Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi Dottorato di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti - XXI Ciclo Coordinatore: Prof. Luigi Russo SSD: M-Fil/04 ARTE E SINESTESIA IN MIKEL DUFRENNE di Cecilia Antolini Tutor: Chiar.mo Prof. Luigi Russo Co-tutor: Chiar.mo Prof. Salvatore Tedesco Co-tutor esterno: Chiar.mo Prof. Elio Franzini A mio marito Dario a mia figlia Olivia INDICE INTRODUZIONE............................................................................................................................................. 1 CAPITOLO 1: L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA VERSO MIKEL DUFRENNE ..................20 1.1 Mikel Dufrenne: un’introduzione storica .........................................................................................20 1.2 Antropologia filosofica: lineamenti storici.......................................................................................43 1.3 Riferimenti kantiani............................................................................................................................65 1.4 Helmut Plessner, tra Kant e la fenomenologia husserliana............................................................77 1.5 M. Merleau-Ponty, da H. Plessner verso Dufrenne.........................................................................88 CAPITOLO 2: L’OGGETTO ESTETICO, UN MONDO TRA PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE .......................................................................................................................................96 2.1 La sensibilité généra(lisa)trice..........................................................................................................96 2.2 Il significato dell’oggetto estetico ...................................................................................................121 2.3 Il mondo dell’oggetto estetico .........................................................................................................146 CAPITOLO 3: LA NATURA E L’ORIGINE. TRA FONDAMENTO E POSSIBILITA’ .........159 3.1 L’oggetto estetico come la cosa stessa ...........................................................................................159 3.2 Natura e coscienza: un legame poetico ..........................................................................................180 3.3 Natura poetica ed Estetica...............................................................................................................198 3.4 Materialismo poetico e trascendentale...........................................................................................210 CAPITOLO 4: L’OCCHIO E L’ORECCHIO ...................................................................................219 4.1 Il pittore e il soggetto sinestetico ....................................................................................................219 4.2 Il mondo del tangibile ......................................................................................................................227 4.3 Un soggetto immaginario ................................................................................................................235 4.4 Il virtuale: un’ontologia impossibile...............................................................................................244 CONCLUSIONI ............................................................................................................................................256 BIBLIOGRAFIA...........................................................................................................................................269 INTRODUZIONE È solo del 2004 la traduzione italiana dell’ultimo lavoro di Mikel Dufrenne, L’oeil et l’oreille, pubblicato nel 1987. L’attenzione italiana verso Dufrenne ha risentito negli anni del privilegio accordato a pensatori come Merleau-Ponty e Sartre finendo con il riservare alla scuola milanese uno dei pochi e più approfonditi spazi di studio di questo autore. Profondamente legato, umanamente e filosoficamente, a Dino Formaggio,1 con il quale tra le altre cose ha realizzato il molto noto Trattato di estetica2, l’autore francese è stato dunque oggetto di studi approfonditi quasi esclusivamente nel contesto fenomenologico di Milano. 1 Un’amicizia che è stata sodalizio teorico e umano tra i più intensi e che ben si respira nello scritto di Dino Formaggio realizzato in occasione della morte dell’amico dove con trasporto Formaggio ricorda il loro ultimo saluto: “Et nous, mon cher Mikel, nous nous sommes sentis proches alors, comme nous nous sommes sentis proches l’un de l’autre – et nous nous le sommes dit – le soir de ton dernier appel téléphonique, le 9 juin. Lorsque, sereinement, tu m’annonças que, le landemain, la machine à oxygène qui t’avait pendant des années tenu lié à ton corps (…) devait etre débranchée. J’ai ancore dans les oreilles ta voix qui me salue, douce et paisible comme toujours: “Allo, Dino…” C’était la salutation de toujours comme de quelqu’un qui part en voyage, le signe affectueux de notre solide amitié. Et moi, quoique boulversé par cette nouvelle soudaine, une fois de plus j’étais avec toi, une fois ancore nous nous sommes compris.” (D. Formaggio, Mikel vivant, in “Revue d’esthétique“ 30, 1996, p. 38.) 2 M. Dufrenne, D. Formaggio, Trattato di Estetica, Mondadori, Milano, 2 voll., 1981. Di questo lavoro Formaggio ha parlato, in Mikel vivant (cit. p. 39), come de “l’aboutissement d’un long chemin, le fruit de notre long dialogue engagè précisément à partir de notre première rencontre..”. Si legge nella prefazione un brano molto significativo del comune stile e approccio, nonostante le differenze di pensiero, dei due autori. “Concepito e attuato non certo come un monumento, ma come uno strumento di lavoro, questo Trattato, come metodo d’assieme, è sorto dallo sforzo di rompere ogni chiusura dogmatica, ogni parzializzazione dovuta a fissazioni ideologiche ossificate, e insieme il fastidio e il pericolo di quel che Bachtin aveva così ben individuato come mondo fonologico della cultura moderna. Al monologismo dell’unità dell’essere abbiamo sempre preferito la libera polifonia delle molte voci dialoganti, pur nel loro relativismo armonico o disarmonico, persuasi soprattutto che nessun’altra esperienza come l’arte chiede di essere descritta, fuori da ogni valenza riduttiva (e l’unità ontologica o definitoria è stata spesso questa violenza), in tutto il corpo vivente dei suoi imprevedibili e anarchici mondi, nella perenne metamorfosi della sua meravigliosa veste fenomenica di sensi, di immagini, di segni, di speranze e di destino delle società umane e del mondo. Ogni descrizione, come ogni riflessione, non può darsi che come descrizione in cammino.” (pp. 1-2) 1 La scarsa inclinazione nazionale, e in verità anche internazionale, verso questo autore si spiega forse con la contrapposizione sistematica della sua meditazione a filosofie come quelle di Heidegger e Derrida, oltre che Blanchot e Lévi-Strauss che fanno del suo pensiero il luogo quasi solitario di una forma di difesa dell’uomo e della presenza. Ne è esempio significativo il volume pubblicato nel 1968, Pour l’homme3, che prendendo le distanze dalla temperie culturale strutturalista e anti-umanista dell’epoca si propone esplicitamente di “evocare l’antiumanesimo proprio alla filosofia contemporanea, e di difendere contro di esso l’idea di una filosofia che potrebbe avere cura dell’uomo.”4 Si capisce in che senso questo pensiero possa essere stato, se non trascurato, almeno sottovalutato, avendo avuto tra i propri bersagli polemici proprio quegli autori che con maggior rigore si sono imposti all’attenzione filosofica della tradizione recente. Tra essi spicca ad esempio Michel Foucault, che Dufrenne addita come uno dei massimi rappresentanti di quella filosofia che, riconoscendo all’essere un primato sull’uomo, conduce a una progressiva scomparsa di quest’ultimo e ad un suo asservimento e nullificazione. In autori come Foucault, così come Heidegger, o LeviStrauss e Lacan, benché le loro meditazioni non siano ovviamente raccoglibili sotto un solo e medesimo indice, Dufrenne rintraccia una corrente di devitalizzazione del reale che, a suo parere, rischia di impoverire di senso tanto la filosofia quanto il reale stesso. Uno dei luoghi in cui più radicalmente compare la dissoluzione del soggetto condannata da Dufrenne è forse il pensiero di Deleuze, con idee quali “macchina desiderante”, “corpo senz’organi” o “molecolare”; eppure le proposte deleuziane attraversano spesso il percorso di Dufrenne. Di Deleuze Dufrenne non condivide la prospettiva, ma certo il progetto di entrambi sembra mirare a un comune empirismo trascendentale; e anche un certo spinozismo di fondo sembra accomunare i due percorsi, allontanando entrambi da quella forma di ontologia negativa diffura nel pensiero contemporaneo francese: “Credere non a un altro mondo, ma al legame tra uomo e mondo, all’amore o alla vita, credervi come all’impossibile, all’impensabile, che tuttavia può soltanto essere pensato: ‘Un po’ di possibile sennò soffoco.’”5 3 Pour l’homme, Seuil, Paris 1968. Ivi, p. 9. 5 G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, tr. it. Ubulibri, Milano 2001, p. 190. I rapporti tra Deleuze e Dufrenne furono intimi, come si può leggere in questa lettera firmata da Deleuze in data 25 aprile 1991 e 4 2 L’autonomia di questo autore nei confronti dei grandi sistemi, che rispecchiava tra l’altro il suo approccio alla vita, è stata ben sintetizzata da Dino Formaggio, nel già citato articolo dedicato all’amico in occasione della morte: “Il n’y eut jamais entre nous de désaccord sur nos principes (…) surtout grâce à Mikel, grâce à ce vivant enseignement de quelqu’un qui avait nourri sa philosophie de sa vie, et fait de la philosophie une généreuse plénitude de vie. Il avait toujours affablement fait preuve d’une libre et exceptionnelle souplesse conceptuelle et existentielle. Contre toute raideur autoritairement classificatrice de la vie et de la pensée, contre toute dureté dogmatique des jugements cloisonnants et des divisione artificielles qui rangent personnes et concepts dans des cases, il professa et pratiqua, selon se refus théorique et éthique, une plasticité mentale et physique libératrice.6 L’itinerario di pensiero dufrenniano si è sottratto costantemente ad ogni suo possibile accostamento univoco a una delle grandi correnti del secondo dopoguerra. Quello che lui stesso viveva come una forma di anarchismo ne ha fatto un pensatore indipendente, non restio neppure all’uso di strumenti teorici di altri piegati a nuovi scopi. Questi elementi, insieme alla rilettura da lui effettuata di alcuni grandi classici del pensiero, primo fra tutti il concetto di a priori kantiano, è stata probabilmente un freno all’esplorazione e al recupero dei suoi lavori.7 In linea con questa autonomia, pur inserendo se stesso all’interno di un quadro fenomenologico, Dufrenne non manca di marcare la propria indipendenza anche dalla fenomenologia husserliana. In particolare, coerentemente con la rivalutazione dell’umano cui abbiamo appena accennato nonché con la lezione merleaupontiana, egli oggi riprodotta nel numero 30 della “Rivista di Estetica”: “Cher Mikel, Merci de ton petit mot, au bout de la circulaire de la revue d’Esthétique. Hélas, je ne pourrai pas participer à ce numéro parce que, ayant enfin terminé le livre que je revais le dernier pour moi, Qu’est-ce que la philosophie?, je voudrais arreter au moins deux ou trois ans, et atteindre à la vraie retraite.C’est d’ailleurs nécessaire parce que l’hiver a été facheux pour ma santé: longue suffocation, attaché comme un chien à ma bouteille d’oxygène, sans souffrance, mais beaucoup de panique respiratoire. Convalescence qui traine. Toutes ces plaintes moins pour m’affliger que pour te faire signe, et souhaiter que ta santé à toi ait bien tenu. J’amais beaucoup nos rencontres, j’espère etre bientot en état de te téléphoner, et de les reprendre. A bientot, je t’ambrasse. Gilles.” 6 D. Formaggio, Mikel vivant, cit. p. 40. 7 In Italia è certo apparsa per tempo una traduzione, benché parziale, dell’opera principale di Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, realizzata non senza coraggio a Roma nel 1969 dalla casa editrice Lerici. Tuttavia la traduzione si è occupata solo del primo volume, che ad oggi risulta difficilmente reperibile. Simile sorte è poi toccata alle altre traduzioni italiane dei lavori di Dufrenne, da Le poetique a Esthétique et philosophie. 3 prende le distanze dall’idea del soggetto costituente grazie al quale l’oggetto rappresenta il mero supporto dell’attività di un soggetto trascendentale. Ne è una chiara dichiarazione, il passo presente all’interno della Fenomenologia dell’esperienza estetica8, in cui leggiamo: La riduzione non culmina più nella scoperta di una coscienza costitutiva, ma nella scoperta della propria impossibilità; sforzarsi di comprendere la tesi del mondo, di rinunciare all’atteggiamento naturale e al suo realismo spontaneo è sperimentare che non si può farlo, che nessuno può astrarsi dal mondo in cui è, e che il rapporto con il mondo quale lo vive in modo irriflesso la percezione, è sempre già dato: e l’intenzionalità è quel progetto, sempre ripreso, attraverso il quale la coscienza concorda con l’oggetto prima di qualsiasi riflessione.9 La domanda di Dufrenne riguarda, sempre, proprio la relazione uomo-mondo, relazione che egli tenta di descrivere con un uso della fenomenologia in direzione immanentistica e anti-coscienzialistica; tale direzione lo conduce ad una forma di materialismo che nel corso di questo lavoro vedremo caratterizzarsi come poetico e trascendentale in un senso paradossalmente immanente al sensibile. L’esigenza di base del procedere di Dufrenne si può descrivere come un riafferramento e una ridescrizione dell’intelletto, e di tutto l’ambito logico predicativo dell’umano, a partire dalla potenza creatrice ed espressiva del corpo a sua volta letto costantemente secondo il suo carattere fenomenologico precategoriale. Una descrizione dell’esperienza della sensibilità sulla base di un suo accordo costitutivo con il senso implica naturalmente una rivisitazione dei rapporti tra sensibilità e intelletto, il superamento della dicotomia cartesiano-kantiana tra interno ed esterno, corpo e anima, uomo e mondo. Se si è scelto il tema della sinestesia quale cardine su cui svolgere il pensiero dufrenniano ciò è dovuto alla profonda densità che questa nozione rivela in particolare nell’ultima opera. Se, infatti, è quasi solo in queste pagine che di sinestesia 8 M. Dufrenne, Phénoménologie de l’experience ésthétique, PUF, Paris 1953, tr. it. parziale, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Roma 1969. 9 Ivi, p. 510. 4 esplicitamente si parla, in questo tema confluiscono le più importanti questioni dell’intera meditazione dell’autore. È questo quanto il presente lavoro si propone di indagare, nel tentativo di mostrare la coerenza di un’indagine che ha fatto della controversa nozione di originario il centro nevralgico del proprio procedere. Quella di Dufrenne è, infatti, una domanda costantemente riproposta sul senso e il modo in cui origine e originato, origine e significato, scandiscono il rapporto tra se stessi e, conseguentemente, tra l’uomo e il mondo. E in questa relazione l’arte si colloca in un’area particolarmente rappresentativa. Sono appunto gli oggetti d’arte, con il loro connotato dufrenniano di oggetti estetici, gli enti in grado di aprire e mostrare quelle fessure attraverso cui l’originario agisce ed è, seppur vagamente, afferrabile. Ciò che si organizza a partire dai sensi e che, proprio a partire da essi, li sorpassa e forse persino esclude puntando verso un invisibile, è l’obiettivo che Dufrenne ha di mira; è questa dinamica tutta umana, in cui un diagramma corporeo diventa azione e interazione con il mondo, il fondo che si tenta di mettere a fuoco. Con Dufrenne si mira a cogliere lo splendore del sensibile quale soglia da cui emana il preriflessive, il precategoriale. E, come ha sintetizzato Formaggio, con Dufrenne compare, tra Schelling e Merleau-Ponty, il pensiero di un mondo di a priori materiali del senso e del sentimento così come la loro esaltante primarité constitutive rispetto agli atti etici e noetici del conoscere e dell’agire. Si punta così a ritrovare, nell’immanenza dei valori puri di un sensibile che non si trascende, in questo luogo in cui la carne si fa senso, un originario cosmico indifferenziato, dove l’unità indistinta di soggetto e oggetto celebra un vivente originario. 10 Tale fondo, rappresentato dall’originario che con Dufrenne prende il nome spinoziano11 di Natura, è il fondo in cui si radica innanzitutto l’adesione corporea e percettiva al mondo. Proprio questo è quanto maggiormente preme a Dufrenne porre a 10 Cfr. D. Formaggio, Mikel vivant, cit. p. 40. Spinoza è presente in Dufrenne con la stessa forza con cui lo si ritrova all’interno di buona parte della fenomenologia francese, in particolare Merleau-Ponty. In Spinoza si ritrova un metodo di affrontare il problema della verità che certo resta sullo sfondo dei contributi di questi autori. La verità appare come qualcosa che ha in se stessa a propria causa e alla natura si può guardare solo come a qualcosa di esistente e presente, con i suoi attributi in infiniti modi. Negli autori francesi, nei quali Spinoza filtra attraverso Alain, questo autore compare ‘deteologizzato’ come l’interprete di un principio monistico quale origine del senso, dell’unione tra l’uomo e il mondo. 11 5 tema, nella sua inesauribilità, nel suo costante transitare e, soprattutto, nel suo essere relazione. Natura, originario, fondo sono tutti concetti chiave della filosofia di Dufrenne, articolati in senso perspicuo a partire da una prospettiva che ha nel concetto di presenza una chiave d’accesso fondamentale. La radicalizzazione del concetto di presenza operata da Dufrenne, oltre ad essere la sua risposta a quelle che abbiamo indicato come filosofie dell’assenza, implica la radicalizzazione di una posizione che costantemente ha presente il mondo come totalità sempre aperta e disponibile alla relazione: presenza come apertura e presenza come ciò che si dà in quanto già aperta a. Presenza di me al mondo e del mondo a me. È entro questo orizzonte che si sviluppa la ricerca di Dufrenne, nella quale la presenza diventa indice sotto cui raccogliere non solo il reale ma anche il logico e il prelogico, il possibile e il virtuale. Ciò significa indagare la percezione umana, attraverso una consapevolezza ovviamente mutuata da Merleau-Ponty, in quanto accesso per noi al mondo e alla sua verità ma anche riconoscere proprio alla percezione il ruolo di soglia attiva in cui confluiscono le azioni di sentimento e immaginazione. Sentimento e immaginazione che proprio nel loro carattere espressivo e prelogico interessano a questo autore che mira a rintracciare nel corporeo il fondamento e il luogo da cui ogni dicotomia e ogni conoscenza predicativa possono svilupparsi. La sua è allora un’indagine sul fatto stesso dell’essere al mondo, prima e più che essere nel mondo, riconoscendo priorità ontologica proprio a questa relazione. La domanda che la sinestesia incarna riguarda proprio l’insieme controverso e complesso di tutto ciò che mi sta intorno e che proprio a partire da me si articola. Quale rapporto vi sia tra i miei sensi, molteplici, e il sensibile come tessuto carnale che mi ingloba è la questione che, proprio attraverso la presenza, viene posta e riproposta. Presenza e rapporto intenzionale uomo mondo sono in Dufrenne i luoghi in cui agiscono quegli a priori che con questo autore assumono connotati specifici, che nel corso di questo lavoro saranno esplicitati. Di essi è tuttavia bene tenere presente fin d’ora l’intenzione principale di Dufrenne, che fu quella di applicare proprio l’idea degli a priori all’esperienza umana intesa in senso poetico. È questo il modo perseguito dall’autore per tentare di dare una risposta autonoma ed efficace proprio al problema del 6 rapporto soggetto-oggetto. Ciò che egli cerca di mostrare con convinzione è il legame espressivo che connota, da un lato, il mondo dell’oggetto, nel quale ogni senso eccede le singole incarnazioni e, dall’altro, il mondo del soggetto, nel quale la percezione del mondo eccede ogni discorso che volesse fissarla. Al di là di questi due poli, la direzione della filosofia di Dufrenne è indicata con chiarezza: risalire a quel luogo di emergenza primordiale, origine assoluta del rapporto originario tra l’uomo e il mondo, che nella sua filosofia assume il nome di Natura. A questo fondo, originario, percettivo eppure sempre inafferrabile, mira lo sguardo di questo filosofo che nell’esperienza estetica rintraccia le fessure concesse all’uomo per intravedere le dicotomie non ancora spezzate e riconoscere l’enigma del mondo senza in esso dissolversi. È l’esperienza estetica, infatti, ciò che è in grado di restituire al sensibile il suo essere enigmatico, senza però sottrargli la sua virtù espressiva. Negli oggetti che essa implica, nel loro essere estetici, infatti, accade la commistione più intima tra il soggetto e l’oggetto, in un rapporto che è sì percettivo eppure non prende di mira un dato da analizzare ma un processo che si costruisce. E tale processo si costruisce nella relazione, nell’accordo a priori grazie a cui l’uomo si apre alle cose e le cose gli si rivelano. Ne consegue una non trascurabile domanda sul tipo di verità e sulle modalità del suo disvelamento che sono concesse all’uomo. Ed è proprio nel senso di una verità in movimento, disponibile per e attraverso un corpo, che il domandare di Dufrenne invita a procedere. Il problema della verità emerge con forza nel momento in cui si voglia dar conto di un corpo quale base assoluta del nostro commercio col mondo, cogliendo nell’originarietà della vita percettiva la soglia di ogni pensiero logico, formulazione scientifica e spinta affettiva. In questo senso la filosofia di Dufrenne raccoglie certamente le istanze aperte dai suoi immediati predecessori, con importante riguardo per Merleau-Ponty, inserendosi nel contesto di una ridiscussione del pensiero causale che naturalmente non significa una sua messa in discussione ma il tentativo di comprenderne le linee operative e i limiti. Il suo concetto di presenza si allarga infatti al contesto della verità, che proprio alla percezione si vuole connettere molto più e molto prima che a una fin troppo ampia ma ristretta idea di causa. 7 Accanto a questi elementi si dispongono questioni pertinenti all’estetica come teoria dell’arte. Nell’indagare il rapporto intenzionale, infatti, e nel farlo con adesione costante alla dimensione corporea e percettiva, il confronto con quei particolari oggetti che sono le opere d’arte risulta obbligatorio. È proprio la serie di fessure simboliche che di fronte ad essi si aprono a consentire una descrizione della relazione sensibile in termini poetici e dinamici. In questo senso il percorso di Dufrenne è un passaggio significativo nella storia di quel pensiero che si interroga sul ruolo del sentimento e del prelogico all’interno del nostro commercio col mondo. Con lui all’arte non si guarda cercando risposte interenti a un Essere di stampo metafisico o ontologico. Se con lui l’arte rende visibile non è solo relativamente a un fondo invisibile, non è nel senso di un’intenzione che mira all’Essere o che, merleaupontianamente, rende la pittura “metamorfosi dell’Essere nella visione del pittore.” L’Essere invisibile che l’arte con Dufrenne consente di afferrare è quello della relazione poetica che lega l’uomo al mondo, in una relazione dinamica in cui il rapporto al senso è genealogico. È la Natura nel suo essere naturante, nel suo ribollire di possibilità reali e virtuali, ciò che si rende afferrabile, almeno in figura. È bene tenere presente il ruolo che l’arte riveste in questo autore, solo così sarà possibile comprendere secondo quale ottica egli vi si rivolga. L’oggetto estetico di Dufrenne non si presenta come accesso privilegiato a una regione dell’Essere isolabile, al contrario, esso è propriamente una cosa, un ente che come tale esercita effetti sensibili e intuitivi nel mondo intorno a sé. Se è importante rivolgersi agli oggetti estetici per reperire coordinate essenziali al pensiero di Dufrenne, e forse anche a questioni cardine di tutta la filosofia da Platone in poi, è perché in essi si esercitano forze che però sono forme e sono rappresentazioni, dunque sensibili. Tuttavia, proprio nella loro caratteristica sensibile, essi si sottraggono a dinamiche logiche e costitutive. Dell’oggetto estetico Dufrenne dice che “apre un mondo”, investendo le coordinate di spazio e tempo di significati importanti quanto opachi; nell’oggetto estetico di Dufrenne non accade dunque nulla che sia in rapporto con l’Essere o qualsiasi sua sinonimica definizione, al contrario accadono fatti che, benché in figura, sono manifestazioni di un senso intuitivo e percettivo. Certo, la Natura di Dufrenne pone l’inevitabile tentazione di una lettura in senso ontologico, ma la sua stessa azione nel contesto degli oggetti estetici la ripropone efficacemente su un piano 8 molto più vicino al poiein umano: se la Natura vi si manifesta, infatti, lo fa in maniera per così dire operativa, attraverso il suo essere naturante, quindi produttiva, genealogica e creativa. Soprattutto, essa lo fa in stretto rapporto con un soggetto percipiente, la cui presenza all’oggetto è condizione imprescindibile perché lo scambio si attui. Attraverso l’oggetto estetico e l’arte si delinea una concezione genealogica del sentimento su cui Dufrenne sembra tornare a più riprese e che acquista importanza crescente nel nostro discorso. In quest’ottica, infatti, non si affronta il mondo come totalità indefinita dei fenomeni, totalità variegata ma a suo modo unitaria che è sempre in qualche modo già là; al contrario, del mondo si valorizza la componente di soglia e apertura, che ha quasi una “qualità generatrice”, vale a dire non solo in trasformazione lei stessa ma pronta a trasformare ciò che la incontra. In questo senso si legge il soggetto stesso come apertura a sua volta genealogica nei confronti del mondo. L’incondizionato non sarà allora da intendere in maniera ontologico-metafisica come l’ultimo e inaccessibile oggetto del mondo, ma, al contrario, come quel fondo che è sempre là e dal quale tutto il resto diparte ed è generato. Generazione che passa, a sua volta sempre e necessariamente, dal soggetto che è in sé apertura. Nell’arte si manifesta dunque una sorta di frammento di carne che non appartiene né al mondo né all’uomo ma rende esplicito e afferrabile il potere naturante e creativo che appartiene al fondo in cui soggetto e oggetto si incontrano. L’originario di Dufrenne diventa il correlato di un’indagine dal duplice carattere: da un lato, infatti, l’interesse si mostra di carattere ontologico, mentre dall’altro è piuttosto a una forma di antropologia che con questo autore si è portati ad andare. Dufrenne stesso ha esplicitato tale duplicità, riconoscendo proprio alla filosofia la possibilità di sottrarsi ad un’opposizione di ontologico ed antropologico: “Au lieu d’opposer comme on le fait aujourd’hui anthropologie et ontologie, si l’on définit l’homme comme l’étant qui se soucie de l’être, ne faut-il pas définir l’être comme se dont se soucie l’homme?”12 E, sostiene Dufrenne, la filosofia così concepita fonda un’antropologia molto più che non la rifiuti o la superi.13 12 13 M. Dufrenne, Suis je philosophe?, “Revue d’ésthétique” 30, 1996, p. 62. Ibidem. 9 È proprio con gli esiti teorici cui giunge Dufrenne nel suo ultimo lavoro che l’indagine ontologica mostra il proprio approdo. Le ultime pagine de L’occhio e l’orecchio, infatti, si concludono con la constatazione dell’impossibilità di un’ontologia: “Ontologia impossibile tuttavia. L’idea di un’omogeneità del sensibile sfugge alla nostra presa, l’unità del plurale non è afferrabile.”14 Con la sinestesia, infatti, ed è quanto questo lavoro intende giungere a mostrare, Dufrenne opta per una soluzione non ontologica del chiasma merleaupontiano, della commistione tra soggetto e oggetto le cui ambiguità e opacità non rappresentano un ostacolo bensì una caratteristica di ricchezza. Sulla rivisitazione di tale chiasma si sviluppa l’indagine di Dufrenne che programmaticamente intende affrontare il problema della presenza del mondo in relazione alla coscienza alla luce di un fondo genealogico nel quale ogni monismo si radica. La sua è una filosofia che punta ad individuare tale fondamento a partire dalla percezione e, proprio attraverso di essa, reperire un accordo tra una filosofia della Natura e una filosofia della Coscienza. È questo, d’altra parte, proprio il compito che egli considera l’impensato della filosofia merleaupontiana che si propone di raccogliere: se a Merleau-Ponty restava qualcosa da fare o da pensare era proprio di congiungere l’idea della Natura all’idea del fondamento, “et de surprendre la naissance du dualisme et les métamorphoses de l’homme et du monde à la racine même du monisme.”15 Intendiamo giungere a queste conclusioni, e le renderemo forse più esplicite e comprensibili, attraverso una ricognizione critica e descrittiva dei temi e delle nozioni lungo cui si sviluppa la filosofia di Dufrenne. L’intenzione è quella di mostrare l’organicità e la coerenza del percorso dell’autore rilevando come nel tema della sinestesia confluiscano quelle domande che sempre hanno animato il suo percorso. Il lavoro si articola quindi in quattro capitoli: di essi il primo ha carattere storico e introduttivo e si propone di indicare un possibile ampliamento della prospettiva rimarcando come le esigenze di Dufrenne abbiano una possibile e interessante eco in un ambito da lui in realtà piuttosto lontano. Ci si è rivolti pertanto all’antropologia 14 15 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, Il Castoro, Milano 2004, p. 204. M. Dufrenne, Maurice Merleau-Ponty, in Jalons, M. Nijhoff, La Hague 1966, p. 221. 10 filosofica di stampo tedesco, nella quale sono confluite, benché sotto indici teorici a volte differenti e comunque mai rigorosamente fenomenologici, istanze affini. Il percorso di Dufrenne indicherebbe quindi uno dei luoghi significativi di quelle che sono state le coordinate teoriche di un comune, diffuso e condiviso orizzonte di senso e di indagine. In particolare, si è voluta sottolineare l’affinità del discorso dufrenniano con alcune delle conclusioni più rilevanti di una delle figure di spicco dell’antropologia filosofica tedesca, Helmut Plessner. Benché il primo segua un percorso fenomenologico che ben lo differenzia dal secondo, per Plessner estesiologia e antropologia sono intimamente correlate, poiché propriamente estesiologia è la condizione antropologica dell’uomo, costantemente decentrata, “eccentrica”, rispetto al proprio sé, aperta alla ricchezza qualitativa del coté oggettuale. L’uomo, per Plessner, è il luogo in cui la natura e lo spirito si incontrano, ed è importante indagare i punti specifici di rottura e di vicinanza nei quali si trova l’afferramento reciproco delle strutture naturali e spirituali. La ricrca di un’apertura al mondo della natura rappresenta d’altronde un programma metodico altamente diffuso nel clima culturale dell’epoca di Plessner e, sotto questo aspetto, accomuna la sua rilfessione alle filosofie della vita di Nietzsche, DIlthey e Bergson ma anche, conducendolo su terreni che hanno nutrito ovviamente anche Dufrenne, alle teorie fenomenologiche di Husserl e Merleau-Ponty nonchè ai paradigmi del pragmatismo americano e all’indagine biofilosofica di scienziati come Buytendijk, Driesch e Uexkull. Al passaggio del secolo, tra Ottocento e Novecento, lo sviluppo delle scienze dello spirito e le nuove scoperte scientifiche nel campo dell aneurobiologia, della fisiologia e della psicologia hanno sollecitato la filosofia a riformulare le sue categorie tradizionali, prima di tutto i concetti di spirito, coscienza, anima e il loro rapporto con il bios. Per legittimare nella modernità il valore scentifico della filosofia dinnanzi allo sviluppo delle scienze empiriche occorre, infatti, restituire al’indagine filosofica il mondo della natura e, con esso e in esso, un uomo in carne e ossa, che agisca e patisca, complessione di spirito, corpo e anima. Il primo e comune riferimento da mettere in discussione è rappresentato dunque dai modelli gnoseologici e antropologici di stampo cartesiano, dal momento che la totale eterogeneità tra mondo esterno e mondo interno che essi implicano non consente di afferrare la relazione più complessa che lega, nella dinamica espressiva e genealogica 11 della vita, il soggetto e l’oggetto. La questione secolare del rapporto tra corpo, anima e mondo esige, infatti, il superamento degli schemi unilaterali che le teorie razionaliste e sensiste hanno ereditato dal cartesianesimo, attraverso una riflessione che consenta di comprendere il soggetto e l’oggetto quali elementi costitutivi e indiscernibili dell’esperienza conoscitiva e extraconoscitiva. È sotto questo aspetto che la filosofia di Dufrenne e l’antropologia filosofica, in linea con le filosofie della vita e il pragmatismo americano, nonostante le differenze specifiche, concordano fortemente fino a consentire di guardare a questi temi quali capisaldi della cultura filosofica cui apparteniamo. La critica è rivolta in tutti i casi a quell’ipostatizzazione del mondo e neutralizzazione dell’esperienza sensibile cui il dualismo rigidamente cartesiano tra res cogitans e res extensa conduceva. La concezione sostanzialistica del mondo lascia il posto a una descrizione dinamica e relazionale tra soggetto e oggetto, il cui confronto si basa sull’analisi del vivente nel mondo della natura e della pratica, in quella zona d’ombra che è soglia dell’emergere del senso delle cose. Lo scopo condiviso è quello di precisare natura e confini del significato sensibile al fine di ricusare ulteriormente l’analisi intellettualistica che si vuole invece sempre respingere. L’unità dei sensi non appartiene al medesimo ordine dell’unità degli oggetti di scienza. Ugualmente, l’effetto della nostra percezione di riunire in un unico mondo le nostre esperienze sensoriali non avviene secondo il medesimo schema secondo cui la scienza collega oggetti e fenomeni. Non si tratta, cioè, di una sorta di schema rappresentativo di oggetti in sequenza spazio temporale, bensì di mettere a fuoco problematizzare il coglimento del mondo in unità e secondo uno schema presentativo. La direzione comune è quella che mira all’annichilimento di tutti i dualismi sterili e scientifici che oppongono anima e corpo. I rapporti tra essi, infatti, in questi itinerari di pensiero restano oscuri solo fintanto che si cerchi di trattare astrattamente il corpo come frammento di materia trascurandone i poteri dialettici. Quello dell’inquadramento, della comprensione e della descrizione dei rapporti tra gli aspetti corporei dell’uomo e gli aspetti spirituali che lo caratterizzano è un problema complesso che caratterizza la riflessione sul fenomeno umano tanto nei termini antropologici quanto nei termini filosofici e fenomenologici in particolare. L’affinità di temi tra questi autori e questi ambiti di ricerca è l’altro lato dell’importanza filosofica 12 che lo sviluppo di questo tipo di questioni, derivate tra l’altro da molteplici e stratificate esperienze scientifiche, filosofiche e culturali precedenti, ha assunto nel corso del secolo scorso. La sensibilità viene infatti vissuta e analizzata secondo problematiche angolazioni al fine di esplicitare la possibilità, tramite essa, di afferrare sensi che i sensi veri e propri non sono in grado, fisicamente, di esaurire. Il problema della sinestesia, dell’unità dei sensi e delle loro interazioni diventa allora il problema della possibilità, che i sensi stessi dischiudono, di afferrare qualcosa (un insieme, un significato) che da essi permette di esulare. Con il procedere del lavoro si affrontano invece sistematicamente temi e teorie propri dell’autore. Il secondo capitolo riguarda dunque i problemi posti da una descrizione dell’esperienza estetica nella quale con Dufrenne si tematizza il peculiare rapporto tra sensibilità, intelletto e ragione. Tale approccio ha consentito di delineare due triangoli teorici entro i quali si è potuto articolare il restante discorso. Essi si sono sintetizzati come segue: sensibile, con immaginazione e sensazione, il primo, e sinestesia con espressione e stile, il secondo. Tutti questi elementi fanno capo, anche se in modi e secondo angolazioni leggermente differenti, al problema generale dell’unità del sensibile che, a sua volta, è raccoglibile sotto quello con il quale la filosofia occidentale si confronta fin dai suoi albori: il problema dall’uno e del molteplice, il particolare e l’universale, e che implica il problema di come il loro rapporto debba essere inteso. Il generale, la Natura di Dufrenne, parla sì di un invisibile, ma, diversamente da quello platonico classico, non si configura come immateriale e sovrasensibile, coglibile solo dall’intelletto. Con l’autore francese si ha, infatti, una lettura del generale come sempre e solo concreto, dato sempre e solo nel particolare. Inoltre, il potere di coglierlo non è appannaggio solo delle facoltà intellettuali grazie all’astrazione logica, poiché esso si presta ad essere catturato in qualche modo anche dalla percezione, che anzi ne permette l’incarnazione. Il discorso sull’esperienza estetica conduce inevitabilmente al tema, già accennato come centrale per l’autore, dell’oggetto estetico. Nell’oggetto estetico, riferimento 13 fondamentale per il percorso di Dufrenne, confluiscono alcuni dei nodi tematici più significativi e si raccoglie la sintesi dei due triangoli teorici sopra indicati. Attraverso la messa a fuoco del suo potere espressivo si mostra come esprimere per quell’oggetto sia in qualche modo trascendersi verso un significato che non è il significato esplicito assegnato alla rappresentazione, ma un significato più fondamentale che proietti un mondo. L’obiettivo dell’autore è quindi quello di mostrare come l’oggetto estetico condivida con la soggettività la possibilità di esser all’origine di un proprio mondo, irriducibile al mondo oggettivo. Tale mondo, configurato come mondo espresso, richiede un polo soggettivo che gli cor-risponda e che sia in grado di esercitare quella particolarissima modalità di apprensione che è quella del sentimento. Modalità di apprensione che permetterà il coglimento di una parte di realtà tanto reale quanto il mondo oggettivo se si è compreso il punto fondamentale su cui Dufrenne insiste a più riprese: “la nozione di mondo ha radice nel singolare processo di disvelamento che viene effettuato dalla soggettività, cosicché il reale è prima di tutto ciò che viene realizzato da questa soggettività.”16 Si comprende allora con chiarezza di che tipo di “Mondo” si stia parlando, un mondo che della realtà e della verità conosce la cerniera soggettiva e il versante di proposta sempre rinnovata. È questo che consente a Dufrenne di parlarne in termini di profondità e fondamento, termini pregnanti proprio in virtù del tipo di relazione che richiedono di attuare e che la modalità di apprensione sentimentale che l’autore indica come necessaria invita a riconoscere nella loro peculiarità. Attraverso l’oggetto estetico si mette dunque in luce un possibile scarto sempre aperto all’interno della relazione uomo-mondo. Scarto che permette di leggere persino il tempo e lo spazio, con le loro caratteristiche di rigida categorialità, in termini dinamici ed esistenziali. Oltre ad essere nel tempo e nello spazio, l’oggetto estetico è all’origine di un proprio tempo e di un proprio spazio: all’origine di un proprio mondo che è un mondo abitato da sensi e significati anche spazialmente e temporalmente orientati. Tuttavia, naturalmente, tale mondo con il suo proprio spazio e il proprio tempo, cessa di 16 M. Dufrenne, Phénomenologie de.., cit. p. 282. 14 esistere al di fuori dell’esperienza estetica rimanendo come indice di un altrove comunque possibile. Di più, l’analisi di questo tema con Dufrenne ci condurrà a riconoscere l’oggetto estetico come l’oggetto che sorge all’apparire o, in maniera ancora più forte, come la cossa stessa in un senso che piega decisamente le istanze husserliane in un senso originale: nel tentativo di reperire il punto di emergenza del senso, si arriva a riconoscere all’intenzionalità, letta come percettiva, proprio il ruolo di fondamento irrelativo da cui procedono le distinzioni relative di oggetto e soggetto. Tra essi, vive una forma intermedia, che ne rende esplicite le prerogative, che è quella del quasi-soggetto incarnato dalle opere d’arte. Su questa possibilità dell’oggetto estetico di agire alla stregua di un quasi-soggetto, si è innestato il passaggio al capitolo successivo. In esso, la Natura come fondo ontologico e il suo carattere poetico come categoria estetica rappresentano i fili essenziali del proseguimento della trattazione. Si intende mettere in luce da un lato le questioni teoriche che animano l’autore e dall’altro le vie che lo conducono, nel suo ultimo scritto, a introdurre il tema del soggetto sinestetico e della sinestesia quale categoria centrale della sua ontologia del sensibile. In queste pagine si porta in luce, in particolare, il senso ontologico dell’intenzionalità e del rapporto di affinità apriorica che lega oggetto e soggetto. Se, infatti, l’oggetto estetico si compie solo nel suo legame con le percezione, in questo legame indissolubile con la percezione si inserisce anche il problema della coscienza conducendo a un’interrogazione dell’oggetto estetico relativamente al problema dell’intenzionalità. Con Dufrenne la coscienza si riconferma sempre una coscienza percettiva, la cui trascendenza è per lui stabile e per nulla illusoria. La coscienza, sartreanamente, esplode verso, ed è così che l’uomo è veramente al mondo, presente alle cose, invece di avere le cose in rappresentazione nella sua coscienza. Ed è proprio la presenza del mondo il tema decisivo, il punto critico che Dufrenne, rivisitando parzialmente Fink e Heidegger, oppone a Husserl. Punto che egli vede come inizio di un percorso che la metafisica potrebbe illuminare in modo nuovo. È proprio sul pensiero radicale dell’idea di intenzionalità che invita a concentrarsi l’attenzione dell’autore: in essa si concentra il fenomeno autenticamente concreto e primo, l’origine dell’opposizione stessa dell’oggetto e del soggetto. 15 Ma è necessario collocare l’intenzionalità nella coscienza? Certamente l’intenzionalità deve essere pensata come origine, ma come origine di una reciprocità o di una complicità piuttosto che di una opposizione. L’intenzionalità non può essere posta nella coscienza poiché ne è la stessa origine, ma sarà piuttosto la coscienza a essere posta nell’intenzionalità di modo che l’intenzionalità possa assumere un senso propriamente ontologico. Questa ontologia dell’origine può essere concepita da una filosofia della Natura alla quale forse ci invita Merleau-Ponty.17 In ogni caso è senz’altro questa la direzione che l’oggetto estetico come viene descritto da Dufrenne dischiude e indica. Si può così arrivare a comprendere un altro dei punti più perspicui che vede la percezione estetica come una modalità dell’intenzionalità portata alla sua più alta intensità. Intenzionalità che rivela il proprio carattere genealogico e fungente proprio nella relazione che lega la coscienza a questo tipo di oggetto che si dà sì sempre “in un sol colpo”, ma è un sol colpo esteso in una durata, poiché l’oggetto è a sua volta una totalità in divenire. L’esperienza estetica condivide e mostra allora il carattere fungente di un’intenzionalità vissuta. Quell’intenzionalità che nella sua commistione con la percezione ha il proprio carattere genealogico e dinamico. Correlato teorico di tale intenzionalità percettiva che nell’esperienza estetica raggiunge uno dei suoi culmini più rappresentativi è il fatto che l’essere proprio dell’oggetto estetico risieda nel suo apparire. Esso infatti è il reale in quanto percepito. Il suo essere è un essere percepito, profondamente integrato nella regione dell’aistheton; le sue qualità si dispiegano nel campo del sensibile e in esso si radicano. Nel sensibile si radica così anche il senso dell’oggetto in questione, senso immanente che non è forse concettualizzabile ma che è sperimentato senza equivoco e che può essere detto nel vocabolario dell’affetto. Nell’ultimo capitolo si indagano i punti di arrivo di questo percorso, che l’autore formalizza nel suo ultimo lavoro L’occhio e l’orecchio, con particolare riguardo alle istanze antiscientifiche, alle caratteristiche del soggetto sinestetico in rapporto alla 17 M. Dufrenne, L’oggetto estetico come la “cosa stessa”, in "Fenomenologia e scienza dell'uomo", n. 1, 1985, p. 11. 16 fruizione del mondo e le conseguenti problematiche. È in queste pagine che emergerà, tra l’altro, il rilievo dell’ambito artistico quale luogo in cui con maggior evidenza può emergere la dinamicità che connota la relazione intenzionale dell’uomo al mondo. Si intende dunque giungere a mostrare come la sinestesia rappresenti la risposta non ontologica ai problemi dell’Essere che, appunto nel soggetto sinestetico, mostra la propria radice ineludibilmente antropologica. Attraverso l’estetica di Dufrenne, si giunge a riaffermare un’ontologia non come teoria dell’essere ma come esplicitazione del significato fenomenologico dell’esistenza. Con il soggetto sinestetico si intende mettere a fuoco un soggetto il cui rapporto con la verità non sarà mai nichilistico, e però neppure mai causalistico né definitivo; un rapporto con la verità che l’arte, senza poterla mai davvero produrre fino in fondo, può tuttavia felicemente mostrare come dinamica simbolica e relazionistica, espressiva e genealogica, infine virtuale e sinestetica. Delle spinte teoriche e metodologiche che hanno segnato il passo della sua vita e del suo pensiero Dufrenne ha fornito una sintesi estremamente efficace in una conferenza di cui oggi resta traccia nella “Rivista di estetica” pubblicata in occasione della sua morte. Vale la pena citarne qui un lungo passaggio, in cui il respiro e gli obiettivi del suo procedere si manifestano con tutta la loro forza. Et sans doute, devant la réflexion, l’homme semble débouté: tout savoir formalisable tend à s’ériger en savoi absolu et à perdre l’homme dans l’absolu: substance, logos ou concpept. En même temps que son savoir échappe à l’homme, pareillement son acte: que ce soit l’acte inspiré de l’artiste, la contemplation “immortalisante” du sage aritotélicien ou l’acte paradoxal du héros stoicien. Mais nulle philosophie n’a tenu ce bout de la chaîne sans tenir l’autre, celui qui tient l’homme. Et c’est ainsi que’elle s’assure de son objet. Certes, la question qu’elle pose – qu’elle est – est une question radicale, c’est-à-dire trascendentale; mais il ne s’agit pas seulement de la possibilité de la philosophie, mais de la possibilité de tout savoir et de toute enterprise; la question n’est pas la question de la question, mais la question dont précisément l’initiative revient à l’homme, des rapports du questionnement et du questionné: de l’homme et du monde. (...) Il reste à la philosophie à rappeler la science à elle- même, ou plutôt le savant, l’homme qui decrit cette genèse, l’observateur de l’observateur, qui n’est pas l’objet, mais l’inventeur de la science, qui est au monde mais pour le quelle le 17 monde prend un sens. La philosophie n’est pas la science parce qu’elle est la conscience de la science: réflexion absolue. Non pas réflexion de l’absolu, si l’on entend par là que le monde susciterait l’homme pour se réflechir à travers lui ou qu’une instance supérieure à l’homme et au monde les susciterait tous deux pour promouvoir un devenir qui soit discours; mais acte du pohilosophe, en qui l’homme se reconnait come absolu à qui la preuve ontologique finit par s’étendre, et qui devient conscius sui. (...) Cet eveloppement réciproque de l’homme et du monde n’est pas une genèse qui consacrerait un monisme; aucun de deux termes ne peut réduire ou engendrer l’autre. La relation n’est, par rapport aux termes, ni antérieure ni productrice; si l’on peut faire émerger le vivant et son milieu d’une totalité individu-milieu, peut être même le sentant et le senti d’un acte commun, qui serait encore une structure métastable, on ne peut engendrer ni la conscience des signification ni la liberté d’où procèdent aussi bien l’instauration d’un ordre de raison et l’affirmation pratique des valeurs. L’eidétique reste toujours en tension avec une génétique. Le problème ultime des rapports de l’homme et du monde est bien plutôt celui de leur affinité, d’une harmonie qu’on n’a pas besoin de croire préétablie: comment le monde peut-il être une partie pour l’homme? En quoi on revient toujours au problème critique: comment la connaissance est-elle possible? Comment l’action est-elle possible dans la mesure où elle s’inscrit dans le temps et signifie progrès? Comment le monde est-il ouvert à l’homme qui l’habite et lui confère un sens? Être philosphe, c’est prendre conscience de ces problèmes et comprendre qu’ils surgissent dès que s’éveille une conscience. La philosophie ne vaut pas une heure de peine si elle nie l’heure, et la peine: si elle rêve de s’installer dans un absolu où l’homme n’est plus qu’une apparence, qui doit mourir pour que le monde soit. Vivre selon la philosophie, il faut que ce soit encore vivre; et qui est incapable de vivre selon la philosophie, il peut au moins tenter de philosopher selon la vie.18 C’è da chiedersi però se non sia anche questa frequentazione della filosofia “in prima persona”, con le conseguenti derive tratti empiristiche a tratti soggettivistiche, ad aver contribuito al disinteresse diffuso nei confronti di questo autore. Le sue sono a volte argomentazioni che ricorrono all’esempio secondo frequenze e modalità che rischiano di indebolire anzichè corroborare le teorie che egli ha di mira; accanto a ciò, il passaggio da piani antropologici a contesti ontologici, estetologici e fenomenologici non brilla per rigore e anzi, in particolare in alcune opere come L’occhio e l’orecchio, è talvolta talmente serrato da apparire frettoloso. 18 M. Dufrenne, Suis-je philosophe?, cit. pp. 62-65. 18 Interessarsi a un autore come Dufrenne significa però accettarne la sfida che, proprio contro un’eccessiva sistematizzazione del pensiero a scapito del soggetto, invita a guardare sempre oltre, verso quell’origine che già si sa non si potrà mai davvero dire. Ma non si può smettere di cercare. 19 CAPITOLO 1: L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA VERSO MIKEL DUFRENNE 1.1 Mikel Dufrenne: un’introduzione storica La meditazione di Mikel Dufrenne (Clermont, Oise, 1910 - Paris, 1995), ispirata alla fenomenologia di Sartre e Merleau-Ponty nei confronti dei quali lo stesso autore riconosce il debito in diverse parti della sua opera, molto attenta ad altri aspetti fondamentali della filosofia contemporanea, da Husserl ad Heidegger fino a Jaspers e alle semiologie di varia ispirazione da cui però si mantiene sempre a critica distanza, incarna uno dei punti di arrivo più rappresentativi della maturazione di quegli elementi teorici che per decenni hanno percorso l’estetica francese. Le radici di questo pensiero sono, infatti, puntualmente ravvisabili nella temperie culturale caratterizzante la Francia dell’ultimo secolo di cui portano in modo netto e perspicuo i segni, soprattutto rispetto ad un’impostazione che conosce i dissidi delle interrogazioni più radicali dei suoi predecessori e che sa fondere in sé le diverse prospettive storiche e teoriche che l’hanno preceduta. Umanista ostile ad ogni torsione della filosofia verso teologie della trascendenza, è stato nel campo dell’esperienza estetica che Dufrenne ha concentrato la sua ricerca intorno alle possibilità intrinseche alla Natura e all’Uomo, punto di partenza e di arrivo della sua meditazione filosofica. Il suo percorso si snoda lungo due direttrici distinte che vedono sviluppare, accanto ad un approccio estetico-fenomenologico a sfondo ontologico, una direzione di stampo antropologico. Sono queste caratteristiche di sintesi feconda di aspetti che la tradizione filosofica francese vedeva filtrare attraverso di sé da oltre mezzo secolo a fare del contributo di Dufrenne uno degli snodi teorici più densi e rappresentativi della storia della filosofia 20 recente. Nella sua opera confluiscono difatti istanze tra le più pressanti e ad oggi tuttora prolifiche della tradizione più prossima. In particolare, è lo sviluppo dell’Estetica, in quanto autonoma disciplina, a vedere nel contributo dufrenniano un momento particolarmente saliente dei suoi itinerari. Constatazione ineludibile in partenza è quella che sottolinea la grande importanza sempre riconosciuta da Mikel Dufrenne a tematiche di sociologia e antropologia. Le sue posizioni si esprimono spesso a proposito delle questioni più salienti del secolo19 mostrando come la sua pratica della filosofia non si sia mai discostata da sociologia e interesse politico. Di questi ultimi, è la dimensione del poiein cui rimandano a fare da sfondo e punto di riferimento costante per un’elaborazione teorica di stampo fenomenologico. Se lo sguardo dell’autore non cessa di indagare quanto accade nel mondo a lui contemporaneo, è tuttavia in questo stesso sguardo che si radica un pensiero dell’azione che non riduce quest’ultima all’esatta e concreta realizzazione di un programma pratico, ma la riconosce pregna di potenzialità insondabili di cui sottolinea la creatività. L’indagine si rivolge pertanto all’evento umano, imprevedibile e radicato in quel reale tanto più ricco di ogni immaginario. Quello che Dufrenne lascia individuare dietro i suoi interessi di carattere politico e sociologico è la forza di quegli a priori irriducibili ad un solo sistema di azione che testimoniano invece, ben più profondamente, di una risalita possibile e costantemente rinnovabile verso ciò che egli ripetutamente nomina come l’originario20. L’interesse di questo autore si è rivolto, infatti, principalmente alla ricerca di una forma di originario e unitario principio che presieda l’esperienza del mondo e nel quale veder confluire la base fenomenologica di tale esperienza. L’attenzione per il poiein umano ne nasconde, senza dissimularla per nulla, una più profonda verso quel poiein che, non rimandando ad alcun sapere né tanto meno saper-fare, afferisce a un’inesauribile possibilità di invenzione nella misura in cui, 19 Tanto quando egli collabora con quotidiani nazionali come Combat o riviste quali Les cahiers internationaux de sociologie o Esprit, quanto nel momento in cui dà alle stempe opere come La personnalité de base (1953), Pour l’homme (1968), o Subversion/perversion (1977). 20 Cfr. M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, recherche de l’originaire, Paris, Christian Bourgois, 1981. 21 come si legge nelle ultime righe de L’inventaire des a priori, “una filosofia dell’azione chiama a una filosofia della Natura”21. Questi temi permettono di delineare in modo chiaro le direttrici storiche che precedono e in qualche modo introducono la meditazione di Dufrenne nella quale, appunto, elementi tradizionali confluiscono in modo perspicuo e sintetico. La sua è forse una delle più dense elaborazioni di una filosofia intesa come “filosofia della cultura”, punto di arrivo della storia del pensiero dell’ultimo secolo, lontana dalle metafisiche più trascendentali e ancorata piuttosto allo studio meticoloso e appassionato dei fenomeni e dell’uomo. Come è stato scritto22, il suo si presenta come un tentativo sempre riproposto di piegare la fenomenologia a una vocazione immanentistica e anti-coscienzialistica all’interno di un’estetica soggettivista di matrice kantiana. Il rapporto stesso di Dufrenne con la fenomenologia è un rapporto caratterizzato da significativi chiaroscuri, impliciti non-detti e velate mutazioni; la sua è un’estetica che “peut etre représentée en priorité par la phénoménologie, et de fait notre propos a été implicitement phénoménologique”23. Una fenomenologia quindi che, come probabilmente l’intera fenomenologia francese, mutua se stessa dai presupposti husserliani senza mai perseguirli in modo ripetitivo, ma anzi ricodificandoli all’interno di orizzonti che già conoscono razionalismo, positivismo e spiritualismo. In questo senso quella di Dufrenne è una fenomenologia in un senso fortemente merleaupontiano, descrizione che ha di mira un’essenza, cioè il significato immanente al fenomeno e dato con questo.24 21 È bene tenere presente fin d’ora, benché a puro titolo introduttivo, come sia sotto questi aspetti che la pratica politica interessa Dufrenne compatibilmente e parallelamente a quella artistica. Queste due sono infatti considerate analoghe se non altro per il comune atto di correre il rischio dello sconosciuto, dato che ciò che vale per l’azione vale per l’arte, come scrive l’autore: “è questa potenza del fondo che l’arte si sforzerà di ridire”. Ivi, p. 312. 22 E. Franzini, L’estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, Edizioni Unicopli, Milano 1984, p. 348. 23 “Può essere rappresentata prioritariamente dalla fenomenologia e, di fatto, il nostro proposito è implicitamente fenomenologico”, M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome II, Klincksieck, Paris 1976, p. 28. 24 Particolarmente densa di significati storici e teorici è l’assimilazione dei contenuti husserliani da parte di Dufrenne. Un approfondimento esaustivo di questo rapporto si trova nel già citato volume di E. Franzini dedicato all’estetica francese del Novecento a cui si rimanda e nel quale si legge: “Husserl, con 22 En tout cas c’est à la phénoménologie qu’ici je me réfère: à cette phénoménologie librement interprétée, dont l’oevre de Merleau-Ponty est la meilleure illustration, qui débouche sur une ontologie ou, comme nous l’avons esquissé, sur une métaphysique de la Nature.25 Restano chiari e presenti, in Dufrenne, seppur a grandi linee, i riferimenti alle teorie husserliane di intenzionalità, fenomenologia della percezione e teoria degli a priori, con larga condivisione degli intenti anti-psicologisti. Lo sviluppo generale del pensiero segue invece poi linee meno rigorose rispetto all’autore tedesco, ritagliando uno spazio di notevole autonomia che affonda le sue radici principalmente nel terreno culturale francese. Facendo un passo indietro, i prodromi del pensiero dufrenniano si intravedono nel quadro apparentemente contraddittorio della filosofia francese di fine Ottocento: al sostanziale superamento delle dottrine comtiane, e in modo specifico di quelle relative alla gerarchia evolutiva delle scienze, fa riscontro un generale risveglio dell’attenzione nei confronti di alcuni principi metodologici generali del positivismo stesso, quali il rifiuto della metafisica e la ricerca di relazioni costanti fra i fenomeni. Discipline dalle impostazioni e interessi differenti eppure sotto certi aspetti convergenti quali la fisica, la biologia, la sociologia e la psicologia hanno ormai preso direzioni molto diverse da quelle ipotizzate da Comte e nella loro nuova veste sono portatrici di un metodo «positivo» attento ai «fatti», alla descrizione degli eventi e alla loro comparazione più che alle grandi «instaurazioni» ideali e metafisiche. Metodo cui la filosofia stessa non si mostra incline a sottrarsi. Così, accanto a quella corrente che ama richiamarsi alla tradizione illuminista e che si esprime attraverso Taine e Renan, accanto a quello spiritualismo che non cessa di particolare riferimento alle sue ultime opere, è spesso accusato da Dufrenne, come da Merleau-Ponty, di idealismo a causa dell’eccessivo rilievo che avrebbe dato all’attività costituente del soggetto a discapito dell’oggetto, che sarebbe così ridotto a mera costruzione della soggettività trascendentale.” (E. Franzini, op. cit., p. 349.) 25 “In ogni modo, è alla fenomenologia che io mi riferisco: a questa fenomenologia liberamente ispirata, di cui l’opera di Merleau-Ponty è la migliore illustrazione, che sbocca in un’ontologia o, come noi l’abbiamo delineata, in una metafisica della natura.” (M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, cit. p. 29.) 23 essere presente, spesso integrato da posizioni kantiane o cartesiane, incarnato da Maine de Biran a Cousin, Renouvier, Brunschvicg, Ravaisson o Fouillée, si può notare un profondo mutamento metodologico, che segna i destini della filosofia del nuovo secolo: Boutroux, ma soprattutto Bergson e Durkheim, al di là delle grandi differenze di pensiero che li separano, scrive Brehier, “invece di dissolvere la natura umana nel meccanismo universale come i deterministi, invece di fare delle sue esigenze le condizioni della realtà come i kantiani, cercano di svelare i rapporti d'interiorità che collegano l'uomo all'universo, e porlo di nuovo nel circuito di realtà, da cui le teorie precedenti l'isolavano”26. In questa nuova ricerca relativa alla «natura» umana non cessano tuttavia di presentarsi antichi frammenti «positivi», altre varie discontinue tendenze del passato filosofico e accademico francese; ma, per lo più, come sistematizzato puntualmente da Brehier, “le filosofie dell'inizio del ventesimo secolo si oppongono tutte insieme alle filosofie che affermano un'evoluzione o un progresso necessario o quelle che, come in Taine, lo pongono, senza più alcun determinismo rigoroso”27. E ancor prima, nelle filosofie di fine secolo, all'interno di una dissoluzione del positivismo ancora lontana dagli aspetti di più radicale e programmatica opposizione, sono ormai chiari i poli entro cui oscillano le indagini più feconde: poli compresi tra la realtà generale dell’universo e la libertà umana, aspetti complementari che vanno indagati nei diversi piani delle loro correlazioni e interazioni. L'intera cultura francese è dunque percorsa da una serie di esigenze che, al di là dei poteri universitari o delle filosofie accademiche, non potevano che frammentarsi in varie scienze, di cui la filosofia costituisce il costante punto di riferimento e confronto fino ad assumere i connotati di una «filosofia della cultura». Una filosofia dove “ogni attività spirituale autentica è un aspetto di quella stessa intelligenza che ha creato le scienze: la morale vera, l'arte vera, la religione vera, ovvero la morale, la religione, l'arte liberate dalle formule, dalle tradizioni, dai sentimenti soggettivi, non hanno una radice diversa da quella del vero sapere.”28 26 E. Brehier, Transformation de la philosophie française, Paris, Flammarion, 1950, p. 17. Ivi, p. 45. 28 Ivi, p. 56. 