La struttura dell’illecito amministrativo lesivo dell’interesse legittimo e la distinzione tra l’illecito commissivo e quello omissivo Sommario: 1. Il rilievo della distinzione tra l’illecito commissivo e quello omissivo. – 2. La diversità delle fonti normative. – 3. Gli elementi costitutivi dell’illecito commissivo mediante l’emanazione di un provvedimento. - 4. La natura amministrativa della responsabilità. – 5. Le riforme sul silenzio dell’amministrazione e gli elementi costitutivi dell’illecito omissivo per silentium. – 6. L’illecito omissivo per la mancata conclusione del procedimento espropriativo e quello commissivo per sconfinamento. - 7. – Conclusioni. 1. Il rilievo della distinzione tra l’illecito commissivo e quello omissivo. La tutela spettante all’interesse legittimo si è notevolmente ampliata, da quando l’ordinamento ha attribuito al giudice amministrativo il potere di condannare la pubblica amministrazione al risarcimento dei danni nel caso di lesione dell’interesse legittimo, in aggiunta ai suoi tradizionali poteri di annullare l’atto autoritativo illegittimo e di dichiarare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere, nel caso di silenzio. L’opinione più diffusa è ancora quella che ammette in materia l’applicabilità dei principi del codice civile, sia per individuare la ‘natura’ della responsabilità in cui incorre l’amministrazione che lede l’interesse legittimo, sia per determinare i presupposti per ravvisare in concreto la responsabilità. E’ invece preferibile una ricostruzione che tenga conto delle peculiarità riguardanti l’esercizio della funzione pubblica. Per individuare la ‘natura’ della responsabilità e gli elementi costitutivi dell’illecito, infatti, rilevano tematiche non risolvibili sulla base del codice civile. Inoltre, va nettamente distinto l’illecito commissivo della pubblica amministrazione (riferibile ai casi in cui la lesione sia stata cagionata con un provvedimento o con un comportamento connesso a un provvedimento) da quello omissivo (riferibile al mancato o ritardato esercizio della funzione pubblica). L’illecito commissivo cagionato con un provvedimento può essere: a) lesivo di un interesse pretensivo (ad es., diniego di un atto abilitativo, approvazione di una graduatoria che non soddisfi la pretesa dell’interessato); b) lesivo di un interesse difensivo o conservativo (ad es., decreto di esproprio, ordine di demolizione, atto di ritiro di un precedente titolo abilitativo). L’illecito commissivo cagionato con un comportamento connesso ad un provvedimento si verifica, ad esempio, quando – in sede di esecuzione di una ordinanza d’occupazione d’urgenza – vi sia uno sconfinamento e sia acquisito sine titulo il possesso di un fondo formalmente non coinvolto nel procedimento. In questa ipotesi, vi è una peculiare posizione giuridica soggettiva, perché il diritto del titolare del bene è strettamente connesso ad un interesse legittimo di difesa (correlativo all’eventuale atto di acquisizione del bene, in ogni tempo, ai sensi dell’art. 43 del testo unico sull’espropriazione per pubblica utilità) e di pretesa (il titolare del bene, utilizzato dall’amministrazione, può attivarsi perché sia esercitato il potere previsto dall’art. 43). L’illecito omissivo può aver luogo: a) quando sia ravvisabile un silenzio dell’amministrazione (ovvero non sia esercitato – malgrado l’impulso di un interessato o di un organo pubblico – il potere di vigilanza o quello di repressione di un illecito, lesivo di un diritto assoluto o relativo di chi può avvantaggiarsi dell’esercizio del potere); b) quando non sia concluso un procedimento già caratterizzato dall’emanazione di atti autoritativi ablatori (ad es., quando, malgrado il vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e l’occupazione d’urgenza del suolo, non sia emanato il decreto d’esproprio). Anche in quest’ultimo caso, come nello sconfinamento, vi è una peculiare posizione giuridica soggettiva, poiché il diritto del titolare del bene è strettamente connesso ad un interesse legittimo di difesa (correlativo all’eventuale atto di acquisizione del bene) e di pretesa (il titolare del bene può attivarsi perché sia esercitato il potere previsto dall’art. 43). Di questi due casi di illecito omissivo, rispettivamente, si sono occupate le decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 e n. 4 del 20051. 2. La diversità delle fonti normative Sono diverse le fonti normative riguardanti l’illecito commesso col provvedimento autoritativo e quello commesso col mancato o ritardato esercizio della funzione pubblica, ovvero con lo sconfinamento. 2.1. Le leggi emanate dal 1992 al 1998 hanno dapprima innovato l’ordinamento della giustizia amministrativa con riferimento alla lesione arrecata col provvedimento autoritativo, ammettendo la responsabilità dell’amministrazione nel caso di illecito ‘commissivo’ commesso con l’emanazione di un provvedimento. Nel precedente quadro normativo: 1 Cons. Stato, Ad. Plen., 13 settembre 2005, n. 7; Ad. Plen., 30 agosto 2005, n. 4. 2 a) si ammettevano la giurisdizione ordinaria e l’applicabilità dell’art. 2043 del codice civile vigente solo qualora il provvedimento autoritativo, annullato dal giudice amministrativo, avesse inciso su una previa posizione legittimante di diritto; b) si escludeva che l’art. 2043 riguardasse la lesione arrecata all’interesse pretensivo, anche nel caso di annullamento del provvedimento impeditivo della venuta ad esistenza del diritto. Tale sistema si fondava sulle leggi che dal 1889 hanno attribuito all’interesse legittimo (quale posizione correlativa al provvedimento autoritativo discrezionale o vincolato) la sola tutela di annullamento, senza risultare in contrasto con l’art. 28 della Costituzione, che garantisce la pretesa al risarcimento del danno quando l’amministrazione sia responsabile della lesione di un diritto. Per la Corte Costituzionale, la regola della irrisarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo di pretesa non contrastava con i principi costituzionali, mentre «il problema di ordine generale» richiedeva «prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale, ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali»2, con la possibilità di «una unificazione per evitare una duplicità di giudizi con competenza ripartita»3. La regola pubblicistica della irrisarcibilità della lesione arrecata all’interesse pretensivo è stata dapprima incisa dalla normativa sugli appalti di rilievo comunitario. Superando in questo settore lo storico significato del concetto di responsabilità (esteso all’illegittimo esercizio della funzione, pur in assenza di un diritto), il legislatore aveva ammesso la proponibilità dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile, subordinata al previo annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice dell’interesse legittimo (art. 13 della legge n. 142 del 1992; art. 11 della legge n. 489 del 1992; art. 11 della legge n. 146 del 1994; art. 30 del decreto legislativo n. 157 del 1995). L’art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, nell’abrogare tale normativa, ha poi fondato un nuovo sistema di responsabilità per l’illegittimo esercizio del potere pubblico, attribuendo alla giurisdizione amministrativa esclusiva, nelle tre materie di cui agli articoli 33 e 34, ogni controversia riguardante «il risarcimento del danno ingiusto». L’ambito di tale riforma risulta dalla legge delega n. 59 del 1997: - l’art. 4, lettera g), ha consentito al legislatore delegato di estendere la giurisdizione amministrativa «alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative 2 3 Corte Cost., 25 marzo 1980, n. 35. Corte Cost., 8 maggio 1998, n. 165. 3 al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici»; - per la Corte Costituzionale4, il legislatore delegante aveva «affidato al Governo ... il compito ... di estendere la giurisdizione amministrativa esistente» limitatamente ai «diritti patrimoniali consequenziali, in essi compreso il risarcimento del danno» (da intendere nel significato riconducibile all’art. 30 del testo unico n. 1054 del 1924 e all’art. 7 della legge n. 1034 del 1971, e cioè quali «diritti patrimoniali consequenziali alla pronunzia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre»). L’art. 35 ha reso configurabile l’illecito dell’amministrazione, qualora in sede di giustizia amministrativa emerga l’«illegittimità dell’atto o provvedimento cui si ricorre», e cioè ha ammesso la risarcibilità del danno cagionato con l’illecito ‘commissivo’, cagionato con l’emanazione del provvedimento illegittimo. 2.2. Per le posizioni già in precedenza tutelate sul piano risarcitorio (per la preesistenza della posizione legittimante di diritto e nel settore degli appalti di rilievo comunitario), l’art. 35 ha fatto venire meno la regola processuale del duplice giudizio di cognizione presso giurisdizioni diverse (conoscendo il giudice amministrativo del provvedimento impugnato e delle lesioni da questo arrecate anche tramite la sua esecuzione). Per gli interessi pretensivi non aventi un rilievo comunitario e nelle tre materie ampiamente disciplinate dagli articoli 33 e 34, la riforma del 1998 (valutando anche le risorse disponibili della finanza pubblica) ha effettuato una scelta innovativa, sul piano processuale e su quello sostanziale: - sul piano processuale, ha devoluto al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda risarcitoria (in applicazione dell’art. 103, primo comma, Cost.); - sul piano sostanziale, completando il sistema di tutela risalente alla legge del 1889, ha ammesso che il giudice amministrativo possa sindacare il provvedimento - impeditivo della nascita del diritto - anche in relazione alla domanda risarcitoria. 2.3. Nel novellare l’art. 35, la legge n. 205 del 2000 ha esteso il potere del giudice amministrativo di disporre «l’eventuale risarcimento del danno», «nell’ambito della sua giurisdizione» ed ha generalizzato la regola per cui l’interesse legittimo è tutelato in sede giurisdizionale anche con lo «strumento di tutela ulteriore» del risarcimento5. L’ordinamento consente al giudice amministrativo di verificare: - se l’accoglimento della domanda principale di annullamento dell’atto impugnato comporti una tutela pienamente soddisfacente; 4 Corte Cost., 17 luglio 2000, n. 292, in Foro it., 2000, I, 2393; Corte Cost., 28 luglio 2004, n. 281, Foro it., 2004, I, 2593. 5 Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Urbanistica e appalti, 2004, 1031 4 - se sia il caso di disporre, anche in alternativa, la condanna ad un risarcimento, qualora il ricorrente non consegua dall’annullamento – e dalle connesse statuizioni coercibili col giudizio di ottemperanza una piena tutela (in ragione della irreversibile esecuzione dell’atto), ovvero una effettiva utilità (per un ostacolo derivante dal diritto pubblico, quale l’impossibilità giuridica di emanare un ulteriore provvedimento, emendato dal vizio già riscontrato, o la consolidazione della posizione di un terzo). 3. Gli elementi costitutivi dell’illecito commissivo mediante l’emanazione di un provvedimento Per determinare gli elementi costitutivi tipici dell’illecito commissivo, va individuata la struttura dell’illecito amministrativo, cagionato con l’emanazione di un illegittimo atto autoritativo. La responsabilità è configurabile in presenza: a) del fatto (cioè dell’elemento oggettivo); b) della antigiuridicità; c) della colpevolezza dell’apparato amministrativo. A) L’elemento oggettivo sussiste quando è emanato un illegittimo atto autoritativo e da questo consegua, sul piano causale, la verificazione del danno (sicché rileva l’esame della incidenza della condotta del partecipante al procedimento che abbia indotto o concorso all’emanazione dell’atto illegittimo, anche con un suo illecito, o se ne sia avvantaggiato). B) L’elemento della antigiuridicità sussiste quando, in applicazione delle regole della giustizia amministrativa, il danno risulta ingiusto e cioè quando l’atto autoritativo illegittimo risulta: - non iure (in contrasto con le regole dell’ordinamento); - contra ius (lesivo di una posizione sostanziale, il che non avviene quando il ricorrente abbia la mera legittimazione all’impugnativa). Affinché risulti che il provvedimento sia stato emesso non iure, occorre che il soggetto leso abbia impugnato l’atto nel prescritto termine di decadenza (cd regola della pregiudizialità)6. Infatti, la mancata tempestiva impugnazione – salva la concessione del beneficio dell’errore scusabile da parte del giudice amministrativo - rende inoppugnabile il provvedimento: per il principio di non contraddizione (rilevante in sede processuale), il danno patrimoniale non è risarcibile, perché si fonda su un titolo giuridico divenuto insindacabile in ogni sede giurisdizionale. Ciò comporta che l’amministrazione può esercitare il suo potere di autotutela e rimuovere il provvedimento illegittimo divenuto 6 Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4, in Foro it., 2003, III, 433; Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338; Ad. Plen., ord. 30 marzo 2000, n. 1, in Cons. Stato, 2000, I, 767. 5 inoppugnabile, senza timore di essere esposta alla pretesa risarcitoria di chi – pur non avendo impugnato l’atto - non si accontenti della sua avvenuta rimozione. C) L’elemento della colpevolezza dell’apparato amministrativo – eccedente la mera illegittimità dell’atto e rilevante quando l’atto sia risultato illegittimo in base alle regole della giustizia amministrativa – sussiste quando il giudice rilevi la rimproverabilità dell’amministrazione, in base agli elementi di fatto e di diritto sottoposti alla sua cognizione7. In applicazione di un principio generale dell’ordinamento (rilevante in tema di responsabilità professionale, anche di quella del funzionario pubblico), il giudice amministrativo può così valutare gli elementi intrinseci o estrinseci all’atto e al procedimento, inerenti: - alla chiarezza della normativa; - allo stato della giurisprudenza; - alla complessità delle questioni coinvolte; - alla condotta degli interessati nel corso del procedimento (specie quando abbiano contribuito all’emanazione dell’atto illegittimo); - all’organizzazione nel suo complesso e alla sua obiettiva capacità di esercitare le proprie competenze col personale e con i mezzi in dotazione, specie quando si tratti di ‘procedimenti di serie’ da definire tutti nello stesso periodo; - in ipotesi, al carattere pretestuoso della motivazione o alla prevalente rimproverabilità di chi abbia commesso l’illecito posto a base dell’atto. 4. La natura amministrativa della responsabilità Quanto alla natura della responsabilità derivante dall’illegittima emanazione del provvedimento autoritativo, non va trasposta la summa divisio (storicamente affermatasi nel diritto privato) tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale. Per ragioni ontologiche, storiche, normative e istituzionali, l’esercizio del potere autoritativo: - non è assimilabile alla condotta delle parti di un rapporto contrattuale, caratterizzato da diritti, obblighi o altre posizioni tutelate dal diritto privato (la cui tutela è prevista dagli articoli 1218 e ss. del codice civile); - non è assimilabile alla condotta di chi – con un comportamento materiale (attivo od omissivo) o negoziale – cagioni un danno ingiusto a cose, a persone, a diritti, posizioni di fatto o altre posizioni tutelate ai fini risarcitori erga omnes dal diritto privato (e la cui tutela è prevista dagli articoli 2043 e ss. del codice civile). 7 Cons. Stato, Sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2949; Sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047. 6 I commi 1 e 4 del novellato art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 non hanno richiamato alcuna disposizione del codice civile (poiché l’illecito cagionato con illegittimi atti autoritativi non è riconducibile alle fattispecie disciplinate dai codici del 1865 e del 1942) e neppure hanno richiamato le fondamentali nozioni (diligenza, dolo, colpa, ecc.) su cui si basano i sistemi della responsabilità civile (contrattuale o extracontrattuale). Essi hanno attribuito al giudice amministrativo il potere di determinare in concreto se e quali conseguenze dannose siano risarcibili quando vi è l’illegittimo esercizio del potere autoritativo, verificando anche se un principio affermatosi nel diritto privato risulti compatibile con quello da applicare nel diritto pubblico (in ragione delle regole organizzative, sostanziali e procedimentali che l’amministrazione è tenuta a rispettare, nonché delle regole che caratterizzano il processo amministrativo). La natura della responsabilità – definibile ‘amministrativa’ sul piano convenzionale, in ragione della normativa applicabile e del giudice che ne verifica il rispetto - comporta che (come avviene per verificare la legittimità del provvedimento e il rispetto delle regole processuali sulla impugnazione, e cioè per i primi due elementi dell’illecito) il giudice amministrativo - per l’accertamento dell’ulteriore elemento della rimproverabilità dell’apparato amministrativo - applica i consueti principi riguardanti l’istruttoria nel processo, e non le regole del codice civile. In altri termini, il giudice amministrativo esamina la sussistenza della colpevolezza senza formalismi (e senza gravare alcuno dell’onere della relativa prova), tenendo conto delle deduzioni delle parti e di quanto può emergere dall’esercizio dei suoi poteri istruttori (in conformità ai principi enunciati dalla Corte di giustizia C.E.8). 5. Le riforme sul silenzio dell’amministrazione e gli elementi costitutivi dell’illecito omissivo per silentium Si può ora verificare se, e in quali limiti, le regole sull’illecito commissivo possano applicarsi nel caso di mancato o ritardato esercizio del potere autoritativo e, in particolare, nel caso di silenzio dell’amministrazione. Per determinare il possibile ambito dell’illecito omissivo, è necessario tenere conto della notevole evoluzione che ha avuto il sistema e, in particolare: a) delle disposizioni sostanziali sul silenzio assenso e sulla dichiarazione di inizio di attività (che hanno limitato i casi in cui è configurabile il silenzio inadempimento, eliminando radicalmente le questioni riguardanti la tutela dell’interesse pretensivo); 8 Corte di giustizia C.E., 14 ottobre 2004, n. 275-03. 7 b) delle disposizioni contenute nella legge n. 205 del 2000, che hanno ampliato i poteri del giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno nel caso di lesione arrecata all’interesse legittimo; c) delle regole processuali applicabili quando l’amministrazione serbi il silenzio sulla istanza di un interessato. 5.1. Sul piano sostanziale, il legislatore ha da tempo introdotto regole generali sul procedimento amministrativo, per predeterminarne la durata, per la migliore valutazione degli interessi pubblici e privati, per esigenze di semplificazione. Nel sistema tradizionale, le leggi amministrative attribuivano un significato tipico ai casi di superamento del termine per l’emanazione dell’atto, specie quando si trattava del mancato esercizio del potere di controllo. In un’ottica di semplificazione (e poiché il decorso del tempo ha sempre più un rilievo decisivo in sede di programmazione e di esecuzione delle attività di rilievo economico, soggette al rilascio di titoli abilitativi per ragioni di interesse pubblico), la legislazione più recente – pur rimarcando il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e tempestivo (art. 2 della legge n. 241 del 1990) – ha introdotto alcuni istituti di carattere generale, volti ad ampliare la sfera giuridica del titolare dell’interesse legittimo pretensivo. Va richiamata la normativa sulla «dichiarazione di inizio attività» e sul «silenzio assenso» (disciplinati dagli articoli 19 e 20 della legge n. 241 del 1990, significativamente incisi dall’art. 3 del decreto legge n. 35 del 2005, come convertito nella legge n. 80 del 2005). Attualmente, essa comporta che gli interessi pretensivi – tranne i casi in cui ancora occorra un espresso provvedimento e salvi i poteri di verifica e di autotutela – col decorso del prescritto termine ottengono la più piena tutela sostanziale, nel senso che può essere svolta l’attività per la quale è richiesto l’atto abilitativo o è acquisito lo status conseguente all’iscrizione negli albi o nei ruoli, richiesta per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale. Il legislatore ha pertanto notevolmente ridotto i casi in cui il richiedente abbia l’onere di attivarsi contro il mancato riscontro della sua istanza entro il termine prescritto, valutando ad un tempo: - i poteri dell’amministrazione; - le esigenze del richiedente; - l’esigenza di dare una pronta ed effettiva tutela giurisdizionale a chi – quale titolare di una posizione legittimante –impugni il titolo espresso o formatosi col decorso del tempo (con una tutela anche cautelare, che sospenda gli effetti del titolo e renda doverosa l’attività repressiva dell’amministrazione). 8 5.2. Per i casi ancora configurabili di silenzio inadempimento, vi sono state notevoli riforme sul piano della giurisdizione e sulle specifiche regole processuali. L’art. 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 (sostitutivo dell’art. 7, primo periodo del comma 3, della legge n. 1034 del 1971) ha disposto che «il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno ». Sotto un duplice profilo, rispetto all’art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998, tale disposizione ha esteso la giurisdizione amministrativa sulle domande di risarcimento per la lesione arrecata all’interesse legittimo: - i relativi poteri cognitivi sussistono per la lesione arrecata all’interesse legittimo in quanto tale, e non più soltanto nelle controversie riconducibili a una delle tre materie indicate dagli articoli 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998; - le «questioni relative all’eventuale risarcimento del danni» sono senz’altro conoscibili dal giudice amministrativo anche quando non sia stato impugnato un provvedimento (non rilevando più il rapporto logico-concettuale con i «diritti patrimoniali consequenziali», introdotto dall’art. 4 della legge n. 59 del 1997 per la determinazione della delega legislativa). In altri termini, la legge n. 205 del 2000 – nell’ammettere la giurisdizione amministrativa per ogni domanda volta ad ottenere la tutela nel caso di lesione di un interesse legittimo – consente al giudice amministrativo di verificare quali rimedi, oltre quelli processuali, siano previsti dal sistema nel caso di silenzio dell’amministrazione. Tale riforma si inquadra nel richiamato contesto di innovazioni, volte a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, in un’ottica di valorizzazione della posizione del titolare dell’interesse pretensivo. 5.3. Sul piano delle regole processuali, l’evoluzione dell’ordinamento ha condotto ad una tutela più rapida ed effettiva avverso il silenzio, quando assuma il carattere di inadempimento dell’obbligo di provvedere. Il Consiglio di Stato e poi il legislatore hanno individuato le modalità di accesso alla giurisdizione amministrativa e l’ambito dei poteri esercitabili dal giudice. Quanto alle modalità di accesso alla giurisdizione, il Consiglio di Stato – tenendo conto delle finalità di giustizia segnalate dalla dottrina più avveduta – aveva enunciato i primi principi sulla tutela con le risalenti e fondamentali decisioni della Sezione Quarta9. Poiché la legge del 1889 istitutiva della Sezione Quarta dava tutela ai soli interessi legittimi ‘difensivi’ (cioè a chi avesse subìto una 9 Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 1894, n. 78; Sez. IV, 22 agosto 1902, n. 429. 