Religioni laicità secolarizzazione Il cristianesimo come "fine del sacro" in René Girard di Andrea Giambetti Il volume che viene proposto all'attenzione del lettore raccoglie gli atti del Convegno tenutosi ad Arezzo il 18 e 19 aprile 2008, promosso dall'Accademia Petrarca e dal Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici della Università di Siena nella sua sede aretina, sul tema Religioni, laicità, secolarizzazione. Il cristianesimo come "fine del sacro" in René Girard. Convegno organizzato e animato da Silvio Morigi, curatore - insieme a Maria Stella Barberi - del volume in questione, e da lui efficacemente diretto intorno a una delle questioni centrali del pensiero girardiano: il cristianesimo inteso come forza decostruttiva della religione umana nel suo complesso e conseguentemente la laicità e la secolarizzazione (ma anche il fenomeno della morte di Dio e addirittura l’ateismo stesso) come fenomeni tipicamente cristiani. Le otto relazioni, i quattro interventi e la tavola rotonda finale - che costituiscono la "materia viva" del testo - restituiscono, nella varietà e vivacità delle voci, l’atmosfera di quel confronto di alto livello che si tenne nelle antiche stanze della Casa del Petrarca. Analizzando nel dettaglio i diversi studi di cui si compone il volume, notiamo immediatamente il contributo di S. Morigi (Dessiner en creux. Il sacro e la croce), il quale viene a costituirsi quale introduzione tematica. In queste pagine di notevole spessore filosofico Morigi pone in tensione dialettica il "primo" e l'"ultimo" Girard (coordinate, queste, che non andrebbero intese in senso semplicemente cronologico). Il "primo" Girard, puttosto noto, cesura di fatto il cristianesimo nella sua distanza assoluta dal religioso e dal sacro arcaico. La croce di Cristo demistifica l’universo mitico-rituale con una forza decostruttiva tale da ricadere sul cristianesimo stesso in quanto religione istituzionalizzata. Si assiste così a una progressiva laicizzazione del fenomeno religioso, sino a rendere ragione di avvenimenti solo apparentemente lontani dalla matrice cristiana, quali il moderno ateismo e il fenomeno della "morte di Dio". In questo senso la croce è il simbolo stesso di una rottura radicale con il religioso sacrale e vittimario. Ma l'"ultimo" Girard, particolarmente in testi quali Quand ces choses commenceront o ne Le sacrifice, giunge invece ad affermare che proprio il cristianesimo, attraverso la medesima decostruzione del religioso arcaico, rivela un religioso seppure di altra natura - quantomeno inseparabile dall'arcaico. È come se a furia di distanziare polarità opposte (cristianesimo contro sacro arcaico) si finisse per scorgerne strane simmetrie anziché radicali diversità. In altre e più semplici parole, l’ultimo Girard cerca di oltrepassare le opposizioni poste dal primo. E come la peculiare diversità del sacrificio di Cristo si opponeva - decostruendolo - all’universo vittimario antico, ora - al di là della differenza - il termine sacrificio torna a costituire quella unità simbolica che riassume in sé l’intera storia religiosa dell’uomo. Così un'unità paradossale, una continuità nella rottura - dal Morigi efficacemente segnalata - si scorge proprio entro la rottura tra il sacro e la croce. Dunque il cristianesimo da una parte si oppone al religioso, ma dall’altra riassume e porta a compimento l’arcaico. Di questa unità nella differenza ne dà testimonianza la positività che il termine "sacrificio" assume nell’ultimo Girard, dopo i tanti precedenti ostracismi. Una positività che deriva non dalla eguale natura del sacrificio di Cristo rispetto a quello della circolarità mimetico-arcaica, ma del suo accondiscendere a situarsi in tale spazio di senso, pur essendo di un senso radicalmente eterogeneo. Il sacrificio di Cristo rifiuta qualsiasi collusione con la violenza vittimaria, eppure accondiscende a situarsi nel medesimo universo mimetico e sacrale. È così che tale sacrificio «richiede che si situi e si eserciti entro uno spazio di violenza sacrificale» (p. LVIII). Proprio per questo il cristianesimo non può rappresentare una position de surplomb (posizione dall’alto), e ancora proprio per questo l’ultimo Girard parla di una impossibilità di fuoriuscita dal meccanismo mimetico; non esiste uno spazio neutro non sacrificale da cui potersi opporre alla violenza sacrificale, nessun terreno neutro completamente estraneo a tale violenza. Cristo deve necessariamente incarnarsi nella violenza umana e subirla. Paradossalmente la "verità" del perfetto sacrificio del Cristo può manifestarsi soltanto attraverso la ‘menzogna’ del mimetismo sacrificale della violenza. Così la croce del Cristo si situa nello spazio preparato sin dall’origine del mondo dal meccanismo sacrificale, lo riassume e lo porta a compimento pur rivelandone il limite. Si tratta di un dessiner en creux (configurarsi nell’assenza), come un "concavo" che attende il "convesso" che gli corrisponda e, una volta riempitasi tale cavità (Paolo