autore, tanto più che ieri sera si presentava sotto una veste nuova: quella di concertatore e direttore d’orchestra. E fu una vera e assoluta rivelazione. Lo Zandonai si è mostrato un concertatore poderosissimo. Il secondo atto così vario e complesso, così movimentato, che assurge al finale ad una strapotente sonorità corale ed orchestrale, ci apparve di una chiarezza mirabile per merito di lui, che seppe far risaltare ogni tema ed ogni attacco ed ogni frase in modo scultoreo. Riccardo Zandonai è un grande, grandissimo direttore di orchestra e il pubblico gli decretò così un doppio trionfo. Protagonista Gilda Dalla Rizza, la quale, quantunque indisposta, non ha voluto negare il contributo della sua arte al grande avvenimento. La sua voce, animata sempre da un grande calore di espressione, rese la parte con grande efficacia. Scenicamente compose con bella linea la figura di Francesca e riuscì così nelle dolci e soavi scene del primo atto come in quelle di sgomento, di dolore e di passione e di disperazione del resto dell’opera, sempre efficacissima, e seppe farsi ammirare e applaudire dall’imponente uditorio. L’opera si presenta un po’ grave per lei e noi vorremmo che l’intelligentissima artista abbandonasse un genere che potrà esserle fatale. Nella parte di Paolo il tenore Michele Fleta confermò la buona fama conquistatasi già lo scorso anno. Disse tutta la parte, irta di enormi difficoltà di tessitura, con grande arte e giusta espressione riuscendo a rendere con uguale perfezione la mezza voce e gli acuti più poderosi. Fu applauditissimo. Il baritono Carmelo Maugeri diede per robusta voce e per vigoria di accento un ottimo risalto alla parte di Gianciotto e così anche efficacissimo si mostrò Nello Palai in quella molto difficile vocalmente e scenicamente di Malatestino. Le parti secondarie tutte ottime: la Vitulli (Samaritana), la Rettore (Biancofiore), la Porter (Garsenda), la Zerovio [sic] (Altichiara), la Donati (Donella), la Willaume (la schiava), il Malfatti (ser Toldo), il Marcotto (il Balestriere), De Petris (il Torrigiano). I cori benissimo istruiti dal maestro Achille Consoli, a cui per stasera nei Maestri Cantori è riservata la prova del fuoco. 175 La sera del Santo Stefano al Costanzi, «Il Tempo», 27.12.1921 Ieri sera il Costanzi era bello a vedersi, pieno sino all’orlo, raggiante di luce e di bellezze muliebri. Un pubblico enorme e sceltissimo s’era dato convegno nell’elegante e armoniosa sala per assistere, dopo molti mesi di silenzio, alla solenne riapertura della stagione lirica. Tutte le figure più note dell’arte e della mondanità erano presenti alla recita della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, che venne accolta con un continuo e spontaneo favore. La esecuzione, sotto ogni rapporto accurata e vivace, contribuì a rendere vittoriosa e felice questa serata dell’inaugurazione. Già fin dall’ inizio, al suo uscire, il maestro Zandonai salito sul podio venne fatto segno ad una cordiale manifestazione di simpatia. Alla fine del primo atto, che fu ascoltato come tutto il resto dell’ opera con religiosa e deferente attenzione, il pubblico plaudente volle chiamare con grido unanime il giovane compositore trentino alla ribalta. Per parecchie volte il maestro Zandonai fu costretto a presentarsi, accolto da battimani fragorosi e incessanti, prima con gli artisti e poi da solo nella luce e nella gloria violenta. Uguali accoglienze ottennero il secondo, il terzo e il quarto atto; il successo insomma, decisamente 115 delineato al principio della recita, si mantenne ugualmente caldo ed entusiastico sino alla fine. La celebrata artista Gilda dalla Rizza, che sosteneva la parte della protagonista, assolse con grandissimo valore e incomparabile semplicità e chiarezza di mezzi il difficile compito che le venne assegnato. Questa artista che si dà sempre con passione, anima e corpo all’arte sua, non avrebbe potuto rappresentare con maggior delicatezza e con più calda intelligenza il personaggio di Francesca da Rimini. Essa suscitò naturalmente nel pubblico romano, che la conosce e la predilige anche per la squisitezza immacolata della sua intonazione, un entusiasmo senza limiti. Il giovanissimo tenore Fleta, che si fece favorevolmente conoscere al Costanzi durante la scorsa stagione, fu, nella parte di Paolo il bello, cantante ed attore misurato e felice; la bellezza dei suoi mezzi e l’impeto ricco di giovinezza che egli mette nelle frasi più salienti dell’opera gli valsero le più lusinghiere accoglienze. Il baritono signor Maugeri, Gianciotto, fu per noi una rivelazione lietissima: non conoscevamo nemmeno per nome questo cantante e questo attore dal temperamento così irruento e dall’intelligenza così ardente; non abbiamo qui il tempo di fare analisi, ci basti dire che egli possiede le più virili e autentiche qualità di un artista. Il tenore Palai, Malatestino dall’occhio, fu anch’egli una vera e degna sorpresa di questa stagione appena incominciata: la sua maniera tagliente e precisa, il suo accento crudele e quel modo chiaro e violento di scoppiare con la voce valsero a dare il massimo rilievo al carattere che egli doveva rappresentare. Tanto egli che il baritono Maugeri contribuirono decisamente al successo della recita. Anche la signorina Vitulli, il signor Malfatti e tutti gli altri di cui ora ci sfugge il nome, consorsero a completare la bellezza del quadro e la dignità della esecuzione musicale. L’orchestra, diretta con grande foga dallo stesso autore, fu spesso ammirevole; i cori fecero miracoli e le scene furono decorose. Assistevano alla rappresentazione le LL. MM. il Re e la Regina, il Principe ereditario, la Principessa Mafalda, con i rispettivi seguiti. [...] 176 Al Teatro Costanzi torna la “Francesca da Rimini” poema di vita e di passione, attraverso le possenti armonie di Riccardo Zandonai e nella magnifica interpretazione di Gilda Dalla Rizza, di Michele Fleta e di Carmelo Maugeri, «La Maschera» II/28, 28.12.1921 [a centro pagina: sonetto firma RE-BECCHINO] Gilda Dalla Rizza Tu che sprigioni, col gorgheggio alato, la melodia ch’ogni fibra tocca, perdona se vogliamo celebrato il gran fastigio della grande bocca! Dicci chi fu che modulò le note nella gola sublime, ammaliatrice? È un divino poter quello che puote fare il divino... ch’all’uman non lice. Signora eccelsa di virtù preclari: nell’arte, fiera, ben sicura avanzi... Luce Tu sei fra tanti luminari! 116 I maestri s’inchinano d’innanzi a quei trilli canori, senza pari, che, perfetti, regali nel Costanzi! L’opera È accaduto per la Francesca da Rimini di Zandonai quel che avviene per le opere migliori di altri musicisti. Tornando – alla distanza di diversi anni – desideratissima – sulle scene del Costanzi – vi ha ritrovato le magnifiche accoglienze che la salutarono la prima volta al suo apparire. Gli è che la Francesca da Rimini è di quelle opere che – riascoltandole – danno modo di meglio gustare le varie bellezze in esse racchiuse. E ieri sera, in virtù di una esecuzione quanto mai efficace, l’opera dello Zandonai ha riportato nuovamente un autentico completo successo. L’opera di Riccardo Zandonai – quarta di una produzione nobilissima – suscitò deferenti discussioni da parte di critici e di musicisti, i quali, incontentabili come sono, cercavano di scindere la personalità dell’autore: vale a dire separavano il sinfonista dall’autore di teatro, giacché per loro il valore poetico del primo atto non poteva amalgamarsi con quello drammatico del secondo e con quello passionale del terzo. Se allora queste osservazioni potevano sembrare opportune, oggi invece, dopo aver udite con serenità di spirito le passionali melodie di Paolo e Francesca, la nostra impressione è di un’ammirazione incondizionata. La musica di Zandonai nella Francesca da Rimini, al par di quella di Conchita, ha una vita tutta propria, ha caratteristiche tutte speciali che si estrinsecano in una lirica atmosfera musicale – di alto pregio –. Non ci si venga a dire che il sinfonista soverchia di gran lunga l’autore teatrale, poiché in Francesca da Rimini riscontriamo qualità dell’uno e dell’altro che procedono di pari passo e si fondono in un tutto inscindibile. Zandonai è un semplice e puro illustratore del quadro scenico nel finale del primo atto, in cui l’incontro di Paolo e Francesca è degnamente accompagnato da strumenti imitanti la violetta, il piffero, il liuto; è un ottimo colorista nei coretti e nelle danze delle donzelle inghirlandate nel terzo atto; ma è soprattutto un melodista che lirizza e canta nel duetto tra Paolo e Francesca. Anzi, si può dire che la Francesca da Rimini contenga musica melodica e cantabile che riconduce le voci alla grande tradizione nostra, mentre l’orchestra si limita a descrivere, a commentare le melodie vocali. Riccardo Zandonai nella Francesca da Rimini ha dato libero sfogo al canto. Distaccandosi dalle opere precedenti, egli canta con spontaneità, con sincerità, con vera sentimentalità italiana, sicché troviamo interi periodi melodici che assumono valore drammatico e senso musicale ispiratissimo. Lo stridente contrasto che si rileva nel secondo atto che con le possenti sonorità e i suoi coloriti accesi sembra quasi una stornatura fra la squisita delicatezza del primo e la passionalità del terzo atto, è da ricercarsi nelle natura del libretto. Ed è appunto per secondare lo svolgimento dell’azione che lo Zandonai si rimette alla sua sapienza di sinfonista e di colorista. Infatti l’orchestra, dal primo tema grave e pesante per l’apparizione di Gianciotto, passa a descrivere l’impeto della battaglia in una fusione sinfonica perfetta, per poi riallacciarsi al tema di Paolo ed attaccare il quarto tema svolto sulla quarta corda degli archi, ritmicamente accompagnato dal battito del dorso degli archi sulle corde dei controbassi: accompagnamento caratteristico che fa rimanere perplesso il pubblico, il quale viene rianimato dalla fine dell’atto che è maestosa, imponente. 