27 24 In questo quadro, posto a sé è occupato dalla disciplina dell’Estetica, che, come le altre scienze di derivazione filosofica, partecipa al vero sapere di questa filosofia della cultura ma senza ridurre ad essa i suoi principi fondanti. Dopo anni di ricerche sul bello ideale e di esperimenti meccanicistici e empiristici nel campo delle belle arti, è fra i due secoli che si assiste in Francia al lento processo di nascita di una riconosciuta e rigorosa “scienza estetica”. Riconoscere la “crisi del positivismo” è, infatti, senz’altro fondamentale, ma non sufficiente per inquadrare quelle figure che, da Guyau a Séailles, Delacroix o Lalo, dedicavano i loro sforzi teorici alla delineazione dell’estetica tra le altre scienze umane, cercando e trovando supporto per questo anche in teorie e studi di stampo sociologico e psicologico. Sono strumenti presi in prestito proprio a questo genere di discipline quelli che permettono, al voltare del secolo, la fondazione di quel nuovo sapere destinato ad assumere le dimensioni e generare gli effetti che conosciamo nella meditazione successiva. Modellata su scienze fisico-biologiche come ad esempio la fisiologia, la disciplina estetica si configura, prima e più che come ricerca nel campo dell’arte, come ricerca dei ruoli e delle funzioni degli oggetti estetici e delle «facoltà» soggettive loro collegate nella coscienza, nella società e nella storia. È dunque a partire da una serie di ricerche tendenzialmente indipendenti dalle posizioni più autenticamente filosofiche che nasce in Francia, come del resto in Germania, quella che oggi riconosciamo come l’estetica contemporanea. Fisiologia, psicologia e sociologia rappresentano i punti cardinali di una serie di contributi destinati ad allontanarsi da esse in modo inesorabile ma condannati, neppure troppo infelicemente, a non affrancarsi mai del tutto. Ormai ben lontane tuttavia dai deterministici canoni prefissati propri dell’ambito positivista, tali discipline di riferimento innestano se stesse, con la disciplina estetica che ad esse guarda, su un territorio di confine, dove a strumenti scientifici di antico uso vengono assegnati nuovi problemi teorici e poste questioni inedite, sotto rispetti concettuali prima imprevisti. È dalla fusione di prospettive filosofiche con elementi di questo tipo che prende il via quell’estetica che, per queste ragioni, E. Brehier non esita a 25 definire “semifilosofica” e che si intende rivolta, in primo luogo, alle modalità di frequentazione del mondo e sua comprensione sotto gli aspetti dell’atto creativo. Le questioni chiamate in causa dalle discipline che abbiamo visto sullo sfondo, con particolare riguardo per la psicologia, aiutano a comprendere quell’indubbia centralità che il problema del soggetto ha all’interno delle prime delineazioni estetiche del secolo. Tale problema si presenta sotto mentite spoglie nel problema del genio creativo che raccoglie e rinnova in inedita sintesi tanto la tradizione settecentesca, da Du Bos in poi, quanto l’ambigua influenza positivista che, ad esempio con Hyppolite Taine29, aveva presentato il fatto artistico e creativo alla stregua di un fatto scientifico soggetto ad analisi. Se, infatti, le teorie positiviste hanno l’indubbia debolezza delle strutture troppo poco elastiche, è tuttavia anche grazie alla loro influenza nell’ambito della delineazione dei problemi che l’estetica, in forma ancora di psicologia della creazione, ha la possibilità di svilupparsi svincolata da motivazioni di carattere metafisico e lontana dall’affascinante ma teoricamente irrilevante mistica della creazione di stampo romantico. Le basi che l’estetica prende in prestito alle discipline sopra indicate rappresentano la condizione di possibilità per l’estetica stessa di sottrarsi a dinamiche di disordinato carattere poetico per assumere su di sé, piuttosto, una più proficua meditazione di carattere genetico delle componenti che ineriscono la prassi del soggetto nel momento creativo. Il percorso autoriale che conduce alla nascita della disciplina estetica in territorio francese all’ombra di psicologia e fisiologia contempla in parte contributi di secondaria importanza filosofica che provengono per lo più da psicologi e sociologi; tenere fermo il contributo di tali autori permette tuttavia di ricordare la fondamentale importanza 29 Basti ricordare qui sinteticamente le teorie di Hyppolite Taine quali emergono ne La philosophie de l’art che, pur risalendo al 1865 è stata rimaneggiata negli anni fino ad essere raccolta, sotto forma di antologia di saggi, nel 1881. Se quindi l'opera d'arte è determinata da un insieme di regole culturali ed ambientali precedentemente esistenti, il genio, l'ispirazione o l'invenzione divengono fatti inerenti a un processo psicologico di creazione e vanno inquadrati in un contesto storico-sociale schematicamente inteso, cui ogni opera spirituale può e deve venire ricondotta. L'estetica, per Taine, deve giungere a definire la natura e le condizioni d'esistenza di ogni arte non come nel passato, cercando una regola per il bello, ma costruendo una scienza storica che non impone dei precetti bensì ricerca delle leggi e le cause della produzione del «fatto» opera di arte: «intesa in tal modo, la scienza non condanna né perdona, ma constata e spiega». 26 rivestita dalle loro influenze, strumentali se non teoriche, nell’ampliamento dei confini teorici del positivismo stesso ricondotto ad una prolifica forma di dibattito a più voci e fra vari ambiti scientifici. Si deve a Joseph Segond, filosofo che Huisman definisce “mistico ed empiricissimo”, la sistematizzazione sintetica e storicamente ben costruita di tali percorsi; sistematizzazione che, benché comparsa a Novecento inoltrato con Le problème du génie30 del 1930, permette un riesame utile e specifico dei problemi di psicologia della creazione sotto diversi aspetti filtrati nell’estetica francese. Con questo autore, che raccoglie in sé, a volte con acume e discreta organicità, contributi tra fine Ottocento e inizio Novecento, da Guyau a Pulhan fino ad Alain e Breton, si vede l’estetica ricondotta a una “psicologia dell’arte”, da non intendere come scienza della natura ma in quanto studio della generazione dei valori spirituali articolati attraverso un finalismo biologico e indirizzati a un idealismo dei valori che trova nell'estetica il suo significato più profondo.31 Con buona pace di qualsiasi annosa scienza del bello, l’estetologo si ritrova investito del compito di “rendersi conto di ciò che noi proviamo di fronte alle opere d'arte, cercare da un punto di vista puramente psicologico in che consistono le espressioni di ciò che si chiama la bellezza”32. Dall’analisi di Segond, i fenomeni che conducono alla creazione non emergono di per sé misteriosi e incomparabili, ma si presentano riconducibili alla sfera complessa della sinestesia nella quale confluiscono spettri sentimentali oltre che affettivi che conducono ad instaurare una “estetica del sentimento” da cui prende avvio, in forza di una “ricreazione mistica” del nostro essere interiorizzato, una “psicologia del sentimento stilizzato”. Al mondo interiore si va dunque, con Segond, a guardare, nella ricerca di una forma d’arte che preceda le concrezioni pratiche dell’arte, caratterizzata da spontaneità e immediatezza prima di ogni schematizzazione esterna. Alla base dell'opera si pone un'intuizione soggettiva di carattere affettivo radicata nella cinestesia, campo “che è impossibile limitare” in quanto “ingloba la nostra intera esperienza ed anche le creazioni proprie alla vita più raffinata, la vita spirituale 30 J. Segond, Le problème du génie, Flammarion, Paris 1930. Cfr. su questo tema il fondamentale studio di E. Franzini Estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, Edizioni Unicopli, Milano 1984. 32 J. Segond, L'esthétique du sentiment, Boivin, Paris 1927, p. 3. 31 27 integrale”33. Nelle opere di Segond, il campo creativo è considerato in una sua ampiezza cosmologica e psicologica che trascende la particolarità della creazione artistica compiendo delle corrispondenze indefinite e senza fine intelligibili dei valori umani34. Punto di riferimento costante di tutto il suo percorso, fortificato tra l’altro dai riferimenti autoriali che lo caratterizzano, è quello che vuole l’attenzione costantemente orientata alla fisiologia, scienza che ha dato origine in Francia a un gran numero di lavori dedicati al ruolo dei ritmi corporei all'interno dei processi di creazione o percezione di un'opera d'arte. Oltre a Segond, è fondamentale tenere presente l’alto numero di autori che dietro l’impostazione filosofica, e a volte anche essendone privi, hanno visto nel ritmo fisiologico l’origine stessa dell’estetica, da considerare a partire dalle sue basi organicovitali35; impostazione questa non priva di effetti di primaria importanza sulle meditazioni estetiche proprie della fenomenologia francese e, come vedremo, di quella di Dufrenne in particolare.36 Al di là di tali e simili estremistiche riduzioni della creazione alla fisiologia, il corpo e la sua cinestesia occupano un ruolo fondamentale nella costituzione del genio al quale si riconosce tuttavia, nel rispetto della tradizione, anche una componente casuale, ineffabile benché non necessariamente misteriosa. Ciò consiste in un'ostinazione cosciente a scavare tutti i meandri del possibile, in un intelletto riflessivo e pronto a provare tutte le combinazioni possibili, “in uno sforzo instancabile e sempre cosciente attraverso il quale si mostrerà il meccanismo stesso della combinazione che si apre, in breve in un cosciente persistere a voler comprendere indefinitamente il segreto della sua propria operazione”37. 33 Ivi, p. 114. J. Segond, Le problème du génie, cit., p. 46. 35 Il fondamentale problema dei rapporti fra estetica e fisiologia è trattato da V. Feldman, L'estetica francese contemporanea, a cura di D. Formaggio, Minuziano, Milano l945. 36 Il legame così istituito fra l'attività creativa e i movimenti corporei conduce alcuni autori a far derivare da esso le stesse «facoltà estetiche» della memoria e dell'immaginazione. È il caso, per esempio, di L. Arréat, influenzato dal tedesco G. Hirth di cui, nel 1892, traduce una Fisiologia dell'arte. Indagando il ruolo di memoria e immaginazione in pittori, musicisti, poeti e oratori, Arréat afferma che le distinzioni fra le facoltà nell'ambito funzionale di ciascuna disciplina artistica vanno ricercate esclusivamente nella psicologia e nella fisiologia dei loro protagonisti. 37 J. Segond, Le probléme du gènie, cit., p. 144. 34 28 Sono queste le posizioni che si ritroveranno in maniera evidente ad esempio nel pensiero di Valéry, con il quale vediamo riaffermare con forza l’idea che la nozione di genio ispirato e ineffabile sia di per sé vuota, poco esauriente rispetto al chiarimento dei procedimenti reali della creazione artistica e per nulla utile nello spiegare l’intelligibilità e ancor meno il senso di un’opera d’arte. Questa è invece piuttosto da osservare nelle sue caratteristiche di produzione tecnica, storica e culturale, momento perspicuo nel ciclo fenomenologico della tecnica artistica. È nella psicologia del genio che si incarna dunque, in particolare in Francia, quell’incredibile ricchezza di posizioni che accompagna il processo di nascita e assunzione di autonomia della disciplina estetica. È storicamente al voltare del secolo che si collocano i prodromi di quegli sviluppi teorici che, via Husserl in Germania, via Alain, Bachelard, Merleau-Ponty in Francia fino a Dufrenne, porranno all’estetica domande tra le più feconde. In esse si manterrà fermo il riferimento al corpo e, con questo, la contaminazione della meditazione filosofia con tematiche che da essa sembrerebbero esulare ma che, tra psicologia, fisiologia e psichiatria, sapranno offrire terreno fecondo di sviluppo teorico. Istanze di questo tipo arrivano infatti ad animare persino la meditazione di Merleau-Ponty, sin dalla pubblicazione de La structure du comportement38, punto di avvio che condivide l’interesse per una dimensione psicologica e fisiologica dell’esistenza e che condurrà alla più matura elaborazione di una fenomenologia di carattere ontologico e rigoroso. È ad un simile sostrato che guarda l’opera di Dufrenne, nella quale confluiscono temi che a volte arrivano ad esulare dai più rigorosi presupposti fenomenologici. Nel 1968, in piena temperie strutturalista e antiumanista, Dufrenne pubblica il saggio Pour l’homme, in cui si propone esplicitamente di “evocare l’antiumanesimo proprio alla filosofia contemporanea, e di difendere contro di esso l’idea di una filosofia che potrebbe avere cura dell’uomo”39. Lo sfondo della meditazione, se da una parte tiene saldi i riferimenti alla tradizione fenomenologica, dall’altro piega nella direzione 38 39 M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, Presses Universitaires de France, Paris 1949. M. Dufrenne, Pour l’homme, cit., p. 9. 29 che già con Merleau-Ponty si vide accostarsi a una tradizione di antropologia filosofica in cui vediamo agire, in particolare, le meditazioni di Segond, i contributi di pensatori non filosofi quali psicologi, e in particolare antropologi, e i presupposti sviluppati da figure come quelle di Maurice Pradines40 e, soprattutto, di Erwin Straus41. Proprio a tali pensatori si rivolge infatti a più riprese esplicitamente la riflessione di Dufrenne che anzi arriva a indicare il secondo quale modello per uno dei temi centrali sia per lui che per questo lavoro: il tema dell’unità dei sensi42. È costante e articolato il riferimento dufrenniano a Vom Sinn der Sinne43, con particolare riguardo per i concetti dell’abitare del corpo nel mondo, della dimensione percettiva come fondo intuitivo e corporeo di ogni possibile frequentazione ma anche, in ideale diretto dialogo con Merleau-Ponty oltre che con Husserl, Heidegger e Cassirer, per il tema del sentire come terreno che precede la distinzione percettiva tra soggetto e oggetto. Si ritrova infatti a più riprese, nelle parole di Straus, una forma di introduzione esplicita a quelli che saranno, via Merleau-Ponty44 gli sviluppi di Dufrenne: 40 M. Pradines (1874-1958), filosofo spiritualista prima ancora che psicologo, professore per oltre vent’anni Strasburgo e poi, dal 1938 alla Sorbonne. La sua ricerca abbraccia il campo psicologico e psicofisico trovando sistemazione prima in Philosophie de la sensation (Paris 1928-34, 3 voll.) poi nel Traité de psychologie générale (Paris 1943-46, 3 voll.) 41 E. Straus (1891-1975), medico e neuropsichiatria tedesco. Allievo a Monaco di Kraepelin, a Zurigo di Beluler e Jung, è stato dal 1931 docente di psichiatria all’Università di Berlino e, dopo essere emigrato negli Stati Uniti nel 1938, al Black Mountain College (North Carolina). Dopo la guerra ha lavorato come direttore al Veteran Administration Hospital di Lexiton in Kentucky e come professore di psichiatria alla University of Louisville. È considerato, insieme a Binswager e Minkowski, fra i più significativi rappresentanti della psichiatria fenomenologica. Fra i suoi lavori si ricordano Geschenis und Erlebnis (Berlin – Gottingen –Heidelberg 1930), la raccolta di saggi Phenomenological Psychology (New York 1966) e soprattutto il fondamentale lavoro sulla sensazione Vom Sinn der Sinne (Berlin – Gottingen – Heidelberg 1935). 42 M. Dufrenne, L’oeil et l’oreille, tr. it. L’occhio e l’orecchio, cit., p. 49 e segg. 43 E. Straus, Vom Sinn der Sinne. Ein Beitrag zur Grundlegung der Psychologie, Springer, BerlinGottingen-Heidelberg 1935, tr. francese che qui si utilizza di G. Thines e J.P. Legrand, Du sens des sens. Contribution à l’étude des fondements de la psychologie, Millon, Grenoble 2000. 44 Non a caso entrambi i pensatori sono elencati da Merleau-Ponty fra le “Opere citate” di Phénoménolgie de la perception (cfr. M. Mereleau-Ponty, Phénoménolgie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 587 – 588). A sua volta, nella prefazione alla seconda edizione del proprio volume, Straus colloca Merleau-Ponty (insieme con Binswager, Buytendijk, von Gebsattel e Zutt) fra gli autori nei cui confronti deve riconoscere un “debito profondo” (cfr. E. Straus, op. cit., p. V). È opportuno ricordare, ai fini di una miglior comprensione della molteplicità di riferimenti incrociati, che nela stessa sede egli riconosce inoltre di aver trovato con alcune opere dell’ultimo Husserl pubblicate postume, “su più di un punto una convergenza incoraggiante con le mie proprie vedute” (Ibidem). 30 Dell’esperienza vissuta, nella sua globalità, si è sempre preso in considerazione e osservato il momento gnosico, ma mai il momento patico. (…) Il patico appartiene allo stadio più originario dell’esperienza vissuta, e se risulta così difficilmente accessibile tramite la conoscenza concettuale, è proprio perché con i fenomeni noi instauriamo una comunicazione immediatamente attuale, intuitivo-sensibile, ancora di stato preconcettuale.45 Vi è dunque la possibilità di avvicinare la meditazione di Dufrenne proprio a partire da questa ininterrotta eco di consonanze che scorre da Vom Sinn der Sinne a Phénoménologie de la perception volgendosi con uguale intensità tanto all’ambito più strettamente filosofico e fenomenologico quanto a quello, comunque sempre presente, dischiuso dalle ricerche psicologiche e fisiologiche. Di tale duplice direzione è impregnata l’intera opera di Dufrenne, fino all’ultimo scritto L’occhio e l’orecchio, che lascia reagire l’interesse estetico-ontologico su posizioni di carattere psicologico-antropologico, mettendo forse in campo l’ultimo tentativo di sintesi offerto dall’autore. In quest’opera, in particolare nel problema della sinestesia, filtrano e si intrecciano i temi di fondo di tutta la filosofia dufrenniana e, soprattutto, si leggono chiaramente in filigrana le differenti direzioni di interesse che ne hanno animato la ricerca. Ma è questo uno dei punti di arrivo cui questo lavoro si propone di approdare; preliminarmente, è opportuno concentrare l’attenzione sulle coordinate tematiche che, storicamente e teoricamente, introducono quanto andremo ad esplorare. Esiste un passo merleaupontiano, nel quale confliuiscono tanto le ricerche di Straus quanto i presupposti husserliani, di fondamentale importanza sia all’interno dell’intera ricerca merleaupontiana che per la sua lettura da parte di Dufrenne, che possiamo utilizzare a titolo di riferimento introduttivo: è quello che si trova nella Premessa della Phénoménologie, là dove l’autore si propone di esplicitare a suo modo il senso dell’esortazione di Husserl a tornare alle cose stesse: Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la coscienza parla sempre, e nei confronti del quale ogni 45 E. Straus, op.cit., tradotto in italiano in A. Pinotti (a cura di), Erwin Straus, Henri Maldiney. L’estetico e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 43. 31 determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato, un fiume.46 La citazione strausiana è esplicita: il riferimento è infatti alla sua celebre distinzione fra spazio del paesaggio e spazio geografico. Il primo sarebbe uno spazio originario del “sentire” (Empfinden), che egli intende nella sua inscindibile unità con il muoversi, in cui il mondo è “qui per me ed è solo così che è qui per me ed è qui in qualche modo”47; lo spazio geografico è invece spazio in equilibrio precario tra quello del paesaggio e quello fisico48, è lo spazio “del mondo umano della percezione”49, che non conosce orizzonte ma coordinate vincolate a un punto-zero stabilito arbitrariamente, come il meridiano di Greenwich. Se il paesaggio è lo spazio che abitiamo in comune con l’animale, la geografia è un dove esclusivo dell’essere umano, capace di quella razionalizzazione globale della spazialità che rappresenta la sua vita. Il riferimento husserliano è basilare, nel senso letterale di humus cui si attinge e da cui si diparte, e proprio in questo passo si può leggere una delle direttrici che MerleauPonty lascia avviare, e allontanare, proprio a partire dal padre della fenomenologia. Il motto di ritorno alle cose stesse è inteso secondo uno slittamento fondamentale, in una sorta di adeguamento agli interesse dell’autore francese, che lo vede come un ritorno all’origine stessa dell’espressione, alla fondazione originaria di ogni senso che viene attribuito alle cose. In Merleau-Ponty, uno dei riferimenti più ricorrenti a Husserl avviene, infatti, come si legge nei più diversi contesti, sotto lo stimolo costante di un motivo delle Meditazioni cartesiane: “È l’esperienza […] ancora muta che per la prima volta deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso”. La frase compare nella prefazione della Fenomenologia della percezione nel momento in cui l’autore affronta la riduzione eidetica, a proposito della quale troviamo un passo da tenere presente: 46 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 17. E. Straus, op. cit., p. 329. 48 “Il mondo percettivo umano sta tra il paesaggio e la fisica. (…) Poiché esso confina con entrambi, con il paesaggio e con la fisica, stando tra di loro, rimane ambiguo in se stesso, e non solo per chi osserva. Teso fra questi contrasti esso si trova in equilibrio estremamente instabile, sempre minacciato da un’oscillazione eccessiva verso questo o quel lato.” Ivi, p. 381. 49 Ibidem. 47 32 Quali che siano le variazioni di senso che infine hanno dato luogo alla parola e al concetto di coscienza come acquisizione del linguaggio, noi abbiamo un mezzo diretto per accedere a ciò che esso designa, abbiamo l’esperienza di noi stessi, di questa coscienza che noi siamo: su tale esperienza si misurano tutti i significati del linguaggio, ed essa fa sì che esso voglia appunto dire qualcosa per noi. “È l’esperienza … ancora muta che ora per la prima volta deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso.” Le essenze di Husserl devono ricondurre con sé tutti i rapporti viventi dell’esperienza, come la rete porta dal fondo del mare i pesci e le alghe palpitanti. […] La funzione del linguaggio consiste nel far esistere le essenze in una separazione che, a dire il vero, è solo apparente, giacché per mezzo del linguaggio esse riposano ancora 50 sulla vita antepredicativa della coscienza. Ancora nella Fenomenologia, si ritrova un passo che, facendo riferimento a Kant, ribadisce la questione nei seguenti termini: Ma l’Io riflesso differisce dall’Io irriflesso per lo meno in questo, che è stato tematizzato. Come lo stesso Kant osserva acutamente, ciò che è dato non è la coscienza né l’essere puro, ma l’esperienza, ossia, in altri termini, la comunicazione di un soggetto finito con un essere opaco da cui questo soggetto emerge, ma in cui rimane ancorato. È “l’esperienza pura e per così dire ancor muta che ora, per la prima volta, deve essere portata all’espressione pura del suo senso proprio.” Noi abbiamo l’esperienza di un mondo, non nel senso di un sistema di relazioni che determinano interamente ogni evento, ma nel senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile.51 Ne Il visibile e l’invisibile ritroviamo la frase in questione in un passaggio cruciale, a conclusione del primo capitolo che ha per oggetto l’interrogazione filosofica. Qui il riferimento, in totale coerenza con l’impostazione dell’opera matura, è ontologico e riguarda: Lo svelamento di un Essere che non è posto, poiché non ha bisogno di esserlo, poiché è silenziosamente dietro tutte le nostre affermazioni, negazioni, e anche dietro tutte le domande formulate, non perché si tratti di dimenticarle nel suo silenzio, non perché si tratti di imprigionarlo nelle nostre chiacchiere, ma perché 50 51 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 24. Ivi, p. 297. 33 la filosofia è la mutua riconversione del silenzio e della parola: è l’esperienza 52 ancor muta che deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso. Il commento più esauriente a questa “piccola frase” si ha però nel 1959 quando, in occasione di una discussione con Alphonse de Waelehens53, Merleau-Ponty espone il postulato husserliano come “il compito più difficile, quasi impossibile” assegnato da Husserl alla fenomenologia. Compito realizzabile, benché la sua paradossale difficoltà ne faccia uno dei nodi di maggior interesse, grazie ad una frequentazione del mondo e ad un linguaggio che si manifestano come un “fare”54 e come un saper-fare prima di essere tematizzati al livello del sapere esplicito. Queste linee tematiche mutuate da Husserl, con la libertà propria di Merleau-Ponty, tornano a intersecare, come in un gioco di specchi e di rimandi incrociati, la prospettiva di Straus, lungo la già citata analisi dello strato patico della vita che Straus ha messo a fuoco. Tale strato è infatti quello dell’esperienza al suo stadio genetico e germinale, originario nel suo essere antecedente tanto alla costituzione del fenomeno come oggetto, quanto alla costituzione del soggetto come suo correlato. Abbiamo visto una certa cosa mille volte, e tuttavia non l’abbiamo mai vista veramente. Una domanda ci costringe a vederla correttamente per la prima volta. La prima visione era una visione del sentire, nella partecipazione dell’espressione; la seconda visione, invece, è una visione del percepire. La domanda ci introduce in un nuovo ordine della comprensione. Siamo stati interrogati da “qualcosa” (…) Nella visione del sentire il “qualcosa” era era solo qui ed ora per me, momentaneamente, transitoriamente. Ma ora dopo il passaggio al mondo della percezione, questo esserci-per-me è colto come un 55 momento della serie generale degli eventi. In questo continuo rilancio della scommessa di risalire là dove la dimensione percettiva precede quasi paradossalmente la percezione stessa, che vedremo confluire mutatis mutandis nel problema sinestetico impostato da Dufrenne, agisce una forma di consapevolezza del carattere attivo, originario e fungente della relazione percettiva tra 52 Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2003, p. 146. Cfr. B. Waldenfels, Fair voir par les mots, “Chiasmi International” n. 1, 1999, p. 58. 54 M. Merleau-Ponty, La prose du monde, Gallimard, Paris 1965, ed. it. La prosa del mondo, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 54. 55 E. Straus, op. cit., p. 382. 53 34 soggetto e oggetto. Si innesta qui uno dei cardini del nostro percorso e di questa relazione storica e teorica che corre tra le diverse voci cui stiamo accennando. È il tema della dimensione antepredicativa dell’esperienza, che Straus tematizza come originaria apertura simpatetica ed empatica al mondo56 e nel quale Merleau-Ponty, derivandolo direttamente da Husserl, insedia tutta la fenomenologia della coscienza percettiva che costituisce la sua Fenomenologia della percezione. Quella svolta da Merleau-Ponty è un’indagine intorno ai territori precategoriali dell’esperienza57 in una costante interrogazione dell’originario a partire da corporeità e 56 Cfr. E. Straus, op. cit., pp. 423 e segg.: “Soprattutto, l’interpretazione del sentire come legame simpatetico con il mondo apre la strada alla comprensione dell’intero gruppo dei sintomi (…) L’individualità si trova con ciò racchiusa in un contesto che è già fondato e, insieme, ogni volta di nuovo da fondare. (…) L’esperire simpatetico viene prima del dubbio, e quindi prima della possibilità delle contraddizioni, delle ragioni e delle motivazioni.” Il capitolo è dedicato alla teoria delle allucinazioni e significativamente ripreso da M. Merleau-Ponty nella Fenomenologia, cit., pp. 180 e segg. 57 Il riferimento che storicamente non solo introduce ma anche supporta questa indagine merleau-pontiana è naturalmente rappresentato dalla meditazione di Husserl. Quest’ultima è però a sua volta fortemente debitrice dei contributi di Kant del quale egli mira in qualche modo a completare la prospettiva. È proprio Husserl (cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961) a notare come Kant sembri “accedere a una fondazione diretta, puntata sulle fonti originarie”, ma per interrompersi subito senza indagare il “fungere estetico” originario e fondativo di questa spontaneità. Il riferimento è in particolare a alcuni passi della Critica del giudizio che conviene qui sinteticamente ricordare. Sono quei passi in cui Kant, là dove si concede, con un excursus squisitamente illuministico, di tentare una suddivisione delle belle arti ne reperisce il principio più comodo nell’analogia dell’arte con “quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto più perfettamente possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni” (I. Kant, La critica del giudizio, Laterza, Bari 2007, p. 317). Tale partito linguistico ed espressivo rappresenta una importante novità introdotta in questa sezione, relativamente isolata, della Critica del giudizio. Viene con esso delineato uno statuto delle arti (e forse anche dell’estetica) fondato sulla definizione di esse come espressione e comunicazione di concetti e sensazioni, senza che alcuna considerazione rilevante sia concessa all’antico partito imitativo. Con questa cesura è permesso rintracciare il principio dell’artistico nell’espressione di idee estetiche e con ciò, infatti, iniziare a rilevare due elementi centrali: la speciale valenza conoscitiva riconosciuta all’esperienza estetica, in campo artistico ma non solo, e lo statuto peculiare riconosciuto al sentimento all’interno dell’intera Critica del giudizio. Le idee estetiche sono, per definizione, quelle “rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione a pensare molto, senza però che un qualunque pensiero o concetto possa esser loro adeguato; e che, di conseguenza, nessuna lingua può completamente esprimere e rendere comprensibili” (Ivi, p. 305). Esse esulano dunque dalla logica che obbedisce all’intelletto legiferante, aprendo una dimensione extradiscorsiva e portando sul piano del sensibile qualcosa che ad esso, e alle sue forme precostituite, non è del tutto riconducibile. Con questa indagine si apre la possibilità di leggere l’ambito gnoseologico secondo una fondamentale accezione simbolica, nel momento in cui le facoltà del soggetto rivelano una potenzialità eccedente, e forse superiore, rispetto alla semplice apprensione dei fenomeni sensibili. Questa capacità eccezionale, tutta umana, che si incarna nel genio e nella sua produttiva espressività, è quella che si manifesta nel trovare i modi adeguati alla rappresentazione comunicativa delle idee estetiche nelle loro qualità precategoriali. Il rapporto tra le facoltà si instaura tra immaginazione e intelletto, ma grazie alla libertà vigente in questa relazione, esso si estende fino a coinvolgere anche la ragione. La ragione, in occasione di un’intuizione dell’immaginazione nella libertà creatrice del genio, è spinta a pensare oltre la determinatezza dei concetti, fino a un’unione di sensibile e soprasensibile. 35 percezione. Quest’ultima tematizzata come dimensione dell’ambiguità precategoriale sfuggente ogni oggettivazione della coscienza tetica, diretta da una logica vissuta cui l’intelletto non richiede rendiconto. La percezione, così come la descrive l’autore francese, dischiude infatti la primordiale aderenza dell’io al mondo senza mai essere del tutto categorizzabile negli univoci schemi del pensiero intellettuale. “Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità”58. La sintesi operata dal corpo percipiente è di carattere prelogico, non si attesta nella trasparenza di una coscienza tetica e percepire le cose significa, in prima istanza, viverle59. Sulla base di questa notazione, meno banale di quanto sembri, si attesta la valorizzazione di un aspetto decisivo dell’intenzionalità, con il riconoscimento del primato dell’intenzionalità fungente su quella tematica. Non si tratta di sdoppiare la coscienza umana in un pensiero assoluto, che, dal di fuori, le assegnerebbe i suoi fini. Si tratta invece di riconoscere la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata ad un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi, e il mondo come quell’individuo preoggettivo la cui unità imperiosa prescrive alla conoscenza il 60 suo scopo . Kant delinea quindi una conoscenza che, avendo di mira “ciò che trascende la natura”, configurandosi come “una coscienza del soprasensibile”, non si può spiegare perché irriducibile a un concetto, ma si può esprimere. Ciò significa precisamente “esprimere ciò ch’è inesprimibile nello stato d’animo in cui ci mette una rappresentazione e renderlo comunicabile universalmente” (Ivi, p. 311). Si parla, a questo proposito, di ipotiposi simbolica, cioè di una modalità di esibizione allusiva di quelle rappresentazioni prive di concetti adeguati che sono appunto le idee estetiche. L’idea estetica rivela la messa in atto di una esibizione simbolica, quindi non diretta e dimostrativa ma indiretta e analogica, del soprasensibile. La riflessione sul giudizio estetico porta alla rivelazione di come, nel libero gioco delle facoltà conoscitive suscitato da una bella forma e dal piacere libero e universale che ne consegue, al soggetto sia concessa l’esperienza di qualcosa che trascende il piano dei fenomeni determinati da una meccanicistica causalità. A partire dalla relazione del soggetto con oggetti apparentemente radicati nella sensibilità e nella contingenza si apre la possibilità di passare dal modo di pensare valido per i fenomeni a quello applicabile a realtà sovrasensibili. In tal senso, a partire da Kant, si può nominare la possibilità di una modalità di conoscenza simbolica, nella misura in cui la concezione espressiva dell’arte si trova direttamente collegata agli aspetti dei fenomeni non afferrabili in modo logico e pur tuttavia esteticamente ben presenti. Ne risulta, per l’esperienza estetica, una valenza gnoseologica peculiare che si può a giusto titolo configurare come conoscenza simbolica, che illumina quei territori sui quali non è possibile esercitare una conoscenza effettiva. 58 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 26. 59 Per un approfondimento di questi aspetti si veda S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 24 e segg. 60 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 27. 36 L’intenzionalità fungente costituisce, nelle parole di Merleau-Ponty, “l’unità naturale antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio, più chiaramente che nella conoscenza oggettiva”61 e che porta in evidenza l’originarietà ineludibile dell’atteggiamento naturale, di carattere eminentemente sensibile-affettivo, nel quale si radica la verità antepredicativa della nostra stessa vita. Esiste dunque uno scarto, che va riconosciuto e tematizzato, tra l’intenzionalità tematica della coscienza rappresentativa, incarnata nel Cogito riflesso, e la spontaneità selvaggia dell’intenzionalità corporea che ricorda come anche la vita percettiva sia in filigrana attraversata da un’ineludibile intenzionalità. Strumento teorico fondamentale è qui evidentemente la distinzione husserliana tra intenzionalità d’atto e intenzionalità fungente, cioè tra un rapporto col mondo configurato come conoscitivo in senso stretto e una modalità di relazione che lo trascende. Nell’ottica merleaupontiana, un movimento intenzionale si impone come base trascendentale da tematizzare non più, come per Husserl, in quanto intenzionalità della coscienza, non più nell’ordine dell’oggettività già costituita o in quello di un atto teoretico, bensì su un piano sotteso e precedente ognuno di questi atti, su un piano fungente. Per Merleau-Ponty questo si traduce in una riduzione iniziale dell’intenzionalità alla corporeità quale base naturale indispensabile per ogni costituzione di senso. L’introduzione e la seconda parte della Fenomenologia della percezione comprendono una dettagliata analisi del fenomeno del sentire tesa a mostrarne la valenza di intenzionalità primordiale. Al sentire corporale viene ricondotta ogni condizione del pensiero concettuale e questo lo rende irriducibile alla sola ricettività e passività dei sensi. Nemmeno le sensazioni più elementari, ad esempio le differenze di colore, possono ridursi semplicemente a un certo stato del corpo passivamente sollecitato: piuttosto “esse si offrono con una fisionomia motrice, avviluppate in una significazione vitale”62. 61 Ibidem. Ivi, p. 292. Cfr. E. Straus: “Il vedere non è solo un avere colore e luce, l’udire non è solo un avere suoni e rumori. Vedere e udire sono modi diveri della comunicazione del mondo, ed è per questo motivo 62 37 La stessa vita fungente assume in quest’ottica il ruolo del trascendentale, che a sua volta viene dunque fatto discendere sul piano più squisitamente estetico e quindi, in ultima istanza, prettamente umano. “Il sentire è questa comunicazione vitale con il mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita. È ad esso che l’oggetto percepito e il percipiente devono il loro spessore. È il tessuto intenzionale che lo sforzo di conoscenza cercherà di decomporre”63. All’origine si colloca l’identificazione del più profondo nucleo di soggettività, formulato filosoficamente nell’idea di una vita di coscienza anonima che, nella Fenomenologia della percezione, si configura come Cogito tacito. Questo io silenzioso che esperisce l’immediato contatto con la propria vita prima di esprimersi con la parola è assunto a luogo di fondazione dell’io articolato nel linguaggio razionale che si manifesta nel Cogito riflesso. Esso costituisce anche una forma di limite: non può divenire oggetto di conoscenza ma solo forma di vita al di qua di qualsiasi chiarificazione concettuale, è estraneo alla coscienza tetica.64 Tra la sfera percettiva e il Cogito si instaura un rapporto fondamentale, la cui chiave di lettura, in ottica trascendentale, è primariamente rappresentata dall’aspetto estetico della relazione tra corpo e oggetto. Il trascendentale stesso è ridefinito alla luce della corporeità percipiente, il cui fungere è rigorosamente estetico. Su questo piano si staglia l’importanza dell’intenzionalità fungente, anonima ma sempre presente, originale, riconducibile alla motilità. Come specifica Andrea Bonomi65, il corpo, non appartenendo al regno dell’in sé, è animato da un movimento esistenziale polarizzato verso il mondo, e la coscienza si configura come l’inerire alla cosa attraverso la mediazione del corpo. “Il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo”66. che la sfera visiva è più strettamente affine al delirio, mentre quella uditiva è affine alla metamorfosi schizofrenica.” (op. cit., p. 425). 63 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 309. 64 È molto indicativo notare come la transizione dal Cogito tacito a quello parlato non sia descritta in termini di progresso ma piuttosto come un necessario appiattimento della pienezza della dimensione primordiale. 65 A. Bonomi, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano 1967, p. 71. 66 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 202. 38 Il corpo si spoglia delle valenze oggettuali di cui è rivestito nella fisiologia classica, per essere invece investito del ruolo di veicolo primo del nostro essere-al-mondo; esso è il campo primordiale di ogni nostra esperienza, “mediatore di un mondo”67. Inoltre, il sentire è quel primo atto grazie a cui ci è possibile costituire una certa identità degli oggetti senza che si renda necessario l’intervento della riflessione. I sensi si traducono vicendevolmente senza aver bisogno di un interprete, si comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea. Queste osservazioni permettono di dare tutto il suo senso all’espressione di Herder: “L’uomo è un sensorio comune, che ora è toccato da una parte ora dall’altra.” Con la nozione di schema corporeo non è solo l’unità del corpo a essere 68 descritta in modo nuovo, ma anche, attraverso di essa l’unità dell’oggetto. Il sentire rinvia certo alla ricettività corporea, ma la sua attività giunge fino alla costituzione degli oggetti, con la loro unità e il loro senso. Costituita inizialmente dai sensi senza l’intervento della facoltà riflessiva, la prima identità degli oggetti percepiti precede dunque il cogito per ancorarsi profondamente in un ambito pre-riflessivo. Si spiega in questo modo la qualificazione del sentire come forma di intenzionalità pre-riflessiva. Questa descrizione della peculiarità del corpo, e della sua intenzionalità nella dinamica di apprensione del reale, può stendersi su due temi differenti, a loro volta intrecciati al problema dell’espressione, generale e artistica: lo spazio e il simbolo. In primo luogo, il corpo come soglia di apertura del nostro essere-al-mondo si pone in una relazione peculiare con la categoria dello spazio69. Tra spazialità del corpo e spazialità oggettiva esiste uno scarto, inevitabilmente aperto dalla valenza trascendentale della relazione corporale. La spazialità del corpo è nettamente diversa da quella degli oggetti esterni: essa “non è una spazialità di posizione, ma una spazialità di situazione”70. In tal senso l’orientamento corporeo non è ricavabile dal riferimento posizionale a coordinate esteriori, il Qui del corpo si configura come un Qui originario, 67 Ivi, p. 200. Ivi, p. 314. 69 Certo anche la relazione temporale non è priva di interesse, ma necessariamente estranea alla trattazione in questa sede. Per un’esaustiva indagine di questo aspetto si veda A. Bonomi, op. cit., cap. V, p. 101 e sgg. 70 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 153. 68 39 assoluto71. E assoluto è ugualmente il sapere sotteso alla presenza del corpo, quel sapere innato che fa in modo che sempre si sappia “dov’è la pipa”72. Nella chiarificazione del nostro essere-al-mondo attraverso il tema della spazialità corporea si ritrova il tema dell’intenzionalità. Lo spazio corporeo, infatti, “può essermi dato in una intenzione di prensione senza essermi dato in una intenzione di conoscenza”73. È a partire dal corpo, dunque, che si incarna e concretizza quel principio originario di presa sul mondo precedente la tematizzazione della coscienza tetica, dell’intenzionalità d’atto. Si riconferma con ciò centrale il fungere originale dell’intenzionalità corporea identificabile con l’apertura fondamentale della motilità. Quest’ultima dischiude di fronte al soggetto un orizzonte di virtualità da rinnovare e ristrutturare di continuo, condizione di possibilità di tutte le formalizzazioni comportamentali a venire. In questa prospettiva, di carattere trascendentale, “il corpo è eminentemente uno spazio espressivo”74. C’è un originario inerire estetico, dove questo aggettivo assume tutte le valenze più etimologiche possibile, alla base del rapporto uomo-mondo e soprattutto sulla soglia di apertura di ogni possibile dinamica espressiva75. In secondo luogo, è possibile vedere qui la rivelazione di una forma di valenza simbolica che Merleau-Ponty tematizza dall’apertura dagli stessi atti corporali. Nell’operazione del percepire avviene una simbolizzazione a livello dei registri sensoriali ognuno dei quali viene spontaneamente tradotto negli altri. È quello che Merleau-Ponty descrive come un dialogo intersensoriale, che permette l’accesso alla cosa nella sua ipseità. Tuttavia, 71 Cfr. A. Bonomi, op. cit., p. 67. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 153. 73 Ivi, p. 158. 74 Ivi, p. 202. In questo contesto teorico il corpo viene assimilato alle opere d’arte, “cioè esseri in cui non si può distinguere l’espressione dall’espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale”. Esso, come l’opera, si configura come un “nodo di significati viventi”, “un insieme di significati vissuti che va verso il proprio equilibrio” (Cfr ivi, pp. 216-218) Questa notazione rivelerà la propria efficacia là dove, con Dufrenne, passeremo all’analisi del problema sinestetico in relazione al campo artistico. 75 “Il mio corpo è il luogo, o meglio l’attualità stessa del fenomeno di espressione (Ausdruck), in esso l’esperienza visiva e quella auditiva, per esempio, sono l’una pregnante dell’altra, il loro valore espressivo fonda l’unità antepredicativa del mondo percepito e, attraverso di essa, l’espressione verbale (Darstellung) e il significato intellettuale (Bedeutung)”. (Ivi, p. 314) 72 40 L’ipseità non è mai raggiunta: ogni aspetto della cosa che cade sotto la nostra percezione non è che un invito a percepire oltre, e una pausa momentanea nel processo percettivo. Se raggiungessimo la cosa stessa […] essa cesserebbe di 76 esistere come cosa nel momento stesso in cui crederemmo di possederla. L’apprensione della cosa avviene percettivamente tramite uno schema corporeo i cui aspetti sensoriali “sono immediatamente simbolici l’uno dell’altro perché il mio corpo è appunto un sistema già fatto di equivalenze e trasposizioni intersensoriali”77. Nell’unità antepredicativa della percezione si radica ogni possibilità di donazione di senso, all’oggetto naturale ma anche agli oggetti culturali e ai significati intellettuali. In questa prospettiva si chiarisce la valenza simbolica riconoscibile all’origine medesima del nostro essere-al-mondo: le sensazioni corporee non vanno a costituire un rigido schema estetico senza sbocco, bensì forniscono la possibilità stessa del nostro “frequentare questo mondo, comprenderlo e trovargli un significato”78, costituendo il corpo stesso come “simbolica generale del mondo”79. Nell’originarietà di questa esperienza non tetica, preoggettiva e precosciente, infine eminentemente estetica, si dipartono diverse intenzioni, ancora vuote, che nell’esperienza della cosa potranno riempirsi del pensiero tetico. “La riflessione stessa coglie quindi il suo senso pieno solo se menziona il contenuto irriflesso che presuppone, di cui beneficia, e che per essa costituisce un passato originario, un passato che non è mai stato presente.”80 Sono questi alcuni dei riferimenti teorici più densi che nel pensiero di Dufrenne troveranno non solo ripresa, ma anche sviluppo autonomo e completamento originale. Per quanto radicata in indagini di carattere estetico, quella di Dufrenne è una filosofia che mira a sfociare in un’etica, nella quale l’uomo nella sua totalità paticopratica rappresenta il centro assoluto. Rispetto alla fenomenologia merleau-pontiana Dufrenne si pone quasi con l’intento di chiudere, completandolo, un percorso che l’amico, a causa della prematura scomparsa, non poté che lasciare abbozzato. È un 76 Ivi, p. 312. Ivi, p. 314. 78 Ivi, p. 316. 79 Ibidem. 80 Ivi, p. 322. 77 41 percorso che dalla fenomenologia della percezione aveva ormai preso con ogni evidenza una direzione strettamente legata a problematiche ontologico-antropologiche di cui è riccamente intessuto quell’archivio di temi che Merleau-Ponty si proponeva di sviluppare, rimasti nelle densissime note di lavoro che seguono l’edizione italiana de Il visibile e l’invisibile. L’ontologia cui guarda Dufrenne condivide l’orizzonte antropologico di quella dell’ultimo lavoro merleau-pontiano: “Questo mondo, questo Essere, fattività e idealità indivise, che non è uno, nel senso degli individui che contiene, e tanto meno, nella stesso senso è due o più, non è niente di misterioso: è in esso che abitano, a prescindere da ciò che ne diciamo, la nostra vita, la nostra scienza e la nostra filosofia.”81 In entrambi i casi l’ontologia si presenta “decapitata” in senso esperienziale (se si vuole “fenomenologico”); non si tratta di un ontologia husserliana, come tentativo di cogliere descrittivamente il significato dell’esperienza in relazione alle singole “regioni” di oggetti. Al contrario, quello che questi autori perseguono, è un incessante movimento di interrogazione dell’Essere nelle sue esperienze grezze, in quella trama “precateogoriale” che è carne delle cose e del visibile, che li fodera, li sostiene e li alimenta e che ne rappresenta la possibilità e la latenza. Al lavoro di Merleau-Ponty Dufrenne guarda in modo esplicito e programmatico, tenendone sempre presente la lezione soprattutto relativamente ai temi di percezione, coscienza percettiva e intenzionalità fungente. Sono infatti questi tre degli elementi peculiari, cardini dell’ontologia come della prospettiva antropologica di Merleau-Ponty che Dufrenne mutua dichiaratamente. È qui, così come nella commistione con altre discipline extrafilosofiche che l’autore programmaticamente non rifugge, che si può reperire un punto di contatto peculiare e significativo con le istanze che altrove, teoricamente e geograficamente, si andavano affermando. 81 Ivi, p. 136. 42 Ci si riferisce in particolare a quella disciplina che, sotto l’etichetta significativamente troppo ampia di antropologia filosofica, ha fatto la sua comparsa ufficiale nella Germania negli anni Venti del secolo scorso. I punti di tangenza tra la riflessione dufrenniana, nonché l’estetica in generale, e i temi dell’antropologia filosofica sono molteplici e formano una costellazione teorica di alcuni degli sviluppi più interessanti di temi centrali a entrambi gli orizzonti. Prima di riservare spazio a tali incroci, sarà opportuno gettare un sintetico sguardo sull’evoluzione storica dell’antropologia filosofica, così da intravedere quali percorsi l’hanno introdotta e cercare di comprenderne il più efficacemente possibile le questioni, le loro linee di sviluppo e la metodologia di indagine. 1.2 Antropologia filosofica: lineamenti storici Se è nel Novecento che l’antropologia assume i caratteri che la portano a rispondere ad esigenze in sintonia con quelle filosofiche, tanto da influenzare la definizione di un settore di essa come antropologia filosofica, è però nel Settecento che affondano le sue radici storiche, nello stesso humus e in quell’orizzonte di indagini e interrogativi che, sotto aspetti altri ma non discordanti, conduceva altrove alla nascita dell’estetica. Dedicheremo ora alcuni cenni alle condizioni storiche che l’hanno introdotta e ne hanno permesso di delineare le caratteristiche teoriche, anche se esse, come si mostrerà, si intersecano di frequente e anzi si sovrappongono a quelle dell’antropologia tout court. Vedremo anche come tali condizioni storiche abbiano un punto di passaggio fondamentale nella meditazione kantiana e come proprio grazie a quest’ultima sia possibile rilevare un punto di incontro fondamentale tra gli interessi che animano l’antropologia filosofica e quelli che invece vivono nell’estetica. 43 Come riflessione filosofica che mira a delineare una immagine unitaria di quell’essere complesso che è l’umano, riflettendo sui risultati delle scienze che in modi e con strumenti differenti si occupano dell’uomo, l’antropologia filosofica mira a porsi come: Scienza fondamentale dell’essenza e della costruzione essenziale dell’uomo; una scienza fondamentale del suo rapporto con i regni della natura (regno anorganico, regno delle piante, regno degli animali) e con il fondamento di tutte le cose; una sicenza della sua origine metafisica essenziale e del suo inizio fisico, psichico e spirituale nel mondo; delle forze e potenze che lo muovono e che egli muove; una scienza delle tendenze e delle leggi fondamentali del suo sviluppo biologico, storico-spirituale e sociale, tanto delle possibilità essenziali di questo sviluppo quanto delle sue effettualità. È qui contenuto il problema psico-fisico anima-corpo e il problema poetico-vitale. Soltanto una tale antropologia sarebbe in grado di dare un fondamento ultimo di natura filosofica nonché, insieme, scopi della ricerca sicuri e definiti, a tutte le scienze che hanno a che fare con l’oggetto “uomo”, alle scienze naturali e mediche, a quelle che si occupano della preistoria, alle scienze etnologiche, a quelle storiche e a quelle sociali, alla psicologia normale e alla psicologia evolutiva nonché alla caratterologia.82 Intenti apparentemente enciclopedici, che mostrano chiaramente un’esigenza forte, alimentata dalla capillarizzazione scientifica che ha caratterizzato il grande sviluppo del ventesimo secolo. In seguito alla inedita moltiplicazione e differenziazione delle scienze relative ai diversi aspetti dell’uomo, ed al loro potenziamento esplosivo, infatti, ha preso vita un tipo di approfondimento rispetto all’umano che ha costantemente privilegiato l’analisi e la delimitazione di singole aree di interesse, a scapito della considerazione del fenomeno umano nella complessità della sua unità. Proprio alla complessità unitaria del fenomeno umano, invece, si è rivolta quella nuova disciplina che, assegnando alla questione un posto centrale e principale, si 82 M. Scheler, Uomo e storia, in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Guida, Napoli 1988, p. 257 44 proponeva di affrontarla secondo criteri e con strumenti indipendenti rispetto agli altri problemi filosofici. Quella che si manifesta nei primi decenni del Novecento è dunque una forma di interrogazione del fenomeno umano che si pone il compito e il dovere di tenere conto tanto dei risultati offerti dalle scienze quanto delle istanze che, al modo della filosofia, conducevano a ribadire un’autorità disciplinare teorica nella complessità delle caratteristiche dell’oggetto in questione. Le risposte vengono dunque cercate secondo strade indipendenti, e solo in parte parallele, da ogni logica costruzione di filosofie già compiute; strade che spesso incrociano quelle delle scienze e che al grado di oggettività delle scienze, almeno delle scienze umane, aspirano. Prima ancora di essere filosofica, infatti, la disciplina dell’antropologia tout court ha dovuto ritagliare il proprio spazio d’azione all’interno delle scienza umane andando a configurarsi sì come una di esse, ma giungendo anche a esserne il minimo comune denominatore, l’ambito da cui tutte le altre partono e ritornano.83 La disciplina dell’antropologia filosofica ha continuato a condividere questo orizzonte, integrandolo però con le prospettive mutuate da quella sorta di “nuovo umanesimo” che le correnti esistenzialistiche e fenomenologiche, nonché neoidealistiche e spiritualistiche, aprivano. Uno degli impulsi più significativi è stato poi senza dubbio rappresentato dalla crisi dell’ideologia positivista e scientista e dalla reazione da parte della filosofia all’invasività totalizzante e fortemente tendente alla frammentazione e specializzazione che caratterizzava le scienze. 83 La questione del rapporto con le altre scienza umane, che riguarda l’antropologia tanto nella sua accezione scientifica quanto in quella filosofica, è uno dei nodi teorici su cui si divide la sua storia. Per semplificare si può ricordare la bipartizione caratteristica tra l’accezione dominante in Germania e quella dominante in Francia e nei paesi anglofoni. La prima vede l’antropologia come studio dell’uomo da un punto di vista principalmente biologico da mettere in relazione sul piano morfologico e fisiologico con le altre specie; la seconda privilegia piuttosto le caratterisitiche comuni all’etnologia come ricerca sulle culture primitive e studio delle relazioni che hanno legato l’uomo e l’ambiente dai punti di vista culturale e sociale. Cfr. a questo proposito C. Tullio Altan, Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo, Bompiani, Milano 1993 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati-Boringhieri, Torino 1992. 45 In nessun’altra epoca, come ha puntualizzato Maria Teresa Pansera84, le concezioni sull’essenza e l’origine dell’uomo sono state così incerte, indefinite e molteplici nella loro polisemanticità. “Noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma nello stesso tempo sa anche che non lo sa.”85 Nel loro Le filosofie del Novecento86, Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari fanno notare come la crisi dell’uomo e la frammentazione della sua autoimmagine si possano in parte far derivare proprio da quegli sviluppi scientifici con i quali si erano raggiunti i maggiori successi: l’astronomia copernicana, che aveva rimosso la terra, e con essa l’Uomo, dal centro dell’universo87; l’evoluzionismo darwiniano, con cui all’Uomo 84 M. T. Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori Editori, Milano 2001, p. 3. M. Scheler, Uomo e storia, cit., p. 257-258. 86 G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002. 87 Il riferimento ai mutamenti insorti in seguito alla cosmologia copernicana è più denso di conseguenze e significati rispetto all’antropologia, e a quella filosofica in particolare, di quanto si potrebbe a tutta prima presupporre. Il mondo copernicano è, infatti, quell’universo in cui, per la prima volta, viene messa a questione in modo esplicito la correlazione tra la concezione dell’astronomia e la coscienza che l’uomo ha di sé. L’uomo copernicano, come tematizza approfonditamente H. Blumenberg (cfr. H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, F.a.M., Suhrkamp 1974, tr. it. C. Marelli, La leggitimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, pp. 133-240 e pp. 372-489), ha preso coscienza della propria perifericità nell’universo che si presenta a lui nella propria imprescrutabile immensità, inchiodandolo ad una ormai impossibile identità tra ciò che vede e ciò che sa, tra evidenza visiva e realtà, natura e teoria. Secondo le metafora che Blumenberg teorizza, “geocentrismo ed eliocentrismo, ovvero acentrismo, diventano diagrammi dai quali si deve poter derivare un indice per capire cosa ci stia a fare l’uomo nel mondo. Questa direzionalità del nostro autointendimento ad opera della metafora cosmologica è diventata un topos della nostra attuale critica della situazione contemporanea, e si è così smarrita di gran lunga la differenza che c’è fra l’interpretazione metaforica di un risultato teoretico e l’assunzione della sua causalità a esplicazione di qualcosa da esso e con esso. Il mondo copernicano diventa la metafora per l’operazione critica che toglie legittimità al principio della teleologia, alla ‘causa finalis’, nell’insieme delle cause aristoteliche; e non c’è dubbio che solo la metafora copernicana fece esplodere primamente il pathos della deteologizzazione, che solo su di essa riposa una nuova coscienza di sé legata all’eccentricità cosmica dell’uomo”. (H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Buovier, Bonn 1960, tr. It. M. V. Serra, Paradigmi per una metaforologia, Mulino, Bologna 1969, pp. 139-140). O ancora, come scrive A. O. Lovejoy: “Solo dopo che la terra aveva perduto il suo monopolio, i suoi abitanti cominciarono a scoprire il proprio interesse maggiore nell’andamento generale degli avvenimenti terrestri, e giunsero a parlare finalmente delle loro vicende effettive e potenziali – per quanto il complesso di esse per comune ammissione non costituisse se non un episodio momentaneo nelle infinite vicissitudini del tempo e non avesse altra scena se non una minuscola isola in un cosmo incommensurabile e incomprensibile – come se il destino generale dell’universo dipendesse interamente da esse o in esse raggiungesse il suo compimento.” (A. O. Lovejoy, The great chain of being. A study of the history of an idea, Harvard Univ. Press 1936 tr. it. L. Formigari, La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 150-151). A partire dal XVI secolo non c’è campo umano che possa sottrarsi ai segni di questo epocale cambiamento epistemologico dove il concetto stesso di autoconservazione della specie, non più rassicurato dal calore della certezza divina, viene messo in discussione reclamando, di conseguenza, la massima attenzione sull’autoconoscenza della specie e, prima ancora degli individui. “Tratto caratteristico 85 46 veniva sottratto ogni predominio nei confronti degli altri viventi; infine, la psicoanalisi che, con il riconoscimento dell’importanza delle componenti inconsce della vita, aveva reso persino il governo della coscienza appannaggio irraggiungibile.88 Se da una parte, inoltre, il massimo della frammentazione proveniva dall’ambito scientifico, dall’altra le scienze umane non offrivano pacificazione migliore. Tutte (psicologia, etnologia, sociologia ecc.) tendevano a riunire i propri esiti empirici sotto l’egida di un’interpretazione unificante ed armonizzante. Da una situazione storica e teorica di questo tipo deriverebbe quindi quel bisogno così acuto di un intervento filosofico che, senza addentrarsi in metafisiche visioni lontane dalle istanze della scienza, sappia ricomporre in unità la figura umana. L’antropologia filosofica arriva a presentarsi dunque come quella branca del sapere che elabora i dati forniti dalle singole scienze che riguardano l’uomo senza tuttavia mirare a porsi né come loro supporto né come loro pari. “Ponendosi al crocevia tra filosofia, scienze della natura e scienze dell’uomo, l’antropologia filosofica vuole riallacciare i fili di un discorso che aiuti l’essere umano a recuperare la comprensione di dell’età nuova fu l’affermazione della vita; l’uomo e i suoi rapporti naturali con l’ambiente divennero il centro dell’interesse. Vivere, far valere la propria volontà di potenza, godere la bellezza della vita e dei riflessi di essa, la letteratura e l’arte: ecco il nuovo complesso di vita, che allora si presentò alla coscienza. Di tutto ciò si ebbe il riflesso filosofico in un’ampia letteratura, che aveva per oggetto l’uomo, la condizionalità fisiologica della vita dell’anima, la potenza degli affetti, i temperamenti, la diversità dei caratteri negli individui e nei popoli, la fisiognomica e il rimanente corredo dei mezzi atti a far conoscere i caratteri e infine le conseguenze che da questa scienza dell’uomo si potevano far derivare per la condotta morale. (…) La letteratura che così si andava formando possiede la sua dottrina di scuola, costituita da una nuova antropologia. Questa, a differenza della psicologia moderna, esamina lo stesso nucleo sostanziale della natura umana, il nesso vitale, nel quale si esprimono il contenuto e i valori della vita, i gradi evolutivi di tale espressione, i rapporti con l’ambiente e infine le forme individuali di esistenza per le quali l’uomo si differenzia. (…) Il tratto più saliente di essa consiste nella mutata valutazione della sensibilità umana nel campo della percezione e dell’affetto.” (W. Dilthey, “La funzione dell’antropologia nella cultura dei secoli decimosesto e decimonono”, tr. it. G. Sanna in Id. L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 210-218). Notazioni su questo tema non mancano neppure nei più noti rappresentanti dell’antropologia filosofica. H. Plessner afferma: “La svolta copernicana non è una semplice metafora. Nel suo segno sta tutto il mondo moderno.” E ancora Gehelen scrive che il potenziale di autocomprensione offerto dall’immagine cosmologica è un elemento antropologicamente costitutivo. Che per esempio l’uomo sia attratto da ritmi e regolarità astrali la si deve a una sorta di risonanza “che è per così dire una specie di senso interno dell’uomo per il proprio elemento costituzionale e risponde a ciò che nel mondo esterno presenta affinità con tale propria costituzione: e se noi oggi parliamo ancora del corso degli astri, dell’andamento di una macchina, questi non sono paragoni superficiali, bensì autoconcezioni di determinati tratti caratteristici dell’uomo, oggettivati per il fenomeno di risonanza, dell’uomo che interpreta il mondo secondo la sua immagine e viceversa se stesso secondo immagini del mondo.” (A. Gehelen, Der Mensch im technischen Zeitalter, Rowohlt, Munchen 1957, tr. it. A. B. Cori, L’uomo nell’era della tecnica, Sugarco, Milano 1984, p. 25). 88 G. Fornero, S. Tassinari, op. cit., p. 1308. 47 se stesso e a identificare i tratti caratteristici della sua esistenza”89. La risposta antropologica alla frammentazione dei saperi nonché dei livelli di realtà mette in campo quindi una forma di reazione a un decentramento e una capillarizzazione ancor più generali; al punto che il compito antropologico è stato definito come “interpretazione filosofica dei risultati scientifici”90. Il riferimento all’empiria è sì centrale, senza tuttavia che l’oggetto in questione sia costituito realmente ed esclusivamente dai dati empirici.91 Al contrario di quanto avveniva nell’antichità92 risulta impossibile basare qualsivoglia ricerca sulle certezze che provengono da dicotomie rigide e accertate come quelle che tradizionalmente tagliavano il mondo biologico, con la contrapposizione tra uomo e animale, o il mondo politico, con quella tra libero e schiavo o tra uomo e barbaro. In questo quadro disarticolato e frammentato si inserisce dunque la nascita di questa disciplina che risente e anzi incarna essa stessa lo spirito del tempo da cui prende vita, tanto da aver condotto a parlarne come di una “tendenza fondamentale” di un’epoca. Stiamo parlando degli anni Venti, uno dei periodi più fervidi e intensi della storia del Novecento: gli anni “dell’inestricabile incrocio di conservatorismo e avanguardismo, di volontà innovativa e clima melanconico”93, gli anni della repubblica di Weimar. Sono gli anni in cui si avvertono con maggior veemenza gli effetti dei mutamenti epistemologici avvenuti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e in cui essi si mischiano, con risultati imprevedibili, con crisi di tutt’altro genere come quella sociale, politica e culturale94. “Grande è la ricchezza di un’epoca in agonia, di 89 Ibidem. J. Habermas, Antropologia, in Aa. Vv., Filosofia, Feltrinelli, Milano 1966, p. 20. 91 Questo è un aspetto che avvicina significativamente l’antropologia all’epistemologia, dalla quale tuttavia resta sempre ben distinta per quanto concerne le finalità: l’antropologia ha infatti di mira la costituzione di un’immagine globale dell’uomo e non la delineazione di una logica e metodologia di ricerca rigorosa come è per l’epistemologia. 92 Sull’antropologia antica cfr. R. B. Onians, The origins of european thought about the body, the mind, the soul, the world, time and fate, tr. it P. Zaninoni, Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano 1998; M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari, donne all’origine della razionalità scientifica, Saggiatore, Milano 1979; M. Vegetti, P. Manali, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, Episteme ed., Milano 1977; M. Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Bollati-Boringhieri, Torino 1988; G. Reale, Corpo, anima, salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Cortina, Milano 1999. 93 M. Russo, La provincia dell’uomo, La città del sole, Napoli 2000, p. 158. 