parlerebbe di pléroma), pur scomparendo, essa assume in pienezza il suo significato. In Cristo l’arcaico viene definitivamente distrutto perché compiuto. «La Passione entra nel calco dell’assassinio fondatore e ne mostra la verità nascosta» (p. LXX). Come ai primordi della storia umana il mimetismo sacrificale generò l’uomo affrancandolo dalla bestialità primitiva, così ora è la Croce che genera l’uomo nuovo, in una sorta di paolina kainé ktísis (nuova creazione), per cui il primo Adamo prefigura ed attende l’ultimo Adamo (Cristo), il peccato d’origine attende e prefigura la rendenzione, l’ordine sacrificale prefigura e attende la Croce che definitivamente lo compie. Al termine del saggio di Morigi anche l’ultima parola del Cristo crocefisso assume per il lettore una luce nuova ed evocativa: consummatum est (tutto è "compiuto"). Su questo tipo di lettura di Girard, che definiremo "figurale" (e non semplicemente tipologica), per cui l’ultimo "supera" in quanto "‘compie" il primo, si cimenta anche l’originale saggio di Pierpaolo Antonello (Realismo e secolarizzazione. Erich Auerbach e René Girard). In esso l’autore, conducendo in parallelo la lettura di Mimesis (ma anche del complesso dell’opera del celebre filologo tedesco) e la teoria girardiana, ne sottolinea l’assoluta vicinanza; una vicinanza che Girard sembra abbia soltanto intuito. In effetti, attraverso una filologia storico-sintetica, Auerbach presenta il cristianesimo quale concezione paradigmatica del destino umano e mostra come «in Mimesis vi sia una comprensione del mimetismo dell’uomo più ampia di quanto Girard non sospetti e che va in direzione del tutto concorde con la sua ipotesi» (p. 11). È grazie alla frequentazione di Bultmann, nella sua lettura demitizzante del testo evangelico, che Auerbach, esattamente come accade in Girard, comprende la modernità come diretta derivazione dell’incarnazione del Cristo. È da questo evento fondatore che inizia l’uscita della religione dalla religione (ovvero dal sacro). Ma è propriamente sul concetto di figura che Antonello vede il cardine della possibilità di accostare Auerbach a Girard: esso è uno strumento indispensabile «per comprendere il rapporto storico tra cristianesimo e de-mitizzazione, ovvero il rapporto dialettico tra progressione storica e permanenza, fra evoluzione delle forze e forme sociali e riconoscimento delle strutture di continuità antropologica» (p. 14). «L’interpretazione figurale - scrive Auerbach stabilisce tra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali». Antonello sottolinea come proprio questa struttura ermeneutica sia alla base della lettura dei testi letterari di Girard; egli infatti ha utilizzato il modello cristologico-sacrificale per rileggere tutti i testi pre e post-cristiani. Di più: si potrebbe affermare che, attraverso la teoria mimetica, Girard abbia fornito semplicemente una veste antropologica alla lettura figurale auerbachiana. Pertanto il concetto di figura è il trait d’union definitivo che vincola Girard a Auerbach. Figura non è, si badi bene, un espediente di lettura dei testi semplicemente simbolico o allegorico; sia Girard che Auerbach insistono sulla realtà e sugli eventi reali che il concetto veicola. Occorre uscire dai residui platonici che insistono entro il paradigma figurale per recuperarne la genuina ed originale dimensione realistica. In questo senso, ad esempio, la connessione figurale tra il sacrificio di Isacco e quello di Cristo si compie sui fatti e non sulle interpretazioni. E sempre in questa direzione la passione di Cristo è ‘compimento globale’ (Erfüllung) della dimensione profetica insita nell’ebraismo e della storia quale progressiva comprensione della realtà umana. Se si applica l’interpretazione figurale a livello della storia umana ci si rende conto infatti di come la moderna secolarizzazione non si opponga al cristianesimo ma ne sia, anche se paradossalmente, la reale continuazione. Essa è una forma dell’adattamento richiesto al cristianesimo per allargare la sua azione diffusiva in un mondo globale. Dunque anche la modernità sarebbe retaggio di quel realismo esistenziale scaturito dal cristianesimo; ma che ne sarà dell’interpretazione figurale nel mondo post-moderno? Non si è posti di fronte oggi ad uno pseudo-realismo, frutto della società mass-mediatica e della ibridizzazione sempre più spinta di oralità e immagine? Non sappiamo come Auerbach (scomparso nel ’57) si sarebbe posto di fronte a tale scenario; tuttavia non si può non sottolineare come proprio oggi il meccanismo mimetico sia ancora più generalizzato dalla presentazione ossessivamente imitativa dei modelli mediatici. Il contributo di Maria Stella Barberi (Laicità e secolarizzazione al debutto. Il corpo visibile del sacrificio nella Lettera agli Ebrei 10,5-10) sottolinea come proprio la diversità del sacrificio di Cristo, delineata ampiamente dall’Epistola agli Ebrei, sia all’origine del processo di secolarizzazione e di laicità dell’occidente. La Lettera denuncia a più