117 Senza più oltre attardarsi nell’esame dell’opera, dobbiamo riconoscere che Riccardo Zandonai nella sua opera ha saputo sposare, sapientemente sempre e spesso anche con commozione sincera, la ispirazione a quella del poeta in modo da porre in degno rilievo, forse anche accentuandolo, il disegno dell’opera d’arte. Da questa pura e schietta ispirazione, Riccardo Zandonai trae l’arte sua che è profondamente umana: per cui la meravigliosa leggenda dantesca evocata con grande efficacia rappresentativa da Gabriele d’Annunzio appare molto più chiara e compiuta, poiché vi spira, attraverso melodie attraenti e potenti sinfonie, l’alito di una nobilissima anima musicale. Gli è che la musica di Riccardo Zandonai, specie in Francesca, è squisitamente e modernamente italiana, nel sentimento, nel gusto e nell’ estetica stessa. Italianità che ci sarà dato apprezzare e considerare ancora di più nella nuova opera «Giulietta e Romeo». Dopo la rappresentazione della nuova opera potremo tornare a discutere della italianità della musica zandonaiana: per ora ascoltiamo, ammirando, la Francesca, racchiudendo la nostra sensibilità in una attesa febbrile. Forse dalle balze del fatidico Trentino scaturirà la ricca, limpida fonte d’italianità attraverso l’amore ed il desio accorato di Giulietta e Romeo. L’esecuzione L’esecuzione non poteva essere migliore. Sotto la vigile, sapiente, accurata direzione dell’autore, l’opera è stata presentata in una edizione nuova, diremmo quasi nuovissima. Riccardo Zandonai ha riconfermato la sua fama di un direttore fortissimo e mirabile per efficacia, per misura, per slancio, per sapienza di concertazione e di coloritore. Egli è stato festeggiatissimo e come autore e come direttore d’orchestra. Duplice successo, adunque, che torna ad onore dell’illustre musicista. Serata solenne, questa della Francesca da Rimini, e solennemente trionfale per Riccardo Zandonai. Il pubblico romano ha voluto riconfermargli tutta la sua stima ed esternargli tutta la sua riconoscenza evocandolo infinite volte al proscenio, insieme agli artisti tutti. La bacchetta animatrice del maestro ha trovato magnifica rispondenza di valore e di entusiasmo in tutti gli elementi dell’esecuzione, a cominciare dall’orchestra, che ha suonato splendidamente. E che dire degli interpreti tutti? Hanno gareggiato in bravura ed han fatto bene. Gilda Dalla Rizza, la mirabile artista che onora il teatro lirico italiano, reduce dalla trionfale tournée americana, si è affermata ancora una volta interprete eccezionale. La Dalla Rizza, che ha una voce bellissima, dolce e forte, vellutata e squillante, fresca ed estesa, intonatissima, la adopera con arte consumata. Per giunta, iersera, dimostrò d’aver inteso il personaggio dell’eroina dantesca, componendolo in una nobile linea d’interpretazione. Gilda Dalla Rizza è troppo nota ormai per doverci ripetere sulle sue qualità artistiche. Non v’è musicista che non la prescelga a interprete delle proprie opere. Ciò torna ad onore dell’esimia cantante ed è un giusto riconoscimento dei suoi meriti. Riascoltando Gilda Dalla Rizza dobbiamo constatare che la sua voce è sempre e più che mai la voce famosa che si piega a tutte le volontà della cantante, che ha sonorità ed estensione meravigliose, che in sé aduna la solidità del bronzo e la morbidezza del velluto e si erge arditissima nei punti più aspettati con note acute che sono raggi di sole in pieno meriggio. 118 Nella Francesca da Rimini ha riportato un successo personalissimo, inquantoché è la prima volta che si presenta al pubblico romano sulla parte della creatura zandonaiana. E bene ha fatto il pubblico romano a rimeritarla di vivi, calorosi, prolungati applausi. Degno compagno dell’esimia artista è stato il tenore Michele Fleta. Anch’egli, apprezzato e conosciuto dal pubblico romano, ha cantato con maestria ed ha fraseggiato con vigore d’intenzioni e con splendida chiarezza. Sono recenti i successi riportati dal tenore Fleta a Venezia e a Bologna ove è stato assai festeggiato e dove ha ottenuto successi lusinghieri. L’anno scorso al nostro Costanzi fu una rivelazione: nelle opere da lui eseguite seppe fare sfoggio della sua possente voce e della sua arte incomparabile. Fin da allora facemmo per lui le migliori previsioni. Ed infatti, nella prova di ieri sera, ha riconfermato le sue qualità d’artista valentissimo. La Francesca da Rimini è un’opera nella quale può mostrarsi la virtù di chi possiede un grande volume di voce. Il tenore Fleta, oltre che portare la sua virtù alla massima espressione di potenza, fu anche aderentissimo al personaggio di Paolo. Ebbe impeti – di passione e di spasimo – esteriorizzati con bella incisività. Sin dalle prime frasi egli avvinse l’uditorio colla potenza dei suoi mezzi vocali, squillanti ed omogenei, dando una calda suggestione alle frasi – che scolpisce con sentita espressione – e sensazioni profonde al pubblico che poté apprezzare ancora una volta il talento preclaro del valentissimo artista. Il tenore Fleta, in una parola, si è dimostrato un cantante superbo, il cantante dalle grandi risorse, dalle chiare note ampie e squillanti, che sa abilmente temperare la grande potenza del suo organo vocale colle delicate sfumature delle mezze voci e raggiungere così effetti canori felicissimi. Noi siamo lieti di registrare il nuovo successo romano. Accanto a Gilda Dalla Rizza e a Michele Fleta, per completare il terzetto, è giusto collocare il baritono Maugeri nella parte importantissima di Gianciotto. Il baritono Maugeri, nuovo per le scene del Costanzi, ha vinto una bella prova che l’ha posto magnificamente in luce. Egli ha fatto [della] tipica figura di Gianciotto uno studio assai accurato, lumeggiandovi le migliori doti della sua versatilità artistica. Ha saputo alternare le più soavi morbidezze vocali agli impeti drammatici di una parte che ha difficoltà pericolosissime. Si è dimostrato eccellente cantante per freschezza di voce e chiarezza di fraseggio, ornato di una voce intonata, bella, non priva di energia nell’accentuazione, vibrante nel registro più basso. Il suo canto fu assai espressivo. La voce che egli sa rendere dolce e insinuante poté prodigarsi sempre nei punti anche più scabrosi della sua ardua partitura e resistere fino all’ultimo atto, dove nella prima parte, nel duetto con Malatestino, fu particolarmente ammirato. Battesimo più felice e più propizio non poteva <non> avere il baritono Maugeri: successo che sarà l’inizio di altri ancora migliori nell’ attuale stagione lirica. Il tenore Palai Nello, buon cantante e coscienzioso artista, ha fatto della parte di Malatestino una creazione speciale, meritandosi vive acclamazioni. Altro successo da registrarsi nella lieta cronaca di questo spettacolo è quello del baritono Besanzoni. Il giovane e diggià provetto artista ha inaugurato le sue fatiche di quest’anno al Costanzi con una singolare interpretazione del personaggio di Ostasio. 119 L’anno scorso, quando debuttò nella Carmen sulle stesse scene del Costanzi, avemmo parole assai lusinghiere per il giovane baritono. Quest’anno poi, reduce da un fortunato giro nei migliori teatri americani, abbiamo riscontrato in lui qualità e pregi ancora maggiori. La sua voce sana, uguale, estesa: voce sonora e ferma, di carattere adamantino, è adatta alle opere di grande stile che richiedono forza di accenti e una declamazione robusta e una espressività convincente. Queste doti, il baritono Besanzoni ha dimostrate dinanzi al pubblico intelligente del Costanzi ed ha avuto in compenso accoglienze brillantissime. Di questo giovane artista avremo modo di riparlare più a lungo durante la stagione. Per ora ci limitiamo a segnalare il vivo successo ottenuto. Ed eccoci a Thea Vitulli, la Samaritana, l’artista bella e graziosa che si avanza per l’aspro sentiero dell’arte con passo rapido e sicuro. Thea Vitulli, l’anno scorso, ottenne uno schietto successo nell’opera del maestro Vittadini Anima Allegra. Alla distanza di un anno ha riportato un nuovo successo nell’opera del maestro Zandonai. È veramente notevole come la gentile artista cerchi di farsi strada nel campo lirico ed è veramente degna di encomio l’accuratezza singolare che dimostra in ogni personaggio che interpreta. Dotata di un temperamento artistico eccezionale, porta in sé tutta la vividezza, tutta la grazia, tutto il fascino dell’anima latina. La sua voce – di una purezza adamantina – ha trovato nella parte assegnatale dal musicista il mezzo più adatto per avere il proprio risalto. In tutta la parte – vibrante di vivo sentimento – essa fece sfoggio di una voce bellissima, calda, insinuante, di facile e pura emissione, felicissima nel registro acuto, confermando le sue doti di interprete versatile e perspicace. Le feste schiette e fervide che il pubblico le tributò furono segni non dubbi e ben lieti dell’unanime consesso dell’uditorio. Le quattro ancelle di Francesca erano impersonate dalle Sig.re Portes [Porter], Peresio [Perosio], Donati e Rettore – Cantarono efficacemente. – La Sig.ra Donati ebbe modo di sfoggiare delle belle note che le accattivarono la simpatia del numeroso pubblico. Gli è che la Sig.ra Donati ha una voce dolcissima, piena di risonanze, vellutata, che emette con singolare facilità. Con la sua bella voce accompagnata da un’arte da provetta artista ha dato vivo rilievo alla parte di Donella, parte ardua e difficoltosa. Una lode senza riserva spetta al coro egregiamente istruito dal maestro Consoli, il valente animatore di masse corali, prezioso ausilio di ogni spettacolo. Il maestro Consoli ha portato la massa corale alla migliore efficienza ed alla maggiore espressione di organicità e di ciò dobbiamo congratularci con lui. L’allestimento scenico, oltremodo luminoso, è parso superiore ad ogni previsione. Pericle Ansaldo, l’infaticabile ed apprezzato direttore di ogni spettacolo, ha dimostrato ancora una volta il suo aristocratico buon gusto. In complesso si tratta di uno spettacolo di ordine elevatissimo al quale tutta Roma accorrerà plaudente se non altro per onorare Riccardo Zandonai, l’illustre maestro trentino che rapidamente ascende verso la gloria lusinghiera. Non possiamo chiudere queste note di cronaca senza rivolgere il nostro incondizionato plauso ed i nostri vivi rallegramenti ad Emma Carelli che ha prodigata tutta la sua attività perché lo spettacolo riuscisse degnissimo del Costanzi, né è da dimenticarsi l’infaticabile cav. Poggioli che coopera con illuminata saggezza al buon andamento di tutto. Ottimi per voce e azione scenica il tenore Malfatti, il De Vecchi. [...](*) 120 ---------(*) L’articolo prosegue con un profilo del baritono Carmelo Maugeri. 