94 Benché la gran parte dei movimenti culturali legati al periodo di Weimar – espressionismo, architettura funzionale, fisica della relatività, psicanalisi e psicologia del profondo, sociologia della conoscenza, atonalismo ecc. – risalissero agli anni prebellici, fu a partire dagli anni Venti che essi: “penetrarono nella coscienza popolare e cominciarono ad influire sull’atteggiamento della gente verso se stessa e verso il 90 48 una sorprendente epoca di confusione in cui si mescolano sera e mattina, negli anni Venti.”95 La cultura e la filosofia sono significativamente segnate da due tipi di eco96: da una parte il requiem spengleriano del Tramonto dell’occidente, dall’altra la preoccupata ma mondo nel quale viveva. (…) Fu quindi soltanto negli anni Venti che vennero organizzate speciali esposizioni di artisti moderni e che i visitatori dei musei si abituarono a vedere i pittori rompere con tutti i canoni formalistici del passato. La cultura di Weimar fu prevalentemente moderna anche perché quelli che la crearono sentivano di appartenere a una nuova età e credevano di vivere anche loro in una nuova epoca nella quale tutto doveva essere creato di nuovo. La guerra aveva scavato un enorme abisso tra loro e il passato, le cui istituzioni, tradizioni e valori erano stati distrutti senza rimedio, e sentivano tutto questo come una liberazione e una sfida. (…) Questa sensazione dell’inizio di qualcosa di nuovo, quest’ansia di essere diversi e di fare le cose in maniera diversa fu la caratteristica dello stile degli anni venti. (C. Craig, Germany 1866-1945, Oxford Univ. Press, 1978, tr. it. O. A. Merla, Storia della Germania 1866-1945, Ed. Riuniti, Roma 1983, p. 509). A molti elementi della modernità (tecnica, democrazia, avvento delle masse, assenza di assoluti) si cercò di dare una risposta, e non un rifiuto inappellabile, per mezzo di nuovi strumenti teorici e artistici. Tale “modernismo” si accompagna però a una diffusa “ansia di totalità”, la spinta regressiva che trovava appagamento in parole come ‘popolo’, ‘organismo’, ‘impero’, ‘comunità’, ‘capo’ fino a rendere questa ansia da totalità intrisa d’odio. “Il mondo politico, e talvolta anche il privato, fu un mondo paranoico, fitto di nemici: la meccanizzazione disumanizzante, il materialismo capitalista, il razionalismo ateo, una società sradicata, il cosmopolitismo ebreo e il grande mostro che tutto divora, la città.” (P. Gay, Weimar culture. The outsider as insider, 1968, tr. it. M. Merci, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 1978, p. 132). Il tratto più caratteristico di questa collisione tra ‘ansia di totalità’ e coscienza del nuovo risulta essere un certo distacco, quell’atteggiamento ironico immortalato da Musil e professato da Thomas Mann, il cui figlio Klaus, peraltro, ebbe a scrivere “noi siamo una generazione che ha, per così dire, in comune una sola cosa: la perplessità. Infatti non abbiamo trovato ancora uno scopo per il quale unirci in uno sforzo comune, anche se tutti partecipiamo alla ricerca di esso” (cit. in G. Craig, op. cit., p. 516). Plessner stesso scrive a proposito degli artisti: “Per questi uomini che perseguivano l’opera rivoluzionaria prima della guerra, in un’epoca di trasformazione, era sopravvissuto soltanto l’atteggiamento ironico verso una società già in sé dissestata ma non ancora crollata. Ciò si manifestava nella tendenza alla sperimentazione e al controllo razionale delle premesse – tendenza finora tenue e del tutto secondaria – del lavoro letterario, rappresentativo, architettonico e musicale. Schonberg, Brecht, Klee, Musil, Gropius mettono in evidenza questa nuova serietà distanziandosi ironicamente dalla realtà, che aveva assunto in sé e superato la cultura formalistica del tardo romanticismo della rivoluzione etico-estetica intorno al 1900. Questa serietà era nata dal fuoco della delusione, dell’umiliazione nazionale e umana, dalla disperazione e dal definitivo disincantamento, dal ferimento e dalla rivolta, questa volta non più soltanto artistica bensì dell’uomo stesso. (H. Plessner, La leggenda degli anni venti, in Al di qua dell’utopia, cit. pp. 100-101). Cfr anche W. Laqueur, Weimar. A cultural history, Weidenfeld a. Nicolson, London 1974, tr. it. L. Magliano La repubblica di Weimar, Rizzoli, Milano 1979 e J. Willet, The new sobrietà. At and politics in the Weimar period, Thames a. Hudson, London 1978. 95 E. Bloch, Erbschaft unserer Zeit, (1935), tr. it. L. Boella, Eredità del nostro tempo, p. 5. 96 Due, senza considerare una delle posizioni più dense. È opportuno ricordare, infatti, per l’assoluta importanza dell’impatto generato in seno alla cultura dell’epoca e successiva, che è su questa scena che irrompe, nel 1927, Heidegger con Essere e tempo. M. Russo (op. cit., p. 161) rileva che, nonostante la forza innovatrice, dimostrata appunto dall’immediato successo riscosso, tale opera fu da molti recepita come una fondazione dell’antropologia, o comunque come un’opera da inscrivere nella dominante inclinazione antropologica della filosofia recente. In fondo Heidegger sembrava caduto vittima di uno stato di cose che egli stesso ha saputo perfettamente diagnosticare: “Oggi la parola ‘antropologia’ non è più da gran tempo il semplice nome di una disciplina, ma indica la tendenza fondamentale della posizione attualmente assunta dall’uomo sia rispetto a se stesso sia rispetto alla totalità dell’ente. Secondo questa posizione fondamentale, si ritiene di conoscere e di comprendere qualcosa solo quando si sia trovata una 49 fiduciosa ridiscesa alle fonti della “costituzione originaria del senso” che Husserl progetta nella Crisi delle scienze europee. Mentre ancora vive l’influsso neokantiano, si fa strada con acutezza il problema della storia97, si acclimata la filosofia della vita e viene applicato sempre più di frequente, con rigore variabile, il metodo fenomenologico.98 spiegazione antropologica al riguardo. L’antropologia non cerca soltanto la verità intorno all’uomo, ma pretende di stabilire che cose saignifichi, in generale, la verità.” (M. Heidegger, Kant una das Problem der Metaphysik (1929), tr. it. M. E. Reina, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 181). A parte ogni eventuale affinità, è al passo seguente che si imputa generalmente la causa dell’equivoco e della impossibile sovrapposizione del pensiero di Heidegger con qualsivoglia tradizione antropologica: “l’analitica dell’Esserci non pretende di offrire un’ontologia completa dell’Esserci, ontologia che deve essere certamente costruita se qualche cosa come un’antropologia ‘filosofica’ deve poggiare le basi su qualcosa di filosoficamente sufficienti. In vista di un’antropologia possibile o della sua fondazione ontologica, l’interpretazione che segue non offre che alcuni frammenti, anche se tutt’altro che inessenziali.” (M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1978, p. 72). Per un quadro della ricezione di quest’opera in quegli anni si rimanda a C. Strube, Kritik und Rezeption von ‘Sein und Zeit’ in den ersten Jahren nach seinem Erscheinen, in “Perspektive der Philosophie”, 9, 1983, pp. 41-67, in cui è interessante vedere che essa, mentre per tutto finalmente rompe in modo decisivo con la filosofia ‘teoreticistica’, avvicinandosi alla filosofia della vita e all’antropologia, viene da perte di queste ultime criticata perché ancora troppo formale, universalizzante e finto concreta. Del resto, nonostante la sempre rimarcata differenza, lo stesso Plessner rileva: “Sulla portata relativa ad una critica radicale di tutta la metafisica fino ad oggi e alla rifondazione dell’ontologia si deve dare un giudizio scettico. Ma come paradigma di una nuova dottrina dell’uomo Essere e tempo non ha ancora esaurito il suo ruolo. Ha dato un esempio, e rinvia, traversando il vincolo che lo lega all’epoca in cui è sorto, ben oltre la sua epoca.” (H. Plessner, Deutsches Philosophieren…, cit., p. 161). La critica heideggeriana all’antropologia era comunque di vecchia data, iniziata già in occasione del corso del ’23, Ontologie – Hermeneutik der Faktizitat (tr. it. G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, Guida, Napoli 1988, p 29 e segg.) in cui il bersaglio polemico era Scheler. 97 È naturalmente all’opera spengleriana che si deve la ripresa programmatica del problema della storia. Come scrisse Plessne: “Non più gli eventi, non le prospettive, appartenenti a essi, di speranza e paura, di tradizione e attesa, collegano il filo della storia. Con la relativizzazione delle norme, dei valori e degli ideali, essa si disfa, lasciando come residuo una determinazione dell’essere umano altrettanto puramente formale quanto fatale: la sua storicità. Questa può significare tutto, ma per se stessa non significa nulla. Il successo di Spengler, per quanto affettivamente condizionato dalla situazione di allora (la nostra sconfitta come parte di un generale declino, anche dei vincitori), aveva ragioni più profonde. Innanzitutto, il proprio mondo perde gravità nella coscienza di una relatività globale, che penetra spazio, tempo, concetti, assiomi, valorizzazioni. (…) Ma poi, l’aspetto relativo acuisce l’autocoscienza, sottraendole la base ritenuta ovvia nella vita quotidiana. Noi tutti crediamo di vivere in una natura indipendente da noi, la quale possiede un suo fisso ordine. Facciamo affidamento nella ragione, negli imperativi della coscienza morale e della bellezza, quasi parlassero a tutti gli uomini di tutte le epoche. Che così di fatto non sia, che niente di ovvio, nessuna permanente base in temporale per tutte le epoche ci sia (le più elementari verità dello spazio, della logica e della matematica comprese), risospinge l’uomo su se stesso, lo discopre a se medesimo”. (H. Plessner, Deutches Philosophieren in der Epoche der Weltkriege (1953), cit. in M. Russo, op. cit, p. 160). 98 Lo stesso Husserl non manca di fare riferimento alla situazione dell’epoca e alla posizione, in seno ad essa, dell’antropologia filosofica: “Nell’ultimo decennio, com’è noto, si sta imponendo tra le nuove generazioni della filosofia tedesca una crescente dedizione all’antropologia filosofica. La filosofia della vita di Wilhelm Dilthey, un’antropologia sotto nuove vesti, esercita un grande influsso. Anche il cosiddetto movimento fenomenologico è catturato dalla nuova tendenza. Si dice che soltanto nell’uomo, e in ispecie in una teoria riguardante l’essenza del suo esserci concreto e mondano, risiederebbe il vero 50 Il clima generale che contraddistingue umori e pensieri è quello che è stato definito da Menscheitsdammerung, descritto tanto chiaramente da Karl Jaspers in un testo, Situazone spirituale del tempo (1931), divenuto paradigmatico: Da più di mezzo secolo si è fatto questione della situazione spirituale del tempo; ciascuna generazione ha risposto secondo le proprie circostanze. Ma se prima si trattava di una riflessione di pochi, i quali avvertivano la minaccia del nostro mondo spirituale, adesso, da dopo la guerra, ognuno si trova coinvolto in questa questone. (…) Ci furono tempi in cui l’uomo avvertiva il suo mondo come un mondo permanente, incastonato tra una scomparsa età dell’oro e una fine del mondo promanante dalla divinità. A confronto con questi tempi, l’uomo è sradicato, sapendosi collocato solo in una determinata situazione storica dell’esser umano. È come se egli non potesse più sostenere l’essere. Noi vorremmo penetrare il fondo della realtà nella quale stiamo; perciò è come se il terreno ci sprofondasse sotto i piedi: giacché, andata in frantumi l’irrefrangabile unità, non vediamo che un mero esistere, da un lato, e la nostra e altrui coscienza di questo esistere dall’altro. Noi non riflettiamo solo sul mondo, ma anche su come viene concepito, e dubitiamo della verità di ogni concezione; dietro ogni uità apparente dell’esserci e della coscienza di esso, scorgiamo di nuovo la differenza tra mondo reale e mondo saputo. (…) Si è diffusa la consapevolezza che tutto fallisce; non c’è nulla che non possa essere messo in questione; niente di autentico riesce a comprovarsi; è un vortice infinito, consistente nel reciproco inganno e nell’autoinganno attraverso ideologie. La coscienza dell’epoca si separa da ogni essere e s’affaccenda con se stessa. Chi pensa così sente se stesso come un nulla. La sua coscienza della fine è al tempo stesso coscienza della nullità del suo proprio essere. La sradicata coscienza dell’epoca è finita sottosopra. 99 Se questo è stato lo spirito del tempo, l’insieme mostrava con chiarezza tutti i suoi elementi di criticità. L’epoca tutta è stata di fatti descritta come “nata sotto il segno del fondamento della filosofia. In questo si ravvisa una necessaria riforma dell’originaria fenomenologia della costituzione, una riforma solo attraverso la quale essa raggiungerebbe l’autentica dimensione filosofica. Viene compiuto dunque un completo rivolgimento dell’atteggiamento fondamentale iniziale. Mentre la fenomenologia originaria, maturatasi poi come trascendentale, respinge la partecipazione di qualunque tipo di scienza dell’uomo al lavoro di fondazione filosofico, adesso dovrebbe valere invece il contrario: la filosofia fenomenologica dovrebbe essere ricostruita in modo completamente nuovo a partire dall’esserci umano. In questa discussione ritornano, in veste rinnovata, le vecchie contrapposizioni che avevano agitato la filosofia dell’età moderna. Fin dall’inizio, la tendenza che tipicamente appartiene a quest’epoca si esplica in due direzioni contrapposte: l’una in quella antropologica (o psicologistica), l’altra in quella trascendentalistica. La fondazione soggettiva della filosofia, avvertita costantemente come necessità, deve effettuarla senz’altro – così dice una parte – la psicologia. Dall’altra si esige una scienza della soggettività trascendentale, completamente nuova, solo sulla cui base tutte le altre scienze, e dunque anche la psicologia, andrebbero fondate filosoficamente.” (E. Husserl, Phanomenologie una Anthropologie, in “Philosophy and phenomelogical research”, II, 1941-1942, p. 1). 99 K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, cit., pp.5-6, 15. 51 ‘soggetto’”, di cui doveva probabilmente scontare tutti gli sdoppiamenti intrinseci: soggetto e uomo, ‘io’ trascendentale e ‘io’ empirico.100 A questo si aggiunge la situazione tecnico-scientifica, cui abbiamo già accennato, e le molteplici risposte che da tale ambito vengono date al problema uomo. “Quello che esse hanno da offrire in positivo viene largamente superato dalla ulteriore entificazione cui inevitabilmente riducono l’esistenza umana.”101 La ricerca si spinge verso profondità inesplorate, dimensioni altre in cui ricompattare in un ordine nuovo quel 100 È lo stesso Plessner a proporre una lettura della filosofia dell’epoca, reputata esistenzialistica, o metafisica, o autoscientista, nei termini di una reazione in cui ontologismo nichilistico, l’eroicizzazione della finitezza e della singolarità apparivano piuttosto una fuga dalla crisi del tempo che un prenderne solo distanza critica. La reazione sarebbe quindi stata sintomo evidente del suo stato di crisi. La lettura plessneriana inserisce tale crisi nel quadro della defunzionalizzazione della filosofia, via via acuitasi nell’età del capitalismo avanzato, di cui ci si riesce a fare un’idea esatta solo collegandola al ‘caso Germania’. L’idea chiave, esplicitata da M. Russo (op. cit. pp. 165,166) è quella del ritardo storico che affligge la storia tedesca: “quando nei secoli Sedicesimo e diciassettesimo le principali nazioni europee avevano formato stati nazionali e sviluppato una concezione dello stato e della società civile, istituendosi così una simmetria tra sviluppo politico-economico e coscienza sociale e culturale, la Germania era frammentata in numerosi staterelli. Il ruolo di potenza unificatrice toccò pertanto – a fronte della religione del lavoro e della verità interiore – a intellettuali e in particolare filosofi. Ma ad un’unificazione solo concettuale, cui fa riscontro la verità coscienziosa del singolo, non corrisponde alcuna unità reale né una effettiva coscienza politica. L’occasione per la formazione di una cosciente Zivilisation (che comporta un’accettazione dell’anonimia, dell’estraniazione, della convenzionalità, dell’abilità diplomatica, proprie della sfera pubblica, sfera della superficialità), da potersi vivere senza scissioni schizofreniche, mancò e almeno fino alla catastrofe nazista tale mancanza non poté essere più recuperata. Lo scompenso tra Kultur e Zivilisation è l’emblema del ‘ritardo’, del dislivello endemico della storia tedesca; grandezza e miseria della Germania cominciano qui. Con l’unificazione bismarkinana e l’enorme crescita economica, scientifica e industriale, la Germania si trovò – da idea di nazione senza nazione reale - ad essere una “grande potenza senza idea di stato”, uno stato cioè dove la potenza reale è tutto. L’importante ruolo ‘formatore’ degli intellettuali – che spiega non solo la straordinaria ricchezza della filosofia tedesca, ma la sua ‘serietà’ esistenziale, la ‘missione’ vitale di cui si sentiva investita – viene sminuendosi, sostituita com’è dal meccanismo di produzione e dall’industrializzazione della scienza. Il controllo sulla politica e sullo stato, sia pure nella forma irreale della speculazione e della letteratura, viene meno; i tentativi di inserirsi, di esercitare una funzione diretta di indirizzo vengono troppo tardi rispetto alle modificazioni in atto. L’assenza di una reale identificazione con lo stato-nazione, dunque di una partecipazione cosciente alla cosa pubblica, spiega il bisogno di trovare “radici” altrove, bisogno che sfocia da un lato nella mitizzazione del passato eroico, nell’ideologia del popolo e della razza, nell’enfatizzazione comunitaria. Dall’altro, per gli intellettuali che non condividono queste posizioni, si pone il problema di una ridefinizione di ruolo, compressi come sono per un verso nella Zivilisation industriale, dall’altro dalle masse ‘incolte’ ma sempre più dominanti proprio in virtù dello sviluppo economico. Il più delle volte la soluzione risulta essere il recupero di una autentica dimensione individuale (decisionismo esistenziale), il ripristino in varie forme di una sovradeterminazione dell’essenza della filosofia. L’acutezza con cui venne avvertita l’irrappresentabilità della totalità e di un’immagine unitaria dell’uomo fu pari solo alla forza con cui prima era stata costruita. Il radicalismo critico della filosofia tedesca andò di pari passo con la propria progressiva disintegrazione e defunzionalizzazione sociale. Lo stesso processo di crisi non fu così virulento in quei paesi dove la filosofia non era stata investita (proprio perché il ceto che la esercitava era parte effettiva di una società meno disarticolata) di tanta significatività e da lungo tempo s’era abituata ad una disincantata osservazione analitica del tipo ‘uomo’ (quel disincanto scettico che la ‘profondità’ germanica dileggiava come ‘superficialità’).” 101 M. Russo, op. cit., p. 168. 52 mondo improntato alla più disorientante fluidificazione dell’esperienza. Persino delle correnti artistiche, in particolare dell’espressionismo, si arrivò a scrivere come dell’unica forza capace di attingere una “nuova immagine dell’uomo” in mezzo al “caos di distruzione della realtà”102. E in mezzo a tale caos neppure il ceto intellettuale ed accademico si sentiva in grado di svolgere quella funzione d’orientamento e formazione che precedentemente aveva incarnato secondo il modello di Humboldt, fondatore dell’università di Berlino.103 “Buona parte della propria crisi di stato si trasfuse in una diagnosi di universale crisi della cultura; il tema della crisi divenne una specie di rituale, una moda, un’ossessione, resa sublime solo dalla talora stupefacente fora analitica e diagnostica.”104 Sul piano filosofico il contraccolpo si manifesta nel radicalismo dei nuovi progetti filosofici nel cui solco l’antropologia filosofica si insedia proprio rispondendo, dopo la sparizione di ogni certezza del soggetto, a questa sorta di appello perché l’”uomo” potesse essere “salvato”. E il primo passo verso questa redenzione si concretizzò nel ricondurre ogni disperso spaesamento a una singola domanda, che l’antropologia filosofica ha raccolto e direttamente affrontato: chi è l’uomo? “Abbattuti gli idoli, abbattuti i ‘megaracconti’, abbattuta persino, come in una sorta di vendicativo genium malignum cartesiano, la consistenza della realtà, la compattezza dell’esperienza, ci si chiese se e cosa resta dell’uomo medesimo. L’uomo senza qualità è fatto di qualità senza l’uomo; di questo antico personaggio sembrano esistere ormai solo più i sintomi.”105 102 G. Benn, Expressionismus (1934), tr. it. a c. di L. Zagari in Id., Lo smalto del nulla, Adelphi, Milano 1992, pp. 152-153. “Realtà, demonico concetto proprio dell’Europa: felici solo quelle epoche e generazioni in cui ce n’era una indubitabile, quale profondo primo tremito del Medioevo al dissolversi di quella religiosa, quale fondamentale scosa ora, dopo il 1910, al frantumarsi di quella scientifica, divenuta ‘reale’ ormai da quattro secoli. Nuova realtà, perché la scienza potè evidentemente distruggere solo quella antica, l’uomo guardò dentro di sé e dietro di sé. Fuori si dissolsero i più antichi resti della realtà, e ciò che rimase furono solo relazioni e funzioni. Dissoluzione della natura, dissoluzione della storia… persino le forze più concrete come stato e società ormai impossibili da afferrare come sostanza, sempre solo il funzionamento in sé e solo il processo in quanto tale…geniale psicologia della razza bianca: impoverita ma maniacale, sottonutrita ma sovraeccitata; con venti marchi nella tasca dei pantaloni prendono le distanze da Sils Maria e dal Golgota e si comprano le formule del processo funzionale. Questo fu il periodo 1920-25, questo era il mondo votato al tramonto.” 103 Cfr. F. K. Ringer, Die Gelehrten. Der Niedergang der deutschen Mandarine 1890-1933, Klett, Stuttgart 1983, p. 229 e segg. 104 Ibidem. 105 M. Russo, op. cit, p. 173. Nella stessa sede si rimanda opportunamente alla seguente citazione: “Non esiste più affatto l’uomo, esistono ancora solo i suoi sintomi. In questi cinquant’anni abbiamo visto strani movimenti, l’estinguersi e l’accendersi di cose nuove, soprattutto: la liquidazione della verità e un porre le 53 Così lo stesso Scheler: Sicchè noi possediamo tre antropologie, una scientifica, una filosofica, una teologica, le quali non si curano l’una dell’altra – un’idea unitaria dell’uomo, però, non la possediamo. Inoltre la crescente moltitudine delle scienze specialistiche che s’occupano dell’uomo, nasconde, per quanto preziose esse possano essere, l’essenza dell’uomo più che non illuminarla. Se si pensa poi che i tre menzionati gruppi di idee tradizionali oggi sono notevolmente scossi, in particolare la soluzione darwinistica del problema dell’origine dell’uomo, si può allora dire che l’uomo mai, in nessuna epoca, è diventato così problematico a se stesso. (…) Nonostante, dunque, la ricchezza delle informazioni di cui disponiamo, l’autoproblematicità dell’uomo ha oggi raggiunto un massimo sconosciuto alle altre epoche.106 In definitiva si può dire che è una forma di esasperata autoproblematicità dell’uomo a dar vita, in questo preciso momento epistemico, tanto allo sfondo filosofico dell’antropologia quanto, viceversa, allo sfondo antropologico della filosofia107. E come nota Scheler: Posso constatare con soddisfazione che oggi i problemi di un’antropologia filosofica sono addirittura diventati in Germania il punto centrale di tutta la problematica filosofica, e anzi ben oltre l’ambiente filosofico, biologi, medici, psicologi e sociologi, lavorano ad una nuova immagine della costituzione essenziale dell’uomo.108 Il riferimento ad esponenti di altre discipline, che abbiamo già visto caratterizzare l’indirizzo disciplinare in questione, assume un connotato di ulteriore significatività nel momento in cui di esso si comprenda la portata all’interno di una ricerca intellettuale fondamenta dello stile. Non bastano più le interpretazioni per andare avanti, il destino lavora, la trasmutazione si volge dalla nostra parte. Fra poco le luci di bengala della crisi e gli articoli di terza pagina sui fondamenti delle cose non saranno altro che pascolo per gli struzzi o una steppa sulla quale corrono le volpi. Ottimismo e pessimismo si abbracceranno come due giovani nella fornace di fuoco, e le loro ceneri un vento mongolico le disperderà. Scappatoie non ce ne saranno più, i tentativi di ricostituzione del centro perduto avranno l’effetto di un movimento di riforma, come il Mazdaznan.” (G. Benn, Lo smalto…, cit. pp. 264-265). 106 M. Scheler, Die stellung der Menschen in Kosmos (1928), in Id. Schriften zur Anthropologie (a c. di M. Arndt), Reclam, Stuttgart 1994, pp. 126-128. 107 “Quando la potenza della unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno dell’antropologia.” (G. W. F. Hegel, Primi scritti critici, Mursia, Milano 2006, p. 15). 108 M. Scheler, Stellung, cit., p. 126. 54 che cerca altresì i mezzi per tematizzare e affrontare aspetti come l’essere organico, l’espressività corporea, l’emozionale, la fantasia, l’inconscio, insieme alle loro manifestazioni culturali. E infatti, in maniera quasi inedita in campo filosofico, l’intellettuale volge in quegli anni lo sguardo alla vita corporea.109 Sulla base di ciò le letture del fenomeno antropologico hanno seguito caratterizzazioni quali: efficiente visione del mondo, filosofia finalmente scientifica, ultimo territorio rimasto alla filosofia o anche reazione filosofica alle scienze. “Si trattava in quest’ottica di un’operazione quasi anamnestica: all’uomo in crisi, frantumato, deraciné, all’uomo invaso dal suo stesso mondo, dagli incubi notturni e dalle nevrosi quotidiane, all’uomo dal volto cancellato, fu riofferto innanzitutto il perimetro della sua immagine fisica, e, con essa, una serie di mappe per ritessere il filo dell’identità; mappe per rivivere l’interno, la singolarità autentica e insostituibile, e mappe per l’esterno, per ricordare che alla fin fine pur dietro il caos e l’estraneazione, a 109 H. Plessner si esprime a questo proposito così: “Ogni epoca trova la sua parola redentrice. La terminologia del diciassettesimo secolo culmina nel concetto di ragione, quella del diciottesimo nel concetto di sviluppo, quella del presente nel concetto di vita. Ciascuna epoca indica in questo modo qualcosa di diverso; ‘ragione’ fa risaltare l’intemporale e l’universalmente vincolante, ‘sviluppo’ ciò che incessantemente diviene e si accresce, ‘vita’ ciò che demonicamente gioca, che inconsciamente crea. E tuttavia le epoche vogliono cogliere tutte il medesimo; per esse l’autentico significato delle parole diventa solo lo strumento, a non dire il pretesto, per rendere visibile quell’ultima profondità delle cose, senza la coscienza del quale ogni umano cominciamento resta senza sfondo e insensato. Ora, che a un’epoca proprio questo concetto, e nessun altro, venga come simbolo o pretesto, ha motivi precisi. Come redentrice una parola agisce solo se l’epoca pronuncia in essa, al tempo stesso, la propria giustificazione e la propria sentenza. Il grande momento per l’odeologia della vita venne con la caduta dell’ottimismo progressistico, con la stanchezza della civiltà, con la disperazione riguardo al senso creatore del socialismo. Un’epoca profondamente rassegnata cominciò a vedere come ideologia del capitalismo avanzato in espansione ciò che finora era valso come incrollabile possibilità: sviluppo e progresso di tutta l’esistenza organica e dell’agire umano. Con tale risveglio venne anche la nostalgia di un nuovo sogno, di un nuovo incantamento. Solo, da che cosa si sarebbe lasciata incantare un’epoca diventata così sospettosa, scettica e relativistica? Per una trascendenza in grande stile si era diventati troppo razionali e coscienti, per l’immanenza troppo mondani, troppo avventurieri. L’uomo lo si vedeve nella sua condizionatezza storica ed evolutiva. Al tempo stesso, però, natura e storia avevano esaurito la loro forza persuasiva sugli animi, da quando si credette di essere arrivati a scoprire che le loro leggi e le grandi linee della loro configurazione derivavano dal potere creatore dello spirito umano. Incantare poteva solo qualcosa di indiscutibile, coglibile al di qua di ogni ideologia, di dio e dello stato, della natura e della storia, e dalla quale forse le ideologie stesse sorgono, venendone però di nuovo inghiottite: la vita. In questa parola l’epoca percepisce la propria forza, il proprio dinamismo, la propria capacità di gioco, la sua gioia per la demonicità del futuro ignoto – e le proprie debolezze, la propria mancanza di originarietà nel vivere dedizione e capacità; con questa nuova formula magica, che fin da Nietzsche esercita il suo effetto, l’epoca di svolge e si perseguita. Una filosofia della vita ancque, originariamente con la missione di affascinare la nuova generazione – come ogni generazione è stata tenuta nella fascinazione di una filosofia – ora però chiamata a condurre questa alla conoscenza e liberarla così dall’incantamento. (H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, tr. it. I gradi dell’organico e dell’uomo, cit., pp. 34). 55 ciò che sfugge al controllo, dietro alla storia impazzita, resta sempre il personaggio uomo, la natura umana, teomorfica, ontologica, o storica o biologica che fosse.”110 È dunque in questo contesto che si radicano le meditazioni dei tre pensatori111 ai quali si ascrive storicamente e teoricamente la genesi ufficiale dell’antropologia filosofica: Max Scheler 112, Arnold Gehelen113 e Helmut Plessner114. 110 M. Russo, op. cit., p. 183. Sono stati rilevati tre motivi particolari del perché essi abbiano ritenuto di non avere nulla alle loro spalle. In primo luogo l’aspirazione, tutta umana, alla paternità assoluta, che ha portato anche ad alcuni ungenti commenti come quello secondo cui “la continuità dell’antropologia filosofica stava a quanto pare nel fatto che i suoi autori avevano copiato gli uni dagli altri” (W. Lepenies, Wandel der Disziplinkonstellationen in den Wissenschaften vom Menschen, Solaris, Innsbruck 1983, p. 70, cit. in M. Pangallo, op. cit., p. 195). In secondo luogo, l’identificazione della filosofia con l’antropologia, dunque dell’antropologia come una nuova forma ‘moderna’, ‘scientifica’, unitaria e sistematica della filosofia, il cui compito risulta stare, essenzialmente, nel proporre un’immagine complessiva e ben fondata dell’uomo. Infine, l’incapacità, che da quanto detto è conseguita, di potere e volere scorgere somiglianze con tentativi precedenti. Detto questo, va comunque rilevato qualche avvertimento in questi autori di predeccessori di cui tenere conto. Così Gehelen: “L’antropologia filosofica, o teoria dlel’uomo, non è una scienza nuova. L’ultima opera di Kant portava il titolo di Antropologia (1798) e, sebbene questo vocabolo sia stato utilizzato in misura crescente per indicare l’ultimo capitolo della zoologia, ossia della scienza dell’uomo in senso fisico, la tradizione di una scienza filosofica di questo tipo non si è mai interrotta del tutto, anzi si assiste a partire all’incirca dalla metà degli anni venti, ad un vivace sviluppo in diverse direzioni.” (A. Gehelen, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, tr. it. G. Auletta, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, p. 83) Egli rileva inoltre (ivi, p. 192): “Fino al XVII secolo non c’è un’antropologia filosofica, ma c’è, naturalmente, una teoria dell’uomo all’interno della teologia. Qui si tratta espressamente di una scienza non empirica (…) la filosofia si è emancipata dal vincolo con la teologia nel XVII secolo con Cartesio.” E Plessner: “L’antropologia filosofica non è una scoperta dei nostri tempi. Una filosofia dell’uomo c’è sempre stata, se per ‘uomo’ non si intende una particolare formazione nel cosmo (e per antropologia una teoria di questa formazione in considerazione del suo rapporto con l’essere, la sua posizione), ma l’orizzonte dei compiti assegnatici, che sono stati visti – nelle diverse culture e spaziando su grandi distanze storiche – come peculiari dell’uomo (…) Ce n’è d’avanzo per poter parlare di una storia della’antropologia filosofica. Solo non è permesso dimenticare che essa è intrecciata con la storia delle scienze in generale, e in modo particolarmente intimo con la storia delle scienze umane. (…) Ciò che per secoli s’era tenuto conneso, tenuto insieme dai cardini dell’immagine teologica del mondo, si scinde esplicitamente, dopo che quei cardini sono venuti meno. (…) A ben vedere nell’antropologia filosofica trova compimento l’intenzione che per la prima volta nelle analisi dell’uomo del XVI e XVII secolo si rese visibile e, attraverso i grandi inglesi e francesi del XVIII secolo, raggiunse il suo culmine in Kant.” (H. PLessner, op. cit., pp. 33-34). E ancora, altrove, lo stesso Plessner sottolinea che “l’esigenza di un’antropologia filosofica è il tardo riflesso di un lungo cammino percorso dal pensiero moderno applicatosi all’uomo, che ha immerso la sua natura in una luce tanto più chiara, quanto più il suo ruolo nel mondo diventava oscuro. Tardi, nel decorso di questa storia, si è svegliato l’interesse empirico per le cose umane, tardi si è canalizzato in un metodo scientifico proprio, perché la teologia ha dominato la scena ancora nel Settecento. Solo più tarid le narrazioni di viaggi e le notizie di scoperte furono prese sul serio per la conoscenza, e si cominciò a confrontare il proprio mondo con quello non cristiano. (…) L’antropologia di Kant, un’opera secondaria nella sua produzione filosofica, offre ancora, quasi come in una vetrina delle rarità, frammenti di una psicologia individuale e collettiva antelettera, dal punto di vista prammatico della conoscenza dell’uomo. Per la Germania la scienza empirica dell’uomo diventò rilevante filosoficamente soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, da quando cioè le scienze umanistiche di tipo storico, la psicologia, la biologia e sociologia, avevano privato la posizione dell’uomo dei suoi sostegni tradizionali: la scoperta del pluralismo e della storicità dei sistemi di norme umane accese in modo virulento la critica al proprio 111 56 Poggiando su comuni atteggiamenti e istanze teoriche, la costituzione dell’antropologia filosofica come disciplina autonoma viene in luce innanzitutto come fenomeno moderno, anzi peculiare del pensiero postmedievale, e come fenomeno tedesco poiché è in Germania che di essa si consolida lo sfondo filosofico. A partire dai significati dell’attributo “filosofico” si diramano direzioni che, se non precise, sono precisamente configurabili in termini di efficacia di un approccio mirante all’essenziale, di ampiezza di veduta e di capacità conglobante e dialettizzante che nella filosofia tradizionalmente si incarnano. Il richiamo tanto esplicito alla filosofia è inoltre manifestazione programmatica e consapevole della volontà, oltre che della necessità, comuni all’antropologia scientifica, di affrancarsi da termini, discorsi e riferimenti condivisi con la tradizione metafisico-teologica115; dall’urgenza di sottrarsi a principi di sistema di norme europeo. Con la relativizzazione della coscienza a forze vitali e sociali finì una storia dell’emancipazione, svoltasi da Cartesio all’esistenzialismo.” (Al di qua dell’utopia, cit., pp. 187-188). 112 Max Ferdinand Scheler nasce nel 1874 a Monaco di Baviera. Cresciuto secondo i precetti del giudaismo in una famiglia ebraica, a quindici anni rinnega la propria formazione per convertirsi al cristianesimo. Tutta la vita adulta e persino parte dei suoi scritti portano tangibili i segni di questa conversione. Nel corso della sua vita, infatti, il rapporto con la fede non si assestò mai su una posizione definitiva, ondeggiando tra fasi di tormentato ripudio e fasi di cieca adesione fino ad un distacco definitivo negli ultimi anni prima della morte, avvenuta all’ospedale di Francoforte nel maggio del 1929. 113 Arnold Gehelen nasce a Lipsia nel 1904 da padre editore. Dopo un semestre trascorso a Colonia, dove frequenta le lezioni di Max Scheler e Nicolai Hartman, si laurea in filosofia con una tesi sul pensiero del sui maestro Hans Driesch e ottien la libera docenza nel 1930. Nel 1938 si trasferisce a Konisberg dove ottiene la cattedra di filosofia che era stata di Kant. Nel 1940 si sposta all’Università di Vienna dove insegna fino alla fine della guerra quando, come tutti i docenti “tedesche del Reich” in Austria perde la cattedra. I suoi rapporti con il nazismo furono difficili e controversi: all’inizio della sua carriera sembrava esserci un certo legame con il partito al potere, ma fin dai primi anni 40 emersero tensioni con la classe politica fino a un allontanamento ancor più evidente a causa della fredda accoglienza riservata al suo fondamentale L’uomo la sua natura e il suo posto nel mondo. Muore ad Amburgo nel 1976. 114 Helmut Plessner nasce nel 1892 a Wiesbaden. Frequentò la facoltà di Medicina e poi si traferì ad Heidelberg, dove seguì corsi di Zoologia e Filosofia. Nel 1914 frequenta i corsi di Husserl a Gottinga e in seguito, specialmente dopo la svolta Husserliana del 1913 abbandonò la città e proseguì i suoi studi occupandosi di Kant. Nel 1926 ottiene il primo incarico accademico all’Università di Colonia fino a che nel 1932 non è costretto ad abbandonare tale attività e la Germania a causa delle leggi razziali. Vi fa ritorno nel 1951 e ottiene la cattedra di Sociologia all’università di Gottinga, ma i suoi interessi filosofici si fanno in questo periodo sempre più assidui. Plessner muore a Gottinga, nel 1985, a 92 anni. 115 “La sostituzione del primato della teologia con il primato dell’antropologia fu una tendenza caratteristica e predominante della modernità. Il primato dell’antropologia significò due cose interrelate tra loro: l’unico oggetto di conoscenza interessante o accessibile è l’uomo e i restanti oggetti, cioè extra o ultra umani, devono essere visti in rapporto all’uomo, poiché essi sono conoscibili solo nella misura in cui partecipano a quel rapporto, poiché dunque essi possono essere rappresentati solo entro, e soprattutto mediante la prospettiva conoscitiva umana. Dal primato dell’antropologia risultò così il primato della gnoseologia. Ma prima ancora, cioè dalla prima fase del movimento umanistico, il primato dell’antropologia si era coscientemente e apertamente legato alla priorità della questione pratico-morale 57 autorità divina e istanze teologiche per rivolgersi invece a criteri di autolegittimazione che facessero capo esclusivamente alla logica e alla ratio116. Se gli albori dell’antropologia si intravedono a grandi linee quando, a partire dalla metà del Sedicesimo secolo, psicologia e somatologia confluiscono in un tipo di studio unificato, quelli dell’antropologia fiosofica hanno carattere ancora meno determinabile ed identificabile. Non si può forse dire che prima della nascita dell’antropologia non esistesse un sapere di questo tipo, ma esso ha sempre mantenuto carattere implicito e disarticolato. Si deve a Werner Sombart117 il merito di aver indagato ed indicato con considerevole puntualità i criteri di identificabilità della tradizione alla base di tale disciplina: l’elemento della sistematicità e quello dell’empiricità. “La parola antropologia – in tedesco dottrina dell’uomo – definisce due ambiti conoscitivi, dei quali l’uno contiene la dottrina dell’essere e del senso, l’altro la dottrina dell’esistenza concreta e specifica dell’uomo.”118 Al primo gruppo appartiene la antropologia speculativa, al secondo quella antropologia che: Cerca di raggiungere un sapere universale dell’uomo e perciò si mantiene all’interno dell’esperienza e dell’evidenza logica, e, dunque, ha carattere scientifico. Si ha una tale antropologia come ramo della conoscenza autonomo, quando un determinato complesso di conoscenze o di problemi viene raccolto in unità mediante il suo correlarsi all’uomo e viene provvisto di specifica denominazione. La sistematizzazione può essere di tipo più esteriore, quando si raggruppano e si indirizzo differenti campi conoscitivi allo studio dell’uomo -p. es. si fondono la dottrina della psiche e quella del corpo-, o può essere una sistematizzazione interna, come quando si parte dall’assenza dell’uomo e se ne deducono le differenti scienze dell’uomo.119 rispetto a quella teologica e ontologica” (P. Kondylis, Die neuzeitliche Metaphysikkritik, Klett-Cotta, Stuttgart 1990, pp. 20-21, tr. it. M. Russo, op. cit., p. 69). 116 Con una leggera forzatura teorica ma con condivisibile elasticità tematica, un emblema di ciò è indicato da M. Russo (op. cit. p. 69) nell’invito kantiano alla ragione che nella Critica della ragion pura che risuona così: “la ragione dovrà assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé, e di erigere un tribunale che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne e immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura stessa” (I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. G. Gentile, Laterza, Bari 1971, p. 7). 117 W. Sombart, Beitrage zur Geschichte der wissenschaftlichen Antropologie, in “Sitzungsber. Preuss. Akad. D. Wiss”, phil.-hist- Klasse 13, 1938 pp. 96-130 tr. it. in M. Russo, op. cit., p. 33. 118 Ibidem. 119 Ibidem. 58 Secondo un’ampia ricostruzione storiografica120 che fa capo alla sistematizzazione approfondita di Odo Marquard121 (1928), il cui filo conduttore è la storia del concetto e del termine in questione, l’antropologia inizierebbe ufficialmente nel 1501 con la pubblicazione da parte del Magister Magnus Hundt del Antropologium de hominis digitate, natura et proprietatibus, cui seguirebbe un’altra tappa significativa alla fine del secolo con la Psychologia anthropologica sive animae humanae doctrina di Otto Cassmann. Profondamente debitrici della tradizione umanistico-rinascimentale, queste opere rappresentano però solo uno snodo simbolico, più suggestivo che scientifico, di quello che sarà lo sviluppo della disciplina in senso stretto. La sua affermazione autonoma e istituzionalizzata si inizia ad intravedere, infatti, solo nel corso del XVIII secolo, in quel periodo in cui si verificano quei presupposti teorici che Sergio Moravia ha indicato con puntualità quali condizioni di possibilità teoriche della costituzione degli interessi precipui delle scienze umane prima e dell’antropologia filosofica poi: la liberalizzazione epistemologica, la mondanizzazione di “tutto” l’uomo, la riabilitazione della corporeità umana, la scoperta dell’ambiente e l’apertura geo-antropologica verso l’Altro (dove Altro è tanto lo straniero, quanto il selvaggio e il pazzo) 122. Risale al 1719, ed è di grande rilevanza notare la contemporaneità con i primi riferimenti teoricamente consapevoli all’estetica, la prima lezione universitaria dedicata all’antropologia che viene tenuta a Lipsia dal professore di retorica Gottfried P. Muller; è del 1754 il volume Antropologia naturalis sublimior del professore di medicina Karl W. Struve e del 1772 la Anthropologie fur Arzte und Weltweise di Ernst Platner, anch’egli professore di medicina. Nel semestre invernale tra il 1772 e il 1773 Kant tiene il suo primo corso di antropologia che prelude alla pubblicazione, nel 1798 120 Cfr. M. Russo, op. cit., p. 34. “Questa tradizione e storia dell’antropologia filosofica è una faccenda che non rientra né in ciò che è eternamente umano né deriva da una qualche filosofia eterna, ma risulta in tutto e per tutto un frutto esclusivo della ‘modernità’. In generale già la parola ‘antropologia’ esiste certamente solo a partire dal XVI secolo. E la teoria filosofica che ricorre a questo vocabolo come fosse uno slogan si consolida anzitutto a partire da un duplice distacco, possibile solo in epoca moderna: un distacco della filosofia da un lato dalla ‘metafisica scolastica tradizionale’ e dall’altro dalla ‘scienza matematica della natura’. Questo duplice distacco consiste, di fatto, in una svolta in direzione del mondo della vita ed è in questa forma, una prima condizione della necessità e della crescente importanza dell’antropologia filosofica” (O. Marquard, Compensazioni. Antropologia ed estetica, a cura di T. Guffaro, Armando Editore, Roma 2007). 122 S. Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei Lumi, Sansoni, Firenze 1982, pp. 3-43. 121 59 dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht123. Fino alla metà dell’Ottocento, si assiste a una continua fioritura delle pubblicazioni relative a temi antropologici che incarnano forse una vera e propria moda il cui culmine si verifica nelle innumerevoli filosofie della natura che in età romantica fanno dei temi antropologici il proprio nucleo. Appartiene a questo contesto, e ne incarna il senso con considerevole significatività, la celebre affermazione di Feuerbach per cui “la nuova filosofia fa dell’uomo, nel quale include la natura come base dell’uomo, l’oggetto unico, universale e supremo della filosofia – e fa quindi dell’antropologia, integrata alla fisiologia, la scienza universale”124. La meditazione sull’uomo in questo periodo non può rimanere indifferente neppure al sorgere e all’affermarsi, proprio tra Settecento ed Ottocento, della biologia in senso moderno125. Si pone pertanto anche il filosofo, oltre che l’antropologo, di fronte alle urgenze delle indagini sui rapporti tra mente e corpo, sull’intelligenza degli animali, sulle patologie fisiche e psichiche, sulle facoltà e i limiti della conoscenza, che non a caso rappresentano i temi caratteristici dell’Illuminismo. “La radicale riabilitazione della sensibilità e la valorizzazione ontologica della materia sono i due indici sotto cui il pensiero poté non soltanto configurarsi come orientato sull’uomo, ma, forte, di un nuovo sapere scientifico, tendere a risolversi in una conoscenza complessiva di tutto l’uomo, fin giù alle sue cellule, e di qui tornare a comprendere i principi del suo operare mondano.”126 Allo stesso tempo, l’altra caratteristica fondamentale, che fa sì che proprio qui si vedano i prodromi del tipo di interesse che stiamo descrivendo, riguarda le nuove 123 I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), tr. it. G. Vidari, Antropologia pragmatica, Laterza, Bari 1993. 124 L. Feuerbach, Grundasatze der Phiosophie der Zukunft (1843), tr. it. C. Cesa, Principi della filosofia dell’avvenire, in Id., Scritti filosofici, Laterza, Bari 1976, p. 271. 125 “Alla fine del secolo, si modificano dunque i rapporti tra interno ed esterno, fra aspetti superficiali e realtà profonda, fra organi e funzioni. Attraverso il confronto degli organismi, l’analisi scopre un sistema di rapporti che si articolano in profondità e assicurano il funzionamento dell’essere vivente. Dietro le forme visibili si profila un’architettura segreta, imposta dalle necessità della vita. (…) A poco a poco viene delineandosi l’oggetto di una scienza che non studia più i vegetali o gli animali come facenti parte di determinate classi di esseri naturali, ma studia l’essere vivente, dotato di una certa particolare organizzazione che gli conferisce delle particolari proprietà. (…) Il problema è quello di mettere in evidenza le caratteristiche comuni a tutti gli esseri viventi e di dare un contenuto a quella che viene ormai chiamata la vita.” (F. Jacob, La logique du vivant. Une histoire de l’héredité, Gallimard, Paris 1970, tr. it. A. e S. Serafini, La logica del vivente, Einaudi 1971, pp. 107-109). 126 M. Russo, Op. cit., p. 75. 60 risposte offerte al problema del dualismo. Nonostante lo sviluppo biologico e le attenzioni prima impensate che esso impone, infatti, è nella direzione opposta al materialismo che si sviluppano i contributi più significativi. Una vera e propria antropologia nasce solo nel momento in cui si sfalda la presa del dualismo cartesiano127 oltre che ogni impostazione fortemente materialistica e meccanicistica, in favore piuttosto di una visione plurilaterale, in grado di comprendere l’uomo nella sua globalità e unità psicofisica.128 Materiale e spirituale si configurano quindi come due aspetti inscindibili, vicendevolmente influenzatisi dove la natura si invera, sia sul piano orizzontale che su quello verticale arricchendo a dismisura le potenzialità da esplorare. Queste, tra tardo Settecento e inizio Ottocento, si raccolgono in maniere particolarmente accentuata sotto il tema della sensibilità, indice e soglia materiale quanto spirituale per l’essenza umana che si va indagando. La sfera del sensibile -e vedremo come questo sarà fondamentale tanto per l’antropologia filosofica che si vorrà considerare quanto, soprattutto, per la meditazione di Dufrenne che tornerà centrale più avanti- si riscopre via d’accesso non solo per gli aspetti superficiali immediatamente disponibili della mondanità, ma anche per quell’altrove e quell’altro impensabile e indefinibile che nel sogno, nel sentimento, nell’arte, nella follia e nella sessualità si adombra. “Regni dell’incoscienza intesa come ciò che sta a lato o sotto la coscienza, come il non-razionalizzabile dentro cui la stessa ragione affonda le radici e il cui terreno è quello fibroso, opaco e in trascendibile della 127 A lungo è durato l’impatto della sistematizzazione cartesiana sulle teorie successive e tuttavia, nell’ottica di sviluppo di un’antropologia come sapere globale intorno all’uomo, essa ha presto mostrato le proprie ingerenze in termini di impaccio. Al contempo è vero che proprio la tradizione cartesiana, tematizzando il dominio materiale della natura umana come qualcosa di accessibile al modo delle altre cose del mondo naturale cioè attraverso spiegazioni meccaniche e matematiche, aveva favorito in maniera sensibile l’avvio di uno studio scientifico e sistematico dei meccanismi che regolano la corporeità. Come ha scritto M. Russo (op. cit. p. 84), infatti: “Il modello dualistico fu a lungo predominante e influenzò direttamente e indirettamente lo sviluppo dell’antropologia. Direttamente, perché da molti, soprattutto medici e naturalisti, l’antropologia fu intesa come studio della fisiologia umana, alla psicologia o alla metafisica spettando invece il compito di indagare sulla parte razionale. Indirettamente, perché comunque intesa l’antropologia, l’uomo rimaneva connotato dalla duplicità (anima-corpo, senso-intelletto, passioneragione), dalla ‘gemina natura’ cui dovevano corrispondere diverse prospettive e metodi di ricerca. Ciò contribuì a mantenere lo statuto epistemologico-disciplinare dell’antropologia fortemente oscillante. L’antropologia poteva ora venire considerata dottrina della natura corporale dell’uomo, ora di quella spirituale e morale (spesso confondendosi con la psicologia, o risolvendosi in un’attardata moralistica), ora, ancora, come dottrina della doppia natura umana, ritenuta o un composto eterogeneo o una effettiva connessione e comunione di fisico e psichico.” 128 Cfr. S. Moravia, op. cit., p. 37. 61 vita.”129 Questi sono i temi che andranno a confluire nella filosofia della natura e in quella medicina speculativa in cui Marquard ravvisa il culmine ottocentesco dell’antropologia prima del suo definitivo assetto nel Novecento. In queste sue prime ed embrionali manifestazioni, inoltre, l’antropologia tra Sette e Ottocento, influenzata come abbiamo detto dal forte incremento delle scienze biologiche, non è lontana neppure dal campo più propriamente medico; anzi, gran parte degli studi antropologici in questo periodo sono opera proprio di medici-filosofi. Non a caso è proprio ad uno di loro, Ernst Platner, che pare sia dovuto l’uso per la prima volta del termine ‘Antropologia’130 in relazione allo studio dei rapporti tra corpo e spirito, natura e psiche. “Il concetto platneriano di antropologia indica esattamente il punto in cui (…) antropologia fisica e antropologia morale si toccano. La storia del concetto di antropologia nel diciottesimo secolo riflette così quella tendenza, nella storia della medicina, al superamento della separazione tra fisiologia e filosofia.”131 Nei suoi studi132, Platner distingue infatti la fisiologia dalla psicologia proprio sulla base della diversità degli oggetti che indagano: la prima essendo deputata all’analisi esclusiva del corpo e la seconda a quella separata dei poteri e delle facoltà dello spirito. Segue questa impostazione la sua definizione di antropologia come studio dei “reciproci rapporti, limitazioni e relazioni” tra anima e corpo. Quella di Platner è un’impostazione che risente particolarmente dell’esigenza di empiria e concretezza che nella filosofia non si vedeva del tutto rispettata. Non gli interessa il raggiungimento di verità metafisiche circa la relazione tra anima e corpo, che egli vede come un anelito cui è impossibile dare soddisfazione. Piuttosto, egli guarda al chiarimento dei diversi rapporti, sensazioni e stati d’animo, di cui facciamo quotidianamente esperienza in noi e negli altri, poiché se la realtà psichica è in qualche modo conoscibile, essa lo è solo attraverso l’esperienza del mondo. Con Platner si vede chiaramente come la ricerca di scambio e interazione tra medici e filosofi fosse presente 129 M. Russo, op. cit., p. 83. Cfr. M. Linden, Untersuchungen zum Antropologiebegriff des 18. Jarhunderts, Lang, Fam 1976, tr. it. M. Russo, op. cit., p. 84. 131 M. Riedel, Verstehen oder Erklaren? Zur Theorie und Gesichichte der hermeneutischen Wissenschaften, Klett-Cotta, Stuttgart 1978, tr. it. G. di Costanzo, Comprendere o spiegare? Teoria e storia delle scienze ermeneutiche, Guida, Napoli 1989, p. 15. 132 Cfr. il già citato Anthropologie fur Arzte und Weltweise del 1772. 130 62 e pressante là dove si riteneva che, in mancanza di questo tipo di scambio, ai filosofi non sarebbe rimasta che una generica moralistica priva di applicazione mentre i medici sarebbero rimasti privi di una visione generale e universale del fine ultimo della propria attività. Ora, non è in questione la fondatezza o meno di tali teorie, ma è bene tenere presente come con Platner si sia ancora sullo sfondo di un forte dualismo che l’antropologia si fa largo nel momento stesso in cui tenta di stemperarlo. Di tale dualismo, pur nella ricerca di unità, a lungo si terrà conto; in parte proprio a causa dell’impostazione disciplinare stessa, che si vuole impostata sì sul rigore teorico, ma anche e soprattutto dedicata a una crescita ed un perfezionamento intesi in termini assolutamente pratici. La filosofia stessa viene letta i termini di Weltweisheit (saggezza mondana), strumento pratico che si tenta di affinare nel tentativo di raggiungere una forma di felicità. Questa impostazione è strettamente correlata a un’altra idea intorno a cui si è sviluppato l’insieme di esigenze messe in campo dall’antropologia: è l’idea della Bestimmung133, di una forma di destinazione cui l’uomo è chiamato a mirare e che a sua volta implica in modo imprescindibile l’idea di progresso. Nel versuch einer Anthropologie oder Philosophie des Menschen nach seiner korperlischen Anlagen134 del 1974 scrive ad esempio Johannes Ith che, secondo il suo autentico concetto “la filosofia dell’uomo, o l’antropologia nel suo significato corrente, deve avere ad oggetto la natura e i più generali rapporti e la destinazione (Bestimmung) dell’uomo.”135 L’idea è ampiamente condivisa, come testimoniano i numerosi riferimenti che costellano gli scritti dei più diversi autori. Wezel, ad esempio, argomenta che essendo il sommo fine ultimo dell’uomo lo scopo della vera antropologia, “la più alta destinazione (Bestimmung) dell’uomo può ben essere raggiunta semplicemente tramite la corretta conoscenza della natura umana, e di conseguenza tramite innanzitutto lo sviluppo completo ed adeguato di tutte le disposizioni naturali dell’uomo, dato che il nostro comportamento per la gran parte dipende dalle nostre concezioni.”136 “Armonia ed equilibrio tra entrambi i fini, tra il progredire delle due parti della nostra natura, quella 133 Su questo tema nelle sue implicazioni antropologiche, cfr. L. Fonnescu, Antropologia e idealismo la destinazione dell’uomo nell’etica di Fiche, Laterza, Bari 1995. 134 Cit. in M. Linden, op. cit., p. 127. 135 Ibidem. 136 A. Wezel, Grundriss eines eigentlichen Systems der anthropologischen Psychologie uberaupt und empirischen insbesondere (1804) cit. in M. Linden, op. cit., p. 134. 63 soprasensibile e quella votata al godimento della felicità sensibile, dev’essere la destinazione dell’uomo, altrimenti, riguardo al rapporto tra queste due disposizioni ugualmente originarie del suo essere e dei fini che ne risultano, egli resta a se stesso un eterno enigma.”137 Anche con Herder l’umanità intesa come insieme di tutti i tratti fisici e spirituali più sublimi dell’uomo “è il compito dell’autentica filosofia umana”138. Che sia nell’accezione platneriana, o che sia in stretta relazione più con la fisiologia o più con la psicologia, in ogni caso è al voltare del secolo che si può davvero iniziare a considerare l’antropologia come scienza autonoma, benché con caratteristiche ancora in fase di sviluppo. Anche gli esiti cui sembra si arrivi nel corso del XVIII secolo rappresentano comunque solo punti di passaggio verso quella dimensione che abbiamo visto destinata a diventare incomparabilmente più ampia, all’epoca affatto prevedibile. Esempio lampante di quel fermento e della serie di effetti che si andavano preparando è, se ci è concesso un passo indietro, la collocazione nella storia del pensiero del contributo kantiano insieme agli oltre trent’anni di corsi sull’antropologia da lui tenuti e solo recentemente139 rivalutati; se da una parte è lo stesso Kant a qualificare tali studi come letture divulgative, letteralmente “populäre Vörtrage”140, è però impossibile pensare, data l’ampiezza dei materiali, che essi abbiano occupato un posto irrilevante o secondario nell’organizzazione dei suoi percorsi. Al fine di chiarire, quindi, ulteriormente l’eredità filosofica che l’antropologia ha raccolto, e preparando il terreno per una introduzione ai contributi plessneriani che, 137 K.H.L. Politz, Populare Anthropologie oder Kunde von dem Menschen nach seinen sinnlichen und geistigen Anlagen (1800), cit. in M. Landmann, De homine. Der mensch im spiegel seines Gedankens, Alber, Freiburg-Munchen 1962, p. 380, cit. in M. Russo, op. cit., p. 89. 138 J. C. Herder, Ideen zu einer Geschichtphilosophie der Menscheit (1784), tr. it. V. Verra, Idee per una filosofia della storia della umanità, Laterza, Bari 1992, p. 60. 139 Cfr. a questo proposito G. M. Tortolone, Esperienza e conoscenza. Aspetti ermeneutici dell’antropologia kantiana, Mursia, Torino 1996 e P. Manganaro, L’antropologia di Kant, Guida, Napoli 1983. 140 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 4. Questa notazione kantiana è perfettamente in linea, d’altronde, con il carattere divulgativo che in generale l’antropologia non cessò di avere nel corso del secolo: “La popolarità che lo studio dell’uomo raggiunse verso la fine del secolo diciassettesimo si mostra forse nel modo più evidente con la assai ampia letteratura antropologica, la quale si rivolgeva a quei cittadini colti, amanti della discussione, da cui partiva la richiesta di letture divulgative e di svago sull’argomento ‘uomo’”. (M. Linden, cit. p. 81). 64 come vedremo, riecheggiano in modo significativo quanto andremo successivamente indagando insieme a Dufrenne, intendiamo ora soffermarci brevemente su suggestioni kantiane con un duplice obiettivo: da una parte mostrare, come detto, il background filosofico dell’antropologia e nello specifico di quella plessneriana e, dall’altra, mettere in luce l’affinità di temi che correla l’antropologia filosofica con il più ampio orizzonte dischiuso dall’estetica, settecentesca prima e fenomenologica poi. Vedremo pertanto come dai molteplici interessi che animano gli studi kantiani, e in particolare dalla cesura, che è al contempo legame, tra gli studi antropologici e quelli critici e dall’attenzione che in essi si concentra rispetto al problema della sensibilità, sia possibile desumere parte dell’impianto plessneriano. L’attenzione sarà naturalmente rivolta quasi esclusivamente al settore estesiologico della ricerca e al tema dei sensi e della loro unità.141 1.3 Riferimenti kantiani Risale al 1798 la Antropologia pragmatica, l’opera in cui Kant organizza in modo sistematico la propria riflessione intorno alla natura dell’uomo, assumendo come punto di vista centrale quello del rapporto tra interno ed esterno. La distinzione su cui si regge tutto l’impianto separa la conoscenza fisiologica dell’uomo da quella pragmatica secondo l’idea che tutto quello che si può affermare dell’uomo scientificamente è riducibile alla fenomenicità, cioè alla sua fisiologia, escludendone quindi tutta la “natura in sé”, teoricamente inafferrabile, il suo carattere intelligente, imponderabile.142 Pur fermo restando, dunque, l’ovvia posizione di minor importanza rispetto alla meditazione critica, sono stati messi in luce significati non secondari in quell’orizzonte di indagine che in seguito sarebbe appartenuto all’antropologia filosofica. In particolare, sono gli aspetti collegati alla praticità e concreta messa in atto della teoresi quelli che a 141 Per una più esaustiva introduzione a Plessner che comprenda anche la filosofia sociale e politica, qui necessariamente trascurata, cfr. S. Giammusso, Potere e comprendere. La questione dell’esperienza storica e l’opera di Helmut Plessner, Guerini, Milano 1995. 142 Cfr. I. Crispini, Tra corpo e anima. Riflessioni sulla natura umana da Kant a Plessner, Saggi Marsilio, Venezia 2004, p. 27. 65 partire da Kant vengono mutuati, approfonditi e, benché piegati a differenti intenti, lasciati agire. Il ruolo dell’antropologia, così come Kant consente di figurarlo, è profondamente legato, infatti, a quegli eventi concreti che corrispondono alle leggi morali e che vedono l’uomo non solo come attento osservatore ma anche e soprattutto, chiamato in causa da protagonista sulla scena di quel mondo che osserva. Pragmatico è, significativamente, l’aggettivo che denota l’approccio antropologico kantiano, indicando espressamente l’applicazione delle regole acquisite alla vita concreta143, lo studio delle norme che guidano un Gebrauch für die Welt, un migliore uso del mondo. L’intreccio sostanziale è così quello che del percorso antropologico fa una sorta di contraltare per quello morale144 e di integrazione fondamentale per un approccio filosofico al mondo dell’empiria umana145 al fine di considerare “quello che l’uomo come essere libero fa oppure può e deve fare di se stesso”.146 Proprio questa aderenza al piano concreto e immanente dell’esistenza rappresenta uno degli impianti di base che dall’approccio kantiano si ritrovano essenzialmente in tutta la storia delle idee antropologiche successiva. Non è infatti in primis a partire da questioni fisiologiche che esse si sviluppano, meno che mai in Kant, ma da prospettive 143 Cfr. M Russo, op. cit., p. 99 e segg. P. Mangano, op. cit., p. 280 esplicita l’antropologia kantiana proprio come “referenza esterna” della morale, momento in cui la libertà “s’inchioda nella finitezza”, nella contingenza e attualità del mondo empirico. 145 Non a caso molti dei termini che ricorrono nella trattazione kantiana in questione sono termini che potremmo dire “sporchi di mondo”: Weltkenntnis, Weltklugheit, Weltweisheit… 146 I.Kant, op. cit., p. 3. Questo è uno dei punti in cui l’approccio kantiano si mostra tanto vicino alla sua lontana filiazione quanto da essa molto distante. Il suo interesse non si rivolge mai, infatti, al contrario di quello che avverrà quando l’identità dell’antropologia raggiungerà una maggior definizione, al versante fisiologico e naturale dell’uomo. La concezione della natura umana figurata da Kant ha carattere, potremmo dire, restrittivo. Scrive infatti Kant: “La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che va oltre la costituzione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse ad altra felicità o perfezione se non a quelle che egli stesso, libero da istinti, si crea con la propria ragione. In altre parole, la natura non fa nulla di superfluo e non è prodiga nell’uso dei mezzi ai suoi fini. Essa diede all’uomo la ragione e, su di questa fondata, la libertà del volere, e con ciò ha dato un chiaro indizio della sua intenzione circa il modo di dotarlo. Egli cioè doveva essere guidato non dall’istinto e neppure essere fornito a conoscenza innata, ma doveva piuttosto tutto ricavare da se stesso. Le provvidenze relative al cibo, alle vesti, ai mezzi di difesa e sicurezza esterna (per le quali la natura non gli diede né le corna del toro, né gli artigli del leone, né i denti del cane ma solo le mani), ogni divertimento che potesse rendere piacevole la vita, la stessa sua perspicacia e avvedutezza e persino la buona disposizione del volere dovevano essere interamente opera sua. Pare che qui la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualità animali dell’uomo strettamente, rigorosamente, al bisogno supremo di una esistenza iniziale.” (I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltburgerlicher Absicht (1784), tr. it. Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici, Utet, Torino 1956, p. 126). 