riprese «il troppo ingenuo tentativo di placare la coscienza di peccato con pratiche inefficaci» (p. 47). Contro di esse l’Epistola vede in Cristo il corpo preparato per il sacrificio, sacerdote e vittima congiuntamente, cardine della salvezza. Ora proprio questo sacrificio di oblazione è il ‘nuovo’ sacrificio che si oppone, sino ad abolirlo, al sacrificio arcaico. Un secondo culto nasce dalle ceneri della prima - inefficace quanto ripetitiva - liturgia del capro espiatorio e del culto ebraico del Tempio. Nonostante ciò Ebrei propone un’interpretazione sacrificale della Passione del Cristo, mentre «nega una via di accesso diretto all’espiazione per il peccato. Prendendo su di sé il peccato degli uomini […] Gesù Cristo ha precisamente espiato quei peccati che i sacrifici rituali del culto ebraico non potevano espiare» (p. 65). In Achever Clausewitz Girard, dopo aver sottolineato come il cristianesimo scriva la parola fine sul realismo sacrificale arcaico, sottolinea come esso sia comunque all’origine di una lunga ed accelerata crisi di frenesia mimetica all’interno delle relazioni umane. La rivelazione cristiana sarebbe, così, all’origine di una evidente accelerazione apocalittica della storia. Ed anche il sacrificio di Cristo potrebbe essere interpretato come una sorta di espiazione divina tramite la quale Dio, attraverso suo Figlio, domanda perdono agli uomini per aver loro rivelato con tanto ritardo i meccanismi della loro violenza. È, in certo senso, il "fallimento del cristianesimo" che, pur non cessando di crollare da oltre due millenni, aggiunge ritardo su ritardo all’apocalisse. È così che la storia della salvezza assume le sembianze paradossali di una tendenza all’estremo; una tendenza, però, che - seppure costantemente accelerata - fa della permanenza nella storia umana il suo carattere peculiare. In che senso, dunque, laicità e secolarizzazione scaturiscono dal medesimo evento del cristianesimo? Barberi fa leva sulla doppia esegesi di P. Garuti (Due cristologie nella Lettera agli Ebrei?) per la quale l’Epistola «anticipa un’idea di secolarizzazione che si è affermata nella modernità seguendo le due direttrici, classicamente definite di laicità morale e di istituzione secolare del corpo politico sul modello platonico» (p. 70). Insomma Ebrei resituirebbe due modelli sacrificali e perciò cristologici: una "cristologia bassa" che vede "nel" mondo, nel tempo della sua vita terrena, nell’ora delle sue forti grida e lacrime, il senso del sacrificio di Cristo, e una ‘cristologia alta’ per la quale il luogo del sacrificio è il cielo, mentre la morte in croce sarebbe solo il passaggio necessario al compimento di un’offerta che segue la morte e che si manifesta pienamente in una dimensione sovraterrena. Dalla ‘cristologia bassa’ deriverebbe il senso di una semplice "memoria" del sacrificio del Cristo, una impossibilità di compierlo nuovamente e dunque la necessità della sua imitazione morale. In questo senso sarebbe giustificata la preminenza dell’azione etica sulla ritualità sacrificale e sugli apparati istituzionali, com’è avvenuto all’interno del protestantesimo calvinista (in questo senso Garruti si riconnette alla celebre teoria weberiana). Dalla ‘cristologia alta’, invece, fortemente imbevuta di platonismo, deriva una concezione mimetica del sacrificio di Cristo; esso ha la sua realizzazione al di fuori del mondo, in una dimensione divina, mentre nel mondo esso può essere imitato ed attualizzato. «La cristologia alta conduce alla forma secolare di un altrove “immoto nell’eternità” (mimesis) e, per simmetria, la cristologia bassa al perfezionamento morale dell’uomo (imitatio)» (p. 71). Da una parte, dunque, disincanto del mondo, razionalizzazione e perfezionamento morale delle sfere di vita profana, dall’altra, invece, incarnazione statuale del Regno mediante una sfera di autorità rappresentativa del corpo politico. Due modelli che non si integrano ma, anzi, si confrontano come doppi mimetici: inizio di un’era secolare che comporta conflitti e rivalità, forse apocalittiche. L’auspicio di una più attenta valutazione della teoria girardiana da parte del Magistero ecclesiale cattolico, insieme alla necessità di una rinnovata elaborazione teologica del sacrificio di Cristo, è quanto richiede il vivace saggio di Alberto Beretta Anguissola (Laicità e sacrificio. Un problema aperto). Se è certo che il cristianesimo ha reso possibile una vera laicità, perché ha smascherato le spiegazioni sacralizzanti dei fenomeni naturali e sociali, come interpretare allora la riflessione teologica della Chiesa che ha riproposto nel corso dei secoli una lettura sacrificale della morte del Cristo? «Il cristianesimo nega drasticamente qualsiasi valore ed efficacia ai sacrifici e agli autosacrifici proprio perché esalta più di quanto non fosse mai stato fatto prima il valore, l’importanza, la necessità e l’efficacia del Sacrificio (di Cristo) […] Poiché Dio stesso si è messo al posto della vittima, il meccanismo vittimario è stato