177 “Francesca da Rimini” du maestro Zandonai, heureusement choisie pour l’inauguration de la saison d’opéra au Costanzi, a marqué un triomphe magnifique et aristocratique d’art ed te beauté, «L’Italie», 28.12.1921 Le public des grands événements scéniques se pressait hier soir dans la vaste salle du Costanzi. Les beautés féminines et les célébrités masculines les plus connues passaient dans le foyer et le long des couloirs suivies par un murmure d’admiration. Cet hommage de Tout-Rome au maestro Zandonai et à ses interprètes était vraiment émouvant. Personne n’avait voulu manquer l’occasion de témoigner au grand musicien et à la célèbre artiste Gilda della Rizza [sic] toute [riga saltata, n.d.r.] public romain. Lorsque M. Zandonai est monté sur le “podium” une vaste ovation lui a porté l’éclat du sentiment de sympathie des spectateurs. Et l’opéra a commencé tandis que la salle retentissait encore des applaudissements enthousiastes. L’opéra La renaissance de la musique orchestrale et symphonique a marqué en Italie le passage définitif d’une époque à une autre. Les derniers échos du romantisme mourant, retentissaient dans les œuvres des premiers symphonistes et Arrigo Boito, à l’audace innovatrice et à l’esprit original duquel nous devons le commencement de la réforme, écrivait en même temps le «Mefistofele» en musique et le «Re Orso» en prose. Les premiers efforts pour rentrer dans une ligne classique et traditionnelle, efforts qui aboutiront ensuite aux nouvelles écoles poétiques symbolistes et “verslibristes” sont facilement visibles dans le «Re Orso»; de même que les derniers cris du romantisme musical, ce romantisme qui produit toutes le œuvres de Verdi avant le «Falstaff», passent dans les harmonies de «Mefistofele». Et c’est à dessein que nous rappelons le nom d’Arrigo Boito au sujet de l’œuvre de Zandonai. On ne doit pas voir dans ce rapprochement une “diminutio capitis” pour la «Francesca da Rimini». Nous cherchons simplement à expliquer ainsi les raisons du contraste intime que la musique de Zandonai porte en son sein. C’est une œuvre née dans ces temps derniers, mais elle porte encore en elle les signes de cette lutte et de ces signes naît, étrange cas, une puissance de vie et d’humanité vraiment supérieure. Si la «Francesca da Rimini» avait été posée dans une formule, silencieusement, elle aurait été une œuvre morte. Ainsi, elle vit d’une vie puissante et originale, qui l’impose au public et à la critique. L’interprétation Nous avions annoncé hier que Mlle Gilda della Rizza à cause d’une indisposition avait dû renoncer d’interpréter le rôle de Francesca. Heureusement cette nouvelle était fausse: bien qu'un peu malade, Mlle della Rizza n’a pas voulu manquer cette superbe première et elle s’est présentée au jugement du public, sûre de sa compréhension. Mais sa voix, quoique un petit peu voilée, a triomphé de sa maladie et s’est répandue magnifique comme toujours dans la salle enthousiasmée. Elle a porté les vagues de l’harmonie la plus exquise dans un ensemble superbe; elle a su broder les soupirs et la volupté du troisième acte d’une façon absolument sans pareille. Son interprétation artistique, digne de nos plus grandes actrices, a donné à la figure de Francesca un relief tout particulier et une vie très humaine. Le triomphe de Mlle Della Rizza a 121 été énorme. Le public l’a couverte de fleurs et les ovations des admirateurs se suivaient innombrables. La voix du ténor M. Fleta a, elle aussi, très bien caractérisé la personnalité de Paolo et M. Maugeri (Gianciotto), M. Palai (il Malatestino), M. Besanzoni (Ostasio) et tous les autres ont été dignes de leur grands partenaire. On ne pouvait, en somme, s’attendre à rien de mieux, on ne pouvait espérer un succès plus complet pour cette inauguration, qui a vraiment marqué un triomphe aristocratique et sans pareil d’art et de beauté. [...] 178 [Costanzi], «Musica» XVI/1, 15.1.1922 Il Costanzi la sera di Santo Stefano era affollato, riboccante di tutto il miglior pubblico artistico, letterario, mondano della capitale, accorso ad ascoltare una delle opere moderne che più si fanno applaudire per la severa concezione drammatica, per la poetica coloritura della musica e per il cesello orchestrale: cioè la «Francesca da Rimini» diretta dall’insigne autore Riccardo Zandonai. L’accoglienza fu quale siamo soliti a registrare in tutte le città d’Italia ove l’opera si era presentata. La musica dello Zandonai è come una ragnatela di soavissima malinconia, i cui fili iridati di rugiada avvolgono l’anima di una rete nostalgica e disperata. Non conosco autore che renda più pittoricamente quella vita medioevale intessuta di sfarzi e di povertà, di canti e di urli, di abbandoni e di lotte, di amore e di morte, quale ormai si dipinge la nostra fantasia assuefatta a sognare nelle viuzze sotto i portici entro le mura delle nostre antiche e gloriose città, quando i merli le altane. [?] L’insieme degl’interpreti dell’opera è veramente pregevole: Gilda Dalla Rizza (Francesca), benché manifestasse specie nel 1. atto i segni della convalescenza, si mantenne all’altezza della sua fama; Michele Fleta (Paolo) fu un po’ rigido come attore ma cantò con squisito sentimento e buon gusto; ottimo sotto tutti i rapporti il Maugeri (Gianciotto) e molto bene a posto Nardi (Malatestino) [...] 179 La settimana al Costanzi, «Le Maschere» IV/2, 16.1.1922 Si sono alternate recite di «Francesca da Rimini», de «I Maestri Cantori» e di «Tosca». Ne la «Francesca da Rimini» la parte della protagonista fu ripresa dalla valorosissima signorina Rinolfi, che – in verità – aveva cantato, vestita fin anco in costume, fino alla prova generale dell’opera. A noi sfuggono le ragioni per le quali ella non “montò”, come aveva fatto a Pesaro, l’opera dello Zandonai; ma giungiamo in tempo a proclamarla artista dai mezzi vocali poderosi e bellissimi e dalla dizione buona e corretta. Saremo felici di giudicarla ancora in un’opera di repertorio [...] ----------------------------------------------------------------------------------------- Firenze 1921 (180-181) 180 Ildebrando Pizzetti, Francesca da Pergola, «La Nazione», 19.3.1922 Rimini di Riccardo Zandonai alla L’opera di Riccardo Zandonai ha vinto un’altra bella vittoria. 122 Il pubblico – magnifico per numero e per qualità, ché il teatro era gremito in ogni ordine di posti, e vi erano molte delle più cospicue personalità del mondo fiorentino – il pubblico è stato preso dalla facile delicata grazia dei canti del primo atto, dalle imponenti sonorità del secondo, dalle belle scene drammatiche e dal calore melodico del terzo, e dalle aspre e violente scene, sapientemente accompagnate dalla musica, del quarto atto, ed ha applaudito con calore, spesso con entusiasmo, ad ogni fin d’atto, ed anche a scena aperta, là dove l’animo suo numeroso e composito è stato più vivamente toccato da un felice sgorgo di canto, o da un potente scoppio sonoro delle voci e degli strumenti, o da un bell’accordo drammatico. Bisogna dir subito che gli applausi, espressione di consenso e di ammirazione, sono stati indirizzati non solo all’opera ma anche, e talvolta principalmente, alla interpretazione e all’esecuzione, veramente ottime. L’aver concertato in pochissimi giorni, ottenendo i risultati che ha ottenuto, un’opera complicata e piena di difficoltà insidiose come è la Francesca da Rimini dello Zandonai, è una nuova prova, e validissima, della singolare intelligenza e della grande esperienza del M.o Giacomo Armani. Sotto la sua direzione attenta vigile e calorosa, orchestra e artisti e cori hanno collaborato concordemente a un’esecuzione in tutto degna di un grande teatro. La signora Isora Rinolfi ha dato al personaggio di Francesca prestanza di persona, amorevole cura di atteggiamenti e di gesti, e la bellezza di una voce estesa e calda e bene intonata, Il tenore Barra è stato un Paolo di prim’ordine, per la bellezza e l’eguaglianza e il vigore della voce e per l’efficacia scenica. Magnifico Gianciotto il baritono Morellato: voce ampia, potente, ricca di accento e di colore, e azione efficacissima. Eccellente Malatestino il tenore Angelo Algos, e lodevolissimo, fra l’altro, per la chiarezza della dizione. E lodevolissimi anche gli interpreti secondari, fra i quali citeremo particolarmente la sig. Romanelli (Samaritana) e Pina Serra (Smaragdi). L’orchestra ha sonato in modo degno della più viva ammirazione, e così ha cantato il coro, istruito dal M.o Naegel. Decorosissima, anzi ricca, la messa in scena. ** Eccettuati i due più cospicui rappresentanti di quella che vent’anni fa si chiamava, e v’è chi continua a chiamarla così, la giovine scuola italiana, Riccardo Zandonai è oggi il più fortunato fra gli operisti italiani. E meritevolissimo egli è di fortuna, per la onestà e dirittura della sua attività, per il sincero amore con cui concepisce e compone le sue opere, per lo studio ch’egli pone a renderle in ogni loro parte bene ornate e quanto più sia possibile chiare e perfette e interessanti. Artista di una sensibilità docile e corriva, lo Zandonai ha facile e abbondante l’invenzione di motivi chiari e piacevoli: e possiede una tecnica armonistica ricca e varia, che gli permette di modificare sapientemente secondo le convenienze sceniche l’espressione dei temi, ed ha una sensibilità ritmica che gli giova a rendere anche con un semplice disegno ritmico la figura di un personaggio. Ed egli è un mirabile conoscitore dell’orchestra, che usa, relativamente alla