9 lesione nella sua sfera giuridica dal provvedimento autoritativo, per di più solo se ‘definitivo’), il Consiglio di Stato Consiglio ab antiquo ha determinato le regole evincibili dall’evoluzione del sistema, basate su presunzioni volte a rendere sindacabile il silenzio dell’amministrazione. Va al riguardo richiamata la giurisprudenza che: a) per decenni richiese che l’istanza, dopo la prolungata inerzia dell’amministrazione, fosse seguita da una diffida a provvedere entro un ‘termine congruo’, decorso il quale era ammesso il ricorso avverso il ‘silenzio rifiuto’; b) dopo la decisione n. 23 del 1965 dell’Adunanza Plenaria, si era consolidata nel senso che i termini volti a rendere impugnabile il ‘silenzio rifiuto’ fossero quelli evincibili per analogia dall’art. 5 del t.u. n. 383 del 1934 sulla mancata decisione del ricorso gerarchico; c) dopo la decisione n. 10 del 1978 dell’Adunanza Plenaria, ha affermato che i termini volti a rendere impugnabile il ‘silenzio inadempimento’ – quale comportamento perdurante nel tempo fossero quelli evincibili per analogia dall’art. 25 del testo unico approvato col decreto legislativo n. 3 del 1957. Il sistema di origine giurisprudenziale è stato superato: - con l’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 (modificata dalla legge n. 205 del 2000), che ha disciplinato un giudizio volto a imporre rapidamente all’amministrazione la conclusione del procedimento; - con l’art. 3 della legge n. 15 del 2005 e l’art. 3 del decreto legge n. 35 del 2005 (come convertito nella legge n. 80 del 2005), che hanno semplificato i presupposti di formazione del silenzio inadempimento, ammettendo che il ricorso giurisdizionale – «decorsi i termini» di conclusione del procedimento - possa essere proposto «anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini», «salva la riproponibilità dell’istanza». L’ordinamento si è evoluto nel senso che il richiedente può immediatamente reagire contro il silenzio inadempimento e proporre il ricorso, non appena sia scaduto il termine di conclusione del procedimento, fissato in novanta giorni dalla legge n. 80 del 2005, ove non sia disposto altrimenti. In tal modo, si è notevolmente inciso sul tradizionale sistema di tutela dell’interesse pretensivo. Con riferimento al quadro normativo allora vigente, l’Adunanza Plenaria10 aveva chiarito come il richiamato art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 andasse interpretato nel senso che il giudice adito col «ricorso avverso il silenzio» doveva limitarsi all’accertamento della illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione. L’Adunanza Plenaria era giunta a tali conclusioni: 10 Cons. Stato, Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1. 10 - per le peculiarità processuali del giudizio disciplinato dall’art. 21 bis («caratterizzato dalla brevità di termini e dalla snellezza delle formalità»); - per il «principio generale che assegna la cura dell’interesse pubblico all’amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in cui l’amministrazione è titolare di potestà pubbliche, il solo controllo sulla legittimità dell’esercizio della potestà». Tali conclusioni sembrano meritevoli di essere parzialmente riconsiderate, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3 del decreto legge n. 35 del 2005 (convertito nella legge n. 80 del 2005), che – nel rimodificare l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 - ha disposto che, nel giudizio avverso il silenzio, «il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza». Nel caso di mancata definizione del procedimento caratterizzato da un potere vincolato, il giudice amministrativo può non limitarsi a ordinare all’amministrazione di provvedere sull’istanza e – su sollecitazione di parte e nel rispetto del principio del contraddittorio – può altresì verificare se essa risulti fondata, ordinando all’amministrazione di provvedere di conseguenza. Anche se non ha attribuito la giurisdizione di merito (che invece avrebbe consentito statuizioni corrispondenti all’atto abilitativo di competenza dell’amministrazione), il novellato art. 2 della legge n. 241 del 1990 ha attribuito al giudizio sul silenzio inadempimento un ambito di cognizione eccedente la sua mera sussistenza. Va però con precisione determinato il significato di ‘potere vincolato’, anche perché – sulla base di alcuni fraintendimenti – addirittura talvolta si sostiene che siano coinvolte posizioni di diritto soggettivo. Va premesso che nel corso del procedimento l’amministrazione valuta una pluralità di elementi, riferibili a questioni di carattere giuridico e tecnico, nonché a circostanze di fatto rilevanti per l’emanazione del provvedimento finale. L’atto è autoritativo perché – per legge – esprime un potere ed incide unilateralmente sulla sfera del destinatario: sul carattere autoritativo dell’atto non influisce il più o meno ampio ambito delle valutazioni consentite. Ad esempio, un atto di esclusione da un concorso, da una gara o da una competizione elettorale si può basare su valutazioni vincolate (la tardità della domanda, l’insussistenza di un requisito oggettivo quale l’altezza minima del candidato, la mancata produzione di un documento), ma anche su valutazioni tecniche (in tema di concorsi, sui requisiti psico-fisici o, in tema di appalti, sull’anomalia di una offerta o sull’insussistenza di un requisito tecnico, professionale o di onorabilità, richiesto dalla normativa di settore). Anche un diniego di autorizzazione paesistica si può basare su valutazioni vincolate (un piano paesistico che preclude il rilascio o 11 l’assenza di una posizione legittimante), su valutazioni tecniche (il contrasto architettonico tra il progettato edificio e quelli circostanti) o anche su valutazioni discrezionali (l’esigenza che un’area rimanga immutata per il suo pregio ambientale). In altri termini, caso per caso va esaminato quale sia l’aspetto rilevante e sottoposto all’esame del giudice, senza teorizzazioni, tanto meno utilizzabili ai fini del riparto delle giurisdizioni: - ogni provvedimento – espressione di un potere e che incida unilateralmente sulla sfera giuridica del destinatario – è correlativo a posizioni di interesse legittimo, a maggior ragione quando si tratti di un interesse pretensivo e non sia configurabile un preesistente diritto legittimante; - qualsiasi aspetto patologico della valutazione comporta un eccesso di potere (ad es., per travisamento dei fatti ed erroneità dei presupposti, quando sia stato effettuato un errore di calcolo per determinare il punteggio di un candidato in graduatoria o sia stata erroneamente determinata l’altezza del candidato del concorso). Ciò posto, è ravvisabile un potere vincolato solo quando si tratti di un caso in cui ‘una è la soluzione conforme all’ordinamento’. Nei casi di diniego o di esclusione da un procedimento, l’atto è vincolato quando constata una ragione preclusiva, oggettiva e di cui l’amministrazione può solo prendere atto (il relativo potere di accertamento è esercitabile legittimamente in un solo modo e, se la valutazione tecnica è errata, il giudice vi pone rimedio). E’ anche configurabile un potere vincolato quando, al contrario, sussistano tutti i presupposti per l’accoglimento di una istanza (perché tutte le valutazioni sono state formulate in atti precedenti, ad esempio di programmazione) e ciò malgrado l’amministrazione - tenuta ad accertare esclusivamente la sussistenza di elementi oggettivi non valutabili (‘se le carte sono a posto’) - respinga la domanda (commettendo un eccesso di potere per travisamento dei fatti o per erroneità dei presupposti) oppure rimanga inerte. In tal caso, in sede di esame del ricorso avverso il diniego o il silenzio, il giudice (senza invadere i poteri riservati all’amministrazione) può accertare quale sia tale soluzione e se ‘spetti il bene della vita’. Poiché il più contiene il meno, il giudice – in sede di ricorso contro il diniego o avverso il silenzio - può anche accogliere un motivo che prospetti, salve le altre questioni, come non sussista una specifica ragione ostativa, anche informalmente rilevata dall’amministrazione o evidenziata dallo stesso ricorrente per restringere l’ambito del potere esercitabile dall’amministrazione (o dal commissario ad acta). Invece, quando si tratti del mancato esercizio di un potere discrezionale (caratterizzato dalla insostituibilità dell’esercizio del potere amministrativo sulla ‘scelta tra più possibili valutazioni conformi all’ordinamento’, anche di natura tecnica, e salvi i casi di 12 giurisdizione di merito), in sede giurisdizionale non si può assolutamente accertare se l’istanza sia ‘accoglibile’ o ‘fondata’. Infatti, nel caso di ricorso proposto avverso il mancato rilascio di un titolo abilitativo espressione di poteri valutativi (ad es., di una autorizzazione relativa a un bene sottoposto a vincolo archeologico, idrogeologico o paesistico, ovvero di un atto basato su discrezionalità tecnica, anche inerente alla sussistenza di requisiti soggettivi o psicoattitudinali), il giudice amministrativo non può verificare se l’istanza è ‘fondata’, ma unicamente constatare che l’amministrazione ha violato l’obbligo di provvedere (così come – nel caso di annullamento del diniego illegittimo – può solo annullarlo, con salvezza degli atti ulteriori). 5.4. Vi è dunque un deciso orientamento legislativo, volto a dare la più intensa tutela sostanziale e processuale al titolare dell’interesse pretensivo: a) sono aumentati i casi in cui il superamento del termine di conclusione del procedimento consente lo svolgimento di attività, l’acquisizione di status o la formazione di un titolo abilitativo equivalente all’atto espresso di accoglimento dell’istanza; b) quando l’inerzia dell’amministrazione non ha un significato legislativamente tipico, all’interessato spetta la più rapida tutela giurisdizionale avverso il silenzio inadempimento e con un rito accelerato, immediatamente dopo la scadenza del prescritto termine; c) ove si tratti di un’istanza che l’amministrazione non potrebbe legittimamente respingere, il giudice amministrativo può ordinarle di provvedere di conseguenza. Tale quadro normativo senz’altro rileva per determinare i casi in cui il silenzio inadempimento dia luogo ad un illecito omissivo dell’amministrazione, per il solo mancato o ritardato esercizio della funzione pubblica. 5.5. In linea di principio, non vi sono radicali ragioni ostative ad una normativa che ravvisi la responsabilità dell’amministrazione, per il mero ritardo della conclusione del procedimento amministrativo. Ove lo ritenga opportuno per innalzare lo standard della funzionalità dell’azione amministrativa (e sulla base di una unitaria valutazione del principio del buon andamento, delle strutture disponibili e delle disponibilità di bilancio), il legislatore ben potrebbe rendere tipico l’illecito derivante dal mero ritardo dell’esercizio della funzione pubblica. Con la presentazione di una istanza (salvi i casi di pretese totalmente inattendibili), infatti, il richiedente ha titolo ad una risposta entro il termine fissato dall’ordinamento di settore e si aspetta che l’amministrazione rispetti il «dovere di osservare le leggi», sancito per «tutti i cittadini» e, in particolare, per coloro «cui sono affidate funzioni pubbliche» (art. 54 della Costituzione). 13 Come ha osservato l’Adunanza Plenaria11, è però altamente significativo che la legge n. 59 del 1997 ha già considerato diverse le conseguenze riconducibili all’emanazione dell’illegittimo atto autoritativo, rispetto a quelle del mancato esercizio del potere pubblico: - l’art. 11, alla lettera g) del comma 4, ha attribuito la delega al Governo riguardante la «estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici», poi attuata con gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (novellati con la legge n. 205 del 2000); - l’art. 17, alla lettera f) del comma 1, ha attribuito una distinta delega al Governo (rimasta attuata), per la «previsione, per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata adozione del provvedimento, ... di forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento; ... la massima celerità nella corresponsione dell'indennizzo stesso». Il legislatore ha subordinato ad una specifica ed ulteriore riforma la corresponsione di un ‘indennizzo’ a chi formuli una istanza senza ricevere una risposta entro il termine prescritto dall’ordinamento. Pertanto, nell’attuale quadro normativo (così come in quello antecedente alle riforme del 2005), tra i tipi di illecito dell’amministrazione non può essere annoverato quello caratterizzato dal mero decorso del termine di conclusione del procedimento, anche se ora la legge consente la immediata proposizione del ricorso al giudice amministrativo, affinché sia ordinata l’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento. Del resto, salvi i casi di silenzio significativo e quelli in cui il termine è perentorio perché posto a presidio dell’interesse legittimo difensivo, il decorso del termine non incide sui poteri istituzionali dell’amministrazione di provvedere sull’istanza: il suo obbligo si perpetua e il tardivo esercizio della funzione pubblica non comporta di per sé l’illegittimità del provvedimento finale (che – salva la sua impugnabilità - determina l’assetto complessivo degli interessi). In un’ottica – non infrequente - di collaborazione tra il richiedente e l’amministrazione, può anche accadere che il termine sia superato non per anomalie dell’azione amministrativa, ma o per obiettive esigenze o perché lo stesso richiedente - consapevole della complessità del caso – anche informalmente svolge opera di persuasione sulla accoglibilità della istanza, tale da indurre l’amministrazione ad una maggiore ponderazione. 11 Cons. Stato, 13 settembre 2005, n. 7. 14 Pertanto, anche ora il mero ritardo della conclusione del procedimento dà luogo alla tutela prevista dall’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 e non anche ad un illecito dell’amministrazione. Se invece l’istanza sia accolta o respinta dopo la scadenza del termine finale del procedimento, in assenza di statuizioni rese ai sensi del medesimo art. 21 bis, si applicano i principi sulla tutela dell’interesse legittimo leso dal provvedimento autoritativo, e cioè quelli sull’illecito commissivo: qualora l’atto sia ritualmente impugnato e risulti illegittimo (non rilevando di per sé la tardività del riscontro dell’istanza), valuterà il giudice se – oltre alla doverosa emanazione dell’atto ulteriore, ai sensi dell’art. 26 della legge n. 1034 del 1971 – l’amministrazione debba risarcire il danno, ove sussistano tutti gli elementi dell’illecito. 5.8. Tenuto conto delle complessive riforme avutesi in tema di silenzio inadempimento, l’inerzia dell’amministrazione può dare luogo all’illecito omissivo per la lesione all’interesse legittimo pretensivo solo qualora si verifichino ulteriori e qualificati presupposti, che rendano sussistenti i tre elementi costitutivi tipici dell’illecito amministrativo (di cui ognuno ha una particolare connotazione). La relativa indagine rientra nell’ambito della piena giurisdizione del giudice amministrativo, poiché «si tratta si tratta di interessi legittimi pretensivi del privato che ricadono, per loro intrinseca natura, nella giurisdizione del giudice amministrativo» e per i quali rileva anche la giurisdizione esclusiva, ove si tratti della materia urbanisticoedilizia12. A) L’elemento oggettivo può risultare ove, dopo la scadenza del termine, il richiedente – eliminando ogni proprio contributo causale al silenzio dell’amministrazione - non rimanga anch’egli inerte e cioè le prospetti le circostanze che rendano verosimile come l’ulteriore ritardo cagioni un suo pregiudizio economico. In altri termini, finché non spira il termine di novanta giorni dall’istanza (ovvero quello dell’ordinamento di settore), non è concepibile un ritardo, mentre per il periodo successivo vi è anche l’inerzia del richiedente. La prospettazione del pregiudizio economico può senz’altro avere luogo con lo stesso ricorso immediatamente consentito dall’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 e dal novellato art. 2 della legge n. 241 del 1990. In alternativa, la prospettazione può avere luogo con la notifica di una diffida. In questo caso, il giudice – con la sentenza che rileva l’antigiuridicità – può attribuire rilievo alla diffida per ravvisare l’elemento della rimproverabilità, perché l’Autorità competente acquista la personale consapevolezza della pendenza del procedimento, 12 Ad. Plen., 13 settembre 2005, n. 7, cit. 15 senza addurre questioni sull’iter di definizione della pratica successivo al protocollo, ed è responsabilizzata, anche in relazione al conseguente giudizio innanzi alla Corte dei Conti. B) L’elemento della antigiuridicità è configurabile qualora il giudice amministrativo abbia accolto il ricorso ex art. 21 bis, ordinando la conclusione del procedimento (se del caso, nel rispetto dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990). Sotto tale aspetto, può anche parlarsi di pregiudizialità, ma nel senso che la condanna al risarcimento del danno per l’illecito omissivo presuppone: - il silenzio inadempimento, seguito dal ‘tipico’ ricorso dell’interessato ai sensi dell’art. 21 bis; - la mancata esecuzione della sentenza che ordini all’amministrazione di provvedere. In altri termini, nel vigente quadro normativo, l’illecito omissivo è obiettivamente qualificato dal particolare disvalore della condotta dell’amministrazione, che non rispetta le statuizioni del giudice. Poiché l’ordinamento attribuisce rilievo centrale alla sentenza che accerti la sua perduranza, l’antigiuridicità del silenzio si verifica con questa ‘doppia fase omissiva’ (fino a quando il legislatore non disponga altrimenti): la fattispecie può dar luogo all’illecito omissivo nel ‘grave’ caso in cui non sia data esecuzione alla sentenza resa ai sensi dell’art. 21 bis. C) L’elemento della colpevolezza dell’apparato amministrativo (la rimproverabilità) sussiste quando il giudice amministrativo abbia constatato che il silenzio sia dipeso da un comportamento inescusabile o addirittura ostruzionistico (tenendo conto di tutti gli elementi sottoposti alla sua cognizione, intrinseci o estrinseci al procedimento, nonché della eventuale notifica di una diffida, che già aveva sollecitato la definizione dell’istanza). 5.9. Un particolare esame merita l’elemento della antigiuridicità dell’illecito omissivo, in relazione ai rapporti intercorrenti tra il ricorso ex art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 e la domanda di risarcimento del danno. In assenza di una diversa valutazione del legislatore, si deve ritenere che in ogni caso la sentenza che ordini di provvedere costituisca un elemento essenziale per la configurabilità dell’illecito. Quando si tratti del mancato esercizio di un potere vincolato, il novellato art. 2 della legge n. 241 del 1990 consente indagini eccedenti la mera sussistenza dei presupposti per l’emanazione dell’ordine di provvedere, sicché la sentenza – ove perduri l’inadempimento – può valutare la fondatezza dell’istanza di rilascio dell’atto (cioè se essa in base all’ordinamento vada accolta e se spetti ‘il bene della vita’). Nel caso di reiezione delle deduzioni sulla «fondatezza dell’istanza» (cioè di accertata sussistenza di un elemento preclusivo al 16 rilascio dell’atto), il giudice può definire la controversia nel suo complesso e non soltanto ordinare l’emanazione dell’atto negativo (che non potrebbe discostarsi dal contenuto della sentenza o dare luogo alla ripetizione della lite). Nel caso di accoglimento del ricorso, può essere fatta una distinzione. A) Nel caso di accoglimento delle specifiche deduzioni dell’interessato e di accertamento in concreto della «fondatezza dell’istanza», il giudice non effettua un vero e proprio giudizio ‘prognostico’ (di per sé ipotetico), ma con pienezza di propri poteri accerta l’accoglibilità dell’istanza in base all’ordinamento di settore. In tal caso, il giudice può verificare, su domanda di parte, se con la notifica del ricorso già emergano – oltre tale fondatezza – i tre elementi costitutivi dell’illecito, ivi comprese l’antigiuridicità e la rimproverabilità. A seconda dei casi, il giudice – ove il ricorso ex art. 21 bis o la previa diffida abbiano prospettato i pregiudizi derivanti dal silenzio, la questione sia di facile soluzione e sia inescusabile il silenzio – può tenere conto della sostanziale fondatezza dell’istanza volta ad ottenere il rilascio dell’atto vincolato e può far retroagire le sue statuizioni di carattere risarcitorio al momento della notifica del ricorso, purché emergano tutti gli elementi dell’illecito. In tal caso, l’illecito si caratterizza per l’inescusabilità della mancata emanazione dell’atto già nel corso del giudizio e il giudice può liquidare equitativamente il danno, tenendo anche conto degli interessi economici sottostanti, che non risultano soddisfatti per un inadempimento senz’altro imputabile all’amministrazione, malgrado la conclamata spettanza del provvedimento. B) Quando accoglie il ricorso volto al solo ordine di emanazione del provvedimento, su domanda di parte il giudice: - può disporre anche le misure previste dall’art. 35, comma 2, del decreto legislativo n. 80 del 1998 (e cioè «può stabilire i criteri in base ai quali» l’amministrazione – ove rimanga inerte anche dopo la scadenza del termine fissato dalla sentenza - proponga a favore del ricorrente «il pagamento di una somma entro un congruo termine», in relazione ai relativi danni); - ravvisati l’elemento oggettivo, l’antigiuridicità (per la fondatezza del ricorso) e la rimproverabilità dell’amministrazione, può pertanto già disporre le misure ‘condizionate’ di carattere risarcitorio (aventi un indubbio effetto dissuasivo per un ulteriore inadempimento), determinando la somma dovuta dall’amministrazione per ogni giorno di indebito ritardo, successivo alla scadenza del termine fissato con la sentenza resa ai sensi dell’art. 21 bis. Mentre nel primo caso (in cui il giudice abbia accertato la «fondatezza dell’istanza») l’antigiuridicità rileva a far data dalla notifica del ricorso e il quantum può tenere conto degli interessi 17 economici sottostanti, nel secondo caso (in cui ancora non risulta la spettanza del rilascio dell’atto) l’antigiuridicità si verifica per il fatto che non sia eseguita la sentenza del giudice e il quantum può tenere conto, in via equitativa, della violazione in sé dell’obbligo di provvedere. Quando si tratti del mancato esercizio del potere discrezionale, la sentenza conclusiva del giudizio proposto ex art. 21 bis deve limitarsi a ordinare la conclusione del procedimento: nessuna norma ha previsto che nel corso del giudizio possano trattarsi questioni ulteriori, oltre quelle attinenti alla sussistenza dell’obbligo di provvedere. Pertanto, con riferimento a tale caso di silenzio inadempimento, rilevano ancora i principi enunciati dall’Adunanza Plenaria13. 5.10. La distinzione tra i due casi di silenzio inadempimento (riferibili al mancato esercizio di poteri vincolati o discrezionali, come previsto dal novellato art. 2 della legge n. 241 del 1990) si fonda su elementi di indubbio rilievo razionale e giuridico. Solo nel caso di mancato esercizio di poteri vincolati, infatti, il giudice amministrativo può accertare – in luogo dell’amministrazione se l’originaria istanza vada accolta, perché ‘una è la soluzione doverosa, conforme all’ordinamento’. Con specifico riferimento al mancato esercizio del potere discrezionale, invece, non si può affermare che in assenza dell’indefettibile atto abilitativo ‘spetti il bene della vita’ e neppure è concepibile – per la valutazione di una domanda risarcitoria – una indagine ‘prognostica’ su quanto, in ordine all’istanza, l’amministrazione potrebbe decidere tra ‘più possibili soluzioni conformi all’ordinamento’. Vi sarebbe un grave turbamento dell’azione amministrativa se si ammettesse che il richiedente abbia titolo ad un risarcimento, qualora la scelta finale – sia pure tardiva – risulti favorevole all’accoglimento dell’istanza: l’amministrazione deve poter compiere le sue scelte senza il timore che, nel caso di accoglimento, l’interessato pretenda un risarcimento perché esso vi è stato dopo la scadenza del termine di conclusione del procedimento. Altrimenti opinando, con decisiva compromissione del canone del buon andamento e con un concreto pregiudizio del richiedente, dopo il superamento del termine l’amministrazione sarebbe inevitabilmente orientata ad esercitare negativamente il suo potere, al precipuo scopo di non ‘aggiungere’ una tutela risarcitoria in precedenza inesistente. Quanto al giudice amministrativo, non sembra che egli possa formulare una indagine ‘prognostica’ (e tanto meno in un giudizio avente ad oggetto soltanto il silenzio inadempimento), per il divieto – 13 Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1, cit. 18 insussistente solo nei casi di giurisdizione di merito - di sostituire le proprie valutazioni a quelle discrezionali dell’amministrazione. L’inconveniente dell’esercizio in senso sfavorevole del potere discrezionale – per non incorrere in responsabilità ex post – non è radicalmente verificabile, perché non sembra configurabile un danno da ritardo risarcibile, sino a quando scade il termine fissato dal giudice ex art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971. Analoghi principi rilevano quando un’autorità di vigilanza – anche una autorità indipendente – a distanza di tempo si determini a prendere in considerazione un’istanza e svolga accertamenti istruttori o emetta atti di natura sanzionatoria verso il ‘denunziato’: - non va confusa la posizione legittimante (la titolarità di un diritto assoluto o relativo, ad esempio la qualità di creditore del soggetto sottoposto a vigilanza) con l’interesse legittimo pretensivo, che abilita ad ottenere tutela, qualora il giudice amministrativo si convinca che sia stato violato l’obbligo di provvedere (col silenzio o una archiviazione privi di giustificazione); - la sostanziale condivisione dell’istanza non rende di per sé risarcibile il danno dedotto da chi ha sollecitato ed ottenuto l’esercizio del potere di vigilanza e di repressione. 