irrimediabilmente inceppato e rottamato. Conseguentemente non è sbagliato dire che il cristianesimo è al tempo stesso la meno sacrificale delle fedi e la più sacrificale delle religioni» (p. 94). Una tradizionale e ortodossa teologia della redenzione ha fatto sua e tramandato l’idea che il sacrificio del Cristo fosse assolutamente necessario perché assolutamente adeguato alla grandezza della collera divina scaturita dall’immensità della colpa originale. Ma questa impostazione teologica - con la terminologia che la sostiene - è ancora ammissibile? Certi momenti dell’attuale magistero papale, e certi momenti della catechesi istituzionale (Anguissola ricorda la meditazione quaresimale pronunciata davanti al Papa dal gesuita Vanhoye, ma andrebbe ricordato anche il recente intervento di p. Cantalamessa) sembrano tentare delle letture cautamente distanti da quelle sacrificali. È il caso, ad esempio, della rinnovata attenzione alla con-passibilità divina, alla con-passione del Padre di fronte alla Passione del Figlio, che sfocia in un tentativo di messa tra parentesi dei termini e delle concezioni di "riscatto" e di "prezzo dovuto" per la redenzione. Insomma, si tratta di un interessante tentativo di rinnovamento dei termini del problema che però si scontrano con l’opposto limite di vedere nella croce di Cristo soltanto una conseguenza "sfortunata" dell’Incarnazione. Tra queste due polarità dovrebbe riprendere vigore, a giudizio di Anguissola, un percorso di riflessione di alto profilo che ancora pare distante rispetto ai timidi e fin troppo prudenti tentativi di una lettura non sacrificale del cristianesimo nel suo insieme. Il tentativo di annodare la teoria mimetica con il prospettivismo di matrice kantiana è all’origine del contributo di Paolo Diego Bubbio (Prospettivismo e secolarizzazione. L’eredità post-kantiana della teoria mimetica), tentativo forse temerario quanto problematico. L’autore si avvia riflettendo sulle popolari dispute tra "nuovi atei", sostenitori di un ateismo sviluppato su basi scientifiche, e "teo-cons", indentificati spesso come i sostenitori della teoria del "disegno intelligente", sorta di nuovi teisti su base naturalistico-scientista. Molto opportunamente Bubbio, criticandone l’impostazione di fondo (ove ravvisa copiose congruenze anziché radicali divergenze) ricorda i "gemelli nemici" di girardiana memoria che, combattendosi vigorosamente, costituiscono la propria identità soltanto per reciproca opposizione. Nuovi atei e nuovi teisti sono accumunati da un’identica visione del fenomeno religioso (metanaturalismo) che deriva loro dall’aver rifiutato la svolta prospettivistica kantiana, la quale di fatto rifiuta all’uomo un posto d'osservazione privilegiato dei fenomeni, ponendosi in un supposto "punto di vista di Dio". Nonostante la speculazione girardiana si mostri spesso preoccupata di distanziarsi dal relativismo delle teorie decostruzioniste, non lo è il suo nucleo nevralgico, né l’esito della sua riflessione che fa del prospettivismo - a parere di Bubbio - la peculiarità stessa del cristianesimo. A ben vedere, infatti, «se noi oggi abbiamo la possibilità di contrapporre al punto di vista dei persecutori un altro punto di vista -quello della vittima- e se, ancora più profondamente, oggi siamo in grado di parlare di "punti di vista" invece che condividere acriticamente la narrazione sacrificale, è perché stiamo beneficiando della demistificazione contenuta nei Vangeli, che ci ha insegnato a condividere prospettive diverse da quella» (p. 114). La stessa Incarnazione del Cristo sarebbe fenomeno tipicamente prospettivistico per via del paradosso implicito in un Dio che, rifiutando un punto di vista assoluto, si abbassa kenoticamente nell’assumere un punto di vista semplicemente umano. Tesi questa fatta propria dallo stesso Vattimo nella sua celebre conversazione con Girard (cfr. Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo). Dunque «a quell’assoluto che è il sacro (ovvero tutto ciò che, per definizione, rifiuta di essere considerato in prospettiva), si contrappone il cristianesimo come interpetazione vivente» (p. 115). Nuovi atei e nuovi teisti rimangono entrambe prigionieri di una visione arcaica e sacrale, mentre la teoria mimetica si porrebbe tra queste polarità, apparentemente opposte, assumendo l’eredità prospettivistica e ermeneutica tipica delle grandi filosofie del Novecento. Il saggio di Giuseppe Fornari (Redenzione dal sacrificio o nel sacrificio? Secolarizzazione e cristianesimo) propone una lucida quanto raffinata analisi dei limiti delle impostazioni speculative che si riferiscono al diffuso cliché della "morte di Dio". Innanzitutto occorre notare come la pretesa nicciana e heideggeriana che la "morte di Dio" sia argomento post-religioso è quantomeno da respingere «perché questa crisi è assai più radicale e virulenta di quanto gli analisti filosofici della morte di Dio sostengano» (p. 133). Le conseguenze infatti non si esauriscono nella ingenua pretesa di una morte