sua concezione musicale, non solo con sicurezza ma con maestria. Dovendo poi dire il nostro parere sul valore dell’arte dello Zandonai, noi diremmo che se l’«in medio virtus» potesse riferirsi anche all’arte, Riccardo Zandonai dovrebbe essere considerato come uno dei più grandi maestri viventi e la sua Francesca da Rimini come un capolavoro. Una concezione propria e particolare, o comunque chiara e precisa del dramma, egli, a parer nostro, non l’ha, ma ha adottato e pratica una forma drammatica musicale che sta fra il melodramma tradizionale 123 ottocentesco e il dramma musicale quale lo perseguirono e tentarono i precursori italiani del primo seicento e poi Gluck, Wagner, e Debussy fra i moderni, ma senza avere né la chiarezza e la purezza dei melodrammi dell’800 né i deliberati ardimenti degli altri maestri che abbiamo nominato. Egli canta, come alcuni direbbero, all’italiana, ma i suoi temi, nati e cresciuti in medio, non generano, come nel melodramma ottocentesco, larghi e compiuti organismi musicali rispondenti a una necessità estetica lirica: e spesso egli canta là dove i nostri antichi maestri avrebbero posto un semplice recitativo, mentre poi compone un semplice recitativo, ancorché accompagnato da piacevoli eleganti ingegnosi giochi strumentali, là dove i nostri vecchi maestri avrebbero trovato motivo e materia di canto (e avrebbero chiesto e voluto, giustamente, una poesia favorevole al loro canto). E se si considera la materia musicale delle opere dello Zandonai, e della Francesca particolarmente, se si considerano cioè i temi, e gli accordi che li generarono e li accompagnano, e la ritmica dei temi stessi e degli accompagnamenti, e lo strumentale, ci si trova ancora e sempre, o siam noi che ci inganniamo, in medio. Temi che hanno una loro propria organicità, e una loro propria originalità, ma che per questo o quel particolare della loro struttura e per la loro espressione si possono accostare a cento altri: e lo stesso intendasi dei ritmi complementari, delle armonie, dello strumentale. E dei personaggi delle opere dello Zandonai, e di quelli della Francesca in particolare, si può dire, sebbene la loro declamazione sia piuttosto monotona, troppo spesso amplificazione sonora di una recitazione retorica, si può dire che essi hanno, nella espressione musicale, una qualche caratteristica che li fa diversi e abbastanza vivi da interessare il comune spettatore (Francesca e Paolo cantano motivi dolci e di una sentimentalità erotica, Gianciotto ha accenti rudi ed aspri, Malatestino ha accenti crudi e striduli, e le ancelle cantano dolci cantilene non prive di freschezza giovanile); ma una loro propria e singolare vita musicale, una vita quale hanno nella tragedia dannunziana (non vogliamo toccare, per carità!, di quella che hanno nel divino canto dantesco) essi, a parer nostro, non l’hanno. Arte, insomma, concepita da un artista di grande e ammirevole rettitudine e coscienziosità, il quale non conosce le bassure paludose in cui l’uomo s’infanga (ma chi abbia il coraggio e la forza di attraversarle, quanto vigore e quanta chiarezza di coscienza acquisterà!) ma neppure guarda alle altezze che innalzano l’uomo il quale pur solamente le contempli con l’aspirazione di attingerle. Arte di un artista che ama vivere a mezza costa del monte della conoscenza, contento di limitati orizzonti e schivo di numerosi contatti umani. Onde la speciale felicità e bellezza di certe sue espressioni musicali crepuscolari, come, per esempio, le pagine dolcemente malinconiche e tremanti di lieve angoscia là dove Smaragdi sta alla finestra a scrutare il cielo per vedere se torni lo sparviero sperduto e Francesca ha il presentimento della venuta di Paolo. Ma nonostante tutte queste cose che abbiam detto, ed anzi appunto per tutte queste cose, l’arte di Riccardo Zandonai ha in sé le ragioni di quella sua fortuna che dicevamo prima: in quanto, cioè, essa non turba le aspirazioni estetiche del pubblico medio, ma anzi a queste risponde in modo esauriente e pacifico. Guardate, per un esempio (uno dei tanti che si potrebbero citare), guardate alla scena finale del primo atto. Francesca ha visto Paolo, e si copre la faccia con le mani, poi si discopre «e appare trasfigurata», e stretta nelle braccia della sorella «d’improvviso dà in un pianto», e poi repentinamente ride un luminoso riso, e poi dice alla sorella: «Ah tu ora, tu ora pigliami, cara sorella, tu ora pigliami, e me con te. 124 Portami nella stanza e chiudi la finestra, e dammi un poco d’ombra, e dammi un sorso d’acqua, e ponimi sul tuo piccolo letto, e con un velo ricoprimi e fa tacere queste grida, fa tacere queste grida e il tumulto che ho nell’anima mia!» Parole – ponete mente a quelle frasi spezzate, a quelle congiunzioni affannose, e a quel desiderio di ombra e di refrigerio – parole che avrebber voluto essere dette con appassionata concitazione, e in un ritmo quasi convulso, e intonate in un’armonia mossa e di tonalità instabile: e invece son distesamente cantate in un largo arioso unitonale del quale il compositore stesso definisce il carattere con le indicazioni «calmo, pianissimo, dolcissimo». Un’espressione che contrasta alla ragione drammatica, alla ragione scenica, e allo spirito e alla forma del testo poetico; ma non contrasta, ecco il punto, a quella intuizione generica della donna amante, si chiami questa Francesca di Guido da Polenta o con tutt’altro nome, che il pubblico medio porta seco alla superficie della sua coscienza. Contrasterebbe anche con questa intuizione, e anche il pubblico medio ne sarebbe urtato, soltanto se fin dalle prime note dell’opera musicale un creatore di genio avesse strappato il pubblico dalla piccola realtà della sua vita quotidiana e l’avesse portato su su, a quelle altezze dove splendono e vivono le cose eterne. ** Già abbiamo detto come questa edizione della Francesca di Riccardo Zandonai sia tale da meritare quel pieno favore del pubblico che ieri sera ha ottenuto (non meno di 14 chiamate, agli artisti e al M.o Armani). È uno spettacolo che, per l’opera in ogni modo interessantissima, e per l’eccellenza degli interpreti e per la bellezza della messa in scena, deve essere visto e ammirato e applaudito. La prima delle repliche, che crediamo saranno numerosissime, sarà dato stasera alle ore 8,45. 181 C., Una eccezionale rappresentazione della «Pergola», «Il Nuovo giornale», 29.3.22 Francesca da Rimini alla La rappresentazione della «Francesca da Rimini» del m.o Zandonai datasi ieri sera alla Pergola ha assunto un carattere di eccezionale solennità per la presenza dell’illustre autore e della principessa Mary d’Inghilterra col consorte Visconte di Lascelles, ospiti graditi della nostra città Il teatro era gremito in ogni sua parte del pubblico più elegante di Firenze: in un palco era il Sindaco comm. prof. Garbasso, e in un altro il rappresentante del Prefetto; numerosissima la colonia straniera. La «Francesca da Rimini» fu eseguita in modo eccellente dai soliti interpreti e diretta con rara valentia dal mo. Giacomo Armani; molto applaudito fu il giovane ed eccellente tenore Barra, che venne complimentato anche dall’autore; la signora Rinolfi, che aveva terminati i suoi impegni, era stata sostituita da un’altra eletta artista, la signora Giulia Tess, che per quanto fosse andata in scena senza prove, ottenne un vivissimo successo per l’arte squisita con la quale interpretò la difficile parte della protagonista. Il mo. Riccardo Zandonai fu vivamente festeggiato ed acclamato alla fine di ogni atto e dovette presentarsi innumerevoli volte al proscenio, in mezzo agli applausi più calorosi del pubblico che volle manifestargli la sua ammirazione e il desiderio di rivederlo presto fra noi a dirigere la «Giulietta e Romeo», l’ultimo suo applaudito lavoro. Dopo il 3.o atto, il più bello e suggestivo dell’opera, venne presentata al maestro una corona d’alloro, con nastro tricolore, offerta dai trentini residenti a Firenze. 125 Anche la principessa Mary, che insieme al consorte e al seguito aveva preso posto nel palco reale ed era stata oggetto della deferente ammirazione degli spettatori, volle congratularsi col valoroso autore e lo fece pregare di recarsi da lei. Il maestro Zandonai si trattenne per ima diecina di minuti a colloquio con la Principessa, la quale, parlando in italiano, dimostrò al maestro tutto il suo compiacimento. Lascelles ricordò, fra l’altro, le rappresentazioni di « Francesca» date nel 1914 al Covent Garden di Londra. Infine il pubblico, chiamando ancora il maestro al proscenio, volle dargli non un addio, ma un festoso arrivederci. [...] ----------------------------------------------------------------------------------------- Catania 1922 (182) 182 g.d.s., La prima di Francesca da Rimini al Teatro Massimo, «Giornale dell’isola», 13.4.1922 Dobbiamo confessare candidamente il nostro errore: noi conoscevamo l’opera che contiene nelle sue pagine i più avanzati azzardi della tecnica musicale moderna, conoscevamo il nostro pubblico poco adusato, per difetto non di possibilità intellettuale ma di istituzioni educative, a tale genere di musica elevatissima nella forma e nell’ espressione melodica, ed in conseguenza avevamo avanzato i nostri dubbi sul successo che la «Francesca da Rimini» avrebbe conseguito. Ci rende ora assai lieti la costatazione d’aver ricevuto ieri sera la più chiara smentita. A giudicare dagli applausi che coronarono ogni atto di questa bella opera di Zandonai, non si può non riscontrare nel nostro pubblico una magnifica capacità intellettiva, una confortante maturità di gusto. E ciò, malgrado smentisca le nostre previsioni, ci riempie l’animo di soddisfazione e di orgoglio. L’opera fu presentata ieri sera in un insieme degno d’ogni elogio per merito primo di Eduardo Vitale che dell’ardua partizione, irta di difficoltà tecniche quasi insormontabili, si rese interprete ed animatore magnifico. Egli ne ha curato ogni particolare con coscienza d’artista, con magistrale perizia, ottenendo dall’orchestra degli effetti