La struttura dell`illecito amministrativo lesivo dell`interesse legittimo

La struttura dell’illecito amministrativo lesivo
dell’interesse legittimo e la distinzione tra l’illecito
commissivo e quello omissivo
Sommario: 1. Il rilievo della distinzione tra l’illecito
commissivo e quello omissivo. – 2. La diversità delle fonti normative. –
3. Gli elementi costitutivi dell’illecito commissivo mediante
l’emanazione di un provvedimento. - 4. La natura amministrativa della
responsabilità. – 5. Le riforme sul silenzio dell’amministrazione e gli
elementi costitutivi dell’illecito omissivo per silentium. – 6. L’illecito
omissivo per la mancata conclusione del procedimento espropriativo e
quello commissivo per sconfinamento. - 7. – Conclusioni.
1. Il rilievo della distinzione tra l’illecito commissivo e quello
omissivo.
La tutela spettante all’interesse legittimo si è notevolmente
ampliata, da quando l’ordinamento ha attribuito al giudice
amministrativo il potere di condannare la pubblica amministrazione al
risarcimento dei danni nel caso di lesione dell’interesse legittimo, in
aggiunta ai suoi tradizionali poteri di annullare l’atto autoritativo
illegittimo e di dichiarare l’obbligo dell’amministrazione di
provvedere, nel caso di silenzio.
L’opinione più diffusa è ancora quella che ammette in materia
l’applicabilità dei principi del codice civile, sia per individuare la
‘natura’ della responsabilità in cui incorre l’amministrazione che lede
l’interesse legittimo, sia per determinare i presupposti per ravvisare in
concreto la responsabilità.
E’ invece preferibile una ricostruzione che tenga conto delle
peculiarità riguardanti l’esercizio della funzione pubblica.
Per individuare la ‘natura’ della responsabilità e gli elementi
costitutivi dell’illecito, infatti, rilevano tematiche non risolvibili sulla
base del codice civile.
Inoltre, va nettamente distinto l’illecito commissivo della
pubblica amministrazione (riferibile ai casi in cui la lesione sia stata
cagionata con un provvedimento o con un comportamento connesso a
un provvedimento) da quello omissivo (riferibile al mancato o ritardato
esercizio della funzione pubblica).
L’illecito commissivo cagionato con un provvedimento può
essere:
a) lesivo di un interesse pretensivo (ad es., diniego di un atto
abilitativo, approvazione di una graduatoria che non soddisfi la pretesa
dell’interessato);
b) lesivo di un interesse difensivo o conservativo (ad es.,
decreto di esproprio, ordine di demolizione, atto di ritiro di un
precedente titolo abilitativo).
L’illecito commissivo cagionato con un comportamento
connesso ad un provvedimento si verifica, ad esempio, quando – in
sede di esecuzione di una ordinanza d’occupazione d’urgenza – vi sia
uno sconfinamento e sia acquisito sine titulo il possesso di un fondo
formalmente non coinvolto nel procedimento.
In questa ipotesi, vi è una peculiare posizione giuridica
soggettiva, perché il diritto del titolare del bene è strettamente
connesso ad un interesse legittimo di difesa (correlativo all’eventuale
atto di acquisizione del bene, in ogni tempo, ai sensi dell’art. 43 del
testo unico sull’espropriazione per pubblica utilità) e di pretesa (il
titolare del bene, utilizzato dall’amministrazione, può attivarsi perché
sia esercitato il potere previsto dall’art. 43).
L’illecito omissivo può aver luogo:
a) quando sia ravvisabile un silenzio dell’amministrazione
(ovvero non sia esercitato – malgrado l’impulso di un interessato o di
un organo pubblico – il potere di vigilanza o quello di repressione di
un illecito, lesivo di un diritto assoluto o relativo di chi può
avvantaggiarsi dell’esercizio del potere);
b) quando non sia concluso un procedimento già caratterizzato
dall’emanazione di atti autoritativi ablatori (ad es., quando, malgrado il
vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e
l’occupazione d’urgenza del suolo, non sia emanato il decreto
d’esproprio).
Anche in quest’ultimo caso, come nello sconfinamento, vi è una
peculiare posizione giuridica soggettiva, poiché il diritto del titolare del
bene è strettamente connesso ad un interesse legittimo di difesa
(correlativo all’eventuale atto di acquisizione del bene) e di pretesa (il
titolare del bene può attivarsi perché sia esercitato il potere previsto
dall’art. 43).
Di questi due casi di illecito omissivo, rispettivamente, si sono
occupate le decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.
7 e n. 4 del 20051.
2. La diversità delle fonti normative
Sono diverse le fonti normative riguardanti l’illecito commesso
col provvedimento autoritativo e quello commesso col mancato o
ritardato esercizio della funzione pubblica, ovvero con lo
sconfinamento.
2.1. Le leggi emanate dal 1992 al 1998 hanno dapprima
innovato l’ordinamento della giustizia amministrativa con riferimento
alla lesione arrecata col provvedimento autoritativo, ammettendo la
responsabilità dell’amministrazione nel caso di illecito ‘commissivo’
commesso con l’emanazione di un provvedimento.
Nel precedente quadro normativo:
1
Cons. Stato, Ad. Plen., 13 settembre 2005, n. 7; Ad. Plen., 30 agosto 2005, n. 4.
2
a) si ammettevano la giurisdizione ordinaria e l’applicabilità
dell’art. 2043 del codice civile vigente solo qualora il provvedimento
autoritativo, annullato dal giudice amministrativo, avesse inciso su una
previa posizione legittimante di diritto;
b) si escludeva che l’art. 2043 riguardasse la lesione arrecata
all’interesse pretensivo, anche nel caso di annullamento del
provvedimento impeditivo della venuta ad esistenza del diritto.
Tale sistema si fondava sulle leggi che dal 1889 hanno attribuito
all’interesse legittimo (quale posizione correlativa al provvedimento
autoritativo discrezionale o vincolato) la sola tutela di annullamento,
senza risultare in contrasto con l’art. 28 della Costituzione, che
garantisce la pretesa al risarcimento del danno quando
l’amministrazione sia responsabile della lesione di un diritto.
Per la Corte Costituzionale, la regola della irrisarcibilità della
lesione arrecata all’interesse legittimo di pretesa non contrastava con i
principi costituzionali, mentre «il problema di ordine generale»
richiedeva «prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina
sostanziale, ma anche nel regolamento delle competenze
giurisdizionali»2, con la possibilità di «una unificazione per evitare una
duplicità di giudizi con competenza ripartita»3.
La regola pubblicistica della irrisarcibilità della lesione arrecata
all’interesse pretensivo è stata dapprima incisa dalla normativa sugli
appalti di rilievo comunitario.
Superando in questo settore lo storico significato del concetto di
responsabilità (esteso all’illegittimo esercizio della funzione, pur in
assenza di un diritto), il legislatore aveva ammesso la proponibilità
dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile, subordinata al previo
annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice dell’interesse
legittimo (art. 13 della legge n. 142 del 1992; art. 11 della legge n. 489
del 1992; art. 11 della legge n. 146 del 1994; art. 30 del decreto
legislativo n. 157 del 1995).
L’art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, nell’abrogare
tale normativa, ha poi fondato un nuovo sistema di responsabilità per
l’illegittimo esercizio del potere pubblico, attribuendo alla
giurisdizione amministrativa esclusiva, nelle tre materie di cui agli
articoli 33 e 34, ogni controversia riguardante «il risarcimento del
danno ingiusto».
L’ambito di tale riforma risulta dalla legge delega n. 59 del
1997:
- l’art. 4, lettera g), ha consentito al legislatore delegato di
estendere la giurisdizione amministrativa «alle controversie aventi ad
oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative
2
3
Corte Cost., 25 marzo 1980, n. 35.
Corte Cost., 8 maggio 1998, n. 165.
3
al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi
pubblici»;
- per la Corte Costituzionale4, il legislatore delegante aveva
«affidato al Governo ... il compito ... di estendere la giurisdizione
amministrativa esistente» limitatamente ai «diritti patrimoniali
consequenziali, in essi compreso il risarcimento del danno» (da
intendere nel significato riconducibile all’art. 30 del testo unico n.
1054 del 1924 e all’art. 7 della legge n. 1034 del 1971, e cioè quali
«diritti patrimoniali consequenziali alla pronunzia di legittimità
dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre»).
L’art. 35 ha reso configurabile l’illecito dell’amministrazione,
qualora in sede di giustizia amministrativa emerga l’«illegittimità
dell’atto o provvedimento cui si ricorre», e cioè ha ammesso la
risarcibilità del danno cagionato con l’illecito ‘commissivo’, cagionato
con l’emanazione del provvedimento illegittimo.
2.2. Per le posizioni già in precedenza tutelate sul piano
risarcitorio (per la preesistenza della posizione legittimante di diritto e
nel settore degli appalti di rilievo comunitario), l’art. 35 ha fatto venire
meno la regola processuale del duplice giudizio di cognizione presso
giurisdizioni diverse (conoscendo il giudice amministrativo del
provvedimento impugnato e delle lesioni da questo arrecate anche
tramite la sua esecuzione).
Per gli interessi pretensivi non aventi un rilievo comunitario e
nelle tre materie ampiamente disciplinate dagli articoli 33 e 34, la
riforma del 1998 (valutando anche le risorse disponibili della finanza
pubblica) ha effettuato una scelta innovativa, sul piano processuale e
su quello sostanziale:
- sul piano processuale, ha devoluto al giudice amministrativo la
giurisdizione sulla domanda risarcitoria (in applicazione dell’art. 103,
primo comma, Cost.);
- sul piano sostanziale, completando il sistema di tutela risalente
alla legge del 1889, ha ammesso che il giudice amministrativo possa
sindacare il provvedimento - impeditivo della nascita del diritto - anche
in relazione alla domanda risarcitoria.
2.3. Nel novellare l’art. 35, la legge n. 205 del 2000 ha esteso il
potere del giudice amministrativo di disporre «l’eventuale risarcimento
del danno», «nell’ambito della sua giurisdizione» ed ha generalizzato
la regola per cui l’interesse legittimo è tutelato in sede giurisdizionale
anche con lo «strumento di tutela ulteriore» del risarcimento5.
L’ordinamento consente al giudice amministrativo di verificare:
- se l’accoglimento della domanda principale di annullamento
dell’atto impugnato comporti una tutela pienamente soddisfacente;
4
Corte Cost., 17 luglio 2000, n. 292, in Foro it., 2000, I, 2393; Corte Cost., 28
luglio 2004, n. 281, Foro it., 2004, I, 2593.
5
Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Urbanistica e appalti, 2004, 1031
4
- se sia il caso di disporre, anche in alternativa, la condanna ad
un risarcimento, qualora il ricorrente non consegua dall’annullamento
– e dalle connesse statuizioni coercibili col giudizio di ottemperanza una piena tutela (in ragione della irreversibile esecuzione dell’atto),
ovvero una effettiva utilità (per un ostacolo derivante dal diritto
pubblico, quale l’impossibilità giuridica di emanare un ulteriore
provvedimento, emendato dal vizio già riscontrato, o la consolidazione
della posizione di un terzo).
3. Gli elementi costitutivi dell’illecito commissivo mediante
l’emanazione di un provvedimento
Per determinare gli elementi costitutivi tipici dell’illecito
commissivo, va individuata la struttura dell’illecito amministrativo,
cagionato con l’emanazione di un illegittimo atto autoritativo.
La responsabilità è configurabile in presenza:
a) del fatto (cioè dell’elemento oggettivo);
b) della antigiuridicità;
c) della colpevolezza dell’apparato amministrativo.
A) L’elemento oggettivo sussiste quando è emanato un
illegittimo atto autoritativo e da questo consegua, sul piano causale, la
verificazione del danno (sicché rileva l’esame della incidenza della
condotta del partecipante al procedimento che abbia indotto o concorso
all’emanazione dell’atto illegittimo, anche con un suo illecito, o se ne
sia avvantaggiato).
B) L’elemento della antigiuridicità sussiste quando, in
applicazione delle regole della giustizia amministrativa, il danno risulta
ingiusto e cioè quando l’atto autoritativo illegittimo risulta:
- non iure (in contrasto con le regole dell’ordinamento);
- contra ius (lesivo di una posizione sostanziale, il che non
avviene quando il ricorrente abbia la mera legittimazione
all’impugnativa).
Affinché risulti che il provvedimento sia stato emesso non iure,
occorre che il soggetto leso abbia impugnato l’atto nel prescritto
termine di decadenza (cd regola della pregiudizialità)6.
Infatti, la mancata tempestiva impugnazione – salva la
concessione del beneficio dell’errore scusabile da parte del giudice
amministrativo - rende inoppugnabile il provvedimento: per il
principio di non contraddizione (rilevante in sede processuale), il
danno patrimoniale non è risarcibile, perché si fonda su un titolo
giuridico divenuto insindacabile in ogni sede giurisdizionale.
Ciò comporta che l’amministrazione può esercitare il suo potere
di autotutela e rimuovere il provvedimento illegittimo divenuto
6
Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4, in Foro it., 2003, III, 433; Sez. VI, 18
giugno 2002, n. 3338; Ad. Plen., ord. 30 marzo 2000, n. 1, in Cons. Stato, 2000, I,
767.
5
inoppugnabile, senza timore di essere esposta alla pretesa risarcitoria di
chi – pur non avendo impugnato l’atto - non si accontenti della sua
avvenuta rimozione.
C) L’elemento della colpevolezza dell’apparato amministrativo
– eccedente la mera illegittimità dell’atto e rilevante quando l’atto sia
risultato illegittimo in base alle regole della giustizia amministrativa –
sussiste
quando
il
giudice
rilevi
la
rimproverabilità
dell’amministrazione, in base agli elementi di fatto e di diritto
sottoposti alla sua cognizione7.
In applicazione di un principio generale dell’ordinamento
(rilevante in tema di responsabilità professionale, anche di quella del
funzionario pubblico), il giudice amministrativo può così valutare gli
elementi intrinseci o estrinseci all’atto e al procedimento, inerenti:
- alla chiarezza della normativa;
- allo stato della giurisprudenza;
- alla complessità delle questioni coinvolte;
- alla condotta degli interessati nel corso del procedimento
(specie quando abbiano contribuito all’emanazione dell’atto
illegittimo);
- all’organizzazione nel suo complesso e alla sua obiettiva
capacità di esercitare le proprie competenze col personale e con i
mezzi in dotazione, specie quando si tratti di ‘procedimenti di serie’ da
definire tutti nello stesso periodo;
- in ipotesi, al carattere pretestuoso della motivazione o alla
prevalente rimproverabilità di chi abbia commesso l’illecito posto a
base dell’atto.
4. La natura amministrativa della responsabilità
Quanto alla natura della responsabilità derivante dall’illegittima
emanazione del provvedimento autoritativo, non va trasposta la summa
divisio (storicamente affermatasi nel diritto privato) tra la
responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale.
Per ragioni ontologiche, storiche, normative e istituzionali,
l’esercizio del potere autoritativo:
- non è assimilabile alla condotta delle parti di un rapporto
contrattuale, caratterizzato da diritti, obblighi o altre posizioni tutelate
dal diritto privato (la cui tutela è prevista dagli articoli 1218 e ss. del
codice civile);
- non è assimilabile alla condotta di chi – con un
comportamento materiale (attivo od omissivo) o negoziale – cagioni un
danno ingiusto a cose, a persone, a diritti, posizioni di fatto o altre
posizioni tutelate ai fini risarcitori erga omnes dal diritto privato (e la
cui tutela è prevista dagli articoli 2043 e ss. del codice civile).
7
Cons. Stato, Sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2949; Sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047.
6
I commi 1 e 4 del novellato art. 35 del decreto legislativo n. 80
del 1998 non hanno richiamato alcuna disposizione del codice civile
(poiché l’illecito cagionato con illegittimi atti autoritativi non è
riconducibile alle fattispecie disciplinate dai codici del 1865 e del
1942) e neppure hanno richiamato le fondamentali nozioni (diligenza,
dolo, colpa, ecc.) su cui si basano i sistemi della responsabilità civile
(contrattuale o extracontrattuale).
Essi hanno attribuito al giudice amministrativo il potere di
determinare in concreto se e quali conseguenze dannose siano
risarcibili quando vi è l’illegittimo esercizio del potere autoritativo,
verificando anche se un principio affermatosi nel diritto privato risulti
compatibile con quello da applicare nel diritto pubblico (in ragione
delle regole organizzative, sostanziali e procedimentali che
l’amministrazione è tenuta a rispettare, nonché delle regole che
caratterizzano il processo amministrativo).
La natura della responsabilità – definibile ‘amministrativa’ sul
piano convenzionale, in ragione della normativa applicabile e del
giudice che ne verifica il rispetto - comporta che (come avviene per
verificare la legittimità del provvedimento e il rispetto delle regole
processuali sulla impugnazione, e cioè per i primi due elementi
dell’illecito) il giudice amministrativo - per l’accertamento
dell’ulteriore elemento della rimproverabilità dell’apparato
amministrativo - applica i consueti principi riguardanti l’istruttoria nel
processo, e non le regole del codice civile.
In altri termini, il giudice amministrativo esamina la sussistenza
della colpevolezza senza formalismi (e senza gravare alcuno dell’onere
della relativa prova), tenendo conto delle deduzioni delle parti e di
quanto può emergere dall’esercizio dei suoi poteri istruttori (in
conformità ai principi enunciati dalla Corte di giustizia C.E.8).
5. Le riforme sul silenzio dell’amministrazione e gli elementi
costitutivi dell’illecito omissivo per silentium
Si può ora verificare se, e in quali limiti, le regole sull’illecito
commissivo possano applicarsi nel caso di mancato o ritardato
esercizio del potere autoritativo e, in particolare, nel caso di silenzio
dell’amministrazione.
Per determinare il possibile ambito dell’illecito omissivo, è
necessario tenere conto della notevole evoluzione che ha avuto il
sistema e, in particolare:
a) delle disposizioni sostanziali sul silenzio assenso e sulla
dichiarazione di inizio di attività (che hanno limitato i casi in cui è
configurabile il silenzio inadempimento, eliminando radicalmente le
questioni riguardanti la tutela dell’interesse pretensivo);
8
Corte di giustizia C.E., 14 ottobre 2004, n. 275-03.
7
b) delle disposizioni contenute nella legge n. 205 del 2000, che
hanno ampliato i poteri del giudice amministrativo di disporre il
risarcimento del danno nel caso di lesione arrecata all’interesse
legittimo;
c) delle regole processuali applicabili quando l’amministrazione
serbi il silenzio sulla istanza di un interessato.
5.1. Sul piano sostanziale, il legislatore ha da tempo introdotto
regole generali sul procedimento amministrativo, per predeterminarne
la durata, per la migliore valutazione degli interessi pubblici e privati,
per esigenze di semplificazione.
Nel sistema tradizionale, le leggi amministrative attribuivano un
significato tipico ai casi di superamento del termine per l’emanazione
dell’atto, specie quando si trattava del mancato esercizio del potere di
controllo.
In un’ottica di semplificazione (e poiché il decorso del tempo ha
sempre più un rilievo decisivo in sede di programmazione e di
esecuzione delle attività di rilievo economico, soggette al rilascio di
titoli abilitativi per ragioni di interesse pubblico), la legislazione più
recente – pur rimarcando il dovere di concludere il procedimento con
un provvedimento espresso e tempestivo (art. 2 della legge n. 241 del
1990) – ha introdotto alcuni istituti di carattere generale, volti ad
ampliare la sfera giuridica del titolare dell’interesse legittimo
pretensivo.
Va richiamata la normativa sulla «dichiarazione di inizio
attività» e sul «silenzio assenso» (disciplinati dagli articoli 19 e 20
della legge n. 241 del 1990, significativamente incisi dall’art. 3 del
decreto legge n. 35 del 2005, come convertito nella legge n. 80 del
2005).
Attualmente, essa comporta che gli interessi pretensivi – tranne
i casi in cui ancora occorra un espresso provvedimento e salvi i poteri
di verifica e di autotutela – col decorso del prescritto termine
ottengono la più piena tutela sostanziale, nel senso che può essere
svolta l’attività per la quale è richiesto l’atto abilitativo o è acquisito lo
status conseguente all’iscrizione negli albi o nei ruoli, richiesta per
l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale.
Il legislatore ha pertanto notevolmente ridotto i casi in cui il
richiedente abbia l’onere di attivarsi contro il mancato riscontro della
sua istanza entro il termine prescritto, valutando ad un tempo:
- i poteri dell’amministrazione;
- le esigenze del richiedente;
- l’esigenza di dare una pronta ed effettiva tutela giurisdizionale
a chi – quale titolare di una posizione legittimante –impugni il titolo
espresso o formatosi col decorso del tempo (con una tutela anche
cautelare, che sospenda gli effetti del titolo e renda doverosa l’attività
repressiva dell’amministrazione).
8
5.2. Per i casi ancora configurabili di silenzio inadempimento,
vi sono state notevoli riforme sul piano della giurisdizione e sulle
specifiche regole processuali.
L’art. 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 (sostitutivo
dell’art. 7, primo periodo del comma 3, della legge n. 1034 del 1971)
ha disposto che «il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito
della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative
all’eventuale risarcimento del danno ».
Sotto un duplice profilo, rispetto all’art. 35 del decreto
legislativo n. 80 del 1998, tale disposizione ha esteso la giurisdizione
amministrativa sulle domande di risarcimento per la lesione arrecata
all’interesse legittimo:
- i relativi poteri cognitivi sussistono per la lesione arrecata
all’interesse legittimo in quanto tale, e non più soltanto nelle
controversie riconducibili a una delle tre materie indicate dagli articoli
33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998;
- le «questioni relative all’eventuale risarcimento del danni»
sono senz’altro conoscibili dal giudice amministrativo anche quando
non sia stato impugnato un provvedimento (non rilevando più il
rapporto logico-concettuale con i «diritti patrimoniali consequenziali»,
introdotto dall’art. 4 della legge n. 59 del 1997 per la determinazione
della delega legislativa).
In altri termini, la legge n. 205 del 2000 – nell’ammettere la
giurisdizione amministrativa per ogni domanda volta ad ottenere la
tutela nel caso di lesione di un interesse legittimo – consente al giudice
amministrativo di verificare quali rimedi, oltre quelli processuali, siano
previsti dal sistema nel caso di silenzio dell’amministrazione.
Tale riforma si inquadra nel richiamato contesto di innovazioni,
volte a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, in
un’ottica di valorizzazione della posizione del titolare dell’interesse
pretensivo.
5.3. Sul piano delle regole processuali, l’evoluzione
dell’ordinamento ha condotto ad una tutela più rapida ed effettiva
avverso il silenzio, quando assuma il carattere di inadempimento
dell’obbligo di provvedere.
Il Consiglio di Stato e poi il legislatore hanno individuato le
modalità di accesso alla giurisdizione amministrativa e l’ambito dei
poteri esercitabili dal giudice.
Quanto alle modalità di accesso alla giurisdizione, il Consiglio
di Stato – tenendo conto delle finalità di giustizia segnalate dalla
dottrina più avveduta – aveva enunciato i primi principi sulla tutela con
le risalenti e fondamentali decisioni della Sezione Quarta9.
Poiché la legge del 1889 istitutiva della Sezione Quarta dava
tutela ai soli interessi legittimi ‘difensivi’ (cioè a chi avesse subìto una
9
Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 1894, n. 78; Sez. IV, 22 agosto 1902, n. 429.
9
lesione nella sua sfera giuridica dal provvedimento autoritativo, per di
più solo se ‘definitivo’), il Consiglio di Stato Consiglio ab antiquo ha
determinato le regole evincibili dall’evoluzione del sistema, basate su
presunzioni
volte
a
rendere
sindacabile
il
silenzio
dell’amministrazione.
Va al riguardo richiamata la giurisprudenza che:
a) per decenni richiese che l’istanza, dopo la prolungata inerzia
dell’amministrazione, fosse seguita da una diffida a provvedere entro
un ‘termine congruo’, decorso il quale era ammesso il ricorso avverso
il ‘silenzio rifiuto’;
b) dopo la decisione n. 23 del 1965 dell’Adunanza Plenaria, si
era consolidata nel senso che i termini volti a rendere impugnabile il
‘silenzio rifiuto’ fossero quelli evincibili per analogia dall’art. 5 del t.u.
n. 383 del 1934 sulla mancata decisione del ricorso gerarchico;
c) dopo la decisione n. 10 del 1978 dell’Adunanza Plenaria, ha
affermato che i termini volti a rendere impugnabile il ‘silenzio
inadempimento’ – quale comportamento perdurante nel tempo fossero quelli evincibili per analogia dall’art. 25 del testo unico
approvato col decreto legislativo n. 3 del 1957.