delle religioni. I colpi di coda che la contemporaneità ha fatto vieppiù registrare la dicono lunga sull’entità delle forze che le religioni mettono in campo. Il processo di secolarizzazione pertanto deve essere compreso a partire dal suo carattere "interno" la storia cristiana, da quella kénosis che riconduce la secolarizzazione allo "svuotamento" del Figlio di Dio, come emerge potentemente nel nucleo fondamentale della riflessione di Bonhoeffer. Passando attraverso l’analisi delle posizioni di Altizer, Vattimo e Quinzio, l’autore ci conduce sino a Girard per il quale «noi viviamo nell’epoca della rivelazione della vittima assassinata, e assassinata fin dall’inizio dei tempi, "sino dalla fondazione del mondo"» (p. 150). In questo risiede l’autentico annuncio "secolarizzante" della morte di Dio; annuncio anche completamente destabilizzante perché innesta la secolarizzazione dentro uno spazio apocalittico. Il cristianesimo, avendo demistificato il meccanismo vittimario teso ad allontanare la violenza per mezzo della violenza stessa, precipita la storia umana all’incontro con un bivio aspro e ineludibile: il rifiuto della violenza e del meccanismo vittimario ormai decostruito, oppure il rifiuto del messaggio evangelico e la consegna delle sorti umane a una violenza assolutamente cieca e apocalittica. Ora, siccome risulta evidente il rifiuto del verbo evangelico appalesatosi nel corso dei due millenni di storia occidentale, è senza dubbio quantomeno probabile, secondo Girard, l’ingresso in una apocalisse planetaria. Siamo dunque ormai entrati - come afferma il libro intervista Achever Clausewitz - nell’epoca della crescente sterilità della violenza. La secolarizzazione coincide in definitiva col fallimento della cristianità e della società occidentale perché il mondo non accoglie il Verbo che solo può salvarlo. È a questo punto che Fornari obietta come la storicità sia dimensione determinante la rivelazione cristiana e che nessuna delle posizioni analizzate prenda veramente in considerazione la capacità del cristianesimo stesso di dare risposte all’uomo e alla storia dentro la crisi. L’autore rifiuta la logica contrappositiva che sorregge le posizioni degli autori del cliché della "morte di Dio" e invita a riconsiderare da altro punto di vista l’evento del sacrificio di Cristo. «Io credo fermamente - afferma - che la redenzione cristiana consista nel rivisitare la logica interna del sacrificio invertendola di significato, cioè rovesciandola da orrenda violenza subita dalla vittima in manifestazione massima dell’amore di Dio nella persona della vittima stessa, che perdona ai suoi persecutori e ne trasforma le colpe in occasione decisiva di salvezza» (p. 159). In questa direzione l’espiazione del Cristo non consiste nella mera ripetizione di un simbolismo cruento ma nell’autentica redenzione umana che conduce a un cristianesimo post-sacrale perché imbevuto del suo passato e totalmente aperto al mondo. Dopo il contributo introduttivo, Silvio Morigi propone con il suo saggio (Fede cristiana e “fedeltà alla terra”. Terra e sottosuolo nel primo Girard) una interpretazione estremamente convincente e approfondita circa le dinamiche del desiderio nell’opera di Girard. Mentre la più antica produzione girardiana sembrava ammettere la possibilità di un desiderio spontaneo e "rettilineo" (selon soi), «nello sviluppo ulteriore del suo pensiero, invece, emerge sempre più la tesi di una invalicabile, si potrebbe dire “trascendentale”, costituzione mimetica dell’uomo, sia nel male che nel bene» (p. 187) atteggiamento, quest’ultimo, che si rivela pienemante attraverso i meccanismi del desir selon l’autre (desiderio secondo l’altro). Se dunque è dentro il mimetismo che siamo costretti a pensare, possiamo comunque scorgere come proprio il desiderio costituisca la dinamica nascosta, il motore propulsivo del mimetismo stesso. È proprio il desiderio triangolare, per cui l’oggetto desiderato è tale solo in quanto agli occhi del discepolo ne rappresenta simbolicamente il modello, che fa emergere nel mimetismo un’impronta sottilmente idolatrica. Il modello infatti diviene un autentico idolo, un "sole finto" che proietta il suo "splendore fallace" sugli oggetti che diventano "reliquie" del modello agli occhi del discepolo. È così che lo sguardo del discepolo è uno sguardo "strabico" (per un verso si rivolge all’oggetto ma per l’altro guarda contemporaneamente il modello), che si sradica dalla concretezza del reale e si chiude all’autentico incontro con l’altro, sia esso di natura personale che oggettuale. Proprio la fissità di tale sguardo ossessionato dal modello produce sul mondo e sulle relazioni umane un effetto desertificante e nichilistico; il suo spazio esistenziale si contrae progressivamente finché la mímesis, rendendosi ormai nevrotica e febbrile, innesca quella rivalità aggressiva che contrappone gli individui riducendo il mondo a una «desertica geometria di doppi violenti». Dunque una deriva nichilistica si origina da quello "strabismo mimetico" che ossessiona il desiderante. In questa direzione infatti la teoria mimetica trova significative assonanze con alcuni motivi della speculazione nicciana: nel risentimento della "morale degli schiavi" ad es. Nietzsche vede il frutto di una «anima strabica», per il fatto che l’affermazione dei suoi nuovi valori è contestuale alla fissa e reattiva contrapposizione alla morale degli Herren. Così anche Scheler parla di una invidia esistenziale come tratto caratteristico del rapporto mimetico, che conduce a una sostanziale falsificazione dell’immagine del mondo. In altre parole potremmo sottolineare come la dinamica desiderativa del mimetismo non sia soltanto all’origine del sistema della violenza nelle relazioni umane ma conduca a un’autentica "perdita della terra", cioè allo smarrimento cognitivo, morale e esistenziale di un rapporto vero, autentico e rettilineo con le persone e con gli oggetti. Come recuperare allora un desiderio rettilineo che permetta il riscatto di una autenticità perduta? È il tema che Morigi affronta, con originalità e profondità teoretica, avvicinando la speculazione girardiana ad alcuni fondamentali temi del personalismo francese. In particolar modo si evidenzia per significatività e acume il raffronto con D. De Rougemont. L’agápe derougemontiana infatti nel suo prendere le distanze dalle dinamiche obnubilative di eros (si ricorderà la celebre la contrapposizione di amour passion e amour action) è capace di cogliere la magnifica individualità e la concreta finitudine dei volti particolari, riconducendo il rapporto desiderativo a un percorso rettilineo in cui l’amore è capace di unire le differenze senza confonderle. Nella stessa direzione anche in Mounier si ritrova il gusto per la nitidezza dei volti particolari, per cui «l’agápe sfugge da ogni ossessione spiritualistica e angelica purezza e coltiva la finitudine» (p. 249). Si potrebbe leggere in questa direzione anche l’affermazione girardiana per cui «la relazione santifica, mentre la reciprocità sacralizza». È dunque entro il chiasmo concettuale costituito da "relazione" e "reciprocità" da una parte, e "santificazione" e "sacralizzazione" dell’altra che si può giocare se non l’uscita dal mimetismo quantomento la possibilità di recuperarne quella dinamica rettilinea già presente negli scritti del primo Girard. La forza decostruttiva del cristianesimo rispetto al sacro arcaico non è certo un cammino lineare nella storia umana. È quanto evidenzia il contributo di Marco Ravera (Il capro sul rogo. Per una lettura girardiana della caccia alle streghe) che, inquadrandolo girardianamente, rilegge il sistema mimetico-vittimario della "caccia alle streghe" come una delle pagine più luttuose della cristianità europea. In uno dei momenti storici in cui la Chiesa si sente incalzata dall’esterno dalla nascita della scienza moderna, essa si ripiega in se stessa per purificarsi sacrificalmente dai residui di paganesimo che albergavano in tante zone dell’Europa nelle quali una superficiale evangelizzazione era rimasta compromessa con i residui di culti pre-cristiani. L’avversario, dunque, è all’interno e va "espulso"; il paganesimo diviene il gemello nemico suscitando una vera e propria crisi di indifferenziazione che sfocerà nelle guerre di religione. Occorre dunque un capro espiatorio (non a caso le figurazioni demoniache del periodo ripropongono il sembiante della figura caprina) che viene individuato nello stregone e soprattutto nella strega; «per nient’altro che per i suoi legami con "la violenza e il sacro", infatti, il popolo la teme, e la immagina capace, come gli dèi e gli eroi mitologici, di crimini orrendi e disumani quali il cannibalismo e l’incesto» (p. 285). Fu così che la caccia alle streghe divenne «l’ultimo immenso sacrificio di massa effettuato in nome di quella stessa religione cristiana che, nella lettura non sacrificale datane da Girard, dovrebbe svelare la menzogna del meccanismo e scindere definitivamente cristianesimo e violenza» (p. 277). Una società misogina e terrorizzata, ma soprattutto un cristianesimo ancora profondamente sacrificale, tenta di ricostituirsi distruggendo, per rifondarsi sui cadaveri della proprie vittime. La prima parte del volume si conclude con il contributo di Pierangelo Sequeri (La libertà e il sacro. Interrogazioni su la religione e l’umano in René Girard) che prende avvio dalla costatazione che il pensiero girardiano, seppur impegnato a ribadire il carattere ipotetico e di ricerca, si presenti con i tratti di un "pensiero forte". La pietra filosofale di Girard risiede totalmente nella connessione tra violenza e sacro, mentre il sacrificio del Cristo si struttura contro la violenza in favore dell'agápe che contraddice strutturalmente la legittimità teologica del gesto sacrificale. «La morte inflitta a Gesù rivela la clamorosa contraddizione di un sacrificio "in onore di Dio" che, al contrario "sacrifica Dio"» (p. 295). Proprio il senso assolutamente centrale dell'agápe cristica è