144 66 prettamente connesse all’orizzonte esistenziale nelle sue manifestazioni pratiche. E proprio in queste prospettive, che già Foucault ha rintracciato e riconosciuto nella loro peculiarità147, si radicano alcuni punti di riferimento essenziali per l’antropologia filosofica. Si deve a Kant, in questo senso, l’aver suggellato il legame dell’antropologia con le questioni dell’agire morale. Una delle questioni più importanti che con lui si sollevano riguarda ad esempio il problema del rapporto tra la teoria e la prassi che concerne a sua volta tanto il ruolo istituzionale della filosofia quanto quello tecnico delle facoltà dell’uomo. Nel percorso kantiano si legge un tipo di interesse animato da quella stessa domanda che regge l’antropologia filosofica nei suoi percorsi: Io ho imparato dalla Critica della ragion pura che la filosofia non è una scienza delle rappresentazioni, dei concetti e delle idee, o una scienza di tutta la scienza, o qualcos’altro di simile; ma è una scienza dell’uomo, del suo rappresentare, pensare e agire. Essa deve presentare l’uomo in tutte le sue componenti, come egli è e come deve essere, cioè tanto secondo le sue determinazioni naturali 148 quanto anche secondo la condizione della sua moralità e della sua libertà. Se la risposta di Kant ha trovato la propria messa a fuoco nell’analisi critico trascendentale delle facoltà, in particolare della ragione, quella antropologica è invece rimasta ben ancorata a questo campo pratico esistenziale, con tutti i rischi di empirismo, sia detto, che questo comporta. Si mette così in luce, di nuovo, come l’attenzione antropologica sia rivolta sì a quel fondo inattingibile (Abgrund) che è la ragione umana, ma solo per vederne e mostrarne le incarnazioni vitali. A questo aspetto dell’analisi kantiana si è fatto costante e continuo riferimento, mutuando dal grande pensatore non tanto la cesura, che pure esiste, tra teoria e prassi, quanto la connessione che tra esse rimane adombrata persino nella distinzione netta degli scritti. Filosofia critica e filosofia antropologica risulterebbero quindi, in Kant stesso e a partire da lui, i due lati inseparabili di un’indagine globale dove all’uomo si tende attraverso un percorso che ne 147 Risale al 1960 la presentazione da parte sua della prima traduzione in francese dell’Antropologia pragmatica, accompagnata da 124 pagine di inedito commento, come parte dei lavori previsti per il conseguimento del dottorato alla Sorbona. Questo rappresentò uno dei punti di avvio de Le parole e le cose (cfr. la biografia di J. Miller, The passion of Michel Foucault, tr. it. E. Campominosi, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994). 148 I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Mursia, Torino 1994, p. 277. 67 prenda di mira tutte le componenti senza dimenticare di considerare gli ambiti nella loro autonomia; lasciando tuttavia alla scienza, cui comunque l’antropologia filosofica in qualche modo non vuole del tutto rinunciare, la conoscenza di quelle determinanti che sono rigorosamente verificabili. La distinzione kantiana tra filosofia critica e studi antropologici, di fatti, è stata letta149 nei termini di un approccio ai campi della teoria e della prassi nella consapevolezza della stretta relazione che li lega e, al contempo, della loro insolubile dicotomia. Le ricerche antropologiche risulterebbero, in tal senso, un “modo di filosofare ab externo, che, abbandonata la gravosa opera autocritica consentisse finalmente di guardare in presa diretta ‘cosa c’è’, senza più il rischio di tradimento del proprio ufficio critico e della propria finalità suprema: l’homo noumenon.”150 In quest’ottica, il contributo kantiano rappresenterebbe una prima e rigorosa apertura che, a partire da un questionare filosofico, si avvicinasse al soggetto umano puntando direttamente sulle pieghe concrete del suo agire. “Finalmente la filosofia poteva fare ingresso e impegnarsi direttamente nel mondo effettuale degli uomini, osservandone le colorate superfici e recuperando volti ed espressioni prima cancellati.”151 Animata da un’esigenza, solo in parte comprensibile, di concretezza, questa lettura manca forse della profondità che il sistema critico imporrebbe, ma ha il merito di sottolineare e ribadire quella caratteristica dell’antropologia che ne rappresenta l’essenza, oltre che forse il limite: l’interesse per il mondo della vita nella sua messa in atto specifica e reale152, prima ancora dell’approfondimento delle strutture che lo reggono universalmente ed a priori. L’attenzione che nell’antropologia filosofica si è manifestato nei confronti del coté pragmatico dell’antropologia kantiana si motiva, pertanto, con un’interpretazione di 149 M. Russo, op. cit., pp. 113 e segg. Ivi, p. 115. 151 Ibidem. 152 “Antropologia filosofica si denomina non qualunque teoria dell’uomo, ma quella che diventa possibile con l’abbandono della metafisica di scuola tradizionale e delle scienze matematiche della natura, e cioè con il rivolgersi al ‘mondo della vita’ e divenendo fondamentale con il ‘rivolgersi alla natura’ ossia con la rinuncia alla filosofia della storia. L’antropologia filosofica è allora –sotto la condizione di una fondamentale comunanza: il volgersi al mondo della vita– il contrario della filosofia della storia; in quanto si rivolge alla natura.” O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Surkamp, FaM, 1983. 150 68 esso nei termini di oggettivazione tangibile di un fondo irriducibile, di cui si percepisce la presenza e si sentono gli effetti senza tuttavia potervi attingere direttamente. Un ulteriore fondamentale punto di tangenza che correla il contributo kantiano tanto agli usi che se ne sono fatti in ambito antropologico quanto all’ancora più esteso campo estetico è quello che investe in modo fondamentale il tema della sensibilità. Interpretato da Ines Crispini addirittura nei termini di una “apologia della sensibilità”153 tale contributo sembra adombrare un interesse leggibile in stretta relazione con quello che anima in diverso modo, ma eguale misura, antropologia filosofica ed estetica. Nelle “Osservazioni generali sull’estetica trascendentale”, Kant contesta in modo diretto l’idea che dalla sensibilità si possano ricavare solo rappresentazioni confuse delle cose, apprensioni parziali e confuse di ciò che le cose sono in se stesse e su cui l’intelletto sarebbe chiamato ad intervenire per riportare distinzione e chiarezza154. Come scrive Kant: Noi, mediante il senso non è già che semplicemente conosciamo in modo oscuro la natura delle cose in sé, ma non la conosciamo punto; e, appena prescindiamo dalla nostra natura soggettiva, non si trova più, né può essere trovato l’oggetto rappresentato con le proprietà che gli attribuiva l’intuizione sensibile, poiché appunto questa natura soggettiva determina la forma di esso come fenomeno.155 Riguardo a questo punto è tuttavia stato rilevato come uno dei riferimenti kantiani di maggior spessore sia rintracciabile proprio all’interno dell’Antropologia da un punto di vista pragmatico che permette di sottolineare, nella direzione già indicata da Manganaro, come l’antropologia non sia tanto distante dalla filosofia trascendentale e anzi, a tratti, sia ad essa più affine che non alla psicologia156. “Dal testo della 153 I. Crispini, op. cit., p. 41. I. Kant, Critica della ragione pura, Laterza, Bari 1960, p. 216. 155 Ivi, p. 85. 156 Cfr. I. Crispini, op. cit., p. 42, P. Manganaro, op. cit., p. 121. Su questo tema del rapporto tra l’antropologia kantiana e la psicologia di scuola wolffiano-leibniziana cfr. N. Hinske, La psiclogia empirica di Wolff e l’antropologia pragmatica di Kant. La fondazione di una nuova scienza empirica e le sue complicazioni, in AA. VV., La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Atti del convegno internazionale, Napoli 2-5 aprile 1997, a cura di G. Cacciatore, V. Gessa-Kurotschka, H. Poser, M. Sanna, Guida, Napoli 1999, pp. 207-224. In generale tutti i commentatori concordano nel 154 69 Antropologia risulta infatti assai chiaro lo spostamento del rapporto tra sensibilità e intelletto dal piano del gradualismo razionalistico leibniziano al piano distintivo. Al posto della chiarezza e della confusione, all’intelletto e alla sensibilità è assegnata una funzione, l’attività o la passività, e questo è un punto veramente importante”157. Il testo dell’Antropologia non è correlato a questo proposito con le Lezioni di antropologia158 bensì con la prima critica. Nelle lezioni non si trova, infatti, alcuna spiegazione riguardo alla ragione per cui i due segni distintivi fondamentali di intelletto e sensibilità siano attività e passività, come invece si legge nella prima critica. Dall’interpretazione che stiamo seguendo risulta chiaro, quindi, che l’antropologia kantiana deve, dopo il 1770, l’occasione della sua origine non tanto alla psicologia empirica quanto a quella trascendentale, cioè a quella rifondazione della psicologia tradizionale in base alle nuove strutture di conoscenza dell’Analitica, per cui alla ‘chiarezza’ e alla ‘distinzione’ si sopperisce meglio con i contrassegni dell’ ‘intuizione’ e del concetto. “Il significato dunque dei rapporti tra sensibilità e intelletto è una di quelle questioni che investono direttamente il senso della fondazione filosofica kantiana e, nel contempo, assumono una precisa rilevanza antropologica.”159 Nel testo dell’Antropologia del ’98 Kant imposta la questione della distinzione tra sensibilità e intelletto in questo modo: Riguardo allo stato delle rappresentazioni il mio animo o è agente, e allora dimostra una facoltà, oppure è passivo e allora possiede una sensibilità. Una conoscenza racchiude in sé ambedue le cose e le possibilità di averle trae il nome di facoltà di conoscere dalla parte più eccellente, cioè dall’attività dell’animo di collegare le rappresentazioni e di separare le une dalle altre.160 All’interno di questo quadro quello che è condivisibilmente messo in luce, e che rivelerà i propri legami anche con quanto andremo successivamente indagando, è la rimandare, come fondamentale strumento di indagine e ricostruzione delle fonti della antropologia kantiana, a R. Brandt, Kommentar zu Band 25 “Antropologie” der Kant-Ausgabe der Akademie der Wissenschaften, Gottingen 1997, cit. in I. Crispini, op. cit., p. 43. 157 I. Crispini, op. cit., p. 42. 158 I. Kant, Vorlesungen uber Anthropologie, in Gesammelte Schriften, bd. Xxv, a cura di R. Brandt e W. Stark, W. De Gruyter, Berlin-New York 1997. 159 I. Crispini, op. cit., p. 43. 160 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 23. 70 complessità del problema dei rapporti tra le due facoltà in questione nel contesto della riflessione antropologica, laddove questi rapporti si rivelano particolarmente intrecciati e molteplici e in ogni caso mai definitivamente determinati secondo le caratterisitiche di attività e passività. “Anzi, la trattazione pragmatica rivela come i luoghi e le figure di queste due facoltà investano la possibilità di determinare complessivamente la Menschenkenntnis.”161 L’analisi di cui stiamo tenendo conto prosegue ravvisando, all’interno delle argomentazioni162 kantiane a favore della sensibilità contro le forme di razionalismo leibnizio-wolffiane, una forma di svelamento delle tensioni e delle disarmonie delle figure speculative della filosofia trascendentale e, contemporaneamente, le duplicità e le tensioni che appartengono alla natura dell’uomo. L’argomentazion kantiana, infatti, all’interno dell’Antropologia, si sviluppa a partire dalla attribuzione del carattere di passività della sensibilità e quello di facoltà vera e propria all’intelletto e prosegue, in linea con la prima Critica, riprendendo l’antica polemica nei confronti della scuola leibniziano-wolffiana163. A tale tradizione si imputa l’errore di aver caratterizzato la sensibilità come una facoltà di rappresentazioni indistinte e l’intelletto come capacità di elaborare rappresentazioni distinte, e di aver quindi individuato una differenza a livello esclusivamente formale, logica, della coscienza, anziché reale, psicologica, relativa cioè anche al contenuto del pensiero. È 161 I. Crispini, op. cit., p. 43. Argomentazioni che, a volte, sottraggono la distinzione tra attività e ricettività alla conseguente separazione-opposizione tra due ordini di sapere, quello logico e quello psicologico e, a volte, invece, drasticamente ve la risolvono. (Cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 24.) 163 Come stiamo per mostrare, la posizione kantiana si snoda lungo un rovesciamento totale del rapporto tradizionale che, secondo la metafisica leibiniziano-wolffiana, legherebbe intelletto e sensibilità. Vedremo tra poco, brevemente, gli esiti cui esso conduce e la loro rilevanza per il percorso che si sta affrontando in questa sede. Meno pertinente per noi, ma di non minore interesse, è invece un’altra conseguenza importantissima di tale posizione che è bene qui ricordare. Con l’esito kantiano, infatti, la recettività, e con essa la finitezza, è posta come necessità ontologica, come elemento imprescindibile nell’apprensione degli oggetti, riducendo così l’ideale di scienza compiuta o di sapere assoluto ad un semplice ideale soggettivo, un puro pensiero cui non risponde alcuna realtà in sé. Secondo la prospettiva tracciata da Kant, quindi, come ha notato I. Crispini nel testo che stiamo citando (p. 46), “la scienza non giungerà mai, non più della metafisica, a razionalizzare completamente il mondo, poiché ogni conoscenza oggettiva implica sempre un dato sensibile e, dunque, un momento non concettuale. E, d’altro canto, la pretesa oggettività assoluta della scienza o della metafisica viene sgretolata nell’idea che il conoscere è comunque un’attività di una natura soggettiva, un atto creativo di un soggetto di cui Kant vuole certo tracciare il profilo trascendentale, universale, quando conduce la critica delle facoltà del conoscere o dell’agire, nel senso proprio di ciò che è comune a tutti gli individui che appartengono alla medesima specie e senza dimenticare che questa specie potrebbe essere specificamente l’umanità. L’unica oggettività pensabile è, dunque, quella pur sempre relativa, di una natura soggettiva e non certo quella oggettività degli oggetti cui la scienza e la metafisica illusoriamente aspirano.” 162 71 così che la sensibilità consisterebbe soltanto in una forma di mancanza di chiarezza mentre la natura della rappresentazione intellettuale consisterebbe nella capacità di analizzare e illuminare il contenuto oscuro delle rappresentazioni parziali offerte dalla conoscenza sensibile. La posizione di Kant risulta invece connotata da tutt’altra convinzione, che risulta rintracciabile già a partire da La critica della ragion pura: la sensibilità è infatti per lui qualcosa di assolutamente positivo, un’aggiunta indispensabile alla rappresentazione dell’intelletto e un momento prioritario e necessario alla produzione di una conoscenza.164 La conclusione di tale difesa della sensibilità si risolve in una vera e propria “Apologia della sensibilità” tesa alla dimostrazione di tre punti sostanziali: i sensi non perturbano, non comandano all’intelletto e non ingannano.165 La sensibilità si trova assunta nella sua evidenza fenomenica. Nel momento in cui sembra che i sensi perturbino, è l’intelletto a intervenire, nel senso che esso: Trascura i suoi doveri e (senza avere prima ordinato le rappresentazioni dei sensi sotto leggi), poi si lagna del loro perturbamento, come se lo si dovesse imputare alla natura originariamente sensibile dell’uomo.166 Il motivo per cui abbiamo dedicato spazio a questi temi kantiani emerge a questo punto con chiarezza: si trova infatti qui uno dei significati più profondi per quanto riguarda la connessione kantiana con l’antropologia e, al contempo, con i temi più propriamente estetici che qui si vanno indagando. L’interesse dell’apologia dei sensi kantiana sembra, infatti, superare quello della difesa di questa facoltà come fondamentale per la conoscenza; rivelandosi essere piuttosto un interesse che investe, direttamente, l’obiettivo stesso dell’antropologia. È proprio la sensibilità, infatti, come è stato scritto, il vasto territorio su cui si basa e si sviluppa questa scienza pragmatica dell’uomo. Se le regole dell’intelletto si trovano infine nella logica, l’orizzonte sterminato dischiuso dalla sensibilità umana trova le sue regole più generali in questa disciplina che non solo studia l’uomo come fenomeno, ma 164 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 23-24. Ivi, p. 26. 166 Ivi, p. 27. 165 72 ne precisa anche tutte le attività e le funzioni in cui la sensibilità è direttamente chiamata in causa: udito, vista, immaginazione, piacere, desiderio, creatività.167 È duplice dunque la conseguenza cui conduce questa posizione kantiana a favore della sensibilità. Come si legge nell’Antropologia: Ciò che vi è di passivo nella sensibilità, che noi, d’altronde, non possiamo eliminare, è propriamente la caus di tutto il male che le si attribuisce. La perfezione interna all’uomo consiste in ciò: che egli abbia in suo potere l’uso di tutte le sue facoltà per sottoporlo alla propria libera volontà. Ma per questo si richiede che l’intelletto domini, ma non indebolisca, la sensibilità (…): senza la sensibilità, infatti, non ci sarebbe materia che possa essere elaborata ad uso dell’intelletto legislatore.168 Il primo esito riguarda quindi, chiaramente, la caratteristica di passività che inevitabilmente investe la sensibilità: da essa non è possibile prescindere all’interno del processo conoscitivo di cui rappresenta, invece, una conditio sine qua non. Senza di questa, il vuoto e il non senso delle funzioni logiche intellettuali. Il secondo esito investe il versante antropologico della riflessione sulle facoltà del conoscere: con esso viene ribadita la forma sensibile della conoscenza medesima, per sua natura legata ad una soggettività che determini gli oggetti come fenomeni, inaccessibili e inesistenti qualora da tale soggettività si cerchi di prescindere. Per completare il quadro di questi cenni ai lasciti kantiani, prima di sfruttarli per passare concretamente a Plessner, è bene ricordare, seppure molto brevemente, che Kant si è d’altra parte imposto anche quale obiettivo polemico nel corso della meditazione antropologica là dove essa ha assunto le caratteristiche di antropologia filosofica. È il caso in particolare di Max Scheler cui qui brevemente accenniamo proprio nell’ottica di mostrare la polivalenza degli effetti generati dal pensiero kantiano sullo sviluppo delle tesi che portarono alla nascita e affermazione dell’antropologia filosofica. Oltre a ciò si nota come, proprio sui temi innescati dall’opposizione a Kant, Scheler sviluppi una meditazione antropologica intorno all’ordine apriorico dell’uomo che non è estranea, in 167 168 Cfr. I. Crispini, op. cit., pp. 44-45. I. Kant, Antropologia, cit., p. 27. 73 parte, alla fondamentale nozione di a priori che vedremo svilupparsi nella ricerca di Dufrenne. Proprio in riferimento a quel legame, qui già messo in luce, che con Kant si suggella tra antropologia e agire morale, Scheler sviluppa dunque una ricerca tesa alla fondazione di un’etica “materiale dei valori”169. Il suo fondamentale Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori170 rappresenta infatti il tentativo di una fondazione contenutistica e non formale dell’etica, attraverso cui mantenere l’idea kantiana di un’etica non relativistica né utilitaristica né eudemonistica, che si presenti però libera da quei condizionamenti formali con cui Kant, a parere di Scheler, l’aveva privata di ogni contenuto171. La nuova etica cui punta Scheler, in sintonia con quell’anelito alla materialità e concretezza della vita che caratterizza tutta l’impostazione antropologica e sul quale torneremo, si fonda sulla possibilità di un a 169 È di recente pubblicazione lo studio, cui rimandiamo, realizzato da Giuliana Mancuso sul dibattuto neokantismo del giovane Scheler. Cfr. G. Mancuso, Il giovane Scheler, LED Edizioni Universitarie, Milano 2008. 170 M. Scheler, Der formalismus in der Ethik und die materiale Wertehtik, 1913-27, tr. it. di G. Caronello Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Vita e Pensiero, Milano 1975. 171 A questo proposito è stato opportunamente scritto: “Il misurarsi di Scheler con la filosofia trascendentale kantiana, con la posizione che essa ha rappresentato nella storia della filosofia, con il retaggio kantiano successivo non assume, a mio avviso, mai lo spessore di una posizione interpretativa né, tanto meno, il carattere di una rielaborazione delle categorie del criticismo in funzione nuova, come è avvenuto per il neocriticismo. Piuttosto il tentativo scheleriano si configura come necessità di sottolineare le lacune intrinseche del pensiero kantiano per evidenziare, soprattutto nei primi scritti, lo statuto fondamentale del nuovo metodo fenomenologico e per spostare nel campo della pratica quello che, in fondo, era un problema centrale anche nella riflessione del neokantismo, cioè il problema del rapporto tra possibilità (il trascendentale) e realtà e, all’interno di questo, il problema lasciato irrisolto dalla filosofia kantiana, del contrasto tra ragione e sensibilità. In questa prospettiva va dunque inquadrato il rifiuto scheleriano del metodo trascendentale anche nelle rielaborazioni della scuola di Marburg e nella reinterpretazione di Cohen, in quanto l’impianto trascendentale, a causa del suo apriorismo formale, non offre comunque spazio all’apporto del divenire storico e culturale, sfociando inevitabilmente in un oggettivismo logico che impone di attribuire anche alla riflessione etica un carattere teoretico-conoscitivo e un legame stretto con la logica.” (I. Crispini, op. cit. p. 75). Scrive d’altronde Scheler stesso: “Solo in quanto il contenuto a priorico essenziale viene trovato nelle cose stesse e tutti i principi e i concetti dell’intelletto trovano in esso la loro effettuazione (il loro riempimento) sfuggiamo alla conseguenza di fare della filosofia una sapienza verbale (…). È quindi del tutto assurdo voler ricondurre l’essenza della verità o l’essenza dell’oggetto, rispettivamente, ad una necessità del giudicare o dei principi e alla necessità di una connessione delle rappresentazioni (…). La necessità di una proposizione è, appunto oggettiva soltanto quando essa riposa su di una oggettiva visione di un contenuto apriorico.” (M. Scheler, op. cit., pp. 72-75). 74 priori materiale172 basato a sua volta sul superamento di quello che egli legge come un falso dualismo tra ragione (Vernunft) e sensibilità (Sinnlichkeit). In contrapposizione a Kant, noi tendiamo quindi a sviluppare decisamente un apriorismo dell’emozionale e a spezzare la falsa identità sinora operata tra apriorismo e razionalismo. L’‘etica emozionale’, a differenza dell’‘etica razionale’, non è necessariamente un empirismo che desumerebbe i valori etici dall’osservazione e dall’induzione. La percezione affettiva, il preferire e il posporre, l’amare e l’odiare hanno nello spirito un loro contenuto a priori specifico che è idipendente dall’esperienza induttiva come lo sono le pure leggi del pensiero. Nell’uno e nell’altro ambito sussiste un’intuizione eidetica degli atti e delle loro ‘materie’, dei loro rapporti di fondazione e delle loro correlazioni. Nell’uno e nell’altro caso sussistono l’‘evidenza’ e la più rigorosa esattezza dell’accertamento fenomenologico.173 Quello cui punta Scheler, in contrapposizione a Kant, è un “apriorismo dell’emozionale”, che implica una scissione tra apriorismo e razionalismo. Per potere costruire un’etica materiale apriori bisogna finirla una volta per tutte con il pregiudizio che riduce lo spirito umano all’alternativa della ragione contrapposta alla sensibilità e non ammette di poter ricevere nulla se non dall’una o dall’altra delle due sorgenti.174 In tale prospettiva la volontà viene a perdere il primato che le conferiva il razionalismo etico, diventando più semplicemente un mezzo per indirizzarci verso certi valori piuttosto che altri. L’aspetto fondamentale delle analisi scheleriane175 consiste, dunque, nel sancire l’autonomia e l’indipendenza delle formazioni spirituali del mondo morale rispetto alle strutture logiche e conoscitive proprie di ogni sapere razionale. Nell’ottica di Scheler si tratta pertanto di mettere in luce e far risaltare l’esistenza di 172 Pur in assenza di ogni diretta filiazione si può accennare qui alla ricerca di Dufrenne e alla sua basilare teorizzazione della nozione di a priori, con particolare riguardo per quegli a priori affettivi che rappresentano un punto saliente del suo percorso e sui quali inevitabilmente torneremo. 173 M. Scheler op. cit., p. 26. 174 Ivi, p. 83. 175 Per un approfondimento di questi temi cfr. I. Crispini, op. cit., p. 80. 75 quello che Blaise Pascal chiamava “l’ordre du coeur”, quella “logique du coeur” i cui dati costitutivi sono apriori.176 Che lo si veda, come nel caso di Scheler, quale punto di riferimento da cui discostarsi; che non si accetti di considerarlo quale capostipite di alcuna dottrina antropologica sostenendo che di fatto l’antropologia pragmatica non ha avuto alcun seguito dopo la sua opera; che si ammetta al contrario la rilevanza storica e teorica, anche nel contesto antropologico, delle ricerche kantiane; in ogni caso quella di Kant resta quale tappa estremamente significativa di un percorso di idee di cui non si può non tenere conto, pur o proprio perché in contrasto con la tendenza fisiologistica e psicologistica delle antropologie dell’epoca. Come è stato scritto: Ciò che Kant diede agli studenti degli anni sessanta fu la rinnovata convinzione, dopo quasi un quarantennio di wolffismo scolastico dominante, che si dovessero finalmente sostituire le sterili esercitazioni logistiche e le vuote costruzioni metafisiche con una filosofia utile all’uomo comune; ed invero con le lezioni kantiane la ‘dottrina dell’uomo’ come chiama Wundt l’istanza della ‘terza generazione illuministica’, quella del trentennio 1750 – 80, fa negli anni sessanta il suo rientro nel mondo accademico.177 I cenni a Kant, doverosi all’interno di questo percorso, richiederebbero uno spazio di approfondimento che qui è impossibile dedicare. Di essi ci è dunque utile tenere ferme le suggestioni e gli eco che maggiormente, e se non altro più esplicitamente, si avvertono all’interno del tema circoscritto e degli autori che andiamo trattando. Su queste basi possiamo quindi passare alla delineazione del problema della sensibilità da parte di Plessner, l’autore tra gli antropologi filosofici che appare più 176 “Tutta la nostra vita spirituale, e non soltanto il conoscere oggettivo e il pensare nel senso di conoscenza dell’essere, possiede atti e leggi di atti, beninteso la vita pura, indipendente secondo la sua essenza ed il suo contenuto dalla situazione di fatto dell’umana organizzazione. Anche la parte emozionale dello spirito, il sentire, il preferire, l’amare, l’odiare, ha un contenuto originario apriorico, che non è tolto in prestito dal pensare e che l’etica, in piena indipendenza dalla logica, ha il compito di rivelare. C’è un apriorico ordre du coeur, o logique du coeur, come dice acutamente Blaise Pascal.” (M. Scheler, Il formalismo…, cit. p. 63). 177 N. Merker, L’illuminismo in Germania. L’età di Lessing, Ed. Riuniti, Roma 1989, pp. 111-112. 76 rappresentativo di quella comunione di intenti e affinità di tematiche che Dufrenne e l’estetica fenomenologica in generale hanno messo in campo al modo della filosofia. 1.4 Helmut Plessner, tra Kant e la fenomenologia husserliana Proprio allo sfondo kantiano di cui sopra ha dedicato larga parte dei suoi studi Helmut Plessner che con tale sostrato si confronta a più riprese, treando da esso lo spunto, anche polemico, per giungere ad alcuni dei suoi esiti più interessanti. Esiti che riguardano in massima parte il problema dei sensi e della loro unità e relazione. Gli scritti giovanili dell’autore sono prevalentemente dedicati allo studio del criticismo kantiano mentre gli scritti successivi al 1928, anno cardine della ‘svolta antropologica’ recano tangibili segni di un ormai avvenuto e maturo discostamento. 178 Ma è nel periodo a metà tra queste due fasi, precisabile cronologicamente sull’anno 1923, che Plessner si dedica a quello tra i suoi temi più rilevante per noi: il problema estesiologico179. È quello l’anno in cui vede la luce l’ampio studio, portato a termine nel dicembre del 1922, sul problema dell’unità e molteplicità dei sensi Die Einheit der 178 Del resto, è lo stesso Plessner, riprendendo le parole di Windelband, a scrivere: “comprendere Kant significa oltrepassarlo” (Gesammelte Schriften II, cit., p. 17). 179 Il concetto di estesiologia fa parte della nostra tradizione filosofica in modo più sensibile di quanto a prima vista non sembri. Se la consultazione di una qualunque dizionario filosofico italiano non porterà alcun chiarimento rispetto a questa voce, praticamente inespressa. Alla voce “estetica” dell’Abbagnano (in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1988, p. 433), tuttavia, tra gli sviluppi del’estetica del secondo Novecento, M. Ferrarsi indica un atteggiamento estetologico in senso ampio volto a recuperare la nozione baumgarteniana di conoscenza sensibile, “il cui oggetto prioritario non è il dominio dell’arte, né del bello, ma quello della sensazione come aisthesis e più complessivamente di tutta la sfera dell’apparire in quanto ambito complementare e insieme distinto da quello logico” e il concetto kantiano di estetica trascendentale, indipendente dal carattere soggettivo del giudizio di gusto. Tra gli autori che in modo diverso hanno contribuito allo sviluppo di tale orientamento nell’estetica si ricordano: Husserl delle Analisi delle sintesi passive e di Esperienza e giudizio; le indagini di Merleau-Ponty sul carattere estetico dell’ontologia in I visibile e l’invisibile; il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche; le riflessioni di Goodman e Garroni sull’estetica come filosofia non speciale; le ricerche di Walton (Mimesis come creazione di finzione) sulla differenza specifica tra realtà e immaginazione. In ambito poi più nettamente scientifico Ferrarsi sottolinea il rilievo delle teorie della percezione della psicologia della Gestalt. Infine, Derrida ha contribuito sensibilmente, con la sua ‘grammatologia’ su basi kantiane e fenomenologiche all’approfondimento dei rapporti tra logica ed estetica. 77 Sinne. Grundlinien einer Asthesiologie des Geistes180 all’interno del quale è significativamente compresa una lunga appendice sul sistema critico kantiano come teoria della conoscenza: Kants System unter dem Gesichtspunkt einer Erkenntnistheorie der Philosophie181. Quest’opera si era posta al centro della intensa discussione filosofico-scientifica tedesca, ormai invalsa dalla seconda metà dell’Ottocento, intorno a natura e struttura delle leggi del pensiero; la stessa discussione, nel segno generale di un “ritorno Kant”, aveva tra l’altro portato alla fondazione della “psicologia fisiologica” da parte di Wundt e Helmoltz. È questo tra l’altro il momento in cui, come abbiamo già accennato in fase introduttiva, l’intreccio tra psicologia, fisiologia e teoria della conoscenza caratterizza il dibattito culturale e filosofico.182 È proprio a questo dibattito e questa temperie culturale che fa riferimento Plessner fin dalla prefazione del libro che nasce infatti, secondo il disegno iniziale, come primo volume di un progetto editoriale di stampo cassireriano sulla teoria della conoscenza che doveva dipartirsi, anziché dal linguaggio, dalla teoria della conoscenza sensibile. Il tentativo era quello di “mettere in crisi i limiti formali dell’estetica trascendentale kantiana dall’interno, dimostrandone l’incapacità, in base ai postulati della ragione pura, di legittimare una teoria critica della sensibilità.”183 Quando però, nella seconda metà degli anni venti, gli interessi dell’autore si concentrano sistematicamente sulle possibilità e i metodi dell’antropologia filosofica il progetto si arresta. “Nondimeno, è significativo che l’esito estremo o sviluppo di una riflessione estetica che intende mettere in crisi i limiti formali della filosofia kantiana in modo strutturale, muovendo cioè dalla stessa estetica trascendentale, e non dalla terza Critica, è la presa di distanza definitiva di Plessner dalla Erkenntnistheorie di 180 L’unità dei sensi. Lineamenti fondamentali di estesiologia dello spirito, in Gesammelte Schriften, Suhrkampf, Frankfurt am Mein 1980-85. Tr. it. parziale in Helmut Plessner, Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi il suono, a cura di A. Ruco, Clueb Bologna 2007. 181 Il sistema di Kant dal punto di vista di una teoria della conoscenza della filosofia, ora in Ibidem. Pp. 323-345. 182 Tramite una chiave di lettura introdotta da Fries e Maimon l’analisi della conoscenza era stata ricondotta alla psicologia divenendo analisi dell’esperienza come viene resa possibile dalla nostra organizzazione psicofisica. La teoria della conoscenza passava quindi per l’analisi dei processi di sensazione, percezione e coscienzializzazione che i risultati delle scienze positive andavano chiarendo. Su questo dibattito scientifico-filosofico che in area tedesca si è sviluppato a partire da Fries e Maimon, cfr. S. Poggi, I sistemi dell’esperienza, Il Mulino, Milano 1977. 183 Cfr. A. Ruco, Estetica e antropologia filosofica nella teoria estesiologica di Helmut Plessner, prefazione a H. Plessner, Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a c. di A. Ruco, Clueb, Bologna 2007, pp. 7-61 in particolare pp. 12 e segg. 78 derivazione kantiana e neokantiana e l’elaborazione di una teoria più vicina al mondo della vita, nei suoi aspetti estesiologici e antropologici.”184 L’obiettivo teorico entro cui si muove Plessner è far riconoscere al criticismo le sue stesse lacune e limiti, approfondendo metodicamente i punti di rottura con esso. Il riferimento oppositivo a Kant, che pure di questi raccoglie notevole eredità, risuona in modo molto esplicito fin dal momento in cui, là dove si accinge ad esporre i criteri metodologici e i problemi teorici generali dell’estesiologia, l’autore ne lamenta la carenza di immediatezza con questo passo: Il veterocriticismo di Kant e il neocriticismo dei kantiani di tutti gli orientamenti (la scuola di Marburgo, di Heidelberg), ma anche tutti gli altri orientamenti attuali che si attengono al procedimento critico come il solo possibile per la filosofia, sono d’ostacolo per elaborare una filosofia della natura e delle sue forme. Infatti il procedimento critico tenta di dimostrare i criteri del sentire, del volere, del pensare, del credere e per tale ragione, persino nella sua versione più ampia, può sfociare soltanto in una filosofia della cultura. Così come Kant ha voluto definire la facoltà conoscietiva dell’uomo in base alle sue prestazioni matematiche e scientifico-naturali, ovvero ha voluto definire i confini del conoscere in modo analitico-regressivo, in base ai confini ideali di queste prestazioni, i suoi perfezionatori moderni tentano di aggiungervi le prestazioni storiche e della scienza della cultura, per ottenere uno sguardo più vasto sulle facoltà teoretiche. La costruzione della natura nelle scienze naturali concorda con la costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito. Non importa, inoltre se la critica filosofica pervenga ai criteri di valutazione soltanto attraverso un’analisi delle scienze o in parte anche attraverso un’analisi immediata delle opere. Il fatto è che con questo metodo è stato tolto alla filosofia un accesso immediato alla natura. L’ambiente immediato resta 185 incomprensibile. Sono questi, nelle loro istanze di globalità e immediatezza, i contorni entro cui si delinea il problema estesiologico così come Plessner invita a configurarlo e che, come si legge e come si è detto, mira al totale superamento delle dicotomie cartesiane a favore di un riafferramento della realtà secondo declinazioni onnicomprensive. In questa tematica si vedono confluire questioni etiche, estetiche e gnoseologiche secondo l’articolato tentativo dell’autore di elaborare un’analisi della realtà che sappia abbracciarne la complessità oltre che l’armonia in modo più efficace delle prospettive di idealismo e realismo. 184 185 Ivi, p. 13. H. Plessner, Autopresentazione inedita dell’”unità dei sensi”, in A. Ruco, op. cit., p. 61. 79 L’impostazione formalistica di matrice kantiana si rivela per Plessner incapace di esaurire la ricchezza di contenuti con cui noi esperiamo il mondo. Da questa constatazione l’autore trae uno dei motivi che lo spingono al superamento di tale impostazione in favore di una visione della sensibilità che sleghi i caratteri di oggettività dal loro esclusivo rapporto con le esperienze scientifiche. Come prosegue il passo che abbiamo citato: Non basta basare una dottrina delle scienze dello spirito e della storia su una dottrina dell’intuizione e della percezione tagliata soltanto sulla scienza della natura. Una critica universale dell’intelletto e della ragione esige una critica dei sensi altrettanto universale.186 Tale critica dei sensi si traduce in una sorta di domanda-guida esplicitabile nei termini di “dove si trova il senso della sensibilità?”187 e che risponde a una duplice esigenza: da una parte restare fedeli alla ricchezza e pienezza dell’esperienza vitale del mondo, e dall’altro trovarne un fondamento legittimante, sistema delle condizioni che rendono valida quell’esperienza, non meramente soggettiva ma oggettiva, riconoscibile e coordinata. L’indagine plessneriana sui sensi, presentandosi come una estesiologia, e più precisamente come una estesiologia dello spirito,188 si discosta rapidamente dall’estetica come filosofia dell’arte per rivolgersi piuttosto in modo diretto alla grammatica del sensibile e del corporeo. “Il genitivo dello spirito in questo caso ha valore sia oggettivo sia soggettivo, rinvia al tentativo di legittimare un accordo reciproco – materiale o funzionale che sia – tra la sensibilità e l’insieme delle modalità di elaborazione di senso dello spirito, le prestazioni culturali oltre che della scienza, dell’arte e del linguaggio.”189 Come esplicita A. Ruco nel volume che abbiamo citato, nel sottolineare il rilievo che assume lo spirito nelle sue ricerche estetiche Plessner mette in luce il carattere critico-trascendentale della sua riflessione estetica e la conseguente presa di distanza dai 186 Ivi, p. 62. H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 76. 188 “Definiamo estesiologia quella disciplina, dottrina della percezione o della sensazione, tuttavia con l’aggiunta pienamente giustificata: dello spirito, ponendo l’accento sulla netta linea di separazione tra la nuova questione e la questione più chiaramente psicofisica che emergerà più avanti.” (Ivi, p. 32). 189 Cfr. A. Ruco, op. cit., p. 15. 187 80 metodi empirici della scienza della natura, le cui indagini quantitative non permettono di comprendere la natura qualitativa del problema dell’unità dei sensi.190 L’estesiologia dello spirito è allora, precisamente: La scienza dei modi di simbolizzazione dei contenuti spirituali e dei fondamenti di essi. Essa mostra, che a determinati conferimenti di senso [Sinngebungen] sono necessari determinati materiali e perché non altri sono possibili. Conseguentemente essa è la via data per l’interpretazione della molteplicità delle modalità sensibili. Da questo obiettivo discende, con altrettanta necessità, che a essa è concesso di trascegliere solo quei domini di valore a cui corrispondono connessioni pure di significazione e intuizione. Non l’intera pienezza della cultura, non tutte le produzioni di valore dell’uomo vengono indagate, ma solo le possibilità del suo comprendere e le materie a queste specifiche, nelle e con le quali il comprendere è connesso.191 Lo spirituale cui rimanda l’estesiologia plessneriana è allora l’insieme degli atti di conferimento di senso e nel momento in cui di esso si tenti di discutere la validità occorre che l’insieme di questi atti sia in rapporto necessario con ciò che viene investito del senso.192 Gli atti di un certo tipo, cioè, si possono relazionare esclusivamente con determinati contenuti sensibili. L’estesiologia plessneriana è allora quella forma di indagine che proprio a tale rapporto esclusivo si rivolge, studiando le condizioni materiali della produzione di senso. In questo senso quello che con Plessner si delinea come compito principale dell’indagine è il reperimento di un nesso che renda possibile legare, senza costringerla né distruggerla, la varietà dell’esperienza; di un elemento unificante che sia al tempo stesso a priori, ossia non meramente empirico, e tuttavia già sempre ricco di contenuto. “Contenuto e principio d’unità dovranno stare in un rapporto di connessione intrinseca, effettiva, concreta, non quindi in un rapporto di connessione formale, di vuota legalità.”193 190 Cfr. Ibidem. H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 278. 192 È stata notata la risonanza avvertibile in questo contesto della definizione di ‘simbolo’ offerta da Cassirer: “Abbiamo tentato di far rientrare in esso il complesso di quei fenomeni in cui si presenta in genere una qualsiasi ‘realizzazione significativa’ del sensibile, in cui un elemento sensibile, nella fattispecie del suo esistere e del suo esser-così, si presenta al tempo stesso come differenziazione e materializzazione, come manifestazione e incarnazione di un significato”. (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. 3, I, Nuova Italia, Firenze 1984, p. 124). 193 M. Russo, op. cit., p. 237. 191 81 Tutta la questione si radica sul nucleo teorico fondamentale della riflessione di Plessner, che è l’intento di tematizzare la differenza, la ricchezza di sfumature qualitative del mondo, salvaguardandone la singola molteplice e variegata ricchezza irriducibile alla generalità del concetto. È proprio in queste zone d’ombra, dove il rigore scientifico perde la sua presa in favore di un più elastico approccio indagativo, che si posiziona l’uomo, nella sua individualità che è vita vissuta prima che compresa. L’uomo è il luogo in cui la natura e lo spirito si incontrano, e vale la pena indagare i punti specifici di rottura e di vicinanza nei quali si trova l’afferramento reciproco delle strutture naturali e spirituali.194 Le molteplici forme in cui appare la materia seguono nell’essere umano variazioni e articolazioni, a loro volta conduttrici di senso, che è lo “spirituale”, con la propria inventiva e creatività, a produrre e rendere possibili. È per tale ragione che, considerata la varietà dei modi fondamentali di apparizione delle cose e considerato il loro essere indissolubilmente legati ai sensi corporei, Plessner arriva a parlare di unità di anima, o spirito, e corpo e con ciò della persona umana come “regno intermedio dell’indifferenza psicofisica”195. Quello che con queste considerazioni si mira a mettere in luce è quell’intima conformità, cui più volte Plessner ritorna, tra la nostra organizzazione sensibile con le forme e i modi possibili della significazione, quindi su quel nesso inscindibile tra fisico e simbolico. “Nell’articolazione del mondo intuitivo, nello strano fatto della sua differenziazione sensibile, è custodita una legge di senso, se così non è, se conformità non c’è, se nesso necessario non c’è, allora veramente le differenze qualitative sensibili hanno, come volevano Kant e i kantiani, carattere meramente empirico e quindi valenza meramente soggettiva”196. Quelli che egli suggerisce di chiamare forme ideali e prodotti culturali non sono entità astratte surrettiziamente aggiunte a insignificanti sezioni di materia; al contrario, 194 H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 371. È da Scheler che il concetto di ‘indifferenza psicofisica’ giunge a Plessner. Con Scheler, infatti: “il processo vitale fisiologico e quello psichico sono dal punto di vista ontologico strettamente identici. Essi sono solo fenomenicamente diversi, ma anche fenomenicamente sono strettamente identici nelle leggi di struttura nella ritmica del loro decorso…” (M. Scheler, Die stellung der Menschen in Kosmos, cit. p. 196). 196 M. Russo, op. cit., p. 251. 195 82 essi esistono come forme sensibili e la possibilità di una loro integrazione sensibile è ciò di cui la ricerca estesiologia si propone di dar conto. Il fatto che il mondo appaia in modi acustici, tattili, visivi, olfattivi e che questi modi, per quanto intimamente interrelati secondo specifiche disposizioni sinestetiche del soggetto, siano qualità fenomenicamente irriducibili esige, per Plessner, la possibilità di legittimare un’unità positiva, non intermodale, dei sensi. Con essa, non si intende tuttavia delineare un’immagine del mondo parcellizzata, ridotta alla somma di qualità empiriche variegate. La prospettiva plessneriana tende piuttosto a prendere le distanze dalle ricerche empiriche della psicologia e della fisiologia, per indagare le qualità molteplici dell’esperienza sul piano filosofico. Nell’ambito scientifico, infatti, i contenuti della sensazione si trovano ridotti a quantità calcolabili oppure considerati in termini asettici e astratti come materia, dati sensibili o impressioni esterne. La domanda di Plessner muove proprio da questa forma di mancanza verso l’obiettivo di rendere conto dei “modi di apparizione di questo mondo”197. A tali modi di apparizione di questo mondo egli guarda sempre alla luce della costituzione di quel soggetto che tale mondo esperisce. Di tale soggetto, umano naturalmente, si interpreta come elemento costitutivo l’intreccio tra corporeo e spirituale indicando pertanto la possibilità di una riflessione filosofica che integri in qualche modo il modello delle scienze, superandole tuttavia nel far reagire le strutture basilari della natura umana di cui esse si occupano con la molteplicità storica e culturale che tale natura completa e complica. La questione dell’unità dei sensi si prospetta quindi nei termini dell’unità delle molteplici modalità che ogni cosa implica per manifestarsi. Da questo presupposto si può comprendere un’altra caratteristica fondamentale che tale indagine ha per il suo autore: l’elaborazione di una estesiologia dello spirito è per Plessner condizione di possibilità per l’elaborazione di una ontologia della conoscenza. 197 H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p 23. Vedremo come questo sfondo sia condiviso dalla ricerca fenomenologica dufrenniana, che condivide il senso dell’osservazione merleau-pontiana: “Il pensiero oggettivo ignora il soggetto della percezione. Esso si dà infatti il mondo bell’e fatto, come contesto di ogni evento possibile e tratta la percezione come uno di questi eventi.” (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 284). 83 Di più, la sua antropologia filosofica stessa, che segue le istanze estesiologiche, si presenta come continuamento teorico delle prospettive dischiuse con l’estesiologia, e questo nonostante le molteplici diversità. All’antropologia filosofica spetterebbe dunque il compito di rappresentare un approfondimento teorico e metodico rispetto agli scenari dischiusi con l’estesiologia. Con quest’ultima, infatti, Plessner propone un metodo per affrontare i problemi che dalla filosofia della cultura, regressivamente, giunge fino a una forma di biologia filosofica. Il carattere presentato inizialmente dalle ricerche estesiologiche è quello comune alla secolare riflessione teoretico-conoscitiva del valore oggettuale dei sensi e della loro molteplicità. Il percorso plessneriano, però, conduce a un passaggio dell’attenzione con il problema dell’oggettualità spostato in secondo piano in favore di ciò che per Plessner, concerne effettivamente la molteplicità dei sensi: la differenziazione delle loro modalità. Con tale spostamento si chiarisce che la teoria delle modalità costruisce per la questione dell’oggettualità “esattamente il fondamento della sua soluzione”.198 Oltre che su Kant, Plessner ha lavorato a lungo su Husserl, sul problema della forma sistematica in filosofia e sul problema filosofico metodologico dell’accesso ai fenomeni, perseguendo l’obiettivo di coniugare i due ambiti.199 In tutto il suo percorso non si perde mai la consapevolezza della difficoltà di dover rispondere antropologicamente a problemi teoretici e questo per la natura stessa dell’antropologia, costitutivamente in bilico tra riflessione e osservazione, rigore teorico e elasticità interpretativa, principi “astratti” e concretezza. Il metodo husserliano della descrizione, interpretato nella sua inesausta fiducia naturale nei confronti del mondo delle cose, resta 198 H. Plessner, Die Eineheit…, cit. p. 294. L’interrogazione del criticismo Kantiano avviene costantemente all’ombra di un filtro fenomenologico, nel tentativo di legittimare il carattere costruttivo e spontaneo di un principio incondizionato del filosofare. La sua esigenza di approfondire la filosofia critica di Kant matura, infatti, tra il 1914 e il 19196 durante gli anni di studio dottorale a Gottingen, dove egli concorda con Husserl un progetto di ricerca sul pensiero scientifico di Fiche in rapporto alla problematica dell’Io e della coscienza intenzionale nella fenomenologia (il primo volume delle Idee era stato pubblicato l’anno prima). Presto però Plessner si accorge che una tale ricerca non può prescindere da un attento studio della filosofia kantiana. Per tale ragione, quando Husserl nel 1916 viene chiamato a Friburgo, Plessner anziché seguirlo decide di concludere il suo progetto di dottorato a Erlangen con il neokantiano Paul Hansel. 199 84 alla base di tutta la ricerca plessneriana e del suo sforzo di elaborare un sistema critico aperto. Per inciso, è interessante a questo proposito ricordare, e probabilmente Plessner lo sapeva sebbene non vi faccia cenno, che anche Husserl, nel corso della sua ‘somatologia’, parla di unità ‘fisico-estesiologica’, di uno ‘strato estesiologico’ inteso come il campo o sistema di sensazioni specifiche del corpo proprio psicofisico che sempre inerisce, condizionandola, a qualunque sensazione fisica.200 Le due direttrici, kantiana e husserliana, rappresentano dunque, come dicevamo, i cardini basilari che consentono di comprendere il sistema antropologico plessneriano “all’interno del quale l’istanza di matrice kantiana, risalire a ciò che rende possibile l’esperienza, si arricchisce e dilata grazie al metodo fenomenologico dell’intuizione di essenza capace di promuovere il ritorno alle cose stesse.”201 Queste prospettive vengono interpretate e utilizzate all’ombra di quel bisogno di concretezza che l’autore costantemente sottolinea202 e con il quale, comprensibilmente, stride però spesso l’aspirazione al rigore sistematico che ugualmente lo anima. La dicotomia resta pertanto viva e dichiarata lungo la meditazione di una vita: la ricerca di idee e asserti filosofici di natura indiretta, ipotetica, riflessiva, che possano formare un tutto autoconsistente e però possano essere misurati, revisionati e sperimentati nell’esperienza diretta. Da un lato, dunque, c’è un’istanza sintetico-costruttiva, il cercare un principio unificante capace di autoverifica e autoapprensione nel corso della propria stessa attività 200 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Einaudi, Torino 1982, pp. 547-551. E in relazione a ciò si ricorda questo passo: “l’intuizione è caratterizzata da questo, che essa si riferisce a un oggetto in modo tale che in questo riferirsi l’oggetto steso si dà immediatamente. (…) I modi di un tale darsi di qualcosa sono i sensi, e ciascuno dà di volta in volta, in un determinato ambito, un molteplice, ciascuno ha un campo del proprio darsi. Ciascun senso, Kant non analizza ulteriormente ciò, ha un determinato campo; i colori non possono essere mai ascoltati, i suoni mai visti. (…) Ciò che in generale nell’ambito di un senso può darsi va analizzato innanzitutto secondo la sua struttura materiale. Tale analisi Kant stesso ha mancato di farla, e, finora, quasi l’intera filosofia; è un’analisi specificamente fenomenologica, fatta da Husserl per la prima volta nelle sue iniziali lezioni a Gottinga, un’analisi che lui stesso usava chiamare estesiologia dei sensi.” (M. Heidegger, Logic-Vorlesung 1925-26, cit. in M. Russo, op. cit., p. 231 n.). 201 M. Russo, op. cit., p. 206. 202 “Questo volevo io fin da studente a Heidelberg nel 1914: un principio della filosofia che non ci lasci nuotare contro al flusso sospingente costantemente in avanti della vita. Volevo un collegamento del romanticismo con Bergson – a quei tempi un’equiparazione della critica alla vita, pensare e natare, scrivania e frescura estiva in un sol colpo. Ora si mostra che il metodo della ascesa è certo la via che va al mare – il sole alle mie spalle…” Così in una lettera di Plessner all’amico Josef Konig nel dicembre del 1924 in cui l’autore allude alla consapevolezza di un afferramento diretto della realtà (in H. Plessner – J. Konig, Briefwechsel 1923-1933, cit. in M. Russo, op. cit., p. 207 n.). 85 unificante: se l’esperienza, spiegata in base a tela principio, risulta essere un complesso ordinato, un sistema coerente, allora il principio è valido e può effettivamente essere definito condizione dell’esperienza. Dall’altro c’è l’esigenza di ripristinare l’integrità dell’esperienza così come essa ordinariamente si presenta, spontaneamente viene fatta, in tutta la sua varietà e ricchezza. A questa esigenza Plessner trova risposta nell’analisi fenomenologica203, cui egli stesso dedica alcuni saggi espositivi.204 Dell’uso che egli intende fare di questa filosofia è lui stesso a dare indicazioni: Tutto quello che si capisce da sé, che è immediatamente comprensibile, perché noi lo viviamo ogni giorno nell’indisturbato andamento delle cose e nel linguaggio quotidiano, diventa in questo modo un tema espressivo. Ma lo può diventare solo se noi lo prendiamo da un punto di vista paradigmatico. Ciò che ci permette, per esempio, di chiamare accordo un accordo e di distinguerlo da una conversazione o da una promessa deve essere in qualche modo ancorato a una struttura oggettiva della cosa, ad uno specifico ‘qualcosa’ appunto di questa cosa, alla sua essenza e se ciò riabilita l’osservazione ingenua, prescientifica (…) è perché il fenomenologo segue sempre il principio del rispetto della intenzionalità delle cose che di volta in volta gli si presentano, rispetto cioè del 205 ‘senso dell’atto’ (Aktsinn) di cui ogni volta prendiamo coscienza. Come è stato scritto206, l’enorme potenziale liberatorio della fenomenologia, smantellati teoremi speculativi, posizioni scientifiche, ‘ismi’ di ogni genere, stava appunto nella possibilità di riacquisire alla filosofia, sotto il titolo di ‘fenomeni’, l’infinito campo dell’esperienza, “andando da una melodia a una cifra, da un ricordo a un affetto, da un calcolo a un’allucinazione, senza imbrigliarli in un sistema definitivo”207. In essa “l’epoca dell’esperienza aperta sembra avere veramente trovato la sua filosofia: filosofia come scienza tra le scienze, come lavoro in un orizzonte 203 Plessner racconta un episodio personale, cit. in M. Russo (Op. cit., p. 209) illustrativo del proprio bisogno di concretezza. Tra il 1914 e il ’15 egli lavora sul rapporto tra coscienza fichtiana e coscienza husserliana, ponendo continuamente domande su ciò a Husserl, di cui seguiva i seminari. Una volta di ritorno da uno di questi seminari, davanti al cancello di casa di Husserl, questi “manifestò il suo profondo malumore: ‘tutto l’idealismo tedesco mi è sempre stato allergico. Per tutta la mia vita – e qui impugnò il suo snello bastone da passeggio dall’impugnatura d’argento e lo puntò contro il montante del cancello – non ho fatto altro che cercare la realtà.’ In una maniera insuperabilmente plastica il bastone rappresenta l’atto intenzionale e il montante la sua realizzazione.” 204 Cfr. Phanomenologie. Das werk Edmund Husserls (1938); Bei Husserl in Gottingen (1959); Husserl in Gottingen (1959). 205 H. Plessner, Al di qua dell’utopia, cit., pp. 107-112. 206 M. Russo, op.cit., p. 210. 207 Ibidem. 86 aperto”208, ed invero la fenomenologia è “una filosofia sul terreno dell’esperienza, una filosofia come esperienza che, più ampiamente che la Ratio opposta all’empiria, abbraccia a posteriori e a priori”209. Altrettanto che l’ermeneutica, la fenomenologia rivela la propria utilità nel condurre al superamento del dualismo tra scienza e teoria della conoscenza ossia della opposta sopravalutazione di uno di quegli aspetti del reale che o si lasciano raggiungere con procedimento empirico (a posteriori) o mediante elaborazione teorica (a priori). Il problema fondamentale, per Plessner e nel quadro più completo degli obiettivi dell’antropologia filosofica, è invece quello di tenere insieme entrambi.210 La questione adombra l’ulteriore dicotomia entro cui la meditazione plessneriana si è coerentemente e costantemente assestata: la dicotomia tra ontologico ed empirico. È proprio a metà tra questi ambiti, in una sorta di regione intermedia, vista anche come soglia e ponte di passaggio tra entrambi, che Plessner – e l’antropologia 208 H. Plessner, Al di qua dell’utopia, cit. p. 109. H. Plessner, Phanomenologie…, cit. p. 142. 210 È fondamentale, a proposito di questi temi, il riferimento costante da parte di Plessner alla filosofia della vita di Dilthey nella quale egli trova uno strumento utile al superamento di quello che egli vede come limite della fenomenologia, ossia l’idealismo coscienzialistico. Di Dilthey, Plessner apprezza in particolare la considerazione dell’uomo e della realtà come concretamente appaiono, ossia nelle loro determinazioni storiche, così come si depositano e si stratificano nella cultura. In Dilthey tutto viene riportato all’immanenza – processo della storia – rendendo impossibile un esame del reale che non si estenda alla ‘connessione dinamica’ di concetti, valori, norme, linguaggio, arte, conoscenza, insomma a tutto l’insieme di ciò che viene denominato cultura o ‘prodotto spirituale’. Alla coscienza soggettiva trascendentale subentra la totalità vitale, la vita quale intreccio di forze che dalle sfere più elementari della sensazione e del vissuto urge verso l’oggettivazione, spinge ad agire, creare, esprimersi. Se già per il fenomenologo l’intuizione non è quella astratta e formale delle scienze, bensì quella ‘piena’ del vissuto coscienziale, per l’ermeneuta l’intuizione si articola sempre necessariamente all’interno di una grammatica culturale, storicamente mobile e mutevole. Come si esprime lo stesso Plessner: “La vita nel senso di Dilthey è l’esperienza storica stessa, essa dischiude espressivamente la propria piena profondità alla comprensione che l’investe. Nel medium della loro propria storia, agendo e patendo, soggetto e oggetto sono reciprocamente apparentati e trasparenti l’uno per l’altro nella comunicazione e nell comprensione (…). Questo è il senso della parola ‘vita’ usato terminologicamente da Ditlhey; essa trae da sé stessa il suo significato, assieme alle categorie ermeneutiche che le appartengono, consegnandoli alla comprensione pensante; essa, nella linea della sua realtà effettiva divenuta storia, forma le sue stesse condizioni di possibilità. Mai ci si riconduce ad una zona di valori puri o di verità eterne oltre – o sovrasotriche. L’eterno nel contenuto delle prestazioni umane non perde la sua pretesa nei confronti della vita, ma certo perde la sua distanza ontologica da essa. Le categorie della vita sono pertanto grandezze storicamente divenute, che hanno potere di formare la storia. La filosofia si trova qui in uno scambio con l’esperienza del tutto nuovo: non più in una fissa distanza dalla conoscenza probabilistica di essa, o rinunciando a sé in favore di questa, e neanche come trasformazione ed esternazione dell’esperienza nel senso hegeliano, mainserita nel circolo con essa e nello scambio medesimo; una teoria essa stessa non conchiusa di un passato storico non conchiuso. La relazione tra apriori e aposteriori in questo senso è innanzitutto il fondamento per le connessioni su cui poggiano i giudizi di storia spirituale dei filologi, dei giuristi, degli economisti e degli storici.” (H. Plessner, Lebenphilosophie und Phanomenologie (1949), cit. in M. Russo, op. cit., p. 212.) L’analisi dell’opera di Plessner in relazione allo storicismo è condotta in modo ampio e particolareggiato nel libro di S. Giammusso, Potere e comprendere…, cit. 209 87 filosofica in generale – dischiude, che si colloca l’indagine incessantemente rilanciata. Di questa regione, faticosamente si cerca la descrizione, in un’indagine certo in linea sotto alcuni aspetti con la fenomenologia: quello che resta da comprendere, la questione fondamentale sempre di nuovo riproposta211 è dunque se a tale regione si possa pensare come un luogo epistemico, di fondazione o esplicazione dei fenomeni secondo leggi, ordini, relazioni, o non piuttosto il luogo in cui ogni fondazione, struttura, diviene problematica. La terza ipotesi, infine, è quella che ne vede i caratteri tanto di fondazione quanto di problematicità: la stabilità dell’episteme e la discontinuità che il domandare stesso produce e alimenta. 1.5 M. Merleau-Ponty, da H. Plessner verso Dufrenne Il riferimento all’a priori kantiano è quell’elemento all’ombra del quale si raccolgono, prima di diramarsi in differenti direzioni, le riflessioni tanto di Plessner quanto di Dufrenne, e prima di lui Merleau-Ponty. Di quest’ultimo si può tenere fermo un passo presente nella Fenomenologia della percezione, che esplicita la posizione dell’autore nei confronti di Kant e nella quale si riflettono eco significative di quanto esposto con Plessner e di quanto seguirà con Dufrenne: Kant ha già dimostrato che l’a priori non è conoscibile prima dell’esperienza, cioè fuori del nostro orizzonte di fattività, e che è assurdo distinguere due elementi reali della conoscenza, uno dei quali sarebbe a priori e l’altro a posteriori. Nella sua filosofia l’a priori conserva il carattere di ciò che deve essere, in contrapposizione a ciò che esiste di fatto e come determinazione antropologica, solo nella misura in cui egli non ha seguito fino in fondo il suo programma, che si proponeva di definire le nostre facoltà conoscitive mediante la nostra condizione di fatto e che doveva obbligarlo a ricollocare ogni essere concepibile sullo sfondo di questo mondo. A partire dal momento in cui l’esperienza – cioè l’apertura al nostro mondo di fatto – è riconosciuta come il comnciamento della conoscenza, non c’è più modo di distinguere un piano della verità a priori e un piano delle verità di fatto, ciò che il mondo dev’essere e ciò 211 E messa puntualmente a fuoco da V. Vitello nella presentazione al volume di M. Russo (op. cit. pp. 919). 88 che esso effettivamente è. L’unità dei sensi, che passava per verità a priori, non è più se non l’espressione formale di una contingenza fondamentale: il fatto che siamo al mondo; - la diversità dei sensi, che era considerata come data a posteriori, anche nella forma concreta che essa assume in un soggetto umano, appare necessaria a questo mondo, cioè al solo mondo che possiamo pensare in modo conseguente: diviene dunque una verità a priori. La meditazione merleaupontiana, in particolare nelle prime opere, è costellata di passi in cui riecheggia in modo esplicito la riflessione di Plessner. Se anche non si può certo parlare di filiazione diretta, è però possibile ravvisare se non altro alcuni passaggi considerabili come trait d’union teorico e simbolico tra i due autori cui ci rivolgiamo, considerando la grande influenza avuta da Merleau-Ponty sul pensiero di Dufrenne. Uno degli esempi più lampanti si trova ancora nella Fenomenologia della percezione: La sensazione, così come ce la offre l’esperienza, non è più una materia indifferente e un momento astratto, ma è una delle nostre superfici di contatto con l’essere, una struttura di coscienza: anziché avere uno spazio unico, condizione universale di tutte le qualità, con ciascuna di esse abbiamo una maniera particolare di inerire allo spazio e, in un certo qual senso, di fare dello spazio. Non è né contraddittorio né impossibile che ogni senso costituisca un piccolo mondo all’interno di quello grande; anzi, è in ragione della sua 212 particolarità che ogni senso è necessario al tutto e sbocca in esso. Come si vede, è in questa linea di pensiero che le considerazione di Plessner trovano nel pensatore francese una sorta di commento virtuale. Ancora, quella della differenziazione e delle proprietà specifiche dei sensi, con tutte le implicazioni nei riguardi di una teoria della conoscenza nonché di un’ontologia, che fanno sensibilmente parte del problema estesiologico plessneriano, sono punti essenziali nello sviluppo della filosofia merleaupontiana prima e dufrenniana, poi. Come si legge di nuovo ne La fenomenologia della percezione: 212 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 300. 