Il sistema di origine giurisprudenziale è stato superato:
- con l’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 (modificata dalla
legge n. 205 del 2000), che ha disciplinato un giudizio volto a imporre
rapidamente all’amministrazione la conclusione del procedimento;
- con l’art. 3 della legge n. 15 del 2005 e l’art. 3 del decreto
legge n. 35 del 2005 (come convertito nella legge n. 80 del 2005), che
hanno semplificato i presupposti di formazione del silenzio
inadempimento, ammettendo che il ricorso giurisdizionale – «decorsi i
termini» di conclusione del procedimento - possa essere proposto
«anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente,
fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno
dalla scadenza dei termini», «salva la riproponibilità dell’istanza».
L’ordinamento si è evoluto nel senso che il richiedente può
immediatamente reagire contro il silenzio inadempimento e proporre il
ricorso, non appena sia scaduto il termine di conclusione del
procedimento, fissato in novanta giorni dalla legge n. 80 del 2005, ove
non sia disposto altrimenti.
In tal modo, si è notevolmente inciso sul tradizionale sistema di
tutela dell’interesse pretensivo.
Con riferimento al quadro normativo allora vigente, l’Adunanza
Plenaria10 aveva chiarito come il richiamato art. 21 bis della legge n.
1034 del 1971 andasse interpretato nel senso che il giudice adito col
«ricorso avverso il silenzio» doveva limitarsi all’accertamento della
illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione.
L’Adunanza Plenaria era giunta a tali conclusioni:
10
Cons. Stato, Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1.
10
- per le peculiarità processuali del giudizio disciplinato dall’art.
21 bis («caratterizzato dalla brevità di termini e dalla snellezza delle
formalità»);
- per il «principio generale che assegna la cura dell’interesse
pubblico all’amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in
cui l’amministrazione è titolare di potestà pubbliche, il solo controllo
sulla legittimità dell’esercizio della potestà».
Tali conclusioni sembrano meritevoli di essere parzialmente
riconsiderate, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3 del decreto
legge n. 35 del 2005 (convertito nella legge n. 80 del 2005), che – nel
rimodificare l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 - ha disposto che, nel
giudizio avverso il silenzio, «il giudice amministrativo può conoscere
della fondatezza dell’istanza».
Nel caso di mancata definizione del procedimento caratterizzato
da un potere vincolato, il giudice amministrativo può non limitarsi a
ordinare all’amministrazione di provvedere sull’istanza e – su
sollecitazione di parte e nel rispetto del principio del contraddittorio –
può altresì verificare se essa risulti fondata, ordinando
all’amministrazione di provvedere di conseguenza.
Anche se non ha attribuito la giurisdizione di merito (che invece
avrebbe consentito statuizioni corrispondenti all’atto abilitativo di
competenza dell’amministrazione), il novellato art. 2 della legge n. 241
del 1990 ha attribuito al giudizio sul silenzio inadempimento un
ambito di cognizione eccedente la sua mera sussistenza.
Va però con precisione determinato il significato di ‘potere
vincolato’, anche perché – sulla base di alcuni fraintendimenti –
addirittura talvolta si sostiene che siano coinvolte posizioni di diritto
soggettivo.
Va premesso che nel corso del procedimento l’amministrazione
valuta una pluralità di elementi, riferibili a questioni di carattere
giuridico e tecnico, nonché a circostanze di fatto rilevanti per
l’emanazione del provvedimento finale.
L’atto è autoritativo perché – per legge – esprime un potere ed
incide unilateralmente sulla sfera del destinatario: sul carattere
autoritativo dell’atto non influisce il più o meno ampio ambito delle
valutazioni consentite.
Ad esempio, un atto di esclusione da un concorso, da una gara o
da una competizione elettorale si può basare su valutazioni vincolate
(la tardità della domanda, l’insussistenza di un requisito oggettivo
quale l’altezza minima del candidato, la mancata produzione di un
documento), ma anche su valutazioni tecniche (in tema di concorsi, sui
requisiti psico-fisici o, in tema di appalti, sull’anomalia di una offerta o
sull’insussistenza di un requisito tecnico, professionale o di
onorabilità, richiesto dalla normativa di settore).
Anche un diniego di autorizzazione paesistica si può basare su
valutazioni vincolate (un piano paesistico che preclude il rilascio o
11
l’assenza di una posizione legittimante), su valutazioni tecniche (il
contrasto architettonico tra il progettato edificio e quelli circostanti) o
anche su valutazioni discrezionali (l’esigenza che un’area rimanga
immutata per il suo pregio ambientale).
In altri termini, caso per caso va esaminato quale sia l’aspetto
rilevante e sottoposto all’esame del giudice, senza teorizzazioni, tanto
meno utilizzabili ai fini del riparto delle giurisdizioni:
- ogni provvedimento – espressione di un potere e che incida
unilateralmente sulla sfera giuridica del destinatario – è correlativo a
posizioni di interesse legittimo, a maggior ragione quando si tratti di
un interesse pretensivo e non sia configurabile un preesistente diritto
legittimante;
- qualsiasi aspetto patologico della valutazione comporta un
eccesso di potere (ad es., per travisamento dei fatti ed erroneità dei
presupposti, quando sia stato effettuato un errore di calcolo per
determinare il punteggio di un candidato in graduatoria o sia stata
erroneamente determinata l’altezza del candidato del concorso).
Ciò posto, è ravvisabile un potere vincolato solo quando si tratti
di un caso in cui ‘una è la soluzione conforme all’ordinamento’.
Nei casi di diniego o di esclusione da un procedimento, l’atto è
vincolato quando constata una ragione preclusiva, oggettiva e di cui
l’amministrazione può solo prendere atto (il relativo potere di
accertamento è esercitabile legittimamente in un solo modo e, se la
valutazione tecnica è errata, il giudice vi pone rimedio).
E’ anche configurabile un potere vincolato quando, al contrario,
sussistano tutti i presupposti per l’accoglimento di una istanza (perché
tutte le valutazioni sono state formulate in atti precedenti, ad esempio
di programmazione) e ciò malgrado l’amministrazione - tenuta ad
accertare esclusivamente la sussistenza di elementi oggettivi non
valutabili (‘se le carte sono a posto’) - respinga la domanda
(commettendo un eccesso di potere per travisamento dei fatti o per
erroneità dei presupposti) oppure rimanga inerte.
In tal caso, in sede di esame del ricorso avverso il diniego o il
silenzio, il giudice (senza invadere i poteri riservati
all’amministrazione) può accertare quale sia tale soluzione e se ‘spetti
il bene della vita’.
Poiché il più contiene il meno, il giudice – in sede di ricorso
contro il diniego o avverso il silenzio - può anche accogliere un motivo
che prospetti, salve le altre questioni, come non sussista una specifica
ragione ostativa, anche informalmente rilevata dall’amministrazione o
evidenziata dallo stesso ricorrente per restringere l’ambito del potere
esercitabile dall’amministrazione (o dal commissario ad acta).
Invece, quando si tratti del mancato esercizio di un potere
discrezionale (caratterizzato dalla insostituibilità dell’esercizio del
potere amministrativo sulla ‘scelta tra più possibili valutazioni
conformi all’ordinamento’, anche di natura tecnica, e salvi i casi di
12
giurisdizione di merito), in sede giurisdizionale non si può
assolutamente accertare se l’istanza sia ‘accoglibile’ o ‘fondata’.
Infatti, nel caso di ricorso proposto avverso il mancato rilascio
di un titolo abilitativo espressione di poteri valutativi (ad es., di una
autorizzazione relativa a un bene sottoposto a vincolo archeologico,
idrogeologico o paesistico, ovvero di un atto basato su discrezionalità
tecnica, anche inerente alla sussistenza di requisiti soggettivi o psicoattitudinali), il giudice amministrativo non può verificare se l’istanza è
‘fondata’, ma unicamente constatare che l’amministrazione ha violato
l’obbligo di provvedere (così come – nel caso di annullamento del
diniego illegittimo – può solo annullarlo, con salvezza degli atti
ulteriori).
5.4. Vi è dunque un deciso orientamento legislativo, volto a dare
la più intensa tutela sostanziale e processuale al titolare dell’interesse
pretensivo:
a) sono aumentati i casi in cui il superamento del termine di
conclusione del procedimento consente lo svolgimento di attività,
l’acquisizione di status o la formazione di un titolo abilitativo
equivalente all’atto espresso di accoglimento dell’istanza;
b) quando l’inerzia dell’amministrazione non ha un significato
legislativamente tipico, all’interessato spetta la più rapida tutela
giurisdizionale avverso il silenzio inadempimento e con un rito
accelerato, immediatamente dopo la scadenza del prescritto termine;
c) ove si tratti di un’istanza che l’amministrazione non potrebbe
legittimamente respingere, il giudice amministrativo può ordinarle di
provvedere di conseguenza.
Tale quadro normativo senz’altro rileva per determinare i casi in
cui il silenzio inadempimento dia luogo ad un illecito omissivo
dell’amministrazione, per il solo mancato o ritardato esercizio della
funzione pubblica.
5.5. In linea di principio, non vi sono radicali ragioni ostative ad
una normativa che ravvisi la responsabilità dell’amministrazione, per il
mero ritardo della conclusione del procedimento amministrativo.
Ove lo ritenga opportuno per innalzare lo standard della
funzionalità dell’azione amministrativa (e sulla base di una unitaria
valutazione del principio del buon andamento, delle strutture
disponibili e delle disponibilità di bilancio), il legislatore ben potrebbe
rendere tipico l’illecito derivante dal mero ritardo dell’esercizio della
funzione pubblica.
Con la presentazione di una istanza (salvi i casi di pretese
totalmente inattendibili), infatti, il richiedente ha titolo ad una risposta
entro il termine fissato dall’ordinamento di settore e si aspetta che
l’amministrazione rispetti il «dovere di osservare le leggi», sancito per
«tutti i cittadini» e, in particolare, per coloro «cui sono affidate
funzioni pubbliche» (art. 54 della Costituzione).
13
Come ha osservato l’Adunanza Plenaria11, è però altamente
significativo che la legge n. 59 del 1997 ha già considerato diverse le
conseguenze riconducibili all’emanazione dell’illegittimo atto
autoritativo, rispetto a quelle del mancato esercizio del potere
pubblico:
- l’art. 11, alla lettera g) del comma 4, ha attribuito la delega al
Governo riguardante la «estensione della giurisdizione del giudice
amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali
consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno,
in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici», poi attuata con
gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (novellati
con la legge n. 205 del 2000);
- l’art. 17, alla lettera f) del comma 1, ha attribuito una distinta
delega al Governo (rimasta attuata), per la «previsione, per i casi di
mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata
adozione del provvedimento, ... di forme di indennizzo automatico e
forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento; ... la
massima celerità nella corresponsione dell'indennizzo stesso».
Il legislatore ha subordinato ad una specifica ed ulteriore
riforma la corresponsione di un ‘indennizzo’ a chi formuli una istanza
senza ricevere una risposta entro il termine prescritto dall’ordinamento.
Pertanto, nell’attuale quadro normativo (così come in quello
antecedente alle riforme del 2005), tra i tipi di illecito
dell’amministrazione non può essere annoverato quello caratterizzato
dal mero decorso del termine di conclusione del procedimento, anche
se ora la legge consente la immediata proposizione del ricorso al
giudice amministrativo, affinché sia ordinata l’emanazione del
provvedimento conclusivo del procedimento.
Del resto, salvi i casi di silenzio significativo e quelli in cui il
termine è perentorio perché posto a presidio dell’interesse legittimo
difensivo, il decorso del termine non incide sui poteri istituzionali
dell’amministrazione di provvedere sull’istanza: il suo obbligo si
perpetua e il tardivo esercizio della funzione pubblica non comporta di
per sé l’illegittimità del provvedimento finale (che – salva la sua
impugnabilità - determina l’assetto complessivo degli interessi).
In un’ottica – non infrequente - di collaborazione tra il
richiedente e l’amministrazione, può anche accadere che il termine sia
superato non per anomalie dell’azione amministrativa, ma o per
obiettive esigenze o perché lo stesso richiedente - consapevole della
complessità del caso – anche informalmente svolge opera di
persuasione sulla accoglibilità della istanza, tale da indurre
l’amministrazione ad una maggiore ponderazione.
11
Cons. Stato, 13 settembre 2005, n. 7.
14
Pertanto, anche ora il mero ritardo della conclusione del
procedimento dà luogo alla tutela prevista dall’art. 21 bis della legge n.
1034 del 1971 e non anche ad un illecito dell’amministrazione.
Se invece l’istanza sia accolta o respinta dopo la scadenza del
termine finale del procedimento, in assenza di statuizioni rese ai sensi
del medesimo art. 21 bis, si applicano i principi sulla tutela
dell’interesse legittimo leso dal provvedimento autoritativo, e cioè
quelli sull’illecito commissivo: qualora l’atto sia ritualmente
impugnato e risulti illegittimo (non rilevando di per sé la tardività del
riscontro dell’istanza), valuterà il giudice se – oltre alla doverosa
emanazione dell’atto ulteriore, ai sensi dell’art. 26 della legge n. 1034
del 1971 – l’amministrazione debba risarcire il danno, ove sussistano
tutti gli elementi dell’illecito.
5.8. Tenuto conto delle complessive riforme avutesi in tema di
silenzio inadempimento, l’inerzia dell’amministrazione può dare luogo
all’illecito omissivo per la lesione all’interesse legittimo pretensivo
solo qualora si verifichino ulteriori e qualificati presupposti, che
rendano sussistenti i tre elementi costitutivi tipici dell’illecito
amministrativo (di cui ognuno ha una particolare connotazione).
La relativa indagine rientra nell’ambito della piena giurisdizione
del giudice amministrativo, poiché «si tratta si tratta di interessi
legittimi pretensivi del privato che ricadono, per loro intrinseca natura,
nella giurisdizione del giudice amministrativo» e per i quali rileva
anche la giurisdizione esclusiva, ove si tratti della materia urbanisticoedilizia12.
A) L’elemento oggettivo può risultare ove, dopo la scadenza del
termine, il richiedente – eliminando ogni proprio contributo causale al
silenzio dell’amministrazione - non rimanga anch’egli inerte e cioè le
prospetti le circostanze che rendano verosimile come l’ulteriore ritardo
cagioni un suo pregiudizio economico.
In altri termini, finché non spira il termine di novanta giorni
dall’istanza (ovvero quello dell’ordinamento di settore), non è
concepibile un ritardo, mentre per il periodo successivo vi è anche
l’inerzia del richiedente.
La prospettazione del pregiudizio economico può senz’altro
avere luogo con lo stesso ricorso immediatamente consentito dall’art.
21 bis della legge n. 1034 del 1971 e dal novellato art. 2 della legge n.
241 del 1990.
In alternativa, la prospettazione può avere luogo con la notifica
di una diffida.
In questo caso, il giudice – con la sentenza che rileva
l’antigiuridicità – può attribuire rilievo alla diffida per ravvisare
l’elemento della rimproverabilità, perché l’Autorità competente
acquista la personale consapevolezza della pendenza del procedimento,
12
Ad. Plen., 13 settembre 2005, n. 7, cit.
15
senza addurre questioni sull’iter di definizione della pratica successivo
al protocollo, ed è responsabilizzata, anche in relazione al conseguente
giudizio innanzi alla Corte dei Conti.
B) L’elemento della antigiuridicità è configurabile qualora il
giudice amministrativo abbia accolto il ricorso ex art. 21 bis, ordinando
la conclusione del procedimento (se del caso, nel rispetto dell’art. 10
bis della legge n. 241 del 1990).
Sotto tale aspetto, può anche parlarsi di pregiudizialità, ma nel
senso che la condanna al risarcimento del danno per l’illecito omissivo
presuppone:
- il silenzio inadempimento, seguito dal ‘tipico’ ricorso
dell’interessato ai sensi dell’art. 21 bis;
- la mancata esecuzione della sentenza che ordini
all’amministrazione di provvedere.
In altri termini, nel vigente quadro normativo, l’illecito
omissivo è obiettivamente qualificato dal particolare disvalore della
condotta dell’amministrazione, che non rispetta le statuizioni del
giudice.
Poiché l’ordinamento attribuisce rilievo centrale alla sentenza
che accerti la sua perduranza, l’antigiuridicità del silenzio si verifica
con questa ‘doppia fase omissiva’ (fino a quando il legislatore non
disponga altrimenti): la fattispecie può dar luogo all’illecito omissivo
nel ‘grave’ caso in cui non sia data esecuzione alla sentenza resa ai
sensi dell’art. 21 bis.
C) L’elemento della colpevolezza dell’apparato amministrativo
(la rimproverabilità) sussiste quando il giudice amministrativo abbia
constatato che il silenzio sia dipeso da un comportamento inescusabile
o addirittura ostruzionistico (tenendo conto di tutti gli elementi
sottoposti alla sua cognizione, intrinseci o estrinseci al procedimento,
nonché della eventuale notifica di una diffida, che già aveva sollecitato
la definizione dell’istanza).
5.9. Un particolare esame merita l’elemento della antigiuridicità
dell’illecito omissivo, in relazione ai rapporti intercorrenti tra il ricorso
ex art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 e la domanda di risarcimento
del danno.
In assenza di una diversa valutazione del legislatore, si deve
ritenere che in ogni caso la sentenza che ordini di provvedere
costituisca un elemento essenziale per la configurabilità dell’illecito.
Quando si tratti del mancato esercizio di un potere vincolato, il
novellato art. 2 della legge n. 241 del 1990 consente indagini eccedenti
la mera sussistenza dei presupposti per l’emanazione dell’ordine di
provvedere, sicché la sentenza – ove perduri l’inadempimento – può
valutare la fondatezza dell’istanza di rilascio dell’atto (cioè se essa in
base all’ordinamento vada accolta e se spetti ‘il bene della vita’).
Nel caso di reiezione delle deduzioni sulla «fondatezza
dell’istanza» (cioè di accertata sussistenza di un elemento preclusivo al
16
rilascio dell’atto), il giudice può definire la controversia nel suo
complesso e non soltanto ordinare l’emanazione dell’atto negativo (che
non potrebbe discostarsi dal contenuto della sentenza o dare luogo alla
ripetizione della lite).
Nel caso di accoglimento del ricorso, può essere fatta una
distinzione.
A) Nel caso di accoglimento delle specifiche deduzioni
dell’interessato e di accertamento in concreto della «fondatezza
dell’istanza», il giudice non effettua un vero e proprio giudizio
‘prognostico’ (di per sé ipotetico), ma con pienezza di propri poteri
accerta l’accoglibilità dell’istanza in base all’ordinamento di settore.
In tal caso, il giudice può verificare, su domanda di parte, se con
la notifica del ricorso già emergano – oltre tale fondatezza – i tre
elementi costitutivi dell’illecito, ivi comprese l’antigiuridicità e la
rimproverabilità.
A seconda dei casi, il giudice – ove il ricorso ex art. 21 bis o la
previa diffida abbiano prospettato i pregiudizi derivanti dal silenzio, la
questione sia di facile soluzione e sia inescusabile il silenzio – può
tenere conto della sostanziale fondatezza dell’istanza volta ad ottenere
il rilascio dell’atto vincolato e può far retroagire le sue statuizioni di
carattere risarcitorio al momento della notifica del ricorso, purché
emergano tutti gli elementi dell’illecito.
In tal caso, l’illecito si caratterizza per l’inescusabilità della
mancata emanazione dell’atto già nel corso del giudizio e il giudice
può liquidare equitativamente il danno, tenendo anche conto degli
interessi economici sottostanti, che non risultano soddisfatti per un
inadempimento senz’altro imputabile all’amministrazione, malgrado la
conclamata spettanza del provvedimento.
B) Quando accoglie il ricorso volto al solo ordine di
emanazione del provvedimento, su domanda di parte il giudice:
- può disporre anche le misure previste dall’art. 35, comma 2,
del decreto legislativo n. 80 del 1998 (e cioè «può stabilire i criteri in
base ai quali» l’amministrazione – ove rimanga inerte anche dopo la
scadenza del termine fissato dalla sentenza - proponga a favore del
ricorrente «il pagamento di una somma entro un congruo termine», in
relazione ai relativi danni);
- ravvisati l’elemento oggettivo, l’antigiuridicità (per la
fondatezza del ricorso) e la rimproverabilità dell’amministrazione, può
pertanto già disporre le misure ‘condizionate’ di carattere risarcitorio
(aventi un indubbio effetto dissuasivo per un ulteriore inadempimento),
determinando la somma dovuta dall’amministrazione per ogni giorno
di indebito ritardo, successivo alla scadenza del termine fissato con la
sentenza resa ai sensi dell’art. 21 bis.
Mentre nel primo caso (in cui il giudice abbia accertato la
«fondatezza dell’istanza») l’antigiuridicità rileva a far data dalla
notifica del ricorso e il quantum può tenere conto degli interessi
17
economici sottostanti, nel secondo caso (in cui ancora non risulta la
spettanza del rilascio dell’atto) l’antigiuridicità si verifica per il fatto
che non sia eseguita la sentenza del giudice e il quantum può tenere
conto, in via equitativa, della violazione in sé dell’obbligo di
provvedere.
Quando si tratti del mancato esercizio del potere discrezionale,
la sentenza conclusiva del giudizio proposto ex art. 21 bis deve
limitarsi a ordinare la conclusione del procedimento: nessuna norma ha
previsto che nel corso del giudizio possano trattarsi questioni ulteriori,
oltre quelle attinenti alla sussistenza dell’obbligo di provvedere.
Pertanto, con riferimento a tale caso di silenzio inadempimento,
rilevano ancora i principi enunciati dall’Adunanza Plenaria13.
5.10. La distinzione tra i due casi di silenzio inadempimento
(riferibili al mancato esercizio di poteri vincolati o discrezionali, come
previsto dal novellato art. 2 della legge n. 241 del 1990) si fonda su
elementi di indubbio rilievo razionale e giuridico.
Solo nel caso di mancato esercizio di poteri vincolati, infatti, il
giudice amministrativo può accertare – in luogo dell’amministrazione se l’originaria istanza vada accolta, perché ‘una è la soluzione
doverosa, conforme all’ordinamento’.
Con specifico riferimento al mancato esercizio del potere
discrezionale, invece, non si può affermare che in assenza
dell’indefettibile atto abilitativo ‘spetti il bene della vita’ e neppure è
concepibile – per la valutazione di una domanda risarcitoria – una
indagine ‘prognostica’ su quanto, in ordine all’istanza,
l’amministrazione potrebbe decidere tra ‘più possibili soluzioni
conformi all’ordinamento’.
Vi sarebbe un grave turbamento dell’azione amministrativa se si
ammettesse che il richiedente abbia titolo ad un risarcimento, qualora
la scelta finale – sia pure tardiva – risulti favorevole all’accoglimento
dell’istanza: l’amministrazione deve poter compiere le sue scelte senza
il timore che, nel caso di accoglimento, l’interessato pretenda un
risarcimento perché esso vi è stato dopo la scadenza del termine di
conclusione del procedimento.
Altrimenti opinando, con decisiva compromissione del canone
del buon andamento e con un concreto pregiudizio del richiedente,
dopo il superamento del termine l’amministrazione sarebbe
inevitabilmente orientata ad esercitare negativamente il suo potere, al
precipuo scopo di non ‘aggiungere’ una tutela risarcitoria in
precedenza inesistente.
Quanto al giudice amministrativo, non sembra che egli possa
formulare una indagine ‘prognostica’ (e tanto meno in un giudizio
avente ad oggetto soltanto il silenzio inadempimento), per il divieto –
13
Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1, cit.
18
insussistente solo nei casi di giurisdizione di merito - di sostituire le
proprie valutazioni a quelle discrezionali dell’amministrazione.
L’inconveniente dell’esercizio in senso sfavorevole del potere
discrezionale – per non incorrere in responsabilità ex post – non è
radicalmente verificabile, perché non sembra configurabile un danno
da ritardo risarcibile, sino a quando scade il termine fissato dal giudice
ex art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971.
Analoghi principi rilevano quando un’autorità di vigilanza –
anche una autorità indipendente – a distanza di tempo si determini a
prendere in considerazione un’istanza e svolga accertamenti istruttori o
emetta atti di natura sanzionatoria verso il ‘denunziato’:
- non va confusa la posizione legittimante (la titolarità di un
diritto assoluto o relativo, ad esempio la qualità di creditore del
soggetto sottoposto a vigilanza) con l’interesse legittimo pretensivo,
che abilita ad ottenere tutela, qualora il giudice amministrativo si
convinca che sia stato violato l’obbligo di provvedere (col silenzio o
una archiviazione privi di giustificazione);
- la sostanziale condivisione dell’istanza non rende di per sé
risarcibile il danno dedotto da chi ha sollecitato ed ottenuto l’esercizio
del potere di vigilanza e di repressione.