sorprendenti, e dall’insieme una fusione perfetta, una esecuzione ricca di quei coloriti indispensabili perché tutte le intenzioni dell’autore si rivelino. E non possiamo non rivolgere a tutti gli oscuri elementi dell’orchestra il nostro caldo elogio per l’assidua cura e per l’esattezza con cui mostrarono di seguire l’energica bacchetta del duce, ed una speciale lode ai maestri Barberi, Benvenuto e Indovino alla cui vigilanza era affidato il palcoscenico. Lina Scavizzi, giunta a noi come un nome nuovo, fu una rivelazione. Una intelligenza superiore, un’anima esuberante d’artista, un senso squisito di femminilità le permetterono [sic] di penetrare il dramma talmente da trasmettere al pubblico tutta la travolgente passionalità. Compone il personaggio di «Francesca» con la più bella nobiltà di linea che sa mantenere anche quando appare travolta dalla tragica passione, e con la sua voce caratteristica che sa carezzare col sospiro e straziare con l’urlo, esprime il dolore, l’amore e la voluttà in modo da suscitare la più intensa commozione. «Paolo» era Carmelo Alabiso, il nostro concittadino che tanto lieto ricordo aveva lasciato fra noi. 126 Pochi tenori oggi possono con la voce sorpassare l’orchestra in molti brani di quest’opera; ma la voce di Alabiso è di tal timbro metallico ed è così ricca di sonorità e di squillo da permettergli qualunque lusso, anche quello, per esempio, di farsi sentire in mezzo agli urli, vocali e strumentali, del secondo atto. Ed oltre a ciò seppe dimostrarsi ottimo cantante, specie al terzo atto, dove la freschezza della melodia e la eleganza del ritmo esigono delle sfumature di voce ed uno stile nobilissimo di canto. Ma chi entusiasmò addirittura fu il baritono Pacini, che diede al personaggio di «Gianciotto» una meravigliosa vigoria. Sin dal secondo atto apparve sicuro di sé e dei suoi mezzi, ma si rivelò attore ed artista magnifico nel quarto atto, nel duetto con Malatestino, dove la sua voce ed il suo canto raggiunsero una potenza d’espressione affatto degna della grande tragedia. E con lui il tenore Gerardi visse il personaggio di «Malatestino» con intelligenza assai rara, con verità sorprendente e servendosi della sua bella voce in modo da esprimere tutta la infantile ferocia del bieco giovanotto. Nell’insieme uno spettacolo di prim’ordine. Anche le seconde parti furono degne di lode: il Lo Giudice fu un «Giullare» assai caratteristico, pieno di garbo e di misura; il Galli un vigoroso «Ostasio»; il Malincow un ottimo Torrigiano. La Briganti nelle vesti di «Samaritana», la De Franco, «Smaragdi», e le quattro ancelle di Francesca, la Piccioni, la Bonabitacolo e le sorelle Benf, illeggiadrirono la scena con la freschezza delle loro voci argentine e con l’esattezza del loro canto. Indubbiamente quest’opera avrà una fortunata serie di repliche. ----------------------------------------------------------------------------------------- Ascoli 1922 (183-187) 183 La «Francesca» da Rimini al Ventidio di Ascoli Piceno, «Il Giornale di Ascoli», 27.11.1922 La viva attesa che ha preceduto l’andata in scena della Francesca da Rimini, diretta dall’autore, l’illustre maestro Riccardo Zandonai, non è andata delusa perché il pubblico ascolano, abituato ad assistere agli spettacoli lirici, ieri sera ha ammirato, nella grande opera, una musica deliziosa, fine, penetrante che si differenzia completamente da tutte le altre opere. Fin dalle ore 8.30, ora in cui si aprirono i battenti del Ventidio Basso, una folla enorme prese d’assalto l’ingresso. Tutta Ascoli accorse a celebrare il maestro Zandonai, ravvisando in lui, oltre il fratello irredento, il grande musicista che onora l’Italia nel mondo. Nella platea, nei palchi, nella galleria, nel loggione un pubblico eccezionalmente folto, meravigliosamente attento assistette alla première della grande opera applaudendo entusiasticamente autore e artisti. Alle ore 21 precise, quando il maestro Zandonai sale sul podio direttoriale, un grande applauso si scatena in tutto il teatro all’indirizzo dell’autore, applauso che si ripercuote per alcuni minuti. Il maestro Zandonai, vivamente commosso, ringrazia della grandiosa dimostrazione di simpatia e dà subito il segnale all’orchestra per l’ inizio. Fin dalle prime battute si ha la visione che il maestro Zandonai trasfonde in essa tutta l’anima sua d’artista, tutto il tesoro raro di una direzione che è sicura guida, forza d’anima e avvincente fascino. La sua mirabile bacchetta elettrizza e fonde nel modo più perfetto orchestra e palcoscenico, riuscendo a raggiungere la massima perfezione. 127 Gli artisti tutti, parti principali e secondarie, il coro, hanno cantato con passione riscuotendo grandiosi applausi. La nostra concittadina Linda Barla-Ricci, che per la prima volta ha cantato nella nostra città, è stata una protagonista insuperabile, una intelligenza superiore all’anima esuberante d’artista un senso squisito di femminilità, le permettano di penetrare il dramma talmente da trasmettere al pubblico tutta la travolgente passionalità. Compone il personaggio di Francesca con la più bella nobiltà di linea che sa mantenere anche quando appare travolta dalla tragica passione, e con la sua voce caratteristica che sa carezzare col sospiro e straziare con l’ urlo, esprime il dolore, l’amore e la voluttà in modo da suscitare la più intensa commozione. Nel duetto del terzo atto con Paolo il Bello, il pubblico ha potuto ammirare i suoi potenti mezzi vocali, improvvisandogli una imponente manifestazione. Il tenore Socrate Caceffo ha impersonato la figura di Paolo il Bello in modo impeccabile, gareggiando con la Barla a rendere lo spettacolo di prim’ordine. L’interpretazione data al personaggio di Paolo il Bello ha attirato su di sé l’attenzione del pubblico, che è stato conquistato completamente a suo favore. Di lui non ci soffermiamo a fare le lodi che tutti gli fanno; sarebbe superfluo, poiché la prestanza della sua persona, la chiarezza della voce, la intelligenza che dimostra lo indicano un artista superiore che non ha bisogno di reclame. Il baritono Enrico Roggio è addirittura un creatore della parte di Giovanni lo sciancato (Cianciotto). L’ottimo artista ha fatto un particolare studio per interpretare la figura di questo feroce e disgraziato personaggio, tanto che non si potrebbe concepire una esecuzione di Francesca senza la sua valida cooperazione. Nella cura dell’interpretazione che sa dare con meravigliosa efficacia, ha conquistato il nostro pubblico per la sua voce potente, intonata e stupenda nel timbro. Il tenore Treves Gino ha interpretato la parte di Malatestino dall’ occhio con grande efficacia e con ottimi mezzi vocali, riuscendo a dare al personaggio una ferocia eccezionale. La parte di Samaritana è stata interpretata dalla soprano Irma Miore, la quale per la sua voce chiara e fresca ha avuto la sua parte di applausi. Il basso Carlo Scattola ha interpretato meravigliosamente la parte del Giullare. Questo artista che per la prima volta ha cantato nella Francesca ha mezzi vocali ottimi ed è stato magnifico per potenza di voce e per efficacia di azione. Ottimamente hanno cantato pure Giunta Enrico nella parte di Ostasio, Mazza Aurelio del Torrigiano, Santoro Ascocina, Nobili Lina, Squarzini Luisa e Marocolini Vittoria che sono state ancelle insuperabili e la Fambri Debora, un’ottima schiava. Il coro è stato degno del suo maestro, il cav. Everaldo Bernardelli. Meravigliosa la messa in scena e ottimi gli effetti di luce. Per la cronaca, gli artisti sono stati chiamati, unitamente al maestro Zandonai, al proscenio tre volte nel primo atto, due volte nel secondo, tre volte nel terzo e alla fine del quarto, prima che il pubblico abbandonasse il teatro, ha improvvisato a tutti gli artisti ed al maestro una grande ovazione. Alla fine del secondo atto, i legionari fiumani hanno donato al maestro Zandonai una grande corona d’alloro con i nastri dei colori di Fiume, ciò che ha fatto scattare il pubblico in un grande applauso all’ indirizzo dell’acclamato autore e a D’Annunzio. La corona era portata dai legionari Mercolini Luigi e Costantini Luigi. L’opera, che è stata accolta dal grande favore del pubblico, sarà rappresentata ancora per parecchie sere. [...] 128 184 G.S. Squarcia, La «Francesca da Rimini» al «Ventidio» di Ascoli, «Il giornale d’Italia», 29.11.1922 La serata di ieri sera per la prima di Francesca da Rimini era attesissima ed aveva richiamato al Ventidio Basso una folla elegantissima; moltissimi i forestieri provenienti dall’Abruzzo e dall’ alta Marca. La sala, sfolgorante di luce, presentava un colpo d’occhio magnifico e i palchi, in ogni loro ordine, raccoglievano quanto di più bello, ricco ed elegante vanti la vita femminile ascolana. L’attesa era veramente febbrile e appena è comparso il maestro Zandonai ed è salito sul podio, il pubblico gli ha tributato una entusiastica ovazione. Quindi si è iniziato il primo atto tra vivissima attenzione; il pubblico è rimasto subito soggiogato dalla singolarità e dalla finezza artistica del grande compositore trentino, che pone nella direzione della sua opera un fervore mirabile ed una animazione perfettamente cerebrale, raggiungendo così un grado altissimo di fusione tra il suono e la voce; onde l’uditorio si sente rapito e conquiso da un godimento più che estetico, interiore: e tutti i sentimenti che muovono ed agitano i personaggi della tragedia dannunziana passano, per il magistero divino dell’artista, nell’anima degli spettatori. Alla fine del primo atto, che si conchiude con la poetica visione di Paolo mentre l’orchestra esprime la passione di Francesca con pagine veramente sublimi, il pubblico scatta in un applauso entusiastico, interminabile E l’applauso agli artisti che compaiono al proscenio si ripete per quattro volte; ma il pubblico delirante vuole il Maestro, e Zandonai appare ed è fatto oggetto di una ovazione grandiosa, insistente, scrosciante. Zandonai, abituato ai trionfi, sembra commosso di questa imponente dimostrazione che non ha fine. Infatti per ben