5.11. Una volta emessa la sentenza e scaduto il termine fissato dal giudice in relazione alle esigenze del caso concreto, il successivo silenzio inadempimento risulta una omissione contrastante con la pronuncia giurisdizionale e acquista il carattere di condotta antigiuridica, costitutiva dell’illecito (oltre ad assumere un eventuale rilievo di carattere penale). In sede di ottemperanza, il giudice amministrativo non solo può nominare il commissario ad acta (per la dovuta emanazione dell’atto conclusivo del procedimento, come rilevato dall’Adunanza Plenaria14), ma può esaminare la fondatezza della domanda di risarcimento del danno, derivante dalla mancata esecuzione della sentenza entro il prescritto termine. Il giudice amministrativo, senza formulare giudizi prognostici sul come potrebbe essere esercitata la discrezionalità amministrativa e senza basarsi sui soli interessi economici coinvolti, può determinare in via equitativa la somma di denaro dovuta dall’amministrazione, per ogni giorno di indebito ritardo, successivo alla scadenza del termine fissato con la sentenza resa ai sensi dell’art. 21 bis. 5.12. Resta da esaminare il caso in cui, nel corso del giudizio, venga meno il silenzio inadempimento. Se è emesso il provvedimento favorevole al ricorrente o quello sfavorevole di natura discrezionale, viene meno la materia del contendere (il giudice provvede sulle spese e sugli onorari del giudizio, ai sensi dell’art. 23, settimo comma, della legge n. 1034 del 1971, 14 Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1, cit. 19 salvo l’onere di impugnazione dell’atto sfavorevole, secondo le regole generali). Se è emesso il provvedimento sfavorevole di natura vincolata, risultano proponibili motivi aggiunti (con cui si può anche chiedere di accertare la fondatezza dell’istanza). 5.13. Le precedenti osservazioni possono così sintetizzarsi: a) nel caso di mero superamento del termine finale del procedimento, all’interessato non spetta la tutela risarcitoria; b) l’illecito omissivo dell’amministrazione è configurabile (nei casi di mancato esercizio del potere vincolato o discrezionale) quando è emessa la sentenza di accoglimento del ricorso, ai sensi dell’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971; c) quando accolga un ricorso volto ad accertare la «fondatezza dell’istanza» di rilascio di un atto vincolato, la sentenza può accogliere la domanda risarcitoria, se sussistono gli elementi dell’illecito, anche se nel corso del giudizio è emesso il provvedimento; d) negli altri casi, la sentenza che ordini di provvedere entro il termine da essa fissato può anche determinare in via equitativa la somma dovuta dall’amministrazione per ogni giorno di indebito ritardo, successivo alla scadenza; e) in ogni caso, per l’ammissibilità della domanda risarcitoria e affinché il giudice possa compiutamente adottare le proprie statuizioni in ordine all’an ed al quantum del risarcimento, è indispensabile che il richiedente con precisione determini i fatti accaduti e le voci di danno che stia subendo dall’inerzia dell’amministrazione, nel rispetto del principio del contraddittorio. 6. L’illecito omissivo per la mancata conclusione del procedimento espropriativo e quello commissivo per sconfinamento Senz’altro diverso – dall’illecito omissivo per silentium - è quello che caratterizza la mancata conclusione del procedimento espropriativo. In tal caso, vi è una fattispecie complessa, caratterizzata dall’emanazione di atti autoritativi e dalla mancata conclusione del procedimento ablatorio, riguardante una posizione legittimante di diritto soggettivo. Poiché vi sono implicazioni inerenti al riparto della giurisdizione, sono necessarie alcune precisazioni sull’ambito di applicazione degli articoli 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998. L’art. 34 aveva devoluto alla giurisdizione amministrativa esclusiva tre tipologie di controversie: a) quelle riguardanti il danno derivante dall’occupazione avvenuta in esecuzione di un provvedimento autoritativo, da considerare retroattivamente sine titulo in ragione del suo annullamento in sede giurisdizionale; 20 b) quelle riguardanti il danno derivante dall’occupazione del suolo, disposta in esecuzione di un atto autoritativo inoppugnabile, ma divenuta sine titulo per il mancato esercizio del potere espropriativo entro il prescritto termine; c) quelle riguardanti l’occupazione originariamente sine titulo, cioè lo sconfinamento su una particella ulteriore rispetto a quelle oggetto degli atti del procedimento. 6.1. Quanto alla prima ipotesi, il legislatore delegato (facendo venire meno la regola tradizionale del duplice giudizio di cognizione presso giurisdizioni diverse) ha concentrato innanzi al giudice amministrativo la lite nel suo complesso, sia per il ricorso di impugnazione che per la domanda risarcitoria (proponibile già unitamente al ricorso di impugnazione o con un distinto ricorso). Si è infatti in presenza di un illecito amministrativo commissivo, caratterizzato dall’illegittimo esercizio del potere espropriativo e dalla lesione di un interesse legittimo (posto a tutela della posizione legittimante di diritto) e dall’avvenuta esecuzione dell’ordinanza di occupazione d’urgenza. Anche in tal caso (come nei casi indicati nel § 3), la responsabilità amministrativa per l’emanazione dell’illegittimo atto espropriativo è configurabile in presenza: a) del fatto (cioè dell’elemento oggettivo); b) della antigiuridicità; c) della colpevolezza dell’apparato amministrativo. L’elemento oggettivo sussiste quando è emanato un illegittimo atto autoritativo e da questo consegua, sul piano causale, la verificazione del danno (il che avviene quando vi è la sua materiale esecuzione). L’elemento della antigiuridicità sussiste quando, in applicazione delle regole della giustizia amministrativa, il danno risulta ingiusto e cioè quando l’atto autoritativo illegittimo risulta: - non iure (in contrasto con le regole dell’ordinamento); - contra ius (lesivo della posizione legittimante del diritto di proprietà o di un altro diritto). Affinché risulti che il provvedimento sia stato emesso non iure, occorre che il soggetto leso abbia impugnato l’atto nel prescritto termine di decadenza (cd. regola della pregiudizialità). Sotto tale aspetto, non rileva la maggiore o minore gravità del vizio riferibile all’atto ablatorio15, poiché per l’ordinamento anche il più grave vizio di violazione di legge o di una regola procedimentale mantiene il carattere autoritativo dell’atto e comporta l’onere della sua tempestiva impugnazione (mentre la nullità è ravvisabile solo nei casi di «difetto assoluto di attribuzione», per l’art. 21 septies, comma 1, della legge n. 241 del 2000, modificata dalla legge n. 15 del 2005). 15 Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4, cit.. 21 L’elemento della colpevolezza dell’apparato amministrativo – rilevante quando l’atto sia risultato illegittimo in base alle regole della giustizia amministrativa - è ravvisabile in re ipsa, quando l’amministrazione detenga l’immobile altrui in assenza di un titolo valido (e cioè quando il giudice amministrativo lo abbia annullato), ed è ancora più marcato quando non sia eseguita la sentenza di annullamento degli atti ablatori, che consente al titolare del bene – qualora non sia riesercitato il potere ablatorio - di chiedere il risarcimento del danno o la reintegrazione in forma specifica mediante il giudizio di ottemperanza16. 6.2. Quanto alla seconda ipotesi (l’occupazione disposta iure, ma divenuta sine titulo), il legislatore delegato (facendo venire meno la regola tradizionale della sussistenza della giurisdizione civile nel caso di violazione del diritto di proprietà per la mancata conclusione del procedimento espropriativo) aveva devoluto anche queste liti alla giurisdizione esclusiva, in considerazione degli aspetti marcatamente pubblicistici della fattispecie. Infatti, in tali casi l’amministrazione: a) occupa il fondo ed esegue l’opera in esecuzione di atti autoritativi (di apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, di dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità e di urgenza, di occupazione d’urgenza, oltre che di quelli riguardanti la scelta dell’appaltatore), espressivi di poteri pubblicistici; b) non emette il decreto di esproprio entro il prescritto termine (il mancato esercizio della funzione pubblica si caratterizza anche per la mancanza di un atto di proroga del termine finale del procedimento); c) continua ad utilizzare il suolo altrui «per scopi di interesse pubblico» (e non soddisfa propri interessi patrimoniali, ma tiene conto delle esigenze della collettività, già valutate nei precedenti atti di pianificazione e del procedimento espropriativo, nonché in sede di stanziamento e di utilizzazione delle risorse economiche); d) commette un illecito che talvolta comporta un sostanziale vantaggio per il proprietario e la responsabilità del funzionario omittente, che secondo i principi ne risponde innanzi alla Corte dei Conti (poiché, quando è realizzata l’opera e il suolo non va più restituito, l’amministrazione è tenuta a corrispondere un risarcimento pari ad una somma superiore a quella che sarebbe stata spettante nel caso di fisiologica conclusione del procedimento, in ragione della complessiva normativa riguardante l’indennità di esproprio per le aree edificabili); e) ha l’obbligo di restituire il suolo e di risarcire il danno cagionato con l’occupazione senza titolo, ma può fare venire meno ab extra l’obbligo di restituzione, con l’esercizio del potere di acquisizione del bene al proprio patrimonio. 16 Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2, in Urbanistica e appalti, 2005, 809. 22 6.3. Quanto alla terza ipotesi, lo sconfinamento può verificarsi perché è eseguita una ordinanza di occupazione d’urgenza che: - non si è riferita alla particella, pur sottoposta al vincolo preordinata all’esproprio, perché il progetto ha tenuto conto di dati catastali non coincidenti con la realtà dei luoghi; - si è riferita a una particella non rientrante tra quelle prese in considerazione in sede di approvazione del progetto; - per errore materiale, non ha menzionato una delle particelle cui è stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio e che è stata presa in considerazione nel progetto Lo sconfinamento, inoltre, può verificarsi perché: - in sede di esecuzione dell’ordinanza, per errore è occupata una particella ulteriore rispetto a quelle indicate; - nel corso dei lavori, è occupato un terreno sul quale è realizzata una parte dell’opera. In tali casi, il comportamento è strettamente connesso al procedimento attivato con gli atti che appongono i vincoli preordinati all’esproprio ed è commesso in occasione della esecuzione di un formale provvedimento di occupazione d’urgenza (e dunque riconducibile all’esercizio – sia pure patologico – della funzione pubblica). 6.4. Quanto all’obbligo di restituzione, va rimarcato che: - per una plurisecolare giurisprudenza (seguita negli ultimi venti anni da orientamenti che hanno però ravvisato ampie eccezioni al principio), poteva essere emanato il decreto di esproprio in sanatoria; - in ossequio ai principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo17, l’art. 43 del testo unico n. 327 del 2001 – da me redatto proprio per superare il contrasto col diritto comunitario e per costruire un sistema coerente - ha attribuito all’amministrazione («che utilizza un bene immobile, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità») lo specifico potere di emanare un «atto di acquisizione» del bene «al suo patrimonio indisponibile». Innovando rispetto al sistema preesistente, dall’art. 43 emerge che - dopo la scadenza del prescritto termine - un tardivo decreto di esproprio in sanatoria sarebbe illegittimo (anche se idoneo a divenire inoppugnabile), perché il sistema prevede che l’illecito debba terminare – a parte la peculiare fattispecie processuale prevista dai commi 3 e 4 - o con la restituzione del suolo o con l’emanazione del tipico provvedimento da esso disciplinato, da motivare in relazione alle circostanze sopravvenute alla dichiarazione di pubblica utilità18. 17 Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96, richiamata dalle sentenze 30 ottobre 2003 e 13 dicembre 2003. 18 Cons. Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2, cit. 23 Per i casi di utilizzazione del suolo altrui per scopi di interesse pubblico, il legislatore ha dunque individuato uno specifico caso di illecito permanente: - esso non è stato compiutamente disciplinato dai codici civili del 1865 e del 1942, ma da una articolata disciplina pubblicistica, che consente all’autore dell’illecito di fare venire meno l’obbligo di restituzione nell’esercizio di una funzione pubblicistica, salvo il sindacato di legittimità del giudice amministrativo; - per il periodo di «utilizzazione senza titolo del suolo», la rimproverabilità è in re ipsa, nel senso che - in ragione della tutela da accordare al diritto di proprietà – essa sussiste per il solo fatto che l’amministrazione, pur avendo realizzato secundum ius l’opera, continua a detenere il suolo sine titulo e omette di esercitare il potere acquisitivo a titolo di sanatoria; - ‘a regime’, l’art. 43 prevede la spettanza dell’integrale risarcimento del danno, mentre per le «occupazioni senza titolo, anteriori al 30 settembre 1996», il risarcimento spetta nella misura ridotta sancita dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 (che ha aggiunto all’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 il comma 7 bis invocato dall’appellato), trasfuso nell’art. 55 del testo unico. 6.5. Va ora verificata la portata della sentenza n. 281 del 2004 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato in parte incostituzionale l’originario 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nel frattempo novellato con la legge n. 205 del 2000). Per le medesime ragioni poste a base della sentenza n. 292 del 2000 (dichiarativa della incostituzionalità parziale dell’art. 33 del decreto legislativo n. 80 del 1998), la sentenza n. 281 del 2004 ha rilevato che: - l’art. 4, lettera g), della legge delega n. 59 del 1997 aveva consentito al legislatore delegato di estendere la giurisdizione amministrativa ai «diritti patrimoniali consequenziali, in essi compreso il risarcimento del danno» (da intendere nel significato riconducibile all’art. 30 del testo unico n. 1054 del 1924 e all’art. 7 della legge n. 1034 del 1971, quali «diritti patrimoniali consequenziali alla pronunzia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre»), e dunque solo per le controversie riguardanti la risarcibilità del danno conseguente alla sentenza di annullamento dell’atto impugnato; - l’originario articolo 34 risultava conforme alla legge delega solo per le disposizioni riguardanti le controversie risarcitorie connesse alla impugnazione dei provvedimenti autoritativi (volte ad evitare «la necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario»), mentre era incostituzionale – per eccesso di delega – per la parte in cui aveva devoluto alla giurisdizione esclusiva le controversie riguardanti diritti soggettivi (con la conseguente «necessità di interpretare» in tal modo l’art. 35). 24 La sentenza n. 281 del 2004 ha ravvisato il rispetto della legge di delega nella parte in cui l’art. 34 aveva devoluto alla giurisdizione amministrativa le controversie sul sopra descritto illecito commissivo e ha dichiarato in parte incostituzionale il medesimo art. 34, per la parte che aveva previsto la giurisdizione esclusiva su diritti, compresi quelli lesi con l’illecito omissivo. Ciò comporta che, per la portata retroattiva della sentenza n. 281 del 2004 e per il periodo in cui ha avuto vigore l’originario articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (e cioè per le controversie sorte fino alla data di entrata in vigore della legge n. 205 del 2000), ai fini della giurisdizione vanno distinte tre tipologie di controversie aventi per oggetto le domande di risarcimento del danno causato dall’amministrazione nella materia espropriativa: a) va considerata sussistente la giurisdizione amministrativa quando si tratti di un illecito commissivo e sia chiesto l’annullamento dell’atto autoritativo (incidente sull’interesse legittimo), emanato nel corso di una delle fasi del procedimento espropriativo, nonché (col medesimo ricorso o uno distinto) il risarcimento del danno cagionato con la sua esecuzione e l’utilizzazione del suolo da parte dell’amministrazione; b) va considerata sussistente la giurisdizione civile quando si tratti di un illecito omissivo permanente, e cioè sia chiesto il risarcimento del danno cagionato al diritto di proprietà dall’amministrazione quando, dopo l’esecuzione dell’atto di occupazione d’urgenza, l’amministrazione abbia continuato a utilizzare il suolo dopo la scadenza del termine prescritto per la conclusione del procedimento ed abbia omesso di emanare il decreto di esproprio. c) va considerata altresì sussistente la giurisdizione civile quando si tratti di un illecito commissivo permanente, cagionato col provvedimento nel caso di sconfinamento. Infatti, ratione temporis, le controversie riguardanti l’illecito omissivo e quelle sullo sconfinamento attengono alla tutela spettante al diritto di proprietà (e non all’interesse legittimo, costituente il diaframma che intercorre tra il provvedimento autoritativo e la sfera giuridica di chi sia leso da esso) e non sono conducibili ad una ipotesi legislativamente prevista di giurisdizione esclusiva (introdotta dal decreto legislativo n. 80 del 1998, ma rimossa dalla sentenza del Corte n. 281 del 2004). Per tali ragioni, e con le precisazioni sullo ius superveniens del successivo § 6.11., risulta condivisibile la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione, sulla sussistenza della giurisdizione del giudice civile, innanzi al quale - prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 25 del 2000 sia stato chiesto il risarcimento del danno non connesso all’impugnazione di un provvedimento19. 6.6. La giurisdizione esclusiva in materia urbanisticaespropriativa è stata ripristinata dalla legge n. 205 del 2000, che ha novellato gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (ancor prima della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 281 del 2004, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’originario articolo 34). Come emerge dai lavori parlamentari, il legislatore era consapevole che la Corte Costituzionale (la cui sentenza n. 292 del 2000 aveva dichiarato la parziale incostituzionalità dell’originario art. 33 per eccesso di delega) avrebbe verosimilmente dichiarato per la stessa ragione anche la parziale incostituzionalità dell’originario art. 34 (ciò che poi è avvenuto con la sentenza n. 281 del 2004) ed ha voluto perseguire le esigenze di certezza sulla normativa inerente alla giurisdizione, reintroducendo la giurisdizione amministrativa esclusiva nelle tre materie dei servizi pubblici, dell’urbanistica e dell’edilizia. Pertanto, per quanto attiene al novellato art. 34 e alla materia dell’urbanistica (e ai suoi aspetti strumentali inerenti all’espropriazione), per le controversie sorte dopo la sua entrata in vigore sono divenute irrilevanti le questioni attinenti al difetto di delega del testo originario (poi riscontrato dalla sentenza n. 281 del 2004 della Corte Costituzionale). La legge n. 205 del 2000 ha così nuovamente devoluto alla giurisdizione esclusiva le controversie riguardanti l’illecito omissivo dell’amministrazione, causato con la mancata tempestiva emanazione del decreto di esproprio, nonché quelle riguardanti lo sconfinamento: - il novellato art. 34 ha nuovamente definito l’urbanistica – ai fini della giurisdizione – nel senso più vasto (al comma 2), devolvendo alla giurisdizione amministrativa la cognizione su tutti i diritti lesi dall’amministrazione, ed ha mantenuto ferma la giurisdizione civile soltanto «per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa» (al comma 3); - il novellato art. 35 ha reintrodotto anche la regola per la quale – nella materia dell’urbanistica - il giudice amministrativo può disporre, «anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto». Inoltre, con una disposizione avente una portata generale (applicabile sia nei casi di giurisdizione di legittimità o di merito, sia in quelli di giurisdizione esclusiva), l’art. 7, comma 4 (sostitutivo dell’art. 7, primo periodo del terzo comma, della legge n. 1034 del 1971) ha previsto che «il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della 19 Sez. Un., ord. 16 novembre 2004, n. 21637; ord. 22 novembre 2004, n. 21944; 14 gennaio 2005, ord. n. 600; 20 aprile 2005, ord. n. 8204 e n. 8209. 26 sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno», e – con evidente riferimento ai casi di occupazione di un suolo senza titolo - «anche attraverso la reintegrazione in forma specifica». 6.7. Dalle novellate disposizioni del decreto legislativo n. 80 del 1998 e della legge n. 1034 del 1971, emerge che la legge n. 205 del 2000: - ha integralmente ribadito il sistema introdotto dall’originario art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (devolvendo nuovamente alla giurisdizione esclusiva la cognizione dei diritti soggettivi e delle domande di risarcimento del danno, anche se formulate in mancanza dell’impugnazione di un atto), in ragione delle strettissime connessioni intercorrenti tra il vincolo preordinato all’esproprio e le fasi volte alla sua attuazione (schematizzate nell’intero impianto del testo unico n. 327 del 2001); - ha riaffermato la preesistente giurisdizione esclusiva per l’illecito commissivo commesso con il provvedimento illegittimo (introdotta – senza violazione di regole costituzionali – già con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 80 del 1998); - costituisce la fonte normativa attributiva alla giurisdizione esclusiva delle controversie sorte dopo la sua entrata in vigore, connesse all’attuazione del vincolo preordinato all’esproprio e riguardanti l’occupazione divenuta sine titulo, qualificabile come illecito omissivo (per mancata conclusione del procedimento), ovvero l’occupazione originariamente sine titulo, qualificabile come illecito commissivo (mediante sconfinamento). Il sistema basato sulla giurisdizione esclusiva risulta anche improntato alle esigenze di rapida tutela del proprietario in sede processuale. Infatti, se l’amministrazione emana l’atto di acquisizione nel corso del giudizio risarcitorio (anche volto ad ottenere la reintegrazione in forma specifica), può essere disposta la riunione tra il medesimo giudizio e quello di eventuale impugnazione dell’atto sopravvenuto (poiché l’esito del secondo ricorso incide sulla accoglibilità della domanda di reintegrazione in forma specifica e sul quantum spettante a titolo di risarcimento). Il sistema risulta anche razionale, in considerazione degli elementi costitutivi dell’illecito omissivo per mancata conclusione del procedimento e di quello commissivo mediante sconfinamento. Il legislatore – con le inscindibili disposizioni sostanziali del testo unico e processuali sulla giurisdizione e sui poteri del giudice amministrativo – ha tenuto conto delle fasi del procedimento di attuazione del vincolo preordinato all’esproprio, per fattispecie caratterizzate dapprima dall’esercizio delle funzioni pubbliche (con l’emanazione degli atti di pianificazione o di natura ablatoria) e poi dalla mancata conclusione del procedimento espropriativo o da un 27 (parziale) sconfinamento, lesivi della posizione legittimante di diritto e anche dell’interesse legittimo coinvolto nel corso del procedimento ablatorio. 6.8. La giurisdizione amministrativa esclusiva sull’illecito omissivo (da occupazione divenuta sine titulo) e sull’illecito commissivo (da sconfinamento sine titulo) è rimasta ferma – e trova una ulteriore conferma - nel quadro normativo venutosi a creare con la sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale (che ha dichiarato la parziale incostituzionalità del comma 1 del novellato art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, per la parte in cui attribuiva alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie aventi ad oggetto «i comportamenti»). Infatti, la sentenza n. 204 del 2004 – il cui dispositivo va inteso tenendo conto della relativa motivazione (e non occorrono molte parole per evidenziare come la tesi contraria sia del tutto ‘di parte’) ha fatto venire meno la giurisdizione esclusiva soltanto per le controversie riguardanti i comportamenti non riferibili a «funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia». 