5.11. Una volta emessa la sentenza e scaduto il termine fissato
dal giudice in relazione alle esigenze del caso concreto, il successivo
silenzio inadempimento risulta una omissione contrastante con la
pronuncia giurisdizionale e acquista il carattere di condotta
antigiuridica, costitutiva dell’illecito (oltre ad assumere un eventuale
rilievo di carattere penale).
In sede di ottemperanza, il giudice amministrativo non solo può
nominare il commissario ad acta (per la dovuta emanazione dell’atto
conclusivo del procedimento, come rilevato dall’Adunanza Plenaria14),
ma può esaminare la fondatezza della domanda di risarcimento del
danno, derivante dalla mancata esecuzione della sentenza entro il
prescritto termine.
Il giudice amministrativo, senza formulare giudizi prognostici
sul come potrebbe essere esercitata la discrezionalità amministrativa e
senza basarsi sui soli interessi economici coinvolti, può determinare in
via equitativa la somma di denaro dovuta dall’amministrazione, per
ogni giorno di indebito ritardo, successivo alla scadenza del termine
fissato con la sentenza resa ai sensi dell’art. 21 bis.
5.12. Resta da esaminare il caso in cui, nel corso del giudizio,
venga meno il silenzio inadempimento.
Se è emesso il provvedimento favorevole al ricorrente o quello
sfavorevole di natura discrezionale, viene meno la materia del
contendere (il giudice provvede sulle spese e sugli onorari del giudizio,
ai sensi dell’art. 23, settimo comma, della legge n. 1034 del 1971,
14
Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1, cit.
19
salvo l’onere di impugnazione dell’atto sfavorevole, secondo le regole
generali).
Se è emesso il provvedimento sfavorevole di natura vincolata,
risultano proponibili motivi aggiunti (con cui si può anche chiedere di
accertare la fondatezza dell’istanza).
5.13. Le precedenti osservazioni possono così sintetizzarsi:
a) nel caso di mero superamento del termine finale del
procedimento, all’interessato non spetta la tutela risarcitoria;
b) l’illecito omissivo dell’amministrazione è configurabile (nei
casi di mancato esercizio del potere vincolato o discrezionale) quando
è emessa la sentenza di accoglimento del ricorso, ai sensi dell’art. 21
bis della legge n. 1034 del 1971;
c) quando accolga un ricorso volto ad accertare la «fondatezza
dell’istanza» di rilascio di un atto vincolato, la sentenza può accogliere
la domanda risarcitoria, se sussistono gli elementi dell’illecito, anche
se nel corso del giudizio è emesso il provvedimento;
d) negli altri casi, la sentenza che ordini di provvedere entro il
termine da essa fissato può anche determinare in via equitativa la
somma dovuta dall’amministrazione per ogni giorno di indebito
ritardo, successivo alla scadenza;
e) in ogni caso, per l’ammissibilità della domanda risarcitoria e
affinché il giudice possa compiutamente adottare le proprie statuizioni
in ordine all’an ed al quantum del risarcimento, è indispensabile che il
richiedente con precisione determini i fatti accaduti e le voci di danno
che stia subendo dall’inerzia dell’amministrazione, nel rispetto del
principio del contraddittorio.
6. L’illecito omissivo per la mancata conclusione del
procedimento espropriativo e quello commissivo per sconfinamento
Senz’altro diverso – dall’illecito omissivo per silentium - è
quello che caratterizza la mancata conclusione del procedimento
espropriativo.
In tal caso, vi è una fattispecie complessa, caratterizzata
dall’emanazione di atti autoritativi e dalla mancata conclusione del
procedimento ablatorio, riguardante una posizione legittimante di
diritto soggettivo.
Poiché vi sono implicazioni inerenti al riparto della
giurisdizione, sono necessarie alcune precisazioni sull’ambito di
applicazione degli articoli 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del
1998.
L’art. 34 aveva devoluto alla giurisdizione amministrativa
esclusiva tre tipologie di controversie:
a) quelle riguardanti il danno derivante dall’occupazione
avvenuta in esecuzione di un provvedimento autoritativo, da
considerare retroattivamente sine titulo in ragione del suo
annullamento in sede giurisdizionale;
20
b) quelle riguardanti il danno derivante dall’occupazione del
suolo, disposta in esecuzione di un atto autoritativo inoppugnabile, ma
divenuta sine titulo per il mancato esercizio del potere espropriativo
entro il prescritto termine;
c) quelle riguardanti l’occupazione originariamente sine titulo,
cioè lo sconfinamento su una particella ulteriore rispetto a quelle
oggetto degli atti del procedimento.
6.1. Quanto alla prima ipotesi, il legislatore delegato (facendo
venire meno la regola tradizionale del duplice giudizio di cognizione
presso giurisdizioni diverse) ha concentrato innanzi al giudice
amministrativo la lite nel suo complesso, sia per il ricorso di
impugnazione che per la domanda risarcitoria (proponibile già
unitamente al ricorso di impugnazione o con un distinto ricorso).
Si è infatti in presenza di un illecito amministrativo
commissivo, caratterizzato dall’illegittimo esercizio del potere
espropriativo e dalla lesione di un interesse legittimo (posto a tutela
della posizione legittimante di diritto) e dall’avvenuta esecuzione
dell’ordinanza di occupazione d’urgenza.
Anche in tal caso (come nei casi indicati nel § 3), la
responsabilità amministrativa per l’emanazione dell’illegittimo atto
espropriativo è configurabile in presenza:
a) del fatto (cioè dell’elemento oggettivo);
b) della antigiuridicità;
c) della colpevolezza dell’apparato amministrativo.
L’elemento oggettivo sussiste quando è emanato un illegittimo
atto autoritativo e da questo consegua, sul piano causale, la
verificazione del danno (il che avviene quando vi è la sua materiale
esecuzione).
L’elemento della antigiuridicità sussiste quando, in applicazione
delle regole della giustizia amministrativa, il danno risulta ingiusto e
cioè quando l’atto autoritativo illegittimo risulta:
- non iure (in contrasto con le regole dell’ordinamento);
- contra ius (lesivo della posizione legittimante del diritto di
proprietà o di un altro diritto).
Affinché risulti che il provvedimento sia stato emesso non iure,
occorre che il soggetto leso abbia impugnato l’atto nel prescritto
termine di decadenza (cd. regola della pregiudizialità).
Sotto tale aspetto, non rileva la maggiore o minore gravità del
vizio riferibile all’atto ablatorio15, poiché per l’ordinamento anche il
più grave vizio di violazione di legge o di una regola procedimentale
mantiene il carattere autoritativo dell’atto e comporta l’onere della sua
tempestiva impugnazione (mentre la nullità è ravvisabile solo nei casi
di «difetto assoluto di attribuzione», per l’art. 21 septies, comma 1,
della legge n. 241 del 2000, modificata dalla legge n. 15 del 2005).
15
Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4, cit..
21
L’elemento della colpevolezza dell’apparato amministrativo –
rilevante quando l’atto sia risultato illegittimo in base alle regole della
giustizia amministrativa - è ravvisabile in re ipsa, quando
l’amministrazione detenga l’immobile altrui in assenza di un titolo
valido (e cioè quando il giudice amministrativo lo abbia annullato), ed
è ancora più marcato quando non sia eseguita la sentenza di
annullamento degli atti ablatori, che consente al titolare del bene –
qualora non sia riesercitato il potere ablatorio - di chiedere il
risarcimento del danno o la reintegrazione in forma specifica mediante
il giudizio di ottemperanza16.
6.2. Quanto alla seconda ipotesi (l’occupazione disposta iure,
ma divenuta sine titulo), il legislatore delegato (facendo venire meno la
regola tradizionale della sussistenza della giurisdizione civile nel caso
di violazione del diritto di proprietà per la mancata conclusione del
procedimento espropriativo) aveva devoluto anche queste liti alla
giurisdizione esclusiva, in considerazione degli aspetti marcatamente
pubblicistici della fattispecie.
Infatti, in tali casi l’amministrazione:
a) occupa il fondo ed esegue l’opera in esecuzione di atti
autoritativi (di apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, di
dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità e di urgenza, di
occupazione d’urgenza, oltre che di quelli riguardanti la scelta
dell’appaltatore), espressivi di poteri pubblicistici;
b) non emette il decreto di esproprio entro il prescritto termine
(il mancato esercizio della funzione pubblica si caratterizza anche per
la mancanza di un atto di proroga del termine finale del procedimento);
c) continua ad utilizzare il suolo altrui «per scopi di interesse
pubblico» (e non soddisfa propri interessi patrimoniali, ma tiene conto
delle esigenze della collettività, già valutate nei precedenti atti di
pianificazione e del procedimento espropriativo, nonché in sede di
stanziamento e di utilizzazione delle risorse economiche);
d) commette un illecito che talvolta comporta un sostanziale
vantaggio per il proprietario e la responsabilità del funzionario
omittente, che secondo i principi ne risponde innanzi alla Corte dei
Conti (poiché, quando è realizzata l’opera e il suolo non va più
restituito, l’amministrazione è tenuta a corrispondere un risarcimento
pari ad una somma superiore a quella che sarebbe stata spettante nel
caso di fisiologica conclusione del procedimento, in ragione della
complessiva normativa riguardante l’indennità di esproprio per le aree
edificabili);
e) ha l’obbligo di restituire il suolo e di risarcire il danno
cagionato con l’occupazione senza titolo, ma può fare venire meno ab
extra l’obbligo di restituzione, con l’esercizio del potere di
acquisizione del bene al proprio patrimonio.
16
Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2, in Urbanistica e appalti, 2005, 809.
22
6.3. Quanto alla terza ipotesi, lo sconfinamento può verificarsi
perché è eseguita una ordinanza di occupazione d’urgenza che:
- non si è riferita alla particella, pur sottoposta al vincolo
preordinata all’esproprio, perché il progetto ha tenuto conto di dati
catastali non coincidenti con la realtà dei luoghi;
- si è riferita a una particella non rientrante tra quelle prese in
considerazione in sede di approvazione del progetto;
- per errore materiale, non ha menzionato una delle particelle
cui è stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio e che è stata
presa in considerazione nel progetto
Lo sconfinamento, inoltre, può verificarsi perché:
- in sede di esecuzione dell’ordinanza, per errore è occupata una
particella ulteriore rispetto a quelle indicate;
- nel corso dei lavori, è occupato un terreno sul quale è
realizzata una parte dell’opera.
In tali casi, il comportamento è strettamente connesso al
procedimento attivato con gli atti che appongono i vincoli preordinati
all’esproprio ed è commesso in occasione della esecuzione di un
formale provvedimento di occupazione d’urgenza (e dunque
riconducibile all’esercizio – sia pure patologico – della funzione
pubblica).
6.4. Quanto all’obbligo di restituzione, va rimarcato che:
- per una plurisecolare giurisprudenza (seguita negli ultimi venti
anni da orientamenti che hanno però ravvisato ampie eccezioni al
principio), poteva essere emanato il decreto di esproprio in sanatoria;
- in ossequio ai principi enunciati dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo17, l’art. 43 del testo unico n. 327 del 2001 – da me redatto
proprio per superare il contrasto col diritto comunitario e per costruire
un sistema coerente - ha attribuito all’amministrazione («che utilizza
un bene immobile, modificato in assenza del valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità») lo
specifico potere di emanare un «atto di acquisizione» del bene «al suo
patrimonio indisponibile».
Innovando rispetto al sistema preesistente, dall’art. 43 emerge
che - dopo la scadenza del prescritto termine - un tardivo decreto di
esproprio in sanatoria sarebbe illegittimo (anche se idoneo a divenire
inoppugnabile), perché il sistema prevede che l’illecito debba
terminare – a parte la peculiare fattispecie processuale prevista dai
commi 3 e 4 - o con la restituzione del suolo o con l’emanazione del
tipico provvedimento da esso disciplinato, da motivare in relazione alle
circostanze sopravvenute alla dichiarazione di pubblica utilità18.
17
Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96,
richiamata dalle sentenze 30 ottobre 2003 e 13 dicembre 2003.
18
Cons. Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2, cit.
23
Per i casi di utilizzazione del suolo altrui per scopi di interesse
pubblico, il legislatore ha dunque individuato uno specifico caso di
illecito permanente:
- esso non è stato compiutamente disciplinato dai codici civili
del 1865 e del 1942, ma da una articolata disciplina pubblicistica, che
consente all’autore dell’illecito di fare venire meno l’obbligo di
restituzione nell’esercizio di una funzione pubblicistica, salvo il
sindacato di legittimità del giudice amministrativo;
- per il periodo di «utilizzazione senza titolo del suolo», la
rimproverabilità è in re ipsa, nel senso che - in ragione della tutela da
accordare al diritto di proprietà – essa sussiste per il solo fatto che
l’amministrazione, pur avendo realizzato secundum ius l’opera,
continua a detenere il suolo sine titulo e omette di esercitare il potere
acquisitivo a titolo di sanatoria;
- ‘a regime’, l’art. 43 prevede la spettanza dell’integrale
risarcimento del danno, mentre per le «occupazioni senza titolo,
anteriori al 30 settembre 1996», il risarcimento spetta nella misura
ridotta sancita dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 (che
ha aggiunto all’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 il comma 7 bis
invocato dall’appellato), trasfuso nell’art. 55 del testo unico.
6.5. Va ora verificata la portata della sentenza n. 281 del 2004
della Corte Costituzionale, che ha dichiarato in parte incostituzionale
l’originario 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nel frattempo
novellato con la legge n. 205 del 2000).
Per le medesime ragioni poste a base della sentenza n. 292 del
2000 (dichiarativa della incostituzionalità parziale dell’art. 33 del
decreto legislativo n. 80 del 1998), la sentenza n. 281 del 2004 ha
rilevato che:
- l’art. 4, lettera g), della legge delega n. 59 del 1997 aveva
consentito al legislatore delegato di estendere la giurisdizione
amministrativa ai «diritti patrimoniali consequenziali, in essi
compreso il risarcimento del danno» (da intendere nel significato
riconducibile all’art. 30 del testo unico n. 1054 del 1924 e all’art. 7
della legge n. 1034 del 1971, quali «diritti patrimoniali consequenziali
alla pronunzia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si
ricorre»), e dunque solo per le controversie riguardanti la risarcibilità
del danno conseguente alla sentenza di annullamento dell’atto
impugnato;
- l’originario articolo 34 risultava conforme alla legge delega
solo per le disposizioni riguardanti le controversie risarcitorie connesse
alla impugnazione dei provvedimenti autoritativi (volte ad evitare «la
necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al
giudice ordinario»), mentre era incostituzionale – per eccesso di delega
– per la parte in cui aveva devoluto alla giurisdizione esclusiva le
controversie riguardanti diritti soggettivi (con la conseguente
«necessità di interpretare» in tal modo l’art. 35).
24
La sentenza n. 281 del 2004 ha ravvisato il rispetto della legge
di delega nella parte in cui l’art. 34 aveva devoluto alla giurisdizione
amministrativa le controversie sul sopra descritto illecito commissivo e
ha dichiarato in parte incostituzionale il medesimo art. 34, per la parte
che aveva previsto la giurisdizione esclusiva su diritti, compresi quelli
lesi con l’illecito omissivo.
Ciò comporta che, per la portata retroattiva della sentenza n. 281
del 2004 e per il periodo in cui ha avuto vigore l’originario articolo 34
del decreto legislativo n. 80 del 1998 (e cioè per le controversie sorte
fino alla data di entrata in vigore della legge n. 205 del 2000), ai fini
della giurisdizione vanno distinte tre tipologie di controversie aventi
per oggetto le domande di risarcimento del danno causato
dall’amministrazione nella materia espropriativa:
a) va considerata sussistente la giurisdizione amministrativa
quando si tratti di un illecito commissivo e sia chiesto l’annullamento
dell’atto autoritativo (incidente sull’interesse legittimo), emanato nel
corso di una delle fasi del procedimento espropriativo, nonché (col
medesimo ricorso o uno distinto) il risarcimento del danno cagionato
con la sua esecuzione e l’utilizzazione del suolo da parte
dell’amministrazione;
b) va considerata sussistente la giurisdizione civile quando si
tratti di un illecito omissivo permanente, e cioè sia chiesto il
risarcimento del danno cagionato al diritto di proprietà
dall’amministrazione quando, dopo l’esecuzione dell’atto di
occupazione d’urgenza, l’amministrazione abbia continuato a utilizzare
il suolo dopo la scadenza del termine prescritto per la conclusione del
procedimento ed abbia omesso di emanare il decreto di esproprio.
c) va considerata altresì sussistente la giurisdizione civile
quando si tratti di un illecito commissivo permanente, cagionato col
provvedimento nel caso di sconfinamento.
Infatti, ratione temporis, le controversie riguardanti l’illecito
omissivo e quelle sullo sconfinamento attengono alla tutela spettante al
diritto di proprietà (e non all’interesse legittimo, costituente il
diaframma che intercorre tra il provvedimento autoritativo e la sfera
giuridica di chi sia leso da esso) e non sono conducibili ad una ipotesi
legislativamente prevista di giurisdizione esclusiva (introdotta dal
decreto legislativo n. 80 del 1998, ma rimossa dalla sentenza del Corte
n. 281 del 2004).
Per tali ragioni, e con le precisazioni sullo ius superveniens del
successivo § 6.11., risulta condivisibile la conclusione cui è giunta la
Corte di Cassazione, sulla sussistenza della giurisdizione del giudice
civile, innanzi al quale - prima dell’entrata in vigore della legge n. 205
25
del 2000 sia stato chiesto il risarcimento del danno non connesso
all’impugnazione di un provvedimento19.
6.6. La giurisdizione esclusiva in materia urbanisticaespropriativa è stata ripristinata dalla legge n. 205 del 2000, che ha
novellato gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998
(ancor prima della pubblicazione della sentenza della Corte
Costituzionale n. 281 del 2004, che ha dichiarato la parziale
incostituzionalità dell’originario articolo 34).
Come emerge dai lavori parlamentari, il legislatore era
consapevole che la Corte Costituzionale (la cui sentenza n. 292 del
2000 aveva dichiarato la parziale incostituzionalità dell’originario art.
33 per eccesso di delega) avrebbe verosimilmente dichiarato per la
stessa ragione anche la parziale incostituzionalità dell’originario art. 34
(ciò che poi è avvenuto con la sentenza n. 281 del 2004) ed ha voluto
perseguire le esigenze di certezza sulla normativa inerente alla
giurisdizione, reintroducendo la giurisdizione amministrativa esclusiva
nelle tre materie dei servizi pubblici, dell’urbanistica e dell’edilizia.
Pertanto, per quanto attiene al novellato art. 34 e alla materia
dell’urbanistica
(e
ai
suoi
aspetti
strumentali
inerenti
all’espropriazione), per le controversie sorte dopo la sua entrata in
vigore sono divenute irrilevanti le questioni attinenti al difetto di
delega del testo originario (poi riscontrato dalla sentenza n. 281 del
2004 della Corte Costituzionale).
La legge n. 205 del 2000 ha così nuovamente devoluto alla
giurisdizione esclusiva le controversie riguardanti l’illecito omissivo
dell’amministrazione, causato con la mancata tempestiva emanazione
del decreto di esproprio, nonché quelle riguardanti lo sconfinamento:
- il novellato art. 34 ha nuovamente definito l’urbanistica – ai
fini della giurisdizione – nel senso più vasto (al comma 2), devolvendo
alla giurisdizione amministrativa la cognizione su tutti i diritti lesi
dall’amministrazione, ed ha mantenuto ferma la giurisdizione civile
soltanto «per le controversie riguardanti la determinazione e la
corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di
natura espropriativa o ablativa» (al comma 3);
- il novellato art. 35 ha reintrodotto anche la regola per la quale
– nella materia dell’urbanistica - il giudice amministrativo può
disporre, «anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto».
Inoltre, con una disposizione avente una portata generale
(applicabile sia nei casi di giurisdizione di legittimità o di merito, sia in
quelli di giurisdizione esclusiva), l’art. 7, comma 4 (sostitutivo dell’art.
7, primo periodo del terzo comma, della legge n. 1034 del 1971) ha
previsto che «il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della
19
Sez. Un., ord. 16 novembre 2004, n. 21637; ord. 22 novembre 2004, n. 21944; 14
gennaio 2005, ord. n. 600; 20 aprile 2005, ord. n. 8204 e n. 8209.
26
sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative
all’eventuale risarcimento del danno», e – con evidente riferimento ai
casi di occupazione di un suolo senza titolo - «anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica».
6.7. Dalle novellate disposizioni del decreto legislativo n. 80 del
1998 e della legge n. 1034 del 1971, emerge che la legge n. 205 del
2000:
- ha integralmente ribadito il sistema introdotto dall’originario
art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (devolvendo nuovamente
alla giurisdizione esclusiva la cognizione dei diritti soggettivi e delle
domande di risarcimento del danno, anche se formulate in mancanza
dell’impugnazione di un atto), in ragione delle strettissime connessioni
intercorrenti tra il vincolo preordinato all’esproprio e le fasi volte alla
sua attuazione (schematizzate nell’intero impianto del testo unico n.
327 del 2001);
- ha riaffermato la preesistente giurisdizione esclusiva per
l’illecito commissivo commesso con il provvedimento illegittimo
(introdotta – senza violazione di regole costituzionali – già con
l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 80 del 1998);
- costituisce la fonte normativa attributiva alla giurisdizione
esclusiva delle controversie sorte dopo la sua entrata in vigore,
connesse all’attuazione del vincolo preordinato all’esproprio e
riguardanti l’occupazione divenuta sine titulo, qualificabile come
illecito omissivo (per mancata conclusione del procedimento), ovvero
l’occupazione originariamente sine titulo, qualificabile come illecito
commissivo (mediante sconfinamento).
Il sistema basato sulla giurisdizione esclusiva risulta anche
improntato alle esigenze di rapida tutela del proprietario in sede
processuale.
Infatti, se l’amministrazione emana l’atto di acquisizione nel
corso del giudizio risarcitorio (anche volto ad ottenere la
reintegrazione in forma specifica), può essere disposta la riunione tra il
medesimo giudizio e quello di eventuale impugnazione dell’atto
sopravvenuto (poiché l’esito del secondo ricorso incide sulla
accoglibilità della domanda di reintegrazione in forma specifica e sul
quantum spettante a titolo di risarcimento).
Il sistema risulta anche razionale, in considerazione degli
elementi costitutivi dell’illecito omissivo per mancata conclusione del
procedimento e di quello commissivo mediante sconfinamento.
Il legislatore – con le inscindibili disposizioni sostanziali del
testo unico e processuali sulla giurisdizione e sui poteri del giudice
amministrativo – ha tenuto conto delle fasi del procedimento di
attuazione del vincolo preordinato all’esproprio, per fattispecie
caratterizzate dapprima dall’esercizio delle funzioni pubbliche (con
l’emanazione degli atti di pianificazione o di natura ablatoria) e poi
dalla mancata conclusione del procedimento espropriativo o da un
27
(parziale) sconfinamento, lesivi della posizione legittimante di diritto e
anche dell’interesse legittimo coinvolto nel corso del procedimento
ablatorio.
6.8. La giurisdizione amministrativa esclusiva sull’illecito
omissivo (da occupazione divenuta sine titulo) e sull’illecito
commissivo (da sconfinamento sine titulo) è rimasta ferma – e trova
una ulteriore conferma - nel quadro normativo venutosi a creare con la
sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale (che ha dichiarato
la parziale incostituzionalità del comma 1 del novellato art. 34 del
decreto legislativo n. 80 del 1998, per la parte in cui attribuiva alla
giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie aventi ad
oggetto «i comportamenti»).
Infatti, la sentenza n. 204 del 2004 – il cui dispositivo va inteso
tenendo conto della relativa motivazione (e non occorrono molte
parole per evidenziare come la tesi contraria sia del tutto ‘di parte’) ha fatto venire meno la giurisdizione esclusiva soltanto per le
controversie riguardanti i comportamenti non riferibili a «funzioni
pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia».
6.8.1. Come sopra evidenziato, la legge n. 205 del 2000 ha
devoluto alla giurisdizione esclusiva le controversie sugli illeciti
commissivi ed omissivi con disposizioni che hanno dato decisivo
rilievo alla materia urbanistica ed espropriativa ed ai poteri del giudice
amministrativo di condannare l’amministrazione al risarcimento del
danno cagionato in tali materie a inestricabili posizioni di diritto o di
interesse, mediante la patologica attuazione del vincolo preordinato
all’esproprio.
Invece, non va considerato decisivo il richiamo ai
«comportamenti», che conteneva il novellato art. 34 del decreto
legislativo n. 80 del 1998 (corrispondente a quello del testo originario,
coinvolto nella dichiarazione di incostituzionalità parziale – per
eccesso di delega - avutasi con la sentenza n. 281 del 2004 della Corte
Costituzionale).