89 I sensi sono distinti l’uno dall’altro e distinti dall’intellezione, in quanto ciascuno di essi porta con sé una struttua d’essere che non è esattamente trasferibile. Possiamo riconoscerlo perché abbiamo respinto il formalismo della coscienza e fatto del corpo il soggetto della percezione. E possiamo riconoscerlo senza compromettere l’unità dei sensi. Infatti, i sensi comunicano. (…) L’esperienza sensoriale è instabile ed è estranea alla percezione naturale, la quale si effettua con il nostro corpo tutto insieme e sbocca in un mondo 213 intersensoriale. Un comune atteggiamento nei confronti delle certezze frammentate della scienza, così come lo abbiamo visto sviluppato da Plessner, fa parte dei binari su cui si sviluppa la fenomenologia dell’autore francese. La percezione sinestesica è la regola e se non ce ne accorgiamo, è perché il sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo disimparato a vedere, a udire e, in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione corporea e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò ce dobbiamo vedere, udire e sentire. (…) I sensi comunicano tra di essi aprendosi alla struttura della cosa. (…) Pertanto, considerati come qualità incomparabili, i “dati dei diversi sensi” dipendono da altrettanti mondi separati, dal momento che ciascuno di essi è, nella sua essenza particolare, una maniera di modulare la cosa: ciò non toglie 214 che comunichino tutti in virtù del loro nucleo significativo. Lo scopo, in questo caso, resta quello di precisare natura e confini del significato sensibile al fine di ricusare ulteriormente l’analisi intellettualistica che l’autore vuole invece sempre respingere. L’unità dei sensi non appartiene al medesimo ordine dell’unità degli oggetti di scienza. Ugualmente, l’effetto della nostra percezione di riunire in un unico mondo le nostre esperienze sensoriali non avviene secondo il medesimo schema secondo cui la scienza collega oggetti e fenomeni. Non si tratta, cioè, di una sorta di schema rappresentativo di oggetti in sequenza spazio temporale, bensì di coglimento di qualcosa in unità e secondo uno schema presentativo. Torneremo più avanti su queste distinzioni che vedremo ripresentarsi con Dufrenne, che di fatti da Merleau-Ponty le deriva, in modo significativo. 213 214 Ivi, p. 303-304. Ivi, p. 308-309. 90 Appartiene sempre a Merleau-Ponty quell’orizzonte che, con una comunanza di tesi talora perfetta con Plessner, l’autore francese dischiude nel suo volume del 1942 La struttura del comportamento.215 All’interno di quest’opera sono numerosi i riferimenti a letture comuni, in particolare a F. Buytendijk in collaborazione con il quale Plessner stesso pubblicò un lavoro.216 All’interno de La struttura del comportamento MerleauPonty si propone di discutere, basandosi principalmente sulla psicologia della forma, le teorie sul comportamento delle principali scuole di psicologia, con particolare riguardo per la psicologia della Gestalt e il behaviorismo. Differentemente dalla psicologia della Gestalt, tuttavia, egli intende tematizzare tutti i diversi livelli, e le differenze che tra loro intercorrono, in cui il comportamento si manifesta. Quest’ultimo, infatti, occupa una sorta di regione intermedia tra fisico e psichico: La struttura del comportamento quale si offre all’esperienza percettiva non è né cosa né coscienza, ed è questo che la rende opaca all’intelligenza. (…) Il comportamento è quindi fatto di relazioni, non è un involucro di coscienza pura, 217 e come testimone di un comportamento io non sono una coscienza pura. Ciò significa comprendere il comportamento come la sola possibilità di afferrare il corpo proprio e quello altrui nella sua specificità: cioè senza confonderlo col corpo oggettivamente considerato della scienza fisiologica, riconoscendone la valenza oggettuale e soggettiva allo stesso tempo. Ogni corpo sfugge ad ogni considerazione che investirebbe un oggetto statico, presentandosi come il centro di prospettive e di comportamenti verso il mondo che solo lui è.218 Non si può, in altre parole, ricondurre il corpo in quanto tale alla cosa semplicemente percepita nel mondo, nella misura in cui i suoi movimenti saranno sempre dei comportamenti: mai riferibili a un corpo estraneo quale oggetto tra gli oggetti. I gesti del corpo, infatti, non sono coscienza astratta, ma modi reali di stare al mondo e di esistere. 215 M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, PUF, Paris 1942, 3° ed. 2006. Die physiologische Erklarung das Verhaltens (1935). 217 M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 208-209. 218 È stato notato (M. Pangallo, op. cit., p. 80), e indicato quale punto debole, come così dicendo MerleauPonty assegni il medesimo statuto fenomenologico al comportamento vissuto in prima persona come a quello osservato in altri. Se da un lato, infatti, una certa sinonimia tra i due è innegabile, dall’altro risulta fenomenologicamente poco condivisibile l’atto di porli sullo stesso piano. 216 91 Di più, contrariamente a quanto accade per gli animali, i comportamenti dell’uomo sono essi stessi portatori e generatori di significati tanto reali quanto simbolici: Con le forme simboliche, compare una condotta che esprime lo stimolo per se stesso, che si apre alla verità e al valore proprio delle cose, che tende all’adeguazione del significante e del significato, dell’intenzione e di ciò che essa mira. A questo punto il comportamento non ha più solamente un 219 significato ma è egli stesso un significato. Interno ed esterno giocano un ruolo pressoché paritario e comunque mai del tutto distinguibile nell’influenzare un comportamento; entrambi si articolano in modo variabile e ogni volta influente nel suo complesso e per la sua complessità. I rapporti tra l’individuo e il suo ambiente seguono costantemente un andamento dialettico, per la descrizione del quale la nozione di ‘forma’ mantiene la propria efficacia: “La forma è una configurazione visiva, sonora o addirittura anteriore alla distinzione dei sensi, nella quale il valore sensoriale di ogni elemento è determinato in base alla sua funzione nell’insieme e varia con questa funzione.”220 Di più, i differenti livelli su cui si assesta il comportamento dell’individuo umano si spiegano secondo un duplice andamento che segue il corpo e l’anima, nel cui regno intermedio trova posto l’elemento spirituale. Con quest’ultimo, inoltre, si inserisce nel discorso anche quell’apertura all’agire morale che abbiamo visto dischiudersi con Kant, essere perseguito con fermezza da Plessner e nel quale vedremo sboccare il percorso di Dufrenne. Leggiamo: Qui si vuole uguagliare la coscienza all’intera esperienza, raccogliere nella coscienza per sé tutta la vita della coscienza in sé. Una filosofia di ispirazione criticista fonda la morale sulla riflessione che ritrova dietro tutti gli oggetti, il soggetto pensante nella sua libertà. Se al contrario riconosciamo, sia pure a titolo di fenomeno, una esistenza della coscienza e delle sue strutture resistenti, la nostra conoscenza dipende da ciò che noi siamo, la morale comincia con una critica psicologica e sociologica di se stessa, all’uomo non si assicura dall’inizio di avere una fonte di moralità, la coscienza di sé non gli appartiene di diritto, e non si acquisisce che attraverso l’elucidazione del suo essere concreto, non si 219 220 M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 133. Ivi, p. 212. 92 verifica che attraverso l’integrazione attiva delle dialettiche isolate -corpo e 221 anima-, tra le quali egli è inzialmente dislocato. Una descrizione dell’uomo non può quindi avvenire nei termini di un essere animale dotato di ragione, anche gli istinti rientrano nella dialettica spirituale, così come questa è inconcepibile al di fuori delle situazioni concrete in cui si incarna. Materia, vita e spirito non vanno a formare ordini distinti di realtà, indipendenti e ciechi, ma rappresentano tre piani di significazione, tre forme di unità che tra loro interagiscono e si legano “secondo una dialettica particolare”.222 Infine indistinguibili, se non nei termini di differenti gradi di integrazione,223 si esibiscono in unità in quella forma di fenomeno che è il comportamento umano. È in questa visione che si invera, in una direzione che lo stesso Plessner a più riprese aveva percorso, l’annichilimento di tutti i dualismi sterili e scientifici che oppongono anima e corpo. I rapporti tra essi, infatti, nella lezione merleaupontiana, restano oscuri solo fintanto che si cerchi di trattare astrattamente il corpo come frammento di materia trascurandone i poteri dialettici. Infatti: Il soggetto vive in un universo di esperienza, in un ambiente neutro rispetto a distinzioni sostanziali tra l’organismo, il pensiero e l’estensione; in un commercio diretto con gli esseri, le cose ed il suo proprio corpo. L’ego come centro dal quale irradiano le sue intenzioni, il corpo che le sostiene e le cose cui si rivolgono, non sono confusi tra loro: sono soltanto tre settori di un unico 224 campo. Si trovano numerosi rimandi virtuali ai problemi estesiologici, grazie ai quali è possibile afferrare svariate suggestioni teoriche. Come per Plessner, per Merleau-Ponty l’esperienza di una cosa reale non può essere spiegata con l’azione di questa sulla mia mente. Se è il senso delle cose ciò che 221 Ivi, p. 240. Ivi, p. 217. 223 Ibidem. 224 Ivi, p. 205. 222 93 infine giunge alla coscienza umana, esso giunge però solo in virtù delle esperienze percettive e ancora in virtù di queste ultime esso è in grado di trascenderle. Il comportamento diventa pertanto il luogo in cui la profonda solidarietà che lega corpo e anima si manifesta e rende intelligibile. La soluzione merleaupontiana va poi oltre e si manifesta in una specifica visione della coscienza, letta esplicitamente nei termini di coscienza percettiva. Infatti, come si legge nella Fenomenologia della percezione: “Per quanto concerne la coscienza, dobbiamo concepirla non più come una coscienza costituente e come un puro essereper-sé, ma come una coscienza percettiva, come il soggetto di un comportamento, come essere al mondo o esistenza.”225 Prima di passare alla trattazione diretta di Dufrenne, che è quanto ci sta maggiormente a cuore, possiamo concludere questa breve diversione merleau-pontiana riassumendo i motivi che ci hanno condotto ad aprirla e, con essi, i punti che questi primi due capitoli ci hanno permesso di mettere a fuoco. Quello dell’inquadramento, della comprensione e della descrizione dei rapporti tra gli aspetti corporei dell’uomo e gli aspetti spirituali che lo caratterizzano è un problema complesso che, come abbiamo visto, caratterizza la riflessione sul fenomeno umano tanto nei termini antropologici quanto nei termini filosofici e fenomenologici in particolare. L’affinità di temi tra questi autori e questi ambiti di ricerca è l’altro lato dell’importanza filosofica che lo sviluppo di questo tipo di questioni, che come abbiamo visto a loro volta affondavano in molteplici e stratificate esperienze scientifiche, filosofiche e culturali precedenti, ha assunto nel corso del secolo scorso. Le iniziali digressioni di carattere storico sono quindi servite per molteplici ragioni. Quelle relative a Dufrenne hanno permesso di mettere a fuoco la provenienza della sua meditazione e di sottolinearne la pregnanza nel quadro delle questioni che da oltre un secolo animavano l’estetica francese e che, come si vede nella seconda parte del primo capitolo, non sono estranee allo sfondo teorico dell’antropologia filosofica di area tedesca. 225 Mereleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 456. 94 Quelle relative all’antropologia filosofica, necessarie ad introdurre una disciplina tanto complessa e in Italia non a tutti nota, hanno risposto a un duplice obiettivo: innanzitutto mettere in luce il momento storico in cui questo tipo di problemi si è fatto strada e radicato in modo ineludibile nell’orizzonte dei pensatori. Momento in cui la differenziazione dei saperi e la loro specializzazione ha portato in primo piano la frammentazione dell’umano e richiesto un suo nuovo e più completo riafferramento. In secondo luogo, è stato possibile esplicitare il medesimo humus da cui hanno preso vita quelle due declinazioni tanto distanti, eppure sotto molteplici aspetti tanto affini, dell’interrogazione dell’umano rappresentate dall’estetica e dall’antropologia filosofica. Con Plessner, e grazie all’apertura fornita dai riferimenti kantiani, abbiamo visto come la sensibilità sia stata vissuta e analizzata secondo problematiche angolazioni al fine di esplicitare la possibilità di, tramite essa, afferrare sensi che i sensi veri e propri non sono in grado, fisicamente, di esaurire. Il problema della sinestesia, dell’unità dei sensi e delle loro interazioni diventa allora il problema della possibilità, che tramite essi ci è offerta, di afferrare qualcosa (un insieme, un significato) che da essi permette di esulare. Se è possibile individuare in questo aspetto una delle caratteristiche fondamentali dell’umano, si spiega allora quella comunanza di direzioni che abbiamo cercato di esplicitare. Si spiega anche la necessità di un cenno a Merleau-Ponty, per il quale il non percepibile che è oltre e grazie a la nostra percezione è stato oggetto delle ricerche di una vita, dal momento che è a partire dal suo pensiero che ci si può avvicinare a quello di Dufrenne. Di quest’ultimo indagheremo in particolare il concetto di sinestesia all’interno dell’indagine antropologica, così come esso è implicato dalla sua notion d’à priori. Cercheremo poi di farla agire nel contesto artistico, facendo perno sull’eredità teorica dell’autore, raccolta nell’ultima opera L’occhio e l’orecchio. Dovremmo poterne ricavare un quadro esauriente della concezione del soggetto da parte dell’autore arricchita dalle aperture offerte dalla proposta dufrenniana di pensare un quasi-soggetto che si incarna nelle opere d’arte. 95 CAPITOLO 2: L’OGGETTO ESTETICO, UN MONDO TRA PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE 2.1 La sensibilité généra(lisa)trice Il passaggio da un orizzonte specificamente antropologico ad uno dove la prospettiva antropologica si integra con una più strettamente fenomenologica richiede in prima istanza una notazione basilare: in questo ambito qualsiasi discorso che abbia per oggetto l’uomo si configura essenzialmente e in modo pressoché assoluto come un discorso sul corpo. È a questo che, sulla scia dell’eredità husserliana, tanto con Merleau-Ponty che con Dufrenne si guarda esplicitamente, nel costante tentativo di chiarirne le valenze sia antropologiche sia ontologiche e persino metafisiche. In questa linea, nella meditazione di Mikel Dufrenne confluiscono, reagendo l’uno sull’altro secondo nuove prospettive, tanto i lasciti merleaupontiani che quelli husserliani. In particolare, Dufrenne ha e tiene costantemente più che presente la figura che con Merleau-Ponty esplicita le relazioni che legano il soggetto, inteso sempre come soggetto percettivo, al mondo delle cose e degli altri soggetti: la carne, che va a svolgere la funzione dell’antico termine “elemento, nel senso in cui lo si impiegava per parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco”226. Concepita come “nozione ultima”, la carne è intesa “nel senso di una cosa generale, a mezza strada fra l’individuo spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere in qualsiasi luogo se ne trovi una particella”227. 226 227 Il visibile e l’invisibile, cit., p. 156. Ibidem. 96 Come ricorda Emmanuel de Saint Aubert228, la scelta del termine carne da parte di Merleau-Ponty pone al lettore l’inevitabile tentazione di ricondurre il concetto al Leib husserliano di Ideen II o della Quinta Meditazione Cartesiana229. Termine di difficile traduzione, il Leib designa in Husserl il corpo vivente, ma anche il corpo vissuto, quello legato a una soggettività. Distinto quindi dal corpo materiale fisico, che i tedeschi indicano col termine di Korper, che non si può considerare secondo questo duplice punto di vista, il Leib è in prima istanza il mio corpo, intimamente vissuto dall’interno, immediatamente avvertito come la mia soggettività, sensibile e senziente. Sotto questo punto di vista la carne di Merleau-Ponty potrebbe condividere alcuni aspetti con la nozione di Husserl, designando tanto il corpo vivente quanto quello vissuto o anche ciò che ne L’uomo e le avversità viene semplicemente chiamato il “corpo animato”230. Un esplicito accostamento della chair al Leib si trova in realtà solo in pochi brevi passaggi di alcune note personali non destinate alla pubblicazione, in cui i due concetti sono assimilati, come troviamo ad esempio nelle note di lavoro che seguono Il visibile e l’invisibile: “La carne, il Leib, non è una somma di toccarsi (di sensazioni tattili), ma nemmeno una somma di sensazioni tattili + delle ‘cinestesi’, è un ‘io posso’”231. Il Leib husserliano si presenta in effetti, diversamente dalla chair del filosofo francese, come una totalità metodicamente isolabile all’interno della relazione intenzionale, “resto di un’operazione astrattiva”232. Mai del tutto riducibile, descritta in termini dinamici, la carne merleau-pontiana è invece costantemente in circolo, sostanzialmente impura nel suo continuo rimescolamento negli altri e nel mondo. 228 E. de Saint Aubert, Du lien des etres aux éléments de l’etre. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951, Vrin, Paris 2004. 229 Una possibile corrispondenza della chair merleau-pontiana con il Leib di Husserl sembra esplicitamente considerata da M. Richir in Le sensibile dans le reve, in Merleau-Ponty, Notes de cours sur “L’origine de la géométrie de Husserl, suivi de Recherches sur la phénoménologie de Merleau-Ponty, Presses Universitaires de France, Paris 1998, pp. 239-254. 230 M. Merleau-Ponty, L’uomo e le avversità, in Segni, cit., pp. 294-317. 231 Note di lavoro, ne Il visibile e l’invisibile, cit. p. 267. Un’analisi dettagliata delle occorrenze del termine Leib nei testi di Merleau-Ponty si ha in E. de Saint Aubert, op. cit., in cui si sottolinea come l’uso del termine sia quasi del tutto riservato all’interno dei tre corsi su Husserl (1957, 1959 e 1960.) 232 P. Ricoeur, Edmund Husserl. La cinquiéme méditation cartésienne, in A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986. 97 La carne non rientra nella meditazione merleau-pontiana in un’ottica di ripensamento husserliano, bensì assume caratteri che la rendono un’originale novità233, inserita in un progetto decisamente personale. Nella chair del filosofo francese è tuttavia presente un ripensamento radicale e rigoroso di un concetto husserliano: il darsi in carne e ossa234. Al paragrafo 24 di Ideen I, Husserl enuncia il noto “principio di tutti i principi” della fenomenologia: ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne e ossa) è 235 da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà. In questo modo la verità è raccolta sotto l’evidenza dell’intuizione, come presenza incarnata di ciò che è percepito. Nell’intuizione, immaginativa o percettiva, l’oggetto non è rappresentato, ma letteralmente presentato, presente in carne e ossa236. Alla descrizione essenziale della percezione risulta estraneo ogni riferimento alla sensazione, con un allargamento del campo percettivo anche a qualcosa che è sostanzialmente assente237. Barbaras ritiene in modo condivisibile che senza dubbio questa prospettiva informi l’approccio al tema della percezione sviluppato da Merleau-Ponty, in particolare all’interno de Il visibile e l’invisibile, dove la fede percettiva può essere letta all’ombra della donazione in carne e ossa con una radicalizzazione della prospettiva husserliana. Secondo questa comune impostazione è possibile tematizzare la percezione sfuggendo alla dicotomia di sensibile e intelligibile: non è la sensazione che apre l’indagine sul 233 “Ed è noto che nella filosofia tradizionale non c’è nome per designare tutto ciò”. M. Merleau-Ponty, (Il visibile e l’invisibile, cit. p. 155.) 234 Il parallelismo riscontrabile tra i concetti dei due filosofi è tematizzato in particolare da R. Barbaras, in Le tournant de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Vrin, Paris, 1998, p. 82. 235 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a c. di E. Filippini, Giulio Einaudi Editore, Torino 1970, pp. 50-51. 236 “L’esperienza originalmente offerente è la percezione, nel senso usuale della parola” (Ivi, p. 15), “La visione empirica, in ispecie, l’esperienza, è coscienza di un oggetto individuale; […] in quanto è percezione, lo porta a datità originaria, ossia è consapevolezza di afferrare l’oggetto nell’originale, in carne ed ossa” (Ivi, p. 19.) 237 L’esempio più pregnante è senz’altro costituito da alcuni passaggi relativi al tema del ricordo primario, distinto dalla rimemorazione e assimilabile alla percezione. Il tema è complesso e certo non esauribile in questa sede dove si ritiene preferibile, per quanto non esauriente, un breve cenno funzionale alla comprensione dell’ottica di Merleau-Ponty. 98 rapporto percettivo, bensì questa modalità di emergenza del mondo denotata come darsi in carne. L’aspetto più originale e interessante è la descrizione di questo emergere del mondo in termini di iniziazione a un certo senso238 d’essere, se non proprio al senso dell’Essere, dei fenomeni stessi del mondo. Ciò significa riconoscere nell’originario mélange percettivo il germe di ogni riconoscimento di senso, che eccede ogni determinazione, più o meno implicita, dell’essere in termini di Oggetto puro e semplice. La presenza carnale è quel fondo a partire dal quale qualcosa come un oggetto può essere investito di senso; essa esplicita il fungere di una presenza originaria sulla cui base si può pensare e comprendere ogni articolazione e donazione di senso. La digressione su questo tema non è trascurabile, come vedremo, la carne merleaupontiana è sfondo teorico molto pregnante per tutto il percorso di Dufrenne. Ma tale inciso non è secondario soprattutto per l’esplicitazione di un’impostazione di pensiero che si può ritrovare con costanza anche in Mikel Dufrenne: l’interrogazione del rapporto originario col mondo e tra i soggetti è profonda e radicale, essendo la domanda che sola può portare in luce l’emergenza dell’essere e del suo senso per noi che equivale a esplicitare il nostro modo di frequentare il mondo. È possibile identificare in questo sfondo le forze che continuano ad esercitarsi nel cammino dufrenniano e, tenendole presente, prendere come punto di partenza, utile a mettere a fuoco direzioni e intenti del percorso, lo scritto che egli dedica alla Sensibilité 238 Si impone a questo proposito una precisazione terminologica: in Merleau-Ponty, che non entra a fondo nel valore logico e linguistico della distinzione tra senso e significato, questi due termini restano indistinti. Di fatto, come osserva J. Hyppolite (Figures de la pensée philosophique, PUF, Paris 1971), si può ravvisare una riduzione di ogni significato al senso. È comunque vero che l’assenza di un esplicita distinzione tra senso e significato non è casuale nelle opere di Merleau-Ponty. Tutte le sue analisi sono infatti in sintonia con una tesi che egli mutua da Sartre: “Il punto di vista di una coscienza pura è contradditorio: non vi è che il punto di vista della coscienza impegnata. Il che significa che la conoscenza e l’azione non sono che due facce astratte di una relazione originale e concreta”. (Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 384). Di fatto Merleau-Ponty assume una distinzione tra senso e significato, ma si mostra convinto che nessuno dei due possa presentarsi se non con-fuso all’altro. Un passo rende esplicita la reciproca implicazione; infatti, come si può leggere nella citazione che segue, il significato rappresenta il correlato della coscienza nella sua contemplazione disinteressata, mentre il senso rimanda al sapere della prassi in connivenza passionale con il reale: “ Noi non abbiamo altro modo di sapere ciò che è un quadro o una cosa se non guardarli, e il loro significato non si rivela che se noi li guardiamo da un certo punto di vista, da una certa distanza e in un certo senso, in una parola se noi mettiamo al servizio dello spettacolo la nostra connivenza col mondo.” (Fenomenologia…, cit., p. 548). Pertanto, non v’è “spettacolo” che non nasconda una “connivenza”, significato che non vesta un senso. 99 génératrice, del 1960.239 Qui, a partire da alcuni passi del Traité d’Esthétique di Raymond Bayer (1898-1959), uno dei protagonisti dell'estetica francese di ispirazione realistico-formale e cofondatore insieme a Lalo e Souriau della “Revue d'Esthétique” nel 1948, Dufrenne si interroga su “cette sensibilité qui semble revendiquer les fonctions de l’intelligence”240, protagonista dell’esperienza estetica. Quello che snoda in queste pagine è un percorso intorno ad alcuni dei temi rimasti sempre centrali nella sua filosofia, come la sensibilità e l’esperienza estetica in generale, esplicitati però secondo un’angolazione particolarmente pregnante che non sempre si ripresenta con la stessa sintetica decisione nei testi più importanti. Seguiamo allora l’esposizione dell’autore intorno a questo tema, al fine di mettere a punto alcune delle linee che saranno guida di quanto seguirà, indice dei suoi e nostri interessi, interrogativi e riferimenti teorici. Notazione di base e di partenza, forse banale ma non scontata -almeno non in quell’orizzonte teorico dove Dufrenne sceglie di collocarsi tra la fenomenologia husserliana e quella francese- è quella che ribadisce il ruolo primario della sensibilità all’interno dell’esperienza estetica.241 Ma è proprio questa sensibilità essenziale a rivelarsi immediatamente oggetto di una seria messa in questione, nelle sue commistioni con gli ambiti che tradizionalmente riguardano intelletto e jugement. Quello che preme al Dufrenne di queste pagine, in linea con le indagini filosofiche di una vita, è districare il melange percettivo che, in presenza di un oggetto estetico, mette in corto circuito essere e apparire, ragione e sentimento. C’est toujours au verdict de la sensibilité que nous nous en remettons, créateur pour juger que l’oeuvre est achevée, spectateur pour juger qu’elle est belle. Ainsi déjà la sensibilité semble exercer la fonction du jugement.242 Ma, continua Dufrenne, si tratta di un tipo di giudizio lontano da quello tradizionale, poiché in questo caso esso non si esercita sull’oggetto stesso, presentandosi 239 La sensibilité génératrice, “Revue d’Esthétique”, Paris 1960, XIII, 2 oggi in M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, Tome 1, Klincksieck, Paris 1988, pp. 62-71. 240 Ivi, p. 62. 241 “Que l’expérience esthétique concerne en premier la sensibilité, nul n’en doute”. (Ivi, p. 62.) 242 Ibidem 100 piuttosto come la promessa di un’attesa colmata in un’esperienza “felice”. Uno dei primi riferimenti nel chiarimento di questi temi è rappresentato da Husserl, in particolare dal suo concetto di riempimento così come Dufrenne lo legge e lo cita da Ideen II. Se ogni atto, nel suo essere donazione di senso, percezione di un oggetto, è ricerca e attesa e in maniera generale l’evidenza è il riempimento dell’intenzionalità da parte della presenza dell’oggetto, al livello della sensibilità questo riempimento può essere quantitativo o qualitativo; l’uno teso al riconoscimento della realtà di un oggetto l’altro all’afferramento della sua bellezza. Ma lo strumento husserliano non basta a Dufrenne per rendere conto di quella sensibilità che, nell’esperienza estetica, condivide e addirittura secondo lui rivendica, alcune caratteristiche dell’intelligenza. In questo, come dichiara egli stesso, l’autore è più in linea con certe meditazioni di Heidegger che riconoscono al sentire estetico l’allure del pensare. Allure che, evidentemente, richiede esplicitazione e comprensione filosofica dei “caractères pensifs” del sentire estetico, inteso come “sensibilité-sentiment”243. “Si ce sentiment nous situe en deçà de l’intelligence et de sa fonction judicatoire, par lui du moins nous sommes d’intelligence avec l’oeuvre; nous éprouvons l’oeuvre dans sa vérité.”244 E questa verità è per Dufrenne molto lontana dall’idea del vero per adeguazione. A questa nozione egli sostituisce piuttosto il concetto di svelamento (dévoilement), pregnante in un’ottica che dell’esperienza estetica voglia centrare la componente di “apparire” e mettere questa in stretta e diretta relazione con l’essere. È proprio in questa prospettiva, infatti, che Dufrenne costruisce il suo discorso e, all’interno stesso della direzione fortemente ontologica innesta e rivela un profondo interesse antropologico. Si legge precisamente in queste righe una delle affermazioni dove la sintesi di queste due direzioni si manifesta con maggior chiarezza, non a caso riguardo all’esperienza estetica. Prima di citarla e analizzarla leggiamo brevemente come egli vi giunga attraverso l’idea di svelamento sulla quale pare investire con determinazione: Le dévoilement n’est pas l’acte de l’Être, c’est la vocation d’un être, et c’est pourquoi cet être en appelle à ma sensibilité, comme déjà à la sensibilité du 243 244 Ivi, p. 63. Ibidem. 101 créateur pour qui chaque esquisse doit apparaître pour comparaître devant son jugement.245 Ne emergono alcune scelte lessicali e teoriche salienti. La prima è quella, in linea con l’apertura del saggio, dell’appello alla sensibilità; sottolineata e confermata in questo caso, però, nel suo carattere ontologico di appartenenza rispetto all’oggetto considerato. In secondo luogo, viene dichiarata e ribadita la dimensione intersoggettiva dell’esperienza estetica nell’accostare la sensibilità percipiente, diciamo del pubblico, a quella dell’autore di un’opera. Infine, con la sottile distinzione tra apparaître e comparaître, l’apparire di un’opera viene articolato tanto nel suo venire alla presenza, assumere esistenza dal nulla, quanto nel suo più semplice ripresentarsi alla vista e, ogni volta di nuovo, al giudizio. Diventa più importante e sottile il riferimento al rapporto percettivo in termini anche di apparire, proprio perché la nozione di svelamento chiama in causa una componente di innovazione e rinascita che nell’apparire stesso si manifesta. Quando questa percezione riguarda l’oggetto estetico, allora, il rimando non può più essere esclusivamente contenuto entro i limiti della presenza e dell’indiscutibile realtà. Al contrario, quella che Dufrenne delinea qui, è una caratterizzazione di considerevole importanza dell’oggetto estetico in chiave antropologica, poiché: “L’expérience esthétique n’est pas l’expérience de la présence, mais de la réalité d’un objet qui requiert pour être que je lui sois present”246. Al di fuori di questa presenza, che è termine pregnante nel percorso del filosofo tanto da diventare, come si vedrà, filo conduttore del suo ultimo scritto, l’oggetto estetico semplicemente non esiste. La sua realtà stessa viene messa in completa discussione e tutti i suoi possibili effetti annullati in un discorso vano.247 Il punto saliente che emerge in questo saggio riguarda quindi, da una parte, la caratterizzazione antropologica dell’oggetto estetico proprio in quanto 245 Ibidem. Ibidem. 247 La centralità di questa presenza percettiva non indebolisce, ma anzi corrobora, la necessità di indagare anche le specificità ontologiche che all’oggetto estetico appartengono. Tale ambito è tuttavia meglio affrontato nell’opera principale Phénoménologie de l’experience esthétique della quale ci occuperemo più avanti. 246 102 indissolubilmente legato a un momento di presenza al soggetto e, dall’altra, la lettura della percezione che ne rende possibile l’apparire -nel duplice senso di apparaitre e comparaitre- in termini di sensibilité généralisatrice. In essa Dufrenne mostra l’azione congiunta di un sentire che è già, esso stesso, più che percezione poiché: Ce qui est à l’oeuvre dans cette perception, ce qui aiguise la sensibilité esthétique, c’est l’imagination. Non point l’imagination emportée et délirante que la perception toujours réprime, mais l’imagination ordonnante et exaltante. “Un des caractères principaux de la sensibilité généralisatrice, c’est d’être une 248 sensibilité imaginative” écrit Bayer. Sul tipo di azione di questa immaginazione interna all’attività percettiva l’autore torna a più riprese nei suoi scritti successivi, mantenendo una coerenza che completa lungo il percorso quello che nel testo qui preso in esame è lasciato inespresso. L’immaginazione che agisce nella percezione degli oggetti estetici come la intende Dufrenne è già quella che si prepara a tornare anni dopo ne L’occhio e l’orecchio, è: Meno potere di associare che potere di aprirsi e di comunicare, di lasciare che il sentito riecheggi nel senziente. È importante, ribadiamolo, distinguere nettamente tra un immaginario che, procedendo dal soggetto, offusca la percezione fino ad annullarla nell’illusione, e un immaginario che dispiega e arricchisce il senso del percepito.249 Con l’apertura immaginativa, con lo scarto operato all’interno della realtà percepita dall’azione dell’immaginazione, l’oggetto estetico può essere colto nelle sue molteplici stratificazioni che chiamano in causa quell’approccio vasto e globale che si raccoglie sotto il segno della sinestesia. Ma il saggio che stiamo seguendo ora, vira in una direzione diversa. Non meno perspicua. Qui, nel momento in cui si interroga sull’apertura e la varietà insite nell’oggetto estetico e nella sua percezione, Dufrenne rintraccia il polo unificatore del processo nel concetto di espressione. È l’espressione il luogo in cui la dispersione immaginativa della sensibilità generalizzatrice si raccoglie sotto un segno unico e singolare che permette l’identificazione (che è al tempo stesso 248 249 M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 65. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 134. 103 creazione) dell’oggetto. Certo, e Dufrenne lo sa bene e lo riconosce poche righe dopo, chiamare in causa l’espressione implica una forma di sapere precedente, una mediazione o, con la forma che usa lui, il fatto che non si vada mai nel mondo a mani vuote; ma quello che conta, per lui e per noi, è il fatto che l’afferramento finale avviene in un sol colpo, poiché tutto ciò che accade nella percezione estetica riguarda l’antepredicativo e ci riporta sempre “à la spontaneité d’avant la connaissance”250, cioè all’immaginazione251. Grazie alla sensibilité généralisatrice si dischiude inoltre l’accesso a quella che Dufrenne, in linea con Husserl, indica come l’essenza dell’oggetto. Il carattere principale di tale essenza risulta quello di essere sensibile, incarnata e disponibile alla presentificazione. Tutto il senso dell’oggetto non dipende da una concettualizzazione di esso, al contrario, è un senso “totalement immanent au sensibile”. In questo modo, lontana da derive metafisiche, quella di Dufrenne si chiarisce esplicitamente come una posizione che riconosce la possibilità del dialogo tra momento percettivo e caratteristiche ontologiche come anche, in definitiva, tra antropologia e ontologia. A questa immaginazione, tuttavia, l’uomo è introdotto, nella teoria dufrenniana, nel più paradossale dei modi: non tramite aperture scomposte, che conducono al disordine di fantasmi e fantasie, bensì “par ce qu’il y a d’intelligent dans la sensibilité estéthique”.252 Lo sbocco immaginativo, quindi, si configura come elemento d’ordine e di rigore, benché libero; elemento comunicativo e, benché intellettuale, sempre sensibile. Di più, “dans le sujet l’imagination est d’abord le pouvoir d’unifier le sensibile”. 253 Su questo punto Dufrenne è esplicito nel marcare la propria diversità da Kant: l’unità del sensibile non rimanda per lui al concetto, come per il maestro tedesco, 250 M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 66. Questo snodo teorico non sembra rappresentare un caposaldo privo di indecisioni nel percorso di Dufrenne. In un testo di qualche anno precedente la preoccupazione dell’autore sembrava più quella di affrancare la percezione estetica da qualsiasi altra influenza per riconoscerle piuttosto una forma di primato. “La perception esthétique, en effet, est la perception royale, celle qui ne veut être que perception, sans se laisser seduire ni par l’imagination qui invite à vagabonder autour de l’objet présent, ni par l’entendement qui invite à le redire, pour le maitriser, à des déterminations conceptuelles” (M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, “Revue philosophique”, 1-3, PUF, Paris 1954 oggi in M Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome 1, p. 55.) Già in queste pagine, tuttavia, l’autore adombrava la necessità di dare ragione della componente concettuale che abita la percezione sensibile che lo condurrà quindi, in seguito, allo sviluppo dell’idea qui presa in esame di sensibilité génératrice. 252 M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 66. 253 Ibidem. 251 104 ma sempre e solo al sentimento sensibile. Rimanda alla presenza del mondo che, seppur in modi ineffabili, si rivela sempre e innanzitutto al sentimento. Car il faut aussitôt ajouter que l’imagination, en même temps qu’elle unifie, illimite l’objet, le dilate aux dimensions d’un monde: elle n’ajoute pas de l’imaginaire au réel, mais elle grandit le réel jusqu’à l’imaginaire, un imaginaire qui est ancore le réel et qui achève de l’unifier au lieu de le disperser. Questa osservazione conduce a una conclusione ulteriore, che dall’oggetto si sposta sul soggetto, poiché l’unità del primo non è consacrata se non nell’unificazione anche del secondo che, tutto intero, si fa presente all’oggetto. Elevando, in una forma di progressione che è anche in un certo modo sovrapposizione e equivalenza, la sensibilità al sentimento. In tal modo, è proprio grazie all’azione dell’immaginazione, nei termini in cui la descrive Dufrenne, che tra sensibilità e sentimento si instaura quella comunicazione che è flusso e corto circuito, caratteristica specifica della percezione estetica: rigorosa eppure ineffabile. La dispersione che l’immaginazione sa riunire non è quindi legata esclusivamente alla diversità e molteplicità del reale e alle variegate sfumature dell’oggetto estetico; oltre a questo, infatti, essa investe con altrettanta forza tutte le potenze dell’io per restituire di esso un’immagine singolare. Nella quale le differenze coesistono ma non ne disperdono unità né unicità. Di questa immaginazione che agisce nel momento percettivo, grazie al suo potere unificante quanto creativo, si può allora capire il carattere prelogico e, in perfetta linea con le direzioni degli interessi dell’autore, originario. In questo modo si risolve la dicotomia tra sensibile e intelligibile senza negare il coté concettuale dell’oggetto estetico; anzi, di esso si riconosce necessità e particolarità poiché “ce qu’il y a de logique” nell’oggetto estetico “ne peut être dit que dans le langage de l’affectivité”.254 Come si vede, questo ci riconduce con coerenza al fondo merleaupontiano che abbiamo citato in apertura, quello che riconosce nel rapporto carnale al mondo il nodo in cui la dicotomia tra sensi e concetti si scioglie. 254 Ivi, p. 69. 105 Immaginazione e sensazione sono all’opera nella percezione estetica, nella sensibilité généralisatrice, ma Dufrenne non manca di chiarire quanto intensamente esse siano all’opera nella fase creativa del lavoro artistico. In questo senso si crea una sorta di livellamento lessicale, che è tutt’altro che un appiattimento, tra espressione e percezione estetica, che a sua volta conduce agli ambiti di riferimento della sinestesia e dello stile. Quest’ultimo, in senso assolutamente merleaupontiano, è ben chiaro a Dufrenne che anche nel testo qui esaminato vi fa esplicito riferimento riconducendo sotto di esso l’azione dell’immaginazione come l’abbiamo appena vista che a sua volta diventa “marque d’un style”.255 La sinestesia, invece, viene chiamata in causa in maniera meno esplicita benché con coerenza teorica. La dispersione sensibile, infatti, che l’immaginazione riunisce e che la sensibilità generalizzatrice afferra con le sue componenti concettuali, condivide la problematicità della differenziazione dei sensi, la necessità di una loro comprensione in unità anche in forza del loro rappresentare un accesso a ciò che di sensibile nell’oggetto estetico non c’è. Si capisce quindi, probabilmente, il valore originario e fungente delle nozioni che in questo modo si dispiegano e che, a loro volta, tornano a dialogare assiduamente con quell’intenzionalità fungente tematizzata da Husserl cui abbiamo fatto riferimento in apertura di questa tesi. Il rapporto che unisce soggetto e oggetto nella percezione estetica, con la quale ora intendiamo insieme a Dufrenne sia l’atto del creatore che quello dello spettatore, si configura allora come rapporto originario al mondo del quale è bene sottolineare come sia non delirio ma uno dei modi di nominare “le premier visage che le monde révèle à l’homme, le logos enveloppé dans la nature”.256 Quello dell’immaginazione in questo contesto si riconferma allora un ruolo comunicativo grazie al quale Dufrenne può equiparare, al fine di chiarirli possibilmente entrambi, il rapporto tra l’uomo e il mondo e quello tra l’artista e l’opera che del primo rappresenta un esempio significativo. La potenza del vedere e la potenza del fare si intrecciano allora in un insieme che nell’oggetto estetico trova compimento. È su questa base che Dufrenne sente il richiamo che, proprio a partire da una filosofia dell’arte, 255 256 Ibidem. Ibidem. 106 spinge verso una filosofia della natura secondo quel binario di interessi che costituisce una delle sue principali linee guida. La prima conclusione a cui possiamo giungere allora, grazie alla sintesi teorica offerta dallo scritto sulla sensibilité généralisatrice è quella che permette di indicare, se non altro, i contorni teorici che delimitano il nostro percorso che è forse possibile configurare in due triangoli: sensibile con sensazione e immaginazione, sinestesia con espressione e stile. Tutti questi elementi fanno capo, anche se in modi e secondo angolazioni leggermente differenti, al problema generale dell’unità del sensibile che, a sua volta, è raccoglibile sotto quello con il quale la filosofia occidentale si confronta fin dai suoi albori: il problema dall’uno e del molteplice. Indagare questi temi con Dufrenne significa accettare di farlo rimanendo a stretto contatto con quel dominio sfrangiato e variegato che è il mondo delle arti. È Dufrenne stesso a indicare espressamente questa notazione; nella maggior parte dei casi attraverso una pratica filosofica spesso e volentieri sporca d’arte, ma anche con un passo esplicito che si legge ne L’occhio e l’orecchio. Le ragioni, e ce ne sono due, per cui chiederemo alle arti se e come tendano a ritrovare l’unità originaria del sensibile, non sono immediatamente evidenti. Il problema con il quale ci stiamo confrontando è, infatti, quello dell’uno e del molteplice, e quanto osserviamo in prima istanza è la pluralizzazione dell’arte, la pluralità delle arti che conferma la pluralità del sensibile.257 La frammentazione dei sensi fa parte dei riferimenti dufrenniani con una costanza che gli deriva tanto dai suoi interessi specifici quanto, altrettanto, da quell’immensa mole di lavoro che egli mutua da Merleau-Ponty. Nella sua analisi, tenendo anche e soprattutto conto di quel ruolo che egli attribuisce all’immaginazione, Dufrenne opera una strenua difesa della tattilità258 257 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 138. Il tatto è stato protagonista, com’è noto, di innumerevoli analisi, spesso legate anche all’arte in diverse sue manifestazioni. Burke, ad esempio, pur continuando a ribadire il trionfo della vista, era arrivato ad 258 107 parallela a una critica della priorità che la vista possiede nella storia della cultura e della civiltà occidentali. D’altra parte, l’apertura alle cose così come la descrive Dufrenne, non avviene grazie a singole e separate azioni che si sintetizzano ma tramite una comunicazione nella totalità del corpo di tutti gli organi sensoriali. Tutto il corpo, nella sua interezza, è chiamato in causa nel momento percettivo senza che sia mai possibile stabilire confini netti tra ciò che è percepito dall’occhio piuttosto che dal naso. Quello che su cui l’autore francese torna a più riprese, e che la sensibilité généralisatrice che abbiamo descritto presenta eloquentemente, è il ruolo attivo, e non semplicemente ricettivo, dei sensi. Da questa impostazione che vede i sensi come campi interagenti consegue l’eliminazione definitiva di ogni netta separazione e specificità degli organi sensoriali. L’intera percezione è allora descrivibile in termini di sinestesia se, con Dufrenne, si riconosce un’unità originaria dei registri sensoriali. Come vedremo, ma possiamo già anticipare qui, L’occhio e l’orecchio rappresenta il luogo in cui la riflessione su questi temi raggiunge il culmine e in cui si condensa quell’intreccio tra estetologia, fenomenologia e ontologia che caratterizza tutta la vita filosofica dell’autore. Qui la categoria di sinestesia è ripensata, a partire dal MerleauPonty di Fenomenologia della percezione, quale categoria centrale di un’ontologia del sensibile. Trattiamo dunque il primo dei nodi che abbiamo messo a fuoco con l’excursus sulla sensibilité généralisatrice, che è rappresentato dal sensibile con sensazione259 e immaginazione e vediamo secondo quali linee teoriche e con quali intenti filosofici attribuire al tatto il ruolo di senso del bello, suscettibile di essere eccitato da alcuni oggetti con la stessa forza con cui altri oggetti producono piacere per la vista. “Sentire e vedere, sotto questo riguardo, differiscono in pochi punti. Il tatto riceve il piacere della morbidezza, che non è originariamente un oggetto della vista; la vista, d’altro canto, afferra il colore, che può difficilmente essere percepito dal tatto. Il tatto, inoltre, ha il vantaggio nel piacere che trae da un moderato grado di calore; ma l’occhio trionfa per l’infinita estensione e molteplicità dei suoi oggetti”. Tuttavia, l somiglianza tra il piacere suscitato dal tatto e quello suscitato dalla vista è talmente evidente che, per Burke, se fosse possibile distinguere i colori con il tatto, la loro disposizione giudicata bella dalla vista sarebbe allo stesso modo gradita al senso tattile. (E. Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime, a cura di G. Sertoli e G. Maglietta, Aesthetica, Palermo 1998, pp. 133-134.) 259 Dufrenne sceglie espressamente di parlare di sensibile anziché di sensazione con il rispettabile l’obiettivo di “evitare la trappola dell’atomismo psicologico. Se ci accadrà di far riferimento ancora alla sensazione, sarà pensando a Cézanne e al suo dipingere la sensazione che ne parleremo. La difficoltà che Cézanne non ha mai smesso di affrontare per poterla dipingere, il filosofo la incontra per poterla descrivere.” (M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 86.) 108 l’autore lo mette a fuoco. Per comprendere in maniera efficace in che modo Dufrenne possa parlare di unità originaria dei registri sensoriali è bene seguire Dufrenne là dove egli, in esplicito e costante dialogo e debito verso Merleau-Ponty, si occupa del sensibile intendendolo come carne. Merleau-Ponty chiama il sensibile “carne”; nozione ultima, egli dice, ultima perché prima, giacchè si connette alla questione per così dire, più iniziale, che non è quella dell’origine ma quella dell’originario, del c’è [il y a] in quanto c’è dell’ente o della physis. Il sensibile è l’apparire dell’originario, il suo venire alla presenza. Non dobbiamo farci scrupoli e lasciarci guidare da ciò che si esperisce nella presenza.260 Agisce qui quella consapevolezza che è base portante di tutta la riflessione fenomenologica che Dufrenne stesso palesa quando scrive, poco dopo: “La percezione mi mette al mondo”261. Vi è un’originalità assoluta e fungente nella percezione, la stessa tematizzata tra Husserl e Merleau-Ponty all’inizio di questo lavoro come intenzionalità fungente, dove lo sfondo è rappresentato dall’unità; quella stessa unità che rende possibile tanto la dualità di soggetto e oggetto quanto la pluralità dei sensi. La dualità non viene dunque più posta dall’inizio e come irriducibile, così come la coscienza non può più beneficiare del privilegio dell’assolutezza accordatole dalla fenomenologia husserliana e nemmeno la materia può più godere del privilegio accordatole dal materialismo. Ora, ciò che non può più essere posto come principio diviene effetto, ma questo non significa che non c’è arché, significa soltanto che il c’è è l’arché; il soggetto e l’oggetto custodiscono nel loro essere la traccia dell’originario dal quale sono generati e che li fa conaturali; detto altrimenti: il naturato testimonia del naturante dal quale nasce. Tuttavia è sempre già nato e può essere colto soltanto come tale. In questa che egli definisce una “strana alleanza”262 che costituisce la carne il soggetto e l’oggetto non sono quindi ancora separati e tutto ciò che è sensibile lo è in maniera globale, che sia sentito o senziente. È questo quel luogo fondamentale nella filosofia dufrenniana, quell’originario per lui tanto più importante perché il luogo della 260 Ivi, p. 87. Ibidem 262 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, In Esthétique et philosophie, cit., tome 2 p. 92. 261 109 Natura, che diventa mondo solo successivamente, nell’attimo in cui si produce l’inversione, la rottura, l’atto percettivo dal quale nascono e si distinguono il soggetto e l’oggetto, il senziente e il sentito. È questa forma di nascita doppia e simultanea a rendere presente il mondo e, in questa presenza,263 lasciare esistere ogni dicotomia.264 La nozione di presenza rappresenta in Dufrenne il correlato imprescindibile di quell’originario di cui, attraverso la sensazione, stiamo seguendo le tracce e, benché teorizzata con precisione solo nell’ultima opera, attraversa in modo significativo tutto il suo filosofare.265 Come è stato condivisibilmente notato: “Certo è che la questione della presenza contiene e porta con sé tutti i temi dell’ultima sua opera, nessuno escluso: sensi, sinestesie, immaginario, virtuale vanno tutti riguardati dentro l’orizzonte di quella nozione, quale ancoraggio ontologico della fenomenologia del sensibile”266. La presenza dufrenniana va immediatamente messa a fuoco come presenza a, implicando quindi, conseguentemente, una prima e ineludibile forma di differenza che Dufrenne legge con le parole di Sartre: “Ogni presenza a implica dualità, quindi separazione almeno virtuale”267. Questo è importante nella misura in cui, ricercando quell’originario unitario indifferenziato si sia in grado di riconoscere la posizione da cui 263 Quella della presenza è una delle nozioni fondamentali su cui si impernia L’occhio e l’orecchio. A partire da essa si articolano tutti i concetti-chiave del filosofare dell’autore. Come è stato notato: “Se parte influente della filosofia contemporanea ha fatto dell’assenza il suo termine privilegiato, Dufrenne risponde a essa con una radicalizzazione della nozione di presenza. Certo, ci sono più aspetti per cui una simile radicalizzazione fa problema: così come non è possibile in assoluto definire la nozione di assenza, analogamente si deve dire per la nozione di presenza; è il gioco inesauribile della loro coappartenenza ciò che fa realmente problema e che meriterebbe, forse, l’attenzione del filosofo. Resta il fatto che Dufrenne incardina su quel concetto una parte non marginale della sua speculazione.” (C. Fontana, Prefazione dell’edizione italiana de L’occhio e l’orecchio, cit. p. 13.) 264 Ed è proprio, ma lo vedremo meglio più avanti, attraverso la percezione estetica che nella separazione sempre già attualizzata della nostra esistenza si manifesta una possibilità di riaccedere all’originario, lontano eppur sempre presente. 265 È altrettanto significativo considerare che proprio l’ultimo lavoro rimasto in concluso di MerleauPonty si è arrestato sul concetto di Presenza sul quale evidentemente il filosofo stava ritornando a meditare. La ripresa di Dufrenne è allora doppiamente significativa se è vero, come vedremo, che la sua riflessione finale mira proprio a concludere quello che egli riteneva il percorso in concluso dell’amico e maestro. 266 E questo resta vero nonostante le questioni che restano aperte. “Proviamo a elencarne qualcuna: innanzitutto, che le ‘cose’ stiano in mia presenza è un dato originario oppure si rende necessaria un’ulteriore retrocessione fenomenologica? Che cosa sono le cose ‘intorno a me’? e soprattutto, che cosa è questo ‘intorno’? importantissima è poi la domanda circa l’affermazione di apertura del brano appena citato, vale a dire: che cosa significa che le cose mi stanno intorno secondo una disposizione? Potremmo pensare il senso del brano come segue: non è forse che le cose non solo accadono secondo una disposizione ma, soprattutto, non è forse quel disporre a far emergere le cose in quanto tali e con un intorno?” (C. Fontana, cit., p. 15.) 267 M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 77. 110 lo si sta cercando: una posizione che già conosce la rottura e la lontananza poiché “io non sono mai del tutto uno con: c’è sempre una certa distanza”268. E tale distanza riguarda anche, e anzi soprattutto, quegli stessi sensi che rendono possibile la presenza; sensi che, nell’atto stesso di sentire si confermano come sensi a distanza. Uno degli aspetti indubitabilmente più interessanti e più densi del tema della presenza riguarda la duplicità di azione che l’autore le riconosce: quando ne parla, infatti, Dufrenne sovrappone in essa tanto la presenza al mondo quanto la presenza a sé. Con tale nozione, quindi, viene adombrata un’analisi del problema della coscienza del mondo che implica anche, in maniera rilevante, il problema della coscienza di sé o autocoscienza. La coscienza si desta come coscienza del mondo e la presenza è, in primo luogo, presenza al mondo, quel mondo dal quale faccio sempre ritorno su me stesso. Debbo forse operare diversamente questo movimento di andata e ritorno? La presenza al mondo è già da sempre la mia presenza. Il modo in cui Dufrenne affronta questo elemento è profondamente correlato e anzi totalmente debitore della descrizione merleaupontiana della coscienza in termini di coscienza percettiva che abbiamo visto nel corso del precedente capitolo. Dufrenne lo chiarisce in termini piuttosto sintetici, ma il debito verso il suo maestro è riconosciuto a più riprese tanto da consentire di pensare che per lui la nozione merleaupontiana di coscienza percettiva fosse da dare per scontata: “Il corpo è coscienza e non bisogna fare di quest’ultima un’istanza separata.”269 In questo modo la stessa dicotomia tra corpo e coscienza viene risolta nel tema della presenza senza soluzione di continuità con la lettura carnale del sensibile. I sensi, infatti, non si possono descrivere per Dufrenne come strumenti a disposizione di una sorta di coscienza sovrana che possa utilizzarli scegliendoli e attivandoli a piacimento; al contrario, essi sono esattamente questo estremo della carne in cui la carne del mondo diviene sensibile nell’attimo stesso in cui è sentita.270 E, come il mondo, diviene sensibile l’Io stesso del soggetto che si esperisce, se possiamo accettare, con l’autore, il 268 Ibidem. Ibidem 270 Cfr. M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 92. 269 111 fatto che “presenza al mondo e presenza a sé sono dunque indissociabili”271. Certo, suggerire una lettura della presenza come sinonimo di coscienza è probabilmente spingere Dufrenne un po’ oltre le sue intenzioni, ma è forse possibile allora, almeno, un avvicinamento che si fermi solo poco prima della sovrapposizione dei due termini272. La riflessione sul sensibile può essere condotta, secondo l’autore francese, solo in funzione della presenza, di questa presenza al mondo sempre differita e a distanza di cui i sensi, anch’essi a distanza, sono gli artefici. La questione della presenza al mondo è, dunque, quella sola a partire dalla quale Dufrenne può elaborare l’idea del sensibile. Tale idea si sviluppa pertanto sulla base di quella posizione fondamentale in cui la nozione di presenza ci ha disposti e che vede il mondo come qualcosa che c’è per un ente che ne è parte, in una circolarità dove la stessa separazione tra soggetti e oggetti parte da un cortocircuito: L’essere nel mondo è qui – Da – c’è ed è così che ci è un mondo per esso; ma di questo mondo esso ne è anche, senza per questo ridursi del tutto al mondo stesso. Questa presenza, per chi la vive, è meno la sua presenza al mondo che la presenza del mondo a lui. Ciò non significa tuttavia che vi sia una presentazione a una coscienza situata fuori di essa; né significa il darsi di una presenza frontale, come quella del quadro rispetto all’occhio concepita dai teorici della prospettiva artificiale. Il mondo non è davanti a me bensì intorno a me; l’occhio stesso lo sa, essendo sferico e avendo, pertanto, una visione che spinge fino ai suoi margini. L’occhio non lo sento come uno specchio, piuttosto come un’apertura attraverso la quale il mondo mi penetra così come, possedendo una vista acuta, io penetro in esso. Infatti, io sono a contatto con il mondo, o meglio sono corpo a corpo con il mondo.273 Il sensibile è allora descrivibile solo in termini di una globalità inglobante di fronte alla quale è impossibile arretrare e sulla quale ogni punto di vista sembra impossibile: “è in esso che si esperisce la presenza ancor priva di distanza”274. Eppure, ovviamente, è 271 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 82. “Noi siamo pertanto esseri nel mondo, presenti al mondo e, al contempo, presenti a noi stessi; senza però, che la presenza sia mai totale, senza essere mai pienamente noi stessi né del tutto identificabili al percepito: senza essere Dio.” (M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 83) 273 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 85. 274 Ivi, p. 87. È questo uno dei (numerosi) passaggi in cui la presenza di Merleau-Ponty, peraltro esplicitata dall’autore stesso che fa riferimento al concetto di Einfühlung, si fa pregnante. Una delle note di lavoro de Il visibile e l’invisibile è, tra le altre, particolarmente rappresentativa di questo dialogo: “Carne del mondo, descritta (a proposito di tempo, spazio, movimento) come segregazione, dimensionalità, continuazione, latenza, sopravanzamento – Poi interrogare di nuovo questi fenomeniproblemi: essi ci rinviano a Einfühlung percipiente-percepito, in quanto vogliono dire che noi siamo già 272 112 sempre sotto la specie del sensibile che il mondo ci è presente, “mai come un in-sé intoccabile”275. Quello che risulta fondamentale per Dufrenne, e che resta riferimento imprescindibile nel suo percorso, è il riconoscimento del sensibile come di qualcosa a partire dal quale tutto comincia. “E tanto peggio per quell’atteggiamento filosofico che si vieta di parlare di cominciamento!”276 Tutto il filosofare dufrenniano si incardina su una concezione dell’umano, della natura e dell’arte letti all’ombra di un’origine e la presenza e l’azione dell’originario sono punti problematici quanto essenziali nel percorso dell’autore. Delle qualità sensibili, e Dufrenne fa proprio l’esempio del colore277, si può così parlare come di eventi, che sopravvengono contemporaneamente al soggetto e all’oggetto: la sensazione altro non è, allora, che l’evento del sensibile. E, al tempo stesso, evento del soggetto. “La percezione mi mette al mondo”278. È determinante la conseguenza che se ne trae e che Dufrenne affronta nel già citato saggio dedicato all’originario. La percezione, intesa come evento originario, costituisce infatti il soggetto nella sua singolarità e originalità. Egli è nel sensibile, sul sensibile, un’apertura singolare. La sensorialità stessa, “inséparable de l’individuation”279, diventa principium individuationis. Occorre allora ribadire come quell’unità originaria cui Dufrenne mira non sia figura metafisica di un tentativo di pacificazione della molteplicità del reale bensì, più perspicumente, indicazione teorica della possibilità di riconoscere un fondo comune al mondo e all’umano, “totalità che non è la mera somma dei corpi materiali né dei fatti psichici, ma piuttosto l’elemento comune al senziente e nell’essere così descritto, che noi ne siamo, che fra esso e noi c’è Einfühlung. Ciò significa che il mio corpo è fatto della stessa carne del mondo (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è partecipe il mondo, esso la riflette, il mondo sopravanza su di essa ed essa sopravanza sul mondo (il sentito saturo di soggettività e al tempo stesso di materialità), essi sono in rapporto di trasgressione o di sopravanzamento – Ciò vuole anche dire: il mio corpo non è soltanto un percepito tra i percepiti, è misurante di tutti, Nullpunkt di tutte le dimensioni del mondo. (…) Parallelamente esso si tocca e si vede. E quindi è capace di toccare e vedere qualcosa, ossia di essere aperto a delle cose nelle quali (Malebranche) esso legge le sue modificazioni.” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., pp. 260261.) 275 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 86. 276 Ibidem 277 Ibidem 278 Ivi, p. 88. 279 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 92 113 al sentito, quel che si potrebbe definire l’elemento percipi dell’originario vale a dire dell’Essere”280: la Natura. Di questa Natura, fondo originario che resta sempre da afferrare, la percezione comune non coglie se non forme rese necessarie da codici e corrispondenze culturali. Il proponimento di Dufrenne è allora proprio quello di smascherare tali codici e, attraverso un’analisi il più possibile dettagliata della percezione, nelle sue differenze dalla percezione estetica, mostrarne l’azione e recuperare il fondo che, dietro di essi, lavora. È la differenziazione sensoriale a mettere in campo, attraverso la pluralizzazione del sensibile, la necessità di interrogarsi sull’unità di quel plurale e a porre così la domanda se sia possibile almeno pensare tale unità se non proprio conoscerla. Quello che si adombra dietro questa interrogazione, condotta in particolare nell’ultimo scritto del filosofo, è allora di nuovo il problema di come attingere a quel fondo Originario dove la Natura agisce e si rende presente prima di essere ridotta a oggetto di conoscenza. Il tema del sensibile diventa allora centrale in Dufrenne non solo per l’ovvia condivisione etimologica con i temi dell’estetica ma anche e soprattutto per la prospettiva con cui il filosofo francese vi si rapporta. La sua, infatti, è una dichiarata presa di posizione nei confronti di molta filosofia concentrata più volentieri sul tema del linguaggio o legata alle tradizionali distinzioni fra soggetto e oggetto, fra attività e passività.281 Ne L’occhio e l’orecchio Dufrenne dichiaratamente si propone, reagendo a ‘l’imperialismo dell’occhio” della nostra cultura, di “riflettere intorno alla pluralità dei sensi o, più esattamente, intorno a ciò che si organizza a partire dai sensi – dobbiamo chiamarlo sensazione, sentimento o sensibile?”282 Proprio questa triade terminologica rappresenta un nucleo che, lungo tutta la meditazione del filosofo anche nelle opere che precedono L’occhio e l’orecchio, non mai ha cessato di essere vista come qualcosa la cui distinzione non è né semplice né scontata. 280 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 89. Queste tendenze peraltro, come ha notato M. Carbone (Il sensibile e l’eccedente, Guerini studio, Milano 1996 p. 17), non si sono mai necessariamente poste in alternativa. 282 M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 32. 