6.8.1. Come sopra evidenziato, la legge n. 205 del 2000 ha devoluto alla giurisdizione esclusiva le controversie sugli illeciti commissivi ed omissivi con disposizioni che hanno dato decisivo rilievo alla materia urbanistica ed espropriativa ed ai poteri del giudice amministrativo di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno cagionato in tali materie a inestricabili posizioni di diritto o di interesse, mediante la patologica attuazione del vincolo preordinato all’esproprio. Invece, non va considerato decisivo il richiamo ai «comportamenti», che conteneva il novellato art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (corrispondente a quello del testo originario, coinvolto nella dichiarazione di incostituzionalità parziale – per eccesso di delega - avutasi con la sentenza n. 281 del 2004 della Corte Costituzionale). Infatti, il richiamo ai «comportamenti» («dell’amministrazione pubblica e dei soggetti alle stesse equiparati») riguardava una pluralità di eterogenee situazioni, riferibili a «tutti gli aspetti dell’uso del territorio». Per il suo significato letterale e indefinito, la parola «comportamenti» poteva essere interpretata nel senso che essa si riferiva: a) innanzitutto, ai casi di acquisto del possesso del suolo altrui in esecuzione di una ordinanza di occupazione d’urgenza, a quelli di occupazione divenuta sine titulo (a seguito della scadenza del termine per la conclusione del procedimento espropriativo) ovvero originariamente sine titulo (per sconfinamento nel corso del procedimento); 28 b) inoltre, ad ogni caso in cui l’amministrazione avesse utilizzato un bene proprio o altrui, ovvero ne avesse disposta la materiale modificazione, cagionando un danno altrui. Per i casi indicati sub a), in cui è ravvisabile una attività riconducibile alla funzione pubblica (anche per quanto riguarda le implicazioni di rilievo penale), la parola «comportamenti» risultava sostanzialmente superflua, proprio perché – per le ragioni sopra esposte - la giurisdizione esclusiva è stata disposta dai novellati articoli 34 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 e dal novellato art. 7, terzo comma, della legge n. 1034 del 1971. In altri termini, per tali casi il richiamo ai «comportamenti» poteva solo ulteriormente corroborare una soluzione già chiaramente evincibile dalle medesime disposizioni nel loro complesso. Per i casi indicati sub b), invece, il carattere indeterminato e onnicomprensivo della parola «comportamenti» era tale da giustificare la giurisdizione esclusiva anche in relazione a fattispecie eterogenee non caratterizzate dall’esercizio di una funzione e neppure strettamente riferibili alla materia urbanistica (pur se attinenti – in senso lato - ad «aspetti dell’uso del territorio»), ad esempio, e per esemplificare, nei casi: - di vie di fatto, e cioè di acquisto del possesso di un suolo o di un edificio in assenza del vincolo preordinato all’esproprio e di una qualsiasi funzione pubblicistica, nonché di alterazione sine titulo dello stato dei luoghi; - di manutenzione delle strade o di altri beni pubblici e di gestione di discariche e di altre opere pubbliche, svolte con pregiudizio altrui. Già prima della sentenza di incostituzionalità n. 204 del 2004, la Corte di Cassazione aveva dato una interpretazione restrittiva del novellato art. 34, rilevando la sua applicabilità per le sole controversie connesse all’occupazione di un suolo altrui per la realizzazione di un’opera pubblica20, tra cui quelle aventi per oggetto la domanda di risarcimento del danno, quando – dopo l’esecuzione dell’ordinanza di occupazione del suolo – non sia stato emesso tempestivamente il decreto di esproprio21. 6.8.2. Con la sentenza n. 204 del 2004, la Corte Costituzionale: a) ha determinato il significato tecnico-giuridico del termine «comportamenti», con una ricostruzione – vincolante per l’interprete – che ne ha constatata l’essenza privatistica; b) ha dichiarato la parziale incostituzionalità del novellato art. 34, comma 1, nella parte in cui faceva riferimento ai comportamenti così individuati. 20 21 Sez. Un., 11 marzo 2004, n. 5055, rv. 571043. Sez. Un., ord. 15 ottobre 2003, n. 15471, rv. 567471, 29 Quanto alle ragioni che hanno indotto alla parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 34, comma 1, la sentenza – nei punti da 3.2. a 3.4.2. della motivazione, riguardanti il novellato art. 33 sui servizi pubblici – ha dapprima determinato i limiti entro i quali il legislatore ordinario può prevedere casi di giurisdizione esclusiva: - per l’art. 103 della Costituzione, il legislatore ordinario può prevedere la giurisdizione amministrativa esclusiva solo per «materie particolari» e non anche quando vi sia la «pura e semplice presenza ... di un rilevante pubblico interesse»; - solo per «materie particolari» - dai «confini» «compiutamente delimitati» - possono essere introdotte ipotesi di giurisdizione esclusiva per le controversie su diritti, quando sia «coinvolta la pubblica amministrazione-autorità». Nel successivo punto 3.4.3., la Corte Costituzionale: - quanto al significato del termine, ha rilevato che nelle controversie sui «comportamenti» l’amministrazione «non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere»; - ha richiamato le ragioni poste a base della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 33 e, con riferimento alla giurisdizione esclusiva in materia urbanistica sui «comportamenti», ha osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione dell’art. 34», proprio perché esso – in violazione dell’art. 103 – ha esteso la giurisdizione esclusiva a tali controversie, in cui non è ravvisabile l’esercizio di «alcun pubblico potere». 6.9. Dalle statuizioni della Corte Costituzionale, emerge che la sentenza n. 204 del 2004 non ha compreso tra i «comportamenti» conoscibili dal giudice civile gli illeciti commessi nell’esercizio della funzione pubblica, o con la mancata conclusione del procedimento espropriativo (nel corso del quale siano divenuti inoppugnabili gli atti che abbiano a suo tempo consentito l’occupazione del suolo altrui e la realizzazione dell’opera) o con lo sconfinamento (cioè con l’esecuzione di un provvedimento, che anche a distanza di tempo conduca all’acquisto del possesso di un’area, eccedente quella consentita). Tale conclusione è confermata dal fatto che la medesima sentenza non ha inciso sull’ambito di applicazione: - del comma 1 del novellato art. 34, che – pure a seguito della soppressione del richiamo ai «comportamenti» connessi a «strumenti intrinsecamente privatistici» – continua a devolvere alla giurisdizione esclusiva la medesima materia e cioè anche la cognizione dei diritti soggettivi che siano stati lesi dall’amministrazione nella fase di attuazione del vincolo preordinato all’esproprio (chi nega l’attuale giurisdizione esclusiva riporta la propria ‘tesi’, non il perdurante contenuto della legge); 30 - del comma 3 del novellato art. 34 (che continua a determinare i casi in cui sussiste la giurisdizione del giudice civile nella materia urbanistica); - del novellato art. 7 della legge n. 1034 del 1971 (sul potere del giudice amministrativo di disporre «anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto»), il quale ha una sua significativa portata applicativa proprio quando il giudice amministrativo – in assenza di un giudizio di impugnazione – constati che l’amministrazione possieda un suolo senza titolo (mentre, per i casi di annullamento dell’atto ablatorio, si è sempre ammesso che la restituzione possa essere disposta in sede d’ottemperanza)22. In considerazione della incontestabile portata inscindibile della motivazione e del dispositivo della sentenza della Corte, vanno dunque distinte due tipologie di controversie: a) quelle nelle quali il «comportamento» dell’amministrazione – lesivo di un diritto - è riconducibile a «strumenti intrinsecamente privatistici» ed è conoscibile dal giudice civile; b) quelle nelle quali l’«attività» dell’amministrazione – pur se lesiva di un diritto – è riconducibile all’esercizio – anche se mediato – di una pubblica funzione ed è conoscibile dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. Tra i comportamenti «meramente privatistici», carenti di supporti provvedimentali, rientrano senz’altro gli illeciti commessi: - con le ‘vie di fatto’ (e cioè con l’acquisto del possesso di un suolo o di un edificio, in assenza del vincolo preordinato all’esproprio e di una qualsiasi funzione pubblicistica, o con l’alterazione sine titulo dello stato dei luoghi, ad esempio in occasione della realizzazione di un’opera da parte dell’amministrazione su un proprio terreno); - mediante le attività materiali caratterizzanti i lavori di esecuzione di opere pubbliche, riferibili alla fase di esecuzione di contratti di appalto e che cagionino danni a terzi23; - nel corso delle attività di manutenzione delle strade o di altri beni pubblici o di gestione di discariche e di altre opere pubbliche. Tra le attività invece riconducibili all’esercizio di una pubblica funzione, oltre alle fattispecie caratterizzate da un illecito commissivo con un provvedimento annullato24, rientrano quelle caratterizzate da un illecito omissivo commesso nel corso del procedimento espropriativo25, ovvero da uno sconfinamento. Quando l’amministrazione abbia realizzato secundum legem l’opera ed abbia omesso di concludere il procedimento espropriativo, la controversia – pur riguardando posizioni di diritto, rispetto alle quali 22 Cons. Stato, Sez. IV, 23 giugno 1950, n. 311; Sez. IV, 24 giugno 1960, n. 688; Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2. 23 Sez. Un., ord. 18 ottobre 2005, n. 20123. 24 Ad. Plen., 16 novembre 2005, n. 9. 25 Ad. Plen., 30 agosto 2005, n. 4. 31 sono inconfigurabili oneri di impugnazione - è completamente avvinta alle modalità di esercizio della pubblica funzione: - la realizzazione dell’opera pubblica non è qualificabile come un comportamento meramente materiale rilevante per il diritto privato, ma è disciplinata dalle leggi amministrative e si giustifica per la doverosa esecuzione dei precedenti atti autoritativi, divenuti inoppugnabili; - l’amministrazione ha il dovere di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, o restituendo il suolo al suo titolare o esercitando – motivatamente - il suo immanente potere ablatorio in sanatoria (tipizzato dall’art. 43 del testo unico con l’esercizio del potere di acquisizione del bene «modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità»); - l’illecito è configurabile per il mancato esercizio della funzione pubblica e viene meno o con la restituzione del suolo o quando tale funzione sia esercitata con l’atto di acquisizione del bene al patrimonio pubblico (avente l’effetto – consentito dal sistema - di estinguere l’obbligo di restituzione). Gli stessi principi – riguardanti il dovere dell’amministrazione di restituire il suolo o di disporne l’acquisizione - si applicano quando si è verificato uno sconfinamento. Del resto, se si considera il caso in cui un’area sia in parte oggetto di formali atti ablatori, in parte di uno sconfinamento e in parte di una occupazione divenuta sine titulo per la mancata conclusione del procedimento, sarebbe manifestamente irrazionale ritenere che due giurisdizioni debbano conoscere delle azioni del proprietario volte alla tutela del suo patrimonio. Ad esempio, col medesimo ricorso al giudice amministrativo si può impugnare l’atto di occupazione d’urgenza e contestare il contestuale sconfinamento, oppure impugnare l’atto conclusivo del procedimento, avente per oggetto una particella, e chiedere la restituzione di un’altra, per la quale non è stato emesso il decreto di esproprio. 6.10. La giurisdizione amministrativa esclusiva deriva anche dall’art. 53 del testo unico (entrato in vigore a decorrere dal 30 giugno 2003), per il quale «sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo unico». Esso va interpretato conformemente alle disposizioni contenute nel novellato art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (di cui costituisce norma meramente esplicativa) ed ai principi enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004: 32 - ha ribadito la sussistenza della giurisdizione esclusiva per le controversie riguardanti le fasi di attuazione del vincolo urbanistico preordinato all’esproprio; - riguarda una specifica e delimitata materia, strumentale all’attuazione dei piani urbanistici e alla realizzazione delle opere pubbliche, nella quale sono esercitati poteri autoritativi incidenti su interessi legittimi (nel senso che i provvedimenti di pianificazione e quelli ablatori costituiscono il titolo pubblicistico per l’acquisizione del possesso e per l’esecuzione delle opere di pubblico interesse); - ha richiamato i «comportamenti» per rimarcare che sussiste la giurisdizione esclusiva per l’illecito permanente commesso nel corso del procedimento espropriativo e caratterizzato dall’esercizio della funzione pubblica (quando l’occupazione del suolo, espressione del potere espropriativo e da considerare sine titulo per la mancata emanazione del provvedimento finale o per sconfinamento, costituisce per di più il presupposto per l’esercizio del correlativo potere di acquisizione del bene utilizzato per ragioni di pubblico interesse); - non ha dunque compreso anche gli illeciti commessi in assenza della connessione a tale funzione e lesivi di diritti, la cui cognizione continua a rientrare nell’ambito della giurisdizione civile. 6.11. Resta da chiarire l’incidenza del principio affermato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2005, per le controversie riguardanti l’occupazione sine titulo connessa al vincolo preordinato all’esproprio, proposte innanzi al giudice amministrativo prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000. Poiché la legge n. 205 del 2000 ha devoluto tali controversie alla giurisdizione amministrativa esclusiva, lo ius superveniens comporta l’applicabilità del principio evincibile dall’art. 5 del codice di procedura civile, per il quale una norma attributiva della giurisdizione è immediatamente applicabile nel giudizio pendente presso il giudice che non aveva originariamente giurisdizione. Infatti, risulterebbe irrazionale e in contrasto col principio della ragionevole durata del processo una sentenza con cui il giudice dichiari il proprio difetto di giurisdizione, destinata ad essere seguita da una domanda da formulare innanzi al medesimo giudice. Pertanto, poiché la legge n. 205 del 2000 ha reintrodotto la giurisdizione esclusiva in materia urbanistica (dopo la parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’originario art. 34, per eccesso di delega), il potere decisorio del giudice amministrativo sussiste anche per i ricorsi concernenti le controversie sull’illecito omissivo e sullo sconfinamento, proposti prima della data di entrata in vigore della legge n. 205 del 2000. 7. Conclusioni Le recenti riforme sui criteri di riparto della giurisdizione si inseriscono in un quadro normativo che ha mutato notevolmente la 33 disciplina sostanziale di vari settori nei quali è esercitata la funzione pubblica. Da un lato, molti settori sono stati riformati per consentire lo svolgimento di attività senza particolari formalismi (ma sottoposte a poteri di vigilanza e repressivi per gli interessi pubblici coinvolti), oppure per semplificare la normativa vigente e per evitare la proliferazione della patologia dei procedimenti (come ad esempio era avvenuto in materia espropriativa prima della emanazione del vigente testo unico). Dall’altro, l’attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo ha mirato alla semplificazione dei criteri di riparto, concentrando nel giudice amministrativo la tutela spettante quando le controversie riguardino – in particolare - rapporti di concessione (salve le pretese economiche previste dall’art. 5, secondo comma, della legge n. 1034 del 1971), accordi di diritto amministrativo, le materie previste dai novellati articoli 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, gli atti (o l’inerzia) delle autorità di vigilanza, anche di quelle indipendenti. Tali complessive riforme hanno condotto a due fondamentali innovazioni della giustizia amministrativa. La prima è quella sulla piena tutela che ha ottenuto – sul piano processuale e sostanziale – l’interesse legittimo. La regola della risarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo – in aggiunta alla ‘tradizionale’ tutela di annullamento in presenza dei vizi di legittimità (tra cui ha un rilievo fondamentale l’eccesso di potere) – consente le seguenti considerazioni: a) l’interesse legittimo ‘difensivo’ costituisce un ‘miracolo dell’ordinamento’, che ha fondato sul piano istituzionale – dalla fine dell’Ottocento – l’impugnazione degli atti emessi in applicazione di una norma; b) la giurisprudenza amministrativa – con l’elaborazione delle regole sulla tutela dell’interesse legittimo ‘pretensivo’ – ha consentito la tutela di ogni posizione correlativa al mancato esercizio della funzione pubblica (al fine di ottenere la conclusione del procedimento); c) un tempo si adoperava l’espressione per cui il diritto ‘si degrada’ ad interesse, per descrivere come sorga l’interesse legittimo (di difesa), che consente l’impugnazione del provvedimento autoritativo incidente su una posizione legittimante di diritto (ad es., del provvedimento di esproprio o di ritiro di un precedente atto abilitativo); d) con l’introduzione della regola della risarcibilità del danno, l’interesse legittimo – anche quello ‘pretensivo’ - ha oggi una tutela piena e per qualsiasi vizio, anche quando vi sia un illecito omissivo per silentium (rispetto al quale assume una importanza centrale – e 34 costitutiva - la sentenza del giudice amministrativo che ordini la definizione del procedimento). La piena tutela spettante all’interesse legittimo consente di ribaltare l’impostazione tradizionale sui rapporti tra diritto ed interesse legittimo. Quando si afferma che l’atto espressivo della funzione pubblica incide su un diritto e non è impugnabile innanzi al giudice amministrativo, vi è la degradazione della posizione soggettiva e della tutela, nel senso che l’interesse legittimo ‘degrada’ a mero diritto. Infatti, i limitati strumenti di tutela attribuiti al giudice civile non consentono la più compiuta sindacabilità dell’azione amministrativa (né la rimozione degli effetti dell’atto) e fanno sorgere il rischio di sovrapposizioni sulla valutazione amministrativa, in assenza dell’indispensabile ‘meccanismo’ dell’annullamento dell’atto con salvezza degli atti ulteriori (tipico del processo amministrativo inerente all’esercizio della funzione). Dovrebbero fare riflettere le questioni riferibili all’effettività della tutela delle posizioni soggettive, quando si tratti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. I ‘più forti’ interessi legittimi sono stati ‘degradati’ a meri diritti soggettivi, cioè a soggezioni prive di effettiva tutela, da quando vi è stata la privatizzazione dei rapporti di lavoro, con l’imposizione legislativa della natura ‘negoziale’ ai provvedimenti, divenuti atti di gestione emessi ‘con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro’ (art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001) Infatti, con sicura incoerenza rispetto alle previsioni dell’art. 103, primo comma, della Costituzione (che riserva alla giurisdizione amministrativa la cognizione degli interessi legittimi, la cui tutela non dovrebbe essere sopprimibile dal legislatore ordinario), sono stati sottratti quegli spazi di tutela, che i giudici amministrativi – per le posizioni correlative ai provvedimenti – hanno tradizionalmente dato per i profili di eccesso di potere e per le illegittimità di ordine procedimentale, poi disciplinate dalla legge n. 241 del 1990. Nell’ottica della più efficace tutela delle posizioni giuridiche soggettive, la loro qualificazione come interessi legittimi implica la massima tutela possibile: la rimozione degli effetti dell’atto e, se risultano gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo, anche il risarcimento del danno. La seconda fondamentale innovazione è la devoluzione alla giurisdizione esclusiva della cognizione di determinate controversie aventi per oggetto diritti soggettivi, coinvolti nell’esercizio della funzione pubblica. In ogni caso, quando tra le posizioni di diritto e di interesse vi sia una inestricabile connessione (sempre più frequente anche negli ordinamenti di settore che prevedano atti di vigilanza o di programmazione, che conducono a procedimenti complessi e ad atti 35 esecutivi o adempitivi, incidenti su diritti assoluti o relativi), è allora del tutto logico che vi sia la concentrazione delle controversie in sede di giurisdizione esclusiva. Spesso, infatti, la pretesa di carattere economico (ad es., di un operatore del servizio sanitario, in regime di convenzionamento o di accreditamento) risulta fondata solo ove vi sia il rispetto degli atti di programmazione, o nel caso di fondata impugnativa di questi. E’ auspicabile che le questioni di giurisdizione siano risolte in un clima di collaborazione tra tutti gli operatori, tenendo conto delle peculiarità caratterizzanti l’esercizio delle funzioni pubbliche, nonché dell’esigenza di rafforzare le tecniche di tutela nei confronti di chi utilizza le risorse della collettività e deve applicare i principi costituzionali di legalità e del buon andamento dell’azione amministrativa. In attesa di una riforma che istituzionalizzi tale collaborazione (ad esempio, con la creazione di un Tribunale dei conflitti o prevedendo che magistrati amministrativi facciano parte dei collegi delle Sezioni Unite che si occupano di questioni di giurisdizione), gli operatori si ispirino ai principi che conducano ad una rapida ed effettiva giustizia, senza discriminazioni o formalismi e sempre rammentando che ubi ius, ibi remedium. Luigi Maruotti (Consigliere di Stato) 36 Pubblicato su www.lexfor.it, novembre 2005 Cons. St., Adunanza Plenaria, 15 settembre 2005 n. 7 Pres. Alberto de Roberto, Cons. Est. Luigi Maruotti - S.p.a. Antognolla (Avv. G. La Spina e S. Crisci) c. Comune di Perugia (Avv.ti M. Cartasegna e A. Mariani Marini). 1. Giustizia amministrativa – Giurisdizione – Edilizia ed urbanistica – Tardivo rilascio di titoli edilizi autorizzativi Mero comportamento della P.A o comportamento nell’esercizio di un potere autoritativo - Giurisdizione del G.A. – Sussiste. 2. Risarcimento del danno – Mancato o tardivo rilascio di titoli edilizi autorizzativi – Danno risarcibili – Condizioni. 1. Il ritardo della P.A. nell’adozione delle pratiche per il rilascio dei titoli edilizi autorizzativi non consiste in un mero comportamento (omissivo) della P.A., sindacabile, dopo la sentenza 204 del 2004 della Corte Costituzionale, dal giudice ordinario; tale ritardo inerisce, invece, alla mancata emanazione del provvedimento nei tempi fissati, pertanto assume rilevanza giuridica in quanto deriva dal mancato esercizio di un potere autoritativo, ovvero dal non corretto svolgimento della funzione amministrativa ed appartiene, pertanto, alla giurisdizione del giudice amministrativo. 2. Il giudice amministrativo riconosce il risarcimento del danno causato al privato dal comportamento dell’Amministrazione solo quando sia stata accertata la spettanza al bene della vita, ovvero nelle sole ipotesi in cui non venga emanato o venga emanato in ritardo un provvedimento vantaggioso per l’interessato; ne consegue che il risarcimento del danno subito non è assolutamente configurabile quando il provvedimento adottato in ritardo dalla P.A. risulti di carattere negativo e non sia stato impugnato. (Omissis) Col ricorso n. 77 del 2003, proposto al T.A.R. dell’Umbria, la s.p.a. Antognolla – proprietaria di un comprensorio di circa 700 ettari – ha esposto di aver avviato una pluralità di pratiche (sessantuno) innanzi al Comune di Perugia, per conseguire il rilascio dei titoli autorizzativi occorrenti per la ristrutturazione degli immobili posti all’interno del detto comprensorio (un antico castello del XII secolo e il circostante borgo) e per la realizzazione di varie opere infrastrutturali. 