Infatti, il richiamo ai «comportamenti» («dell’amministrazione
pubblica e dei soggetti alle stesse equiparati») riguardava una pluralità
di eterogenee situazioni, riferibili a «tutti gli aspetti dell’uso del
territorio».
Per il suo significato letterale e indefinito, la parola
«comportamenti» poteva essere interpretata nel senso che essa si
riferiva:
a) innanzitutto, ai casi di acquisto del possesso del suolo altrui
in esecuzione di una ordinanza di occupazione d’urgenza, a quelli di
occupazione divenuta sine titulo (a seguito della scadenza del termine
per la conclusione del procedimento espropriativo) ovvero
originariamente sine titulo (per sconfinamento nel corso del
procedimento);
28
b) inoltre, ad ogni caso in cui l’amministrazione avesse
utilizzato un bene proprio o altrui, ovvero ne avesse disposta la
materiale modificazione, cagionando un danno altrui.
Per i casi indicati sub a), in cui è ravvisabile una attività
riconducibile alla funzione pubblica (anche per quanto riguarda le
implicazioni di rilievo penale), la parola «comportamenti» risultava
sostanzialmente superflua, proprio perché – per le ragioni sopra
esposte - la giurisdizione esclusiva è stata disposta dai novellati articoli
34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 e dal novellato art. 7,
terzo comma, della legge n. 1034 del 1971.
In altri termini, per tali casi il richiamo ai «comportamenti»
poteva solo ulteriormente corroborare una soluzione già chiaramente
evincibile dalle medesime disposizioni nel loro complesso.
Per i casi indicati sub b), invece, il carattere indeterminato e
onnicomprensivo della parola «comportamenti» era tale da giustificare
la giurisdizione esclusiva anche in relazione a fattispecie eterogenee
non caratterizzate dall’esercizio di una funzione e neppure strettamente
riferibili alla materia urbanistica (pur se attinenti – in senso lato - ad
«aspetti dell’uso del territorio»), ad esempio, e per esemplificare, nei
casi:
- di vie di fatto, e cioè di acquisto del possesso di un suolo o di
un edificio in assenza del vincolo preordinato all’esproprio e di una
qualsiasi funzione pubblicistica, nonché di alterazione sine titulo dello
stato dei luoghi;
- di manutenzione delle strade o di altri beni pubblici e di
gestione di discariche e di altre opere pubbliche, svolte con pregiudizio
altrui.
Già prima della sentenza di incostituzionalità n. 204 del 2004, la
Corte di Cassazione aveva dato una interpretazione restrittiva del
novellato art. 34, rilevando la sua applicabilità per le sole controversie
connesse all’occupazione di un suolo altrui per la realizzazione di
un’opera pubblica20, tra cui quelle aventi per oggetto la domanda di
risarcimento del danno, quando – dopo l’esecuzione dell’ordinanza di
occupazione del suolo – non sia stato emesso tempestivamente il
decreto di esproprio21.
6.8.2. Con la sentenza n. 204 del 2004, la Corte Costituzionale:
a) ha determinato il significato tecnico-giuridico del termine
«comportamenti», con una ricostruzione – vincolante per l’interprete –
che ne ha constatata l’essenza privatistica;
b) ha dichiarato la parziale incostituzionalità del novellato art.
34, comma 1, nella parte in cui faceva riferimento ai comportamenti
così individuati.
20
21
Sez. Un., 11 marzo 2004, n. 5055, rv. 571043.
Sez. Un., ord. 15 ottobre 2003, n. 15471, rv. 567471,
29
Quanto alle ragioni che hanno indotto alla parziale dichiarazione
di incostituzionalità dell’art. 34, comma 1, la sentenza – nei punti da
3.2. a 3.4.2. della motivazione, riguardanti il novellato art. 33 sui
servizi pubblici – ha dapprima determinato i limiti entro i quali il
legislatore ordinario può prevedere casi di giurisdizione esclusiva:
- per l’art. 103 della Costituzione, il legislatore ordinario può
prevedere la giurisdizione amministrativa esclusiva solo per «materie
particolari» e non anche quando vi sia la «pura e semplice presenza ...
di un rilevante pubblico interesse»;
- solo per «materie particolari» - dai «confini» «compiutamente
delimitati» - possono essere introdotte ipotesi di giurisdizione
esclusiva per le controversie su diritti, quando sia «coinvolta la
pubblica amministrazione-autorità».
Nel successivo punto 3.4.3., la Corte Costituzionale:
- quanto al significato del termine, ha rilevato che nelle
controversie sui «comportamenti» l’amministrazione «non esercita –
nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare
strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere»;
- ha richiamato le ragioni poste a base della dichiarazione di
parziale incostituzionalità dell’art. 33 e, con riferimento alla
giurisdizione esclusiva in materia urbanistica sui «comportamenti», ha
osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione
dell’art. 34», proprio perché esso – in violazione dell’art. 103 – ha
esteso la giurisdizione esclusiva a tali controversie, in cui non è
ravvisabile l’esercizio di «alcun pubblico potere».
6.9. Dalle statuizioni della Corte Costituzionale, emerge che la
sentenza n. 204 del 2004 non ha compreso tra i «comportamenti» conoscibili dal giudice civile gli illeciti commessi nell’esercizio della
funzione pubblica, o con la mancata conclusione del procedimento
espropriativo (nel corso del quale siano divenuti inoppugnabili gli atti
che abbiano a suo tempo consentito l’occupazione del suolo altrui e la
realizzazione dell’opera) o con lo sconfinamento (cioè con
l’esecuzione di un provvedimento, che anche a distanza di tempo
conduca all’acquisto del possesso di un’area, eccedente quella
consentita).
Tale conclusione è confermata dal fatto che la medesima
sentenza non ha inciso sull’ambito di applicazione:
- del comma 1 del novellato art. 34, che – pure a seguito della
soppressione del richiamo ai «comportamenti» connessi a «strumenti
intrinsecamente privatistici» – continua a devolvere alla giurisdizione
esclusiva la medesima materia e cioè anche la cognizione dei diritti
soggettivi che siano stati lesi dall’amministrazione nella fase di
attuazione del vincolo preordinato all’esproprio (chi nega l’attuale
giurisdizione esclusiva riporta la propria ‘tesi’, non il perdurante
contenuto della legge);
30
- del comma 3 del novellato art. 34 (che continua a determinare
i casi in cui sussiste la giurisdizione del giudice civile nella materia
urbanistica);
- del novellato art. 7 della legge n. 1034 del 1971 (sul potere del
giudice amministrativo di disporre «anche attraverso la reintegrazione
in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto»), il quale ha una
sua significativa portata applicativa proprio quando il giudice
amministrativo – in assenza di un giudizio di impugnazione – constati
che l’amministrazione possieda un suolo senza titolo (mentre, per i casi
di annullamento dell’atto ablatorio, si è sempre ammesso che la
restituzione possa essere disposta in sede d’ottemperanza)22.
In considerazione della incontestabile portata inscindibile della
motivazione e del dispositivo della sentenza della Corte, vanno dunque
distinte due tipologie di controversie:
a) quelle nelle quali il «comportamento» dell’amministrazione –
lesivo di un diritto - è riconducibile a «strumenti intrinsecamente
privatistici» ed è conoscibile dal giudice civile;
b) quelle nelle quali l’«attività» dell’amministrazione – pur se
lesiva di un diritto – è riconducibile all’esercizio – anche se mediato –
di una pubblica funzione ed è conoscibile dal giudice amministrativo in
sede di giurisdizione esclusiva.
Tra i comportamenti «meramente privatistici», carenti di
supporti provvedimentali, rientrano senz’altro gli illeciti commessi:
- con le ‘vie di fatto’ (e cioè con l’acquisto del possesso di un
suolo o di un edificio, in assenza del vincolo preordinato all’esproprio
e di una qualsiasi funzione pubblicistica, o con l’alterazione sine titulo
dello stato dei luoghi, ad esempio in occasione della realizzazione di
un’opera da parte dell’amministrazione su un proprio terreno);
- mediante le attività materiali caratterizzanti i lavori di
esecuzione di opere pubbliche, riferibili alla fase di esecuzione di
contratti di appalto e che cagionino danni a terzi23;
- nel corso delle attività di manutenzione delle strade o di altri
beni pubblici o di gestione di discariche e di altre opere pubbliche.
Tra le attività invece riconducibili all’esercizio di una pubblica
funzione, oltre alle fattispecie caratterizzate da un illecito commissivo
con un provvedimento annullato24, rientrano quelle caratterizzate da un
illecito omissivo commesso nel corso del procedimento
espropriativo25, ovvero da uno sconfinamento.
Quando l’amministrazione abbia realizzato secundum legem
l’opera ed abbia omesso di concludere il procedimento espropriativo,
la controversia – pur riguardando posizioni di diritto, rispetto alle quali
22
Cons. Stato, Sez. IV, 23 giugno 1950, n. 311; Sez. IV, 24 giugno 1960, n. 688;
Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2.
23
Sez. Un., ord. 18 ottobre 2005, n. 20123.
24
Ad. Plen., 16 novembre 2005, n. 9.
25
Ad. Plen., 30 agosto 2005, n. 4.
31
sono inconfigurabili oneri di impugnazione - è completamente avvinta
alle modalità di esercizio della pubblica funzione:
- la realizzazione dell’opera pubblica non è qualificabile come
un comportamento meramente materiale rilevante per il diritto privato,
ma è disciplinata dalle leggi amministrative e si giustifica per la
doverosa esecuzione dei precedenti atti autoritativi, divenuti
inoppugnabili;
- l’amministrazione ha il dovere di adeguare la situazione di
fatto a quella di diritto, o restituendo il suolo al suo titolare o
esercitando – motivatamente - il suo immanente potere ablatorio in
sanatoria (tipizzato dall’art. 43 del testo unico con l’esercizio del
potere di acquisizione del bene «modificato in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità»);
- l’illecito è configurabile per il mancato esercizio della
funzione pubblica e viene meno o con la restituzione del suolo o
quando tale funzione sia esercitata con l’atto di acquisizione del bene
al patrimonio pubblico (avente l’effetto – consentito dal sistema - di
estinguere l’obbligo di restituzione).
Gli stessi principi – riguardanti il dovere dell’amministrazione
di restituire il suolo o di disporne l’acquisizione - si applicano quando
si è verificato uno sconfinamento.
Del resto, se si considera il caso in cui un’area sia in parte
oggetto di formali atti ablatori, in parte di uno sconfinamento e in parte
di una occupazione divenuta sine titulo per la mancata conclusione del
procedimento, sarebbe manifestamente irrazionale ritenere che due
giurisdizioni debbano conoscere delle azioni del proprietario volte alla
tutela del suo patrimonio.
Ad esempio, col medesimo ricorso al giudice amministrativo si
può impugnare l’atto di occupazione d’urgenza e contestare il
contestuale sconfinamento, oppure impugnare l’atto conclusivo del
procedimento, avente per oggetto una particella, e chiedere la
restituzione di un’altra, per la quale non è stato emesso il decreto di
esproprio.
6.10. La giurisdizione amministrativa esclusiva deriva anche
dall’art. 53 del testo unico (entrato in vigore a decorrere dal 30 giugno
2003), per il quale «sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i
provvedimenti, gli accordi e i comportamenti delle amministrazioni
pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla
applicazione delle disposizioni del testo unico».
Esso va interpretato conformemente alle disposizioni contenute
nel novellato art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (di cui
costituisce norma meramente esplicativa) ed ai principi enunciati dalla
sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004:
32
- ha ribadito la sussistenza della giurisdizione esclusiva per le
controversie riguardanti le fasi di attuazione del vincolo urbanistico
preordinato all’esproprio;
- riguarda una specifica e delimitata materia, strumentale
all’attuazione dei piani urbanistici e alla realizzazione delle opere
pubbliche, nella quale sono esercitati poteri autoritativi incidenti su
interessi legittimi (nel senso che i provvedimenti di pianificazione e
quelli ablatori costituiscono il titolo pubblicistico per l’acquisizione del
possesso e per l’esecuzione delle opere di pubblico interesse);
- ha richiamato i «comportamenti» per rimarcare che sussiste la
giurisdizione esclusiva per l’illecito permanente commesso nel corso
del procedimento espropriativo e caratterizzato dall’esercizio della
funzione pubblica (quando l’occupazione del suolo, espressione del
potere espropriativo e da considerare sine titulo per la mancata
emanazione del provvedimento finale o per sconfinamento, costituisce
per di più il presupposto per l’esercizio del correlativo potere di
acquisizione del bene utilizzato per ragioni di pubblico interesse);
- non ha dunque compreso anche gli illeciti commessi in
assenza della connessione a tale funzione e lesivi di diritti, la cui
cognizione continua a rientrare nell’ambito della giurisdizione civile.
6.11. Resta da chiarire l’incidenza del principio affermato dalla
decisione dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2005, per le controversie
riguardanti l’occupazione sine titulo connessa al vincolo preordinato
all’esproprio, proposte innanzi al giudice amministrativo prima
dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000.
Poiché la legge n. 205 del 2000 ha devoluto tali controversie
alla giurisdizione amministrativa esclusiva, lo ius superveniens
comporta l’applicabilità del principio evincibile dall’art. 5 del codice di
procedura civile, per il quale una norma attributiva della giurisdizione
è immediatamente applicabile nel giudizio pendente presso il giudice
che non aveva originariamente giurisdizione.
Infatti, risulterebbe irrazionale e in contrasto col principio della
ragionevole durata del processo una sentenza con cui il giudice dichiari
il proprio difetto di giurisdizione, destinata ad essere seguita da una
domanda da formulare innanzi al medesimo giudice.
Pertanto, poiché la legge n. 205 del 2000 ha reintrodotto la
giurisdizione esclusiva in materia urbanistica (dopo la parziale
dichiarazione di incostituzionalità dell’originario art. 34, per eccesso
di delega), il potere decisorio del giudice amministrativo sussiste anche
per i ricorsi concernenti le controversie sull’illecito omissivo e sullo
sconfinamento, proposti prima della data di entrata in vigore della
legge n. 205 del 2000.
7. Conclusioni
Le recenti riforme sui criteri di riparto della giurisdizione si
inseriscono in un quadro normativo che ha mutato notevolmente la
33
disciplina sostanziale di vari settori nei quali è esercitata la funzione
pubblica.
Da un lato, molti settori sono stati riformati per consentire lo
svolgimento di attività senza particolari formalismi (ma sottoposte a
poteri di vigilanza e repressivi per gli interessi pubblici coinvolti),
oppure per semplificare la normativa vigente e per evitare la
proliferazione della patologia dei procedimenti (come ad esempio era
avvenuto in materia espropriativa prima della emanazione del vigente
testo unico).
Dall’altro, l’attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice
amministrativo ha mirato alla semplificazione dei criteri di riparto,
concentrando nel giudice amministrativo la tutela spettante quando le
controversie riguardino – in particolare - rapporti di concessione (salve
le pretese economiche previste dall’art. 5, secondo comma, della legge
n. 1034 del 1971), accordi di diritto amministrativo, le materie previste
dai novellati articoli 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, gli
atti (o l’inerzia) delle autorità di vigilanza, anche di quelle
indipendenti.
Tali complessive riforme hanno condotto a due fondamentali
innovazioni della giustizia amministrativa.
La prima è quella sulla piena tutela che ha ottenuto – sul piano
processuale e sostanziale – l’interesse legittimo.
La regola della risarcibilità della lesione arrecata all’interesse
legittimo – in aggiunta alla ‘tradizionale’ tutela di annullamento in
presenza dei vizi di legittimità (tra cui ha un rilievo fondamentale
l’eccesso di potere) – consente le seguenti considerazioni:
a) l’interesse legittimo ‘difensivo’ costituisce un ‘miracolo
dell’ordinamento’, che ha fondato sul piano istituzionale – dalla fine
dell’Ottocento – l’impugnazione degli atti emessi in applicazione di
una norma;
b) la giurisprudenza amministrativa – con l’elaborazione delle
regole sulla tutela dell’interesse legittimo ‘pretensivo’ – ha consentito
la tutela di ogni posizione correlativa al mancato esercizio della
funzione pubblica (al fine di ottenere la conclusione del
procedimento);
c) un tempo si adoperava l’espressione per cui il diritto ‘si
degrada’ ad interesse, per descrivere come sorga l’interesse legittimo
(di difesa), che consente l’impugnazione del provvedimento
autoritativo incidente su una posizione legittimante di diritto (ad es.,
del provvedimento di esproprio o di ritiro di un precedente atto
abilitativo);
d) con l’introduzione della regola della risarcibilità del danno,
l’interesse legittimo – anche quello ‘pretensivo’ - ha oggi una tutela
piena e per qualsiasi vizio, anche quando vi sia un illecito omissivo per
silentium (rispetto al quale assume una importanza centrale – e
34
costitutiva - la sentenza del giudice amministrativo che ordini la
definizione del procedimento).
La piena tutela spettante all’interesse legittimo consente di
ribaltare l’impostazione tradizionale sui rapporti tra diritto ed interesse
legittimo.
Quando si afferma che l’atto espressivo della funzione pubblica
incide su un diritto e non è impugnabile innanzi al giudice
amministrativo, vi è la degradazione della posizione soggettiva e della
tutela, nel senso che l’interesse legittimo ‘degrada’ a mero diritto.
Infatti, i limitati strumenti di tutela attribuiti al giudice civile
non consentono la più compiuta sindacabilità dell’azione
amministrativa (né la rimozione degli effetti dell’atto) e fanno sorgere
il rischio di sovrapposizioni sulla valutazione amministrativa, in
assenza dell’indispensabile ‘meccanismo’ dell’annullamento dell’atto
con salvezza degli atti ulteriori (tipico del processo amministrativo
inerente all’esercizio della funzione).
Dovrebbero fare riflettere le questioni riferibili all’effettività
della tutela delle posizioni soggettive, quando si tratti dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni.
I ‘più forti’ interessi legittimi sono stati ‘degradati’ a meri diritti
soggettivi, cioè a soggezioni prive di effettiva tutela, da quando vi è
stata la privatizzazione dei rapporti di lavoro, con l’imposizione
legislativa della natura ‘negoziale’ ai provvedimenti, divenuti atti di
gestione emessi ‘con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro’
(art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001)
Infatti, con sicura incoerenza rispetto alle previsioni dell’art.
103, primo comma, della Costituzione (che riserva alla giurisdizione
amministrativa la cognizione degli interessi legittimi, la cui tutela non
dovrebbe essere sopprimibile dal legislatore ordinario), sono stati
sottratti quegli spazi di tutela, che i giudici amministrativi – per le
posizioni correlative ai provvedimenti – hanno tradizionalmente dato
per i profili di eccesso di potere e per le illegittimità di ordine
procedimentale, poi disciplinate dalla legge n. 241 del 1990.
Nell’ottica della più efficace tutela delle posizioni giuridiche
soggettive, la loro qualificazione come interessi legittimi implica la
massima tutela possibile: la rimozione degli effetti dell’atto e, se
risultano gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo, anche il
risarcimento del danno.
La seconda fondamentale innovazione è la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva della cognizione di determinate controversie
aventi per oggetto diritti soggettivi, coinvolti nell’esercizio della
funzione pubblica.
In ogni caso, quando tra le posizioni di diritto e di interesse vi
sia una inestricabile connessione (sempre più frequente anche negli
ordinamenti di settore che prevedano atti di vigilanza o di
programmazione, che conducono a procedimenti complessi e ad atti
35
esecutivi o adempitivi, incidenti su diritti assoluti o relativi), è allora
del tutto logico che vi sia la concentrazione delle controversie in sede
di giurisdizione esclusiva.
Spesso, infatti, la pretesa di carattere economico (ad es., di un
operatore del servizio sanitario, in regime di convenzionamento o di
accreditamento) risulta fondata solo ove vi sia il rispetto degli atti di
programmazione, o nel caso di fondata impugnativa di questi.
E’ auspicabile che le questioni di giurisdizione siano risolte in
un clima di collaborazione tra tutti gli operatori, tenendo conto delle
peculiarità caratterizzanti l’esercizio delle funzioni pubbliche, nonché
dell’esigenza di rafforzare le tecniche di tutela nei confronti di chi
utilizza le risorse della collettività e deve applicare i principi
costituzionali di legalità e del buon andamento dell’azione
amministrativa.
In attesa di una riforma che istituzionalizzi tale collaborazione
(ad esempio, con la creazione di un Tribunale dei conflitti o
prevedendo che magistrati amministrativi facciano parte dei collegi
delle Sezioni Unite che si occupano di questioni di giurisdizione), gli
operatori si ispirino ai principi che conducano ad una rapida ed
effettiva giustizia, senza discriminazioni o formalismi e sempre
rammentando che ubi ius, ibi remedium.
Luigi Maruotti (Consigliere di Stato)
36
Pubblicato su
www.lexfor.it,
novembre 2005
Cons. St., Adunanza Plenaria, 15 settembre 2005 n. 7 Pres.
Alberto de Roberto, Cons. Est. Luigi Maruotti - S.p.a. Antognolla
(Avv. G. La Spina e S. Crisci) c. Comune di Perugia (Avv.ti M.
Cartasegna e A. Mariani Marini).
1.
Giustizia amministrativa – Giurisdizione – Edilizia ed
urbanistica – Tardivo rilascio di titoli edilizi autorizzativi Mero comportamento della P.A o comportamento
nell’esercizio di un potere autoritativo - Giurisdizione del
G.A. – Sussiste.
2.
Risarcimento del danno – Mancato o tardivo rilascio di
titoli edilizi autorizzativi – Danno risarcibili – Condizioni.
1.
Il ritardo della P.A. nell’adozione delle pratiche per il
rilascio dei titoli edilizi autorizzativi non consiste in un mero
comportamento (omissivo) della P.A., sindacabile, dopo la
sentenza 204 del 2004 della Corte Costituzionale, dal giudice
ordinario; tale ritardo inerisce, invece, alla mancata emanazione
del provvedimento nei tempi fissati, pertanto assume rilevanza
giuridica in quanto deriva dal mancato esercizio di un potere
autoritativo, ovvero dal non corretto svolgimento della funzione
amministrativa ed appartiene, pertanto, alla giurisdizione del
giudice amministrativo.
2.
Il giudice amministrativo riconosce il risarcimento del
danno
causato
al
privato
dal
comportamento
dell’Amministrazione solo quando sia stata accertata la spettanza
al bene della vita, ovvero nelle sole ipotesi in cui non venga
emanato o venga emanato in ritardo un provvedimento
vantaggioso per l’interessato; ne consegue che il risarcimento del
danno subito non è assolutamente configurabile quando il
provvedimento adottato in ritardo dalla P.A. risulti di carattere
negativo e non sia stato impugnato.
(Omissis)
Col ricorso n. 77 del 2003, proposto al T.A.R. dell’Umbria, la
s.p.a. Antognolla – proprietaria di un comprensorio di circa 700
ettari – ha esposto di aver avviato una pluralità di pratiche
(sessantuno) innanzi al Comune di Perugia, per conseguire il
rilascio dei titoli autorizzativi occorrenti per la ristrutturazione
degli immobili posti all’interno del detto comprensorio (un antico
castello del XII secolo e il circostante borgo) e per la
realizzazione di varie opere infrastrutturali.
37
La società ha dedotto che, sulla base del programma elaborato,
confidava di poter concludere i lavori entro l’estate del 2004,
dopo il conseguimento, nei tempi prescritti, dei permessi
occorrenti.
L’amministrazione aveva, invece, definito le pratiche in ritardo e
in senso negativo, producendo così un danno del quale si
chiedeva al Comune il ristoro (nella misura di 37 milioni di euro).
Il T.A.R. dell’Umbria, con la sentenza n. 649 del 2003, ha
respinto il ricorso ed ha condannato alle spese del giudizio la
s.p.a. Antognolla.
La sentenza ha rilevato che tutte le istanze avanzate dalla società,
ad eccezione di quelle recanti i numeri 2, 3, 6, 7, erano state
definite nei termini e che i provvedimenti di carattere negativo
non avevano formato oggetto di contestazione da parte
dell’impresa. Risultava, quindi, priva di ogni base la pretesa di
risarcimento del danno per un ritardo che non era avvenuto e, in
presenza, per giunta, di domande definite – senza ulteriori
contestazioni – in senso negativo.
Quanto alle pratiche 3 e 7, le stesse risultavano effettivamente
concluse in ritardo: non vi era spazio, però, per qualunque
risarcimento, perché le istanze avanzate dalla parte erano state
definite negativamente e contro le relative statuizioni nessuna
contestazione era stata avanzata.