quanto Sequeri osserva come non perfettamente compiuto all’interno della speculazione girardiana. Mantenendo una stretta connessione tra la rivelazione cristiana e la morte di Cristo, Girard non esamina con altrettanta attenzione il nesso tra rivelazione e vita di Gesù. In questa direzione il Figlio non è vittima innocente semplicemente perché muore in croce, piuttosto egli è vittima sin dalla predicazione testimoniale di una agápe antivittimaria la cui verità redentiva non si lascia testimoniare solo a posteriori, come effetto sentimentale di una rappresentazione sacrificale. Se ad es. si considera la centralità del pasto eucaristico, ci si avvede di come l’istituzione del sacrificio della Nuova Alleanza venga condotta nel contesto di una mensa di comunione fraterna intessuta di gesti di rendimento di grazie. «La parola-gesto eucaristico enfatizza l’incorporazione del dono di sé in termini di autosacrificio: la cui essenza è nutrimento e comunione, capaci di svuotare la morte, inflitta come gesto purificatore, della sua pretesa giustificazione. In tal modo l’uccisione di Gesù, senza perdere il suo orrore etico-religioso di morte ingiusta che pretende di confermare la religione, può incorporare il radicalismo della dedizione, che azzera previamente ogni santificazione del dispositivo sacrificale così inteso» (p. 307). La portata salvifica del sacrificio di Cristo pertanto non può essere ridotta alla semplice rivelazione della vittima, ma conduce a un coinvolgimento salvifico della umanità che rimette in campo la libertà etica di ciascuno. La seconda parte del volume (La laicità, un valore cristiano?) presenta i contributi dei partecipanti alla Tavola Rotonda che si è tenuta a conclusione del Convegno aretino. Essa fu introdotta dalla voce di Adriana Zarri (Laicità di Cristo e sacralità del cristianesimo) che in poche battute, ripercorrendo la vita del Cristo, ne ha sottolineato i tratti di una laicità che dovette condurlo a morte. Sembra che - nonostante la teologia ne abbia delineato i tratti dell’unico Sommo Sacerdote - la laicità sia stata consustanziale alla vita di Gesù. Lo si evince ad es. da alcuni comportamenti e insegnamenti eclatanti; la Zarri richiama l’incontro con la "donna samaritana" al pozzo di Giacobbe (episodio non solo laico ma diremmo "sovversivo" rispetto alla mentalità del tempo), la parabola del buon Samaritano (ove ancora una volta sono sacerdoti e leviti a deficitare in virtù), la proclamazione di laiche beatitudini, la predilezione per laici apostoli (pescatori e per lo più coniugati, quando non addirittura gabellieri). Insomma il Cristo non era molto in regola rispetto al sacerdozio del tempo, così «la sua eversione ha molte facce; ma se volessimo riassumerle in un solo aspetto potremmo dire che tale eversione consiste nel rifiuto della sacralità e nell’affermazione della laicità» (p. 313). Nella medesima direzione va il contributo di Lidia Maggi (Laicità e cristianesimi) che, provenendo dalla tradizione battista del cristianesimo, si pone come problema l’istituzionalità sacrale che il cristianesimo storico ha assunto, soprattutto nel momento in cui si assiste a una pesante ingerenza ecclesiastica nell’ordinamento civile. In questo scenario "teocratico" la laicità assume i tratti di una opposizione contro un’egemonia della fede cristiana non più sopportabile, che genera divisione e violenza. Occorre pertanto una rivisitazione del cristianesimo a partire dalla sua matrice scritturistica che fa della laicità il modo preminente di dialogare con l’uomo. Proprio la Bibbia indica ancora la via del dialogo, della pluralità delle narrazioni e delle vocazioni, che non sono altro che decisivi elementi di una laicità all’altezza delle sfide odierne. Il contributo di Andrea Messeri (Le questioni attuali della laicità), esplorando la crescente conflittualità tra un pensiero cristiano più o meno ortodosso e una laicità che diviene sinonimo di una visione tecnico-scientifica del mondo contemporaneo, propone un al di là della contrapporisizione mediante l’uso concreto di una ragione comunicativa e pubblica che «può essere l’ambito nel quale posizioni laiche vecchia maniera e posizioni di fede ortodossa si incontrano nel costuire insieme verità comuni» (p. 340) senza più il presupposto dell’esistenza di una verità universale già data. Ancora Stefano Semplici (L’obbedienza a Cesare e il giudizio della ragione) rifiuta nettamente l’aprioristica contrapposizione tra laicità e fede, richiamando anche alcuni tratti della celebre teoria weberiana della derivazione religiosa dello spirito del moderno capitalismo. Tuttavia è del tutto inevitabile, sottolinea Semplici facendo forza su Habermas, che il mondo moderno «si trovi ad affrontare gli effetti tutt’altro che collaterali della privatizzazione delle fedi e delle idee del bene» (p. 347), e forse proprio per questo l’attuale magistero pontificio (esplicitato anche in occasioni quali il discusso intervento di Ratisbona) insiste sul recupero e sull’ampliamento