quattro volte, sempre fra uragani di applausi, il pubblico ascolano vuole il Maestro al proscenio per dire ad esso la sua riconoscenza, la sua ammirazione, il suo amore. Gli altri atti hanno segnato tanti nuovi trionfi così per l’opera come per l’autore magnifico, insuperabile. Non cadremo nella volgarità di fare alcun esame particolare della Francesca da Rimini, perché dal 1913 i più grandi pubblici italiani consacrano con i loro autorevoli giudizi la magnificenza del lavoro: e i più celebrati critici musicali ne esaltarono tutti i tesori d’arte. Diremo soltanto che le nostre previsioni ebbero, dal grandioso successo di iersera, completa realizzazione, e questa è stata anche superiore alle nostre aspettative, unanime tra i migliori intenditori di musica raccolti ieri sera nel nostro Massimo, e favorevole è stato il giudizio su questa edizione ascolana di Francesca da Rimini, la quale richiamerà certamente largo concorso di pubblico nelle recite successive. Dovendo parlare degli artisti, dobbiamo porre al primo posto la sig.a Linda Barla Ricci. Senza farci guidare da predilezioni campanilistiche – da notarsi che giustamente il pubblico un grande particolare applauso alla sua esimia concittadina soltanto alla sua rientrata nel secondo atto – dobbiamo dire che la Barla ha una voce ben timbrata, agile, fresca, voluminosa e la usa con metodo e con intelligenza da grande artista. Ed è una grande artista anche nella parte drammatica dove supera le enormi difficoltà rappresentative mercé lo speciale sussidio della sua non comune intelligenza. Mion Irma, la Samaritana, ha cantato con accorata passione, ponendo in valore i pregi della sua bellissima voce. Il baritono Enrico Roggio, Giovanni lo sciancato, è stato singolarmente ammirato perché alla 129 preziosa dovizia dei suoi eccezionali mezzi vocali aggiunge virtù sceniche davvero felici ed efficaci. Socrate Caceffo, tenore nella parte di Paolo il Bello, ottiene risultati eccellenti: possessore di una voce magnifica per estensione, colore e morbidità, sa valersene per il più grande successo anche nella interpretazione scenica in cui egli raggiunge la perfezione. Mazza Aurelio, Ostasio, si è confermato buonissimo artista, Treves Gino è stato un Malatestino incomparabile. Buonissime cantanti, degne di parti assai più notevoli, sono state le donne di Francesca, signorina Lina Nobili che ha bellissima voce, scuola perfetta e quindi un brillante e prossimo avvenire artistico; così dicasi delle altre, Annina Santoro, Biancofiore; Luisa Squazzina, Altichiara; Vittoria Marcolini, Donella; Debora Fambri, la Schiava. Ottimi cantanti sono stati Enrico Giunta, Ser Toldo Berardengo; Carlo Scattola, un Giullare che per la voce e per la maestria fa della sua parte una vera creazione personale. I cori, preparati abilmente e diretti dal valente maestro Bernardelli, hanno ottenuto un vero ed autentico successo per precisione, affiatamento ed esecuzione senza mende. Dovrei parlare dell’orchestra; ma non è facile dire in breve ciò che si dovrebbe pur dire per rendere appieno il sentimento di ammirazione suscitato in tutto il pubblico. Dirò solo che Zandonai ha giustamente preteso – e lo ha ottenuto dallo slancio del benemerito impresario Albertarelli – un complesso orchestrale degno della singolarità e difficoltà dello spartito. A questo complesso privilegiato il Maestro trentino ha richiesto un atto di speciale devozione. Così si è giunti alla fusione di un corpo orchestrale degno di un teatro metropolitano. Aggiungasi che le straordinarie virtù animatrici della bacchetta di Riccardo Zandonai hanno completato il miracolo; e giunto a questo punto, cioè a questa conclusione, a me pare che non abbisognano altre parole per dimostrare che il pubblico ebbe tutte le ragioni di decretare il trionfo dell’intero spettacolo. E il successo della stagione deve anche attribuirsi al Sindaco mari e alla deputazione teatrale che furono in ogni difficoltà e controversia coraggiosi ed instancabili. 185 La Francesca da Rimini diretta dal m. Zandonai al «Ventidio Basso», «La Tribuna», 29.11.1922 (tronco) ASCOLI PICENO, 28. – Ieri sera, come era stato annunziato su queste colonne, ha avuto luogo l’apertura della tradizionale stagione lirica autunnale nel nostro teatro «Ventidio basso», restaurato e completato con i più moderni impianti della tecnica teatrale. L’opera scelta per la riapertura è stata la Francesca da Rimini del maestro Riccardo Zandonai, il quale è venuto espressamente in Ascoli per concertare e dirigere l’esecuzione dell’opera perché riuscisse – come è riuscita – assolutamente perfetta. Il concorso del pubblico Chi non conosce le usanze e le tradizioni della nostra vita provinciale, non riesce facilmente ad intendere la ragione dell’eccezionale concorso di pubblico a spettacoli come quello di ieri sera: l’opera lirica ha il culto istintivo delle nostre laboriose popolazioni, che in tutte le loro classi, dagli operai ai latifondisti, dagli studenti ai professionisti e agli impiegati, partecipano come ad un rito a questi spettacoli, manifestando il più alto fervore per queste pur elettissime forme della espressione artistica. 130 Così ieri sera, da ogni parte del Piceno e dell’Abruzzo, accorsero numerosissimi appassionati, formando gruppi e carovane automobilistiche che trasformarono la via prospiciente il teatro in un rombante parco automobilistico. Parecchie ore prima dello spettacolo non solo gli alberghi, ma tutti i ritrovi cittadini apparivano affollati di forestieri, mentre gli ultimi arrivati si arrabattavano per assicurarsi un posto per assistere alla interessante première. La notizia che il maestro Zandonai era giunto nella città e dopo aver diretto le prove aveva dichiarata la sua soddisfazione per il perfetto allestimento dell’opera, rendeva più vivace e confidente l’attesa. Lo spettacolo che presentava la sala del teatro è veramente meraviglioso. Un pubblico foltissimo ed eletto gremiva ogni ordine di posti che sembravano insufficienti, nonostante gli ampliamenti ed adattamenti testé apportati al teatro, a contenerlo tutto. I palchi accoglievano il fior fiore della intellettualità maschile e femminile della città e delle regioni confinanti, mentre sulla uniformità degli abiti da sera mettevano una nota di vivacità e di eleganze le ricche toilettes e lo sfolgorio dell’avvenenza muliebre. Assistevano allo spettacolo anche le autorità civili e militari, dal prefetto comm. Wenzel al sindaco Mari, con una brillante rappresentazione dell’ufficialità del presidio. L’esecuzione Appena il maestro Riccardo Zandonai è salito sul podio direttoriale, il pubblico imponente lo ha salutato con una spontanea, vibratissima manifestazione di simpatia. Non riferiamo la trama della tragedia che il giovane e fecondo maestro Zandonai ha animato colla sua musica perché la dolorosa storia di Francesca è entrata ormai a far parte del patrimonio intellettuale del nostro popolo che l’ha sentita narrare da Dante a Pellico, a d’Annunzio in forma diversa, ma con identità sostanziale di contenuto. Limitandoci a dar conto dell’esecuzione e della interpretazione che della tragedia lirica ci hanno dato l’autore e gli artisti, dobbiamo anzitutto riconoscere che non era possibile raggiungere un più alto grado di affiatamento e di unità artistica: il maestro Zandonai ha saputo fondere e costringere sotto la sua energica direttiva ogni particolare virtuosità degli interpreti, in modo che l’opera si presentasse come una cosa viva e sintetica, ed il pubblico ricevesse l’ impressione complessiva e generale e su di essa formasse il suo convincimento ed il suo giudizio. Questa unità di interpretazione e di esecuzione dà il maggior valore agli applausi scroscianti che ripetutamente, alla fine di ogni atto salutarono l’Autore ed i suoi valentissimi collaboratori, i quali tutti, dall’orchestra ai protagonisti, dai comprimari al coro, contribuirono efficacemente al trionfale successo dell’opera. L’aver saputo imporre sin dalla prima sera ad un pubblico – le cui preferenze per la musica melodica sono conformi a quella che è la tradizione prevalente in Italia, un’opera in cui predomina l’ampio svolgimento sinfonico, e che ha una coloratura impressionistica delle più moderne ed originali – è indubbiamente un merito grandissimo del maestro Zandonai, che ha saputo non soltanto presentarci una superiore esecuzione dell’opera già così favorevolmente giudicata da uditori assai più esperti e raffinati del nostro, ma anche e sopratutto far comprendere e gustare l’opera stessa al nostro pubblico il cui interessamento allo spettacolo è ormai completamente assicurato. 