Anche in relazione alle pratiche 2 e 6, le pretese risarcitorie
dell’impresa risultavano infondate: in relazione ad esse, non
poteva parlarsi di inadempimento, in quanto non risultava
notificata la diffida per la costituzione in mora dell’autorità
amministrativa prescritta almeno all’epoca - antecedente
all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 6 bis, del decreto legge n.
35 del 2005, convertito nella legge n. 80 del 2005 – nella quale
detta inadempienza si era verificata.
Si è appellata al Consiglio di Stato la s.p.a. Antognolla, che ha
insistito nelle sue pretese senza mettere, però, in contestazione
l’affermazione del giudice di primo grado in ordine alla
tempestiva definizione di tutte le pratiche diverse da quelle di cui
ai numeri 2, 3, 6 e 7.
La IV Sezione del Consiglio di Stato, alla quale l’appello era stato
assegnato, ha ritenuto di rimettere la sua definizione all’esame
dell’Adunanza Plenaria, per la novità e la complessità di talune
delle questioni che vanno affrontate e risolte in questa sede.
La causa è stata chiamata innanzi alla Adunanza Plenaria alla
pubblica udienza del 16 maggio ed è stata trattenuta in decisione.
38
Considerato in diritto
1. In via preliminare, l’ordinanza di remissione ha avanzato il
dubbio che, in relazione alla presente controversia, non
sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo: e ciò in
quanto le lamentate inadempienze dell’amministrazione
integrerebbero «comportamenti» omissivi, lesivi di diritti
soggettivi conoscibili del giudice ordinario dopo la sentenza n.
204 del 2004 della Corte Costituzionale.
Non sembra che, nella specie, abbiano ragione di sussistere i
dubbi prospettati.
E’ esatto che la Corte Costituzionale ha stralciato dalla previsione
dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nella versione
di cui alla legge n. 205 del 2000) il termine «comportamenti»,
devolvendo al giudice ordinario la cognizione delle liti relative a
diritti
soggettivi
provocate
da
condotte
materiali
dell’amministrazione (liti riservate, invece, al giudice
amministrativo prima della parziale dichiarazione di
incostituzionalità).
Nella specie, però, non si è di fronte a «comportamenti» della
pubblica amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato
in violazione del neminem laedere (la fattispecie presa in
considerazione dal citato art. 34 nella parte dichiarata
incostituzionale dalla Corte), ma in presenza della diversa ipotesi
del mancato tempestivo soddisfacimento dell’obbligo della
autorità amministrativa di assolvere adempimenti pubblicistici,
aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative.
Si è, perciò, al cospetto di interessi legittimi pretensivi del
privato, che ricadono, per loro intrinseca natura, nella
giurisdizione del giudice amministrativo (e, trattandosi della
materia urbanistico-edilizia, nella sua giurisdizione esclusiva).
2. Prima di passare all’esame del merito, va preliminarmente
rilevato che la materia del contendere resta circoscritta, in questa
fase di appello, al solo contenzioso concernente le quattro
pratiche richiamate in precedenza (nn. 2-7 e 3-6).
Non ha formato oggetto di contestazione, invero, da parte della
società, quel punto della sentenza del TAR in cui si afferma che
tutte le pratiche (ad eccezione di quelle recanti i n. 2-7 e 3-6) sono
state definite entro i termini prescritti.
3. Passando ora all’esame nel merito delle questioni concernenti
le pratiche nn. 3 e 6 (che hanno ottenuto trattazione unitaria sia
nella decisione di primo grado che nell’appello proposto dalla
parte), va osservato che il fatto dell’intervenuto riconoscimento,
39
da parte dell’amministrazione comunale, di aver pronunciato in
ritardo su tali pratiche non comporta, per ciò solo - come vorrebbe
la società ricorrente - l’affermazione della sua responsabilità per
danni.
Su di un piano di astratta logica, può ammettersi che, in un
ordinamento preoccupato di conseguire un’azione amministrativa
particolarmente sollecita, alla violazione dei termini di
adempimento procedimentali possano riconnettersi conseguenze
negative per l’amministrazione, anche di ordine patrimoniale (ad
es. con misure di carattere punitivo a favore dell’erario; con
sanzioni disciplinari, etc.).
In un quadro non dissimile si muoveva, d’altra parte - secondo
talune linee interpretative - l’art. 17, comma 1, lettera f), della
legge n. 59 del 1997, che ipotizzava «forme di indennizzo
automatico e forfettario», pur se a favore del richiedente, qualora
l’amministrazione non avesse adottato tempestivamente il
provvedimento, anche se negativo.
Non vale, però, soffermarsi oltre sulla disciplina ora ricordata, in
quanto non è stata attuata la delega conferita dalla citata legge, né
sono state assunte, dopo la scadenza dei termini assegnati al
legislatore delegato, iniziative per la emanazione di una nuova
legge di delega con lo stesso contenuto o per la proroga del
termine.
Stando così le cose, può affermarsi che il sistema di tutela degli
interessi pretensivi – nelle ipotesi in cui si fa affidamento (come
nella specie) sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione
– consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando
l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto,
in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la
tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il
ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per
l’interessato (suscettibile di appagare un “bene della vita”).
Tale situazione non è assolutamente configurabile nella specie,
posto che - a prescindere da qualunque ulteriore profilo in ordine
ai requisiti richiesti per potersi considerare realizzata
l’inadempienza - risulta incontroverso che i provvedimenti
adottati in ritardo risultano di carattere negativo per la società e
che le loro statuizioni sono divenute intangibili per la omessa
proposizione di qualunque impugnativa.
Anche le pretese relative alle pratiche n. 2 e 7 debbono essere
disattese non risultando realizzata, allo stato, qualunque
inadempienza.
40
E’ assorbente a questo riguardo rilevare che la presentazione delle
predette istanze non è stata seguita, dopo la scadenza dei termini
procedimentali, dalla notifica della diffida (conditio sine qua non
per la costituzione delle inadempienze pubblicistiche almeno fino
al sopravvenire dell’art. 6 bis del decreto legge n. 35 del 2005
convertito nella legge n. 80 del 2005 che non si applica, ratione
temporis, alla presente fattispecie).
Non sussistono, perciò, le condizioni per lamentare, con domanda
di ristoro del danno, le conseguenze di una inadempienza che non
risulta realizzata.
4. L‘appello nel suo complesso risulta pertanto infondato e va
respinto.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli
onorari del secondo grado del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
respinge l’appello n. 10988 del 2003 (reg. ric. Sez. IV; n. 5 del
2005 reg. ric. Ad. Plen.).
Compensa tra le parti le spese e gli onorari del secondo grado del
giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi il giorno
16 maggio 2005, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo
Spada, con l’intervento dei signori:
(Omissis)
41
* * *
* *
Limiti ulteriori alla risarcibilità del danno: un’Amministrazione
irresponsabile e una solo teorica risarcibilità dell’interesse
legittimo?
Sommario: 1. Il caso: la decisione con la quale l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato ha stabilito i “confini” della
risarcibilità del danno da ritardo. – 2. Il problema relativo
alla giurisdizione sul comportamento della pubblica
Amministrazione che non ha svolto la funzione
amministrativa nei tempi prefigurati dalle norme di legge. – 3.
Il danno da ritardo: i possibili tipi di danno da ritardo. - 4. La
differente tutela ad uguali posizioni di interesse legittimo,
determinata
in
base
all’esito
del
procedimento
amministrativo. - 5. La tesi della risarcibilità del solo danno
da provvedimento e quella a favore della risarcibilità
dell’interesse procedimentale (natura della responsabilità
della pubblica Amministrazione). – 6. L’art. 2 della legge 7
agosto 1990, n. 241. – 7. L’esigenza di certezza dei cittadini
istanti. – 8. Le ipotesi in cui lo stesso esito negativo del
procedimento amministrativo dipende dal ritardo con il quale
è stato emanato il provvedimento amministrativo. – 9.
Conclusioni.
La decisione che si annota è particolarmente interessante in
quanto ha fornito alcuni importanti criteri in ordine alla
risarcibilità del danno causato da un comportamento della
pubblica Amministrazione nell’esercizio del proprio potere
autoritativo, limitando le ipotesi di risarcibilità del danno da
ritardo ai soli casi in cui sia riconosciuta la spettanza al bene della
vita, ovvero soltanto ove sia stato emanato un provvedimento
favorevole al privato ma l’emanazione sia avvenuta in ritardo
rispetto a quando avrebbe potuto, e dovuto, essere, e tale ritardo
sia stato determinato o dal fatto che vi era stato un primo
provvedimento sfavorevole al privato che è stato annullato in sede
giurisdizionale, o semplicemente da una parziale inerzia
dell’Amministrazione che ha determinato un rallentamento nello
svolgimento della propria attività, rispetto ai tempi sanciti
dall’ordinamento26.
26
Circa il ritardo nell’adozione dei provvedimenti amministrativi ed il danno conseguente
cfr.:M. LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo certezza dei rapporti, interesse
pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, pg. 293 e ss.; R. CHIEPPA, Brevi
riflessioni in tema di “danno da ritardo”, nota a Cons.Stato, 13 novembre 2002, n. 6291 e a
42
1.
Il caso: la decisione con la quale l’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato ha stabilito i “confini” della risarcibilità
del danno da ritardo.
La decisione n. 7 del 15 settembre 2005 dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato ha ad oggetto due problemi
fondamentali (in ragione dell’importanza e della delicatezza dei
quali la Quarta Sezione ha ritenuto opportuno rimettere la
questione proprio all’Adunanza), ovvero se il sindacato sul
comportamento della pubblica Amministrazione che abbia
ritardato nell’emanazione dei propri provvedimenti appartenga
alla giurisdizione del giudice amministrativo o meno e quali
debbano essere i presupposti e le modalità necessarie per
configurare una responsabilità dell’Amministrazione in ragione
del ritardo incorso nello svolgimento delle sue funzioni e, nel
caso positivo, in che limiti debba potersi individuare il danno
risarcibile.
La fattispecie decisa attiene alla mancata definizione nei
tempi sanciti dall’ordinamento, da parte del Comune di Perugia,
di procedimenti volti al rilascio dei titoli autorizzativi occorrenti
per la ristrutturazione degli immobili posti all’interno di un
comprensorio (un antico castello del XII secolo e il circostante
borgo) e per la realizzazione di varie opere infrastrutturali; in
relazione al ritardo nella decisione delle istanze la ditta istante
aveva proposto domanda di risarcimento del danno causatole dal
comportamento della pubblica Amministrazione che, agendo con
lentezza, e concludendo i procedimenti oltre i termini di legge,
l’avrebbe lasciata in una situazione di prolungata incertezza,
impedendole di rivolgere altrove la propria attività e le proprie
risorse economiche.
2.
Il
problema
relativo
alla
giurisdizione
sul
comportamento della pubblica Amministrazione che non ha
svolto la funzione amministrativa nei tempi prefigurati dalle
norme di legge.
La prima questione affrontata e decisa dall’Adunanza
Plenaria attiene al riparto di giurisdizione. Al riguardo la IV
Sezione rimettente aveva manifestato il proprio favore per la tesi
TAR Emilia Romagana, 25 novembre 2002, n. 852, in Dir. & Formaz., 2003, pg. 217 e ss.;
S.S. SCOCA, Il ritardo nell’adozione del provvedimento e il danno conseguente, in
www.giustamm.it, 2005; G. MARI, Sulla decorrenza della prescrizione del diritto al
risarcimento del danno per illegittimo esercizio di funzioni amministrative sul risarcimento
del danno da ritardo, nota a TAR Puglia, Bari, Sez. II, 18 luglio 2002, n. 3401, in Foro
amm. – Tar, 2002, pg. 3752 e ss.; B. LUBRANO, La pregiudizialità amministrativa ed il
danno da ritardo, nota a TAR Abruzzo, L’Aquila, 25 febbraio 2003, n. 54 in Foro Amm.Tar, 2003, pg. 2679 e ss.
43
della giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la
questione concerneva non un mero comportamento
dell’Amministrazione, bensì il mancato esercizio del potere
autoritativo nei tempi stabiliti dalla legge.
Al fine di verificare se la decisione a favore della
giurisdizione possa essere condivisa occorre fare un passo
indietro, e verificare quali siano gli ambiti della giurisdizione del
giudice amministrativo dopo l’intervento della Corte
costituzionale.
La sentenza 6 luglio 2004, n. 20427, della Corte
costituzionale ha riconosciuto dei limiti alla discrezionalità del
legislatore ordinario di ampliare la giurisdizione esclusiva,
stabilendo che “il legislatore ordinario ben può ampliare l’area
27
Sul punto cfr.: V. CARBONE, C. CONSOLO e A. DI MAJO, Il “walzer delle giurisdizioni”
rigira e ritorna a fine ottocento, in Corr. giur., 2004, pg. 1125 ss.; F. CINTIOLI, La
giurisdizione piena del giudice amministrativo dopo la sentenza n. 204 del 2004
della Corte costituzionale (6 luglio 2004), in Dir. & Formazione, 10, 2004.; R.
GAROFOLI, La nuova giurisdizione in tema di servizi pubblici dopo Corte
costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, in www.giustizia-amministrativa.it.; O. FORLENZA,
Con le restrizioni sui diritti soggettivi addio al criterio dei “blocchi di materie”, Guida
al diritto, 2004 n. 29, pg. 105 e ss.; ID., Profili della tutela giurisdizionale in materia
di espropriazione per pubblica utilità, in Il Merito, 2004, 10, pg. 103 e ss.; F.
LORENZONI, Commento a prima lettura della sentenza della Corte costituzionale n.
204 del 5 luglio 2004, in www.federalismi.it, 15, 2004; F. IACOVONE, Sui servizi
pubblici locali bocciata l’esclusiva dei giudici amministrativi, in Edilizia e territorio,
2004, 29, pg. 22 ss.; G. VIRGA, Il giudice della funzione pubblica (sui nuovi confini
della giurisdizione esclusiva tracciati dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
204 del 2004), in www.lexitalia.it, 2004, 7-8; R. CAPOBIANCO, I limiti della
giurisdizione esclusiva nella sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 6 luglio
2004, in www.giustamm.it, 2004, 10; F. SAITTA, Tanto tuonò che piovve: riflessioni
(d’agosto) sulla giurisdizione esclusiva ridimensionata dalla sentenza costituzionale
n. 204 del 2004, in www.lexitalia.it, 2004, 7-8; G. STANCANELLI, La giurisdizione
esclusiva nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004 (Riflessioni “a
caldo”), in www.giustamm.it, 2004, 7; M.A. SANDULLI, Un passo avanti e uno
indietro: il giudice amministrativo è giudice pieno, ma non può giudicare dei diritti
(nota a margine di Corte cost. n. 204 del 2004), in www.forumcostituzionale.it,
2004; O. CARPARELLI, L’occupazione usurpativa alla luce della sentenza della
consulta n. 204 del 2004, in www.altalex.com, 2004; F. CARINGELLA, G. DE MARZO,
F. DELLA VALLE e R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo (dopo la L. 21 luglio 2000 n. 205), Milano, 2000; S. CACCIOLA, Il
nuovo riparto di giurisdizione? Nei servizi pubblici si torna all'antico, nota a TAR
Sicilia, Sez. I, 16 luglio 2004, n. 1543, in Dir. & Formaz., 2004; F. FRACCHIA, La
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: un istituto che ha esaurito le sue
potenzialità? In Servizi pubbl. e appalti, 2004, pg. 799 e ss.; C.E. GALLO, La
giurisdizione esclusiva ridisegnata dalla Corte costituzionale alla prova dei fatti, in
Foro amm.- CdS, 2004, 7-8, pg. 1908 e ss; F. SATTA, La giustizia amministrativa tra
ieri, oggi e domani: la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, in Foro
amm.- CdS, 2004, 7-8, pg. 1903 e ss.; D. SICLARI, La giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo sulle controversie afferenti alla vigilanza sul credito: una
conferma implicita e alcune incertezze residue, Foro amm. – CdS, 2004, 7-8, pg.
1918 e ss.; S. VASTA, Gli accordi, la revoca e la giurisdizione esclusiva. Una lettura
(tra le righe) della sentenza 5 luglio 2004 n. 204 della Corte Costituzionale, in Foro
amm. – CdS, 2004, 10, pg. 3015 e ss.
44
della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a
materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale
previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la
pubblica amministrazione – autorità, la giurisdizione generale di
legittimità”. La Corte ha, pertanto, affermato che il limite per la
potestà legislativa vada rinvenuto nel fatto che le materie in
questione debbano essere effettivamente “particolari” rispetto alla
giurisdizione di legittimità (“devono partecipare della loro
medesima natura”) e nel fatto che in esse “la pubblica
amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è
accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo”,
in pratica richiedendo, perché si abbia giurisdizione esclusiva del
g.a., la presenza di un duplice requisito, ovvero che sussista sia il
c.d. “nodo gordiano” (intreccio inestricabile di diritti soggettivi e
interessi legittimi), sia un diffuso potere autoritativo e/o di
supremazia dell’amministrazione.
Posto che per quanto riguarda le materie dell’urbanistica ed
edilizia la nuova formulazione dell’art. 34 del d. lgs. n. 80/1998,
quale recata dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge n.
205/2000, è stata ritenuta in contrasto con la Costituzione nella
parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre
“gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche
amministrazioni (direttamente ovvero attraverso “soggetti alle
stesse equiparati”) svolgono le loro funzioni pubblicistiche in
materia urbanistica ed edilizia – anche i “comportamenti”,
estendeva tale giurisdizione esclusiva a controversie nelle quali la
pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente,
e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti
intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere, e verificato
che il caso di specie concerne un comportamento della pubblica
Amministrazione, che viene sindacato in quanto causativo di un
danno, al fine di verificare se la questione in esame attenga o
meno alla giurisdizione del giudice amministrativo occorre
verificare se si tratti di un “mero comportamento”28, o di un
28
La nozione di “comportamento” è stata delineata da CdS, VI, 20 aprile 2004, n.
2221, nella quale è stato specificato che “la nozione di controversie aventi per
oggetto i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia di urbanistica ed
edilizia deve essere interpretata in senso restrittivo, rientrando nella giurisdizione
del giudice amministrativo solo i comportamenti in cui ricorra la sussistenza dei
requisiti dell’esercizio di un pubblico potere (esplicazione di funzione
amministrativa) e della rilevanza, legislativamente prevista, del comportamento
dell’amministrazione (silenzio rifiuto, D.I.A. e le altre ipotesi di inerzia o di attività
legislativamente qualificata)” e in cui viene spiegata la ragione per cui gli unici
comportamenti che rientrano nella giurisdizione esclusiva sono quelli in cui sussista
il duplice presupposto della sussistenza dei requisiti dell’esercizio di un pubblico
45
comportamento significativo, ovvero un mezzo di estrinsecazione
del potere amministrativo. La suddetta distinzione è necessaria in
quanto anche se formalmente i “comportamenti” in materia di
urbanistica ed edilizia sono stati sottratti alla cognizione del
giudice amministrativo, in ragione di quella che è la logica della
sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale le controversie
comunque collegate funzionalmente ai poteri pubblici restano
riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Ne consegue che poichè nel caso di specie la controversia
concerne proprio le modalità di esplicazione della funzione
amministrativa poste in essere dalla pubblica Amministrazione (il
Comune di Perugia che doveva pronunciarsi sulle istanze
edificatorie) correttamente è stata affermata la giurisdizione del
giudice amministrativo29.
La suddetta affermazione d’altronde si pone in perfetta
sintonia con quanto sancito da un’altra decisione della stessa
Adunanza Plenaria di pochi giorni precedente a quella in esame:
la n. 4 del 30 agosto 2005, infatti, aveva chiarito come anche le
questioni concernenti il risarcimento del danno causato
dall’occupazione appropriativa avvenuta per effetto di una
legittima occupazione d’urgenza cui poi non sia seguita
l’emanazione di un regolare decreto di esproprio, appartengono
potere e della rilevanza, legislativamente prevista, del comportamento
dell’amministrazione, in quanto viene sottolineato come “la ratio di concentrazione
della tutela, che ha indotto il legislatore ad attribuire le domande risarcitorie alla
giurisdizione del giudice amministrativo, dapprima con il D. Lgs. n. 80/98 e poi con
le modifiche introdotte con la legge n. 205/2000, presuppone che l’esigenza di adire
un unico giudice (quello amministrativo) ricorra quando la tutela risarcitoria
costituisca un completamento della tradizionale tutela demolitoria, esercitata a
protezione degli interessi legittimi o si sia in presenza, nella materia della edilizia e
dell’urbanistica attribuita alla giurisdizione esclusiva del G.A., di danni causati da
comportamenti della P.a. connessi all’esercizio di pubbliche funzioni nella
medesima materia”.
29
Sulla affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo cfr. O. FORLENZA, Il
coinvolgimento di interessi legittimi esclude la competenza dei giudici ordinari, in Guida al
Diritto, n. 42, 2005, pg. 87 e ss., il quale evidenzia come, anche se l’ordinanza di rimessione
della Quarta sezione del Consiglio di Stato avesse manifestato in sostanza il medesimo
orientamento poi seguito dalla Adunanza Plenaria, vi sia una netta differenza nei presupposti
in base ai quali viene affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di
specie. L’ordinanza di rimessione, infatti, fa riferimento sostanzialmente al fatto che: “a) la
convinzione che la situazione (speculare) del mancato esercizio del potere sia essa stessa
una “forma” di esercizio del potere (si parla di ‘fattispecie speculare’), e in ambedue le
ipotesi ‘l’interesse legittimo pretensivo attiene alla medesima posizione sostanziale lesa’; b)
ciò comporta che sia nel caso in cui il mancato esercizio del potere sia sindacato al fine di
ottenerne l’esercizio, sia nel caso in cui esso venga sindacato al fine di ottenerne il
risarcimento del danno, si verte in situazioni analoghe, appunto ‘speculari’; c) sarebbe
irragionevole devolvere a giudici diversi il giudizio sul danno da provvedimento negativo e
il giudizio sul danno da omesso o ritardato provvedimento”, mentre l’Adunanza Plenaria
svolge un percorso completamente differente in quanto riconduce la controversia alla
giurisdizione del giudice amministrativo perché essa attiene a interessi legittimi pretesivi.
46
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto
il “comportamento” inerte della p.A. che non ha emanato il
decreto di esproprio costituisce una forma di esercizio del potere
autoritativo30. Sulla scia di tale decisione si può affermare che ai
fini del riparto di giurisdizione non rileva, secondo l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, se la pubblica Amministrazione
abbia successivamente emanato un provvedimento espresso o
meno, posto che “ai fini della giurisdizione rileva piuttosto
l’inerenza a un potere di natura autoritativa della mancata
emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un
ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal
mancato tempestivo esercizio del predetto potere”31.
Nulla quaestio pertanto circa l’attribuzione al giudice
amministrativo delle controversie inerenti al danno determinato
dal mancato tempestivo esercizio del proprio potere da parte delle
pubbliche Amministrazioni, che sembra essere perfettamente
coerente con la logica della Corte costituzionale, e insieme
pienamente rispettosa delle esigenze di utile tutela sancite dagli
articoli 24 e 111 della Costituzione; non è, però, possibile
concordare appieno quanto ai presupposti che l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato essere necessari per
configurare una responsabilità della pubblica Amministrazione
per il ritardo nello svolgimento della propria funzione.
3.
Il danno da ritardo: i possibili tipi di danno da ritardo.
Come ricordato nella stessa ordinanza di rimessione n.
875/2005 della Quarta Sezione del Consiglio di Stato esistono,
infatti, varie ipotesi di danno da ritardo, tra loro differenti: una
prima ipotesi (a) concerne i casi in cui via sia stato un primo
provvedimento (dell’Amministrazione) sfavorevole al privato che
sia stato annullato in sede giurisdizionale in quanto illegittimo e
cui è seguito un secondo provvedimento, legittimo e favorevole al
privato; a tale ipotesi si aggiunge quella (b) in cui il
provvedimento sia perfettamente legittimo e favorevole al privato
nel suo contenuto ma sia stato emanato in ritardo rispetto a quelli
30
Contra cfr. numerosa giurisprudenza anteriore e successiva alla decisione n. 4
del 2005 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: T.A.R. Sardegna, Sez. II, 31
agosto 2005 n. 1852; T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, 31 maggio 2005 n. 2680;
Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2004, n. 6328; Cons. Stato, Sez. IV, 5 ottobre
2004, n. 6489; T.A.R. Bari, Sez. II, 29 ottobre 2004, n. 4883; T.A.R. Palermo, Sez.
I, 29 ottobre 2004, n. 2422; Cons. Stato, 27 settembre 2004 n. 6329, in Corr. giur.
Online e in www.urbanisticatoscana.it.; T.A.R. Reggio Calabria, 9 agosto 2004 n.
607, in Lexfor, 2004; T.A.R. Bari, Sez. III, 23 settembre 2004 n. 4181; T.A.R.