37 La società ha dedotto che, sulla base del programma elaborato, confidava di poter concludere i lavori entro l’estate del 2004, dopo il conseguimento, nei tempi prescritti, dei permessi occorrenti. L’amministrazione aveva, invece, definito le pratiche in ritardo e in senso negativo, producendo così un danno del quale si chiedeva al Comune il ristoro (nella misura di 37 milioni di euro). Il T.A.R. dell’Umbria, con la sentenza n. 649 del 2003, ha respinto il ricorso ed ha condannato alle spese del giudizio la s.p.a. Antognolla. La sentenza ha rilevato che tutte le istanze avanzate dalla società, ad eccezione di quelle recanti i numeri 2, 3, 6, 7, erano state definite nei termini e che i provvedimenti di carattere negativo non avevano formato oggetto di contestazione da parte dell’impresa. Risultava, quindi, priva di ogni base la pretesa di risarcimento del danno per un ritardo che non era avvenuto e, in presenza, per giunta, di domande definite – senza ulteriori contestazioni – in senso negativo. Quanto alle pratiche 3 e 7, le stesse risultavano effettivamente concluse in ritardo: non vi era spazio, però, per qualunque risarcimento, perché le istanze avanzate dalla parte erano state definite negativamente e contro le relative statuizioni nessuna contestazione era stata avanzata. Anche in relazione alle pratiche 2 e 6, le pretese risarcitorie dell’impresa risultavano infondate: in relazione ad esse, non poteva parlarsi di inadempimento, in quanto non risultava notificata la diffida per la costituzione in mora dell’autorità amministrativa prescritta almeno all’epoca - antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 6 bis, del decreto legge n. 35 del 2005, convertito nella legge n. 80 del 2005 – nella quale detta inadempienza si era verificata. Si è appellata al Consiglio di Stato la s.p.a. Antognolla, che ha insistito nelle sue pretese senza mettere, però, in contestazione l’affermazione del giudice di primo grado in ordine alla tempestiva definizione di tutte le pratiche diverse da quelle di cui ai numeri 2, 3, 6 e 7. La IV Sezione del Consiglio di Stato, alla quale l’appello era stato assegnato, ha ritenuto di rimettere la sua definizione all’esame dell’Adunanza Plenaria, per la novità e la complessità di talune delle questioni che vanno affrontate e risolte in questa sede. La causa è stata chiamata innanzi alla Adunanza Plenaria alla pubblica udienza del 16 maggio ed è stata trattenuta in decisione. 38 Considerato in diritto 1. In via preliminare, l’ordinanza di remissione ha avanzato il dubbio che, in relazione alla presente controversia, non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo: e ciò in quanto le lamentate inadempienze dell’amministrazione integrerebbero «comportamenti» omissivi, lesivi di diritti soggettivi conoscibili del giudice ordinario dopo la sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale. Non sembra che, nella specie, abbiano ragione di sussistere i dubbi prospettati. E’ esatto che la Corte Costituzionale ha stralciato dalla previsione dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nella versione di cui alla legge n. 205 del 2000) il termine «comportamenti», devolvendo al giudice ordinario la cognizione delle liti relative a diritti soggettivi provocate da condotte materiali dell’amministrazione (liti riservate, invece, al giudice amministrativo prima della parziale dichiarazione di incostituzionalità). Nella specie, però, non si è di fronte a «comportamenti» della pubblica amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato in violazione del neminem laedere (la fattispecie presa in considerazione dal citato art. 34 nella parte dichiarata incostituzionale dalla Corte), ma in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo soddisfacimento dell’obbligo della autorità amministrativa di assolvere adempimenti pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative. Si è, perciò, al cospetto di interessi legittimi pretensivi del privato, che ricadono, per loro intrinseca natura, nella giurisdizione del giudice amministrativo (e, trattandosi della materia urbanistico-edilizia, nella sua giurisdizione esclusiva). 2. Prima di passare all’esame del merito, va preliminarmente rilevato che la materia del contendere resta circoscritta, in questa fase di appello, al solo contenzioso concernente le quattro pratiche richiamate in precedenza (nn. 2-7 e 3-6). Non ha formato oggetto di contestazione, invero, da parte della società, quel punto della sentenza del TAR in cui si afferma che tutte le pratiche (ad eccezione di quelle recanti i n. 2-7 e 3-6) sono state definite entro i termini prescritti. 3. Passando ora all’esame nel merito delle questioni concernenti le pratiche nn. 3 e 6 (che hanno ottenuto trattazione unitaria sia nella decisione di primo grado che nell’appello proposto dalla parte), va osservato che il fatto dell’intervenuto riconoscimento, 39 da parte dell’amministrazione comunale, di aver pronunciato in ritardo su tali pratiche non comporta, per ciò solo - come vorrebbe la società ricorrente - l’affermazione della sua responsabilità per danni. Su di un piano di astratta logica, può ammettersi che, in un ordinamento preoccupato di conseguire un’azione amministrativa particolarmente sollecita, alla violazione dei termini di adempimento procedimentali possano riconnettersi conseguenze negative per l’amministrazione, anche di ordine patrimoniale (ad es. con misure di carattere punitivo a favore dell’erario; con sanzioni disciplinari, etc.). In un quadro non dissimile si muoveva, d’altra parte - secondo talune linee interpretative - l’art. 17, comma 1, lettera f), della legge n. 59 del 1997, che ipotizzava «forme di indennizzo automatico e forfettario», pur se a favore del richiedente, qualora l’amministrazione non avesse adottato tempestivamente il provvedimento, anche se negativo. Non vale, però, soffermarsi oltre sulla disciplina ora ricordata, in quanto non è stata attuata la delega conferita dalla citata legge, né sono state assunte, dopo la scadenza dei termini assegnati al legislatore delegato, iniziative per la emanazione di una nuova legge di delega con lo stesso contenuto o per la proroga del termine. Stando così le cose, può affermarsi che il sistema di tutela degli interessi pretensivi – nelle ipotesi in cui si fa affidamento (come nella specie) sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione – consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un “bene della vita”). Tale situazione non è assolutamente configurabile nella specie, posto che - a prescindere da qualunque ulteriore profilo in ordine ai requisiti richiesti per potersi considerare realizzata l’inadempienza - risulta incontroverso che i provvedimenti adottati in ritardo risultano di carattere negativo per la società e che le loro statuizioni sono divenute intangibili per la omessa proposizione di qualunque impugnativa. Anche le pretese relative alle pratiche n. 2 e 7 debbono essere disattese non risultando realizzata, allo stato, qualunque inadempienza. 40 E’ assorbente a questo riguardo rilevare che la presentazione delle predette istanze non è stata seguita, dopo la scadenza dei termini procedimentali, dalla notifica della diffida (conditio sine qua non per la costituzione delle inadempienze pubblicistiche almeno fino al sopravvenire dell’art. 6 bis del decreto legge n. 35 del 2005 convertito nella legge n. 80 del 2005 che non si applica, ratione temporis, alla presente fattispecie). Non sussistono, perciò, le condizioni per lamentare, con domanda di ristoro del danno, le conseguenze di una inadempienza che non risulta realizzata. 4. L‘appello nel suo complesso risulta pertanto infondato e va respinto. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli onorari del secondo grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) respinge l’appello n. 10988 del 2003 (reg. ric. Sez. IV; n. 5 del 2005 reg. ric. Ad. Plen.). Compensa tra le parti le spese e gli onorari del secondo grado del giudizio. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi il giorno 16 maggio 2005, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, con l’intervento dei signori: (Omissis) 41 * * * * * Limiti ulteriori alla risarcibilità del danno: un’Amministrazione irresponsabile e una solo teorica risarcibilità dell’interesse legittimo? Sommario: 1. Il caso: la decisione con la quale l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha stabilito i “confini” della risarcibilità del danno da ritardo. – 2. Il problema relativo alla giurisdizione sul comportamento della pubblica Amministrazione che non ha svolto la funzione amministrativa nei tempi prefigurati dalle norme di legge. – 3. Il danno da ritardo: i possibili tipi di danno da ritardo. - 4. La differente tutela ad uguali posizioni di interesse legittimo, determinata in base all’esito del procedimento amministrativo. - 5. La tesi della risarcibilità del solo danno da provvedimento e quella a favore della risarcibilità dell’interesse procedimentale (natura della responsabilità della pubblica Amministrazione). – 6. L’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241. – 7. L’esigenza di certezza dei cittadini istanti. – 8. Le ipotesi in cui lo stesso esito negativo del procedimento amministrativo dipende dal ritardo con il quale è stato emanato il provvedimento amministrativo. – 9. Conclusioni. La decisione che si annota è particolarmente interessante in quanto ha fornito alcuni importanti criteri in ordine alla risarcibilità del danno causato da un comportamento della pubblica Amministrazione nell’esercizio del proprio potere autoritativo, limitando le ipotesi di risarcibilità del danno da ritardo ai soli casi in cui sia riconosciuta la spettanza al bene della vita, ovvero soltanto ove sia stato emanato un provvedimento favorevole al privato ma l’emanazione sia avvenuta in ritardo rispetto a quando avrebbe potuto, e dovuto, essere, e tale ritardo sia stato determinato o dal fatto che vi era stato un primo provvedimento sfavorevole al privato che è stato annullato in sede giurisdizionale, o semplicemente da una parziale inerzia dell’Amministrazione che ha determinato un rallentamento nello svolgimento della propria attività, rispetto ai tempi sanciti dall’ordinamento26. 26 Circa il ritardo nell’adozione dei provvedimenti amministrativi ed il danno conseguente cfr.:M. LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo certezza dei rapporti, interesse pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, pg. 293 e ss.; R. CHIEPPA, Brevi riflessioni in tema di “danno da ritardo”, nota a Cons.Stato, 13 novembre 2002, n. 6291 e a 42 1. Il caso: la decisione con la quale l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha stabilito i “confini” della risarcibilità del danno da ritardo. La decisione n. 7 del 15 settembre 2005 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ad oggetto due problemi fondamentali (in ragione dell’importanza e della delicatezza dei quali la Quarta Sezione ha ritenuto opportuno rimettere la questione proprio all’Adunanza), ovvero se il sindacato sul comportamento della pubblica Amministrazione che abbia ritardato nell’emanazione dei propri provvedimenti appartenga alla giurisdizione del giudice amministrativo o meno e quali debbano essere i presupposti e le modalità necessarie per configurare una responsabilità dell’Amministrazione in ragione del ritardo incorso nello svolgimento delle sue funzioni e, nel caso positivo, in che limiti debba potersi individuare il danno risarcibile. La fattispecie decisa attiene alla mancata definizione nei tempi sanciti dall’ordinamento, da parte del Comune di Perugia, di procedimenti volti al rilascio dei titoli autorizzativi occorrenti per la ristrutturazione degli immobili posti all’interno di un comprensorio (un antico castello del XII secolo e il circostante borgo) e per la realizzazione di varie opere infrastrutturali; in relazione al ritardo nella decisione delle istanze la ditta istante aveva proposto domanda di risarcimento del danno causatole dal comportamento della pubblica Amministrazione che, agendo con lentezza, e concludendo i procedimenti oltre i termini di legge, l’avrebbe lasciata in una situazione di prolungata incertezza, impedendole di rivolgere altrove la propria attività e le proprie risorse economiche. 2. Il problema relativo alla giurisdizione sul comportamento della pubblica Amministrazione che non ha svolto la funzione amministrativa nei tempi prefigurati dalle norme di legge. La prima questione affrontata e decisa dall’Adunanza Plenaria attiene al riparto di giurisdizione. Al riguardo la IV Sezione rimettente aveva manifestato il proprio favore per la tesi TAR Emilia Romagana, 25 novembre 2002, n. 852, in Dir. & Formaz., 2003, pg. 217 e ss.; S.S. SCOCA, Il ritardo nell’adozione del provvedimento e il danno conseguente, in www.giustamm.it, 2005; G. MARI, Sulla decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per illegittimo esercizio di funzioni amministrative sul risarcimento del danno da ritardo, nota a TAR Puglia, Bari, Sez. II, 18 luglio 2002, n. 3401, in Foro amm. – Tar, 2002, pg. 3752 e ss.; B. LUBRANO, La pregiudizialità amministrativa ed il danno da ritardo, nota a TAR Abruzzo, L’Aquila, 25 febbraio 2003, n. 54 in Foro Amm.Tar, 2003, pg. 2679 e ss. 43 della giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la questione concerneva non un mero comportamento dell’Amministrazione, bensì il mancato esercizio del potere autoritativo nei tempi stabiliti dalla legge. Al fine di verificare se la decisione a favore della giurisdizione possa essere condivisa occorre fare un passo indietro, e verificare quali siano gli ambiti della giurisdizione del giudice amministrativo dopo l’intervento della Corte costituzionale. La sentenza 6 luglio 2004, n. 20427, della Corte costituzionale ha riconosciuto dei limiti alla discrezionalità del legislatore ordinario di ampliare la giurisdizione esclusiva, stabilendo che “il legislatore ordinario ben può ampliare l’area 27 Sul punto cfr.: V. CARBONE, C. CONSOLO e A. DI MAJO, Il “walzer delle giurisdizioni” rigira e ritorna a fine ottocento, in Corr. giur., 2004, pg. 1125 ss.; F. CINTIOLI, La giurisdizione piena del giudice amministrativo dopo la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale (6 luglio 2004), in Dir. & Formazione, 10, 2004.; R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione in tema di servizi pubblici dopo Corte costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, in www.giustizia-amministrativa.it.; O. FORLENZA, Con le restrizioni sui diritti soggettivi addio al criterio dei “blocchi di materie”, Guida al diritto, 2004 n. 29, pg. 105 e ss.; ID., Profili della tutela giurisdizionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, in Il Merito, 2004, 10, pg. 103 e ss.; F. LORENZONI, Commento a prima lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 5 luglio 2004, in www.federalismi.it, 15, 2004; F. IACOVONE, Sui servizi pubblici locali bocciata l’esclusiva dei giudici amministrativi, in Edilizia e territorio, 2004, 29, pg. 22 ss.; G. VIRGA, Il giudice della funzione pubblica (sui nuovi confini della giurisdizione esclusiva tracciati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004), in www.lexitalia.it, 2004, 7-8; R. CAPOBIANCO, I limiti della giurisdizione esclusiva nella sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004, in www.giustamm.it, 2004, 10; F. SAITTA, Tanto tuonò che piovve: riflessioni (d’agosto) sulla giurisdizione esclusiva ridimensionata dalla sentenza costituzionale n. 204 del 2004, in www.lexitalia.it, 2004, 7-8; G. STANCANELLI, La giurisdizione esclusiva nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004 (Riflessioni “a caldo”), in www.giustamm.it, 2004, 7; M.A. SANDULLI, Un passo avanti e uno indietro: il giudice amministrativo è giudice pieno, ma non può giudicare dei diritti (nota a margine di Corte cost. n. 204 del 2004), in www.forumcostituzionale.it, 2004; O. CARPARELLI, L’occupazione usurpativa alla luce della sentenza della consulta n. 204 del 2004, in www.altalex.com, 2004; F. CARINGELLA, G. DE MARZO, F. DELLA VALLE e R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (dopo la L. 21 luglio 2000 n. 205), Milano, 2000; S. CACCIOLA, Il nuovo riparto di giurisdizione? Nei servizi pubblici si torna all'antico, nota a TAR Sicilia, Sez. I, 16 luglio 2004, n. 1543, in Dir. & Formaz., 2004; F. FRACCHIA, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: un istituto che ha esaurito le sue potenzialità? In Servizi pubbl. e appalti, 2004, pg. 799 e ss.; C.E. GALLO, La giurisdizione esclusiva ridisegnata dalla Corte costituzionale alla prova dei fatti, in Foro amm.- CdS, 2004, 7-8, pg. 1908 e ss; F. SATTA, La giustizia amministrativa tra ieri, oggi e domani: la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, in Foro amm.- CdS, 2004, 7-8, pg. 1903 e ss.; D. SICLARI, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie afferenti alla vigilanza sul credito: una conferma implicita e alcune incertezze residue, Foro amm. – CdS, 2004, 7-8, pg. 1918 e ss.; S. VASTA, Gli accordi, la revoca e la giurisdizione esclusiva. Una lettura (tra le righe) della sentenza 5 luglio 2004 n. 204 della Corte Costituzionale, in Foro amm. – CdS, 2004, 10, pg. 3015 e ss. 44 della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione – autorità, la giurisdizione generale di legittimità”. La Corte ha, pertanto, affermato che il limite per la potestà legislativa vada rinvenuto nel fatto che le materie in questione debbano essere effettivamente “particolari” rispetto alla giurisdizione di legittimità (“devono partecipare della loro medesima natura”) e nel fatto che in esse “la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo”, in pratica richiedendo, perché si abbia giurisdizione esclusiva del g.a., la presenza di un duplice requisito, ovvero che sussista sia il c.d. “nodo gordiano” (intreccio inestricabile di diritti soggettivi e interessi legittimi), sia un diffuso potere autoritativo e/o di supremazia dell’amministrazione. Posto che per quanto riguarda le materie dell’urbanistica ed edilizia la nuova formulazione dell’art. 34 del d. lgs. n. 80/1998, quale recata dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge n. 205/2000, è stata ritenuta in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche amministrazioni (direttamente ovvero attraverso “soggetti alle stesse equiparati”) svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia – anche i “comportamenti”, estendeva tale giurisdizione esclusiva a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere, e verificato che il caso di specie concerne un comportamento della pubblica Amministrazione, che viene sindacato in quanto causativo di un danno, al fine di verificare se la questione in esame attenga o meno alla giurisdizione del giudice amministrativo occorre verificare se si tratti di un “mero comportamento”28, o di un 28 La nozione di “comportamento” è stata delineata da CdS, VI, 20 aprile 2004, n. 2221, nella quale è stato specificato che “la nozione di controversie aventi per oggetto i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia di urbanistica ed edilizia deve essere interpretata in senso restrittivo, rientrando nella giurisdizione del giudice amministrativo solo i comportamenti in cui ricorra la sussistenza dei requisiti dell’esercizio di un pubblico potere (esplicazione di funzione amministrativa) e della rilevanza, legislativamente prevista, del comportamento dell’amministrazione (silenzio rifiuto, D.I.A. e le altre ipotesi di inerzia o di attività legislativamente qualificata)” e in cui viene spiegata la ragione per cui gli unici comportamenti che rientrano nella giurisdizione esclusiva sono quelli in cui sussista il duplice presupposto della sussistenza dei requisiti dell’esercizio di un pubblico 45 comportamento significativo, ovvero un mezzo di estrinsecazione del potere amministrativo. La suddetta distinzione è necessaria in quanto anche se formalmente i “comportamenti” in materia di urbanistica ed edilizia sono stati sottratti alla cognizione del giudice amministrativo, in ragione di quella che è la logica della sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale le controversie comunque collegate funzionalmente ai poteri pubblici restano riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ne consegue che poichè nel caso di specie la controversia concerne proprio le modalità di esplicazione della funzione amministrativa poste in essere dalla pubblica Amministrazione (il Comune di Perugia che doveva pronunciarsi sulle istanze edificatorie) correttamente è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo29. La suddetta affermazione d’altronde si pone in perfetta sintonia con quanto sancito da un’altra decisione della stessa Adunanza Plenaria di pochi giorni precedente a quella in esame: la n. 4 del 30 agosto 2005, infatti, aveva chiarito come anche le questioni concernenti il risarcimento del danno causato dall’occupazione appropriativa avvenuta per effetto di una legittima occupazione d’urgenza cui poi non sia seguita l’emanazione di un regolare decreto di esproprio, appartengono potere e della rilevanza, legislativamente prevista, del comportamento dell’amministrazione, in quanto viene sottolineato come “la ratio di concentrazione della tutela, che ha indotto il legislatore ad attribuire le domande risarcitorie alla giurisdizione del giudice amministrativo, dapprima con il D. Lgs. n. 80/98 e poi con le modifiche introdotte con la legge n. 205/2000, presuppone che l’esigenza di adire un unico giudice (quello amministrativo) ricorra quando la tutela risarcitoria costituisca un completamento della tradizionale tutela demolitoria, esercitata a protezione degli interessi legittimi o si sia in presenza, nella materia della edilizia e dell’urbanistica attribuita alla giurisdizione esclusiva del G.A., di danni causati da comportamenti della P.a. connessi all’esercizio di pubbliche funzioni nella medesima materia”. 29 Sulla affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo cfr. O. FORLENZA, Il coinvolgimento di interessi legittimi esclude la competenza dei giudici ordinari, in Guida al Diritto, n. 42, 2005, pg. 87 e ss., il quale evidenzia come, anche se l’ordinanza di rimessione della Quarta sezione del Consiglio di Stato avesse manifestato in sostanza il medesimo orientamento poi seguito dalla Adunanza Plenaria, vi sia una netta differenza nei presupposti in base ai quali viene affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di specie. L’ordinanza di rimessione, infatti, fa riferimento sostanzialmente al fatto che: “a) la convinzione che la situazione (speculare) del mancato esercizio del potere sia essa stessa una “forma” di esercizio del potere (si parla di ‘fattispecie speculare’), e in ambedue le ipotesi ‘l’interesse legittimo pretensivo attiene alla medesima posizione sostanziale lesa’; b) ciò comporta che sia nel caso in cui il mancato esercizio del potere sia sindacato al fine di ottenerne l’esercizio, sia nel caso in cui esso venga sindacato al fine di ottenerne il risarcimento del danno, si verte in situazioni analoghe, appunto ‘speculari’; c) sarebbe irragionevole devolvere a giudici diversi il giudizio sul danno da provvedimento negativo e il giudizio sul danno da omesso o ritardato provvedimento”, mentre l’Adunanza Plenaria svolge un percorso completamente differente in quanto riconduce la controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo perché essa attiene a interessi legittimi pretesivi. 46 alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto il “comportamento” inerte della p.A. che non ha emanato il decreto di esproprio costituisce una forma di esercizio del potere autoritativo30. Sulla scia di tale decisione si può affermare che ai fini del riparto di giurisdizione non rileva, secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, se la pubblica Amministrazione abbia successivamente emanato un provvedimento espresso o meno, posto che “ai fini della giurisdizione rileva piuttosto l’inerenza a un potere di natura autoritativa della mancata emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato tempestivo esercizio del predetto potere”31. Nulla quaestio pertanto circa l’attribuzione al giudice amministrativo delle controversie inerenti al danno determinato dal mancato tempestivo esercizio del proprio potere da parte delle pubbliche Amministrazioni, che sembra essere perfettamente coerente con la logica della Corte costituzionale, e insieme pienamente rispettosa delle esigenze di utile tutela sancite dagli articoli 24 e 111 della Costituzione; non è, però, possibile concordare appieno quanto ai presupposti che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato essere necessari per configurare una responsabilità della pubblica Amministrazione per il ritardo nello svolgimento della propria funzione. 3. Il danno da ritardo: i possibili tipi di danno da ritardo. Come ricordato nella stessa ordinanza di rimessione n. 875/2005 della Quarta Sezione del Consiglio di Stato esistono, infatti, varie ipotesi di danno da ritardo, tra loro differenti: una prima ipotesi (a) concerne i casi in cui via sia stato un primo provvedimento (dell’Amministrazione) sfavorevole al privato che sia stato annullato in sede giurisdizionale in quanto illegittimo e cui è seguito un secondo provvedimento, legittimo e favorevole al privato; a tale ipotesi si aggiunge quella (b) in cui il provvedimento sia perfettamente legittimo e favorevole al privato nel suo contenuto ma sia stato emanato in ritardo rispetto a quelli 30 Contra cfr. numerosa giurisprudenza anteriore e successiva alla decisione n. 4 del 2005 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: T.A.R. Sardegna, Sez. II, 31 agosto 2005 n. 1852; T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, 31 maggio 2005 n. 2680; Cons. Stato, Sez. IV, 27 settembre 2004, n. 6328; Cons. Stato, Sez. IV, 5 ottobre 2004, n. 6489; T.A.R. Bari, Sez. II, 29 ottobre 2004, n. 4883; T.A.R. Palermo, Sez. I, 29 ottobre 2004, n. 2422; Cons. Stato, 27 settembre 2004 n. 6329, in Corr. giur. Online e in www.urbanisticatoscana.it.; T.A.R. Reggio Calabria, 9 agosto 2004 n. 607, in Lexfor, 2004; T.A.R. Bari, Sez. III, 23 settembre 2004 n. 4181; T.A.R. Pescara, 21 ottobre 2004, n. 868. 