della ragione in una sintesi feconda con la fede. Occorre ricercare il difficile punto di giunzione fra universalità e molteplicità delle posizioni e delle ragioni per tornare a far dialogare efficacemente laicità e fede. A conclusione della Tavola Rotonda, Pierangelo Sequeri (Su laicità e cristianesimo) ricorda, a se stesso e a tutti, i rischi, i limiti e gli insuccessi che possono occorrere a chi, come lui, ha fatto del confronto tra pensiero laico e teologia cristiana il tratto tipico di una personale esperienza di fede. La via del confronto è talvolta irta e frustrante; soprattutto quando quasi tutti abbandonano il tavolo preferendo "svignarsela". La terza e ultima parte del volume (Relativismo e identità, mito e romanzo) raccoglie i quattro interventi - a corollario del Convegno - di Federica Casini, Massimo Gentile, Alice Gonzi e Claudio Tarditi. Analizzando il romanzo di S. Kershavijee Le roi, le sage et le buffon, F. Casini conduce il lettore sino a una riflessione sul perdono che sembra poter interrompere la spirale del mimetismo violento e vittimario. Tuttavia si tratta di un "perdono difficile" (come direbbe Ricœur) che in realtà può essere donato soltanto da quella vittima perfetta che è il Cristo, per cui solo la fede in Lui può spezzare effettivamente la violenza mimetica. Il contributo di M. Gentile (L’identità personale tra laicità e religiosità) separa radicalmente il pensiero laico da quello religioso, conducendo il primo alla rivendicazione del primato moderno della soggettività e il secondo a una sorta di ascesi dell’io mediante un cammino spirituale che giunge sino al dissolvimento identitario. In questo senso è evidente che la riflessione di Gentile, assai calcata sulla tradizione religiosa orientale (De Rougemont parlerebbe di un cataro-manicheismo orientaleggiante), mostri il suo culmine presentando il Cristo come modello di «azzeramento della personalità», contro il primato dell’affermazione "laica" dell’individuo. È forse opportuno non dimenticare, però, come proprio il cristianesimo, soprattutto grazie alle dispute trinitarie, abbia contribuito efficacemente a integrare le nozioni di individuo e di persona, nozioni che solo superficialmente possono sembrare inconciliabili. Di laicismo e cristianesimo, considerati come "miti contemporanei", si occupa anche il contributo di A. Gonzi (Il mito: un residuo inesorabile?) che conduce a un confronto serrato il primo Girard con Le bovarisme di Jules de Gaultier. Anziché inconciliabili differenze, l’autrice sottolinea piuttosto radicali congruenze tra i due "miti", che derivano dalla intrinseca debolezza del logos dell’amore che si lascia fatalmente e storicamente espellere dalla logica della violenza. È così che il cristianesimo storico ricopre il messaggio evangelico di un velo sacrificale che gli deriva da quella «fatale urgenza di menzogna» che consiste nell’attingere dal Logos della sapienza greca la violenza di una ragione pretesa universale, dogmatica e espulsiva. Ma anche il laicismo rimane invischiato in tentazioni sacrificali e mistificanti, nonostante una proclamata avversione all’assoluto. La razionalità degli uni e degli altri è, piuttosto, la radice di una violenza che tenacemente li accomuna. C. Tarditi (Non solo interpretazioni, ma anche fatti. Note sulla critica girardiana al relativismo), dopo aver mostrato una certa idiosincrasia di Girard per il filone ermeneutico e quello decostruttivista del Novecento, segnala come non sia impossibile rintracciare la presenza di una dimensione "interpretativa" e "decostruttiva" all’interno del medesimo pensiero girardiano. In effetti la rivelazione evangelica «possiede un fondamentale carattere interpretativo-decostruttivo» nei confronti del mito e del sacro arcaico, mentre è proprio la teoria mimetica a demistificare il linguaggio evangelico ponendo le basi per una rinnovata interpretazione del testo sacro. Mentre però un certo decostruzionismo girardiano è funzionale alla vera comprensione di un "fatto", non così quello derridiano, volto totalmente sul versante dell’interpretazione. In ultimo, Tarditi propone l’apertura di una rinnovata via di ricerca che tenti di saldare teoria mimetica e fenomenologia per pensare insieme fatti e interpretazioni. Ma qui, forse, siamo già oltre Girard. In conclusione, il volume che abbiamo analizzato fornisce un’articolata e vivace presentazione di uno dei temi cruciali - se non quello fondamentale - sul quale si affatica il pensiero contemporaneo: il rapporto difficile, dialettico, spesso irrisolto tra cristianesimo e secolarizzazione, tra fede cristiana e laicità. Al di là di esauste contrapposizioni, attraverso il caleidoscopio delle differenti voci il testo mostra come il cristianesimo sia un soggetto attivo e protagonista della moderna secolarizzazione la quale, girardianamente rivelata dalle pagine evangeliche, è anch’essa scaturita dal perfetto sacrificio del Cristo. Consultabile online sul Giornale di filosofia della religione (www.aifr.it)