Pescara, 21 ottobre 2004, n. 868.
31
R. CHIEPPA, Commento a Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 7 marzo 2005, n. 875, per
Osservatorio di Diritto e Formazione, 2005.
47
che sono i tempi stabiliti dall’ordinamento; ed infine l’ultima (c),
ma non per questo di minore importanza, ipotesi di danno da
ritardo si ha quando venga emanato in ritardo un provvedimento
dal contenuto sfavorevole per il privato. Nel primo caso si parla di
danno da provvedimento, in quanto il danno è stato cagionato dal
primo provvedimento illegittimo e dal conseguente ritardo
nell’emanazione del provvedimento legittimo favorevole al
privato, negli altri due casi il danno, invece, non è collegabile ad
alcun provvedimento illegittimo, ma si riconnette alle modalità di
svolgimento del procedimento amministrativo, e, in sostanza, alla
violazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241; nelle
prime due ipotesi il danno causato dal ritardo
dell’Amministrazione è di immediata evidenza, posto che se il
provvedimento favorevole fosse stato adottato prima l’istante
avrebbe potuto giovarsene prima; nella terza ipotesi, trattandosi di
un provvedimento negativo, non vi è altrettanto immediatezza di
identificazione, ma ciò non significa che il danno non sussista,
posto che esso è determinato proprio dal fatto di non aver ottenuto
nei termini previsti una determinazione sulla propria istanza, che
permettesse di conoscere, nei termini di legge, la non accoglibilità
della domanda, in ragione del fatto che il suddetto comportamento
della pubblica Amministrazione ha lasciato l’istante in un
prolungato stato di incertezza, impedendogli, tra l’altro, di
rivolgere verso altre direzioni le proprie aspettative.
Alcuni esempi potranno chiarire meglio le suddette
fattispecie: si pensi al caso di un soggetto che decida di avviare
un’attività commerciale di somministrazione alimenti e bevande e
chieda la relativa autorizzazione al Comune: ove il Comune
emani prima un provvedimento negativo, poi dimostratosi
illegittimo in sede giurisdizionale, e dopo, per effetto della
decisione (o anche della semplice istruttoria in sede
giurisdizionale) del giudice amministrativo, emani un nuovo
provvedimento positivo, nel corso dello stesso giudizio di
annullamento del primo provvedimento (ove l’emanazione del
secondo provvedimento sia avvenuta nel corso del processo), o
attraverso un nuovo giudizio (ove l’emanazione del secondo
provvedimento abbia seguito la decisione di annullamento del
primo provvedimento), l’istante potrà chiedere il risarcimento per
il danno subito a causa del ritardo nell’apertura dell’attività
commerciale32; parimenti potrà essere chiesto il risarcimento per
32
Sul punto avrebbe potuto essere sollevata una questione di giurisdizione, in quanto
chiaramente ove l’emanazione del secondo provvedimento avvenga nel corso del giudizio
nulla quaestio, in quanto anche la determinazione del danno causato dal ritardo
48
il danno determinato dal ritardato inizio dell’attività commerciale
ove il Comune abbia rilasciato con semplice ritardo (dovuto a una
sua inerzia o a una lentezza strutturale) la richiesta autorizzazione.
Ove, invece, il procedimento relativo alla medesima
autorizzazione venga concluso con un diniego (legittimo) di
autorizzazione emanato in ritardo rispetto ai termini di legge, il
privato potrebbe chiedere i danni a lui derivanti dal non aver
tempestivamente saputo dell’impossibilità di intraprendere quella
attività commerciale e non avere conseguentemente potuto
operare altrimenti (ad esempio intraprendendo un’altra o la stessa
attività commerciale altrove).
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ma ciò che
maggiormente preme sottolineare è come vada identificato il
presupposto per il riconoscimento del danno da ritardo: nella
prima ipotesi esso è costituito dall’emanazione di un
provvedimento illegittimo, in relazione al quale viene tutelata la
posizione giuridica soggettiva del ricorrente in modo pieno33,
ovvero attraverso l’annullamento del provvedimento illegittimo
(tutela impugnatoria) e il risarcimento del danno conseguente
(tutela ripristinatoria, tesa a risarcire il ricorrente del danno
nell’emanazione del provvedimento favorevole spetterà al giudice amministrativo, posto che
tale danno è stato determinato proprio dall’emanazione del provvedimento illegittimo, che
ha causato il ritardo, mentre nell’ipotesi in cui il giudizio innanzi al giudice amministrativo
si sia concluso con il mero annullamento del provvedimento illegittimo e con un nuovo
giudizio si chieda il risarcimento del mero danno causato dal ritardo nell’emanazione del
provvedimento favorevole, ove si volesse aderire alla tesi sostenuta dal TAR Parma (TAR
Parma, 12 ottobre 2004, n. 669), secondo cui rientra nella giurisdizione del giudice ordinario
la controversia risarcitoria avente per oggetto l'appropriazione di un immobile
(irreversibilmente modificato a seguito dell'esecuzione di un'opera pubblica) addebitabile,
sia pure in base ad un giudizio ex post, al mero comportamento dell'Amministrazione, in
considerazione dell'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e della privazione
della giuridica esistenza ed efficacia degli atti amministrativi conseguenti, perché
l'appropriazione (per "accessione invertita") dell'immobile “era da considerarsi addebitabile
.. nel momento in cui la domanda di risarcimento è stata azionata, al mero comportamento
dell'Amministrazione”, posto che la richiesta di risarcimento del danno era stata effettuata
con un giudizio successivo ed autonomo, mentre diversamente sarebbe stato ove l’azione
risarcitoria fosse stata proposta al TAR prima dell'annullamento degli atti. Se il suddetto
ragionamento dovesse applicarsi al caso di specie anche in relazione al danno da ritardo
nell’adozione del provvedimento favorevole chiesto con un giudizio separato e successivo a
quello con il quale sia stato annullato il primo provvedimento sfavorevole si potrebbero
porre problemi relativamente alla giurisdizione del giudice amministrativo.
33
Circa la “pienezza” della tutela assicurata alle posizioni giuridiche soggettive di interesse
legittimo sia consentito richiamare il commento alla sentenza Corte costituzionale n. 204 del
2004 di A. POLICE, La giurisdizione del giudice amministrativo è piena ma non è più
esclusiva, in Giornale di diritto amministrativo, 9, 2004, ed ancora ID., Il ricorso di piena
giurisdizione davanti al giudice amministrativo – II: Contributo alla teoria dell’azione nella
giurisdizione esclusiva, Padova, 2001; ID., Il ricorso di piena giurisdizione davanti al
giudice amministrativo, Padova, 2000, e S. CASSESE, Verso la piena giurisdizione del
giudice amministrativo: il nuovo corso della giustizia amministrativa italiana, in Giorn. dir.
amm., 1999, pg. 1221 e ss.
49
economico derivante dall’emanazione del provvedimento
illegittimo che ha provocato un ritardo nell’emanazione del
provvedimento favorevole); nelle altre due ipotesi non vi è alcuna
impugnazione del provvedimento (sia che esso abbia un
contenuto favorevole, sia sfavorevole), per cui il presupposto del
danno da ritardo non può ricondursi a un provvedimento emanato
dalla pubblica Amministrazione, ma deve rinvenirsi nella stessa
disciplina del procedimento, posto che il danno da ritardo
configurato nelle ipotesi b) e c) è un semplice danno
procedimentale, ovvero determinato dalla violazione delle norme
procedimentali34.
4.
La differente tutela ad uguali posizioni di interesse
legittimo, determinata in base all’esito del procedimento
amministrativo.
Le ipotesi b) e c), pertanto, sono analoghe, posto che in
entrambe il danno deriva da una illegittimità del procedimento
amministrativo (la violazione dell’art. 2 della legge 241 del 1990,
per superamento dei termini), il che porterebbe ad affermare che
la soluzione, relativamente alla risarcibilità o meno del danno,
debba essere la medesima per entrambe, posto che ove la
giurisprudenza decidesse di accordare una tutela risarcitoria per
equivalente al rispetto dei tempi del procedimento entrambe le
ipotesi sovra enunciate (emanazione di un provvedimento
favorevole (b) o sfavorevole (c) in ritardo) godrebbero di una
tutela risarcitoria.
Nella decisione in esame, invece, inspiegabilmente le due
posizioni, pur analoghe, vengono trattate diversamente: in un caso
al mancato rispetto dei tempi del procedimento segue un
risarcimento per equivalente, nell’altro caso tale risarcimento
viene negato. La suddetta disparità, oltre che del tutto immotivata,
appare essere anche illogica35: il presupposto del risarcimento del
danno, nei casi di mero ritardo nello svolgimento della funzione
34
V. SALAMONE, Jus aedificandi e tutela risarcitoria, in Foro amm. – Tar, 2002, 1, pg. 321
e ss. definisce “dubbia la possibilità di tutelare nel processo amministrativo interessi che
abbiano mera valenza procedimentale, in quanto collegati al rispetto di regole che
attengono al corretto svolgimento del procedimento e che non incidono sull'interesse
legittimo sostanziale” ed a tale fine richiama la decisione Cons. St., Sez. IV, 14 giugno 2001
n. 3169, in Cons. St., 2001, I, pg. 1304 e con la nota di commento di D. IELO, La
reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo: caratteri e peculiarità, e
nota di V. LOPILATO, Il danno ingiusto e la colpa nei primi orientamenti del Consiglio di
Stato in materia di tutela di interessi legittimi, in Diritto e formazione, n. 4-5, 2001.
35
L’inammissibilità di una soluzione siffatta è stata rilevata da L. MAZZAROLLI, Intervento,
al Convegno su La giustizia amministrativa in trasformazione, Verona, 21 ottobre 2005, il
quale ha sottolineato come la soluzione debba essere unica: o la violazione dei termini
procedimentali rileva o non rileva, indipendentemente dalla spettanza del bene.
50
amministrativa, è il comportamento dell’Amministrazione che ha
violato le disposizioni che sanciscono i termini entro i quali i
procedimenti amministrativi devono essere conclusi e, pertanto,
uguale dovrebbe essere la conseguenza di tale violazione.
L’esistenza di una disciplina del procedimento
amministrativo costituisce di per sé giustificazione idonea ad
ammettere che la posizione di interesse legittimo violata da un
agire illegittimo della pubblica Amministrazione debba essere
tutelata e, posto che attualmente alla tutela impugnatoria e
conformatoria si è aggiunta anche la tutela risarcitoria36, non si
comprende per quale ragione ove, come nel caso di specie, la
posizione giuridica soggettiva del privato possa ricevere tutela
solo mediante il risarcimento per equivalente questo non debba
essere accordato. D’altronde anche ove si volesse aderire in modo
rigoroso
alla
teoria
della
necessaria
pregiudizialità
dell’impugnazione del provvedimento amministrativo e, pertanto,
si volesse negare l’ammissibilità di una tutela risarcitoria che non
sia stata preceduta dal previo annullamento del provvedimento
illegittimo, le decisioni in materia risarcitoria prese dalla
Adunanza Plenaria con la decisione n. 7 del 2005 non avrebbero
senso, in quanto la rigida affermazione della necessità del previo
annullamento comporterebbe la negazione assoluta del mero
danno da ritardo, ove esso non costituisca una semplice forma di
integrazione del danno determinato dal provvedimento illegittimo
annullato in via giurisdizionale. E’ pertanto evidente che se
l’orientamento dovesse essere quello sovraindicato (della
necessaria pregiudizialità dell’annullamento) il danno da ritardo
dovrebbe essere negato in tutte le ipotesi in cui il ritardo non sia
stato determinato dall’emanazione di un provvedimento
illegittimo poi annullato, ma sia determinato da una semplice
“lentezza” nell’agire della pubblica Amministrazione e, quindi,
nelle ipotesi siffatte il danno da ritardo verrebbe negato
comunque, quale che sia il successivo orientamento
dell’Amministrazione in merito all’istanza proposta.
36
Circa la necessaria consequenzialità del risarcimento all’annullamento, in ragione del fatto
che il risarcimento del danno “è consequenziale, in presenza di altre condizioni, alla
violazione dell’interesse legittimo, che tuttavia, può essere fatta constatare, nel nostro
ordinamento, solo con l’azione di annullamento” cfr.: G. MONTEDORO, La costituzionalità
del nuovo assetto del riparto di giurisdizione dopo l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2003, in
Dir. proc. amm., 2004, pg. 94 e ss., il quale, però, sottolinea anche come seppure vi sia
questa necessaria consequenzialità tra annullamento e risarcimento del danno “l’interesse
legittimo, peraltro, nonostante la affermata pregiudizialità dell’annullamento rispetto al
risarcimento, si è definitivamente aperto alla spettanza del bene, come ha notato G. Falcon,
sicchè … si pone il problema della tutela dell’aspirazione del cittadino al bene della vita,
superandosi quella sensazione di Berti che legava interesse legittimo e soggezione”.
51
In realtà l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non
sembra essere stata determinata dalla volontà di negare il
riconoscimento del danno da mero ritardo dell’Amministrazione
scollegato da una fattispecie impugnatoria, ma semplicemente
dalla convinzione che andassero trattate diversamente le due
ipotesi di danno da ritardo procedimentale, affermandone la
risarcibilità nel solo caso in cui sia accertata la spettanza del bene
della vita oggetto del provvedimento emanato in ritardo37; in
sostanza l’Adunanza Plenaria di fronte al quesito se debba essere
risarcito, con quali limiti e a quali condizioni, l’interesse
procedimentale al rispetto dei termini del procedimento, ha finito
per stabilire che tale interesse possa essere dichiarato meritevole
di tutela risarcitoria solo ove sia collegato ad un provvedimento
favorevole, così finendo per attribuire all’esito del procedimento
il valore di discrimine circa la meritevolezza o meno della tutela
del rispetto delle regole procedimentale.
Tale determinazione produce, però, a livello pratico una
situazione disparità di trattamento fra i cittadini istanti, posto che
coloro che vedranno accolta la propria istanza avranno anche
“diritto” a reclamare ove vi siano state illegittimità
procedimentali, quali il mancato rispetto dei termini, mentre
quanti vedranno rigettata la propria istanza non vedranno
riconosciuta in loro favore la tutela di alcuna posizione giuridica,
per cui non potranno chiedere tutela nemmeno per la violazione
delle medesime regole procedimentali. La suddetta
determinazione potrebbe produrre, ove venisse seguita da una
giurisprudenza costante, effetti ancora più gravi, in quanto le
pubbliche Amministrazioni, consapevoli del fatto che ove la loro
attività venga posta in essere in ritardo rispetto ai termini di legge
potrebbero essere chiamate a risarcire il soggetto istante per il
danno causatogli dal loro indugio nelle sole ipotesi in cui il
provvedimento emanato abbia un contenuto favorevole al
soggetto istante, potrebbero esercitare in modo non corretto il loro
potere discrezionale, finendo per emanare provvedimenti negativi
ogni qual volta si ritrovino ad avere agito fuori tempo; in tale
ipotesi, infatti, non verrebbero sanzionate per la loro lentezza
nell’agire a meno che il soggetto istante non sia in grado di
37
Sul collegamento tra risarcimento del danno e spettanza del bene cfr.: F. FRACCHIA,
Risarcimento danni da c.d. lesione di interessi legittimi: deve riguardare i soli interessi a
“risultato garantito”?, nota a TAR Puglia, Sez. I, 4 aprile 2000, n. 1401, TAR Valle
d’Aosta, 18 febbraio 2000, n. 2 e TAR Puglia, Sez. II, 17 gennaio 2000, n. 179 in Foro it.,
2000, III, pg. 479 e ss.
52
dimostrare anche, in sede giurisdizionale, l’illegittimità del
provvedimento discrezionale (dal contenuto sfavorevole).
5.
La tesi della risarcibilità del solo danno da
provvedimento e quella a favore della risarcibilità
dell’interesse procedimentale (natura della responsabilità
della pubblica Amministrazione).
Non è questa la sede per ripercorrere le problematiche circa
la natura della responsabilità della pubblica Amministrazione, e i
vari tentativi effettuati dalla giurisprudenza al fine di ricostruire la
disciplina del risarcimento del danno a tutela di una posizione di
interesse legittimo, ma, verificato che la Quarta Sezione del
Consiglio di Stato, nell’ordinanza di rimessione alla Plenaria,
aveva ritenuto possibile una ricostruzione del danno da ritardo
inteso come danno conseguente alla violazione dell’interesse
procedimentale al rispetto dei tempi posti dall’ordinamento, ed
aveva affermato che la violazione del dovere di correttezza, che
nel caso di specie si era configurata nella violazione dei termini
del procedimento, potesse generare una lesione che, in ragione di
quella che è la natura della violazione e della responsabilità che
ne consegue, “sembra ascrivibile a una responsabilità
precontrattuale, regolata e riconosciuta nel diritto comune anche
al di fuori dello stretto ambito della trattativa precotrattuale, cui
originariamente era riferita”38, si ritiene opportuno soffermare
velocemente l’attenzione su quelle che sono le tradizionali
impostazioni dottrinarie in relazione alla natura, contrattuale,
precontrattuale, da contatto o extracontrattuale della
responsabilità della pubblica Amministrazione39 e quali siano le
implicazioni pratiche di tali inquadramenti40, in modo da
38
R. CHIEPPA, Commento a Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 7 marzo 2005, n. 875, in
Osservatorio, lexfor, 2005. Sul punto cfr. anche O. FORLENZA, Il coinvolgimento di interessi
legittimi esclude la competenza dei giudici ordinari, in Guida al Diritto, 2005, pg. 88.
39
Sul punto cfr.: L. GAROFALO, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia
degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 1, 2005, pg. 1 e ss., il quale sostiene proprio
l’importanza di costruire un modello autonomo di responsabilità dell’amministrazione; a tale
fine l’Autore ricostruisce i vari modelli di responsabilità applicati dalla dottrina
all’amministrazione, evidenziando l’impossibilità di rifarsi ad essi (in ragione della
“inattualità” del modello della responsabilità extracontrattuale, la “impraticabilità” del
modello della responsabilità contrattuale e la “inammissibilità” dei “modelli misti e impuri
di responsabilità civile”) in ragione del fatto che il campo della responsabilità
dell’amministrazione “è infatti retto da paradigmi propri, che si rinvengono negli artt. 35,
comma 1, del d. lgs. n. 80 del 1998 e 7, comma 3, della l. n. 1034 del 1971 e che fungono da
cardini di un nuovo microsistema, che va pazientemente ricostruito, attingendo anche al
diritto dei privati e alla riflessione che da millenni ne accompagna e promuove lo sviluppo”.
40
Sul punto cfr.: C. CASTRONOVO, Responsabilità civile per la pubblica amministrazione, in
Jus, 1999, pg. 666 e ss., il quale sostiene che responsabilità contrattuale e responsabilità
extracontrattuale hanno presupposti e discipline diversi; e che, pertanto, l’inquadramento
53
comprendere se debba ritenersi risarcibile solo il danno causato
dal provvedimento o se, ed in che limiti, possa essere riconosciuto
anche il danno determinato dalla violazione dell’interesse al
rispetto delle regole procedimentali, indipendentemente dalla
spettanza del bene.
A.
La teoria della responsabilità da contatto amministrativo qualificato41
parte dal presupposto che l'amministrazione non si trova, rispetto al privato,
leso nel suo interesse legittimo, in una posizione qualsiasi, ma assume un
ruolo particolare in quanto a seguito del contatto che si instaura tra
l'amministrazione e il privato nel corso del procedimento amministrativo
sorge se non un vero e proprio rapporto obbligatorio, “un rapporto di fatto
senza obbligo primario di prestazione”42.
Tale teoria si incentra sul fatto che nel corso del procedimento
amministrativo, in ragione della partecipazione del privato al procedimento,
si instaura un contatto tra il privato e la pubblica Amministrazione;
l'obbligazione risarcitoria viene, pertanto, collegata alla violazione di quei
particolari obblighi procedimentali, il cui rispetto è funzionale alla garanzia
della responsabilità dell’amministrazione nell’una o nell’akltra figura ha conseguenze
diverse.
41
Cfr. C. CASTRONOVO, Responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Jus, 1998,
pg. 653 e ss.; ID., Le sezioni Unite tra nuovo e vecchio diritto pubblico dall'interesse
legittimo alle obbligazioni senza prestazione, in Europa e dir. prov., 1999, pg. 1241; ID.,
L'obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di L.
Mengoni, Milano, 1997, pg. 177 e ss.; M. PROTTO, Responsabilità della p.a. per lesione di
interessi legittimi: alla ricerca del bene perduto, in Urb. e app., 2000, pg. 1005; ID., La
responsabilità dell'amministrazione per la lesione di (meri) interessi legittimi: aspettando la
Consulta, in Resp. civ. prev., 1998, pg. 969 e ss.; ID., La natura della responsabilità della
P.A. per lesione di interessi legittimi, in www.lexfor.it; D. VAIANO, Pretesa di
provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, pg. 270; S. GIACCHETTI, La
responsabilità patrimoniale dell'amministrazione nel quadro del superamento della
dialettica diritti soggettivi interessi legittimi, in Cons. Stato, 2000, II, pg. 2037; L.
MONTESANO, I giudizi sulla responsabilità per danni e sulle illegittimità della pubblica
amministrazione, in Dir. proc. amm., 2001, pg. 592 e ss.; S. CATTANEO, Responsabilità per
«contatto» e risarcimento per lesione di interessi legittimi, nota a T.A.R. Puglia Bari, sez. I,
17 maggio 2001, n. 1761, in Urb. app., 2001, pg. 1226; G. MICARI, La pregiudiziale
amministrativa, il Tar Marche. Riflessioni sulla Drittwirkung, sulla responsabilità
della pubblica amministrazione per atto lecito, sul contatto sociale qualificato, in
Giur. Merito, 2004, 11, pg. 2324 e ss.; S. FAILLACE, La responsabilità da contatto
sociale, Padova, 2004.
42
R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg. 695.
54
dell'affidamento del privato sulla legittimità dell'azione amministrativa: e ciò
comporta che essa venga svincolata dal giudizio sulla spettanza del bene
della vita o della sua probabilità di conseguirlo43.
Il grande vantaggio della tesi della responsabilità da contatto
amministrativo qualificato è sicuramente quello di aver evidenziato
fattispecie
di
responsabilità
della
P.A.
non
direttamente
collegate
all'accertamento della spettanza del bene della vita, ma nel considerare tali
ipotesi di responsabilità della pubblica Amministrazione non si può negare
che, seppure è corretto affermare che nell'ambito del procedimento pubblica
Amministrazione e privato vengono spesso in contatto fra loro, e che da
questo contatto possa nascere un rapporto, con degli obblighi reciproci,
l’emergere di tale rapporto obbligatorio è eventuale, posto che in molti casi
la relazione tra privato e pubblica Amministrazione si manifesta solo dopo
l'adozione del provvedimento (si pensi ai casi in cui vi sia un provvedimento
ad iniziativa d’ufficio ed in relazione al quale non sia stata data
comunicazione di avvio del procedimento, ovvero in tutti quei casi in cui
l'amministrazione abbia violato l'obbligo procedimentale impedendo il
contatto con il cittadino), e, quindi, non sorge alcun rapporto obbligatorio
“procedimentale”44.
43
A tale proposito è stato, però, evidenziato come possa sembrare quasi che
“l'inquadramento sistematico in tale categoria dipenda non tanto dalle caratteristiche
obiettive delle fattispecie, ma dall'esigenza di risolvere, in senso favorevole al danneggiato,
i problemi della colpa della P.A. e dell'onere di provarla e della difficoltà di accertamento
della spettanza del bene della vita in tutte le ipotesi di attività caratterizzata da margini di
discrezionalità amministrativa”, R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg.
696-697.
44
Sul punto cfr.: F.G. SCOCA, Per un’amministrazione responsabile, in commento a
Cass.Sez.Un., 22 luglio 1999, n. 500, in Giurisprudenza cost., III, 1999, pg. 4045 e ss., il
quale evidenzia l’impossibilità di “costruire sul procedimento un rapporto obbligatorio, nel
senso pregnante della locuzione” in ragione anche del carattere unilaterale e discrezionale
della decisione, ma sottolinea anche l’esistenza di un rapporto tra Amministrazione e privato
che è assai più ricco di contenuti del rapporto che intercorre nella fase precontrattuale tra
due soggetti privati, in quanto l’amministrazione è “tenuta non solo a comportarsi secondo
buona fede ma anche a conformarsi ai principi di economicità, di efficacia, di pubblicità e
di non aggravamento” per cui non sembra all’Autore “che sia possibile negare che tra
55
B.
La responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione45,
invece, viene riconosciuta in quei casi in cui il privato non sia direttamente
leso da un provvedimento illegittimo adottato dall'amministrazione, ma dal
comportamento della pubblica amministrazione, che aveva dapprima in lui
generato, e poi violato, un affidamento; ciò che rileva ai fini della
l’amministrazione e il privato, uniti nel (o dal) procedimento, si instauri un vero e proprio
rapporto giuridico”. Circa il verificarsi di ipotesi in cui, proprio in ragione del
comportamento dell’Amministrazione, non può sorgere alcun rapporto obbligatorio
“procedimentale” perché la stessa Amministrazione ha impedito il contatto con il cittadino
cfr.: L. GAROFALO, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi
ricostruttivi, in Dir. amm., 1, 2005, pg. 20 e ss., ed in particolare pg. 33, che evidenzia come
“lo schema dell’obbligazione senza prestazione, di per sé invocabile solo in presenza di un
contatto tra il privato e l’amministrazione, è inapplicabile in una serie non marginale di
casi in cui la sfera giuridica appare vulnerata da una condotta del soggetto pubblico non
rispettosa dei doveri, procedimentali e non, sanciti – in via diretta o mediata – dalle norme
che specificamente la riguardano” riferendosi specificamente a quei “casi in cui il contatto
… sia stato rifiutato proprio dall’amministrazione, che, per esempio, abbia omesso di
comunicare all’interessato l’avviso di avvio di un procedimento poi coltivato sino
all’emanazione del provvedimento al contenuto lesivo”; l’Autore sottolinea come per tali
casi “bisognerebbe allora elaborare soluzioni teoriche alternative che rendano comunque
fruibile il modello della responsabilità contrattuale onde garantire il rispetto di quel
principio dell’unità del diritto che preclude di assoggettare a regimi diversificati fattispecie
che l’ordinamento non differenzia”.
45
Sulla responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione cfr.: R. GAROFOLI, G.
RACCA, M. DE PALMA, Responsabilità della pubblica amministrazione e risarcimento del
danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, pg. 171 e ss.; G.P. CIRILLO, Il
danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio, Padova, 2001,
pg. 168; F. CINTIOLI, Dalla “sindrome dello sceriffo” e del risarcimento dell’interesse
legittimo: luci e ombre della recente giurisprudenza, in Diritto e formazione, 2003, pg. 888
e ss; in generale sulla responsabilità precontrattuale F. BENATTI, Brevi note sulla
responsabilità precontrattuale della p.a., in Foro pad., 1962, I, pg. 1357; F. CARINGELLA,
Responsabilità precontrattuale della p.a. a cavallo tra schemi privatistici e moduli
procedimentali, in Corr. giur., 1996, pg. 294 e ss.; M.S. GIANNINI, La responsabilità
precontrattuale dell'amministrazione pubblica, in Raccolta di scritti in onore di A.C.
Jemolo, Milano, 1963, III, pg. 263 e ss.; G. LEONE, Osservazioni sulla responsabilità
precontrattuale della p.a. con particolare riguardo alla trattative scolte senza
autorizzazione, in Giur. it., 1977, IV, 123 ss.; A.M. MUSY, Responsabilità precontrattuale,
in Dig. disc. priv., Torino, 1995; M. NIGRO, L'amministrazione tra diritto pubblico e diritto
privato: a proposito di condizioni legali, in Foro it., 1961, I; pg. 457 e ss.; V. NOCCO, La
responsabilità precontrattuale in particolare quella della p.a., in Nuova rass., 1991, 1494
ss.; G. PALMIERI, Nota minima in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione, in Rass. avv. St., 1983, I, pg. 864 e ss.; G.M. RACCA, La responsabilità
precontrattuale della p.a., Napoli, 2000; M.A. RUSSO, La responsabilità precontrattuale
della pubblica amministrazione: inquadramento e problematiche risarcitorie, in
www.lexfor.it; G. STOLFI, Sulla culpa «in contrahendo» dell'amministrazione pubblica, in
Riv. dir. comm., 1975, II; pg. 22; M. VIALE, In tema di responsabilità precontrattuale della
p.a., in Riv. dir. comm., 1983, II; pg. 240 e ss.; L. VACCARELLA, Atti prodromici alla
conclusione del contratto e profili die responsabilità della pubblica amministrazione, in Riv.
trim. app., 1990, pg. 790 e ss.; F. CORTESE, Ancora sulla responsabilità precontrattuale
della p.a.: prove tecniche di giudizio ed ipotesi ricostruttive, in Dir. proc. amm. 2004,
2, pg. 544 e ss.
56
configurabilità di un danno risarcibile è proprio la violazione dell'affidamento
generato dalla pubblica Amministrazione con i propri comportamenti o con i
propri atti.
La
differenza
principale
tra
la
teoria
della
responsabilità
precontrattuale dell’Amministrazione e quella della responsabilità da
contatto consiste nel fatto che in quest’ultima viene tutelato l’affidamento
suscitato dallo status della pubblica Amministrazione, da cui ci si aspetta il
rispetto degli obblighi procedimentali, gravanti su di essa, mentre nella
responsabilità precontrattuale viene tutelato uno specifico affidamento,
generato da un precedente comportamento, positivo o negativo, della
pubblica Amministrazione46.
46
In materia di responsabilità da lesione del legittimo affidamento cfr.: F. MERUSI,
Buona fede e affidamento nel diritto pubblico: il caso della «alternanza», in Riv. dir. civ.,
2001, I, pg. 561 e ss.; R. CARANTA, La «comunitarizzazione» del diritto amministrativo: il
caso della tutela dell’affidamento (Nota a Tribunal administratif [Francia] Strasburgo, 8
dicembre 1994, Entreprise Freymuth c. Ministre Environnement e Queen’s Bench Division
[Gran Bretagna], 3 novembre 1994, R. c. Ministry Agriculture), in Foro it., 1996; F.
CARINGELLA, Risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo: buona fede
amministrativa e affidamento del privato (Nota a T. Voghera, 11 gennaio 1996,
Ecolombardia c. Com. Pizzale), in Foro it., 1996; a cura di L. GAROFALO, Il ruolo della
buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (Padova – Venezia – Treviso, 14-15-16
giugno 2001), I-IV, Padova, 2003; F. MANGANARO, Principio di buona fede e attività delle
amministrazioni pubbliche, Napoli 1995; G. GRECO, Sovvenzioni e tutela dell’affidamento,
testo rivisto della Relazione presentata al X Colloquio italo-tedesco di diritto pubblico,
tenutosi a Firenze dal 27 al 29 maggio 1999; F. CAPELLI La tutela del legittimo affidamento
tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. com. scambi int., 1989, pg. 97 e ss.
Storicamente contrari all’applicabilità dei principi del legittimo affidamento al diritto
amministrativo cfr.: M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria
giuridica generale dell’interpretazione, Milano, 1939, pg. 373, il quale esclude la buona
fede dall’interpretazione e dall’integrazione dell’atto amministrativo, in quanto la ritiene
legata all’equivalenza delle parti tra le quali essa ha una delicata funzione regolatrice del
“gioco degli interessi contrapposti”; parimenti GUICCIARDI, Recensione a Schmitt K. H., in
Arch. Dir. pubbl., 1936, pg. 561 e ss.; hanno invece espresso parere a favore
dell’applicabilità di tale principio al diritto amministrativo invece l’ALLEGRETTI,
L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, pg. 274 e ss., secondo il quale il principio di
buona fede dimensiona i rapporti di collaborazione fra amministratori e amministrati, e non
è incompatibile con il valore che ha per l’amministrazione l’interesse pubblico, ma anzi la
buona fede e l’affidamento (buona fede determinata dall’apparenza) operano tanto più
fortemente nei riguardi dei soggetti imparziali, e valgono anche innanzi alla legge, legandosi
alla fiducia del cittadino nella sua stabilità e certezza, ed anche F. BENVENUTI,
L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1961, pg. 151, il quale collega la buona fede
all’imparzialità della parte.
57
Anche la responsabilità precontrattuale comporta una risarcibilità del
danno causato dalla violazione del legittimo affidamento anche a
prescindere dall'accertamento della spettanza del bene della vita o
addirittura in caso di accertamento della non spettanza di tale bene,
e
probabilmente per tale ragione la Sezione Quarta del Consiglio di Stato
aveva ritenuto di affermare la risarcibilità del danno da mero ritardo come
ascrivibile a una ipotesi di responsabilità precontrattuale, proprio perché in
genere la natura precontrattuale della responsabilità viene richiamata per le
fattispecie di danno da scorrettezza della pubblica Amministrazione, non
direttamente collegata ad un provvedimento negativo da impugnare.
C.
L’ultimo inquadramento dottrinario della responsabilità della pubblica
Amministrazione è quello all'interno della responsabilità extracontrattuale, in
base al quale la pubblica amministrazione, quando, nell'adottare un
determinato provvedimento illegittimo o nel comportarsi in violazione delle
regole di correttezza, cagiona un danno al cittadino, commette un illecito da
risarcire secondo gli ordinari schemi dell'illecito aquiliano.
La logica della responsabilità extracontrattuale della pubblica
Amministrazione si fonda sulla dimostrazione dell’esistenza nei singoli casi
specifici dei presupposti dell’illecito, ovvero nell’identificazione, caso per
caso, del fatto giuridico lesivo imputabile ad un soggetto, dell’esistenza di un
danno (inteso sia come danno “ingiusto”, ovvero come lesione di un valore
tutelato dall'ordinamento47, sia come una “deminutio” del patrimonio
47
Circa la qualificazione del danno come “ingiusto” cfr.: L. GAROFALO, La responsabilità
dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 1, 2005, pg.
43-44, il quale opera una distinzione relativamente al danno risarcibile, in quanto ritiene che
da una lettura attenta dell’art. 7 della legge TAR e dell’art. 35 del d. lgs. 80 del 1998 si possa
ricavare una differenziazione nella qualificazione del danno a seconda che si tratti di
giurisdizione generale di legittimità o di giurisdiziona esclusiva. L’Autore ritiene, infatti,
che l’art. 7, comma terzo, della legge TAR nell’attribuire “al giudice amministrativo la
competenza, suscettibile di esplicarsi ‘nell’ambito della sua giurisdizione’, a pronunciarsi
‘anche’ sulle domande relative sia ‘all’eventuale risarcimento del danno’ …sia ‘agli altri
58
giuridico di un soggetto), del profilo soggettivo della responsabilità, ovvero
del dolo o della colpa, e infine dell’esistenza di un nesso causale tra il fatto,
doloso o colposo, che è stato posto in essere ed il danno conseguente.
Un siffatto inquadramento della responsabilità della pubblica
Amministrazione permette di tutelare anche l’affidamento che il privato ha
fatto sugli atti o sui comportamenti della pubblica Amministrazione,
intendendo tale affidamento non come qualsiasi mera aspettativa del
privato, ma limitandolo alle situazioni suscettive di determinare un oggettivo
affidamento.
6.
L’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Alla base della risarcibilità del danno da ritardo è il precetto
contenuto nell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 che contiene la
previsione espressa di un termine generale per l’azione
amministrativa48. La previsione di siffatto termine assume
importanza fondamentale perché mentre prima del 1990 si poteva
diritti patrimoniali consequenziali’” volesse evocare “unicamente la giurisdizione generale
di legittimità”, posto che tale danno è “ingiusto per definizione” in quanto necessariamente
si collega alla lesione di un interesse legittimo, ovvero ad una situazione giuridica soggettiva
“aprioristicamente assunta dall’ordinamento come meritevole di protezione”;
differentemente accade, invece, per le ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle quali se non vi
fosse l’integrazione del vocabolo ‘danno’ con l’aggettivo ‘ingiusto’ “il giudice
amministrativo … sarebbe tenuto ad accordare il risarcimento di ogni danno: e quindi non
solo del danno derivante dalla lesione di un interesse meritevole di protezione alla stregua
degli indici normativi offerti dall’ordinamento, che assurga o meno alla dignità di diritto
soggettivo o di interesse legittimo, ma anche del danno conseguente alla violazione di un
interesse assolutamente privo di una qualunque rilevanza giuridica”.
48
Sul punto cfr.: M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino,
1995; M: LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo certezza dei rapporti, interesse
pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, pg. 293 e ss.; C: TALICE, Termine (dir.
amm.), in Enc. dir., Milano, 1992, XLIV, pg. 221 e ss.; S. S. SCOCA, Il termine come
garanzia nel procedimento amministrativo, in www.giustamm.it, 2005; M. CORRADINO,
Termini, efficacia dei provvedimenti e silenzio dell’Amministrazione nelle “riforme” della
legge n. 241/1990 (legge 11 febbraio 2005, n. 15 e legge del 14 maggio 2005, n. 80), in
www.giustamm.it, 2005; M. SGROI, I tempi del procedimento, in Legge 7 agosto 1990, n.
241 e ordinamenti regionali, a cura di G. PASTORI, Padova, 1995, pg. 51 e ss.; M.T.
ONORATO, Considerazioni sul termine di conclusione del procedimento amministrativoI, in
TAR, 1998, II, pg. 221 e ss.; P.G. LIGNANI, I tempi del procedimento amministrativo, in
AA.VV., Napoli, 1991, pg. 33 e ss.; S. BRUCOLI, I termini del procedimento amministrativo,
in Riv. pers. Ente locale, 1994, pg. 845; P. CARNEVALE, Il termine del procedimento
amministrativo, in Nuova rass., 1991, pg. 1127 e ss.; A. TRUINI, Il termine per l’adozione
dei provvedimenti (art. 16 legge 861/1990 e 2 legge n. 241/1990), in Nuova Ras., 1997, pg.
2097 e ss.; F. GOISIS, La violazione dei termini previsti dall’art. 2 legge n. 241 del 1990:
conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis legge TAR, in
Dir. proc. amm., 2004, pg. 571 e ss.; G. GRECO, L’articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n.
205, in Dir. proc. amm., 2002, pg. 119 e ss.
59
ammettere una certa libertà delle Amministrazioni nelle
tempistiche di esecuzione della propria attività, in quanto non
sussisteva alcuna disciplina generale del tempo procedimentale, e,
come precisato da Giannini, “la regola è [era] nel senso della
libera durata del procedimento o delle singole fasi di esso49”,
attualmente tale “libertà di azione” non è più ammissibile, posto
che, in base a quanto sancito dalla richiamata norma, ogni
procedimento, d’istanza o d’ufficio, deve trovare la propria
conclusione in un provvedimento espresso (anche quello di
archiviazione), che dovrà essere emanato nel termine disposto
dall’Amministrazione procedente o, ove tale determinazione
manchi, in via sussidiaria, nel termine sancito dallo stesso art. 2.
L’art. 2 della l. 241/1990, infatti, sancisce non solo il
dovere di concludere ogni procedimento con un provvedimento
espresso, ma anche il dovere di ogni pubblica Amministrazione di
predeterminare la durata dei singoli procedimenti e di rendere
pubbliche le determinazioni sulla durata di ciascun procedimento.
Viene così sancito un obbligo a carico delle pubbliche
Amministrazioni, che sono le dirette destinatarie di tale
disposizione, ma viene altresì rafforzata la posizione giuridica
soggettiva del singolo, che non si trova più a dovere subire a
tempo indeterminato una situazione di incertezza relativamente al
“se” ed al “quando” la pubblica Amministrazione eserciterà il
proprio potere, ma potrà conoscere in tempi brevi e
predeterminati quale sarà l’esito del procedimento che incide sulla
sua posizione giuridica soggettiva50. E l’esistenza di un obbligo in
capo alle pubbliche Amministrazioni di concludere ogni
procedimento con un provvedimento espresso e di comunicare
preventivamente i tempi (massimi) entro cui emanerà il suddetto
provvedimento, necessariamente influenza i rapporti tra
Amministrazione e privato, conferendo maggiori garanzie di
tutela degli interessi e dei diritti del privato.
7.
L’esigenza di certezza dei cittadini istanti.
Come già sottolineato, quindi, anche se l’art. 2 della l.
241/1990 ha per destinatari le pubbliche Amministrazioni, esso
49
M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Milano, 1993, pg. 192.
Sul punto cfr.: B. CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto
amministrativo, a cura di G. SANTANIELLO, Padova, 1993, pg. 226, il quale rivolge una dura
critica alla disciplina precedente che era caratterizzata da “i tempi senza tempo” dell’agire
procedimentale delle pubbliche amministrazioni, e sottolinea come “la sostanziale impunità
dell’amministrazione procedente, nel lasciare aperto ad infinitum un procedimento
ritualmente iniziato, ha costituito una vergogna nazionale per il nostro sistema, sulla quale
il moderno legislatore è opportunamente intervenuto, nel fissare un termine entro cui il
procedimento deve conchiudere con l’emanazione del provvedimento finale”.
50
60
svolge parimenti la funzione (principale) di attribuire certezza alle
situazioni giuridiche, a tutto vantaggio della posizione dei
soggetti che si trovano ad interagire con le pubbliche
Amministrazioni.
La disciplina dei “tempi del procedimento” amministrativo
risponde al duplice fine della tutela dei principi di efficienza e
buon andamento dell’azione amministrativa, in quanto
obbligando le pubbliche Amministrazioni a un’azione che sia
anche tempestiva viene assicurata l’efficienza stessa dell’azione51
(in funzione, quindi, di tutela del pubblico interesse al
perseguimento delle finalità per le quali è stato attribuito un
determinato potere), e insieme di tutela dei principi di legittimo
affidamento e di certezza del diritto, in quanto tramite tale
disposizione viene accentuata la tutela dell’affidamento e
dell’esigenza di certezza dei rapporti e delle situazioni giuridiche
soggettive che è proprio del singolo.
Nella disciplina delle situazioni pratiche l’esistenza di tale
dovere a carico delle pubbliche Amministrazioni comporta in
capo al privato l’esistenza di una sorta di “diritto” a che i
procedimenti amministrativi, che incidono sulla sua posizione
giuridica soggettiva, pervengano ad una rapida definizione, quale
che sia il contenuto del provvedimento finale, posto che solo dopo
che abbia avuto certezza circa la questione concreta il privato
potrà valutare con coscienza e deliberare, con una piena visione
della situazione reale, cosa fare e come gestire le proprie risorse,
se investirle altrove o decidere altrimenti.
Ne consegue che una prolungata situazione di incertezza,
determinata dall’inerzia della pubblica Amministrazione, debba
comunque essere sanzionata, in ragione dell’effetto
pregiudizievole della posizione giuridica soggettiva del privato
che essa determina, posto che si determinerebbe una illegittima e
prolungata situazione di ingiustificata soggezione del singolo alla
pubblica Amministrazione, in palese violazione del legittimo
affidamento che costui ha posto nell’agire della pubblica
Amministrazione; il semplice ritardo della pubblica
Amministrazione non può essere privo di sanzione perché
determina non solo una violazione dell’art. 2 della l. 241/1990
(disposizione in relazione alla violazione della quale, purtroppo, il
legislatore non ha previsto apposita sanzione) ma, con essa, dei
51
Sul punto cfr. M.T. ONORATO, Considerazioni sul termine di conclusione del
procedimento amministrativo, in TAR, 1998, II, pg. 221 e ss., il quale afferma che “quanto
maggiore è il lasso temporale lasciato decorrere tanto più elevata è la possibilità di
sopravvenienze che rendono l’intempestivo provvedimento inutiliter datum”.
61
principi di efficacia, efficienza e trasparenza del procedimento
amministrativo, determinando così un sacrificio della posizione
giuridica soggettiva del privato che non è proporzionato ma è
irragionevolmente superiore a ciò che avrebbe potuto essere.
Come già sottolineato da autorevole dottrina52, infatti, la
responsabilità dell'amministrazione che non provveda, o provveda
in ritardo , su un’istanza del privato sorge per l'inadempimento
dell'obbligo di natura formale di provvedere entro il termine, a
essa rimanendo estraneo il "dovere di natura sostanziale di
emanare il provvedimento richiesto". In altri termini, il danno
risarcibile deriverebbe "dal perdurare della situazione di
incertezza circa il rilascio o meno del provvedimento di tipo
autorizzatorio e non anche il mancato o ritardato godimento del
bene della vita o dell'utilità finale"; infatti ammettendo tutela solo
nel caso in cui il provvedimento emanato in ritardo abbia un
effetto favorevole all’istante, si finirebbe per confondere il danno
da ritardo con il danno da perdita di chance53. Il danno risarcibile
nel caso di danno da ritardo, invece, si differenzia dal danno da
perdita di chance, posto che non consiste nella perdita della
probabilità di ottenere un provvedimento favorevole, ma è il
danno conseguente all'incertezza circa l'emanazione del
provvedimento ampliativi: e infatti il risarcimento del danno da
ritardo trova fondamento nella violazione dell'obbligo di
provvedere nel termine, in relazione al quale l'istante ha maturato
un autonomo affidamento degno di tutela risarcitoria,
indipendentemente da ogni sua aspettativa all'emanazione del
provvedimento richiesto.
52
M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, pg. 148 e
ss.
53
Come sottolineato ampiamente da D. VAIANO, Pretesa di provvedimento e processo
amministrativo, Milano, 2002, pg. 228 e ss. sulla “perdita di chance” le opinioni in dottrina
appaiono non ancora del tutto consolidate”; svariate analisi al riguardo sono state effettuate
da: F.D. BUSNELLI, Perdita di chance e risarcimento del danno, in nota a App. Parigi, 6
marzo 1964, in Foro it., 1965, IV, col. 47 e ss.; ID., Lesione di interessi legittimi: dal “muro
di sbarramento” alla “rete di contenimento”, in Danno e responsabilità, 1997, pg. 269 e ss.;
M. BOCCHIOLA, Perdita di chance e risarcimento del danno, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1976, pg. 55 e ss.; G. CAPPAGLI, Perdita di una chance e risarcibilità del danno per ritardo
nella procedura di assunzione, nota a Cass. 19 novembre 1983, n. 6909, in Giust. civ., 1984,
pg. 1841 e ss; G. ALPA, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, vol. IV, Milano,
1999, pg. 514-515, il quale osserva come “nella nostra tradizione dottrinale ha pesato in
senso negativo sul punto l’opinione di Pacchioni secondo il quale la chance non avrebbe
valore di mercato. …Dapprima Francesco Busneli aveva avallato questa tesi, considerando
la chance un mero interesse di fatto … ora alcuni riconducono la chance al lucro cessante,
altri obiettano che la certezza del danno non si potrebbe mai raggiungere e quindi non si
può parlare di lucro cessante ma di danno attuale, considerando il venire meno della
probabilità esistente al momento dell’accadimento dannoso …”.
62
Per valutare se l’attribuzione di una tutela al mero interesse
al rispetto delle norme procedimentali sia ammissibile si potrebbe
valutare quella che è la ratio in un’ottica più ampia, ovvero si
potrebbe rivolgere l’attenzione a quella che è la legislazione e la
giurisprudenza comunitaria relativa alla disciplina del “tempo”: al
riguardo, infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo,
formatasi nell'applicazione dell'art. 6, pgf. 1 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata dalla l. 4 agosto 1955, n. 848, nel caso di
irragionevole durata dei processi (ma la stessa ratio può applicarsi
anche alla irragionevole durata dei procedimenti amministrativi),
ha sempre ritenuto che il danno indennizzabile sia conseguenza
del mero ritardo nel provvedere, senza che abbia rilievo la
fondatezza della domanda azionata, e che pertanto abbia diritto
all'indennizzo anche chi abbia proposto una domanda infondata,
perché comunque la Convenzione tutela il diritto ad ottenere una
risposta di giustizia in tempi ragionevoli. Parimenti una analoga
ratio può rinvenirsi nella legge 24 marzo 2001, n. 89, sulla
riparazione per l'eccessiva durata del processo, che prevede il
diritto all'equa riparazione a favore di chi ha subito dal ritardo non
solo un danno patrimoniale, ma anche un danno non patrimoniale
(art. 2) e che rende possibile la proposizione della relativa
domanda anche «durante la pendenza del procedimento nel cui
ambito la violazione si assume verificata». Ove non si voglia
accedere alla tesi per cui tali disposizioni non debbano ritenersi
giustificate dalla particolare natura e dal rilievo della funzione di
amministrazione della giustizia (malamente) esercitata, ma si
volesse ammettere che la tutela del privato di fronte alla
irragionevole durata dell’esercizio di funzioni pubbliche
(amministrative o giurisdizionali) costituisce un principio
generale, sarebbe inevitabile concludere che le violazioni delle
norme procedimentali integrino di per se stesse una violazione
causativa di danno ingiusto e, di conseguenza, che l'azione
risarcitoria sia proponibile a prescindere dal contenuto del
provvedimento. La tesi del principio generale della risarcibilità
dell’illegittimo ritardo nella funzione (amministrativo o
giurisdizionale) trova conferma nel testo dell'art. 2 della legge n.