281 114 Nell’ultimo lavoro l’approccio è più deciso di quanto non sia parso in precedenza. Qui è messo in chiaro, fin dall’introduzione, che è possibile parlare di sensi “senza con ciò essere costretti a chiamare in causa delle sensazioni, senza cadere nella trappola del riferimento all’interiorità. (…) La pluralità non è più la prima parola, come accade quando si distingua il sentire dalla sensazione”283. Nella ricerca di unità e unicità intorno al tema del sensibile, in quella sorta di risalita verso un punto zero e infinito del rapporto uomo-mondo, Dufrenne sa bene di non poter fissare quella “prima parola” in una coscienza. “È possibile, infatti, che la coscienza sia una, ad esempio unità dell’appercezione, ma essa ha un’unità di per sé, non ha nulla in sé stessa.”284 Centrale in questa analisi è proprio la conclusione cui giunge l’autore a questo proposito, conclusione che è anche impostazione programmatica del suo percorso. L’unità, infatti, se di unità è possibile in qualche modo parlare, risiede nel fatto, scrive Dufrenne, “che la coscienza ‘tende a’, nel fatto di darsi attraverso i registri del sensibile”285; risiede in un movimento intenzionale che, quello sì, può essere descritto in termini di unicità nella molteplicità. L’unità non è quindi il prodotto di un’attività unificante, ma una proprietà di alcune cose “in quanto sentite”, nel loro essere calate e introdotte nel rapporto intenzionale “che con ogni evidenza non esclude la diversità di quelle stesse cose e di quanto vi è di mobile e variopinto nel mondo”286. La dualità di soggetto e oggetto non è questione da discutere. Essa va, bensì, oltrepassata, perché solo così è possibile pensare e afferrare, prima di viverla, l’unità “come unità dell’intenzione e di ciò che la riempie, unità del senziente e del sentito.”287 Perché sia possibile pensare un’unità, per Dufrenne, è allora una fenomenologia del sentire quella forma di domandare che bisogna perseguire. Forma di domandare che, in effetti, ne L’occhio e l’orecchio non fa che raccogliere e proseguire un percorso coerente precedentemente avviato. È allora particolarmente singolare e significativo che sia proprio nell’ultima sua opera, in quella sorta di rilancio e testamento filosofico, che questi temi si facciano pressanti. Ricorrendo a Struas, Dufrenne specifica: “il sentire deve essere concepito come modo di comunicazione tra un sé -Selbst- e il mondo, 283 Ibidem. Ibidem. 285 Ivi, p. 33. 286 Ibidem. 287 Ibidem. 284 115 comunicazione che deve essere sufficientemente stretta affinché il rapporto sé-mondo possa manifestarsi come totalità.”288 Il rapporto di originaria implicazione reciproca che ci lega al mondo è quello che deve caratterizzare, per Dufrenne, l’impostazione del discorso il quale deve privarsi di ogni riferimento pregiudiziale alla dicotomia fra soggetto e oggetto. Fin da Phénomenologie de l’expérience esthétique la correlazione percettiva è il tema all’ombra del quale è possibile affrontare il problema della relazione tra soggetto e oggetto all’interno dell’esperienza estetica.289 L’intenzionalità percettiva con il suo carattere fungente rivela nella fenomenologia dell’esperienza estetica tutto il suo senso e la sua portata. Come abbiamo già messo in luce, all’oggetto estetico è infatti essenziale, per trovare il proprio compimento, la percezione di uno spettatore, la quale ha il suo stadio originario nella “presenza” in cui la sensibilità dell’uno e la corporeità dell’altro compongono una totalità indiscernibile. Come distinguere allora percezione ordinaria e percezione estetica? Una possibilità che Dufrenne esplora a più riprese è quella di collocare questa demarcazione nell’ambito del sentimento come facoltà peculiare alla percezione estetica: è infatti sul piano del vissuto che esse si differenziano in modo radicale. “Al sentimento, infatti, l’oggetto estetico rivela la sua espressività, il suo mondo affettivo, si rivela ‘quasisoggetto’ insomma, portando a termine la sua autogenesi.”290 La percezione estetica, contrariamente a quella ordinaria che cerca e può trovare solo verità sull’oggetto, cerca la verità dell’oggetto, cerca cioè la sua forma che è insieme di sensibile e di senso.291 È in questo senso che la percezione estetica è la percezione royale, che non chiede di essere altro che percezione, mentre: 288 Ibidem. La fenomenologia dell’esperienza estetica è, infatti, per lui, in via privilegiata, descrizione dell’esperienza percettiva dello spettatore e del costituirsi in essa dell’oggetto estetico, che vi si rivela dotato di un proprio “mondo” con una sua specifica struttura sensibile. Da ciò come ha scritto M. Carbone (op. cit., p. 37) la definizione dell’oggetto estetico come ‘quasi-soggetto’ della quale sono evidenti i nessi da un lato con la riabilitazione ontologica del sensibile decretata da Merleau-Ponty e dall’altro con il darsi dell’opera d’arte quale presenza in oggettiva descritto da Maldiney. 290 M. Carbone, op. cit., p. 37. 291 “A tutta prima tale differenza può forse richiamare la distinzione proposta da Straus fra sentire e percepire, ma al proposito va allora sottolineato che Dufrenne non descrive la percezione estetica e quella ordinaria come essenzialmente diverse, considerando piuttosto la prima quale verità della percezione toutcourt.” (Ibidem). 289 116 La perception ordinare, toujours tentée par l’intellection dès qu’elle accède à la représentation, cherche une verité sur l’objet, qui donne eventuellement une prise à la praxis, et la cherche autour de l’objet, dans les relations qui l’unissent aux autres objets, la perception esthétique cherche la vérité de l’objet, telle qu’elle est immédiatement donne dans le sensible.292 Il sentimento, inteso come “facoltà che permette all’uomo di cogliere le qualità materiali che, come ‘a priori’, costituiscono la struttura affettiva dell’oggetto estetico e della soggettività”293 è allora la dimensione entro cui si dispiega la percezione estetica, tanto creatrice quanto fruitrice. In linea con questo pensiero, l’oggetto estetico si qualifica come il correlato di ciò che Dufrenne chiama a priori affettivo. Attraverso questa elaborazione teorica originale ed efficace, come ha scritto Barilli, “i sentimenti, più che materie brute, spessori iletici gravanti sulla coscienza, sono forme, categorie non meno di quelle dell'intelletto, e che adempiono alla stessa funzione di unificare il materiale percettivo".294 Un a priori quindi, caratterizzato come trascendentale “in quanto unifica la materia nel quadro di un’unità di senso; e intenzionale, in quanto non resta dentro l’uomo ma si estrinseca sul mondo.”295 Altrettanto importante è la seconda notazione che già Barilli ha messo in luce e che rappresenta uno dei nostri punti di riferimento essenziali. Infatti, il correlato di tale a priori all’ombra del quale la percezione procede, è l’espressione che, a sua volta, “non sarà più l’automanifestarsi di uno stato d’animo interno, ma un cavar fuori dal mondo aspetti e profili sotto la sollecitazione catalizzante di un sentimento-modo generale di condotta"296. Si deve ancora a Barilli la messa a fuoco di un ulteriore passaggio fondamentale grazie al quale si sottolinea che: Ovviamente non è che ogni manifestazione affettiva abbia uno sfocio nell’estetica. Gli a priori affettivi li incontriamo prima di tutto sul piano della presenza, nell'ambito della prassi quotidiana, dell'esperienza comune [...] Comprendiamo allora che tali a priori affettivi, colti in questa fase iniziale della loro attività [che si svolge nella sfera della coscienza preriflessiva], altro non sono se non un diverso aspetto dell'immaginazione pratica, appartengono al vasto capitolo delle formazioni generali, eidetiche, spontaneamente sorgenti 292 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 55. E. Franzini, “Natura e poesia. Su un inventario degli a priori di Mikel Dufrenne”, Fenomenologia e scienze dell’uomo, n. 2, 1982, p. 67. 294 R. Barilli, Per un'estetica mondana, Bologna, Il Mulino, 1964, p. 284 295 Ibidem. 296 Ibidem. 293 117 dall'incontro tra l'uomo e il mondo, da cui poi per affinamento e vaglio riflessivo si potranno ricavare le formazioni più responsabili e culturalmente più agguerrite.297 Quello che emerge e che va tenuto presente è allora il ruolo non neutro né secondario che affettività e immaginazione hanno fin dai primi momenti preriflessivi del rapporto intenzionale al mondo; affettività e immaginazione, nella lettura dufrenniana, sono infatti due dimensioni costitutive di quello strato di esperienza identificabile con l’intenzionalità fungente, la percezione nelle sue caratteristiche preriflessive e, in generale, l’adesione dell’umano al mondo originario della Natura. Prima di continuare è allora bene soffermarsi ancora brevemente sul ruolo che Dufrenne attribuise all’immaginazione nel processo. Il tema dell’immaginazione lo interessa in particolar modo nella misura in cui la maggior parte delle dottrine che lo hanno affrontato gli sembrano averlo fatto sotto l’egida di un appiattimento di immaginario e irreale. Tale appiattimento conduce, nella sua lettura, a una forma di opposizione tra reale e immaginario basata sull’idea che il reale sia già sempre determinato, o se non altro determinabile, e renda sempre possibile l’esclusione dell’irreale immaginario dal quadro percepito. Sarebbe pertanto la percezione stessa a rappresentare il garante nell’insieme del giudizio di realtà. Ma, nota Dufrenne: “Peut-être faut-il précautionneusement controler cette perception pour séparer, dans ce qu’elle offre, le bon grain de l’ivraie, le perçu de l’imaginaire.”298 L’immaginario definito come irreale va rapidamente a corrispondere all’illusorio, incarnando così il nemico principale di ogni forma di razionalismo. Tuttavia, è proprio tale corrispondenza affrettatamente articolata tra immaginario e irreale quello che Dufrenne mette in discussione. Seguiamo allora la sua riflessione, esplicitata nel citato saggio dedicato proprio a L’imaginaire299, intorno a quel campo semantico fort confus che è il paradigma immagine/immaginario/immaginazione. La prima osservazione esprime una consapevolezza metodologica: presi isolatamente i tre termini pongono tre differenti problemi. L’immaginazione, un 297 Ibidem. M. Dufrenne, L’imaginaire, in Esthétique et philosophie, cit. tome 2, p. 100. 299 Ivi, pp. 100 e segg. 298 118 problema critico o antropologico: “quel est ce pouvoir (cette “faculté”) d’imaginer, comment joue-t-elle et que signifie-t-elle pour une conscience?” Nell’immagine si riscontra invce un problema di carattere gnoseologico: “quelle est, selon les aspects qu’elle peut revêtire, sa fonction dans la connaissance?” Infine, il problema implicito nel polo dell’immaginario è un problema di tipo ontologico: “peut-il se définir par rapport au réel, et qu’implique leur confrontation pour l’un et l’autre terme?” È quest’ultimo il nodo problematico che sta maggiormente a cuore all’autore ma per affrontarlo è necessario dissociare i tre termini del paradigma di partenza. Nella descrizione di Dufrenne, non essendo l’immagine necessariamente un prodotto dell’immaginazione, essa si riferisce piuttosto alla percezione stessa, senza che una facoltà immaginativa le si debba opporre. Senza per forza chiamare in causa l’immaginazione, l’immagine può avere quello che egli chiama il privilegio di consegnarci dunque ora la cosa ora il suo concetto300. Ma l’immaginazione è altrettanto lontana dall’immaginario, ciò che è immaginato non è necessariamente irreale anzi; “l’imaginé n’est pas imaginaire, il est réel, et même suprêmement”301. Perché la percezione non sia, infatti, solo registrazione passiva di dati ma, più proficuamente, atto dello spirito, è necessario che l’immaginazione sia sempre presente in essa. Que la perception soit fausse d’abord, cela signifie sans doute la servitude d’une pensée soumise à l’empire du corps, mais aussi la liberté du jugement; le faux, c’est aussi l’invisible qui n’apparait jamais, que l’art seul peut fixer, et dont l’introduction dans le plein du monde témoigne pour l’esprit – un esprit qui se révèle et s’éprouve au détour de l’erreur. 300 Può essere utile, al fine di chiarire questo punto, riportare gli esempi cui ricorre Dufrenne (L’imaginaire, cit. p. 101). L’immagine diventa l’immagine di un concetto quando sembra che un concetto venga ad abitarla ed illustrarla: davanti ad un uomo che urla e trema si può dire “è l’immagine della collera”, poiché sembra che un’essenza venga a radicarsi in questo comportamento esemplare. Qui il percepito è afferrato come ciò che ci consegna tale essenza. Allo stesso modo, oltre che a concepire, l’immagine può anche spingere a immaginare, ma è sempre innnanzitutto alla percezione che essa si presenta. Il secondo esempio riguarda un impiego della parola immagine che no sbocca nemmeno sull’immaginazione. È quello condiviso dal latino species e dal greco eidolon. Secondo questa lettura la percezione non rimanda alla cosa stessa, ma è questo rappresentante che solo può superare la distanza tra soggetto e oggetto e bussare alla porta di una coscienza separata. L’immagine arriva quindi a designare la percezione stessa, un rapporto al percepito che prescinde ogni mediazione. Da questo punto di vista la cosa si presenta senza dover essere rappresentata e l’immagine è il miglior approccio all’oggetto senza riferimenti al concetto. Questa valle si mostra nella sua verità sensibile, nella sua essenza singolare, che non è l’essenza della valle come l’uomo agitato poteva esserlo della collera. 301 Ivi, p. 102. 119 Come ha sintetizzato efficacemente Elio Franzini302, dunque, per Dufrenne la funzione primaria dell’immaginario all’interno della percezione è quella di performare il reale facendolo divenire, secondo l’insegnamento di Alain, un progetto umano, l’affermazione di un valore che disvela un senso del reale. “L’immaginazione quindi non è l’irreale da contrapporre al reale percepito, ma un sistema di possibili che aderisce alla fissità del dato animandolo nella sua stessa ricchezza rappresentativa.”303 Vi è dunque, all’interno dell’immaginazione stessa, una forma di espressione dell’uomo che riguarda però innanzitutto, ed è questo probabilmente il punto più importante, il suo rapporto percettivo al mondo a seconda di ciò che da esso egli si aspetta e desidera. È così che l’immaginario può esprimere il mondo stesso, più e prima che l’irrealtà la quale, a sua volta, non può essere proposta o ispirata all’uomo se non dal reale. “C’est ensuite que l’imaginarie peut exprimer aussi le monde, que l’irréel peut être proposé ou inspiré à l’homme par le réel, enfin que la Nature peut imaginer à travers l’homme.”304 Come è già stato notato, tuttavia, né Dufrenne né Sartre “hanno messo in luce, dal lato di una fenomenologia delle immagini, la densità degli sfondi in cui vive e si orienta l’oggetto percepito e in cui le immagini che ad esso aderiscono rivestono un ruolo fondamentale per la sua definizione propriamente estetica.” 305 Partendo da quella sintesi di temi rappresentata dalla nozione di sensibilité généralisatrice abbiamo dunque messo a punto i due triangoli teorici che ci sembrano rappresentare le pareti parallele della filosofia dufrenniana. Questi sono, come abbiamo detto: sensibile con sensazione e immaginazione, sinestesia con espressione e stile. 302 E. Franzini, L’estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, cit. pp. 339. Ibidem. 304 M. Dufrenne, L’imaginaire, cit. p. 108. 305 Ivi, pp. 341 e segg. Secondo questa lettura, infatti, “gli oggetti percepiti sono carichi di quegli elementi immaginari che Bachelard ha chiamato rêveries, elementi che permettono una valorizzazione immaginativa del percepito nella sua stessa immanenza concreta dove, al di là di voli ‘nullificanti’ si mettono in luce i suoi aspetti simbolici e metaforici, che nell’opera d’arte, come scrive Durand, fanno apparire un ‘senso segreto’, l’epifania di un mistero.” 303 120 Di essi abbiamo iniziato ad approciare il tema del sensibile, e abbiamo potuto vedere, attraverso le nozioni di carne e presenza, come in esso si radichi e trovi slancio filosofico una delle questioni più care a Dufrenne, cioè quella riguardante la Natura, l’originario. All’interno del tema del sensibile abbiamo visto ritagliare lo spazio proprio alla percezione, che è tuttavia con Dufrenne uno spazio largamente condiviso dall’immaginazione. Il rapporto percettivo al mondo, grazie alla descrizione della sensibilité généralisatrice, si può afferrare come un rapporto sempre aperto e in fieri all’interno del quale sono da sempre implicate le sfumature di affettività e immaginazione. Questo significa accettare l’intenzionalità fungente come una dinamica relazionale mai chiusa, nella quale il mondo non si scopre semplicemente ma in qualche modo sempre si forma. E sempre secondo la cifra del possibile che attraverso l’immaginario accompagna persino la sensazione. Ci torneremo più avanti, l’importante è comprendere fin d’ora come il triangolo di sensibilità, con percezione e immaginazione sia per questo autore estremamente forte e significativo. È su queste basi che possiamo comprendere la componente espressiva che l’intervento del sentimento apporta alla relazione con il mondo. Tale componente caratterizza stilisticamente la percezione stessa, come modalità genetica e non semplicemente ricettiva in rapporto al senso. Il culmine di ciò, come vedremo, sarà rappresentato dall’immagine della sinestesia. 2.2 Il significato dell’oggetto estetico Per passare al secondo dei triangoli teorici che abbiamo indicato, quello relativo ad espressione, stile e sinestesia, può esserci utile considerare quel passo della Phenoménologie de l’experience esthétique che l’autore dedica a delineare se e come un oggetto estetico sia in grado di significare. Il problema della significazione dell’oggetto estetico rappresenta una parte particolarmente saliente di quel problema più generale, 121 centrale tanto nella filosofia di Dufrenne quanto nel nostro percorso, che è il problema del senso del mondo, della nostra possibilità di coglierlo e, in ultima istanza, quindi, il problema della sua verità. Verità della quale non solo si dovranno esplicitare i caratteri ma anche se e come all’uomo sia dato coglierla, tenuto conto della rigida base estetica, cioè corporea, in cui la fenomenologia francese, e Dufrenne in particolare, lo colloca. Tutta la riflessione dufrenniana converge verso un punto specifico, che egli stesso riassume in una duplice domanda: Se l’opera serba un potere significativo, se l’oggetto estetico non è un mero sensibile, qual è da un lato il posto di quella significazione nella struttura dell’opera, o anche la sua funzione di dinamismo nell’atto creatore? E, d’altra parte, com’è colta dalla percezione estetica?306 Si vede qui come il problema relativo alla percezione estetica sia, considerato nelle sue conseguente teoriche, un problema di coglimento di senso oltre che di sensibile; un problema di definizione del nostro commercio con il mondo. Commercio che l’arte mette in scena in modo esemplare continuando a ricordare come quell’invisibile che sappiamo essere parte del nostro panorama costantemente richieda di essere ridefinito e afferrato, descritto e ricompreso. Proprio il Senso è quindi il cardine su cui ruota il domandare qui in questione che conduce a seguire Dufrenne nell’analisi di un aspetto essenziale dell’oggetto estetico: il suo potere di significare. Per mettere in luce questa caratteristica Dufrenne si serve del confronto con quelli che egli chiama “oggetti significanti”307, la cui funzione consiste non nel permettere un’azione o soddisfare un bisogno, ma nel dispensare sapere, come un libro di scienza o un catechismo.308 Ben conscio della differenza che separa questi oggetti dalle opere 306 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthetique, cit. p. 192. Ivi, p. 183. 308 “Senza dubbio qualsiasi oggetto può essere detto significante, ma bisogna dare un posto a parte a quelli in cui il significato non serve semplicemente a destare l’azione, e non si perde quando questa sia compiuta: un libro di scienza, un catechismo un album di fotografie e già, più modestamente, il cartello indicatore, sono segni il cui significato non determina un’azione se non fornendo prima un’informazione. In un mondo culturale che, come il nostro, attribuisce un grande valore alla conoscenza positiva e ai mezzi per fissarla e diffonderla, questi oggetti significanti formano un gruppo autonomo e prestigioso, il 307 122 d’arte, Dufrenne è tuttavia portato a interrogarsi sulla possibilità che le opere d’arte hanno, in luoghi ove scienza e religione ancora sono sovrapposte o dove non esistono biblioteche, di trasmettere quel sapere. “Suger sa bene che il catechismo si legge sulla pietra dei timpani o dei capitelli di Saint-Denis; e noi impariamo la religione dei Sumeri dai loro bassorilievi”309. È infatti solo con l’arte moderna che l’aggettivo “figurativo” arriva a designare un carattere facoltativo delle arti. La domanda da porsi, quella dietro cui probabilmente si cela più di una risposta, riguarda allora proprio il carattere significante dell’oggetto estetico. Esso, dunque, “non attende da noi prima di tutto la lettura di questo significato?”310. Uno dei primi caratteri dell’oggetto estetico di cui in questa analisi va tenuto conto è allora quello relativo al suo rapporto con realtà e verità. Esso, se è suscettibile di verità in quanto rappresenta, non si rivolge tuttavia a quel tipo di verità cui sembrano rivolgersi gli oggetti intellettuali. “Sospettiamo che si tratti di una verità ad esso intrinseca, che non può verificarsi nel mondo degli oggetti reali, una verità non inerente a ciò che rappresenta ma a come lo rappresenta”311. Nel momento in cui la verità cui l’opera tende si situi fuori di essa in modo che proprio il mondo reale diventi verifica del suo senso, l’opera in questione perde semplicemente il suo carattere estetico per collocarsi, invece, altrove. Quello che interessa a Dufrenne è però oltre questa irrealtà del significato, poiché ciò che ci viene rappresentato non sempre ha molto interesse e non è questo che deve animare la nostra attenzione, a differenza di quanto accade per l’oggetto significante che si giudica esattamente in base a ciò che significa e per il quale la forma dipende completamente dal contenuto.312 Rispetto al proprio contenuto l’oggetto estetico ha un atteggiamento del tutto diverso, genera effetti di tutt’altro tipo e, soprattutto, richiede un approccio completamente differente. In questa analisi, che a tratti indulge anche a notazioni di carattere un po’ empirico, l’autore mira a sottolineare cui prestigio del resto si estende pericolosamente dino ai sottoprodotti più degradati, fino ai giornali e alla pubblicità.” (Ivi, pp. 183-184) 309 Ivi, p. 184. 310 (Ibidem.) Si propaga da qui, e vi torneremo a più riprese, quella distinzione fondamentale per l’autore tra significato ed espressione che lui stesso specifica a proposito di questi temi in una nota in cui sottolinea tra l’altro come tale distinzione sia parallela a quella proposta da Souriau tra esistenza reica ed esistenza trascendente. 311 Ivi, p. 185. 312 Cfr ivi pp. 186 e segg. 123 un particolare aspetto relativo all’oggetto estetico e, di riflesso, al mondo dell’arte come a quello della vita: “L’oggetto estetico non dimostra, mostra”313. L’arte significante non imita e la sua verità non è in alcun modo rintracciabile nella verosimiglianza. “Quell’oggetto irreale che vi è rappresentato non intende essere una copia del reale, il cui valore sia proporzionale all’esattezza.”314 È qui evidente il rimando a diversi contributi merleaupontiani. In particolare, è noto il passo in cui l’esclusione artistica di una pratica rappresentativa viene formalizzata: Nessuna pittura valida è mai consistita nella semplice rappresentazione. […] la concezione moderna della pittura come espressione creatrice è stata una novità molto più per il pubblico che per i pittori stessi i quali l’hanno sempre praticata 315 anche se non ne facevano la teoria. Merleau-Ponty prende netta distanza dal concetto di rappresentazione, formalizzando esplicitamente una precisa critica della Vorstellung316. L’artista manifesta ciò che secondo il filosofo ogni uomo fa in senso lato: non mira a rappresentarsi un’idea, un’immagine, che rispecchi la realtà, ma tende a ricreare questa stessa realtà come egli stesso la vive, riconfigurandola dal suo proprio punto di vista vissuto. Per questo motivo, davanti a una tela nessuno spettatore vedrà solamente l’evocazione di una donna, o di un mestiere, né di un comportamento, neppure di una ‘concezione della vita’ (quella del modello o 313 Ibidem. M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthetique, cit. p. 188. 315 M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 74, corsivo mio. 316 Il rifiuto di una coscienza di tipo rappresentazionale in Merleau-Ponty è radicale. A questo proposito è significativa una nota di lavoro che segue l’edizione italiana de Il visibile e l’invisibile, datata Maggio 1960: “Generalizzare la critica del quadro visivo in critica della Vorstellung. Infatti la critica del quadro visivo non è critica del realismo, o dell’idealismo (sinossi) solamente – è essenzialmente critica del senso d’essere dato da entrambi alla cosa e al mondo. Vale a dire il senso d’essere In sé (in sé non riferito all’unica fonte del suo senso: la distanza, lo scarto, la trascendenza, la carne) orbene, se questa è la critica del quadro visivo, essa si generalizza in critica della Vorstellung. […] Ciò che io intendo fare è restituire il mondo come senso d’essere assolutamente diverso dal ‘rappresentato’, cioè come l’Essere verticale che nessuna delle ‘rappresentazioni’ esaurisce e che tutte raggiungono, l’Essere selvaggio.” (Il visibile e l’invisibile, cit., p. 265.) Su tale rifiuto di Merleau-Ponty si veda R. Bernet, The phenomenon of the gaze in Merleau-Ponty and Lacan, in “Chiasmi International” n. 1, 1999, pp. 105-118. 314 124 quella del pittore), ma di un modo tipico di abitare il mondo e di trattarlo, infine 317 di significarlo. Lo stesso autore che Dufrenne cita a questo proposito è dialogo implicito con Merleau-Ponty. Il riferimento è infatti a Malraux, quello stesso Malraux, che MerleauPonty assume spesso come obiettivo polemico prendendo le distanze dalla sua idea secondo cui il movimento della pittura moderna in generale rappresenterebbe un ritorno all’individualismo, e che fornisce tuttavia al filosofo una definizione che egli trova largamente condivisibile nel definire lo stile: “deformazione coerente”. Benché per Malraux ciò significasse la volontà dell’artista di trovare e utilizzare un linguaggio strettamente personale, visto attraverso la lente degli scritti husserliani con MerleauPonty il concetto viene ricondotto al modo naturale che ogni uomo possiede, e ogni artista manifesta con particolare evidenza, di esprimersi utilizzando il proprio corpo, i propri gesti, il proprio comportamento quale struttura intima e significante di per sé. Il riferimento a Malraux con Dufrenne si sposta leggermente, ma la direzione resta la medesima. Il Malraux citato in questo caso è infatti quello che raccomanda allo spettatore di “non giudicare l’opera come se fosse un qualsiasi oggetto significante, confrontare l’oggetto rappresentato con l’oggetto reale per denunciarne o rettificarne le infedeltà, insomma voltare le spalle all’oggetto estetico per evocare quell’oggetto reale.”318 Quello che il confronto portato avanti da Dufrenne mira a sottolineare e ribadire è infatti che “l’oggetto estetico non è l’organo di un sapere, e neppure il surrogato di un originale”319 perché “l’oggetto estetico non è un segno che rimandi ad altro che a se stesso”320. Non si mira a negare e annichilire ogni forma di significazione interna all’oggetto estetico, al contrario, si punta a comprendere come a tale significazione sia estranea l’imitazione, da parte dell’oggetto rappresentato, di un oggetto o fatto mondano. Il 317 La prosa del mondo, cit., p. 78, corsivo mio. Abbiamo già incontrato nel primo capitolo l’idea di un significato esistenziale, sotteso e precedente quello concettuale, che si può riconoscere in ogni atto di espressione, linguistica ma non solo. 318 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 188. 319 Ibidem. 320 E ancora: “Un ritratto, somigliante o meno, è un oggetto estetico solo quando cessa di essere un ritratto – l’equivalente di ciò che è oggi per noi una fotografia: quando non sono tentato di evocare un modello, e l’oggetto dipinto mi sembra necessariamente determinato dalla pittura, quando davanti al Cartesio di Franz Hals invece di pensare a Cartesio penso ad Hals, o piuttosto sono sul suo stesso piano.” (Ibidem.) 125 significato dell’oggetto estetico si esaurisce nel fatto che qualcosa sia rappresentato o proferito, anche se questo qualcosa come nel caso dell’arte astratta non possa essere identificato. Certo però, l’opera ha sempre un soggetto. Soggetto che, non essendo la cosa principale che attiri la nostra attenzione né esiga l’imitazione del reale, deve forse essere identificato come il mezzo di un’altra significazione e, per se stesso, forse soltanto un simbolo. È questa la domanda in cui si sintetizza questo passaggio del percorso Dufrenniano e che adombra già non solo le sue conclusioni ma una serie di conseguenze che rimbalzano, insieme alla domanda, sul problema di come quell’apparente disprezzo delle apparenze possa ancora significare. Tornando sul confronto tra oggetto estetico e oggetto significante e sulla loro sovrapposizione fino all’identità in determinate epoche, Dufrenne indica nel sacro quel significare cui l’oggetto in questione rimanda. L’oggetto estetico, che l’autore legge come sacro prima che come opera d’arte, esprime innanzitutto “quella verità che non sta nelle apparenze insignificanti del mondo quotidiano, ma nelle grandi forze cosmiche che lo attraversano, negli eventi esemplari che il mito racconta e la festa ripete, in ciò che dà un senso alle apparenze invece che riceverlo da queste.”321 Nell’opera d’arte allora si traduce la percezione che l’individuo ha del mondo, quella percezione che attraverso le apparenze “frammentarie e insignificanti” sa riscoprire forze cosmiche e vitali. Una prima conseguenza di questa lettura, molto poetica e suggestiva, implica che il significato delle arti selvagge sia innanzitutto mistico, ben più che estetico, e che, di conseguenza, l’opera non tenda a divenire oggetto estetico bensì lo diventi suo malgrado. Vi è una densa attenzione antropologica che agisce qui, sullo sfondo di questo discorso. Quando dice che l’oggetto estetico è tale in quanto è percepito, infatti, Dufrenne dice più di quanto sembri. La presenza, come abbiamo visto sopra, è certo conditio sine qua non dell’emergere, dell’apparire dell’oggetto estetico, ma prima ancora che l’oggetto estetico possa apparire, affinché esso possa esistere, deve sparire l’oggetto sacro. Il vaso, la maschera e il bronzo del museo aprono la strada alla tela e al quadro dei nostri artisti proprio per il loro essere nel museo; per il fatto stesso che, guardandoli, non si partecipa più in alcun modo alla fede che li fece nascere. “È allora che l’opera d’arte 321 Ivi, p. 189. 126 subisce ‘la sua metamorfosi’: cessa di essere simbolo per divenire oggetto estetico.”322 Situazione ambigua: celebra il trionfo dell’oggetto estetico, e con esso del nostro rapporto all’arte e infine al mondo, mentre constata quasi con rassegnazione la fine di un altro tipo di rapporto all’arte e infine al mondo.323 Da una parte, dunque, l’oggetto estetico è figlio di una forma di morte, è sedimentazione di un significato nel mezzo di una globale “indifferenza ai significati”.324 Ma tale indifferenza ai significati non rappresenta sempre uno sbocco morto; è proprio su questo sfondo, infatti, che l’opera come noi la conosciamo può divenire oggetto estetico. Vi è una forma di crescita progressiva in questa sorta di “perdita dell’ingenuità” che sottrae alla religione ogni ruolo estetico per affidarlo invece, esclusivamente, all’oggetto. Oggetto che non perde, ma muta, il suo potere di significare. Il timpano di Autun, per seguire l’esempio dell’autore, può forse perdere per noi la sua funzione didattica, ma come oggetto estetico, precipitato di una forma d’arte passata, esercita comunque un suo potere. Potere che si tratta, allora, di mettere a fuoco. Si torna a ribadire quindi l’indifferenza del soggetto dell’opera, poiché è il soggetto stesso a parlarci “e per il modo in cui è trattato”.325 322 Ibidem. Teniamo presente, e ci sarà utile, il passo che Merleau-Ponty dedica al museo e ai significati che in esso vanno in campo: “Sotto questo profilo, la funzione del Museo, come quella della biblioteca, non è completamente benefica. Il Museo ci dà modo di vedere insieme, come momenti di un unico sforzo, produzioni che giacevano nel mondo, immerse nei culti o nelle civiltà di cui volevano essere l’ornamento: in questo senso esso fonda la nostra coscienza della pittura come pittura. Ma quest’ultima risiede anzitutto in ogni pittore che lavora, e vi risiede allo stato puro, mentre il Museo la compromette con i cupi piaceri della retrospezione. […] Sentiamo bene che si perde qualcosa e che questo raccoglimento da necropoli non è il vero ambiente dell’arte, che tante gioie e sofferenze, tanta collera, tanto lavoro non erano destinati a riflettere un giorno la trista luce del Museo. […] Mentre in ogni pittore lo stile viveva come la pulsazione del suo cuore e lo rendeva appunto capace di riconoscere ogni sforzo come diverso dal suo, il Museo riconverte questa storicità segreta, pudica, non deliberata, involontaria, insomma vivente, in una storia ufficiale e sfarzosa. […] Il Museo fa sì che i pittori divengano per noi misteriosi, come le piovre o le aragoste. Queste opere che nacquero nel calore di una vita, esso le trasforma in prodigi di un altro mondo, e il respiro che le animava non è più, nell’atmosfera pensosa del Museo e sotto la protezione dei suoi vetri, se non un debole palpito della superficie. Il Museo uccide la veemenza della pittura come la biblioteca, diceva Sartre, trasforma in ‘messaggi’ quegli scritti che originariamente furono i gesti di un uomo. Esso è storicità di morte; e c’è una storicità di vita, di cui il Museo ci dà solo l’immagine decaduta: quella che risiede nel pittore al lavoro, quando egli congiunge con un unico gesto la tradizione che riprende e quella che fonda, quella che d’un sol tratto lo unisce a tutto ciò che è stato dipinto nel mondo, senza che egli debba lasciare il suo posto, il suo tempo, il suo lavoro benedetto e maledetto, e che riconcilia le pitture in quanto ciascuna di esse esprime l’esistenza intera, in quanto sono tutte riuscite – invece di riconciliarle perché sono tutte finite e come altrettanti gesti vani.” (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., pp. 90-91.) 324 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 191. 325 Ibidem. 323 127 Continuando nel confronto iniziale tra oggetto estetico e oggetto significante, si può così cogliere come per entrambi il soggetto sia centrale ma anche come per il primo, a differenza di quanto accade per l’altro, esso sia centrale non in sé ma per come viene trattato. In questo caso, infatti, detto in altre parole, il soggetto è un ingrediente inevitabile dell’opera ma non tanto per se stesso quanto “per la forma che gli è data e grazie alla quale diventa espressione”.326 Il significato in questo caso non rimanda più a nulla di esterno: esso, al contrario, è immanente al significante. In questo modo si distingue anche, nuovamente, la percezione ordinaria, che cerca il senso del dato oltre il dato, da quella estetica. “L’oggetto estetico trasmette il proprio senso soltanto a condizione che, invece di attraversare il dato, la percezione vi si fermi; non tollera che se ne stacchi.”327 Nell’oggetto estetico è all’opera una forma di significazione primordiale che si può concepire come luogo trascendentale dell’unità tra significato e significante, il punto di emergenza stesso della loro differenza che si configurerà solo in un secondo momento come significativa328. La relazione che intercorre in questa prospettiva tra i due elementi riconducibili al significato e al significante può essere descritta in analogia a quella che regola la semeiotica medica. Sotto questa luce, infatti, il sintomo si presenta come segno della malattia solo nel momento stesso in cui anch’essa sorge. Si presentano insieme, passibili di differenziazione solo alla forza di uno sguardo astraente e successivo. Il sintomo non designa la malattia, esso la è, accade simultaneamente con lei e sun piptein, in effetti, cadere insieme, è proprio il contenuto della più semplice considerazione etimologica. Con maggiore coerenza si può parlare di semiosi affettiva, interpretando l’oggetto estetico come avente un significato, precisamente come espressione di un contenuto, 326 “Non è espressivo il Giudizio universale descritto da un libro di teologia, ma lo è il Giudizio universale scolpito da Gislebert, non la malattia descritta da un manuale di patologia, ma la malattia trasporta nella mimica di una danza selvaggia.” (Ibidem.) 327 Ivi, p. 194. 328 La consapevolezza sottesa a questa prospettiva è basilare tanto nella filosofia di Merleau-Ponty quanto in quella di Dufrenne. Indagare alla sua origine il fenomeno del significato, espresso in arte o in altra forma, implica privarsi di ogni significazione già istituita. Trascurare il punto di emergenza del significato equivarrebbe a non comprendere nessuna creazione, nessuna cultura, rimanendo ancorati alla supposizione di un mondo “intelligibile dove tutto sia in anticipo significato”. (Cfr. M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 76.) 128 che ad esso e solo ad esso pertiene. “E in effetti il significato non ha esistenza autonoma; esiste solo mediante l’oggetto estetico che lo rivela, non gli preesiste”.329 In questo modo, in un certo senso, l’oggetto estetico dice qualcosa e proprio su questo dire torna a interrogarsi Dufrenne puntando sull’oggetto estetico come linguaggio,330 poiché nelle sue modalità e nel suo schema di procedimento, così come nelle sue molteplici possibilità di essere inteso, si radica tutto il suo significato. Non solo. Proprio l’analisi dell’oggetto estetico in relazione al linguaggio consente di giungere ad alcune conclusioni salienti che dall’oggetto estetico permettono di esulare per illuminare meglio l’immagine dell’uomo di Dufrenne e, con essa, il suo rapporto al mondo. Il linguaggio viene infatti descritto in analogia con l’uomo stesso: “che vive identificandosi con il proprio corpo, e inaugura il pensiero desolidarizzandosi dal corpo senza potergli mai sfuggire, il linguaggio è diviso tra il monismo in cui si radica e il dualismo in cui rischia di abolirsi portandosi a compimento.”331 L’equilibrio possibile è allora sempre un equilibrio instabile, “tra l’essere del gesto, attraverso il quale diventa espressivo, e l’essere del verbo, attraverso il quale diventa razionale”332. La lettura dell’umano che sottende questa descrizione si rivela con efficacia in termini di apertura e contrasto. La stessa apertura e lo stesso contrasto che reggono la percezione come soglia di apertura dell’umano e suo accesso al mondo; radicata in un monismo di cui il solo soggetto è portatore e però sempre nuovamente dispersa e passibile della frammentazione e della lacerazione che l’attività razionale, con astrazione successiva, può apportare. È la stessa divisione che sussiste tra l’indifferenziato della carne e il sempre individuato della ragione; la stessa distanza che si legge, e Dufrenne lo esplicita, tra natura e spirito.333 Di tale distanza si comprende l’ampiezza: essa riguarda ancora la 329 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 194. “Ogni oggetto, infatti, è in un certo senso un linguaggio; e inversamente il linguaggio è una specie di oggetto.” (Ivi, p. 196) 331 Ibidem. 332 Ibidem. 333 Il riferimento, che Dufrenne esplicita in una nota, è alle Recherches sur la nature et le fonctions du langage di B. Parain in cui l’autore “sembra partire dalla constatazione che l’origine del linguaggio ci è nascosta; a questo punto non possiamo risolvere il problema della denominazione, né essere certi che le parole abbiano un qualche avvallo, sia una cosa singola di cui costituiscono il segno naturale, sia un’essenza intelligibile di cui costituiscano il segno convenzionale. Ma se questo problema resta in sospeso, c’è un’altra funzione del linguaggio, la cui dimostrazione il cui esame ci conduce non più verso l’inafferrabile principio ma verso il fine del liguaggio. (…) Il linguaggio è allora un programma, un 330 129 funzione del linguaggio. Funzione che è ambigua, potendo implicare tanto un ruolo espressivo quanto uno significante: Significante in quanto racchiude un significato oggettivo che in qualche modo ad essa è esterno e richiede l’uso dell’intelletto, espressiva in quanto porta in sé un significato immanente che trascende il senso oggettivo colto dall’intelletto; la parola è segno e più che segno, dice e contemporaneamente mostra, e ciò che mostra è diverso da ciò che dice.334 Su tale duplice possibilità di funzionare che caratterizza il linguaggio è bene insistere: grazie ad essa, e alle analogie e differenze che Dufrenne indica rispetto al funzionamento espressivo dell’oggetto estetico, si renderanno chiari tanto alcuni nodi problematici fondamentali insieme ad alcune delle linee teoriche essenziali. Una delle caratteristiche principali del linguaggio, così come lo descrive Dufrenne, è quella di essere “strumento razionale”, riguardante cioè una forma di comunicazione e di azione che sa e vuole stabilirsi al livello del pensiero: “e il pensiero può prendere coscienza di sé solo facendo del linguaggio un mezzo e non un fine”335. Questa esplicitazione del carattere razionale del linguaggio e della significazione che lo abita non è secondaria rendendo possibile, per differenza, l’attribuzione di un carattere che sia altro dal razionale a qualcosa che sia altro dal linguaggio. Come vedremo, infatti, l’indagine generale riguarda proprio, e in misura che non è possibile ignorare, le condizioni di possibilità della razionalità stessa come schema di interpretazione del mondo, come base dell’atteggiamento scientifico nonché di quello ingenuo. Oltre a quella che è comunemente indicata come razionalità, e forse prima di essa, vi è infatti l’oggetto della ricerca di Dufrenne. Oggetto di cui non si può dare per scontata l’esistenza. Del linguaggio allora si può e si deve dire anche che oltre al dominio della razionalità appartiene a quello “del pensiero o dell’azione”. E pensiero e azione, come conoscenza e pratica, sono proprio quegli atteggiamenti al di là dei quali si gioca il ordine o una promessa: esprime il possibile e non il reale, un possibile da realizzarsi. Di qui l’idea di una teoria espressionista del linguaggio.” (Ibidem, n.) 334 Ivi, p. 196. 335 Ivi, p. 197. 130 gioco dell’estetizzazione; quegli atteggiamenti la cui riduzione è forse la condizione necessaria per accedere al piano estetico e fungente, o anche espressivo, stilitistico, sinestesico, dell’esistenza. All’interno del linguaggio, inteso come trasmissione di significati, agisce un senso che è sempre presupposto, che può essere oggettivo solo a patto di essergli anche immanente. Ma al linguaggio Dufrenne, che ancora una volta ricalca e cita MerleauPonty aderendovi in parte tanto da darne alcuni presupposti per scontati, riconosce la possibilità anche di un’altra caratteristica. Quella che Merleau-Ponty chiama “parola originaria” è la figura che esplicita come ogni linguaggio possa, e Dufrenne significativamente dice “divenendo estetico”, proporre un senso che sia diretta secrezione del segno. Il linguaggio può, cioè, portare con sé il proprio senso nell’attimo stesso in cui si manifesta, senza tradurre necessariamente un’idea preesistente né supporre una comunicazione già realizzata tra gli interlocutori. La prima parola di cui Merleau-Ponty si serviva, metaforicamente ma non troppo, è quella parola lanciata “senza sapere se essa potrà essere altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di vita individuale in cui nasce e presentare (…) l’esistenza indipendente di un senso identificabile”336. A questa dimensione del linguaggio precedente la sua stessa formalizzazione punta anche la descrizione dell’oggetto estetico di Dufrenne. Ma prima di giungervi l’autore indugia su un’altra caratteristica dell’espressività del linguaggio, che è quella di essere all’interno di una relazione tra un io e un tu. Il linguaggio, nel suo essere espressivo, non porta alla presenza solo un senso nuovo ma manifesta anche il soggetto. Esso “è un gesto di cui leggo il senso e che mi indica le intenzioni di chi mi parla, non è soltanto il mezzo per comunicare un’idea con la scelta stessa delle parole, ma il mezzo per darsi.”337 Quando Dufrenne pensa alla parola “a partire dal gesto” sta ovviamente ricalcando, con la consapevolezza di utilizzare uno strumento acuto, la distinzione merleaupontiana338 tra parola parlante e parola parlata. Parola parlante è per definizione quella “nella quale l’intenzione significante si trova allo stato 336 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, in Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 32. M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 199. 338 Distinzione teorica funzionale formalizzata all’interno della Fenomenologia della percezione, là dove si affronta il tema del corpo come espressione insieme alla parola e ripresa più tardi ne La prosa del mondo, ed. it. Editori Riuniti, Roma 1984. 337 131 nascente”339, che spezza il silenzio primordiale. Al contrario, la parola parlata “fruisce dei significati disponibili come di un patrimonio acquisito”340, è “il linguaggio successivo, quello che è acquisito e che svanisce davanti al significato di cui è diventato portatore”.341 È densamente significativo a tale proposito un passo presente in Sulla fenomenologia del linguaggio342 con cui Dufrenne sembra esplicitamente volere dialogare: Le parole, le costruzioni necessarie per portare all’espressione la mia intenzione significativa, si presentano alla mia mente, quando parlo, solo in virtù di ciò che Humboldt chiamava innere Sprachform (e che i moderni chiamano Wortbegriff), ossia in virtù di un certo stile di parola da cui essi sorgono e secondo il quale si organizzano senza che io abbia bisogno di rappresentarmeli. C’è una significazione “langagière” del linguaggio che opera la mediazione tra la mia intenzione ancor muta e le parole, cosicché le mie parole sorprendono me stesso e mi insegnano il mio pensiero. I segni organizzati hanno il loro senso immanente che non deriva dall’“io penso” ma dall’“io posso”. Questa azione a distanza del linguaggio, che raggiunge le significazioni senza toccarle, questa eloquenza che le indica in modo perentorio, senza mai tramutarle in parole e senza far cessare il silenzio della coscienza, sono un caso eminente 343 dell’intenzionalità corporea. L’atto linguistico è rigorosamente ricondotto sotto, senza però certo essere ridotto a, il movimento intenzionale del corpo, quella espressività generale che nell’apertura estetica corporea trova il primo assoluto luogo di fondazione. L’analisi del fatto linguistico porta in evidenza un significato esistenziale sotteso a quello concettuale che si può e si deve riconoscere al parlare. La parola in questo senso si configura come “l’eccedere della nostra esistenza sull’essere naturale”344. E questa è la chiave interpretativa fondamentale, la 339 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 269. Ibidem. 341 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 38. 342 Comunicazione fatta a Bruxelles il 13 aprile 1951 in occasione del Primo Colloquio Internazionale di Fenomenologia, pubblicata per la prima volta in Problèmes actuels de la Phénoménologie nel 1952, ora pubblicato in Segni, cit. pp. 117-134. 343 Ivi, p. 122. 344 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 269. 340 132 consapevolezza che, al di là di ogni possibile e forse legittima obiezione345, permette in ogni caso un’impostazione che resta valida. Vitale si rivela infatti la messa in luce dell’atto linguistico, e con esso di ogni possibile atto espressivo, come infinita apertura creatrice, non fedele traduzione da affiancare o sovrapporre a sostrati sempre presenti e di incerta provenienza. Paragonabile a un gesto, la parola ha con ciò che esprime lo stesso rapporto che lega il nostro corpo con l’oggetto cui tendiamo, intenzionato in modo implicito senza che alcuna rappresentazione di noi stessi e dell’ambiente sia richiesta346. “La significazione anima la parola come il mondo anima il corpo: mediante una presenza sorda, che suscita le mie intenzioni senza dispiegarsi di fronte ad esse”347. L’azione delle parole si attua nel loro essere attirate a distanza dal pensiero “come le maree dalla luna”348, in un potere evocativo che va oltre il richiamo di una significazione da parte di un “indice indifferente e predestinato”349. In questo senso il predicato più forte del linguaggio è quello di essere “obliquo e autonomo”350 in un processo espressivo che non si regola su un sostrato testuale predefinito.351 Dufrenne raccoglie con particolare attenzione l’indicazione del linguaggio espressivo come qualcosa di non condannato ad aderire a componenti oggettive predefinite; gli interessa la possibile immediatezza e spontaneità della comprensione che si attua in questo caso, il suo carattere non predicativo né grammaticale. L’elemento cui queste caratteristiche introducono, infatti, con la sua potenza e le sue difficoltà, è rappresentato da “ciò che viene comunemente chiamato sentimento”352. Sentimento che, a sua volta, incarna 345 Vale a titolo di esempio l’osservazione di L. Fontaine-De Visscher: “la parola, essendo il suo proprio eccesso, può provenire solo dalla parola, e non da una non-parola, che sarebbe Significato puro e che al limite escluderebbe ogni significante come inessenziale” (L. Fontaine-De Visscher, Phénomène ou structure? Essai sur le language chez Merleau-Ponty, Publications des Facultés Universitaires SaintLuois, Bruxelles 1974, cit. in M. Carbone, Ai confine dell’esprimibile, Guerini Studio, Milano 1990, p. 61.) 346 Cfr M. Merleau-Ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio, cit, p. 122. 347 Ivi, p. 123. 348 Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, in Segni, cit., p. 69. 349 Ibidem. 350 Ivi, p. 70. 351 “La parola opera sempre su uno sfondo di parola, non è mai altro che una piega nell’immenso tessuto del parlare. Per comprenderla non dobbiamo consultare qualche lessico interiore che ci dia, per i vocaboli o le forme, i pensieri puri a cui essi corrisponderebbero: basta che ci offriamo alla sua vita, al suo movimento di differenziazione o di articolazione, alla sua eloquente gesticolazione”. (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, cit., p. 69) 352 M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 201. 133 quell’area problematica la cui descrizione sfugge la rigidità delle categorie eppure impone assoluta attenzione e massima cautela. Nelle parole di Dufrenne, sentimento è “precisamente un certo modo di essere al mondo, d’istituire con esso una certa relazione, di scoprirne un volto e vivervi certe emozioni; appunto nei sentimenti si elabora il rapporto originale di un essere col mondo e si manifesta l’inafferrabile spontaneità del per-sé”353. Emerge così in modo preciso come sia un fondo affettivo e sentimentale ad alimentare e precedere, secondo Dufrenne, le categorizzazioni e predicazioni che avvengono nel linguaggio, quindi nella pratica, quindi nella ragione. Categorizzazioni e predicazioni la cui natura si caratterizza pertanto all’interno di una prospettiva fortemente antropologica che si pone al confine, mai definitivamente delimitato, con le regioni -e i problemi- dell’ontologia. Qui il sentimento agisce in un duplice senso. Innanzitutto rivela l’azione di un per-sé a cui resta estraneo ogni solipsismo. Proprio il potere espressivo, infatti, con il sentimento su cui fa leva, rivela il senso di un comportamento costitutivamente aperto all’altro; rivela il potere di un per-sé che è anche, sempre e costitutivamente, un per-altri. In secondo luogo, nell’oggetto dell’espressione, quindi nel sentimento, si rende visibile e presente ciò che l’esperienza comune costantemente nasconde: “ciò che è senza concetto”354. Poiché soltanto dell’oggetto c’è concetto, dove è in causa un soggetto, almeno quando si tratti dell’atto fondamentale per cui è soggetto, e cioè della sua relazione più spontanea con il mondo, il concetto è inoperante.”355 Il linguaggio diventa allora quell’apertura attraverso la quale è possibile scorgere, seppur sempre di sfuggita, il luogo primario ove l’adesione al mondo è totale e spontanea, disarticolata e assoluta. Questo ci rimanda coerentemente al pensiero dello stile, sul quale dovremo tornare. Inoltre, questa descrizione del linguaggio implica una seconda conseguenza teorica: quella che spinge a comprendere come l’apertura del linguaggio implichi l’ingresso de soggetto non solo in uno stato di cose relazionale e razionale, ma anche in un contesto pratico. Quindi etico. Nominare l’oggetto, infatti, non significa solo invocarlo, ma anche “farlo entrare nel regno della 353 Ibidem. Ibidem. 355 Ibidem. 354 134 ragione; parlare è impegnarsi – se stessi e l’altro – a sottomettersi alle esigenze formali e anche etiche del pensiero.”356 La dimensione relazionale-razionale del linguaggio esprime con precisione le caratteristiche dell’agire umano, proprio quelle caratteristiche a monte delle quali Dufrenne spinge ad indagare. La razionalità, infatti, condivide il campo con una forma di frattura, che nel caso del linguaggio Dufrenne configura come “frattura semantica”, in virtù della quale esiste la possibilità di riflessione stessa. Una forma di separazione che consente il confronto. La descrizione dell’espressività del linguaggio punta invece l’attenzione su un’altra possibilità sempre sottesa all’esperienza: quella di cogliere la presenza del mondo proprio come presenza, che a sua volta non richiede sempre e per forza che si metta in gioco il potere di giudicare né le regole del giudizio. In questo modo, anche la verità sottesa al discorso si riconfigura in termini non predicativi; si riconfigura come verità nella e della presenza, non ancora umanizzata perciò non ancora soggetta alla ragione con le sue dicotomie. L’esempio cui ricorre Dufrenne è quello della diversa reazione che, di fronte a un bel paesaggio, avranno un uomo qualunque e un artista. Il primo ricorrerà al linguaggio, come forma di conversione di “un’impressione eloquente ma informe in un’impressione lucida e legittima”; sentirà infatti l’esigenza di articolare il proprio pensiero, per comprenderlo lui stesso oltre che condividerlo. L’artista, al contrario, volendo “perpetuare il mistero dell’oggetto, non chiarirlo”357 prenderà i pennelli e inizierà a dipingere, lasciando che il paesaggio e la cosa dipinta coincidano in pieno e che il loro senso resti opaco quanto intenso. Non è naturalmente casuale che l’opposizione riguardi il fare artistico e quello comune: vedremo infatti come sia proprio l’arte la dimensione dell’umano che, nella meditazione del filosofo francese, meglio rende visibile il rapporto originario ed espressivo al mondo. Tornando però all’espressività del linguaggio, e alla sua utilità descrittiva, troviamo nuovamente sottolineata l’assenza dell’universo della ragione dal momento espressivo. Naturalmente, Dufrenne non sta questionando la possibilità della ragione né mettendone 356 357 Ivi, p. 202. Ibidem. 135 in dubbio l’importanza. Il suo è piuttosto un discorso che mira a ricollocarsi nella prospettiva fenomenologica che Merleau-Ponty gli ha indicato. La fenomenologia descritta da Merleau-Ponty che qui si ripercorre è infatti: Una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro “fattività”. È una filosofia trascendentale che pone fra parentesi, per comprenderle, le affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre “già là” prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico.358 È questa la base teorica di tutto il meditare di Dufrenne, lente attraverso la quale è possibile seguirne il percorso. Si spiega in questi termini, allora, anche l’interesse dell’autore nei confronti del linguaggio come luogo in cui si manifesta il sorgere di una razionalità che non è sempre là, che non è se non in seguito a una fertile rottura. Riconoscere l’espressività del linguaggio implica riconoscergli il potere, non certo metafisico ma molto umano, di esprimere un oggetto nel momento stesso in cui l’uomo si esprime in esso ed, esprimendosi, gli conferisce “il potere di significare, e forse di significare un senso nuovo”.359 Il senso ed il pensiero sono quindi da ricomprendere nel loro sorgere e fondarsi a partire da quello che letteralmente è un “incanto” nell’espressione: un luogo in cui, come nella magia, i rapporti di causa ed effetto, le predicazioni e le previsioni non sono ammissibili. È quindi a partire dall’espressione, e Dufrenne tiene a sottolinearlo proprio perché applicandolo poi all’oggetto estetico questa notazione gli sarà particolarmente utile, e a partire dal suo essere indifferenziato che il linguaggio trova il proprio fondamento e il segno il proprio senso. E la condizione perché questo accada, perché l’epressione possa incarnarsi – dire verificarsi sarebbe troppo ambiguo – è il fatto che in essa si manifesta un soggetto. Al soggetto, umano e individuale, si riconosce così un ruolo cardine, in lui si riconosce la condizione di possibilità di ogni apparire di senso interno al linguaggio e 358 359 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 15. M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 205. 136 esterno nella comunicazione. E abbiamo visto come il terreno umano da cui questa dinamica attinge sia il sentimento, grazie al quale descrittivamente ma anche operativamente è possibile cogliere e vivere quella fondamentale adesione spontanea al mondo. Proprio in questa non discorsiva ma affettiva partecipazione con le cose nella quale si fonda ogni potenzialità espressiva trova il proprio ancoraggio il concetto di stile sul quale più avanti torneremo e che ci aiuterà a comprendere meglio il delicato rapporto tra “ciò che è senza concetto” e gli oggetti con cui comunemente operiamo, sempre nella pratica e sempre nel concetto. Servendosi delle conclusioni cui giunge la sua analisi del linguaggio, Dufrenne può così passare all’oggetto estetico, alla sua virtù espressiva con le implicazioni teoriche cui il suo stesso riconoscimento conduce. Nell’oggetto estetico, infatti, si verifica quello che la descrizione del linguaggio ha visto accadere nel momento della parola originale, “che al tempo stesso desta un sentimento e scongiura una presenza, più che recarci un senso concettuale.”360 L’oggetto estetico nella lettura di Dufrenne, è quello che, più di ogni altro, è in grado di abitare quel terreno su cui la concettualizzazione non attecchisce. Terreno caratterizzato, invece, da una dimensione estetica che riguarda anche i segni e i sensi che lo abitano. Quando si tratti di una poesia, tale dimensione estetica riguarda le parole che la compongono, “quelle accozzaglie di parole” insolite solo per l’intelletto che “non dubitiamo che dicano qualche cosa che essi soli possono dire, in modo incalzante”.361 Meno poetico, meno empirico e più pregnante è però l’oggetto estetico del quale l’espressività venga descritta in modo più generale. In esso, non soltanto nel linguaggio della poesia, ma nell’atteggiamento della ballerina, nella curva della melodia come nella sagoma di una colonna, infatti, se qualcosa si dice si dice in un modo che “non può tradursi in termini di mondo”362, o se non altro non nei termini del mondo che siamo abituati a frequentare. L’espressività dell’oggetto estetico, letta in termini di trasmissione di un senso la cui comprensione non può avvenire sotto la lente dell’intelletto, è un’espressività che, come abbiamo ripetuto, rimanda a un fungere 360 Ivi, p. 206. Ibidem. 362 Ivi, p. 207. 361 137 estetico e sentimentale. Ma soprattutto, rimanda alla componente di apertura e relativo inserimento di un senso nuovo che tale fungere dischiude. Questo ha ripercussioni importanti sul rapporto tra l’oggetto estetico e la verità le quali, a loro volta, non sono indifferenti alla descrizione del problema della verità nel quadro più generale della vita e della filosofia. Quella che l’oggetto estetico mette in campo, nella sua lettura di oggetto espressivo, quindi creatore di un senso che solo in esso e per la prima volta si manifesta, è la possibilità che il vero, il reale dunque l’oggetto su cui basiamo le nostre pratiche e conoscenze, non sia quell’indubitabile e unitario essere con cui la scienza crede di confrontarsi. È la possibilità che ogni reale sia attraversato in filigrana dal mondo del possibile, altrettanto meritevole di attenzione e dignità filosofica. Tutto ciò che è nell’oggetto estetico, infatti, non richiede – né avrebbe senso farlo – di essere messo in relazione con dimensioni e comportamenti oggettivi. A tutto ciò che vi si trova non si può chiedere che rimandi a una storia reale, esso “è vero soltanto in un mondo che lui stesso mi apre”.363 La sua stessa espressività, parallelamente a quella del linguaggio, implica la sua potenziale creatività; il suo potere fondativo e inaugurale, il suo essere apertura e passaggio. Del reale, di quel mondo là fuori, l’oggetto estetico semplicemente non fa parte. Il suo mondo appartiene a lui e a lui solo, “e al di là c’è soltanto il reale da cui l’oggetto estetico è assente”364. È evidente che riferirsi al reale accompagnandolo con soltanto è scelta lessicale non neutra. Vi si rivela infatti, di nuovo, quel pensiero che respinge la totale adesione di vero e reale in favore di una più sfumata e ricca articolazione di tale rapporto. L’oggetto estetico, e il mondo che intorno ad esso si apre, è abitato dalla propria verità cui espressivamente egli stesso dà vita; verità che è più vicina al dominio del sentimento, quindi a quello della vita, che al dominio del pensiero e della ratio. Preme a questo punto eivtare, e Dufrenne non manca di rimarcarlo, un possibile grave equivoco. Insistere sull’espressione dell’oggetto estetico suggerendone il legame con il sentimento non implica in alcun modo metterlo in relazione con l’emozione. “È importante non confondere emozione e sentimento, commovente ed espressivo.”365 Il 363 Ibidem. Ibidem. 365 Ivi, p. 208. 364 138 rapporto che il vero oggetto estetico, “l’arte vera”366, instaura con il corpo non è “compiacente”, “non è per lusingarlo ma per convincerlo.”367 Tale convincimento, affine ma differente da quello che la ragione ottiene dal reale, appartiene al mondo della conoscenza, nella misura in cui quel mondo cui l’espressività dell’oggetto estetico introduce è in qualche modo conoscibile. Ma in quest’ambito la conoscenza si ritrova collocata su un binario separato. Di fronte all’oggetto estetico “il sentimento che (esso) desta è un mezzo di conoscere quel mondo, uno strumento di conoscenza”, diverso quindi dall’emozione, che è solo “un mezzo di difesa e il segno di uno sconvolgimento.”368 L’oggetto estetico, che Dufrenne volentieri assimila all’arte, può essere significante solo a condizione di essere espressivo: quindi in grado di creare e scoprire da sé quei nuovi significati che saprà poi trasmettere. Esso, infatti, come la parola quando è espressiva, reca in sé la cosa e il suo senso, portandoli a una presenza che dobbiamo dire affettiva. “L’arte”, infatti, “non rappresenta veramente se non esprimendo, vale a dire comunicando, attraverso la magia del sensibile, un certo sentimento grazie al quale l’oggetto rappresentato può apparire presente. È significante prima di tutto perché è espressiva.”369 Si ottiene così un’adesione quasi totale tra espressività e significatività che a sua volta sposta il cardine della significatività del sensibile proprio sulla sua espressività. È quest’ultima, infatti, a permettere che il “sensibile grezzo” si trasformi in “sensibile estetico”370, che il fondo selvaggio si trasformi in primo piano significante. Al pari della parola originaria, l’oggetto estetico in quanto espressione appartiene a quell’“atteggiamento centrale in base al quale è parimenti possibile conoscere, agire e creare”371, in un fare che ha l’imprevedibilità ma anche l’ineluttabilità dell’originario. L’oggetto estetico si configura così, come il fare artistico, quale gesto inaugurale, che in quanto tale, citando Dufrenne, “dà senso e consacra assai più di quanto non dia inizio”372, e, citando Merleau-Ponty, “introduce un senso in ciò che non ne aveva, e 366 Ibidem. Ibidem. 368 Ibidem. 369 Ivi, p. 209. 370 Ivi, p. 210. 371 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, cit., p. 41. 372 Dufrenne M., Estetica e filosofia, cit., p. 5. 