131 Ha avuto particolare rilievo nella esecuzione la seconda parte del primo atto, quando nella preparazione degli spiriti al momento culminante dell’azione, con l’incontro di Paolo con Francesca e il dono della rosa vermiglia, la musica, con un largo svolgimento in cui vibra come il presentimento della erompente passione, crea attorno ai tragici amanti un’atmosfera quasi mistica, mentre nel fondo della scena un rosso tramonto adriatico incendia gli intercolumni della Pineta ravennate. Il grandioso effetto del finale del primo atto è stato favorito anche dal magnifico scenario e dal felicissimo gioco delle luci che hanno saputo riprodurre alcuni di quegli effetti per ottenere i quali, nei più grandi teatri si è dovuto ricorrere alla cupola Fortuny. Nel secondo atto ha avuto il massimo rilievo la scena iniziale tra Paolo e Francesca che il pubblico ha inteso e gustato appieno nel suo ampio respiro musicale, che è come un’anticipazione della parte centrale dell’opera che nel terzo atto raggiunge le più alte vette del lirismo, nella scena che comincia con le parole di Francesca: Benvenuto, signore mio cognato e si chiude col bacio colpevole ed innocente. Nel quarto atto è stata vivamente ammirata la scena, che anticipa l’epilogo tragico dell’azione, fra Gianciotto e Malatestino e nella seconda parte il duetto di Paolo e Francesca, che è come il coronamento fina-(*) ---------(*) Il ritaglio presente nella cartella SZ 523 si interrompe qui. 186 La «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai - Grande successo artistico al Ventidio, «Il Giornale di Ascoli», 27.11.1922 (tronco) Prima dello spettacolo Sabato sera l’aspetto del nostro Massimo era davvero imponente e il pubblico subito ammirò il grandioso ed artistico lampadario che, dopo un lungo ed immeritato esilio, è tornato a signoreggiare con i suoi di luce tutta la vasta sala, finalmente restituita a maggior decoro con la sostituzione di poltroncine agli antichi banchi da taverna; oggetto di ammirazione è stata pure la modificazione della illuminazione dei palchi, nei quali ora si spande una luce tenue e regolare specialmente favorevole agli «sbinocolatori» impenitenti Ottima impressione hanno destato gli importanti lavori eseguiti nell’ atrio reso più vasto e comodo. Ma delle notevoli modificazioni ed ampliamenti apportati al Ventidio ci occuperemo in seguito. Mentre l’ora che volge ci impone ben altro compito e noi vogliamo assolverlo con la consueta diligenza, ma con raddoppiato impegno, perché riteniamo che questa stagione teatrale – dopo una navigazione assai incerta e che giunse all’approdo sol per la ferrea volontà del timoniere il quale porta un nome di buon augurio – rappresenterà un completo successo e restituirà al Ventidio Basso il fastigio e la fama del passato. Guardando il teatro, in platea come nei palchi, noi abbiamo l’immediata impressione che la nostra Ascoli, cioè la parte più ricca e più intellettuale, si è riunita per consacrare col suo giudizio la solennità dell’avvenimento artistico il quale, per il fulgore della fama di Riccardo Zandonai nostro illustre ed amato ospite, per la notorietà degli esimi artisti, per la decorosità dell’intero allestimento, è destinato a lasciare un ricordo non facilmente obliabile. [...] 132 L’aspettazione dava a tutti un caratteristico senso di emotività; e così quando Riccardo Zandonai ha tagliato rapidamente la sala gremita di pubblico distintissimo ed è salito sul podio impugnando nervosamente la bacchetta, tutto l’uditorio maschile e femminile si è levato in piedi e gli ha fatto una lunga e vibrante ovazione, volendo così esprimere all’incomparabile e grande Maestro la riconoscenza e l’ammirazione di Ascoli. Nella casa dei Polentani Lo spettacolo si inizia in un raccoglimento religioso; l’orchestra, sin dalle prime belle pagine introduttive del primo atto, si afferma di una fusione, di una finezza e precisione perfette; e la musica di Zandonai ci si presenta subito con le sue forti caratteristiche personali, onde l’educazione dei nostri sensi uditori formata dalle maliose reminiscenze di autori prediletti viene improvvisamente squassata, travolta, respinta da un’onda nuova, assai più fresca e possente, da una vigorosità nervosa e vibrante. Il batter delle ali di un grande aquilotto ha commosso la roccia alpina e dalle sue vene ora sgorgano nuove linfe di dolcissimi canti, così santificando e perpetuando col Genio di Riccardo Zandonai il prodigio di una Patria immortale. Le donne dei Polentani, quasi come tutte le donne, si avvicinano e celiano col Giullare che sa narrar appetitose novelle; Ostasio, scorgendo quel conversare, se ne adonta e malmena il povero Giullare perché lo ritiene emissario dei Malatesti e teme che esso possa svelare il segreto di Paolo che verrà col mandato di Gianciotto – lo sciancato – per isposare Francesca. Ma il Giullare si salva dalle furie di Ostasio e fugge; mentre Ostasio e Ser Toldo escono in cerca di Paolo. Le donne di casa Polenta si raccolgono in un coro che si svolge su un tema dolcissimo: Oimè che adesso io provo che cosa è troppo amore! Oimè. Oimè ch’egli è un ardore che al cor mi coce. Oimè Escono dalle stanze ed attraversano la loggia Francesca e Samaritana, le figlie di Guido minore da Polenta; Francesca si sofferma e sospira: Amor le fa cantare! È venuto Paolo, l’uomo che porterà lontano dalla sua casa una delle due sorelle. Francesca non conosce il suo sposo; ma nel sogno della sua solitaria giovinezza lo ha già visto splendente di bellezza. E quando nella realtà vede l’uomo che attraversa il portico, e lo vede circonfuso di ogni grazia, Francesca si commuove profondamente e nell’impeto dell’amore prega, scongiura le sue donne: Andategli incontro, e ditegli ch’io lo saluto! Ecco apparire Paolo Malatesta; il solo cancello lo divide da Francesca; i due giovani si guardano senza parole e senza gesto. Francesca coglie una grande rosa vermiglia e glie la offre. Con questo quadro d’amore, di significato profondo perché segna l’attimo in cui due anime si fondono in una fiamma, termina l’atto. Il finale della musica è una meraviglia; suscita nell’animo una emozione incomprimibile che si spande su tutto l’uditorio. Scoppiano, scrosciano, s’addensano gli applausi; gli artisti si presentano quattro volte al 133 proscenio tra ovazioni lunghissime. Ma il pubblico, quasi tutto in piedi, reclama il Maestro: ecco apparire la piccola nervosa figura di Zandonai circondato dagli artisti. È accolto da una ovazione che risuona con l’impeto di una tempesta. E per quattro volte il velario si chiude e si riapre, tra gli applausi sempre generali ed interminabili. Usciamo dalla sala ancor commossi dalla magnificenza dello spettacolo e vibranti di entusiasmo; scambiandoci le prime impressioni, abbiamo la esatta sensazione che tutti – nessuno escluso – sono entusiasti di questa Francesca che è onore e vanto di coloro che la portarono sulle nostre scene. Presso le torri dei Malatesti Si fanno alacri apprestamenti guerreschi dagli uomini della casa dei Malatesti dove Francesca, andata sposa, ha trovato il suo vero marito, Gianciotto. La battaglia si inizia e si svolge accanita e feroce con le armi di quei tempi, armi assai più barbare dei moderni gas asfissianti. Paolo e Francesca si amano furtivamente; nell’anima loro ardono tutti i tormenti e trabocca nei loro cuori l’impeto della passione colpevole. Paolo viene a partecipare alla battaglia, perché alla vita di uno strazio insopportabile preferisce la morte. Mentre l’attacco guerresco rugge e squilla, i due amanti ricordano il loro incontro. Dice Francesca: Videro gli occhi miei l’alba, la videro i miei occhi sopra di me con l’onta e con l’orrore. E Paolo, disperatamente, pensa ad immolarsi: Come debbo io morire? Suona la campana di S. Colomba. È il segno. A fuoco, a fuoco, viva Malatesta! urla il Balestriere; uno stuolo di armigeri accorre e dà mano alle armi e alle macchine. Paolo cerca la morte e si espone ai colpi dei nemici; Francesca vuol seguirlo. Ad un tratto sembra ferito; non da ferro: ma le vostre mani toccato m’hanno, e l’anima disfatta m’è dentro il cuore, e forza più non ho d’esser vivo! dice Paolo in un impeto accorato. Ad un tratto, ecco arriva Gianciotto che grida vituperi agli armigeri ch’egli ritiene felloni; e questi, come accade in ogni tempo, sono pronti ad applaudirlo. La battaglia si placa, mentre Gianciotto, Paolo e Francesca bevono nella stessa coppa e Gianciotto annunzia a suo fratello la nomina a Capitano del Popolo a Firenze. Giunge ora Malatestino ferito; egli in breve si rianima ed acceso di odio contro i ghibellini, incita i suoi arcieri e li guida nuovamente in battaglia. Il quadro finale è impressionante per vigoria aspra e movimento. La musica lo svolge in un comento magnifico che strappa nuove deliranti acclamazioni agli artisti ed al Maestro. Gli artisti sono chiamati da soli 4 volte alla ribalta; e successivamente, presentatosi Riccardo Zandonai, la dimostrazione si ripete entusiasticamente altre 5 volte, tra ovazioni grandiose e commoventi. 134 Per gentile pensiero dei volontari Fiumani, viene offerta al maestro Trentino una grande corona d’alloro; mentre i simpatici e valorosi giovani avevano diffuso tra il pubblico questo fervido messaggio: «L’illustre Maestro Riccardo Zandonai che per il grande amore verso l’Italia, doveva essere strangolato dal boia dell’impero AustroUngarico decaduto per sempre per virtù ed eroismo dei nostri fratelli, oggi, ospite di Ascoli Piceno, fa rifulgere nel nostro Ventidio con le sue sublimi armonie di Francesca da Rimini la grandezza del genio Italiano!» Galeotto fu il libro Al terzo atto siamo nella camera di Francesca che è circondata dalle donne; Paolo trovasi pel suo officio a Firenze ma Francesca è sempre posseduta dal suo ricordo e ne attende il ritorno, perché è presa dalla morsa della sua passione. Invano Smaragdi – la fattucchiera – cerca pretesti per sollevare il suo spirito, ancor più turbato per cagione di Malatestino che ha osato manifestarle il suo amore bieco e violento. Ma Paolo abbandona Firenze e giunge improvvisamente, sospinto irrefrenabilmente dal suo amore. Egli racconta a Francesca i suoi tormenti e poi legge il libro di Galeotto: E la reina vede il cavaliere che non ardisce di fare di più. Tra le braccia lo serra e lungamente lo bacia in bocca... Paolo bacia la cognata; quando le due bocche si distaccano, Francesca si abbandona sui guanciali del ricchissimo letto, spaurita, sconsolata, come spenta. Da lontano s’ode lieve l’eco del coro mentre il movimento febbrile degli archi conchiude questo episodio in cui lo spasimo di sue anime innamorate assurge ad una sintesi di indescrivibile bellezza. Le dimostrazioni si ripetono; tre volte vengono ovazioni agli artisti; ben cinque volte il maestro Zandonai, verso il quale il pubblico non cessa di manifestare l’onda del suo entusiasmo. La bieca passione di Malatestino Francesca teme Malatestino: E gli dice: Perché sei tanto strano? Avido d’ogni sangue tu sei, sempre in agguato. Nemico a tutti, In ogni tua parola è una minaccia oscura. Malaltestino, spinto dalla frenesia della sua passione, si avvicina a Francesca per abbracciarla. Non mi toccare, forsennato, o chiamo il tuo fratello... ho pietà di te, sei un fanciullo perverso. Malatestino ha un lampo sinistro di odio e maliziosamente le sussurra: Chi vuoi tu chiamare? – Il tuo fratello. 