241/1990, posto che esso sancisce un obbligo ed un dovere che
fanno pensare a un esercizio vincolato, e non discrezionale,
dell'attività54, di fronte al quale la pretesa del cittadino è uguale a
54
Per “esercizio vincolato, e non discrezionale, dell’attività” si intende riferirsi ad un
vincolo che la pubblica Amministrazione ha di porre in essere, nei termini di legge, un
provvedimento amministrativo, ovvero ci si riferisce al dovere di concludere i singoli
63
quella che egli coltiva quando propone un'azione dinanzi ai
giudici dello Stato.
Chiaramente si comprende come un’impostazione siffatta
porterebbe ad affermare un dovere in capo alla stessa
Amministrazione di risarcire il privato in tutti i casi in cui
un’istanza non sia stata esaminata, nonché in quelli in cui non sia
stata data risposta nei tempi di legge: e ciò potrebbe determinare
l’inconveniente pratico di invogliare i cittadini a proporre una
miriade di richieste infondate e defatiganti, che finirebbero per
rallentare ulteriormente l’attività della nostra già affaticata (e non
proprio “scattante”) Amministrazione, con un enorme aumento
dell’attività amministrativa (e di conseguenza anche del
contenzioso giudiziario in relazione allo svolgimento di tale
attività) e con un incremento non controllabile della spesa
pubblica; probabilmente la ratio della decisione n. 7/2005
dell’Adunanza Plenaria è stata proprio quella di evitare che le
pubbliche Amministrazioni fossero sommerse da un numero
infinito di istanze, le quali costituirebbero esse stesse, in ragione
del loro numero, la ragione della lentezza dell’agire delle
pubbliche Amministrazioni e comporterebbero in capo alle
pubbliche Amministrazioni un notevole onere economico55,
determinato dalle richieste di risarcimento del danno conseguente
alla mancata o ritardata decisione delle istanze.
La logica dell’Adunanza Plenaria, pur comprensibile, non è
però ammissibile: la funzione amministrativa e l’esercizio del
potere delle pubbliche Amministrazioni, infatti, è organizzato,
oltre che nel pubblico interesse, anche nell'interesse del cittadino
e, oltre che in funzione del perseguimento dell’interesse pubblico,
anche, con esso, dell’interesse del privato ad esso sotteso. Si
potrebbe quindi anche pensare, in un'ottica rigorosa, che il
cittadino abbia diritto a dolersi del modo in cui è stato svolto e
organizzato il procedimento amministrativo, ove tale attività sia
stata effettuata in maniera da dargli risposta in tempi eccessivi
procedimenti amministrativi con un provvedimento espresso tempestivo; non ci si riferisce,
pertanto, al carattere discrezionale o vincolato dell’attività amministrativa, quanto al fatto
che l’Amministrazione è vincolata a porre in essere l’attività amministrativa.
55
Sul punto cfr. F. LUBRANO, Intervento, nel corso del Convegno Situazioni giuridiche
soggettive e riparto di giurisdizione dopo la sentenza 204/04 della Corte
Costituzionale, Fondazione dell’Avvocatura italiana presso il Consiglio Nazionale Forense,
Roma, 7 ottobre 2004, il quale ritiene che l’attribuzione del risarcimento del danno
conseguente all’emanazione di un provvedimento amministrativo lesivo o ad un
comportamento significativo della pubblica Amministrazione precisato nella sentenza della
Corte costituzionale n. 204 del 2004 costituisca un “regalo all’erario”, in ragione della scarsa
propensione che il Giudice amministrativo ha nel riconoscere il risarcimento del danno a
carico delle pubbliche Amministrazioni.
64
(che si risolvono di per se stessi in un danno per l’istante) e possa
pretendere in tal caso un qualcosa al fine di risarcirlo del danno
subito in ragione del ritardo, chiaramente ove possa dimostrare
che il suddetto ritardo ha determinato in qualche modo una
lesione della sua sfera patrimoniale o comunque una lesione della
sua posizione giuridica soggettiva, delle sue legittime aspettative
e del suo “diritto” ad una certezza del diritto e della
regolamentazione delle singole situazioni giuridiche soggettive56.
8.
Le ipotesi in cui lo stesso esito negativo del
procedimento amministrativo dipende dal ritardo con il quale
è stato emanato il provvedimento amministrativo.
La decisione dell’Adunanza Plenaria non può essere
accettata oltre che per ragioni di tipo giuridico, ovvero per la
doverosa tutela da attribuire all’interesse al rispetto della
disciplina procedimentale, anche per ragioni di tipo logico: in
precedenza si è accennato al fatto che una giurisprudenza siffatta
potrebbe
portare
all’inconveniente
di
invogliare
le
Amministrazioni “ritardatarie” a emettere provvedimenti negativi,
nella consapevolezza che in tale modo si potrebbero “salvare” da
dovere risarcire il soggetto istante del danno causatogli mediante
il ritardo, proprio perché il riconoscimento del suddetto
risarcimento sarebbe subordinato alla previa impugnazione (ed
annullamento) del provvedimento stesso. A ciò si aggiunge che
l’inammissibilità di quanto sancito dalla decisione dell’Adunanza
Plenaria discende anche dal fatto che anche ove si volesse
applicare la logica rigorosa del riconoscimento del danno da
ritardo nelle sole ipotesi in cui il provvedimento emanato in
ritardo produca un effetto favorevole in capo all’istante, e, quindi,
si volesse negare la risarcibilità dell’interesse al rispetto delle
regole procedimentali, si finirebbe per lasciare prive di tutela
delle ipotesi in cui un danno, ulteriore rispetto a quello
configurato dall’aver lasciato un soggetto in una perdurante
situazione di incertezza, è stato indubbiamente causato proprio
dalla lentezza della pubblica Amministrazione. Alcuni esempi
potranno chiarire meglio la sussistenza e l’entità di questo danno
56
Sul punto cfr. G. VERDE, La pregiudizialità dell'annullamento nel processo
amministrativo per risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2003, pg. 963 e ss., il quale,
invece, ritiene che “un'azione risarcitoria potrà essere proposta, nel caso di violazione del
procedimento, solamente quando si ottenga la previa tutela demolitoria dell'atto” perché “il
cittadino può dolersi per il modo in cui è stato gestito il procedimento solamente se la
violazione procedimentale si sia tradotta in una lesione della sua sfera patrimoniale” e,
pertanto l’Autore afferma che non sia sufficiente a tal fine “a concretare un danno
risarcibile la situazione di incertezza ingiustamente prolungata dall'amministrazione, come
ritiene Clarich” (in Termine del procedimento e potere amministrativo, op. cit.).
65
ulteriore, scollegato dalla spettanza del bene ed ulteriore rispetto
al danno da incertezza del provvedimento.
A.
Una ipotesi siffatta si potrebbe avere, ad esempio, ove un
soggetto avesse presentato un’istanza di concessione edilizia alla
quale per lungo tempo non sia stata data risposta
dall’Amministrazione e in relazione alla quale, dopo una lunga
inerzia, sia stato emanato un provvedimento negativo: ove in
relazione a una fattispecie simile si volesse seguire la logica
dell’Adunanza Plenaria, si dovrebbe negare la risarcibilità del
danno da ritardo ma, a parte i rilievi già svolti in relazione alla
necessaria risarcibilità dell’interesse al rispetto delle norme
procedimentali, in un caso come quello in esame ciò potrebbe
comportare una ingiusta lesione della posizione giuridica
soggettiva del soggetto istante, la cui soddisfazione sia stata resa
impossibile
proprio
a
causa
del
comportamento
dell’Amministrazione e cui non sia concesso nemmeno il
risarcimento per equivalente. La richiesta, infatti, potrebbe essere
stata negata proprio in ragione, e per l’effetto, del ritardo
dell’Amministrazione nella pronuncia: si pensi all’ipotesi in cui
l’originaria istanza avrebbe potuto essere accolta nel momento in
cui era stata proposta ma nelle more della decisione della stessa
sia cambiato il piano regolatore per cui la zona interessata dal
progetto per il quale era stata presentata l’istanza sia divenuta da
residenziale a “standard”, mentre se la decisione circa l’istanza
fosse stata emanata nei termini di legge si sarebbe applicato il
vecchio piano regolatore (e, di conseguenza, l’istanza sarebbe
stata accolta). E’ evidente come in un’ipotesi siffatta lo stesso
provvedimento negativo debba trovare la sua ragione d’essere nel
decorso del tempo, e, pertanto, l’inerzia dell’Amministrazione
abbia determinato un duplice danno al soggetto istante, posto che
all’impedimento di realizzare la propria posizione giuridica
soggettiva edificando sul suolo di propria proprietà si sia aggiunto
quello del diniego dello stesso danno determinato dal ritardo della
pubblica Amministrazione, anche ove sia indiscutibile che tale
danno sussiste.
Il privato istante, in un’ipotesi come quella appena
delineata, sarebbe irrimediabilmente leso dall’agire illegittimo
della pubblica Amministrazione e verrebbe, ove la decisione
dell’Adunanza Plenaria trovi seguito, ad essere privato anche
della possibilità di ottenere ristoro in sede giurisdizionale. Un
giudizio impugnatorio, infatti, non avrebbe ragione d’essere,
posto che il provvedimento negativo nel momento in cui è stato
66
emanato è perfettamente legittimo e pienamente rispondente alla
disciplina in materia: l’unica forma di tutela che rimarrebbe al
privato che, in perfetta buona fede, in quanto proprietario di un
suolo edificatorio in base a quanto disposto dal piano regolatore,
abbia investito risorse, economiche e non, nella progettazione,
confidando nel fatto che, sussistendo tutti i presupposti necessari
per la concessione edilizia, la stessa sarebbe stata concessa in
breve tempo dall’Amministrazione, ovvero il risarcimento del
danno da ritardo (vale a dire del danno causato al privato istante
direttamente
dal
comportamento
colpevole
57
dell’Amministrazione), verrebbe meno .
L’applicazione delle limitazioni al danno da ritardo previste
dall’Adunanza Plenaria potrebbe avere, pertanto, di per sé effetti
pregiudizievoli della posizione del privato sia ove questi abbia a
che fare con un’Amministrazione sostanzialmente corretta e
soltanto “ritardataria”, sia, e ciò potrebbe creare una situazione
ancora maggiormente di svantaggio per il privato, ove
l’Amministrazione ritardasse i tempi dello svolgimento
procedurale al solo scopo di avere concretamente la possibilità di
variare lo strumento urbanistico (o in genere i presupposti
dell’emanando provvedimento), potendo così nella pratica negare
un provvedimento favorevole a un soggetto cui tale
provvedimento al momento in cui è stato richiesto spettava, o
subordinarne la concessione a determinate condizioni (mancando
il soddisfacimento delle quali l’Amministrazione avrebbe
ulteriormente
differito
la
emanazione
del
richiesto
provvedimento), posto che tanto il privato non avrebbe alcun
modo di difendersi di fronte a siffatto comportamento
dell’Amministrazione.
La concessione del danno da ritardo viene subordinata alla
sussistenza di condizioni irragionevoli e inique dall’Adunanza
Plenaria, che sicuramente spinta dal fine di evitare l’automatica
attribuzione di un danno a tutti coloro che intasino l’attività delle
pubbliche Amministrazioni con le proprie istanze, sembra
dimenticare l’importanza che assume il “tempo” nella regolazione
dei rapporti, e, pur in presenza di una disciplina chiara del dovere
delle pubbliche Amministrazioni di concludere i procedimenti
con un provvedimento espresso che venga tempestivamente
57
In realtà il privato istante ha un’altra chance di azione in quanto nelle more del
procedimento potrebbe impugnare il silenzio della pubblica Amministrazione; l’esistenza di
una possibilità siffatta, però, non esclude la lesione causata dall’impossibilità di essere
risarciti per il ritardo nell’agire della pubblica Amministrazione, ove non risulti dimostrata
anche la spettanza del bene.
67
emanato, e pur deliberando in un momento storico nel quale vale
il “principio” secondo cui “il tempo è denaro”, priva di qualunque
valore l’interesse del soggetto in posizione di soggezione rispetto
all’Amministrazione ad avere da questa un provvedimento
espresso e tempestivo.
Ove la logica dell’Adunanza Plenaria sia stata proprio
quella di evitare ad un’Amministrazione oberata da una serie di
istanze meramente dilatorie di dover pagare per non essere
riuscita a pronunciarsi nei tempi su tutte, allora sarebbe stato più
logico prevedere l’imposizione di una “tassa procedimentale”, la
cui istituzione serva proprio a evitare la proposizione di troppe
istanze dilatorie ed a snellire l’operato delle pubbliche
Amministrazioni.
B.
L’ipotesi appena esaminata fa riferimento a un mutamento
dei presupposti di diritto nel corso del procedimento
amministrativo, ma la lentezza dell’agire della pubblica
Amministrazione potrebbe determinare anche un mutamento dei
presupposti di fatto, relativamente al quale dimostrare
l’illegittimità del provvedimento tardivo sopravvenuto e ottenere
anche il conseguente risarcimento del danno appare essere molto
più difficoltoso.
Si pensi all’ipotesi di un’istanza rivolta ad una pubblica
Amministrazione l’accoglimento della quale sia subordinata al
fatto che il richiedente non abbia ancora raggiunto un certo limite
di età. Nel caso di specie si potrebbe verificare una situazione per
la quale l’Amministrazione coinvolta, in buona o cattiva fede
(ovvero semplicemente a causa di una propria inefficienza oppure
proprio al fine di non emanare il richiesto provvedimento),
potrebbe impiegare tempi procedimentali così lunghi che il
presupposto di fatto, ovvero l’essere di età inferiore a un quantum
prestabilito (ad esempio i 65 anni solitamente considerati per l’età
pensionabile), venga a mutare; in pratica un soggetto che abbia
legittimamente inoltrato un’istanza a una Amministrazione si
vedrà legittimamente rigettata la suddetta istanza proprio perché
l’Amministrazione, anziché pronunciarsi nei tempi prestabiliti, si
è pronunciata in ritardo. In tale ipotesi il richiedente si troverebbe
dinanzi ad un provvedimento sicuramente legittimo nel momento
in cui è stato emanato e nei confronti del quale, pertanto, non
dispone di alcuno strumento, tale provvedimento, però, ha un
contenuto negativo per l’istante, mentre ove l’Amministrazione
avesse emanato il provvedimento nei tempi di legge il contenuto
sarebbe stato differente.
68
Si pensi a un’ipotesi di istanza di modifica del rapporto di
impiego di un militare il cui presupposto di accoglimento sia
semplicemente il fatto che il richiedente appartenga a una
categoria in servizio e non a una in “congedo permanente”: è
evidente che tale istanza ha l’astratta possibilità di essere accolta
solo ove essa venga esaminata mentre il soggetto è ancora in
servizio, mentre nel momento in cui costui, per il raggiungimento
dei limiti di età pensionabile, passi in congedo permanente,
verrebbe a mancare proprio la possibilità di accogliere la suddetta
istanza che necessariamente dovrebbe avere un contenuto
negativo. Nel caso di specie sarà proprio il ritardo
dell’Amministrazione ad avere costituito la causa di siffatto
diniego, in quanto la pronuncia sull’istanza è arrivata in seguito al
cambiamento dei presupposti di fatto necessari per un eventuale
accoglimento, ma, seguendo la logica dell’Adunanza Plenaria, il
privato dovrebbe limitarsi a subire gli effetti pregiudizievoli di
siffatto provvedimento, senza potere alcunché pretendere.
9.
Conclusioni.
Chiarito, quindi, che la soluzione prescelta dalla Corte non
è condivisibile, in ragione di tutte le problematiche sopra
evidenziate che andrebbe a determinare, si potrebbe ipotizzare
una soluzione alternativa, che contemperi le due esigenze
contrapposte, quella di non lasciare privo di tutela il soggetto che
sia stato leso dall’agire procedimentale della pubblica
Amministrazione ed insieme quella di non ampliare
eccessivamente ed in modo illimitato la risarcibilità del danno,
estendendole al ritardo nella conclusione di procedimenti
instaurati su domande meramente pretestuose o defatigatorie.
Il rispetto degli obblighi procedimentali è funzionale alla garanzia
dell'affidamento del privato sulla legittimità dell'azione amministrativa, e la
stessa affermazione di una responsabilità da contatto in capo alla pubblica
Amministrazione non è altro se non un tentativo di definire in modo diverso
gli obblighi derivanti dal giusto procedimento amministrativo, ovvero
affermare
la
sussistenza
di
una
responsabilità
della
pubblica
Amministrazione in relazione alle modalità in cui si è svolta la sua attività
procedimentale; in sostanza ove una pubblica Amministrazione avesse
agito in violazione delle norme procedimentali avrebbe causato un
69
pregiudizio al destinatario del provvedimento, pregiudizio del quale sarebbe
responsabile. Tale affermazione, capovolta, può essere tradotta affermando
che debba essere ritenuta responsabile quella Amministrazione che abbia
violato
gli
obblighi
che
derivano
dal
contatto
instauratosi
tra
Amministrazione stessa e privato nel corso del procedimento.
In pratica responsabilità da contatto e obblighi derivanti dal principio
del giusto procedimento altro non sono che due facce della stessa
medaglia, posto che entrambe servono a configurare una responsabilità
della pubblica Amministrazione per il proprio comportamento in violazione
delle norme procedimentali, e la tesi della responsabilità da contatto è volta
proprio al fine di “far sorgere, quasi in via automatica, una pretesa
risarcitoria in capo al privato per la mera violazione di regole procedimentali,
prescindendo dalla sorte del provvedimento conclusivo del procedimento e
quindi dalla spettanza dell'utilità, che il privato tende a conservare o a
conseguire”58.
L’unico inconveniente di una impostazione siffatta, ovvero di una
quasi automatica configurazione della responsabilità della p.A. per la
lesione delle norme procedimentali (che, invece, per il resto si ritiene
sostanzialmente corretta), è che così agendo si rischierebbe “di aprire la
strada alla tutela risarcitoria, prescindendo non solo dall'elemento della
colpa, ma dallo stesso danno con un automatismo che finisce per dare
maggiore importanza alle pretese partecipative, piuttosto che agli interessi
58
R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno dalle fattispecie di responsabilità della
pubblica Amministrazione alla natura della responsabilità per i danni arrecati
nell’esercizio dell’attività amministrativa, in Dir. proc. amm., 2003, pg. 702; il quale a
sua volta richiama E. CASETTA – F. FRACCHIA, Responsabilità da contatto: profili
problematici, in Foro it., 2002, III, pg. 18 e ss., i quali si chiedevano come la
violazione di norme procedimentali potesse automaticamente fare sorgere una
pretesa risarcitoria in capo al privato, lasciando così in ombra la sorte del
provvedimento conclusivo del procedimento.
70
sostanziali”59, anche se, come verrà spiegato meglio in seguito, la
riconoscibilità in astratto della risarcibilità di un danno cagionato al privato e
non collegato alla valutazione della spettanza del bene della vita è cosa ben
diversa dal riconoscimento automatico di tale danno. La decisione
dell’Adunanza Plenaria sembra proprio volta ad evitare questo in un certo
senso eccessivo dilagare della tutela risarcitoria, il che non è un
atteggiamento sbagliato, ma quelle che sono errate sono le modalità
utilizzate dal Consiglio di Stato per arginare il proliferare di danni risarcibili:
ciò che andrebbe negato, infatti, non è la possibilità in astratto che il privato
subisca un danno, non collegato al c.d. bene della vita, ma che tale danno
possa essere riconosciuto in via automatica, o quasi, senza una rigorosa
valutazione del danno stesso e del suo rapporto di causalità con la regola
procedimentale violata60.
59
R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg. 702, il quale a sua volta
ricorda come tale rischio sia stato evidenziato in precedenza da M. OCCHIENA,
Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano, 2002, pg.
415 e ss. Parimenti preoccupazioni relativamente ad una automatizzazione del
riconoscimento del risarcimento del danno sono espresse da O. FORLENZA, Il
coinvolgimento di interessi legittimi esclude la competenza dei giudici ordinari, op.
cit., pg. 90, il quale ritiene che non sia “configurabile nel nostro ordinamento” una
figura di danno risarcibile per lesione di interesse procedimentale sia “per le ragioni
espresse dall’Adunanza plenaria, che richiama l’inattuato articolo 17 della legge
59/1997”, sia perché creando una figura siffatta di danno risarcibile “in mancanza di
espressa previsione legislativa, si consentirebbe il risarcimento del danno per un
inadempimento meramente formale, in assenza di qualunque verifica della
sussistenza della fondatezza della posizione sostanziale lesa. Verrebbe in tal modo
meno non solo la centralità dell’individuazione della posizione sostanziale, ai fini
della ricostruzione dell’articolo 2043 del c.c., già superata dalla Cassazione con la
nota sentenza 500/1999, ma anche lo stesso criterio di collegamento con la
posizione sostanziale, che quella sentenza riteneva pure necessario. In altre parole,
se si prescinde dalla sussistenza (o meno) dell’interesse legittimo pretensivo, si
finisce o per porre a carico dell’amministrazione un indennizzo che ha sapore di
sanzione pecuniaria per violazione di norma di condotta in sé considerata (non a
caso l’articolo 17 della legge 59/1997 risolveva il problema della quantificazione
demandando al legislatore l’indicazione di una cifra forfettizzata), ovvero si
costruisce una inedita figura di interesse legittimo, elevando a figura sostanziale
autonoma l’interesse procedimentale”.
60
Circa i rischi di un generalizzato riconoscimento della tutela risarcitoria, fondato
sulla mera violazione delle regole procedimentali cfr. R. CHIEPPA, Viaggio di andata
e ritorno …, op. cit., pg. 703 e ss., il quale sottolinea come in tale modo si
“incapperebbe nell'impasse costituita dalla difficoltà di quantificare il danno
conseguente alla violazione delle norme procedimentali, con il rischio che il ricorso
71
Nelle ipotesi descritte in precedenza il privato ha subito un danno per
il ritardo procedimentale anche se il provvedimento finale ha avuto un
contenuto (legittimamente) sfavorevole per l’istante e, pertanto, il suddetto
danno deve essere considerato risarcibile, ma il risarcimento non potrà
essere automatico: semplicemente il danno dovrà essere provato sia nella
sua esistenza, sia nel rapporto di causalità con il ritardo.
Si può, pertanto, affermare che la questione del danno da
ritardo avrebbe potuto essere risolta in modo differente, in quanto
premesso che la regola debba necessariamente essere che se il
danno da violazione dell’interesse procedimentale viene
riconosciuto, esso debba essere riconosciuto in tutti i casi,
indipendentemente da quale sia il giudizio sulla spettanza del
bene o meno, ne consegue che la questione relativa alla spettanza
o meno del bene, o meglio alla astratta fondatezza o meno della
domanda, possa essere valutata esclusivamente in modo
congiunto alla valutazione del comportamento complessivo
dell’Amministrazione e del ritardo (giorni, mesi o anni di
incertezza) al mero fine di quantificare il risarcimento comunque
dovuto.
L’art. 2 della legge n. 241 del 1990 sancisce un dovere
dell’Amministrazione ed è stato posto a tutela della posizione del
privato che a essa si rivolge, pertanto non può essere violato senza
che ciò determini una responsabilità dell’Amministrazione
“colpevole”: la spettanza del bene potrà essere utilizzata solo
come criterio per stabilire il “quantum” del risarcimento, ma non
è ammissibile che essa venga utilizzata come discrimine per
sancirne l’ “an”61.
a criteri equitativi possa condurre ad un tipo di tutela più vicina alla logica
dell'indennizzo che a quella del risarcimento; i benefici riguardo l'an della pretesa
risarcitoria si diluirebbero nel riconoscimento del quantum livellato verso il basso”.
61
Circa la sussistenza di un vero e proprio vincolo in capo alle pubbliche Amministrazioni
ad emanare il provvedimento nei termini previsti dalla legge cfr. l’analisi di B. CAVALLO,
Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di G.
SANTANIELLO, 1993, pg. 226 e ss., Padova, il quale sottolineava come “la legge generale ha
voluto impedire i tempi senza tempo, che caratterizzavano (e possono purtroppo ancora
caratterizzare …) l’agire procedimentale delle pubbliche amministrazioni. La sostanziale
impunità dell’amministrazione procedente, nel lasciare aperto ‘ad infinitum’ un
procedimento ritualmente iniziato, ha costituito una vergogna nazionale per il nostro
sistema, sulla quale il moderno legislatore è opportunamente intervenuto, nel fissare un
termine entro cui il procedimento deve conchiudere con l’emanazione del provvedimento
finale” e specifica poi come “sulla obbligatorietà di siffatto termine non pare possano
sussistere dubbi” per cui il termine dovrebbe considerarsi né perentorio, né ordinatorio “ma
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più tecnicamente comminatorio, dal momento che il non provvedere entro il termine rituale
può comportare per l’amministrazione inadempiente una reazione sanzionatoria”.
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