31 R. CHIEPPA, Commento a Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 7 marzo 2005, n. 875, per Osservatorio di Diritto e Formazione, 2005. 47 che sono i tempi stabiliti dall’ordinamento; ed infine l’ultima (c), ma non per questo di minore importanza, ipotesi di danno da ritardo si ha quando venga emanato in ritardo un provvedimento dal contenuto sfavorevole per il privato. Nel primo caso si parla di danno da provvedimento, in quanto il danno è stato cagionato dal primo provvedimento illegittimo e dal conseguente ritardo nell’emanazione del provvedimento legittimo favorevole al privato, negli altri due casi il danno, invece, non è collegabile ad alcun provvedimento illegittimo, ma si riconnette alle modalità di svolgimento del procedimento amministrativo, e, in sostanza, alla violazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241; nelle prime due ipotesi il danno causato dal ritardo dell’Amministrazione è di immediata evidenza, posto che se il provvedimento favorevole fosse stato adottato prima l’istante avrebbe potuto giovarsene prima; nella terza ipotesi, trattandosi di un provvedimento negativo, non vi è altrettanto immediatezza di identificazione, ma ciò non significa che il danno non sussista, posto che esso è determinato proprio dal fatto di non aver ottenuto nei termini previsti una determinazione sulla propria istanza, che permettesse di conoscere, nei termini di legge, la non accoglibilità della domanda, in ragione del fatto che il suddetto comportamento della pubblica Amministrazione ha lasciato l’istante in un prolungato stato di incertezza, impedendogli, tra l’altro, di rivolgere verso altre direzioni le proprie aspettative. Alcuni esempi potranno chiarire meglio le suddette fattispecie: si pensi al caso di un soggetto che decida di avviare un’attività commerciale di somministrazione alimenti e bevande e chieda la relativa autorizzazione al Comune: ove il Comune emani prima un provvedimento negativo, poi dimostratosi illegittimo in sede giurisdizionale, e dopo, per effetto della decisione (o anche della semplice istruttoria in sede giurisdizionale) del giudice amministrativo, emani un nuovo provvedimento positivo, nel corso dello stesso giudizio di annullamento del primo provvedimento (ove l’emanazione del secondo provvedimento sia avvenuta nel corso del processo), o attraverso un nuovo giudizio (ove l’emanazione del secondo provvedimento abbia seguito la decisione di annullamento del primo provvedimento), l’istante potrà chiedere il risarcimento per il danno subito a causa del ritardo nell’apertura dell’attività commerciale32; parimenti potrà essere chiesto il risarcimento per 32 Sul punto avrebbe potuto essere sollevata una questione di giurisdizione, in quanto chiaramente ove l’emanazione del secondo provvedimento avvenga nel corso del giudizio nulla quaestio, in quanto anche la determinazione del danno causato dal ritardo 48 il danno determinato dal ritardato inizio dell’attività commerciale ove il Comune abbia rilasciato con semplice ritardo (dovuto a una sua inerzia o a una lentezza strutturale) la richiesta autorizzazione. Ove, invece, il procedimento relativo alla medesima autorizzazione venga concluso con un diniego (legittimo) di autorizzazione emanato in ritardo rispetto ai termini di legge, il privato potrebbe chiedere i danni a lui derivanti dal non aver tempestivamente saputo dell’impossibilità di intraprendere quella attività commerciale e non avere conseguentemente potuto operare altrimenti (ad esempio intraprendendo un’altra o la stessa attività commerciale altrove). Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ma ciò che maggiormente preme sottolineare è come vada identificato il presupposto per il riconoscimento del danno da ritardo: nella prima ipotesi esso è costituito dall’emanazione di un provvedimento illegittimo, in relazione al quale viene tutelata la posizione giuridica soggettiva del ricorrente in modo pieno33, ovvero attraverso l’annullamento del provvedimento illegittimo (tutela impugnatoria) e il risarcimento del danno conseguente (tutela ripristinatoria, tesa a risarcire il ricorrente del danno nell’emanazione del provvedimento favorevole spetterà al giudice amministrativo, posto che tale danno è stato determinato proprio dall’emanazione del provvedimento illegittimo, che ha causato il ritardo, mentre nell’ipotesi in cui il giudizio innanzi al giudice amministrativo si sia concluso con il mero annullamento del provvedimento illegittimo e con un nuovo giudizio si chieda il risarcimento del mero danno causato dal ritardo nell’emanazione del provvedimento favorevole, ove si volesse aderire alla tesi sostenuta dal TAR Parma (TAR Parma, 12 ottobre 2004, n. 669), secondo cui rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia risarcitoria avente per oggetto l'appropriazione di un immobile (irreversibilmente modificato a seguito dell'esecuzione di un'opera pubblica) addebitabile, sia pure in base ad un giudizio ex post, al mero comportamento dell'Amministrazione, in considerazione dell'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e della privazione della giuridica esistenza ed efficacia degli atti amministrativi conseguenti, perché l'appropriazione (per "accessione invertita") dell'immobile “era da considerarsi addebitabile .. nel momento in cui la domanda di risarcimento è stata azionata, al mero comportamento dell'Amministrazione”, posto che la richiesta di risarcimento del danno era stata effettuata con un giudizio successivo ed autonomo, mentre diversamente sarebbe stato ove l’azione risarcitoria fosse stata proposta al TAR prima dell'annullamento degli atti. Se il suddetto ragionamento dovesse applicarsi al caso di specie anche in relazione al danno da ritardo nell’adozione del provvedimento favorevole chiesto con un giudizio separato e successivo a quello con il quale sia stato annullato il primo provvedimento sfavorevole si potrebbero porre problemi relativamente alla giurisdizione del giudice amministrativo. 33 Circa la “pienezza” della tutela assicurata alle posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo sia consentito richiamare il commento alla sentenza Corte costituzionale n. 204 del 2004 di A. POLICE, La giurisdizione del giudice amministrativo è piena ma non è più esclusiva, in Giornale di diritto amministrativo, 9, 2004, ed ancora ID., Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo – II: Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001; ID., Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, Padova, 2000, e S. CASSESE, Verso la piena giurisdizione del giudice amministrativo: il nuovo corso della giustizia amministrativa italiana, in Giorn. dir. amm., 1999, pg. 1221 e ss. 49 economico derivante dall’emanazione del provvedimento illegittimo che ha provocato un ritardo nell’emanazione del provvedimento favorevole); nelle altre due ipotesi non vi è alcuna impugnazione del provvedimento (sia che esso abbia un contenuto favorevole, sia sfavorevole), per cui il presupposto del danno da ritardo non può ricondursi a un provvedimento emanato dalla pubblica Amministrazione, ma deve rinvenirsi nella stessa disciplina del procedimento, posto che il danno da ritardo configurato nelle ipotesi b) e c) è un semplice danno procedimentale, ovvero determinato dalla violazione delle norme procedimentali34. 4. La differente tutela ad uguali posizioni di interesse legittimo, determinata in base all’esito del procedimento amministrativo. Le ipotesi b) e c), pertanto, sono analoghe, posto che in entrambe il danno deriva da una illegittimità del procedimento amministrativo (la violazione dell’art. 2 della legge 241 del 1990, per superamento dei termini), il che porterebbe ad affermare che la soluzione, relativamente alla risarcibilità o meno del danno, debba essere la medesima per entrambe, posto che ove la giurisprudenza decidesse di accordare una tutela risarcitoria per equivalente al rispetto dei tempi del procedimento entrambe le ipotesi sovra enunciate (emanazione di un provvedimento favorevole (b) o sfavorevole (c) in ritardo) godrebbero di una tutela risarcitoria. Nella decisione in esame, invece, inspiegabilmente le due posizioni, pur analoghe, vengono trattate diversamente: in un caso al mancato rispetto dei tempi del procedimento segue un risarcimento per equivalente, nell’altro caso tale risarcimento viene negato. La suddetta disparità, oltre che del tutto immotivata, appare essere anche illogica35: il presupposto del risarcimento del danno, nei casi di mero ritardo nello svolgimento della funzione 34 V. SALAMONE, Jus aedificandi e tutela risarcitoria, in Foro amm. – Tar, 2002, 1, pg. 321 e ss. definisce “dubbia la possibilità di tutelare nel processo amministrativo interessi che abbiano mera valenza procedimentale, in quanto collegati al rispetto di regole che attengono al corretto svolgimento del procedimento e che non incidono sull'interesse legittimo sostanziale” ed a tale fine richiama la decisione Cons. St., Sez. IV, 14 giugno 2001 n. 3169, in Cons. St., 2001, I, pg. 1304 e con la nota di commento di D. IELO, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo: caratteri e peculiarità, e nota di V. LOPILATO, Il danno ingiusto e la colpa nei primi orientamenti del Consiglio di Stato in materia di tutela di interessi legittimi, in Diritto e formazione, n. 4-5, 2001. 35 L’inammissibilità di una soluzione siffatta è stata rilevata da L. MAZZAROLLI, Intervento, al Convegno su La giustizia amministrativa in trasformazione, Verona, 21 ottobre 2005, il quale ha sottolineato come la soluzione debba essere unica: o la violazione dei termini procedimentali rileva o non rileva, indipendentemente dalla spettanza del bene. 50 amministrativa, è il comportamento dell’Amministrazione che ha violato le disposizioni che sanciscono i termini entro i quali i procedimenti amministrativi devono essere conclusi e, pertanto, uguale dovrebbe essere la conseguenza di tale violazione. L’esistenza di una disciplina del procedimento amministrativo costituisce di per sé giustificazione idonea ad ammettere che la posizione di interesse legittimo violata da un agire illegittimo della pubblica Amministrazione debba essere tutelata e, posto che attualmente alla tutela impugnatoria e conformatoria si è aggiunta anche la tutela risarcitoria36, non si comprende per quale ragione ove, come nel caso di specie, la posizione giuridica soggettiva del privato possa ricevere tutela solo mediante il risarcimento per equivalente questo non debba essere accordato. D’altronde anche ove si volesse aderire in modo rigoroso alla teoria della necessaria pregiudizialità dell’impugnazione del provvedimento amministrativo e, pertanto, si volesse negare l’ammissibilità di una tutela risarcitoria che non sia stata preceduta dal previo annullamento del provvedimento illegittimo, le decisioni in materia risarcitoria prese dalla Adunanza Plenaria con la decisione n. 7 del 2005 non avrebbero senso, in quanto la rigida affermazione della necessità del previo annullamento comporterebbe la negazione assoluta del mero danno da ritardo, ove esso non costituisca una semplice forma di integrazione del danno determinato dal provvedimento illegittimo annullato in via giurisdizionale. E’ pertanto evidente che se l’orientamento dovesse essere quello sovraindicato (della necessaria pregiudizialità dell’annullamento) il danno da ritardo dovrebbe essere negato in tutte le ipotesi in cui il ritardo non sia stato determinato dall’emanazione di un provvedimento illegittimo poi annullato, ma sia determinato da una semplice “lentezza” nell’agire della pubblica Amministrazione e, quindi, nelle ipotesi siffatte il danno da ritardo verrebbe negato comunque, quale che sia il successivo orientamento dell’Amministrazione in merito all’istanza proposta. 36 Circa la necessaria consequenzialità del risarcimento all’annullamento, in ragione del fatto che il risarcimento del danno “è consequenziale, in presenza di altre condizioni, alla violazione dell’interesse legittimo, che tuttavia, può essere fatta constatare, nel nostro ordinamento, solo con l’azione di annullamento” cfr.: G. MONTEDORO, La costituzionalità del nuovo assetto del riparto di giurisdizione dopo l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2003, in Dir. proc. amm., 2004, pg. 94 e ss., il quale, però, sottolinea anche come seppure vi sia questa necessaria consequenzialità tra annullamento e risarcimento del danno “l’interesse legittimo, peraltro, nonostante la affermata pregiudizialità dell’annullamento rispetto al risarcimento, si è definitivamente aperto alla spettanza del bene, come ha notato G. Falcon, sicchè … si pone il problema della tutela dell’aspirazione del cittadino al bene della vita, superandosi quella sensazione di Berti che legava interesse legittimo e soggezione”. 51 In realtà l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non sembra essere stata determinata dalla volontà di negare il riconoscimento del danno da mero ritardo dell’Amministrazione scollegato da una fattispecie impugnatoria, ma semplicemente dalla convinzione che andassero trattate diversamente le due ipotesi di danno da ritardo procedimentale, affermandone la risarcibilità nel solo caso in cui sia accertata la spettanza del bene della vita oggetto del provvedimento emanato in ritardo37; in sostanza l’Adunanza Plenaria di fronte al quesito se debba essere risarcito, con quali limiti e a quali condizioni, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini del procedimento, ha finito per stabilire che tale interesse possa essere dichiarato meritevole di tutela risarcitoria solo ove sia collegato ad un provvedimento favorevole, così finendo per attribuire all’esito del procedimento il valore di discrimine circa la meritevolezza o meno della tutela del rispetto delle regole procedimentale. Tale determinazione produce, però, a livello pratico una situazione disparità di trattamento fra i cittadini istanti, posto che coloro che vedranno accolta la propria istanza avranno anche “diritto” a reclamare ove vi siano state illegittimità procedimentali, quali il mancato rispetto dei termini, mentre quanti vedranno rigettata la propria istanza non vedranno riconosciuta in loro favore la tutela di alcuna posizione giuridica, per cui non potranno chiedere tutela nemmeno per la violazione delle medesime regole procedimentali. La suddetta determinazione potrebbe produrre, ove venisse seguita da una giurisprudenza costante, effetti ancora più gravi, in quanto le pubbliche Amministrazioni, consapevoli del fatto che ove la loro attività venga posta in essere in ritardo rispetto ai termini di legge potrebbero essere chiamate a risarcire il soggetto istante per il danno causatogli dal loro indugio nelle sole ipotesi in cui il provvedimento emanato abbia un contenuto favorevole al soggetto istante, potrebbero esercitare in modo non corretto il loro potere discrezionale, finendo per emanare provvedimenti negativi ogni qual volta si ritrovino ad avere agito fuori tempo; in tale ipotesi, infatti, non verrebbero sanzionate per la loro lentezza nell’agire a meno che il soggetto istante non sia in grado di 37 Sul collegamento tra risarcimento del danno e spettanza del bene cfr.: F. FRACCHIA, Risarcimento danni da c.d. lesione di interessi legittimi: deve riguardare i soli interessi a “risultato garantito”?, nota a TAR Puglia, Sez. I, 4 aprile 2000, n. 1401, TAR Valle d’Aosta, 18 febbraio 2000, n. 2 e TAR Puglia, Sez. II, 17 gennaio 2000, n. 179 in Foro it., 2000, III, pg. 479 e ss. 52 dimostrare anche, in sede giurisdizionale, l’illegittimità del provvedimento discrezionale (dal contenuto sfavorevole). 5. La tesi della risarcibilità del solo danno da provvedimento e quella a favore della risarcibilità dell’interesse procedimentale (natura della responsabilità della pubblica Amministrazione). Non è questa la sede per ripercorrere le problematiche circa la natura della responsabilità della pubblica Amministrazione, e i vari tentativi effettuati dalla giurisprudenza al fine di ricostruire la disciplina del risarcimento del danno a tutela di una posizione di interesse legittimo, ma, verificato che la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, nell’ordinanza di rimessione alla Plenaria, aveva ritenuto possibile una ricostruzione del danno da ritardo inteso come danno conseguente alla violazione dell’interesse procedimentale al rispetto dei tempi posti dall’ordinamento, ed aveva affermato che la violazione del dovere di correttezza, che nel caso di specie si era configurata nella violazione dei termini del procedimento, potesse generare una lesione che, in ragione di quella che è la natura della violazione e della responsabilità che ne consegue, “sembra ascrivibile a una responsabilità precontrattuale, regolata e riconosciuta nel diritto comune anche al di fuori dello stretto ambito della trattativa precotrattuale, cui originariamente era riferita”38, si ritiene opportuno soffermare velocemente l’attenzione su quelle che sono le tradizionali impostazioni dottrinarie in relazione alla natura, contrattuale, precontrattuale, da contatto o extracontrattuale della responsabilità della pubblica Amministrazione39 e quali siano le implicazioni pratiche di tali inquadramenti40, in modo da 38 R. CHIEPPA, Commento a Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 7 marzo 2005, n. 875, in Osservatorio, lexfor, 2005. Sul punto cfr. anche O. FORLENZA, Il coinvolgimento di interessi legittimi esclude la competenza dei giudici ordinari, in Guida al Diritto, 2005, pg. 88. 39 Sul punto cfr.: L. GAROFALO, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 1, 2005, pg. 1 e ss., il quale sostiene proprio l’importanza di costruire un modello autonomo di responsabilità dell’amministrazione; a tale fine l’Autore ricostruisce i vari modelli di responsabilità applicati dalla dottrina all’amministrazione, evidenziando l’impossibilità di rifarsi ad essi (in ragione della “inattualità” del modello della responsabilità extracontrattuale, la “impraticabilità” del modello della responsabilità contrattuale e la “inammissibilità” dei “modelli misti e impuri di responsabilità civile”) in ragione del fatto che il campo della responsabilità dell’amministrazione “è infatti retto da paradigmi propri, che si rinvengono negli artt. 35, comma 1, del d. lgs. n. 80 del 1998 e 7, comma 3, della l. n. 1034 del 1971 e che fungono da cardini di un nuovo microsistema, che va pazientemente ricostruito, attingendo anche al diritto dei privati e alla riflessione che da millenni ne accompagna e promuove lo sviluppo”. 40 Sul punto cfr.: C. CASTRONOVO, Responsabilità civile per la pubblica amministrazione, in Jus, 1999, pg. 666 e ss., il quale sostiene che responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale hanno presupposti e discipline diversi; e che, pertanto, l’inquadramento 53 comprendere se debba ritenersi risarcibile solo il danno causato dal provvedimento o se, ed in che limiti, possa essere riconosciuto anche il danno determinato dalla violazione dell’interesse al rispetto delle regole procedimentali, indipendentemente dalla spettanza del bene. A. La teoria della responsabilità da contatto amministrativo qualificato41 parte dal presupposto che l'amministrazione non si trova, rispetto al privato, leso nel suo interesse legittimo, in una posizione qualsiasi, ma assume un ruolo particolare in quanto a seguito del contatto che si instaura tra l'amministrazione e il privato nel corso del procedimento amministrativo sorge se non un vero e proprio rapporto obbligatorio, “un rapporto di fatto senza obbligo primario di prestazione”42. Tale teoria si incentra sul fatto che nel corso del procedimento amministrativo, in ragione della partecipazione del privato al procedimento, si instaura un contatto tra il privato e la pubblica Amministrazione; l'obbligazione risarcitoria viene, pertanto, collegata alla violazione di quei particolari obblighi procedimentali, il cui rispetto è funzionale alla garanzia della responsabilità dell’amministrazione nell’una o nell’akltra figura ha conseguenze diverse. 41 Cfr. C. CASTRONOVO, Responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Jus, 1998, pg. 653 e ss.; ID., Le sezioni Unite tra nuovo e vecchio diritto pubblico dall'interesse legittimo alle obbligazioni senza prestazione, in Europa e dir. prov., 1999, pg. 1241; ID., L'obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di L. Mengoni, Milano, 1997, pg. 177 e ss.; M. PROTTO, Responsabilità della p.a. per lesione di interessi legittimi: alla ricerca del bene perduto, in Urb. e app., 2000, pg. 1005; ID., La responsabilità dell'amministrazione per la lesione di (meri) interessi legittimi: aspettando la Consulta, in Resp. civ. prev., 1998, pg. 969 e ss.; ID., La natura della responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, in www.lexfor.it; D. VAIANO, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, pg. 270; S. GIACCHETTI, La responsabilità patrimoniale dell'amministrazione nel quadro del superamento della dialettica diritti soggettivi interessi legittimi, in Cons. Stato, 2000, II, pg. 2037; L. MONTESANO, I giudizi sulla responsabilità per danni e sulle illegittimità della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2001, pg. 592 e ss.; S. CATTANEO, Responsabilità per «contatto» e risarcimento per lesione di interessi legittimi, nota a T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 17 maggio 2001, n. 1761, in Urb. app., 2001, pg. 1226; G. MICARI, La pregiudiziale amministrativa, il Tar Marche. Riflessioni sulla Drittwirkung, sulla responsabilità della pubblica amministrazione per atto lecito, sul contatto sociale qualificato, in Giur. Merito, 2004, 11, pg. 2324 e ss.; S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004. 42 R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg. 695. 54 dell'affidamento del privato sulla legittimità dell'azione amministrativa: e ciò comporta che essa venga svincolata dal giudizio sulla spettanza del bene della vita o della sua probabilità di conseguirlo43. Il grande vantaggio della tesi della responsabilità da contatto amministrativo qualificato è sicuramente quello di aver evidenziato fattispecie di responsabilità della P.A. non direttamente collegate all'accertamento della spettanza del bene della vita, ma nel considerare tali ipotesi di responsabilità della pubblica Amministrazione non si può negare che, seppure è corretto affermare che nell'ambito del procedimento pubblica Amministrazione e privato vengono spesso in contatto fra loro, e che da questo contatto possa nascere un rapporto, con degli obblighi reciproci, l’emergere di tale rapporto obbligatorio è eventuale, posto che in molti casi la relazione tra privato e pubblica Amministrazione si manifesta solo dopo l'adozione del provvedimento (si pensi ai casi in cui vi sia un provvedimento ad iniziativa d’ufficio ed in relazione al quale non sia stata data comunicazione di avvio del procedimento, ovvero in tutti quei casi in cui l'amministrazione abbia violato l'obbligo procedimentale impedendo il contatto con il cittadino), e, quindi, non sorge alcun rapporto obbligatorio “procedimentale”44. 43 A tale proposito è stato, però, evidenziato come possa sembrare quasi che “l'inquadramento sistematico in tale categoria dipenda non tanto dalle caratteristiche obiettive delle fattispecie, ma dall'esigenza di risolvere, in senso favorevole al danneggiato, i problemi della colpa della P.A. e dell'onere di provarla e della difficoltà di accertamento della spettanza del bene della vita in tutte le ipotesi di attività caratterizzata da margini di discrezionalità amministrativa”, R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg. 696-697. 