135 – Quale? E per la sinistra passione propone a Francesca di disfarla di suo marito e di risparmiare la vita di un prigioniero. Ma invano. E così Malatestino esce con il proposito della vendetta. Gianciotto, che sopraggiunge, trova Francesca tremante e spaurita; dalle sue parole sospetta che Malatestino l’abbia offesa; vuol sapere. E finalmente rientrando quel demone di vendetta, Malatestino, egli con voce sorda e ciglio basso dice a Gianciotto: E se il fratello vede che taluno tocca la donna del fratello, e n’ha sdegno, e s’adopra perché l’onta cessi dimmi, pecca egli? E se, per questo, accusato è d’avere contro alla donna mal animo, dimmi: giusta è l’accusa? Gianciotto sobbalza terribile a questa rivelazione e vuole ed ottiene da Malatestino la delazione completa: Paolo entra nella camera di Francesca, di notte. Gianciotto vuol costatarlo. –Vuoi stanotte? –Voglio: urla Gianciotto. Così la tragedia cammina verso il sanguinoso epilogo. La vendetta di Gianciotto Francesca, dopo essere restata tra le sue donne, le fa ritirare; mas nel cuore vibra un presentimento mortale. La melanconia notturna gonfia l’anima della donna. Si spengono le lampade. Entra furtivamente Paolo che si getta nella braccia della donna; la passione dei due esseri assurge ad una grandezza inesprimibile: e tu sei mio ed io son tutta tua e la gioia perfetta è nell’ardore della nostra vita. Ai baci di Paolo, Francesca rabbrividisce e scolora, perché ha visto aperta la porta. Ma l’amante, dominato dal suo spasimo, le dice: Vieni, vieni, Francesca! ore di gaudii lunghe ci son davanti. Ti trarrò, ti trarrò dov’è l’oblio. E Francesca: Baciami gli occhi, baciami le tempia e le guance e la gola... tieni, e i polsi e le dita... così... prendimi l’anima e riversala. E Paolo: Dammi la bocca. Ancora! ancora! 136 Mentre la donna è abbandonata sui guanciali, immemore, vinta, s’ode nel silenzio un urlo terribile. È la voce di Gianciotto, del marito e fratello tradito: Francesca, apri Francesca. Paolo, per salvare Francesca, tenta scendere in una cateratta; ma prima si precipita furibondo su di lui Gianciotto; colpiti dal suo ferro, avvinti anche nella morte, i due amanti raccolgono sulle loro bocche l’ultimo respiro. La fine della tragedia, così profondamente impressionante, lascia nel pubblico una prima stretta di commozione violenta; poi scoppiano gli applausi he consacrano questa magnifica edizione ascolana di Francesca da Rimini, preparata dall’impresario sig. Albertarelli con slancio e munificenza, onde è lecito attendersi il più completo successo della benemerita Deputazione Teatrale con a capo l’egregio Sindaco Mari. *** Le artistiche e riuscitissime caricature» sono state disegnate dal nostro Musacchio» sig. Liberi Siro, al quale non mancherà un brillante avvenire. I fini clichés sono stati lavorati dal valente zincografo concittadino Mario Pasinati. Gli esecutori Il Sindaco Benito Mari e gli altri membri della Deputazione Comm. Merli, Marchese Serianni e Ing. Mario Mari e gli stessi condomini con la loro munificenza, la Commissione per gli spettacoli pubblici composta dai signori Pietro Trocchi, Giovanni Colucci, Ugo DE Scrilli. avv. Alessandro Ferri, hanno conquistato per la magnifica esecuzione di Francesca da Rimini nuovi titoli di riconoscenza da parte della cittadinanza. Questa edizione ascolana della Francesca ha il merito di aver raccolto uno stuolo di elettissimi artisti. La nostra concittadina signora Linda Barla-Ricci non è stata imposta da viete considerazioni campanilistiche, ma è qui giunta preceduta da una fama meritatissima per i successi riportati sui primi teatri italiani. Al tesoro naturale della sua voce magnifica, fresca, ben timbrata, di un registro vasto ed uniforme, la signora Barla unisce un metodo razionale ed accurato. Nella parte di Francesca, ove la venustà delle forme della nostra concittadina rievocano la bellezza della figlia di Guido da Polenta, poche artiste possono eguagliarla per il gesto passionale e per l’efficacia drammatica di tutta la difficoltosa azione. Mion Irma, la Samaritana, che ha mezzi vocali veramente notevoli, si è fatta assai apprezzare. Il tenore Caceffo Socrate si è imposto subito per la vigorìa e la morbidità del suo canto, rivelandosi anche nel giuoco drammatico ottimo compagno della Barla. Il baritono Enrico Roggio, Giovanni lo sciancato, è un artista di altissimo merito; la sua voce è ampia e gradevole, e le risorse dell’arte danno un immenso rilievo alla sua difficile parte. Sarà un insuperabile Scarpia. Mazza Aurelio (Ostasio) canta con molta grazia ed efficacia; bene si è affermato il tenore Gino Treves in Malatestino. Le donne di Francesca, a cominciare da Lina Nobili che in Garsenda ottiene un brillante successo per la bellezza della voce e la grazia del canto, sono tutte degne di lode: diamo i loro nomi: Annina Santoro, Luisa Squarzina, Marcolini Vittoria, Debora Fambri, e siamo certi che esse, nessuna esclusa, potrebbero ben figurare in parti primarie. 137 Ottimo Ser Toldo è stato Elviro Giunta; il basso comico Scattola Carlo non poteva render meglio la figura del Giullare ed ha cantato la sua parte con vero godimento del pubblico. I cori, preparati e diretti da un valente maestro come il Bernardelli, sono riusciti di una precisione e coloritura perfetta. Come trovar parole per esprimere la nostra ammirazione per il magistero dell’orchestra? Diciamo soltanto che poche volte accade di poter riunire un simile complesso di valenti professori. E sotto la bacchetta di Riccardo Zandonai, magico [...] 187 Ascoli a Riccardo Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 3.12.1922 Ascoli Piceno, 1 dicembre. Il ricevimento offerto dall’Amministrazione comunale all’illustre maestro Riccardo Zandonai, che ha qui diretto la sua magnifica Francesca da Rimini, non poteva riuscire più solenne e cordiale. Le sontuose sale del Palazzo comunale accolsero quanto di più eletto vanti la nostra città: abbiamo visto e segnato a caso:(*) L’avv. De Sanctis, in nome della città, pronunziò un bellissimo discorso inneggiando all’arte del maestro Zandonai; l’oratore fu interprete eloquente dei sentimenti di riconoscenza degli ascolani; e nell’esame artistico dell’opera del maestro triestino [sic] dimostrò vigoria di pensiero e genialità di cultura. Concluse poeticamente ricordando l’episodio dantesco della Francesca, di cui, nella bella sala, è artistico pregio il bronzo del concittadino scultore Dal Gobbo. Generali applausi coronarono l’ispirato discorso del rappresentante del Comune ed una lunga ovazione venne rivolta al maestro Zandonai. Quindi i graditi ospiti visitarono le nostre numerose e splendide sale, dove si raccolgono in gran copia i documenti più insigni dell’arte antica e moderna, tra cui si annovera il famoso Piviale di Sisto V, rubato e poi restituito con gesto di munificenza da Pierpont Morgan che lo aveva in buona fede acquistato in Inghilterra. Elegante e ricco riuscì il tè offerto ai numerosi invitati, a cui furono serviti anche dolci e liquori. Il ricevimento riuscì una calda dimostrazione di riconoscenza e di ammirazione al maestro Zandonai; e meritano plauso i dirigenti l’amministrazione comunale che ne presero l’iniziativa. Un meritato elogio vogliamo fare all’ingegnere Paoletti capo dell’ ufficio tecnico che curò personalmente l’organizzazione della importante riunione, secondato dall’economo comunale sig. Antonio Bianchi. ---------(*) Si omettono le successive 47 righe che riportano i nomi degli intervenuti. ----------------------------------------------------------------------------------------- (extra) 1922 (188) 188 «Francesca da Rimini» illustrata a «Musica» dall’Autore, «Musica» XVI/2, 30.1.1922 Lunedì 16 le sale della nostra Redazione si aprirono ad una originale simpaticissima festa che è destinata a segnare una data memorabile nell’attività del nostro giornale. Riccardo Zandonai eseguiva al pianoforte i punti più salienti della sua fortunata opera «Francesca da Rimini» col concorso dei valorosi artisti che la interpretano nell’ attuale stagione del Costanzi: Gilda Dalla Rizza, insuperabile Francesca, il baritono Maugeri, Gianciotto perfettissimo, e la signorina Vitulli, delicata Samaritana. Mancava il tenore Fleta ed ecco che 138 insistentemente pregato il Maestro stesso si mette a leggere la parte di Paolo accompagnandosi al piano. Il duetto del 3° atto acquistò una mirabile vivezza, un’espressività che solo dall’autore-attore si può aspettare: molti si richiamarono all’antica arte greca. Il pubblico elettissimo si accese di schietto irruento entusiasmo e alla fine del 3° atto e del duetto dell’atto 4° fra Gianciotto e Malatestino (impersonato con altrettanta energica suggestione dal M. Zandonai) tributò all’Autore e agli esecutori ripetute salve di applausi. Efficaci e utilissime furono le limpide parole con le quali l’on. Giovanni Tofani aveva prima dell’audizione esposto notizie e dati su la nascita dell’opera d’arte insigne, e sui rapporti di verace amicizia intercorsi fra Gabriele D’Annunzio, allora (1912) esule, e Riccardo Zandonai. Come dicevamo, questa data del 16 gennaio sarà memorabile per noi, perché segna il glorioso principio di quei Commenti Lirici che dovranno essere una iniziativa nuova originale e feconda e per la quale abbiamo già raccolto numerose e autorevoli adesioni. [...] Senza ripeterci, ci limitiamo a ricordare che lo scopo di questi commenti è di ripassare, illustrare e commentare al pianoforte opere vecchie cadute in dimenticanza ovvero opere novissime che siano per essere o siano state da poco sottoposte al giudizio del pubblico. In questo secondo caso gli autori stessi parleranno del proprio lavoro, lo soneranno al pianoforte e sceglieranno gli artisti che ne mettano in luce con l’esecuzione accurata i brani più salienti, come nel caso di «Francesca». (Omissis) Riccardo Zandonai ci leggerà nella prima quindicina di febbraio la sua Giulietta e Romeo per cui è vivissima l’attesa al Costanzi. [...] ----------------------------------------------------------------------------------------- 139