44 Sul punto cfr.: F.G. SCOCA, Per un’amministrazione responsabile, in commento a Cass.Sez.Un., 22 luglio 1999, n. 500, in Giurisprudenza cost., III, 1999, pg. 4045 e ss., il quale evidenzia l’impossibilità di “costruire sul procedimento un rapporto obbligatorio, nel senso pregnante della locuzione” in ragione anche del carattere unilaterale e discrezionale della decisione, ma sottolinea anche l’esistenza di un rapporto tra Amministrazione e privato che è assai più ricco di contenuti del rapporto che intercorre nella fase precontrattuale tra due soggetti privati, in quanto l’amministrazione è “tenuta non solo a comportarsi secondo buona fede ma anche a conformarsi ai principi di economicità, di efficacia, di pubblicità e di non aggravamento” per cui non sembra all’Autore “che sia possibile negare che tra 55 B. La responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione45, invece, viene riconosciuta in quei casi in cui il privato non sia direttamente leso da un provvedimento illegittimo adottato dall'amministrazione, ma dal comportamento della pubblica amministrazione, che aveva dapprima in lui generato, e poi violato, un affidamento; ciò che rileva ai fini della l’amministrazione e il privato, uniti nel (o dal) procedimento, si instauri un vero e proprio rapporto giuridico”. Circa il verificarsi di ipotesi in cui, proprio in ragione del comportamento dell’Amministrazione, non può sorgere alcun rapporto obbligatorio “procedimentale” perché la stessa Amministrazione ha impedito il contatto con il cittadino cfr.: L. GAROFALO, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 1, 2005, pg. 20 e ss., ed in particolare pg. 33, che evidenzia come “lo schema dell’obbligazione senza prestazione, di per sé invocabile solo in presenza di un contatto tra il privato e l’amministrazione, è inapplicabile in una serie non marginale di casi in cui la sfera giuridica appare vulnerata da una condotta del soggetto pubblico non rispettosa dei doveri, procedimentali e non, sanciti – in via diretta o mediata – dalle norme che specificamente la riguardano” riferendosi specificamente a quei “casi in cui il contatto … sia stato rifiutato proprio dall’amministrazione, che, per esempio, abbia omesso di comunicare all’interessato l’avviso di avvio di un procedimento poi coltivato sino all’emanazione del provvedimento al contenuto lesivo”; l’Autore sottolinea come per tali casi “bisognerebbe allora elaborare soluzioni teoriche alternative che rendano comunque fruibile il modello della responsabilità contrattuale onde garantire il rispetto di quel principio dell’unità del diritto che preclude di assoggettare a regimi diversificati fattispecie che l’ordinamento non differenzia”. 45 Sulla responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione cfr.: R. GAROFOLI, G. RACCA, M. DE PALMA, Responsabilità della pubblica amministrazione e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, pg. 171 e ss.; G.P. CIRILLO, Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio, Padova, 2001, pg. 168; F. CINTIOLI, Dalla “sindrome dello sceriffo” e del risarcimento dell’interesse legittimo: luci e ombre della recente giurisprudenza, in Diritto e formazione, 2003, pg. 888 e ss; in generale sulla responsabilità precontrattuale F. BENATTI, Brevi note sulla responsabilità precontrattuale della p.a., in Foro pad., 1962, I, pg. 1357; F. CARINGELLA, Responsabilità precontrattuale della p.a. a cavallo tra schemi privatistici e moduli procedimentali, in Corr. giur., 1996, pg. 294 e ss.; M.S. GIANNINI, La responsabilità precontrattuale dell'amministrazione pubblica, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, Milano, 1963, III, pg. 263 e ss.; G. LEONE, Osservazioni sulla responsabilità precontrattuale della p.a. con particolare riguardo alla trattative scolte senza autorizzazione, in Giur. it., 1977, IV, 123 ss.; A.M. MUSY, Responsabilità precontrattuale, in Dig. disc. priv., Torino, 1995; M. NIGRO, L'amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato: a proposito di condizioni legali, in Foro it., 1961, I; pg. 457 e ss.; V. NOCCO, La responsabilità precontrattuale in particolare quella della p.a., in Nuova rass., 1991, 1494 ss.; G. PALMIERI, Nota minima in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, in Rass. avv. St., 1983, I, pg. 864 e ss.; G.M. RACCA, La responsabilità precontrattuale della p.a., Napoli, 2000; M.A. RUSSO, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: inquadramento e problematiche risarcitorie, in www.lexfor.it; G. STOLFI, Sulla culpa «in contrahendo» dell'amministrazione pubblica, in Riv. dir. comm., 1975, II; pg. 22; M. VIALE, In tema di responsabilità precontrattuale della p.a., in Riv. dir. comm., 1983, II; pg. 240 e ss.; L. VACCARELLA, Atti prodromici alla conclusione del contratto e profili die responsabilità della pubblica amministrazione, in Riv. trim. app., 1990, pg. 790 e ss.; F. CORTESE, Ancora sulla responsabilità precontrattuale della p.a.: prove tecniche di giudizio ed ipotesi ricostruttive, in Dir. proc. amm. 2004, 2, pg. 544 e ss. 56 configurabilità di un danno risarcibile è proprio la violazione dell'affidamento generato dalla pubblica Amministrazione con i propri comportamenti o con i propri atti. La differenza principale tra la teoria della responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione e quella della responsabilità da contatto consiste nel fatto che in quest’ultima viene tutelato l’affidamento suscitato dallo status della pubblica Amministrazione, da cui ci si aspetta il rispetto degli obblighi procedimentali, gravanti su di essa, mentre nella responsabilità precontrattuale viene tutelato uno specifico affidamento, generato da un precedente comportamento, positivo o negativo, della pubblica Amministrazione46. 46 In materia di responsabilità da lesione del legittimo affidamento cfr.: F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico: il caso della «alternanza», in Riv. dir. civ., 2001, I, pg. 561 e ss.; R. CARANTA, La «comunitarizzazione» del diritto amministrativo: il caso della tutela dell’affidamento (Nota a Tribunal administratif [Francia] Strasburgo, 8 dicembre 1994, Entreprise Freymuth c. Ministre Environnement e Queen’s Bench Division [Gran Bretagna], 3 novembre 1994, R. c. Ministry Agriculture), in Foro it., 1996; F. CARINGELLA, Risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo: buona fede amministrativa e affidamento del privato (Nota a T. Voghera, 11 gennaio 1996, Ecolombardia c. Com. Pizzale), in Foro it., 1996; a cura di L. GAROFALO, Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (Padova – Venezia – Treviso, 14-15-16 giugno 2001), I-IV, Padova, 2003; F. MANGANARO, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli 1995; G. GRECO, Sovvenzioni e tutela dell’affidamento, testo rivisto della Relazione presentata al X Colloquio italo-tedesco di diritto pubblico, tenutosi a Firenze dal 27 al 29 maggio 1999; F. CAPELLI La tutela del legittimo affidamento tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. com. scambi int., 1989, pg. 97 e ss. Storicamente contrari all’applicabilità dei principi del legittimo affidamento al diritto amministrativo cfr.: M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano, 1939, pg. 373, il quale esclude la buona fede dall’interpretazione e dall’integrazione dell’atto amministrativo, in quanto la ritiene legata all’equivalenza delle parti tra le quali essa ha una delicata funzione regolatrice del “gioco degli interessi contrapposti”; parimenti GUICCIARDI, Recensione a Schmitt K. H., in Arch. Dir. pubbl., 1936, pg. 561 e ss.; hanno invece espresso parere a favore dell’applicabilità di tale principio al diritto amministrativo invece l’ALLEGRETTI, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, pg. 274 e ss., secondo il quale il principio di buona fede dimensiona i rapporti di collaborazione fra amministratori e amministrati, e non è incompatibile con il valore che ha per l’amministrazione l’interesse pubblico, ma anzi la buona fede e l’affidamento (buona fede determinata dall’apparenza) operano tanto più fortemente nei riguardi dei soggetti imparziali, e valgono anche innanzi alla legge, legandosi alla fiducia del cittadino nella sua stabilità e certezza, ed anche F. BENVENUTI, L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1961, pg. 151, il quale collega la buona fede all’imparzialità della parte. 57 Anche la responsabilità precontrattuale comporta una risarcibilità del danno causato dalla violazione del legittimo affidamento anche a prescindere dall'accertamento della spettanza del bene della vita o addirittura in caso di accertamento della non spettanza di tale bene, e probabilmente per tale ragione la Sezione Quarta del Consiglio di Stato aveva ritenuto di affermare la risarcibilità del danno da mero ritardo come ascrivibile a una ipotesi di responsabilità precontrattuale, proprio perché in genere la natura precontrattuale della responsabilità viene richiamata per le fattispecie di danno da scorrettezza della pubblica Amministrazione, non direttamente collegata ad un provvedimento negativo da impugnare. C. L’ultimo inquadramento dottrinario della responsabilità della pubblica Amministrazione è quello all'interno della responsabilità extracontrattuale, in base al quale la pubblica amministrazione, quando, nell'adottare un determinato provvedimento illegittimo o nel comportarsi in violazione delle regole di correttezza, cagiona un danno al cittadino, commette un illecito da risarcire secondo gli ordinari schemi dell'illecito aquiliano. La logica della responsabilità extracontrattuale della pubblica Amministrazione si fonda sulla dimostrazione dell’esistenza nei singoli casi specifici dei presupposti dell’illecito, ovvero nell’identificazione, caso per caso, del fatto giuridico lesivo imputabile ad un soggetto, dell’esistenza di un danno (inteso sia come danno “ingiusto”, ovvero come lesione di un valore tutelato dall'ordinamento47, sia come una “deminutio” del patrimonio 47 Circa la qualificazione del danno come “ingiusto” cfr.: L. GAROFALO, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 1, 2005, pg. 43-44, il quale opera una distinzione relativamente al danno risarcibile, in quanto ritiene che da una lettura attenta dell’art. 7 della legge TAR e dell’art. 35 del d. lgs. 80 del 1998 si possa ricavare una differenziazione nella qualificazione del danno a seconda che si tratti di giurisdizione generale di legittimità o di giurisdiziona esclusiva. L’Autore ritiene, infatti, che l’art. 7, comma terzo, della legge TAR nell’attribuire “al giudice amministrativo la competenza, suscettibile di esplicarsi ‘nell’ambito della sua giurisdizione’, a pronunciarsi ‘anche’ sulle domande relative sia ‘all’eventuale risarcimento del danno’ …sia ‘agli altri 58 giuridico di un soggetto), del profilo soggettivo della responsabilità, ovvero del dolo o della colpa, e infine dell’esistenza di un nesso causale tra il fatto, doloso o colposo, che è stato posto in essere ed il danno conseguente. Un siffatto inquadramento della responsabilità della pubblica Amministrazione permette di tutelare anche l’affidamento che il privato ha fatto sugli atti o sui comportamenti della pubblica Amministrazione, intendendo tale affidamento non come qualsiasi mera aspettativa del privato, ma limitandolo alle situazioni suscettive di determinare un oggettivo affidamento. 6. L’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Alla base della risarcibilità del danno da ritardo è il precetto contenuto nell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 che contiene la previsione espressa di un termine generale per l’azione amministrativa48. La previsione di siffatto termine assume importanza fondamentale perché mentre prima del 1990 si poteva diritti patrimoniali consequenziali’” volesse evocare “unicamente la giurisdizione generale di legittimità”, posto che tale danno è “ingiusto per definizione” in quanto necessariamente si collega alla lesione di un interesse legittimo, ovvero ad una situazione giuridica soggettiva “aprioristicamente assunta dall’ordinamento come meritevole di protezione”; differentemente accade, invece, per le ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle quali se non vi fosse l’integrazione del vocabolo ‘danno’ con l’aggettivo ‘ingiusto’ “il giudice amministrativo … sarebbe tenuto ad accordare il risarcimento di ogni danno: e quindi non solo del danno derivante dalla lesione di un interesse meritevole di protezione alla stregua degli indici normativi offerti dall’ordinamento, che assurga o meno alla dignità di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma anche del danno conseguente alla violazione di un interesse assolutamente privo di una qualunque rilevanza giuridica”. 48 Sul punto cfr.: M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995; M: LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo certezza dei rapporti, interesse pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, pg. 293 e ss.; C: TALICE, Termine (dir. amm.), in Enc. dir., Milano, 1992, XLIV, pg. 221 e ss.; S. S. SCOCA, Il termine come garanzia nel procedimento amministrativo, in www.giustamm.it, 2005; M. CORRADINO, Termini, efficacia dei provvedimenti e silenzio dell’Amministrazione nelle “riforme” della legge n. 241/1990 (legge 11 febbraio 2005, n. 15 e legge del 14 maggio 2005, n. 80), in www.giustamm.it, 2005; M. SGROI, I tempi del procedimento, in Legge 7 agosto 1990, n. 241 e ordinamenti regionali, a cura di G. PASTORI, Padova, 1995, pg. 51 e ss.; M.T. ONORATO, Considerazioni sul termine di conclusione del procedimento amministrativoI, in TAR, 1998, II, pg. 221 e ss.; P.G. LIGNANI, I tempi del procedimento amministrativo, in AA.VV., Napoli, 1991, pg. 33 e ss.; S. BRUCOLI, I termini del procedimento amministrativo, in Riv. pers. Ente locale, 1994, pg. 845; P. CARNEVALE, Il termine del procedimento amministrativo, in Nuova rass., 1991, pg. 1127 e ss.; A. TRUINI, Il termine per l’adozione dei provvedimenti (art. 16 legge 861/1990 e 2 legge n. 241/1990), in Nuova Ras., 1997, pg. 2097 e ss.; F. GOISIS, La violazione dei termini previsti dall’art. 2 legge n. 241 del 1990: conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis legge TAR, in Dir. proc. amm., 2004, pg. 571 e ss.; G. GRECO, L’articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Dir. proc. amm., 2002, pg. 119 e ss. 59 ammettere una certa libertà delle Amministrazioni nelle tempistiche di esecuzione della propria attività, in quanto non sussisteva alcuna disciplina generale del tempo procedimentale, e, come precisato da Giannini, “la regola è [era] nel senso della libera durata del procedimento o delle singole fasi di esso49”, attualmente tale “libertà di azione” non è più ammissibile, posto che, in base a quanto sancito dalla richiamata norma, ogni procedimento, d’istanza o d’ufficio, deve trovare la propria conclusione in un provvedimento espresso (anche quello di archiviazione), che dovrà essere emanato nel termine disposto dall’Amministrazione procedente o, ove tale determinazione manchi, in via sussidiaria, nel termine sancito dallo stesso art. 2. L’art. 2 della l. 241/1990, infatti, sancisce non solo il dovere di concludere ogni procedimento con un provvedimento espresso, ma anche il dovere di ogni pubblica Amministrazione di predeterminare la durata dei singoli procedimenti e di rendere pubbliche le determinazioni sulla durata di ciascun procedimento. Viene così sancito un obbligo a carico delle pubbliche Amministrazioni, che sono le dirette destinatarie di tale disposizione, ma viene altresì rafforzata la posizione giuridica soggettiva del singolo, che non si trova più a dovere subire a tempo indeterminato una situazione di incertezza relativamente al “se” ed al “quando” la pubblica Amministrazione eserciterà il proprio potere, ma potrà conoscere in tempi brevi e predeterminati quale sarà l’esito del procedimento che incide sulla sua posizione giuridica soggettiva50. E l’esistenza di un obbligo in capo alle pubbliche Amministrazioni di concludere ogni procedimento con un provvedimento espresso e di comunicare preventivamente i tempi (massimi) entro cui emanerà il suddetto provvedimento, necessariamente influenza i rapporti tra Amministrazione e privato, conferendo maggiori garanzie di tutela degli interessi e dei diritti del privato. 7. L’esigenza di certezza dei cittadini istanti. Come già sottolineato, quindi, anche se l’art. 2 della l. 241/1990 ha per destinatari le pubbliche Amministrazioni, esso 49 M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Milano, 1993, pg. 192. Sul punto cfr.: B. CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di G. SANTANIELLO, Padova, 1993, pg. 226, il quale rivolge una dura critica alla disciplina precedente che era caratterizzata da “i tempi senza tempo” dell’agire procedimentale delle pubbliche amministrazioni, e sottolinea come “la sostanziale impunità dell’amministrazione procedente, nel lasciare aperto ad infinitum un procedimento ritualmente iniziato, ha costituito una vergogna nazionale per il nostro sistema, sulla quale il moderno legislatore è opportunamente intervenuto, nel fissare un termine entro cui il procedimento deve conchiudere con l’emanazione del provvedimento finale”. 50 60 svolge parimenti la funzione (principale) di attribuire certezza alle situazioni giuridiche, a tutto vantaggio della posizione dei soggetti che si trovano ad interagire con le pubbliche Amministrazioni. La disciplina dei “tempi del procedimento” amministrativo risponde al duplice fine della tutela dei principi di efficienza e buon andamento dell’azione amministrativa, in quanto obbligando le pubbliche Amministrazioni a un’azione che sia anche tempestiva viene assicurata l’efficienza stessa dell’azione51 (in funzione, quindi, di tutela del pubblico interesse al perseguimento delle finalità per le quali è stato attribuito un determinato potere), e insieme di tutela dei principi di legittimo affidamento e di certezza del diritto, in quanto tramite tale disposizione viene accentuata la tutela dell’affidamento e dell’esigenza di certezza dei rapporti e delle situazioni giuridiche soggettive che è proprio del singolo. Nella disciplina delle situazioni pratiche l’esistenza di tale dovere a carico delle pubbliche Amministrazioni comporta in capo al privato l’esistenza di una sorta di “diritto” a che i procedimenti amministrativi, che incidono sulla sua posizione giuridica soggettiva, pervengano ad una rapida definizione, quale che sia il contenuto del provvedimento finale, posto che solo dopo che abbia avuto certezza circa la questione concreta il privato potrà valutare con coscienza e deliberare, con una piena visione della situazione reale, cosa fare e come gestire le proprie risorse, se investirle altrove o decidere altrimenti. Ne consegue che una prolungata situazione di incertezza, determinata dall’inerzia della pubblica Amministrazione, debba comunque essere sanzionata, in ragione dell’effetto pregiudizievole della posizione giuridica soggettiva del privato che essa determina, posto che si determinerebbe una illegittima e prolungata situazione di ingiustificata soggezione del singolo alla pubblica Amministrazione, in palese violazione del legittimo affidamento che costui ha posto nell’agire della pubblica Amministrazione; il semplice ritardo della pubblica Amministrazione non può essere privo di sanzione perché determina non solo una violazione dell’art. 2 della l. 241/1990 (disposizione in relazione alla violazione della quale, purtroppo, il legislatore non ha previsto apposita sanzione) ma, con essa, dei 51 Sul punto cfr. M.T. ONORATO, Considerazioni sul termine di conclusione del procedimento amministrativo, in TAR, 1998, II, pg. 221 e ss., il quale afferma che “quanto maggiore è il lasso temporale lasciato decorrere tanto più elevata è la possibilità di sopravvenienze che rendono l’intempestivo provvedimento inutiliter datum”. 61 principi di efficacia, efficienza e trasparenza del procedimento amministrativo, determinando così un sacrificio della posizione giuridica soggettiva del privato che non è proporzionato ma è irragionevolmente superiore a ciò che avrebbe potuto essere. Come già sottolineato da autorevole dottrina52, infatti, la responsabilità dell'amministrazione che non provveda, o provveda in ritardo , su un’istanza del privato sorge per l'inadempimento dell'obbligo di natura formale di provvedere entro il termine, a essa rimanendo estraneo il "dovere di natura sostanziale di emanare il provvedimento richiesto". In altri termini, il danno risarcibile deriverebbe "dal perdurare della situazione di incertezza circa il rilascio o meno del provvedimento di tipo autorizzatorio e non anche il mancato o ritardato godimento del bene della vita o dell'utilità finale"; infatti ammettendo tutela solo nel caso in cui il provvedimento emanato in ritardo abbia un effetto favorevole all’istante, si finirebbe per confondere il danno da ritardo con il danno da perdita di chance53. Il danno risarcibile nel caso di danno da ritardo, invece, si differenzia dal danno da perdita di chance, posto che non consiste nella perdita della probabilità di ottenere un provvedimento favorevole, ma è il danno conseguente all'incertezza circa l'emanazione del provvedimento ampliativi: e infatti il risarcimento del danno da ritardo trova fondamento nella violazione dell'obbligo di provvedere nel termine, in relazione al quale l'istante ha maturato un autonomo affidamento degno di tutela risarcitoria, indipendentemente da ogni sua aspettativa all'emanazione del provvedimento richiesto. 52 M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, pg. 148 e ss. 53 Come sottolineato ampiamente da D. VAIANO, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, pg. 228 e ss. sulla “perdita di chance” le opinioni in dottrina appaiono non ancora del tutto consolidate”; svariate analisi al riguardo sono state effettuate da: F.D. BUSNELLI, Perdita di chance e risarcimento del danno, in nota a App. Parigi, 6 marzo 1964, in Foro it., 1965, IV, col. 47 e ss.; ID., Lesione di interessi legittimi: dal “muro di sbarramento” alla “rete di contenimento”, in Danno e responsabilità, 1997, pg. 269 e ss.; M. BOCCHIOLA, Perdita di chance e risarcimento del danno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, pg. 55 e ss.; G. CAPPAGLI, Perdita di una chance e risarcibilità del danno per ritardo nella procedura di assunzione, nota a Cass. 19 novembre 1983, n. 6909, in Giust. civ., 1984, pg. 1841 e ss; G. ALPA, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, vol. IV, Milano, 1999, pg. 514-515, il quale osserva come “nella nostra tradizione dottrinale ha pesato in senso negativo sul punto l’opinione di Pacchioni secondo il quale la chance non avrebbe valore di mercato. …Dapprima Francesco Busneli aveva avallato questa tesi, considerando la chance un mero interesse di fatto … ora alcuni riconducono la chance al lucro cessante, altri obiettano che la certezza del danno non si potrebbe mai raggiungere e quindi non si può parlare di lucro cessante ma di danno attuale, considerando il venire meno della probabilità esistente al momento dell’accadimento dannoso …”. 62 Per valutare se l’attribuzione di una tutela al mero interesse al rispetto delle norme procedimentali sia ammissibile si potrebbe valutare quella che è la ratio in un’ottica più ampia, ovvero si potrebbe rivolgere l’attenzione a quella che è la legislazione e la giurisprudenza comunitaria relativa alla disciplina del “tempo”: al riguardo, infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi nell'applicazione dell'art. 6, pgf. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla l. 4 agosto 1955, n. 848, nel caso di irragionevole durata dei processi (ma la stessa ratio può applicarsi anche alla irragionevole durata dei procedimenti amministrativi), ha sempre ritenuto che il danno indennizzabile sia conseguenza del mero ritardo nel provvedere, senza che abbia rilievo la fondatezza della domanda azionata, e che pertanto abbia diritto all'indennizzo anche chi abbia proposto una domanda infondata, perché comunque la Convenzione tutela il diritto ad ottenere una risposta di giustizia in tempi ragionevoli. Parimenti una analoga ratio può rinvenirsi nella legge 24 marzo 2001, n. 89, sulla riparazione per l'eccessiva durata del processo, che prevede il diritto all'equa riparazione a favore di chi ha subito dal ritardo non solo un danno patrimoniale, ma anche un danno non patrimoniale (art. 2) e che rende possibile la proposizione della relativa domanda anche «durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata». Ove non si voglia accedere alla tesi per cui tali disposizioni non debbano ritenersi giustificate dalla particolare natura e dal rilievo della funzione di amministrazione della giustizia (malamente) esercitata, ma si volesse ammettere che la tutela del privato di fronte alla irragionevole durata dell’esercizio di funzioni pubbliche (amministrative o giurisdizionali) costituisce un principio generale, sarebbe inevitabile concludere che le violazioni delle norme procedimentali integrino di per se stesse una violazione causativa di danno ingiusto e, di conseguenza, che l'azione risarcitoria sia proponibile a prescindere dal contenuto del provvedimento. La tesi del principio generale della risarcibilità dell’illegittimo ritardo nella funzione (amministrativo o giurisdizionale) trova conferma nel testo dell'art. 2 della legge n. 241/1990, posto che esso sancisce un obbligo ed un dovere che fanno pensare a un esercizio vincolato, e non discrezionale, dell'attività54, di fronte al quale la pretesa del cittadino è uguale a 54 Per “esercizio vincolato, e non discrezionale, dell’attività” si intende riferirsi ad un vincolo che la pubblica Amministrazione ha di porre in essere, nei termini di legge, un provvedimento amministrativo, ovvero ci si riferisce al dovere di concludere i singoli 63 quella che egli coltiva quando propone un'azione dinanzi ai giudici dello Stato. Chiaramente si comprende come un’impostazione siffatta porterebbe ad affermare un dovere in capo alla stessa Amministrazione di risarcire il privato in tutti i casi in cui un’istanza non sia stata esaminata, nonché in quelli in cui non sia stata data risposta nei tempi di legge: e ciò potrebbe determinare l’inconveniente pratico di invogliare i cittadini a proporre una miriade di richieste infondate e defatiganti, che finirebbero per rallentare ulteriormente l’attività della nostra già affaticata (e non proprio “scattante”) Amministrazione, con un enorme aumento dell’attività amministrativa (e di conseguenza anche del contenzioso giudiziario in relazione allo svolgimento di tale attività) e con un incremento non controllabile della spesa pubblica; probabilmente la ratio della decisione n. 7/2005 dell’Adunanza Plenaria è stata proprio quella di evitare che le pubbliche Amministrazioni fossero sommerse da un numero infinito di istanze, le quali costituirebbero esse stesse, in ragione del loro numero, la ragione della lentezza dell’agire delle pubbliche Amministrazioni e comporterebbero in capo alle pubbliche Amministrazioni un notevole onere economico55, determinato dalle richieste di risarcimento del danno conseguente alla mancata o ritardata decisione delle istanze. La logica dell’Adunanza Plenaria, pur comprensibile, non è però ammissibile: la funzione amministrativa e l’esercizio del potere delle pubbliche Amministrazioni, infatti, è organizzato, oltre che nel pubblico interesse, anche nell'interesse del cittadino e, oltre che in funzione del perseguimento dell’interesse pubblico, anche, con esso, dell’interesse del privato ad esso sotteso. Si potrebbe quindi anche pensare, in un'ottica rigorosa, che il cittadino abbia diritto a dolersi del modo in cui è stato svolto e organizzato il procedimento amministrativo, ove tale attività sia stata effettuata in maniera da dargli risposta in tempi eccessivi procedimenti amministrativi con un provvedimento espresso tempestivo; non ci si riferisce, pertanto, al carattere discrezionale o vincolato dell’attività amministrativa, quanto al fatto che l’Amministrazione è vincolata a porre in essere l’attività amministrativa. 55 Sul punto cfr. F. LUBRANO, Intervento, nel corso del Convegno Situazioni giuridiche soggettive e riparto di giurisdizione dopo la sentenza 204/04 della Corte Costituzionale, Fondazione dell’Avvocatura italiana presso il Consiglio Nazionale Forense, Roma, 7 ottobre 2004, il quale ritiene che l’attribuzione del risarcimento del danno conseguente all’emanazione di un provvedimento amministrativo lesivo o ad un comportamento significativo della pubblica Amministrazione precisato nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004 costituisca un “regalo all’erario”, in ragione della scarsa propensione che il Giudice amministrativo ha nel riconoscere il risarcimento del danno a carico delle pubbliche Amministrazioni. 64 (che si risolvono di per se stessi in un danno per l’istante) e possa pretendere in tal caso un qualcosa al fine di risarcirlo del danno subito in ragione del ritardo, chiaramente ove possa dimostrare che il suddetto ritardo ha determinato in qualche modo una lesione della sua sfera patrimoniale o comunque una lesione della sua posizione giuridica soggettiva, delle sue legittime aspettative e del suo “diritto” ad una certezza del diritto e della regolamentazione delle singole situazioni giuridiche soggettive56. 8. Le ipotesi in cui lo stesso esito negativo del procedimento amministrativo dipende dal ritardo con il quale è stato emanato il provvedimento amministrativo. La decisione dell’Adunanza Plenaria non può essere accettata oltre che per ragioni di tipo giuridico, ovvero per la doverosa tutela da attribuire all’interesse al rispetto della disciplina procedimentale, anche per ragioni di tipo logico: in precedenza si è accennato al fatto che una giurisprudenza siffatta potrebbe portare all’inconveniente di invogliare le Amministrazioni “ritardatarie” a emettere provvedimenti negativi, nella consapevolezza che in tale modo si potrebbero “salvare” da dovere risarcire il soggetto istante del danno causatogli mediante il ritardo, proprio perché il riconoscimento del suddetto risarcimento sarebbe subordinato alla previa impugnazione (ed annullamento) del provvedimento stesso. A ciò si aggiunge che l’inammissibilità di quanto sancito dalla decisione dell’Adunanza Plenaria discende anche dal fatto che anche ove si volesse applicare la logica rigorosa del riconoscimento del danno da ritardo nelle sole ipotesi in cui il provvedimento emanato in ritardo produca un effetto favorevole in capo all’istante, e, quindi, si volesse negare la risarcibilità dell’interesse al rispetto delle regole procedimentali, si finirebbe per lasciare prive di tutela delle ipotesi in cui un danno, ulteriore rispetto a quello configurato dall’aver lasciato un soggetto in una perdurante situazione di incertezza, è stato indubbiamente causato proprio dalla lentezza della pubblica Amministrazione. Alcuni esempi potranno chiarire meglio la sussistenza e l’entità di questo danno 56 Sul punto cfr. G. VERDE, La pregiudizialità dell'annullamento nel processo amministrativo per risarcimento del danno, in Dir. proc. amm., 2003, pg. 963 e ss., il quale, invece, ritiene che “un'azione risarcitoria potrà essere proposta, nel caso di violazione del procedimento, solamente quando si ottenga la previa tutela demolitoria dell'atto” perché “il cittadino può dolersi per il modo in cui è stato gestito il procedimento solamente se la violazione procedimentale si sia tradotta in una lesione della sua sfera patrimoniale” e, pertanto l’Autore afferma che non sia sufficiente a tal fine “a concretare un danno risarcibile la situazione di incertezza ingiustamente prolungata dall'amministrazione, come ritiene Clarich” (in Termine del procedimento e potere amministrativo, op. cit.). 65 ulteriore, scollegato dalla spettanza del bene ed ulteriore rispetto al danno da incertezza del provvedimento. A. Una ipotesi siffatta si potrebbe avere, ad esempio, ove un soggetto avesse presentato un’istanza di concessione edilizia alla quale per lungo tempo non sia stata data risposta dall’Amministrazione e in relazione alla quale, dopo una lunga inerzia, sia stato emanato un provvedimento negativo: ove in relazione a una fattispecie simile si volesse seguire la logica dell’Adunanza Plenaria, si dovrebbe negare la risarcibilità del danno da ritardo ma, a parte i rilievi già svolti in relazione alla necessaria risarcibilità dell’interesse al rispetto delle norme procedimentali, in un caso come quello in esame ciò potrebbe comportare una ingiusta lesione della posizione giuridica soggettiva del soggetto istante, la cui soddisfazione sia stata resa impossibile proprio a causa del comportamento dell’Amministrazione e cui non sia concesso nemmeno il risarcimento per equivalente. La richiesta, infatti, potrebbe essere stata negata proprio in ragione, e per l’effetto, del ritardo dell’Amministrazione nella pronuncia: si pensi all’ipotesi in cui l’originaria istanza avrebbe potuto essere accolta nel momento in cui era stata proposta ma nelle more della decisione della stessa sia cambiato il piano regolatore per cui la zona interessata dal progetto per il quale era stata presentata l’istanza sia divenuta da residenziale a “standard”, mentre se la decisione circa l’istanza fosse stata emanata nei termini di legge si sarebbe applicato il vecchio piano regolatore (e, di conseguenza, l’istanza sarebbe stata accolta). E’ evidente come in un’ipotesi siffatta lo stesso provvedimento negativo debba trovare la sua ragione d’essere nel decorso del tempo, e, pertanto, l’inerzia dell’Amministrazione abbia determinato un duplice danno al soggetto istante, posto che all’impedimento di realizzare la propria posizione giuridica soggettiva edificando sul suolo di propria proprietà si sia aggiunto quello del diniego dello stesso danno determinato dal ritardo della pubblica Amministrazione, anche ove sia indiscutibile che tale danno sussiste. Il privato istante, in un’ipotesi come quella appena delineata, sarebbe irrimediabilmente leso dall’agire illegittimo della pubblica Amministrazione e verrebbe, ove la decisione dell’Adunanza Plenaria trovi seguito, ad essere privato anche della possibilità di ottenere ristoro in sede giurisdizionale. Un giudizio impugnatorio, infatti, non avrebbe ragione d’essere, posto che il provvedimento negativo nel momento in cui è stato 66 emanato è perfettamente legittimo e pienamente rispondente alla disciplina in materia: l’unica forma di tutela che rimarrebbe al privato che, in perfetta buona fede, in quanto proprietario di un suolo edificatorio in base a quanto disposto dal piano regolatore, abbia investito risorse, economiche e non, nella progettazione, confidando nel fatto che, sussistendo tutti i presupposti necessari per la concessione edilizia, la stessa sarebbe stata concessa in breve tempo dall’Amministrazione, ovvero il risarcimento del danno da ritardo (vale a dire del danno causato al privato istante direttamente dal comportamento colpevole 57 dell’Amministrazione), verrebbe meno . L’applicazione delle limitazioni al danno da ritardo previste dall’Adunanza Plenaria potrebbe avere, pertanto, di per sé effetti pregiudizievoli della posizione del privato sia ove questi abbia a che fare con un’Amministrazione sostanzialmente corretta e soltanto “ritardataria”, sia, e ciò potrebbe creare una situazione ancora maggiormente di svantaggio per il privato, ove l’Amministrazione ritardasse i tempi dello svolgimento procedurale al solo scopo di avere concretamente la possibilità di variare lo strumento urbanistico (o in genere i presupposti dell’emanando provvedimento), potendo così nella pratica negare un provvedimento favorevole a un soggetto cui tale provvedimento al momento in cui è stato richiesto spettava, o subordinarne la concessione a determinate condizioni (mancando il soddisfacimento delle quali l’Amministrazione avrebbe ulteriormente differito la emanazione del richiesto provvedimento), posto che tanto il privato non avrebbe alcun modo di difendersi di fronte a siffatto comportamento dell’Amministrazione. La concessione del danno da ritardo viene subordinata alla sussistenza di condizioni irragionevoli e inique dall’Adunanza Plenaria, che sicuramente spinta dal fine di evitare l’automatica attribuzione di un danno a tutti coloro che intasino l’attività delle pubbliche Amministrazioni con le proprie istanze, sembra dimenticare l’importanza che assume il “tempo” nella regolazione dei rapporti, e, pur in presenza di una disciplina chiara del dovere delle pubbliche Amministrazioni di concludere i procedimenti con un provvedimento espresso che venga tempestivamente 57 In realtà il privato istante ha un’altra chance di azione in quanto nelle more del procedimento potrebbe impugnare il silenzio della pubblica Amministrazione; l’esistenza di una possibilità siffatta, però, non esclude la lesione causata dall’impossibilità di essere risarciti per il ritardo nell’agire della pubblica Amministrazione, ove non risulti dimostrata anche la spettanza del bene. 67 emanato, e pur deliberando in un momento storico nel quale vale il “principio” secondo cui “il tempo è denaro”, priva di qualunque valore l’interesse del soggetto in posizione di soggezione rispetto all’Amministrazione ad avere da questa un provvedimento espresso e tempestivo. Ove la logica dell’Adunanza Plenaria sia stata proprio quella di evitare ad un’Amministrazione oberata da una serie di istanze meramente dilatorie di dover pagare per non essere riuscita a pronunciarsi nei tempi su tutte, allora sarebbe stato più logico prevedere l’imposizione di una “tassa procedimentale”, la cui istituzione serva proprio a evitare la proposizione di troppe istanze dilatorie ed a snellire l’operato delle pubbliche Amministrazioni. B. L’ipotesi appena esaminata fa riferimento a un mutamento dei presupposti di diritto nel corso del procedimento amministrativo, ma la lentezza dell’agire della pubblica Amministrazione potrebbe determinare anche un mutamento dei presupposti di fatto, relativamente al quale dimostrare l’illegittimità del provvedimento tardivo sopravvenuto e ottenere anche il conseguente risarcimento del danno appare essere molto più difficoltoso. Si pensi all’ipotesi di un’istanza rivolta ad una pubblica Amministrazione l’accoglimento della quale sia subordinata al fatto che il richiedente non abbia ancora raggiunto un certo limite di età. Nel caso di specie si potrebbe verificare una situazione per la quale l’Amministrazione coinvolta, in buona o cattiva fede (ovvero semplicemente a causa di una propria inefficienza oppure proprio al fine di non emanare il richiesto provvedimento), potrebbe impiegare tempi procedimentali così lunghi che il presupposto di fatto, ovvero l’essere di età inferiore a un quantum prestabilito (ad esempio i 65 anni solitamente considerati per l’età pensionabile), venga a mutare; in pratica un soggetto che abbia legittimamente inoltrato un’istanza a una Amministrazione si vedrà legittimamente rigettata la suddetta istanza proprio perché l’Amministrazione, anziché pronunciarsi nei tempi prestabiliti, si è pronunciata in ritardo. In tale ipotesi il richiedente si troverebbe dinanzi ad un provvedimento sicuramente legittimo nel momento in cui è stato emanato e nei confronti del quale, pertanto, non dispone di alcuno strumento, tale provvedimento, però, ha un contenuto negativo per l’istante, mentre ove l’Amministrazione avesse emanato il provvedimento nei tempi di legge il contenuto sarebbe stato differente. 68 Si pensi a un’ipotesi di istanza di modifica del rapporto di impiego di un militare il cui presupposto di accoglimento sia semplicemente il fatto che il richiedente appartenga a una categoria in servizio e non a una in “congedo permanente”: è evidente che tale istanza ha l’astratta possibilità di essere accolta solo ove essa venga esaminata mentre il soggetto è ancora in servizio, mentre nel momento in cui costui, per il raggiungimento dei limiti di età pensionabile, passi in congedo permanente, verrebbe a mancare proprio la possibilità di accogliere la suddetta istanza che necessariamente dovrebbe avere un contenuto negativo. Nel caso di specie sarà proprio il ritardo dell’Amministrazione ad avere costituito la causa di siffatto diniego, in quanto la pronuncia sull’istanza è arrivata in seguito al cambiamento dei presupposti di fatto necessari per un eventuale accoglimento, ma, seguendo la logica dell’Adunanza Plenaria, il privato dovrebbe limitarsi a subire gli effetti pregiudizievoli di siffatto provvedimento, senza potere alcunché pretendere. 9. Conclusioni. Chiarito, quindi, che la soluzione prescelta dalla Corte non è condivisibile, in ragione di tutte le problematiche sopra evidenziate che andrebbe a determinare, si potrebbe ipotizzare una soluzione alternativa, che contemperi le due esigenze contrapposte, quella di non lasciare privo di tutela il soggetto che sia stato leso dall’agire procedimentale della pubblica Amministrazione ed insieme quella di non ampliare eccessivamente ed in modo illimitato la risarcibilità del danno, estendendole al ritardo nella conclusione di procedimenti instaurati su domande meramente pretestuose o defatigatorie. Il rispetto degli obblighi procedimentali è funzionale alla garanzia dell'affidamento del privato sulla legittimità dell'azione amministrativa, e la stessa affermazione di una responsabilità da contatto in capo alla pubblica Amministrazione non è altro se non un tentativo di definire in modo diverso gli obblighi derivanti dal giusto procedimento amministrativo, ovvero affermare la sussistenza di una responsabilità della pubblica Amministrazione in relazione alle modalità in cui si è svolta la sua attività procedimentale; in sostanza ove una pubblica Amministrazione avesse agito in violazione delle norme procedimentali avrebbe causato un 69 pregiudizio al destinatario del provvedimento, pregiudizio del quale sarebbe responsabile. Tale affermazione, capovolta, può essere tradotta affermando che debba essere ritenuta responsabile quella Amministrazione che abbia violato gli obblighi che derivano dal contatto instauratosi tra Amministrazione stessa e privato nel corso del procedimento. In pratica responsabilità da contatto e obblighi derivanti dal principio del giusto procedimento altro non sono che due facce della stessa medaglia, posto che entrambe servono a configurare una responsabilità della pubblica Amministrazione per il proprio comportamento in violazione delle norme procedimentali, e la tesi della responsabilità da contatto è volta proprio al fine di “far sorgere, quasi in via automatica, una pretesa risarcitoria in capo al privato per la mera violazione di regole procedimentali, prescindendo dalla sorte del provvedimento conclusivo del procedimento e quindi dalla spettanza dell'utilità, che il privato tende a conservare o a conseguire”58. L’unico inconveniente di una impostazione siffatta, ovvero di una quasi automatica configurazione della responsabilità della p.A. per la lesione delle norme procedimentali (che, invece, per il resto si ritiene sostanzialmente corretta), è che così agendo si rischierebbe “di aprire la strada alla tutela risarcitoria, prescindendo non solo dall'elemento della colpa, ma dallo stesso danno con un automatismo che finisce per dare maggiore importanza alle pretese partecipative, piuttosto che agli interessi 58 R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno dalle fattispecie di responsabilità della pubblica Amministrazione alla natura della responsabilità per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività amministrativa, in Dir. proc. amm., 2003, pg. 702; il quale a sua volta richiama E. CASETTA – F. FRACCHIA, Responsabilità da contatto: profili problematici, in Foro it., 2002, III, pg. 18 e ss., i quali si chiedevano come la violazione di norme procedimentali potesse automaticamente fare sorgere una pretesa risarcitoria in capo al privato, lasciando così in ombra la sorte del provvedimento conclusivo del procedimento. 70 sostanziali”59, anche se, come verrà spiegato meglio in seguito, la riconoscibilità in astratto della risarcibilità di un danno cagionato al privato e non collegato alla valutazione della spettanza del bene della vita è cosa ben diversa dal riconoscimento automatico di tale danno. La decisione dell’Adunanza Plenaria sembra proprio volta ad evitare questo in un certo senso eccessivo dilagare della tutela risarcitoria, il che non è un atteggiamento sbagliato, ma quelle che sono errate sono le modalità utilizzate dal Consiglio di Stato per arginare il proliferare di danni risarcibili: ciò che andrebbe negato, infatti, non è la possibilità in astratto che il privato subisca un danno, non collegato al c.d. bene della vita, ma che tale danno possa essere riconosciuto in via automatica, o quasi, senza una rigorosa valutazione del danno stesso e del suo rapporto di causalità con la regola procedimentale violata60. 59 R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg. 702, il quale a sua volta ricorda come tale rischio sia stato evidenziato in precedenza da M. OCCHIENA, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano, 2002, pg. 415 e ss. Parimenti preoccupazioni relativamente ad una automatizzazione del riconoscimento del risarcimento del danno sono espresse da O. FORLENZA, Il coinvolgimento di interessi legittimi esclude la competenza dei giudici ordinari, op. cit., pg. 90, il quale ritiene che non sia “configurabile nel nostro ordinamento” una figura di danno risarcibile per lesione di interesse procedimentale sia “per le ragioni espresse dall’Adunanza plenaria, che richiama l’inattuato articolo 17 della legge 59/1997”, sia perché creando una figura siffatta di danno risarcibile “in mancanza di espressa previsione legislativa, si consentirebbe il risarcimento del danno per un inadempimento meramente formale, in assenza di qualunque verifica della sussistenza della fondatezza della posizione sostanziale lesa. Verrebbe in tal modo meno non solo la centralità dell’individuazione della posizione sostanziale, ai fini della ricostruzione dell’articolo 2043 del c.c., già superata dalla Cassazione con la nota sentenza 500/1999, ma anche lo stesso criterio di collegamento con la posizione sostanziale, che quella sentenza riteneva pure necessario. In altre parole, se si prescinde dalla sussistenza (o meno) dell’interesse legittimo pretensivo, si finisce o per porre a carico dell’amministrazione un indennizzo che ha sapore di sanzione pecuniaria per violazione di norma di condotta in sé considerata (non a caso l’articolo 17 della legge 59/1997 risolveva il problema della quantificazione demandando al legislatore l’indicazione di una cifra forfettizzata), ovvero si costruisce una inedita figura di interesse legittimo, elevando a figura sostanziale autonoma l’interesse procedimentale”. 60 Circa i rischi di un generalizzato riconoscimento della tutela risarcitoria, fondato sulla mera violazione delle regole procedimentali cfr. R. CHIEPPA, Viaggio di andata e ritorno …, op. cit., pg. 703 e ss., il quale sottolinea come in tale modo si “incapperebbe nell'impasse costituita dalla difficoltà di quantificare il danno conseguente alla violazione delle norme procedimentali, con il rischio che il ricorso 71 Nelle ipotesi descritte in precedenza il privato ha subito un danno per il ritardo procedimentale anche se il provvedimento finale ha avuto un contenuto (legittimamente) sfavorevole per l’istante e, pertanto, il suddetto danno deve essere considerato risarcibile, ma il risarcimento non potrà essere automatico: semplicemente il danno dovrà essere provato sia nella sua esistenza, sia nel rapporto di causalità con il ritardo. Si può, pertanto, affermare che la questione del danno da ritardo avrebbe potuto essere risolta in modo differente, in quanto premesso che la regola debba necessariamente essere che se il danno da violazione dell’interesse procedimentale viene riconosciuto, esso debba essere riconosciuto in tutti i casi, indipendentemente da quale sia il giudizio sulla spettanza del bene o meno, ne consegue che la questione relativa alla spettanza o meno del bene, o meglio alla astratta fondatezza o meno della domanda, possa essere valutata esclusivamente in modo congiunto alla valutazione del comportamento complessivo dell’Amministrazione e del ritardo (giorni, mesi o anni di incertezza) al mero fine di quantificare il risarcimento comunque dovuto. L’art. 2 della legge n. 241 del 1990 sancisce un dovere dell’Amministrazione ed è stato posto a tutela della posizione del privato che a essa si rivolge, pertanto non può essere violato senza che ciò determini una responsabilità dell’Amministrazione “colpevole”: la spettanza del bene potrà essere utilizzata solo come criterio per stabilire il “quantum” del risarcimento, ma non è ammissibile che essa venga utilizzata come discrimine per sancirne l’ “an”61. a criteri equitativi possa condurre ad un tipo di tutela più vicina alla logica dell'indennizzo che a quella del risarcimento; i benefici riguardo l'an della pretesa risarcitoria si diluirebbero nel riconoscimento del quantum livellato verso il basso”. 61 Circa la sussistenza di un vero e proprio vincolo in capo alle pubbliche Amministrazioni ad emanare il provvedimento nei termini previsti dalla legge cfr. l’analisi di B. CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di G. SANTANIELLO, 1993, pg. 226 e ss., Padova, il quale sottolineava come “la legge generale ha voluto impedire i tempi senza tempo, che caratterizzavano (e possono purtroppo ancora caratterizzare …) l’agire procedimentale delle pubbliche amministrazioni. La sostanziale impunità dell’amministrazione procedente, nel lasciare aperto ‘ad infinitum’ un procedimento ritualmente iniziato, ha costituito una vergogna nazionale per il nostro sistema, sulla quale il moderno legislatore è opportunamente intervenuto, nel fissare un termine entro cui il procedimento deve conchiudere con l’emanazione del provvedimento finale” e specifica poi come “sulla obbligatorietà di siffatto termine non pare possano sussistere dubbi” per cui il termine dovrebbe considerarsi né perentorio, né ordinatorio “ma 72 più tecnicamente comminatorio, dal momento che il non provvedere entro il termine rituale può comportare per l’amministrazione inadempiente una reazione sanzionatoria”. 73