367 139 dunque, invece di esaurirsi nell’istante in cui ha luogo, inaugura un ordine, fonda un’istituzione o una tradizione”373. La descrizione del rapporto tra oggetto estetico e significato si rivela funzionale per comprendere altresì il rapporto tra il sensibile e il significato, che nel fenomeno dell’espressione trovano la propria cerniera. “Se il sensibile è così portatore di un significato cui dà una propria inflessione e che diventa espressione, si può dire che inversamente questo significato informa il sensibile.”374 In una forma di circolarità non viziosa, l’in-formazione del significato investe il sensibile e al contempo da esso diparte. Da una parte, infatti, è quasi evidente, troviamo un’informazione nel senso più comune del termine come elemento che consente di avere conoscenza di fatti. La struttura cui rimanda ha la forma di un passato, di un già significato che si tratta di reiterare e trasmettere. Sul versante espressivo, invece, si fa pregnante la valenza etimologica dell’informazione, che, come tutti sanno, restituisce l’idea originaria di messa in forma, del dare forma modellando e rimanda al tempo presente del participio del significante. In questo nodo significato informato l’elemento del significato come senso da trasmettere va concepito, con Merleau-Ponty, “in una dimensione che non è più quella del concetto o dell’essenza ma quello dell’esistenza”375. Questa prospettiva è perfettamente in linea con l’impostazione attraverso cui Dufrenne riconduce il parlare, e l’esprimersi in generale, a un fare prima che a un sapere concettuale, a una dimensione eminentemente esistenziale. In questo senso, risalendo nuovamente al fungere antepredicativo dell’intenzionalità ricollegata a una prospettiva eminentemente esistenziale di “vita vissuta”, ci si ritrova a contatto con una dimensione ancora lontana dalla formalità del concetto. Tale dimensione rientra a pieno titolo nella sfera di influenza di contenuti affettivi, emotivi, motori primi di ogni operazione di espressione e fondazione di significati nell’ottica qui considerata. Quella che si vede all’opera nell’oggetto estetico è una forma grazie alla quale è unificato l’oggetto estetico stesso. “L’oggetto estetico (…) ci appare come un tutto: è 373 M. Merleau-Ponty, l linguaggio indiretto…, cit., p. 96. Dufrenne M.. Phenomenologie…, cit. p. 210. 375 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 61. 374 140 unificato dalla sua forma. Ma questa forma non è più soltanto l’unità del sensibile, è l’unità del senso.”376 La forma, nella realtà dell’oggetto estetico, non si riferisce in alcun modo al contenuto che in esso è rappresentato, e il discorso sulla forma in relazione al significato non è quindi, in alcun modo, un discorso sul significato degli oggetti rappresentati. “Sta qui il segreto dell’opera d’arte, e vi insisteremo ancora: il soggetto viene esattamente a coincidere con la forma del sensibile, è forma di quella forma”.377 La forma ultima dell’oggetto estetico, infatti, è proprio la sua espressione nella quale prende corpo “il senso del suo senso”.378 “Così la forma si ricollega al rappresentato unicamente perché è innanzi tutto collegata al sensibile, cui è immanente la rappresentazione. È il principio di organizzazione di quel sensibile, ciò che lo esalta, e non più il contorno.”379 Si comprende allora anche perché il coglimento della forma così intesa non possa essere appannaggio della percezione comune, sempre “occupata a identificare l’oggetto per conoscerlo o utilizzarlo.”380 Con evidenti riferimenti alla Psicologia della Forma, Dufrenne amplia la possibilità di identificare l’oggetto, estetico ma anche in generale, al di là della sua organizzazione spazio-temporale di dato, per estenderne il riconoscimento fino alla sua espressività. Per l’oggetto estetico poi, l’aspetto affettivo si rivela ineludibile: esso ne fa parte in modo costitutivo, poiché “esso (l’oggetto) non parla soltanto con la ricchezza del sensibile, ma per quella qualità affettiva che esprime e che permette i riconoscerlo senza passare attraverso il concetto.”381 La sua forma si completa con l’aspetto affettivo, che non ne rappresenta una superficiale sovrastruttura ma, al contrario, costituisce la sua unità. Unità che, infatti, “non è soltanto sensibile ma affettiva.”382 In questo senso l’aspetto affettivo non è da cogliere come una delle possibili e molteplici forme attraverso cui il reale si completa, bensì come un suo “nuovo viso”383: un suo aspetto che comprende anche gli altri, con i quali interagisce e si compenetra. L’oggetto impone e implica tale componente, senza opporle un’altra parte come si 376 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 211. Ivi, p. 214. 378 Ibidem. 379 Ibidem. 380 Ibidem. 381 Ivi, p. 215. 382 Ibidem. 383 Ibidem. 377 141 opporrebbe un primo piano a uno sfondo, e in questa unità gestaltica è l’unità significante dell’oggetto. Quello che a Dufrenne preme rilevare è proprio questa compenetrazione tra unità e senso che fa della forma estetica un’unità significante che amplia la visione di J. Hersch, che l’autore ha ripetutamente citato, di “quella forma assoluta capace di conferire all’opera d’arte un’esistenza non derivata”.384 Definire la forma implica, infatti, nella sua visione, un riferimento ineludibile al senso e, di riflesso, al sentimento “nella misura in cui il sentimento fa cogliere l’espressione che è a sua volta senso.”385 Questo scongiura il rischio di interpretare la forma come qualcosa di astratto che informa la materia, riafferrandola invece nelle sue caratteristiche ontologiche oltre che estetiche. Dufrenne si spinge fino a raccogliere il concetto di anima aristotelico e la nozione di Gestalt sotto il medesimo indice, facendoli coincidere secondo l’idea che “la forma è l’anima dell’opera come l’anima è la forma del corpo.”386 La distinzione tra forma e materia è una dicotomia che non gli interessa più nella misura in cui “tutta la materia, da cui non può essere escluso il senso, è assunta dalla forma.”387 E tale forma, o tale anima organizzata, in ogni caso questa totalità significante entro cui si raccoglie l’unità dell’oggetto estetico esiste per la percezione e per la scienza che ne deriva. La forma, ciò “per cui un oggetto ha un senso” è innanzitutto un affare estetico; la sua stessa esistenza è subordinata alla percezione che la coglie. E da questa percezione essa si lascia decifrare, imponendosi in modo tanto diretto, “senza tener conto delle esigenze dell’intelletto e secondo un’esigenza che le è propria”388 poiché, lo ripetiamo, la sua significazione ha qualcosa di “misterioso”, irriducibile al discorso. Dufrenne non si sta riferendo qui a quella “profondità incomprensibile del senso” che tutte le arti, soprattutto della nostra epoca, hanno ripetutamente sfruttato e sottolineato. Per lui, infatti, “anche l’arte in apparenza più facile cela qualche cosa di 384 Ivi, p. 216. Ivi, p. 217. 386 Ibidem. 387 Ibidem. 388 Ivi, p. 218. 385 142 misterioso per il semplice fatto che si rivolge alla percezione, e da questa al sentimento, piuttosto che all’intelletto.”389 Si vede qui, molto chiaramente, quale sia l’interesse vero, la questione fondamentale: di che cosa realmente si sta parlando, effettivamente, se non di questa modalità di relazionarsi con il mondo che esula il dominio della logica per manifestarsi invece indubitabilmente attraverso le opacità indicibili della corporeità e dell’esteticità? La questione della forma dell’oggetto estetico, il problema del suo senso, chiama in causa, infatti, la necessità di puntualizzare se e come esso si relazioni con le potenzialità recettive del soggetto che la esperisce e con il mondo che la circonda. E questo esige, ancora una volta, che di tale ricettività e di tale mondo si dia conto. L’oggetto estetico si relaziona alla nostra percezione secondo strutture affini ma differenti dall’oggetto naturale. Di quest’ultimo condivide “l’indifferenza, l’opacità, la sufficienza”390, ma diversamente da esso, l’oggetto estetico non è sempre in balìa del mondo. La cosa naturale, infatti, rimanda sempre, “di cosa in cosa, a un mondo in cui si radica e sullo sfondo del quale appare: il suo in-sé è come affetto da impotenza, essa non è neppure completamente ciò che è, perché è in balia del mondo.” 391 E questa perenne relazione con il suo sfondo attiva la nostra percezione, che ha una sola risorsa: “quella di comprenderla (la cosa), cioè di coglierla nel suo contesto.”392 Ecco perché qui la percezione tende a tramutarsi in intellezione, animando in noi la costante preoccupazione di trovare una forma di oggettività stabile, punto di riferimento saldo e fermo come un punto cardinale. La cosa naturale si configura come “puramente cosa (…) quella cosa che non è posseduta e animata da un significato intrinseco, quella cosa non espressiva appartiene all’essere solo per perdervisi”.393 È quasi neutro persino il suo portato ontologico, dal momento che “l’essere che essa attesta è l’essere indeterminato, che non è l’unità ma l’abisso delle determinazioni, l’essere deserto di cui la natura, finché non porta il marchio delle determinazioni umane, è l’immagine.”394 389 Ibidem. Ibidem. 391 Ibidem. 392 Ibidem. 393 Ivi, p. 219. 394 Ibidem. 390 143 L’esteriorità dell’oggetto estetico, invece, si unifica proprio in virtù della forma e nella sua forma manifesta anche “una promessa di interiorità”. Questo esclude quel rapporto al mondo come a uno sfondo cui si giunga, come abbiamo visto, “di cosa in cosa”. Esclude la necessità e annulla l’utilità di cogliere la cosa nel suo contesto al fine di comprenderla: l’oggetto estetico “è a se stesso il proprio mondo”395 e per comprenderlo non si può fare altro che restargli il più vicino possibile, nei suoi paraggi, e ad esso costantemente tornare. Nei suoi confronti non valgono più i punti di riferimento offerti dal mondo delle cose naturali, essi semplicemente si annullano in quel nuovo orizzonte che la sua stessa espressività introduce e dischiude. Deriva da qui la celebre definizione, problematica e utilissima, dell’oggetto estetico come di un “quasi soggetto”. Nel momento in cui si riconosce la forma come promessa di interiorità, infatti, se ne coglie il portato espressivo che rende l’oggetto estetico simile a un per-sé: C’è un per-sé dell’in-sé, che è per l’in-sé la propria assunzione, un modo di essere luminoso a forza di opacità non ricevendo una luce estranea mediante la quale si disegni un mondo, ma facendo scaturire da sé la propria luce; è questo l’esprimere. Diremo così che l’oggetto estetico è un quasi-soggetto.396 Da questa notazione, e dalle conseguenze che Dufrenne ne trae relativamente all’oggetto estetico, derivano alcune considerazioni che contribuiscono in maniera notevole a una descrizione perspicua del rapporto uomo-mondo e del ruolo che in esso svolge la sinestesia. Prima di arrivarci, tuttavia, può essere utile comprendere con Dufrenne a quali schemi corrisponde la descrizione del rapporto tra l’oggetto estetico e il mondo. Proprio nel suo essere un quasi-soggetto, infatti, esso caratterizza a tratti per analogia a tratti per differenza, il Soggetto tout court, la cui relazione intenzionale al mondo sfugge la rigidità di una descrizione basata su semplici dicotomie. Quella dell’oggetto estetico è una situazione soggetta a un’ambiguità ineludibile. Ambiguità che anzi renderebbe maggiormente produttivo l’afferramento teorico del quadro globale. 395 396 Ibidem. Ibidem. 144 L’oggetto estetico, infatti, è “nel mondo e contemporaneamente è principio di un mondo”397 come un soggetto esercita delle “capacità di presa” sul mondo che, a sua volta, “non è soltanto spettacolo ma anche teatro delle nostre azioni e dei nostri progetti”.398 Per Dufrenne, la dimostrazione di queste caratteristiche implica e anzi esige il coglimento del contesto relazionale nel quale si giocano tutti gli equilibri tra oggetto e soggetto. Contesto relazionale che, come detto, esclude ogni forma di descrizione in chiave dicotomica poiché: Il mondo è quella luce proiettata da ciascuno secondo il proprio essere nel mondo, e tuttavia anche il luogo comune, la luce di tutte queste luci, l’orizzonte degli orizzonti; ciascuno vi è preso, e tuttavia esso è preso in ciascuno, e soltanto al limite è il mondo di nessuno, l’in sé che non sia per me.399 Nell’espressività dei soggetti, che l’oggetto estetico condivide, si delinea chiaramente quel paradosso che riguarda tanto il mondo quanto i soggetti che lo abitano: l’espressione, infatti, indica da una parte l’essere di una soggettività e, dall’altra, “la possibilità di un mondo irradiato da quella soggettività”.400 Nell’espressività dei soggetti, che l’oggetto estetico condivide, si delinea chiaramente quel paradosso che riguarda tanto il mondo quanto i soggetti che lo abitano: l’espressione, infatti, indica da una parte l’essere di una soggettività e, dall’altra, “la possibilità di un mondo irradiato da quella soggettività”.401 Ancora una volta è la cerniera che unisce e separa la vita riflessa della ratio dalla vita vissuta del corpo a manifestarsi quale limite assurdo, paradossale eppure immensamente significativo: infatti, “in quanto rifletto, questo mondo è mio e si spegne con me; in quanto vivo, ne sono oltrepassato e preso dentro come un topo in una trappola.”402 Per questa ragione, e Dufrenne riconosce la responsabilità teorica di questa 397 Ivi, p. 221. Ivi, p. 222. 399 Ivi, p. 223. 400 Ibidem. 401 Ibidem. 402 Ivi, p. 224. 398 145 consapevolezza, una riflessione veramente trascendentale sarà quella capace di ritornare a “quella prima certezza scoprendomi in situazione.”403 Come quello del soggetto, il rapporto dell’oggetto estetico con il mondo è un rapporto opaco e disarticolato, condannato a una ineludibile ambiguità che ne rappresenta altresì la fertilità di significati. Così, il mio rapporto col mondo e il mondo stesso sono ambigui; ho il mio mondo nel mondo, e tuttavia il mio mondo è soltanto il mondo. Allo stesso modo potremmo parlare di un mondo dell’oggetto estetico; c’è soltanto il mondo, e tuttavia quell’oggetto è gravido di un suo mondo.404 Questo rende chiara la difficoltà di descrivere il modo in cui l’oggetto estetico si lascia cogliere all’interno del mondo, essendo esso profondamente differente dalle cose naturali e dal loro modo di presentarsi. Proprio a questo tema dedicheremo dunque il prossimo paragrafo. 2.3 Il mondo dell’oggetto estetico Come abbiamo accennato, seguire Dufrenne lungo la sua meditazione a proposito dell’oggetto estetico e del suo rapporto con il mondo ci permetterà di cogliere, secondo analogie e differenze, quella specifica relazione con il mondo che caratterizza l’uomo, al di là delle specificità dell’oggetto estetico. Questo sarà particolarmente utile nell’illustrare il ruolo, teorico e metaforico, a sua volta giocato dalla sinestesia in tale rapporto. Ruolo di cui vedremo le implicazioni più simboliche proprio nel contesto dell’arte. Ma, andando con ordine, seguiamo ora l’autore nella problematica e per nulla scontata delineazione del rapporto tra l’oggetto estetico e il (suo) mondo. Il percorso dell’autore è disseminato di riferimenti ed esempi che a volte non temono di confondersi con un certo empirismo. Spesso deboli, quasi mai davvero 403 404 Ibidem. Ibidem. 146 illuminanti, tali riferimenti fanno tuttavia parte degli scritti di Dufrenne in maniera tanto diffusa da diventarne quasi una cifra caratteristica. Si potrebbe riflettere a lungo sui motivi che spingono l’autore a scelte a volte tanto poco rigorose. Forse però è preferibile e più efficace prescinderne, limitandosi a tenere conto dei contributi teorici che, ben oltre il sensismo apparente, non perdono la propria pregnanza. Uno di questi riguarda appunto il ruolo del mondo rispetto all’oggetto estetico e viceversa. Rispetto agli altri oggetti del mondo, quegli oggetti il cui uso ci richiede un controllo e una conoscenza accurati che le concezioni deterministiche contribuiscono ad affilare, l’oggetto estetico si pone con una maggiore indipendenza. La stessa indipendenza che contraddistingue l’essere vivente, “che si distingue dall’ambiente e gli si unisce attraverso la propria mobilità”405. Similmente, anche se secondo sfumature ancora diverse, l’oggetto estetico è abitato da un’energia estranea alla cosa naturale che fa sì che esso sfugga all’integrazione percettiva del mondo quotidiano. Di più, come abbiamo già visto, l’oggetto estetico esige una presenza che, attraverso la percezione, porti esso stesso alla Presenza. Tra lo spettatore e l’oggetto estetico corre un corto circuito per cui, nella visione di Dufrenne, il primo diventa anche attore del secondo. “L’oggetto estetico estetizza ciò che gli sta intorno integrandolo nel proprio mondo, fa di quei contorni altrettante province del suo regno, servitori della sua potenza.”406 Purtroppo è proprio questo uno dei nodi in cui l’autore più diffusamente indulge a quel tipo di esemplificazione cui abbiamo accennato.407 Quello che gli interessava mostrare, 405 Ivi, p. 226. Ivi, p. 227. 407 Ecco, ad esempio, un passo in cui l’indulgenza a esemplificazioni forse un po’ prolisse ed empiriche si manifesta con chiarezza. Si vede bene come la questione teorica sia più che pregnante, eppure diluita a tal punto da risultare quasi pretestuosa. “La percezione stenta a isolare l’oggetto dal campo percettivo. Con le arti temporali, a rigore, è possibile, hanno una propria durata, e vedremo come questa conferisca loro un’indipendenza più manifesta e un’interiorità più sensibile; e si può ascoltare della musica o della poesia ciudendo gli occhi. Allo stesso modo le arti in cui la significazione è più eloquente, come quelle del linguaggio, ci trascinano più facilmente nel loro mondo particolare e ci fanno lasciare le zone del quotidiano. Ma le arti dello spazio permettono meno facilmente questa separazione: l’oggetto spaziale prende posto nello spazio quotidiano per il suo peso di materia e la sua struttura di cosa. Come si affermerà allora l’oggetto estetico? Annettendo quel vicinato indiscreto ed esercitando su di esso la sua regalità estetica. Consideriamo infatti un monumento: il castello di Versailles: ne faccio il giro, vi entro, lo visito; svolgo intorno ad esso una specie di danza sacra, attraverso i viali che mi apre; ne prendo una molteplicità di vedute, alcune privilegiate, alcune insignificanti, tanto che posso dire di vederlo veramente dalla spianata, o dal tappeto verde, o da un cert’altro luogo in cui mi colloco. Mentre musica e teatro mi sollevano in alto su un tappeto magico e mi depongono in un altrove che non è più nel mondo, il 406 147 e che forse sarebbe stato chiarito con maggior vigore in assenza di tali esempi, resta comunque denso e significativo. Si tratta del ruolo “regalmente” estetico che l’opera sarebbe in grado di giocare nella dinamica di rapporti intersoggettivi. Essa, infatti, “diviene il soggetto degli oggetti in cui regna, calamita l’ambiente come fa, secondo Sartre, lo sguardo altrui. Tutto converge verso di lei e attraverso lei si trasforma.”408 Tra l’oggetto estetico e gli altri oggetti si leva una sorta di velo: separazione fisica e concettuale che lo sguardo stesso di chi osserva mette in scena. Vi è, infatti, secondo Dufrenne, una solidarietà intrinseca e indissolubile tra l’oggetto estetico e lo sguardo poiché “è estetico ciò che conta esteticamente per lo sguardo.”409 Questa forma di solidarietà non è però priva di contraddizioni e problemi, ben sintetizzati anche nel fatto che i limiti dell’estetico e i limiti dello sguardo non sempre coincidono; lasciando presentire un allargamento del campo estetico ben oltre quello che il singolo sguardo può mettere a fuoco. Ma, al di là dell’empiricissima notazione che “so bene che il monumento, il parco, il cielo non stanno interamente nel mio campo percettivo presente”410, quello che conta è proprio quel travalicare dell’oggetto estetico rispetto al mio sguardo benché l’oggetto estetico si offra sempre come totalmente presente. “Ma è tuttavia lo sguardo, almeno uno sguardo possibile, ad assegnargli i limiti della sua influenza, perché appunto per lo sguardo è estetico.”411 Stagliandosi sul fondo del mondo l’oggetto estetico al contempo lo nega, in una dinamica di piani multipli che sostanzialmente mette tra parentesi quel contorno succube della “regalità” dell’oggetto. Certo, ciò non significa che il mondo reale al cospetto dell’oggetto estetico sia del tutto abolito, “perché allora sogneremmo l’oggetto estetico invece di percepirlo”412; lo spazio ritagliato dall’oggetto estetico risponde a una sorta di cono di luce che “irrealizza il monumento mi fissa nel mondo annunciandosi come oggetto del mondo. Tuttavia si staglia nettamente su di un fondale. Quale? È questo parco da cui lo contemplo o che vedo attraverso le finestre, questa città che è a sua immagine, questo cielo senza pari dell’Ile-de-France. Però quel parco non è esattamente uno scenario associato al monumento; mentre lo scenario annuncia l’ingresso nel mondo dell’Opéra, dove ha la sua ragione d’essere, e con ciò allontana il mondo naturale, il parco inerisce al mondo naturale con tutte le radici degli alberi; è un vero parco, che ha la sua verità nel mondo delle potenze vegetali e delle stagioni cui comanda obbedendo, sorgendo dal bosco che lo cinge e gli rende omaggio. Collega il castello ala natura, lo mette al mondo, come fanno la piazza con i tigli e la fontana di pietra per la chiesa del paese, la pianura della Beauce per la guglia di Chartres.” (Ivi, p. 228.) 408 Ivi, p. 229. 409 Ivi, p. 230. 410 Ibidem. 411 Ibidem. 412 Ibidem. 148 reale estetizzandolo.”413 E proprio nella condizione imprescindibile di essere all’interno di quel mondo in cui “facciamo presa su un dato inesauribile”, e tuttavia in questo suo rapporto stretto e ambiguo con una forma di irrealtà, l’oggetto estetico riconferma la propria ineludibile vocazione sensibile. “Per l’oggetto estetico importa essere nel mondo, e precisamente perché non esiste un sensibile, né un senso immanente al sensibile, se non per le cose del mondo.”414 La sua posizione profondamente sensibile risponde ad una sorta di sforzo di “liberarsi dalla condizione di cosa”, sforzo descrivibile proprio in virtù della distanza che sempre separa le mere cose dagli oggetti estetici. È proprio questa distanza che Dufrenne mira a tematizzare e problematizzare, riuscendo nell’intento di chiarire le difficoltà teoriche che investono una descrizione determinista e dicotomica del mondo e del nostro modo di relazionarsi ad esso. La medesima differenza riguarda l’oggetto estetico nel suo rapporto con il tempo; tempo che, nei confronti dell’oggetto estetico sarà sempre caratterizzato in quanto umano e storico. “Ogni oggetto estetico è un ‘monumento storico’.”415 Il rapporto con il tempo non riguarda però tanto il corpo dell’oggetto che, in quanto cosa, appartiene al tempo delle cose; riguarda piuttosto, e in maniera ben più significativa e pregnante, la sua forma e il suo senso, “tutto ciò che l’uomo vi percepisce e vi legge, ciò che dice dell’uomo e che l’uomo ne dice.”416 Proprio perché in costante relazione con il tempo umano, allora, l’oggetto estetico si trova in una posizione ambigua anche rispetto al tempo, poiché “la sua relazione con il tempo umano ha l’ambiguità della storicità.”417 Il suo essere nel tempo è carico di conseguenze sul suo essere stesso poiché ogni sguardo successivo riattiva l’oggetto estetico con la medesima forza del primo. L’oggetto estetico si trova trascinato dagli sguardi umani nel tempo della storia, “e conosce una fortuna diversa a seconda dell’intenzione di questi sguardi e della loro attitudine a coglierlo.”418 Il mondo stesso dell’oggetto estetico si trova impigliato nel mondo, diacronicamente in movimento, del suo pubblico e, benché senza dubbio esista una 413 Ivi, p. 231. Ibidem. 415 Ibidem. 416 Ivi, p. 232. 417 Ibidem. 418 Ibidem. 414 149 verità atemporale di quell’oggetto, ogni spettatore contribuirà a lievi ma inesorabili mutamenti. Infatti: È destino di questa essenza singolare fenomenizzarsi, consegnarsi a dei guardiani, come dice Heidegger, che non possono esserle sempre fedeli, o piuttosto che le sono fedeli soltanto trasferendola nel proprio mondo, consegnandola alle vicissitudini della storia.419 Dufrenne sta dunque dicendo due cose, entrambe molto importanti: esiste nel mondo una particolare categoria di oggetti in grado di relazionarsi al tempo e allo spazio secondo schemi differenti da quelli che riguardano gli oggetti in generale. Tale possibilità non viene a questi oggetti da carattersitiche metafisiche di dubbia dimostrabilità, bensì dalla particolare modalità con cui i essi si manifesta un senso e un significato. Infatti, è ovvio, non si tratta qui di un’impossibile differenziazione del tempo e dello spazio come categorie oggettive: in quanto oggetto l’oggetto estetico si inserisce nello spazio e nel tempo che sono i nostri, né più né meno di quelli di qualsiasi altra cosa. Il senso dell’oggetto estetico, però, è un senso dinamico che investe il tempo e lo spazio essendone investito a sua volta. Non solo è come se in qualche modo crescesse, quasi alla stregua di un essere umano che invecchia; ma, poiché risponde ad un tempo storicamente e umanamente scandito, esso muta costantemente la propria posizione e con essa, potenzialmente, ogni volta il proprio senso. Si capisce allora con chiarezza cosa significhi per Dufrenne notare che: “attraverso i vortici della storia generale, l’arte sembra essere al principio di una propria storia, o almeno di una storia le cui relazioni con la storia generale non siano fissate da uno stretto determinismo.”420 Quello che si sta delineando è allora un possibile scarto sempre aperto all’interno della relazione uomo-mondo. Scarto che permette di leggere persino il tempo e lo spazio, con le loro caratteristiche di rigida categorialità, in termini dinamici ed esistenziali. Oltre ad essere nel tempo e nello spazio, l’oggetto estetico è all’origine di un proprio tempo e di un proprio spazio: all’origine di un proprio mondo che è un mondo abitato da sensi e significati anche spazialmente e temporalmente orientati. 419 420 Ivi, p. 233. Ibidem. 150 Tuttavia, naturalmente, tale mondo con il suo proprio spazio e il proprio tempo, cessa di esistere al di fuori dell’esperienza estetica rimanendo come indice di un altrove comunque possibile. L’indipendenza dell’oggetto estetico non può essere totale, né nella storia né nello spazio; eppure quello che esso apre è un mondo almeno in parte indipendente, sia nella storia sia nello spazio. In questa apertura rappresentata dall’oggetto estetico ben si inquadra il tema dello stile: quello stile tanto individuale quanto collettivo che, da un punto di vista artistico, rappresenta un modo d’essere e d’operare proprio di un autore e della sua epoca. Ma, al di là del senso artistico, lo stile dell’oggetto estetico si ricollega a quanto visto a proposito dell’espressione. Il suo è un ruolo cardine, attraverso cui il mondo e l’oggetto estetico, come anche il mondo e il soggetto, si cor-rispondono in una dinamica di scambi reciproci. Tali rapporti si configurano come un chiasma di soggettività e oggettività, in quanto ognuno di noi, così come ogni oggetto estetico, è una particolare presa di posizione sul mondo mentre al contempo il mondo si presenta entro un certo orizzonte di invarianza oggettiva421. È dunque questo chiasma ambiguo che caratterizza la modalità secondo cui l’oggetto estetico si rapporta allo spazio e al tempo; la forma dell’oggetto estetico, che ne rappresenta “in certo modo l’essenza singolare ma sensibile”422, ha a che fare con la sua verità la quale, a sua volta, si relaziona al corpo sensibile dell’oggetto in maniera sfuggente. Si tratta, infatti, di “una verità che ha bisogno del corpo materiale per manifestarsi, ma non si lascia identificare con quel corpo.”423 Allo stesso modo, il suo senso, si incardina su uno spazio e un tempo cui tuttavia si sottrae costantemente. Si arriva così a cogliere, di nuovo, il carattere duplice che contraddistingue l’oggetto estetico; il suo abitare una verità che non si esaurisce nella sua forma e 421 “Quando mi chiedo che cos’è il qualcosa o il mondo o la cosa materiale, io non sono ancora il puro spettatore che, in virtù dell’atto di ideazione, sto per divenire: sono un campo di esperienze nel quale si delineano soltanto la famiglia delle cose materiali, e altre famiglie, e il mondo come loro stile comune; la famiglia delle cose dette e il mondo della parola come loro stile comune, e infine lo stile astratto e scarno del qualcosa in generale.” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 130.) 422 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 243. 423 Ibidem. 151 neppure nel suo senso. Una verità dinamica e mutevole, che persino lo spazio e il tempo non inquadrano mai definitivamente. Così, per la forma intesa come verità, l’oggetto estetico è atemporale, “ma poiché la sua forma è forma di un corpo, è votato al mondo e al tempo.” Il suo senso subisce il medesimo movimento, ondeggiando in maniera significativa tra il suo inerire indissolubilmente al sensibile e il suo sfuggirgli di continuo. Come sintetizza infine Dufrenne: In altre parole, la forma è la verità dell’oggetto estetico; e ha quella qualità atemporale che è propria alla verità, la verità in quanto essere del vero, e non in quanto evento prodotto in una storia: perché bisogna anche che la verità appaia. Ma precisamente, la verità dell’oggetto estetico non può apparire altrimenti che nel sensibile, nell’immediato esserci della natura. Cosicché quella verità, immediatamente legata al suo apparire, solidale con la sua espressione, è subito temporale: non ha la possibilità di rifugio in un cielo intelligibile.424 Collocandosi al principio di un mondo, dunque, l’oggetto estetico reca la sua propria verità. Una verità che sfugge tuttavia la concettualizzazione rigorosa per scivolare invece, molto più significativamente, nei territori dell’esistenza; in quei territori in cui, come abbiamo già accennato, la riflessione veramente trascendentale saprà coglierci “in situazione”. L’oggetto estetico rappresenta allora un corpo esemplare, in senso proprio, in cui si incarna e si manifesta un possibile e reale accesso alla verità e al senso che non si regola sulle antinomie del pensiero causale e sulle rigide risoluzioni del determinismo. Dandosi come qualcosa che “non è del mondo, ma costituisce un proprio mondo”425, l’oggetto estetico rappresenta, al modo delle cose, quello che è agito al modo dei soggetti: esso “resta una cosa del mondo, percepita come cosa del mondo, ma trascende la propria condizione di cosa opponendo al mondo il proprio mondo.”426 Grazie alle possibilità dischiuse dalla descrizione dell’oggetto estetico, si delinea così ulteriormente quell’interpretazione dell’umano in chiave di soglia e apertura nei confronti di un mondo che non rappresenta solo lo spettacolo cui assistiamo ma anche il 424 Ivi, p. 244 (Corsivo mio). Ibidem. 426 Ivi, p. 245. 425 152 teatro in cui agiamo. Questa illustrazione non considera ovviamente solo l’aspetto pratico delle azioni -che pure, da un punto di vista etico interessa moltissimo Dufrenne-; lo spettacolo del mondo, infatti, viene investito di sensi sempre nuovi proprio a partire da quella molteplicità costante di individui che in esso operano. Dire dell’oggetto estetico che esso “apre un mondo”, rappresentando un quasi-soggetto, significa riconoscergli quel potere di fondare i significati che ogni individuo, con l’apertura percettiva che incarna il proprio corpo, riproduce. Alla base della lettura dell’oggetto estetico come soglia di apertura di un mondo vi è il riferimento costante ad alcuni punti della meditazione di Merleau-Ponty, in particolare alla trama carnale del mondo che abbiamo già indicato come sostrato teorico essenziale di tutto il percorso di Dufrenne. Nella trama carnale del mondo si radica l’esperienza del Mondo e, con esso, dell’Altro. Tuttavia descrivere la specificità di questa esperienza comporta assumere consapevolmente due coordinate non scontate: l’Altro non è afferrabile come una cosa del mondo né da cercare come pura coscienza altra427. Tale definizione esclude l’alternativa tra Altro come semplice oggetto nel mondo e Altro come coscienza pura. Non si indica, infatti, in questo modo una presenza determinata che fungerebbe da segno di una coscienza assente per noi perché presente esclusivamente a se stessa. Al contrario, la presenza è l’accordo stesso con l’assenza, il corpo presente dialoga tanto con la dimensione privata quanto con quella intersoggettiva, in quella dinamica di scambi e aperture che è stata descritta come chair. Latore di un paradosso formale, l’Altro è rigorosamente definito da Merleau-Ponty come “presentazione originaria (Urprasentation) di ciò che per principio è l’impresentabile (Nichturprasentierbar)”428. Benché questa definizione dell’Altro come presentazione originaria dell’impresentabile sia applicabile in linea di principio anche alla cosa percepita, l’Altro, contrariamente alle cose del mondo, si anima sotto i nostri occhi incarnandosi in un comportamento e in un orientamento coerente. Ne deriva la strutturale impossibilità di situarlo su un piano strettamente oggettivo riducendolo a movimenti meccanici, “esso 427 428 Cfr. R. Barbaras, De l’etre du phénomène, cit., p. 295. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 251. 153 è al di qua della quiete e del movimento oggettivi”429. Ciò implica il riconoscimento del corpo altrui come incarnazione di un vivere che lo anima, Nichturprasentierbar per definizione; significa che la percezione dell’altro come fenomeno non si indirizza sempre e soltanto sul Per Sé dell’Altro, ma viene dirottata altrettanto su ciò che egli stesso mostra con l’orientamento dei propri movimenti. Questi ultimi si frappongono nella percezione dell’Altro, a testimonianza di una sua unità di fondo, di un suo sempre rinnovabile potenziale je peux, aprendo così la possibilità di configurare o almeno concepire una dimensione completamente altra da quella oggettiva semplicemente percepita. Ciò significa comprendere il comportamento come la sola possibilità di afferrare il corpo altrui nella sua specificità: cioè senza confonderlo col corpo oggettivamente considerato della scienza fisiologica, riconoscendone la valenza oggettuale e soggettiva allo stesso tempo. Il corpo dell’altro sfugge ad ogni considerazione che investirebbe un oggetto statico, presentandosi come il centro di prospettive e di comportamenti verso il mondo che solo lui è430. Non si può, in altre parole, ricondurre il corpo altrui in quanto tale alla cosa semplicemente percepita nel mondo, nella misura in cui i suoi movimenti saranno sempre dei comportamenti: mai riferibili a un corpo estraneo quale oggetto tra gli oggetti. Ogni ipotesi di dualismo tra un corpo oggettivo e i movimenti che lo animerebbero crolla a favore di una lettura unitaria del visibile431. Il corpo altrui, come il mio, è una struttura bipolare in continuo scambio dialettico tra coscienza interiore e mondo esteriore. L’Altro come fenomeno emerge in tutta la sua autonoma identità come portatore unico di una concentrazione di differenze inseparabili, incarnazione attiva di 429 Ivi, p. 238. È stato notato (M. Pangallo, op. cit., p. 80), e indicato quale punto debole, come così dicendo MerleauPonty assegni il medesimo statuto fenomenologico al comportamento vissuto in prima persona come a quello osservato in altri. Se da un lato, infatti, una certa sinonimia tra i due è innegabile, dall’altro risulta fenomenologicamente poco condivisibile l’atto di porli sullo stesso piano. 431 “Definire lo spirito come l’altra faccia del corpo – Noi non abbiamo idea di uno spirito che non sia sotteso da un corpo, che non si stabilisca su questo suolo – “L’altra faccia” significa che il corpo, in quanto ha quest’altra faccia, non è descrivibile in termini oggettivi, in termini di in sé, – che quest’altra faccia è veramente l’altra faccia del corpo, trabocca in esso, sopravanza su di esso, è nascosta in esso – e in pari tempo ha bisogno di esso, termina in esso, si ancora in esso. C’è un corpo dello spirito e uno spirito del corpo e un chiasma tra di essi. L’altra faccia da intendere non, come nel pensiero oggettivo, nel senso di un’altra proiezione del medesimo geometrale, ma nel senso di Ueberstieg del corpo verso una profondità, una dimensionalità che non è quella dell’estensione, e di trascendenza del negativo verso il sensibile”. (Il visibile e l’invisibile, cit., p. 271.) 430 154 una certa apertura di mondo. Se la sua presenza apre un mondo, evidentemente non si colloca con semplicità all’interno del mondo percepito, non essendo dunque mai qui e ora nel senso di un oggetto, ma sempre in una “specie di località”. Alla luce di ciò, inoltre, diviene comprensibile la densa dichiarazione di MerleauPonty per cui nella incarnazione si individua “il fatto tipico, l’articolazione essenziale della mia trascendenza costitutiva”432. L’Altro si configura dunque come uno scarto nella apparentemente rassicurante semplicità del rapporto tra me e il mio mondo, lasciando intendere chiaramente che c’è qualcos’altro da considerare. Imponendosi a un superficiale illusorio solipsismo, in altre parole, l’Altro produce un decentramento della mia relazione col mondo. L’apertura è là; tutta da indagare anche se, o proprio perché, mai esauribile. È quanto esplicita il noto principio secondo cui è necessario: Non considerare l’invisibile come un altro visibile “possibile” o un “possibile” visibile per un altro: ciò equivarrebbe a distruggere la membratura che ci congiunge ad esso. Del resto, poiché quest’“altro” che lo “vedrebbe”, o questo “altro mondo” che esso costituirebbe, sarebbe necessariamente collegato al nostro, la possibilità vera riapparirebbe necessariamente in questo collegamento. L’invisibile è qui senza essere oggetto, è la trascendenza pura senza maschera ontica. E in fin dei conti anche i visibili stessi sono solo centrati 433 su un nucleo di assenza . È così che l’apparizione dell’Altro si manifesta primariamente come la prova di uno scarto dissonante all’interno del mio proprio visibile. Proprio a questo scarto fa ritorno Dufrenne. Quello che gli interessa, però, non è indagarlo solo nella sua dimensione umana, ma anche attraverso la particolarità dell’oggetto estetico, nella sua dimensione oggettiva. Quest’ultima, infatti, assume particolare rilevanza per lui nella misura in cui gli consente di portare l’attenzione sul versante oggettivo del rapporto uomo-mondo e non solo sul versante soggettivo. 432 433 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 246. Ivi, p. 242. 155 Di questo versante oggettivo a Dufrenne preme sottolineare la valenza espressiva, il potere creativo che appartiene all’oggetto estetico nei confronti del senso così come al soggetto nei confronti del mondo. Tematizzare l’oggetto estetico come un quasisoggetto significa dunque mettere in questione il mondo delle cose, quel mondo oggettivo che la scienza pretende di dominare; significa aprirvi uno squarcio e implica rimetterne in questione se non l’unità, la modalità con cui essa si possa dare e cogliere: Ora nel mondo oggettivo, che la scienza cerca di dominare, si può pensare che l’idea di quell’unità venga dal principio stesso di unificazione: ciò che assicura l’unità del mondo -che permette di pensare un mondo- è che tutte le cose siano ugualmente sottomesse alle condizioni dell’oggettività; ciò che determina l’indeterminato è almeno il fatto che esso è infinitamente determinabile. Sta veramente qui la fonte dell’idea di mondo?434 Se questo non può valere, come abbiamo visto, per l’idea di un mondo che sia proprio all’oggetto estetico la questione si amplia e si complica, richiedendo un approccio più flessibile insieme alla consapevolezza della mancanza di rigidità. Quello che abbiamo indicato come lo squarcio aperto dall’oggetto estetico all’interno del mondo non è mai disgiungibile dalla presenza percettiva del soggetto. La presenza dell’oggetto estetico rappresenta così una sorta di campo d’azione intermedio, in cui un oggetto manifesta la possibilità di comportarsi diversamente dalle cose naturali e, al contempo, chiede al soggetto di esercitare modalità di apprensione differenti da quelle che normalmente esercita sulle cose del mondo. Nell’oggetto estetico si mette quindi in scena una forma di ambiguità costitutiva e proprio su questa forma di ambiguità dovremo concentrare la nostra attenzione nelle pagine che seguiranno. Vedremo sciogliersi l’ambiguità nel riconoscimento di un rapporto intenzionale al mondo che è molto più complesso che non ambiguo. Accettiamo, momentaneamente, di configurarlo secondo l’idea di ambiguità e riassumiamo quindi quali sono i termini che ambiguamente vi agiscono. 434 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 258. 156 All’interno di quel mondo composto da oggetti che possiamo percepire secondo il segno del determinismo troviamo oggetti che a questo segno si sottraggono. Tali oggetti, che definiamo estetici, “portano in sé il loro principio di unità”435, si relazionano cioè al resto del mondo (altri oggetti e soggetti) secondo modalità loro proprie e indipendenti che, come abbiamo visto, arrivano a riguardare persino le categorie di spazio e tempo. Il principio di unità di cui sono portatori riguarda tanto l’unità percepita dell’apparenza (corporea) quanto l’unità sentita di un mondo cui l’apparenza introduce o, come dice Dufrenne, che essa “emana”. In tal modo la presenza corporea di tali oggetti e il senso che in essi si incarna formano una totalità indistinguibile, un’unità che “si converte in mondo.”436 A questo movimento di scambio reciproco e dinamico tra corpo e suo senso che l’oggetto estetico rende esplicito come movimento espressivo si deve dunque la fondazione dell’unità di quel mondo singolare che tale oggetto è. Nell’oggetto estetico si manifesta lo stile inteso come lo stile artistico del suo autore; ma in esso si manifesta soprattutto quello stile preconcettuale” 437 come “generalità che, come diceva Merleau-Ponty, “è ciò che rende possibile ogni significazione”438. Esso è un primum posto al di qua di qualsiasi significato, la modalità unica e irrinunciabile attraverso la quale un senso emerge dall’indifferenziato, dischiudendo al soggetto l’accesso a un regno sconosciuto. Con lo stile si porta quindi in evidenza la singolarità della soglia di emergenza di ogni senso, nella misura in cui esso appare come ciò che dà forma all’esperienza, manifestando la visione e frequentazione del mondo proprie di un singolo439 nel suo spontaneo e abituale commercio col mondo. Letta in questo modo 435 Ibidem. Ibidem. 437 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 65, corsivo nel testo. 438 Ivi, p. 76. 439 Nella prospettiva dufrenniana come in quella merleau-pontiana questa nozione viene svolta in totale coerenza con la sempre sottesa tematizzazione della percezione. Lo stile del singolo è infatti visto emergere a partire dal fondo comune offerto dal mondo percepito. Anzi, alla stessa percezione viene riconosciuto e riconfermato il compito preciso di offrire una prima stilizzazione e articolazione del mondo attraverso scarti e differenziazioni anzitutto percettive. 436 157 L’espressione dunque fonda l’unità di un mondo singolare. Non è l’unità di uno spazio percettibile, di una somma totalizzabile, un’unità che possa essere colta dal di fuori, sorvolata e definita; essa procede da una coesione interna che a sua volta può essere soggetta soltanto alla logica del sentimento.440 E in questa logica del sentimento si regola allora quello che non è più tanto un indagare fenomenologico ma soprattutto un movimento ontologico dove “il radicamento stesso del senso, la Lebenswelt, assume la specificità di un Essere naturante.”441 Questa lettura espressiva dell’oggetto estetico investe altresì, e l’abbiamo già detto, l’interpretazione della posizione del soggetto. L’oggetto estetico, infatti, non è oggetto per un’intenzionalità descrivibile solo in termini di “mirare a” bensì anche di “partecipare a”. In questa partecipazione, dove riflessione e sentimento interferiscono in modo continuo l’uno con l’altro, il quasi-soggetto che è l’oggetto estetico si riconferma espressivo nel senso che abbiamo indicato, stilisticamente orientato e ambiguamente a contatto con quel fondo precategoriale (Essere o Natura) dove ogni senso può ancora cristallizzarsi. Se l’oggetto estetico incarna tale fondo, si comprende allora anche come Dufrenne possa guardare all’arte quale luogo in cui l’Essere o la Natura si rivelano. Passeremo ora a questo fronte, con l’obiettivo di vedervi agire la sinestesia quale figura principale di quel rapporto ambiguamente chiasmatico tra oggetto e soggetto che abbiamo visto agire per mezzo dell’oggetto estetico. 440 441 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 262. E. Franzini, op. cit., p. 371. 158 CAPITOLO 3: LA NATURA E L’ORIGINE. TRA FONDAMENTO E POSSIBILITA’ 3.1 L’oggetto estetico come la cosa stessa Quanto detto fin qui conduce ad interrogarsi sulla natura di questo “mondo” cui abbiamo fatto riferimento in relazione all’oggetto estetico. Questo mondo che esso stesso apre, inserendo uno scarto in quella che dovrebbe essere un’oggettività facilmente identificabile e rigorosamente esplorabile. Come abbiamo già sottolineato, infatti, il percorso di Dufrenne è fortemente improntato da quell’interesse squisitamente fenomenologico, in senso merleaupontiano, che mira a una descrizione del reale, e della sua verità, che sappia andare oltre rigidi causalismi deterministici per riconoscere, sottolineare e comprendere la ricchezza genealogica del rapporto percettivo con il mondo. Per questa ragione Dufrenne non teme di chiamare “mondo” quell’atmosfera trasmessa dall’oggetto estetico e che egli stesso riconosce come irreale, preferendo alla dicotomia tra reale e irreale una più fertile e meno rigida commistione. Il problema nasce, ancora, dal ruolo regolatore che l’intelletto abitualmente riveste e dalle sue esigenze classificatore e predicative: Per l’intelletto non c’è altro mondo se non il mondo oggettivo: la ragione, anche se è responsabile dell’idea cosmologica, non fa nient’altro che pensare l’attività dell’intelletto spingendola al limite; una concezione esistenziale del mondo che lo soggettivizzi legandolo all’opera d’arte, e attraverso questa a un soggetto concreto, è un non senso. Dobbiamo accettare questa obiezione?442 442 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 275. 159 Dufrenne non si sta interrogando, né lo farà successivamente, su un problema di realtà. Che un mondo intrinseco ai segni sia un mito non è questione che lo riguardi. Il suo, infatti, è un problema di rapporto con queste entità, reali e corporee o possibili e incorporee che siano, e con gli effetti della loro verità. Effetti che riguardano tanto il mondo oggettivo quanto, soprattutto e in maniera notevolmente più importante e interessante, la sfera del soggetto. Le due sfere, infatti, vivono una relazione di cui Dufrenne, con Jaspers, riconosce la problematicità. La nozione stessa di un mondo oggettivo e totale non risulta infatti accettabile, “non appena l’utilizzo scopro che mi rimanda al mio mondo, il mondo in cui sono e che sono, e che costituisce per me insieme un correlato e un destino”443. Per l’individuo che lo vive, il mondo è ambiguamente proiezione personale, elastica e metaforica, quanto reale, incalzante e irriducibile presenza oggettiva. E su questo duplice ruolo è necessario soffermarsi. Dufrenne pensa a come persino i biologi, sulle orme degli antichi sociologi, riconoscono le strutture del mondo come “environnement, come qualcosa che costituisce il vivente ma anche, per un’irriducibile causalità reciproca, è da lui costituito.”444 Riconoscere la soggettività del mondo come sua parte costitutiva implica riconoscerne la presenza e la serietà, annullando al contempo il monopolio al mondo oggettivo. Quest’ultimo, infatti, “non è né il mondo vero di fronte al quale gli altri sarebbero puramente illusori, né il mondo totale di cui gli altri siano soltanto parti.”445 Al contrario, proprio il suo radicamento nel mondo della coesistenza dei soggetti respinge il rischio di nichilismo solipsista che nell’oggetto-mondo vede l’unica e ultima parola possibile, quella che zittisce l’uomo. Il fatto stesso di essere oggettivo per un soggetto lo inserisce nella realtà di essere oggettivo per tutti i soggetti, passibile di esperienza scientifica eppure sempre foriero di quella “esperienza iniziale del mondo soggettivo”.446 Non c’è apprensione di un mondo senza che vi sia, prima e a sua condizione, un sentimento del mondo; cioè, in altri termini, non vi è oggetto prima che 443 Ivi, p. 276. Ibidem. 445 Ibidem. 446 Ivi, p. 277. 444 160 vi sia adesione antepredicativa, sentimentale, fungente da parte di un soggetto.447 Il mondo oggettivo allora, quello che crediamo di riconoscere quale cifra comune di tutti i raggi che si dipartono dalle infinite soggettività, diventa dunque punto d’appoggio privilegiato per qualsiasi discorso sul mondo si voglia fare. Privilegio che gli deriva, nella visione di Dufrenne, proprio dal rappresentare “il limite cui tende ogni mondo soggettivo quando cessa di essere vissuto per essere pensato”448. Tuttavia, la radice di questo mondo oggettivo, che crediamo fisso e irriducibile, non affonda nella metafisica certezza di un Essere altrettanto inflessibilmente fermo; al contrario, tale radice è sempre e solo da cercarsi nel mondo soggettivo. La relazione fondamentale del mondo, allora, non è quella che lega un Oggetto ad una soggettività trascendentale pura. Tale soggettività trascendentale pura, infatti, non esiste e al suo posto si fa strada un soggetto definibile solo in virtù di quella stessa relazione con il mondo, “per lo stile del suo essere nel mondo.”449 È questa circolarità falsamente ambigua che l’oggetto estetico e il suo “avere un mondo” figurano. La peculiarità stessa dell’oggetto in questione rivela tutta la sua efficacia teorica nel consentire questa riconfigurazione della dialettica soggetto-oggetto. Delineandosi come un quasi-soggetto, l’oggetto estetico richiede infatti una profonda e radicale rilettura della distinzione tra oggettivo e soggettivo; ed è proprio a tale rilettura che la filosofia di Dufrenne costantemente mira con l’obiettivo di ritrovare la distinzione tra soggettivo e oggettivo solo dopo averla attraversata per ricollocarsene al di qua. Attraverso una lettura della prima critica di Kant che forse non tutti i kantiani apprezzerebbero ma di cui non è qui in questione l’analisi, Dufrenne individua al di là dei poteri dell’intelletto un incondizionato cui tendere cercando di andare oltre quei principi attraverso cui l’intelletto cerca di ricondurre a un’unità. Il passo merita di essere citato per intero: 447 L’immagine scientifica cui ricorre Dufrenne con quel suo modo di esemplificare a volte un po’ leggero è efficace: “E quando la teoria della relatività ci insegna che in virtù dell’equivalenza meccanica tra il riposo e la traslazione rettilinea uniforme, enunciata dal principio d’identità, ogni osservazione è legata all’osservatore, ci sembra quasi di trovarvi una trasposizione scientifica dell’idea che ogni apprensione di un mondo sia legata a un sentimento del mondo.” (Ibidem) 448 Ivi, p. 278. 449 Ibidem. 161 Infatti, se ora ci collochiamo, per ritrovarla, al di qua della distinzione tra soggettivo e oggettivo, che cosa significa l’idea di mondo? Ce lo dice Kant: è un’idea della ragione che presuppone il lavoro dell’intelletto, quel lavoro con cui esso istituisce un ordine tra i fenomeni. Infatti la ragione “si riferisce all’intelletto… essendo la facoltà di ricondurre all’unità le regole dell’intelletto mediante i principi”; e tanto stretta è la sua relazione con l’intelletto che Kant, dopo aver detto che “i concetti puri della ragione…che sono idee trascendentali…sono dati dalla natura stessa della ragione”, aggiunge altrove che “soltanto dall’intelletto possono emanare concetti puri e trascendentali, mentra la ragione non produce propriamente alcun concetto, e non fa nient’altro che liberare il concetto dell’intelletto dalle inevitabili restrizioni di un’esperienza possibile”, in modo che “le idee trascendentali non sono nient’altro che le categorie estese fino all’incondizionato.” Così l’idea di mondo è propriamente incondizionata: la ragione cerca soltanto l’incondizionato. L’idea della totalità dei fenomeni è semplicemente un’applicazione e un’illustrazione dell’idea di un’unità primordiale: è perché “l’incondizionato è sempre contenuto nella totalità assoluta della serie, quando ce la rappresentiamo nell’immaginazione…” che “la ragione decide di partire dall’idea di totalità, sebbene in realtà il suo fine ultimo sia l’incondizionato.” Perciò l’incondizionato non sta al termine di una serie, non è l’ultimo e inaccessibile oggetto di una rappresentazione ma piuttosto l’anima della serie, ciò per cui la serie è serie; questo principio “in cui rientra ogni esperienza, ma che in sé non è mai oggetto di esperienza” può essere determinato con una deduzione logica analoga a quella che permette di scoprire le categorie a partire dai giudizi. Ma allora non si potrebbe dire che l’incondizionato, se è inafferrabile per l’intelletto, si rivela al sentimento, che l’idea del mondo è innanzitutto sentimento di un mondo (come la legge morale, espressione pratica della ragione, è colta innanzitutto nel rispetto)?450 Emerge con chiarezza quella concezione genealogica del sentimento su cui Dufrenne sembra tornare a più riprese e che acquista importanza crescente nel nostro discorso. In quest’ottica, infatti, non si affronta il mondo come “totalità indefinita dei fenomeni”451, totalità variegata ma a suo modo unitaria che è sempre in qualche modo già là; al contrario, del mondo si valorizza la componente di soglia e apertura, che ha quasi una “qualità generatrice”452, vale a dire non solo in trasformazione lei stessa ma pronta a trasformare ciò che la incontra. In questo senso si legge il soggetto stesso come apertura a sua volta genealogica nei confronti del mondo. L’incondizionato non sarà allora da intendere in maniera ontologico-metafisica come l’ultimo e inaccessibile oggetto del mondo, ma, al contrario, come quel fondo che è sempre là e dal quale tutto 450 Ivi, p. 279. Ibidem. 452 Ibidem. 451 162 il resto diparte ed è generato. Generazione che passa, a sua volta sempre e necessariamente, dal soggetto del quale si dice, recuperando Heidegger, che è “in sé apertura perché è (…) trascendentale.”453 Ed è proprio questa caratteristica che si desume a proposito del soggetto quella di cui Dufrenne si preoccupa maggiormente e sulla quale concentra la propria attenzione, mostrando di raccogliere e condividere quello che in una nota significativamente chiama “lo scivolamento dal cosmologico all’esistenziale”454 operato da Heidegger. Dufrenne legge questo punto come il luogo in cui Heidegger si ricollega a Kant. Non è qui in questione la legittimità di questa tesi, che comunque pare condivisibile, quanto l’importanza che il suo significato riveste nella lettura dufrenniana. L’Heidegger qui citato discerne infatti in Kant due significati del mondo, “l’uno propriamente cosmologico che si ricollega alla metafisica tradizionale, l’altro esistenziale, che non si ritrova soltanto nella Antropologia ma già nella Critica”455 e proprio su questa lettura duale dell’esistente sta focalizzando la propria attenzione il nostro autore. Il punto per lui più importante, “il solo che qui ci importi”456, consiste proprio nella distanza che separa il mondo come totalità dei fenomeni, che è un incondizionato ancora relativo a una coscienza finita, da quello che Kant distingue come ideale trascendentale, “che è la totalità di tutte le cose come oggetto dell’intuitus originarius”. L’idea adombrata, che Dufrenne fa sua, è l’allusione oltre che alla finitezza della conoscenza, “all’essere dell’uomo di cui questa finitezza è struttura fondamentale.”457 Su questa allusione pesa il carico, che l’interpretazione di Heidegger secondo Dufrenne esplicita in modo esemplare, del senso delle analisi che Kant offre nella sua Antropologia, in particolare là dove egli dice “il concetto del mondo designa il concetto relativo a ciò che interessa necessariamente ogni uomo.”458 Vi è dunque una tensione, su cui Dufrenne sta evidentemente insistendo, tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tensione che nasce nell’eperienza originaria del mondo la quale a sua volta è tuttavia “al di qua 453 Ibidem. Ibidem, nota. 455 Ibidem. 456 Ibidem. 457 Ivi, p. 280. 458 Ibidem. Qui Dufrenne sta citando l’Heidegger di Kant e il problema della metafisica. 454 163 dell’oggettivo e del soggettivo.”459 Ed è proprio questa impossibilità di dare la precedenza al mondo oggettivo o a quello soggettivo, dettata dalla loro carnale e genealogica commistione, la conclusione cui l’autore ci conduce e che l’oggetto estetico, apparendo come “essente nel mondo e apertura a un mondo”460 incarna e conferma. Si legge in queste pagine una delle conclusioni più rappresentative del percorso di Dufrenne e della sua peculiare tensione tra antropologia e ontologia. Tensione mai del tutto risolta, la cui chiave di interpretazione può essere offerta secondo l’autore da un’applicazione particolare del metodo fenomenologico. La fenomenologia, infatti, è in grado, a suo parere, di “condurre a una specie di psicanalisi esistenziale, a condizione che si accetti il passaggio dal trascendentale all’empirico, dall’ontologico all’antropologico.”461 Di tale psicanalisi esistenziale si può forse comprendere il senso tenendo presente quell’indeterminato e originario che Dufrenne ha di mira. L’accostamento della fenomenologia alla psicanalisi non è nuovo462, la prima, infatti, come scriveva già Merleau-Ponty, condivide con la seconda un obiettivo fondamentale: quello di comprendere il senso dell’evento umano senza collegarlo a “condizioni 459 Ibidem. Ibidem. 461 Ivi, p. 281. 462 Dufrenne eredita quella che in Merelau-Ponty era un’impostazione silenziosa e profonda. Quasi tutte le opere di questo autore recano tracce della psicanalisi freudiana, anche se non senza che siano manifestate riserve e avanzate critiche. L’itinerario complessivo è comunque scandito da un progressivo aumento dell’interesse per questi temi. Principale motivo di ciò è il riconoscimento da parte di MerleauPonty dell’opera di Freud come luogo decisivo del passaggio dalla rappresentazione del corpo oggettivo, derivata dalla medicina ottocentesca, alla novecentesca tematica fenomenologica del corpo vissuto. Nel complesso, Merleau-Ponty compie nei confronti di Freud un’operazione formalmente analoga a quella attuata nei riguardi di Husserl: fare reagire l’intenzione profonda dell’impensato contro quella programmatica e storicizzata, “separando il quadro di riferimento globale di Freud (individuato nell’adesione a un orientamento positivistico e determinista) dalla sua autentica interpretazione dell’Eros, che è poi integrata nella prospettiva fenomenologica di una filosofia dell’esistenza.” (S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987, p. 274.) In particolare, malgrado i primi commenti poco indulgenti presenti ne La Struttura del comportamento, alcune suggestioni psicanalitiche si impongono fondatamente nella Fenomenologia della percezione, nei corsi tenuti alla Sorbonne tra il 1949 e il 1952 e in diversi articoli. Nella Fenomenologia, in particolare, l’autore mostra di rendersi conto della superficialità della sua precedente lettura dell’opera di Freud che non può essere intesa come la mera riduzione della complessità del comportamento umano alla sua infrastruttura sessuale. Una vicinanza dichiarata tra fenomenologia e psicanalisi si trova esplicitata nella prefazione al libro di Hesnard (A. Hesnard, L’oeuvre de Freud et son importance pour le monde moderne, Payot, Paris 1960, p. 9.) in cui si legge che la fenomenologia e la psicanalisi non sono parallele convergendo invece entrambe verso la medesima latenza. Merleau-Ponty comprende la distanza che separa la psicanalisi freudiana da una mera riduzione della psicologia alla biologia e raccoglie la scoperta di un “movimento dialettico” in “funzioni ritenute puramente corporee.” (Fenomenologia…, cit., p. 224) 460 164 meccaniche”463. Ugualmente, come ha notato Mancini464, anche i bersagli polemici sono comuni, individuabili nel determinismo proprio di una concezione positivistica dell’essere e nel coscienzialismo465. Alla psicanalisi si riconosce il merito di conferire a una particolare sfera dell’esistenza, quella sessuale per l’appunto, una capacità di simbolizzazione che fa ricomprendere in essa l’intera esistenza nella sua pluridimensionalità. E proprio sotto la lente esistenziale la lettura freudiana rivela influssi strutturali importanti sull’opera di Merleau-Ponty e, per suo tramite, di Dufrenne. Nel registro dell’esistenza, infatti, il rapporto tra la vita corporea e lo psichismo diventa una relazione di espressione reciproca. Il corpo non è più concepito come un involucro indifferente per lo spirito, bensì come l’elemento in cui l’esistenza, nella sua articolata complessità, si simbolizza e si attua. La lettura freudiana della sessualità contribuisce a mostrare un luogo peculiare della dialettica di spirito e corpo nei termini merleau-pontiani che fanno perno sul tema dell’espressione in relazione all’espresso, dove un polo è già sempre immanente a quell’altro. Ugualmente, essa chiarisce quella dialettica che Dufrenne intende rendere dinamica tra mondo oggettivo e soggettivo. La psicanalisi di Freud è in questo affine all’impostazione di entrambi gli autori, per cui l’esistenza è senso incarnato in quanto punto di contatto tra corpo e significato spirituale che esso veicola e il mondo oggettivo è mondo incarnato a partire dalla soglia originaria e soggettiva. Questo rientra tra le “più durature acquisizioni della psicanalisi”466 che, insegnando a trattare la sessualità, e più in generale la corporeità, come una dialettica offre uno strumento valido per comprendere una costituiva ambiguità come costitutiva ed essenziale all’uomo; di più, essa insegna che “l’equivoco è essenziale all’esistenza umana, e tutto ciò che noi viviamo o pensiamo ha sempre più di un senso”.467 463 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie…, p. 225. S. Mancini, op. cit., p. 275. 465 Quest’ultimo è definitivamente messo fuori gioco tanto dall’epoché fenomenologica – che perviene a disoccultare l’intenzionalità fungente della vita anonima della soggettività trascendentale – quanto dall’operazione psicanalitica che ritrova e riconosce nella sessualità “le relazioni e gli atteggiamenti che prima venivano scambiati per relazioni e atteggiamenti di coscienza” (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia…, cit., p. 224.) 466 Ibidem. 467 Ivi, p. 237. 464 165 Si capisce quindi perché Dufrenne si spinga a ipotizzare una fenomenologia come varco verso una psicanalisi esistenziale. Il principio fondamentale è quello che lo impegna nel tentativo di risalire a quel primum che nessun casualismo può identificare grazie al quale il soggetto stesso, con le sue caratteristiche, è possibile. Dufrenne completa l’esortazione a passare dall’ontologia all’antropologia con una nota ambigua e impegnativa. Di questo passaggio egli dice, infatti, che esso “è per l’ontologia un problema decisivo e inevitabile: bisogna tornare nella caverna.”468 E che cos’è la caverna se non, con una flessione non indifferente di Platone, il luogo dove l’indeterminato è ancora possibile? Il luogo sì dell’inganno, ma anche del primo e originario domandare, che è adesione alle cose pur nel loro essere ombre. Nella caverna si trova allora ancora quell’inconscio, cui la fenomenologia di Dufrenne invita a tornare, che come già esplicitava Meraleu-Ponty è da cercare, non in fondo a noi, dietro la nostra ‘coscienza’, ma davanti a noi, come articolazioni del nostro campo. Esso è inconscio per il fatto che non è oggetto, ma è ciò grazie a cui gli oggetti sono possibili, è la costellazione in cui si legge il nostro avvenire – l’inconscio è tra di essi come l’intervallo degli alberi tra gli alberi, o come il loro livello comune. È la Urgemeinschaftung della 469 nostra vita intenzionale, l’Ineinander degli altri in noi e di noi negli altri. L’inconscio in questa prospettiva trascende evidentemente l’approccio strettamente psicanalitico, investendo una sfera di elementi ben più ampia di quella cui si attiene l’interesse freudiano e dischiudendo una visione che permette, e anzi esige, di trattare l’uomo secondo un registro simbolico e relazionistico piuttosto che ristrettamente causalistico e sostanzialistico. Registro che l’esperienza estetica percorre e ripercorre, riattivandolo costantemente. “Nell’esperienza estetica, l’incondizionato è quell’atmosfera di mondo che viene rivelata dall’espressione, e in cui si manifesta la trascendenza di un soggetto.”470 È forse un peccato che nel momento in cui Dufrenne torna all’oggetto estetico come quasi soggetto da inserire in questa dinamica appena illustrata scelga di farlo ricollegandosi al suo essere opera di un autore nella quale 468 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 281. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., , p. 197. 470 M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 281. 469 166 appare sempre un soggetto. La descrizione dell’oggetto estetico in termini di quasi soggetto non sembrerebbe infatti avere bisogno della stampella empirica del riferimento al suo autore; la sua efficacia è ampiamente risolta nel suo potere espressivo perché esprimere “per quell’oggetto è in qualche modo trascendersi verso un significato che non è il significato esplicito assegnato alla rappresentazione, ma un significato più fondamentale che proietti un mondo.”471 L’obiettivo, centrale e centrato, dell’autore è quindi quello di mostrare come l’oggetto estetico condivida con la soggettività la possibilità di esser all’origine di un proprio mondo, “irriducibile al mondo oggettivo.”472 Tale mondo, configurato come mondo espresso, richiede un polo soggettivo che gli corrisponda e che sia in grado di esercitare quella particolarissima modalità di apprensione che è quella del sentimento. Modalità di apprensione che permetterà il coglimento di una parte di realtà tanto reale quanto il mondo oggettivo se si è compreso il punto fondamentale su cui Dufrenne insiste a più riprese: “la nozione di mondo ha radice nel singolare processo di disvelamento che viene effettuato dalla soggettività, cosicché il reale è prima di tutto ciò che viene realizzato da questa soggettività.”473 Si comprende allora con chiarezza di che tipo di “Mondo” si stia parlando, un mondo che della realtà e della verità conosce la cerniera soggettiva e il versante di proposta sempre rinnovata. È questo che consente a Dufrenne di parlarne in termini di profondità e fondamento, termini pregnanti proprio in virtù del tipo di relazione che richiedono di attuare e che la modalità di apprensione sentimentale che l’autore indica come necessaria invita a riconoscere nella loro peculiarità. La relazione tra l’oggetto estetico e il fondo indeterminato e originario cui esso rinvia è messa in luce con particolare efficacia da uno scritto tratto da una conferenza che Dufrenne ha dedicato nel 1979 alla Profondeur come dimensione dell’oggetto estetico.474 Vi si trovano sintetizzati molti dei concetti su cui si fonda l’impianto del pensiero di Dufrenne. 471 Ibidem. Ivi, p. 283. 473 Ivi, p. 282. 474 M. Dufrenne, La profondeur comme dimension de l’objet esthétique, in Esthétique et philosophie, cit. tome 3, pp. 140-146. 472 167 Indagando l’idea di profondeur Dufrenne mira a tematizzare quel fondo incondizionato che abbiamo visto emergere con forza relativamente al territorio di competenza dell’oggetto estetico: Il signifie l’incommensurable, ce qui échappe à nos prises jusqu’à nous donner le vertige, mais aussi ce qui se dissimile sous la surface et demeure caché: le fond, et pareillement, dans la profondeur du temps, l’originaire. Le fond fonde: ce caché n’est pas seulement fondation, il semble receler le secret du sens qu’il porte.475 Accanto alla tematizzazione della profondità come dimensione, però, a Dufrenne preme esplicitare anche e soprattutto le dinamiche che essa dischiude rispetto alla relazione tra l’oggetto estetico e l’uomo. Tali dinamiche, infatti, permettono di cogliere il ruolo attivo e fondativo che l’opera d’arte riveste nella visione di Dufrenne e, in particolare, le conseguenze teoriche che tale ruolo consente di cogliere. Del profondo che sottende il mondo, e in particolare il mondo dell’oggetto estetico, Dufrenne tratta come di quel luogo in cui si gioca il destino dell’organismo, del soggetto, del mondo stesso; luogo in cui si delinea e si afferma la figura irriducibile dell’individuo. Se da una parte Dufrenne riconosce l’efficacia delle figure della psicanalisi freudiana per esplicitare gli equilibri di tale fondo, “qui ne sont jamais connues qu’à travers leurs représentants”476, dall’altra egli sa bene che non è necessario invocare l’inconscio. L’elemento più interessante è quello per cui è possibile individuare un luogo in certo qual modo segreto, nelle pieghe della totalità del soggetto, un luogo in cui questa totalità si raccoglie e s’impegna tutta intera. “La totalité doit se comprendere en intention, plutot qu’en extension”477 è il modo in cui si sintetizza allora il rivolgimento necessario per comprendere la tipologia di mondo che Dufrenne ha di mira. Parlare di profondità dell’oggetto implica specularmene per Dufrenne riconoscere gli effetti generati dalla profondità del soggetto, in un gioco di risposte reciproche che non corre piano lungo pareti semplici ma segue i rimbalzi e le specularità delle differenze. La profondità dell’oggetto è allora un’altra faccia della sua espressività 475 Ivi, p. 140. Ivi, p. 141. 477 Ibidem. 476 168 (“non-profond comme non-expressif”478), e la profondità designa al tempo stesso “l’intensité d’une présence”479, di quella presenza in cui il soggetto e l’oggetto risuonano nelle loro reciproche profondità. La profondità di un’opera è quella componente che fa appello al ruolo attivo e creativo dell’immaginazione, quella componente irriducibile al già-visto e già-saputo attraverso cui l’oggetto va oltre il puro e semplice piacere momentaneo. La profondità dell’opera è quella sua parte costitutivamente orientata al sentimento al quale, solo, rivela il proprio senso. Torniamo quindi nuovamente a quel luogo in cui le parole non esauriscono il senso proprio dell’oggetto esperito: “La profondeur du sens signifie alors notre impuissance à le verbaliser; inépuisable signifie indicibile, mais cet indicibile n’est pas muet; il donne à sentir.”480 È su questa linea che l’indagine di Dufrenne conferma la propria inclinazione verso una lettura ontologica di queste questioni. L’oggetto estetico in quanto opera profonda è quell’oggetto il cui senso, anch’esso profondo, affonda sì in qualità affettive che però sono, a loro volta, più perspicuamente descritte come qualità ontologiche. “L’oeuvre est profonde lorqu’elle exprime le fond.”481 L’oggetto estetico è allora quell’oggetto grazie al quale il fondo viene in primo piano; quel fondo che si legge in opposizione alla superficie delle cose determinata e sempre più o meno dominata, concettualmente e materialmente. Parlare della superficie delle cose significa parlare del mondo degli oggetti, di quel reale con cui, per abitudine, ci relazioniamo e che “l’idéologie nous apprend, à coups de tautologie, à penser comme naturel, nécessaire, immuable”482. La superficie cui si oppone il fondo che Dufrenne ha di mira è allora quella parte di reale sottomessa alle ombre della doxa e alle false certezze della scienza che vengono prese per stabili; quella parte di reale che Dufrenne, citando Adorno, chiama “monde administré”483 e che indica un oggetto quale correlato di un soggetto “socialisé, acculturé, on oserait dire lui-même administré.”484 Tale superficie così opaca nella sua apparente chiarezza è quella che si oppone al reale del fondo, l’essere bruto la 478 Ivi, p. 143. Ivi, p. 142. 480 Ivi, p. 144. 481 Ibidem. 482 Ibidem. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 479 169 cui caratteristica principale è quella di non essere ancora il correlato di una coscienza, di non essere ancora mondo per alcuna coscienza, “la Nature avant qu’elle ne donne naissance à l’homme et au monde”485, cioè in altre parole, dice Dufrenne, l’Originario. Impensabile nel suo precedere la separazione stessa che è propria del pensiero, tale fondo appartiene tuttavia tanto all’uomo quanto al mondo che egli abita, costituendone il fondo selvaggio a partire dal quale ogni cosa assume senso e fondamento. “Comment penser cet originare? Nous ne pouvons que le sentir, le pressentir, et seul le language de la poésie ou de l’art peut l’exprimer.”486 La peculiarità del mondo che abbiamo visto dischiudersi intorno al soggetto che esperisce l’oggetto estetico è allora propriamente quella di essere il mondo del naturante molto più e molto prima che il mondo del naturato.487 Di più, quello che nell’opera si mostra non è l’apparenza, ma l’apparire stesso delle cose, “le surgissment du réel: non l’apparence mais l’apparaitre. L’Urbildlich dit Klee, image de la gestation, gestation de l’image.”488 Il fuoco dell’attenzione torna a concentrarsi allora, nuovamente, sul ruolo genealogico del contatto con il mondo, ruolo che l’oggetto estetico sa esercitare con particolare e significativa intensità. Molto più che alle lusinghe della decostruzione Dufrenne invita allora a guardare alle potenzialità di quella che egli chiama préconstruction, dinamica genealogica che si verifica in un’epifania che dall’infinitamente piccolo sa risalire all’infinitamente grande. A partire dal minuscolo dettaglio 485 Ibidem. Ibidem. 487 “Ce que cette oeuvre imite, ce n’est pas le naturé, c’est le naturant.” (Ivi, p. 145) Sono evidenti in questa lettura le eco della lettura di Spinoza che, insieme a Kant oltre a Cartesio, fanno parte dei riferimenti storici più impegnativi per Dufrenne così come già per Merleau-Ponty. L’approccio spinoziano al problema della verità è un approccio che nella Phénomenologie di entrambi gli autori è più che presente. Come ha sintetizzato efficacemente Elio Franzini (La verità del corpo, art. cit., p. 16) “In Spinoza la verità ha in se stessa la propria causa: la natura non può essere concepita se non come esistente, la sua verità è nella presenza, nel suo essere qui e ora presente, con i suoi attributi e infiniti modi. Ogni causa, quindi, implica un’esistenza e ogni cosa esistente si inserisce in un ‘sistema’ di cose. Così il corpo, in questa lettura ‘francese’ di Spinoza, fortemente influenzata da Alain, è una realtà autonoma che esprime in maniera certa e determinata l’attributo divino della ‘estensione’. Se poi consideriamo che in Spinoza ‘l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose’ ne deriva un’intrinseca verità del corpo in virtù della sua unità sostanziale. Non solo, dunque, a immagine degli attributi divini, l’uomo consta di mente e di corpo, ma questi due elementi sono necessariamente uniti, e l’unione potrà venire compresa solo conoscendo il corpo in modo adeguato e ricercando attraverso la filosofia le modalità, anche ‘passionali’ di tale unione. Per Merleau-Ponty, come per Sartre e Dufrenne, Spinoza, sia pure uno Spinoza ‘deteologizzato’ appare come l’interprete di un principio monistico quale origine del senso, dell’unione tra l’uomo e il mondo.” 488 Ivi, p. 145. 486 170 determinato sa ripensare l’immenso mai dettagliato indeterminato, origine e causa, terreno fondativo, di ogni cosa possibile e reale. Attraverso l’oggetto estetico si assiste a una forma di edificazione del mondo, in cui con termini di evidente eco pontiana, “alors, dans cette épiphanie, se laisse pressentir le fond, l’invisible qui adhère au visibile, l’ombre qui adhère à la lumière, le désordre qui adhère à l’ordre.”489 Nel caos della profondità vige una forma di ambivalenza in cui caos e cosmos si sovrappongono generandosi a vicenda. “Mieux vaudrait dire, avec Joyce, chaosmos.”490 Questo fondo che Dufrenne ha di mira, questa profondità che è caratteristica essenziale dell’oggetto estetico è la figura in cui si condensa, ancora una volta, quel riferimento fondamentale alla chair del mondo. “Ce qui surgit devant nous, c’est la chair du monde, le flux ancore polémique du sensibile.”491 L’oggetto estetico, come il mondo, come il soggetto, come l’immagine, è allora uno spazio conflittuale in cui il reale si manifesta allo stato brado, “état brut”, all’interno di un dinamismo evolutivo in cui il margine di crescita e mutamento è sempre molto ampio e produttivo492. Il mondo con il quale l’oggetto estetico ci mette in contatto non è allora un mondo altro, non è un mondo precedente né una realtà semplicemente possibile; è il mondo de “les données sauvages du vécu”493, il mondo in cui, aldilà di ogni separazione, la coscienza vive il suo stato aurorale e la Natura nàtura, in un andamento di influenza reciproca dove entrambe si chiamano a vicenda. Quella che emerge da queste analisi è un’indagine ontologica, incapace tuttavia di esaurirsi di fronte al problema dell’Essere. Dufrenne stesso esita spesso nel suo procedere e, come abbiamo già ripetutamente specificato, tra ontologia, metafisica e antropologia nessun ambito sembra esaurire del tutto il suo domandare. 489 Ibidem. Ibidem. 491 Ibidem. 492 Le stesse dinamiche sono coerentemente applicabili al contesto artistico nelle sue forme specifiche di pittura, scultura ecc. Il riferimento di Dufrenne è alla pittura: “Je cite ici Le Bot, commentane la peinture de Velickovic: ‘Inquiétude, lutte violence sans fin qui témoignent que l’image est un espace conflictuel, jamais stabilisé, no refermé sur soi. L’état brut du réel dont parle Velickovic se qualifiera dans sa peinture sous forme d’images symboliques de l’insaisissable limite où toutes les réalités instituées ont ancore ou déjà partie liée avec le chaos et avec l’in-fini. En cela toute peinture est essentiellement sa propre genèse – Paul Klee le disait aussi. Elle s’inscrit, inceratine, sur un fond de chaos: elle en preserve le dynamisme évolutif où la forme ne cesse de se prendre et de se reprendre.’” (Ibidem.) 493 Ivi, p. 146. 490 171 Le riflessioni portate avanti lungo questi temi rappresentano per Dufrenne i binari della filosofia di tutta la vita, nella convinzione, da lui più volte ribadita, che il ragionamento sull’esperienza estetica sia una via maestra per la filosofia: Se non altro per una filosofia che intende dirigersi ‘verso il concreto’, come diceva Jan Wahl, che è più preoccupata di descrivere che di sistematizzare: una filosofia che prende le mosse dall’esame del primo rapporto dell’essere al mondo con il mondo, la percezione, ma a cui la fenomenologia della percezione non impedisce di andare un poco oltre. Ciò che rimane da pensare competerà dunque all’ontologia o alla metafisica?494 Con questa significativa domanda retorica Dufrenne indica con chiarezza la via del suo indagare, i dubbi che lo animano e le intenzioni che persegue. L’assestamento tra ontologia e metafisica, senza tralasciare l’interesse antropologico per lui essenziale, rende il movimento teorico di Dufrenne a volte indeciso, eppure, proprio per questa sua indecisione, esplicito nel segnalare quali interessi siano prevalenti. Ne è un chiaro esempio l’articolo, uno degli ultimi, che nel 1985 il filosofo dedica -di nuovo- all’oggetto estetico, esplorandone le correlazioni con le nozioni più importanti della filosofia husserliana. Quest’ultima diventa così l’interlocutore principale di un percorso che ha di mira proprio il suo superamento. In questo articolo Dufrenne torna di nuovo sull’oggetto estetico, estrapolando dal percorso precedente alcuni nodi rimasti irrisolti e, soprattutto, esplicitando alcune conclusioni prima presenti ma del tutto silenziose. Dell’equilibrio tra ontologia e metafisica Dufrenne riconosce ovviamente la problematicità, tenendo ferme le posizioni particolarmente rappresentative di Sartre e Heidegger, oltre che di Husserl, prima di provare a proporne a sua volta una nuova lettura. Husserl non basta a esaurire il domandare di Dufrenne; per il filosofo tedesco, come viene letto dal francese, infatti, “l’essere non costituisce un problema”495. Nell’ambito dell’essere si pongono con Husserl “quelle questioni che la filosofia come 494 495 M. Dufrenne, L’oggetto estetico come la “cosa stessa”, cit, p. 11. Ibidem. 172 scienza rigorosa è in grado di affrontare”496 e vi si possono distinguere le articolazioni differenziate tra un’ontologia generale, in quanto formale, e le ontologie regionali. Nella filosofia di Husserl, tuttavia, l’impegno non va oltre e si ferma prima della via metafisica. Metafisica che invece risulta percorribile per Sartre con il quale comunque tale strada non viene esaurita.497 Neppure il rovesciamento dei termini proposto da Heidegger soddisfa pienamente Dufrenne. La sua lettura di Heidegger su questo argomento, più fedele all’autore che in altre occasioni, ne rileva la metafisica nella posizione di elemento che va superato verso una ontologia, “o che per meglio dire si oltrepassa da sé perché il pensiero non può accedere alla metafisica se non in quanto animato fin da principio dalla ‘cura dell’essere’: la metafisica si compie solamente nell’ontologia dove al contempo si dissolve.”498 La posizione di Dufrenne propone una diversa linea teorica, che egli considera conseguente alla fenomenologia husserliana, secondo la quale se si giunge a pensare l’Essere come Natura, “al di là delle regioni o delle categorie secondo le quali lo suddivide un pensiero ancora sistematico”499, l’ontologia viene vista compiersi solo come metafisica.500 Tale compimento viene reso esplicito dalla trattazione dell’oggetto estetico, quale in parte abbiamo già visto, e dalla lettura che Dufrenne ne propone in termini di “cosa stessa” in senso husserliano. Heidegger resta presente sullo sfondo di 496 Ibidem. Scrive Dufrenne: “Infatti, se l’ontologia fenomenologica gli ha permesso di cogliere ‘le sole regioni dell’essere che possono essere chiarite: quelle dell’in-sé, del per-sé e la regione ideale della causa di sé’, questa lascia senza risposta due problemi che è dunque necessario assegnare alla metafisica: la nascita del per-sé e l’articolazione del per-sé all’in-sé. ‘Dualità separata o essere disintegrato?’” (Ibidem). 498 Ibidem. 499 Ivi, p. 12. 500 Il richiamo a Husserl è sempre, e dichiaratamente, libero. Dufrenne lo specifica: tratterà di questo autore “a modo nostro, e non come storici.” (Ibidem) Sa bene che rifarsi a Husserl in questi termini può essere considerata una scelta libera, scelta cui ad esempio Fink obietterebbe. “Fink ritiene che per un simile progetto non ci si possa affidare a Husserl. Husserl, egli dice, non apre la via a un pensiero speculativo: egli è preoccupato della scienza, instaura un metodo che lo conduce in qualche modo fuori dalla storia e da quel ‘lavoro ontologico’ che vi si persegue, alla ricerca di un cominciamento radicale. L’uomo diviene allora misura di tutte le cose e il soggetto è posto come assoluto. Il reale è ciò che appare all’uomo: il fenomeno. Ma la ‘fenomenicità del fenomeno’, dice Fink, non è interrogata in se stessa. L’essente è dunque ridotto all’essere di un oggetto, un oggetto per un soggetto e il rapporto soggettooggetto in totalità, con tutte le sue strutture poetico-nnoematiche, diviene a questo punto il tema proprio della fenomenologia. Ciò è vero e dè del resto noto con quale pazienza e quale finezza Husserl si sia dedicato all’analisi dell’intenzionalità che mette in luce queste strutture. Ma questo stesso studio della vita intenzionale può anche impegnare la riflessione sulla via del pensiero speculativo. In questo caso certamente l’itinerario filosofico non sarà quello che auspica Fink e che Heidegger apre quando si ferma all’analitica del Dasein.” (Ibidem) 497 173 questo percorso, avendo il merito in particolare, per Dufrenne, di aver richiamato l’opera d’arte quale elemento essenziale per chiarire la propria ontologia. A Dufrenne tuttavia l’opera d’arte, per quanto centrale, non è sufficiente; il suo è il riferimento ad essa sempre in termini di oggetto estetico: “vale a dire l’oggetto essenzialmente offerto all’aisthesis per compiersi in essa”501. E proprio in questo legame indissolubile con la percezione si inserisce un nodo cruciale: quello per cui parlare di percezione implica parlare di coscienza e conduce a una lettura dell’oggetto estetico all’ombra del concetto di intenzionalità per cui la coscienza è definita come atto che ha sempre di mira qualcosa. Accostata all’oggetto estetico e alla necessaria presenza con cui esso è, e lo abbiamo già visto, in relazione, la coscienza cui Dufrenne fa riferimento si riconferma da leggere nei termini, anche questi già visti, di coscienza percettiva, la cui trascendenza è per Dufrenne stabile e per nulla illusoria. Egli conviene con Sartre sul fatto che: “La coscienza non è nulla poiché essa esplode:‘essa esplode verso’ ed è così che l’uomo è veramente al mondo, presente alle cose, invece di avere le cose in rappresentazione nella sua coscienza.”502 È la presenza del mondo il tema decisivo, il punto critico, che Dufrenne, rivisitando parzialmente Fink e Heidegger, oppone a Husserl.503 Punto che egli vede quale inizio di un percorso che la metafisica potrebbe illuminare in modo nuovo e che la sua riflessione sull’oggetto estetico gli consente di percorrere autonomamente. Attraverso Husserl si perviene, nella lettura di Dufrenne e degli autori che sta citando, “alla concezione di un processo universale nel quale l’opposizione di soggetto e oggetto è contenuta nella totalità concreta della vita intenzionale”504. È proprio sul pensiero radicale dell’idea di intenzionalità che continua a concentrarsi l’attenzione 501 Specificare questa differenza è per Dufrenne essenziale. Certo l’opera d’arte rimane per lui centrale, ma più esaustiva ne è la lettura in termini di oggetto estetico, quindi “opera d’arte in quanto percepita e da una percezione che gli rende giustizia”. Esso diventa quindi ogni cosa estetizzatile in quanto estetizzata. (Ibidem.) 502 Ivi, p. 15. 503 La citazione di Fink è significativa: “Più originario di ogni essente,, di ogni oggetto e di ogni soggetto, c’è il mondo. Il pensiero è secondo la sua essenza propria l’operazione di aprire l’uomo al mondo. (…) L’essere stesso è lo spazio-tempo del mondo che contiene ogni cosa che è.” (Ibidem) 504 Ibidem. 174 dell’autore: in essa si concentra il fenomeno autenticamente concreto e primo, “l’origine dell’opposizione stessa dell’oggetto e del soggetto.”505 Ma è necessario collocare l’intenzionalità nella coscienza? Certamente l’intenzionalità deve essere pensata come origine, ma come origine di una reciprocità o di una complicità piuttosto che di una opposizione. L’intenzionalità non può essere posta nella coscienza poiché ne è la stessa origine, ma sarà piuttosto la coscienza a essere posta nell’intenzionalità di modo che l’intenzionalità possa assumere un senso propriamente ontologico. Questa ontologia dell’origine può essere concepita da una filosofia della Natura alla quale forse ci invita Merleau-Ponty.506 In ogni caso, ed è questo il punto saliente, è questa la direzione che l’oggetto estetico, come viene descritto da Dufrenne, dischiude e indica. Si capisce bene quale ruolo privilegiato continui ad avere, nella meditazione dell’autore, il problema del rapporto soggetto-oggetto: problema che per lui la fenomenologia della percezione consente di afferrare ma non esaurisce. Nella percezione, l’abbiamo già visto a più riprese, l’oggetto estetico trova la propria condizione di possibilità: esso è la cosa percepita per eccellenza. In questa percezione si compie inoltre una forma di riduzione: diversa dalla sospensione di ogni tesi di esistenza, la riduzione incarnata dall’oggetto estetico è di stampo più esistenziale. È “la decisione di giocare un certo gioco, il gioco dell’estetizzazione al quale ci sentiamo inclini, e di rinunciare così agli atteggiamenti proprio della pratica o della conoscenza.”507 Tale riduzione, nella sua componente percettiva ed estetica, resta comunque - e Dufrenne tiene molto a sottolinearlo - ben distante da un ambito prettamente contemplativo. Qui l’esperienza estetica, infatti, è intesa molto più come azione che come contempl-azione. “L’arpione si compie meglio come oggetto estetico nell’uso che ne fa il pescatore eschimese che non sul muro di un museo archeologico.”508 Qui Dufrenne si limita a un breve cenno, riconoscendo che “sarebbe necessario spingere più a fondo questa analisi di una esperienza estetica 505 Ibidem. Ibidem. 507 “L’oggetto estetico non sollecita né il sogno né la conoscenza, si dispiega in uno spazio di gioco dove il mondo quotidiano è messo tra parentesi, dove l’oggetto estetico basta a se stesso come basta al fruitore accoglierlo e gustarlo: è a queste condizioni che l’oggetto estetizzatile si compie come oggetto estetico.” (Ivi, p. 16.) 508 Ibidem. 506 175 spontanea e irriflessa, vissuta in immediatezza vitale e che (…) fa della vita stessa un gioco.” Questo resta tuttavia uno dei nodi più significativi della sua riflessione, che dischiude la possibilità di “prendere di mira come opera d’arte non tanto un oggetto determinato quanto piuttosto il mondo nel quale tale oggetto assume una funzione.”509 Le conseguenze di tale impostazione sono evidenti e non secondarie: come opera d’arte l’oggetto estetico rappresenta un settore limitato e percorribile, indice però di un meccanismo ben più ampio e antropologicamente più significativo e rilevante. In ogni caso, grazie a questa impostazione, Dufrenne può affermare un altro dei suoi punti più perspicui: “la percezione estetica è una modalità dell’intenzionalità portata alla sua più alta intensità”510. Intenzionalità che rivela il proprio carattere genealogico e fungente proprio nella relazione che lega la coscienza a questo tipo di oggetto che si dà sì sempre “in un sol colpo”, ma è un sol colpo esteso in una durata, poiché l’oggetto è a sua volta una totalità in divenire. L’esperienza estetica condivide e mostra allora il carattere fungente di un’intenzionalità vissuta. Quell’intenzionalità che nella sua commistione con la percezione ha il proprio carattere genealogico e dinamico. Correlato teorico di tale intenzionalità percettiva che nell’esperienza estetica raggiunge uno dei suoi culmini più rappresentativi è il fatto che l’essere proprio dell’oggetto estetico risieda nel suo apparire. Esso infatti è il reale in quanto percepito. Il suo essere è un essere percepito, profondamente integrato nella regione dell’aistheton; le sue qualità si dispiegano nel campo del sensibile e in esso si radicano. “Senza dubbio si potrebbe estendere ciò che diciamo dell’oggetto estetico ad ogni cosa percepita, ma solo la riduzione spontanea che l’esperienza estetica opera si arresta all’essere sensibile e lo gusta come tale.”511 Nel sensibile si radica così anche il senso dell’oggetto in questione, “senso immanente che non è forse concettualizzabile ma che è sperimentato senza equivoco e che può essere detto nel vocabolario dell’affetto.”512 Su questo punto ci siamo già soffermati in precedenza e possiamo qui semplicemente rilevare come esso rappresenti un caposaldo acquisito nel percorso dufrenniano. Ad esso si correla la lettura, anche questa già vista, dell’oggetto estetico come un quasi soggetto, grazie alla 509 Ibidem. Ivi, p. 17. 511 Ivi, p. 18. 512 Ivi, p. 19. 510 176 quale Dufrenne può nuovamente sottolineare l’immanenza del senso all’oggetto estetico e al contempo come mediante questo senso esso trascenda se stesso, esplodendo verso un mondo al quale fa accedere anche noi.513 Porre l’accento sul radicamento dell’oggetto estetico nel sensibile conduce Dufrenne a considerare un altro dei temi centrali della filosofia husserliana: quello della costituzione. Per lui l’evidenza di un oggetto estetico, che si rivela solo a una coscienza che lo ha di mira secondo una certa intenzione, non autorizza a dire che questa coscienza lo costituisca né che gli dia il suo senso, “se è vero che il senso abita l’oggetto che lo esprime invece di essergli aggiunto in una sorta di libera interpretazione soggettiva.”514 Il senso del sensibile non è qualcosa che ad esso giunga da una coscienza che lo costituisce, al contrario, per Dufrenne vi è al livello del senso uno scambio reso possibile da una forma di accordo e apertura reciproca tra oggetto e soggetto che egli legge come un a-priori affettivo. Il tema dell’essere al mondo trova in questa impostazione una significativa apertura. La riflessione sull’oggetto estetico ha rappresentato, infatti, un continuo rilanciamento della filosofia dei Dufrenne nella direzione di un originario legame (tra soggetto e oggetto) che non cessa di presentarsi problematico. In quest’ottica, il sensibile si riconferma per Dufrenne come il prodotto di una cooperazione tra soggetto e oggetto, “il luogo della loro nascita comune”515 in cui essi, non essendo due entità che preesistono alla propria relazione, si scoprono vicendevolmente. È l’esperienza estetica a permettere questa frequentazione simbolica del sensibile; diversamente, nell’esperienza della percezione quotidiana, animata da un interesse conoscitivo o pratico, noi “riferiamo il sensibile a una cosa che esso qualifica” ed esso si ritrova messo in campo “come strumento di un pensiero o di una pratica, misurato dal metro del sapere e spiegato da questo sapere”. Al contrario, “l’esperienza estetica restituisce il sensibile al suo essere enigmatico senza perciò sottrargli la sua virtù espressiva.” 516 In questo modo Dufrenne può intendere l’esperienza che del 513 “In ciò possiamo essere heideggeriani: l’opera è vera nella misura in cui essa manifesta questo potere di Offenheit che presuppone anche un potere di ripiegamento o di dissimulazione, dunque nella misura in cui ad un tempo apre un mondo e appartiene alla terra. Piuttosto che l’opera preferisco dire l’oggetto estetico perché l’opera resta senza potere finché non è percepita e promossa al sensibile.” (Ibidem). 514 Ibidem. 515 Ibidem. 516 Ibidem. 177 sensibile si fa in ambito estetico come una forma di esperienza originaria in cui il cominciamento è tale che nessuno ha la priorità o l’iniziativa. È questa forma di esperienza che si rivela in grado di condurci all’inizio, dove “il mondo sensibile, come dice Merleau-Ponty, è più antico dell’universo del pensiero.”517 E proprio a questo proposito, rispondendo al suo maestro, Dufrenne introduce una delle teorie che maggiormente identificano il suo percorso dischiudendone di nuovi. Il riferimento è alla nozione pontiana di carne, che abbiamo già visto a più riprese riferimento basilare per Dufrenne. Merleau-Ponty è stato condotto a questa nozione (“Nozione ultima, egli dice, ultima perché prima: è il nome dell’originario”518) perché la sua riflessione era partita dal corpo e di ciò che in esso è in gioco e lo mette in gioco doveva render conto. Ma Merleau-Ponty, fedele alla necessità di consustanzialità con le cose, ne fa un elemento; per lui la carne è il luogo della “doppia deiscenza”, del vedente in visibile e del visibile in vedente. Questo conduce, a parere di Dufrenne, all’indebolimento dell’aspetto originario a favore di una lettura della carne come un “tra due”.519 E se questo tra due merita considerazione, se non è semplicemente una relazione istituita da un pensiero superficiale, “è perché può dare vita ai due, agli essenti che saranno e si affermeranno per loro conto.”520 E il conferimento di questo potere conferma a Dufrenne la necessità di leggere tale elemento in una chiave differente, secondo un termine tradizionale che tutta la sua filosofia si è concentrata a reinterpretare, la Natura. Dire che l’originario esplode significa riconoscere l’uomo e il mondo come parti che sorgono dalla Natura essendo della stessa razza. “Ma l’originario continua ad esistere come supporto: essi non nascono una volta per tutte, essi non rompono il cordone ombelicale poiché non vi è che una sola esplosione dell’essere che dura per sempre.”521 In questo modo la carne merleaupontiana, nel suo essere demoltiplicata di una pluralità indefinita diventa carne della Natura o Natura come carne. “Il sensibile è la figura di questa carne quando, per lo stesso movimento irreversibile che produce in essa, accede all’apparire.”522 517 Ivi, p. 20. Ibidem. 519 Ibidem. 520 Ibidem. 521 Ivi, p. 21. 522 Ibidem. 518 178 L’oggetto estetico, allora, riconferma il proprio ruolo e le sue valenze ontologiche: esso è “precisamente questo oggetto che sorge all’apparire: la cosa stessa.”523 È in questo modo che Dufrenne può ribadire e riconfermare la posizione occupata dall’oggetto estetico all’interno della sua riflessione. Non si tratta, infatti, di un oggetto particolare in sé le cui caratteristiche lo rendano eccentrico rispetto alle cose del mondo; al contrario, proprio per le sue caratteristiche in esso si rendono manifeste strutture e comportamenti propri del mondo in generale. Dire che esso è la cosa stessa significa riconoscere la cosa stessa come inserita in un contesto dinamico e relazionale poiché essa si manifesta nel movimento dell’apparire che, come abbiamo già accennato, è venire alla presenza oltre che essere visibile. Di più, la cosa stessa risulta configurabile solo come correlato di una relazione con un soggetto che, come abbiamo mostrato, si presenta come una relazione genealogica e dinamica profondamente radicata nel contesto del sensibile. Le conclusioni di Dufrenne incarnano una posizione che con coerenza reagisce a e fa reagire tra di loro le basi merlaeupontiane e i riferimenti husserliani: Quando l’intenzionalità è percettiva, quando l’intenzione viene riempita e il suo oggetto si dà come presente, come nell’afferramento dell’oggetto estetico, ci si può domandare se questa intuizione che Husserl chiama originaria, perché fonda tutte le altre, non ci conduca nei dintorni dell’originario nel senso in cui lo intende Merleau-Ponty. La relazione intenzionale che la fenomenologia descrive tra il senziente e il sentito non è allora forse l’irrelativo da cui procedono l’uno e l’altro? La trascendenza che la descrizione presenta alla coscienza non è allora il fatto stesso dell’originario, la sua esplosione verso il mondo e l’uomo?524 Nella relazione intenzionale egli legge il fatto originario, il legame principe grazie al quale ogni distinzione risulta possibile. Qui, come dice Dufrenne, il pensiero tocca il fondo; arriva a intravedere la Natura “per la quale trascendersi e naturare è la stessa cosa” e sa di non poter andare oltre né di potervisi soffermare. Tale fondo è, infatti, un fondo in costante movimento, una Natura costantemente naturante alla quale solo l’esperienza estetica consente di avvicinarsi nella fascinazioni esercitata dal sensibile. 523 524 Ibidem. Ibidem. 179 L’oggetto estetico è allora, precisamente, “questo essere sensibile, questo frammento di carne che non appartiene né al mondo né all’uomo, ma che manifesta il potere naturante della Natura.”525 Con esso la coscienza è convocata a penetrare un mondo con il quale è in relazione consustanziale di carne sensibile. Se l’oggetto estetico è la cosa stessa, allora, esso non lo è in quanto cosa già naturata, già determinata, già collocata dal sapere nello spazio-tempo, che si tratterebbe solamente di trovare tra le altre. Come cosa stessa l’oggetto estetico non sarà mai la cosa presa di mira, “ma la cosa che mi prende di mira”, un in-sé che solo in quanto io sono per esso può essere per-me. L’oggetto estetico come cosa stessa non si dà dunque come un essere, oggetto o soggetto, ma come “un apparire, una folgorazione i cui precipitati saranno oggetto e soggetto.”526 È pertanto un’esperienza limite quella che dà accesso a un tale oggetto, tanto che “si potrebbe dire dell’atto estetico ciò che Kant dice dell’atto morale: che non è mai stato compiuto.”527 3.2 Natura e coscienza: un legame poetico Se, come abbiamo visto, l'oggetto estetico manifesta il potere naturante della Natura, diventa allora estremamente importante comprendere in che senso tale nozione rientri nella meditazione dufrenniana e quale ruolo essa giochi relativamente all'estetica. Grazie all'oggetto estetico come lo abbiamo visto, l'arte, in Dufrenne, si pone infatti quale superiore indifferenza di Natura e Spirito, come rivelatrice attiva dell'Essere, della Sostanza, della Natura naturante.528 Come è stato già notato, ciò permette a Dufrenne di 525 Ibidem. Ivi, p. 22. 527 Ibidem. 528 Sono evidentissimi i riferimenti alla conoscenza intuitiva di Spinoza come all’assoluto di Schelling, tanto che si renderebbe necessaria un’analisi dettagliata, purtroppo impossibile in questa sede, della loro azione sul pensiero di Dufrenne come anche sulla fenomenologia francese in generale. Nella lettura di Dufrenne resta comunque fondamentale che: “l’originalità di Spinoza consiste nell’identificare la necessità esistenziale, vale a dire quella pienezza conferita all’esistenza dal fatto della sua identificazione all’essenza, con la necessità logica: l’affermazione di sé che costituisce il conatus non è differente 526 180 non annullare l'antropologico, l'uomo nella sua corporeità, in una statica realtà suprema ma di porlo anzi quale protagonista del divenire dell'essere stesso.529 Una delle opere in cui l'avvicinamento di Dufrenne a tematiche ontologiche è più fecondo ed evidente è Le poétique, del 1963. L'origine dell'opera d'arte di Heidegger è qui sfondo teorico costante del percorso dell'autore francese; per entrambi è l'arte stessa piuttosto che l'artista ad essere all'origine dell'opera e dell'artista stesso. Diversamente da Heidegger, tuttavia, Dufrenne insiste sul collegamento tra l'opera d'arte (l'oggetto estetico) e la sensibilità umana respingendo i caratteri "ontoteologici" presenti nel secondo Heidegger a favore di una prospettiva "ontofenomenologica". Se anche per Dufrenne, nell'opera, è heideggerianamente in opera l'evento della verità e si verifica l'apertura dell'ente nel suo essere, è chiaro che la verità si afferma per Dufrenne in un divenire percettivo che invece per Heidegger tradirebbe il senso stesso dell'opera d'arte. 530 Al concetto di Natura Dufrenne dedica esplicitamente il terzo libro del lavoro del 1963, con l'intenzione di estrapolare il poetico dalla serie di accidenti della storia e della cultura per tentare di coglierlo invece nella sua componente essenziale e oggettiva fino a renderlo una categoria a se stante. Afferrare l'idea di Natura con Dufrenne significa, ancora una volta, interrogarsi sulla questione della correlazione intenzionale – pratica e noetica – tra l'uomo e il mondo. La soggettività è indeclinabile o è necessario assegnare a qualche istanza preumana il senso di cui la coscienza si rivendica portatrice?531 Se l'uomo e il mondo sono legati da una forma di patto originario che li vede indissolubilmente legati, uno dei due poli può meritare una qualche priorità nella relazione? A dare conto della loro uguaglianza Dufrenne si è concentrato con attenzione in un altra opera, di poco precedente a Le poétique. In La notion d'a priori, infatti, del 1959, uomo e mondo vengono descritti secondo una forma di uguaglianza reciproca che descrive il soggetto accordato con il reale in una dinamica che non può identificare dall’affermazione logica che è anima del vero.” (M. Dufrenne, Brève note sur l’ontologie, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, 1954, n. 4, p. 404.) 529 E. Franzini, op. cit., p. 377. 530 Cfr. Ibidem. 531 M. Dufrenne, Le poétique, , PUF, Paris 1963, p. 139. 181 nessuno dei due come preesistente all'altro. L'indispensabile reciprocità che lega il mondo al soggetto che lo abita è contenuta in quella che Dufrenne presenta come una formula apparentemente semplice: "le monde comprend le sujet, le sujet comprend le monde."532 Ma la comprensione, nelle due proposizioni, cambia di segno. Se il mondo, infatti, comprende il soggetto, è individualizzandolo ma rinunciando al contempo ad integrarlo. Il soggetto non fa parte del mondo come una parte in un tutto, esso rimane irriducibile: "être au monde ce n'est pas s'inscrire dans un ensemble, c'est naître à la réalité."533 Il soggetto a sua volta comprende il mondo particolarizzandolo e solo a questa condizione può definirsi come soggetto. "Le sujet comprend le monde comme ce qui ne peut être compris, le monde englobe le sujet comme ce qui ne peut être englobé."534 E se la dualità di questa relazione rimane insormontabile ciò che li oppone è comunque ciò che li rende solidali.535 Questa visione non viene abbandonata, ma il passaggio alla Natura permette di dipanare alcune delle ambiguità che con il suo percorso fenomenologico Dufrenne aveva mantenuto. Con la nozione di Natura, infatti, egli mette in campo un principio ontologico in grado di fondare e reggere i significati di mondo e soggetto attraverso un passaggio dalla fenomenologia alla metafisica che egli vede come risolutivo. "Nous pensons que la phénomnénologie peut montrer l'homme partagé entre le travail et le jeu, entre la scission et la réconciliation, entre le malheur et le bonheur, et que peut-être la métaphysique peut comprendre cette bipolarité par l'examen du statut de l'homme dans la Nature."536 È su questa idea che si legittima, tra l'altro, la sua riflessione sulla dimensione poetica dell'esistenza. Lo abbiamo visto attraverso l'idea di un mondo dischiuso dall'oggetto estetico alla stregua di un soggetto: il Mondo si configura con Dufrenne come un luogo costitutivamente comunitario, intersoggettivo e dinamico, in cui interagiscono i mondi singolari e soggettivi. Se il Mondo è questo luogo in cui sono raccolti e contenuti tutti i diversi mondi in potenza attraverso cui esso stesso si manifesta, con la Natura si indica 532 M. Dufrenne, La notion d’a priori, PUF, Paris 1959, p. 254. Ibidem. 534 Ibidem. 535 Questa relazione descritta come non dialettica sfida, per Dufrenne, ogni tipo di logica e rappresenta lo scacco di ogni tentativo di spiegazione naturalistico quanto idealistico. 536 M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 1. 533 182 allora tutto il reale nel suo essere débordant. 537 Nella Natura si ricomprendono tanto il Mondo quanto i mondi che lo compongono, animano e abitano. In essa coesistono differenti forme di realtà: "le réel dans sa présence immédiatement signifiante ordonné à une conscience percevante et le réel dans son être extérieur et objectif, ordonné à une conscience en général."538 Ma vi agisce anche un'altra forma più complessa di reale, "le réel dans sa puissance, capable d'un devenir"539, con cui il possibile e il reale confermano la propria azione congiunta e tuttaltro che oppositiva. Questo reale è quello legato a una coscienza ispirata, poetica che tuttavia non si può riconoscere quale polo di una relazione intenzionale che abbia nella Natura il proprio oggetto. Tra Natura e coscienza ispirata o poetica non può esistere una forma di intenzionalità, grazie alla quale si ricadrebbe nel problema costitutivo o comunque in una forma di oggettività di cui invece la Natura è priva. Al contrario, la Natura rappresenta proprio il reale al di qua della coscienza: la loro correlazione non è (solo) intenzionale, bensì (anche) ontologica.540 Con l'idea di Natura quello che poteva apparire come un dualismo oppositivo tra soggetto e mondo che, per quanto uguali, continuavano a presentarsi contrapposti, si supera a favore di un riafferramento del fondo fondante che non resta più sottointeso ma si può manifestare e intravedere nella propria inarrestabile produttività. Produttività che, a sua volta, fa il pari con un'idea di libertà poichè, e Dufrenne sa che Heidegger l'ha già ben mostrato, nel cuore dell'idea di fondamento c'è l'affermazione della libertà. Libertà che rappresente il cominciamento, quel cominciamento di cui la Natura è figura assoluta, che inaugura un ordine mai riducibile ai puri e semplici fatti. Dufrenne individua in questa forma di interrogazione un passaggio essenziale, che dal trascendentale porta al trascendente: il primo è rappresentato dall'esame della correlazione intenzionale tra uomo e mondo, il secondo, dalla ricerca dell'origine prima 537 Ivi, p. 143. Ibidem. 539 Ibidem. 540 Dufrenne si sta allontanando con ogni evidenza e sempre più da qualsiasi rigore fenomenologico: “Non seulement la réflexion doit désormais faire abstraction de ce que la phénoménologie ou la science ont pu lui apprendere, mais la conscience doit en quelque sorte faire abstraction d’elle-même.” (Ibidem) Ma anche questa scelta non è casuale. Il suo è un tentativo radicale, forse non rigoroso ma neppure ingenuo, di rileggere il rapporto tra soggetto e oggetto in una chiave produttiva, dinamica e propositiva che, come vedremo, non resta estranea a esortazioni di tipo etico. 538 183 di questa relazione. Ciò significa che per Dufrenne il trascendentale stesso è considerato alla stregua di un fatto. Questa considerazione fa sicuramente parte delle impostazioni portanti del percorso di Dufrenne tutto teso a deformalizzare, delogizzare il trascendentale, l'a priori, per farne piuttosto una struttura intramondana, che non dipende dall'esperienza ma è in essa profondamente calata. La Natura di Dufrenne si situa allora proprio a questo livello: ontico ma non del tutto metafisico, primo e fondativo ma sempre reale e soprattutto materiale. È proprio la fedeltà al livello materiale dell'esistenza, livello che il radicamento nel contesto percettivo rende costantemente presente, a indicare quale sia l'orientamento costante dell'autore. La Natura cui la scienza invita a tornare, così come è indicata dal positivismo, è proprio l'esatto opposto di quella Natura che Dufrenne sta indagando: la Natura della scienza ci parla di un mondo senza l'uomo, di un mondo prima dell'uomo. Con Dufrenne, al contrario e in modo profondamente significativo, la Natura è il mondo dell'uomo: mondo di fatti, oggetti, azioni e soprattutto loro significati benchè non ancora cristallizzati. La metafisica di Dufrenne è allora il ricorso al fondo dell'ispirazione, che precede le formalizzazioni concettuali e in cui vive il pensiero pre-critico. In questo prepensiero, in questa realtà originaria, è all'opera non ciò che è, ma tutto ciò che potrebbe essere: "La Nature c'est d'abord l'inépuisable réalité." Inesauribile perchè ogni possibile e reale è solo uno degli infiniti possibili e irreali. Dire mondo piuttosto che oggetti è poi una scelta ancor meno indifferente, poichè la determinazione degli oggetti presuppone già quella concettualizzazione che resta invece estranea all'idea di mondo.541 Realtà inesauribile, la Natura è allora altro e di più rispetto al sistema o alla totalità degli enti, poichè l'idea stessa di totalità si presenta già come idea della ragione o del sentimento. Parlare di Natura con Dufrenne significa mettere in luce non l'insieme affettivo né l'universo intellettuale, i quali entrambi presuppongono già sempre l'uomo come loro correlato, bensì accettare di nominare "l'être inassignable, et en tout cas inassigné, de l'étant."542 Significa quindi comprendere l'essere nelle sue possibilità non 541 Come l'autore ha esplicitato nuovamente più tardi, nel 1975, in un altro scritto sempre dedicato, seppur in modo differente, alla poesia. Cfr: La poésie: où et pourquoi?, “Revue d’esthétique”, 1975/ 3-4, oggi in Esthétique et philosophie, cit., tome 2, p. 251. 542 M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 152. 184 ancora individuate badando bene, tuttavia, a non separare realtà da reale per evitare di invocare un atto che conferisca al reale la sua realtà. Si comprende bene in questo modo come l'obiettivo polemico del Dufrenne di queste pagine sia rappresentato in particolare dai filosofi che distinguono essenza ed esistenza, separando in modo netto l'ente dall'essere per subordinarli a qualche istanza trascendentale. Subordinare l'esistenza all'essenza, facendone un predicato, è infatti per Dufrenne un modo di privare l'esistente della propria autonomia mentre di essa egli mira a riconoscere la soggettività di cui gli altri esseri sono predicati. Con l'idea di Natura Dufrenne invita ad andare al cuore del reale, riconoscendo innanzitutto la realtà del reale. Non è nemmeno la presenza ciò che egli sta invitando a mettere a fuoco, proprio perchè come abbiamo visto la presenza sarà sempre presenza a mentre mirare alla Natura equivale proprio a mirare a tutto ciò che potrà (o potrebbe) essere presente: il fondo cioè, prima di essere illuminato dalla luce di una soggettività capace di introdurre l'apparire nell'essere per articolarlo in figure e totalizzarlo in un mondo. La Natura è questo fondo cieco, mai del tutto esplorabile proprio perché inesauribile nella sua pesante opacità; fondo che, non appena viene avvicinato da una coscienza cessa di essere tale per diventare già cosa identificabile e nominabile. Relativamente al senso la Natura è allora descrivibile come non-senso, o nonancora-senso perchè "possibilité du sens"543. È a questo punto che si ritrova nuovamente la necessità del salto dal contesto fenomenologico a quello metafisico: Dufrenne ripete che la relazione intenzionale non è applicabile al livello del fondamento che per questo richiede all'analisi un'impostazione metafisica, la sola capace di situarsi seriamente sul fondo. Tale impostazione permette a Dufrenne di ristabilire la comunicazione tra quei due estremi rappresentati dall'essere trascendente e dalla coscienza, estremi tra i quali egli intende reperire una forma di comunicazione.544 543 Ivi, p. 154. Tutta l’analisi è in dialogo stretto con le teorie di Sartre. Una è in particolare la tesi che egli mutua da Sartre: “Il punto di vista di una coscienza pura è contradditorio: non vi è che il punto di vista della coscienza impegnata. Il che significa che la conoscenza e l’azione non sono che due facce astratte di una relazione originale e concreta”. (Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 384). Per Sartre non avrebbe alcun senso, tuttavia, interrogarsi sull’essere precedente l’apparizione del per-sé. Diversamente da Sartre, invece, Dufrenne ritiene importante e possibile l’interrogazione del fondamento per comprendere come il per-sé sia possibile e come esso nasca all’interno dell’in-sé; questa domanda, 544 185 Quello che gli interesse porre a tema è proprio la dinamica che regola essere e apparire se, come abbiamo già indicato, è proprio l'apparire individualizzato e soggettivo che porta la Natura al livello del mondo. Questa dinamica richiede una attenta messa in questione delle relazioni tra possibilità e realtà: quando parla di possibilità Dufrenne ne parla in termini materiali, in quanto possibilità che è potenza dell'atto, e non in termini logici dipendenti da un'immaginazione in grado di avanzare ipotesi. Il possibile significa per lui "la plénitude du réel, son autorité et son efficience" e la Natura risulta quindi non certo l'insieme dei casi possibili (hasards) ma una riserva, una sorgente alimentata da "la forza silenziosa dei possibili".545 Certo, Dufrenne riconosce l'impossibilità di parlare davvero della Natura prima dell'uomo poichè noi possiamo parlarne solo nella misura in cui essa si manifesta ed appare; ma "nous pouvons faire au moins l'hypothèse métaphysique d'une Nature antéhistorique et pourtant déjà temporelle, et d'un devenir de cette Nature vers l'homme."546 È un'ipotesi, certamente, ma non priva di consguenze teoriche interessanti. La notazione più interessante riguarda la trattazione del tema della temporalità rispetto alla Natura, trattazione che pone Dufrenne in posizione piuttosto eccentrica rispetto ad ogni ontologia tradizionale. La Natura è temporale, infatti, nella sua descrizione. Negarle la dimensione del tempo proprio in nome di una teoria del tempo equivale per Dufrenne a cedere ancora a quell'idealismo da cui egli, anche se a volte in maniera un pò opinabile, cerca sempre coerentemente di stare lontano. Lo scorrere irreversibile del tempo è per lui costante e primo, sia che riguardi i flussi di coscienza che il divenire delle cose. Certo, Dufrenne lo riconosce, il tempo di per sé non è nulla se non un'astrazione o un parametro all'interno dei nostri calcoli, ma esso è comunque "le caractère donné de tout donné, le caractère essentiel de tout étant."547 Il fondo è temporale, tanto quanto l'uomo che in esso si radica. Se il tempo non è un essere di cui si possa cercare il cominciamento e la fine, l'essere è comunque temporale, "et il est vain de chercher, en dehors des objets ideaux per lui, rappresenta la via d’accesso per illuminare il per-sé stesso attraverso la delineazione dell’essere che lo precede. 545 M. Dufrenne, Le poétique, cit., pp. 154-155. 546 Ivi, p. 155. 547 Ibidem. 186 qui sont eux mêmes conçus dans l'histoire, un être intemporel."548 Se l'eternità ha un senso sarà solo per designare l'intelligibilità di un oggetto logico, o la pienezza di un istante vissuto. Ecco quindi che per Dufrenne riferirsi a una Natura naturante implica e richiede una riabilitazione del tempo, il che comporta due conseguenze decisive nella sua filosofia. La prima conseguenza riguarda il concetto di fondamento come cominciamento. La Natura precede sì l'uomo, ma non c'è un Essere che preceda a sua volta la Natura, nè un essere intemporale che preceda quello temporale. Il fondamento è così, propriamente, un cominciamento: "de même que l'acte libre commence avec la décision, l'histoire commence avec l'homme"549 e ogni percezione che fonda è altresì una percezione che dà inizio a una storia temporale. Temporale e tuttavia non storico, il fondo è allora il luogo di una letterale pre-istoria, "d'un devenir où sa puissance se manifeste par l'actualisation des possibles."550 La seconda conseguenza che Dufrenne trae dalla sua riabilitazione della dimensione temporale relativamente alla Natura è la possibilità di parlare di una "polarizzazione della Natura verso l'uomo"551, cioè verso la coscienza in cui essa si riflette e raccoglie. Se, come abbiamo visto, è l'apparire che fa della Natura (in-sé) un mondo, si capisce perchè Dufrenne dica che proprio l'apparire è la suprema possibilità dell'Essere, ciò verso cui esso tende proprio in virtù della sua temporalità. Perchè il tempo investe l'essere secondo due modalità: è in lui il principio del divenire, ma è anche la possibilità di un logos. Riprendendo Heidegger come Hegel, Dufrenne mira a far riconoscere come il divenire naturale prepari e prefiguri il divenire logico del discorso. È il suo essere temporale che orienta l'Essere verso l'apparire.552 E proprio perchè temporale la Natura può essere potenza produttrice. 548 Ivi, p. 156. Ibidem. 550 Ibidem. 551 Ibidem. 552 È importantissimo tenere ben distinte temporalità e temporalizzazione, la seconda dipendendo strettamente da una coscienza e la prima caratterizzando invece anche l’Essere al di fuori del rapporto intenzionale. 549 187 E proprio questo aspetto produttivo della Natura è ciò che Dufrenne ha di mira. Ma non si tratta di un dinamismo produttivo finalizzato; il linguaggio di Dufrenne è tuttaltro che antropomorfico. Dire, "in mancanza di termini migliori"553, che la Natura vuole l'uomo non equivale affatto ad attribuire alla Natura una forma di volontà modellata su quella umana, nè tanto meno su quella divina; non equivale neppure a ipotizzare una premeditazione da parte della Natura nel concepire e volere l'uomo né che l'evoluzione creatrice sia realizzazione di un programma.554 "Nous voulons seulement dire que la Nature est puissance et que cette puissance produit l'homme."555 Certo la Natura non tiene l'uomo in potenza come un possibile logico, ma neppure come un possibile biologico: "l'homme n'est pas présupposé ou préformé dans la Nature, mais il est produit par elle, même si, en tant qu'il est le correlat d'un monde, son surgissement est absolu."556 Non vi è evidentemente qui alcun riferimento a insostenibili forme di creazionismo, la figura che per Dufrenne esplicita meglio la relazione è allora piuttosto, anche se con una certa torsione poetica, quella di destino. Con questo termine Dufrenne crede sia più chiaro il legame che corre tra il fondo e l'uomo nelle sue vicende reali: "Et ce qui permet au mieux de pressentir – sinon de penser – la Nature, ce n'est pas seulement le fond, c'est la force du fond, ce que précisément l'homme appelle destin."557 Con il destino si vuole sottolineare la forza genealogica del fondo naturale, il suo essere precedente ed estranea ad ogni struttura che nel mondo si trovi già fissata, e sia quindi prevedibile o controllabile. Perchè se il mondo è soltanto "mondano", la Natura è naturante, e mentre il mondo "est la figure du tout, la Nature est sa puissance."558 Quello che la Natura di Dufrenne permette di mettere a fuoco in modo decisivo è allora l'emergere contemporaneo e coordinato di coscienza e oggetto: è nell'uomo che la 553 Ivi, p. 158. Decisiva è per Dufrenne la critica bergsoniana della finalità e, ancor prima, il contributo di Schelling che negli Essais insiste proprio sull’essere teleologico della Natura che pure rimane un meccanismo cieco. Come Schelling Dufrenne rifiuta di mettere l’intenzione prima del prodotto poiché la più alta finalità è proprio in questa Natura da cui resta assente tuttavia ogni mira voluta o deliberata. (Ivi, p. 159 n.) 555 Ibidem. 556 Ibidem. 557 M. Dufrenne, Le jeu et l’imaginaire, “Revue Esprit”, Juillet-Aout 1971, oggi in Esthétique et philosophie, cit., tome 2, p. 147. 558 Ibidem. 554 188 Natura viene alla coscienza, che le cose divengono immagini e che queste immagini sono in grado di dire qualcosa. È sempre nella Natura che l'essere appare, viene alla presenza e la potenza si rivela, in ultima analisi, potenza di svelamento. Così Dufrenne propone di pensare la Natura come idea-limite, allo stesso modo in cui Merlau-Ponty aveva riservato alla carne questa qualifica. Questa visione conferma l'idea che noi non abbiamo a disposizione alcuna intuizione originaria, e che ogni attività si esercita su determinati dati. "Elle peut donc suggerer que nous sommes aussi bien donnés à nous-mêmes et que le sujet transcendental n'est pas souverainement constituant."559 La conclusione più importante è allora che per esercitarsi, la potenza non è in attesa di una coscienza che ne attivi i possibili poichè è dalla potenza stessa che si produce la coscienza. "Ce qui se révèle à l'homme, l'être même du dévoilé implique dans cet être une puissance de dévoilement dont l'homme n'a pas originellement l'initiative."560 Ed è in questo modo che per Dufrenne si può comprendere la relazione dell'uomo in quanto coscienza con la Natura. Natura disponibile allo svelamento, che anzi implica ed esige affinché, tramite lo sguardo dell'uomo, le cose possano diventare immagini ed essere quindi afferrate come cose. L'uomo però a sua volta non è leggibile come un principio irriducibile che sorga ex nihilo, esso è piuttosto prodotto dalla Natura come parte di sé, "une partie privilégiée où le tout se reflète."561 Si torna così a una forma di circolarità, che vede il soggetto e l'oggetto indissolubilmente legati nel loro stesso apparire; e all'interno di tale circolarità l'uomo incarna il nodo essenziale, il luogo in cui il dualismo sorge e può oltrepassarsi."Car la conscinece est l'autre de la Nature, mais cette conscience est elle-même produite et portée par la Nature."562 È nell'uomo quindi che questa correlazione essenziale prende corpo, essendo esso stesso indissolubilmente coscienza e Natura, correlato ed elemento della Natura. Con questa conclusione, nonostante le torsioni metafisiche, Dufrenne può guardare nuovamente alla fenomenologia nell'inesausto tentativo di reperire all'interno 559 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 160. Ivi, p. 162. 561 Ibidem. 562 Ibidem. 560 189 del corpo le radici del trascendentale. Il punto di passaggio, infatti, tra l'uomo come coscienza e l'uomo come Natura è rappresentato dall'apertura percettiva, fondamento instaurato in via esclusiva dall'uomo che dischiude il regno della presenza "où la temporalité, reprise par une conscience temporalisante, devient clarté en ouvrant un présent qui n'est plus ponctuel, en lequel l'homme est présent au monde et le monde présent à l'homme."563 Ma la presenza dell'uomo al mondo è subordinata ancora al fatto che l'uomo stesso continua ad essere Natura, in una forma di circolo sostanziale debitore, da una parte, della filosofia di Spinoza e memore, dall'altra, della carne di Merleau-Ponty. L'elemento di maggiore originalità inserito da Dufrenne non è, a questo punto della riflessione, ancora del tutto articolato: la cerniera percettiva è già esplicitata come piega all'interno della Natura che permette il sorgere contemporaneo e congiunto di coscienza e oggetti -quindi della relazione intenzionale-, ma sarà solo più avanti che di essa, con il concetto più ampio di sinestesia, sarà evidente la valenza di risposta non ontologica a quelle domande qui ancora metafisiche. L'uomo rappresenta dunque quel fondamento che è evento ed emergenza (delle cose, del senso, della Natura stessa) tanto che Dufrenne arriva a ipotizzare di allargare ad ogni uomo ciò che Kant attribuiva al solo genio: il fatto di essere una disposizione innata dello spirito attraverso cui la natura dà la regola all'arte.564 Il rapporto tra l'uomo e la Natura si impronta allora a una dinamica di ispirazione che mette in gioco, a sua volta, quella natura trascendente che nel soggetto e nell'oggetto è formata da a priori che costituiscono per Dufrenne una forma di armonia prestabilita tra uomo e mondo, il loro trait d'union essenziale. L'ispirazione è dunque la figura che consente di cogliere quel movimento genealogico grazie a cui la dualità tra spirito e mondo si conferma dualità tra oggettivo e soggettivo, cioè tra ontico e trascendentale. Dualità che costruisce un unione che non è mai unità, reciprocità in una presenza mai statica.565 563 Ibidem. “De tout homme il faut dire ce que Kant a dit du génie, qu’il est lui-même nature: ‘Le génie est la disposition innée de l’esprit par la quelle la nature donne ses règles à l’art’; aussi ‘ne peut il indiquer scientifiquement comment il réalise so oeuvre; il ne sait pas lui-même d’où lui viennent les idées, et il ne dépend pas de lui d’en concevoir à volonté.’” (Ibidem) 565 Il concetto di ispirazione mette in gioco uno dei primi riferimenti concreti a quello che sarà l’interlocutore finale: il Merlau-Ponty de L’occhio e lo spirito. Proprio in quell’opera, infatti, compariva l’elemento dell’ispirazione in relazione all’Essere, quello stesso Essere che Dufrenne sta cercando di 564 190 Cercare di privilegiare uno dei due termini significherebbe per Dufrenne cedere o all'idealismo o al naturalismo, dai quali egli intende invece mantenere equa distanza. Questa distanza è consentita precisamente dalla figura dell'ispirazione,566 grazie a cui si annulla ogni possibile lettua meccanicistica in favore di una descrizione che valorizza l'oscillazione e la sfumatura. È proprio l'idea della Natura così come l'abbiamo vista a permettere questa impostazione. La Natura affonda nell'ontico, non è un sapere virtuale, mentre il trascendentale, che pure è sempre parte di essa, è sempre incarnato. È l'uomo che reca in sè il trascendentale e, essendo parte della Natura, rappresenta proprio la funzione trascendentale della Natura. Dunque, e questo è forse un punto ambiguo quanto interessante, la funzione trascendentale della Natura emerge "par procuration, et non totalement, puisque le transcendantal vient s'incarner dans la nature de l'homme et que cette nature est à la fois élément et produit de la Nature."567 È su questa caratteristica del trascendentale come incarnato che è allora bene insistere, poichè è proprio l'incarnazione la condizione di possibilità del dualismo uomo-mondo, della relazione intenzionale.568 L'uomo e il mondo, che sono soltanto suoi prodotti, hanno la funzione essenziale di manifestare, con la loro presenza, la Natura stessa che quindi a sua volta si mostra come il luogo della loro unione, come la capacità produttiva immanente, non teologica, cui la loro unione dà luogo, come a priori di tutti gli a priori materiali costitutivi.569 Ciò significa, ed è una delle conclusioni salienti del caratterizzare. Certo, Merleau-Ponty, fedele al suo legame con la visibilità parlava di pittura, mentre con Dufrenne si è già slittati nel contesto della parola, ma la dinamica cui si fa riferimento non è troppo distnte: “Il pittore vive nella fascinazioni. Le sue azioni più proprie (…) gli sembrano emanare dalle cose stesse, come il disegno delle costellazioni. Tra lui e il visibile, i ruoli inevitabilmente si invertono. Ecco perché tanti pittori hanno detto che le cose li guardavano (…). Quel che si definisce ispirazione dovrebbe venir preso alla lettera: c’è realmente inspirazione e espirazione dell’Essere, respirazione nell’Essere, azione e passione così poco distinguibili che non si sa più chi vede e chi viene visto, chi dipinge e chi viene dipinto. Diciamo che un uomo nasce nell’istante in cui ciò che in fondo al corpo materno era solo un visibile virtuale si fa visibile per noi e, insieme, per se stesso. La visione del pittore è una nascita prolungata.” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1964), tr. it. di A. Sordini, SE, Milano 1989, p. 26.) 566 Di questo concetto è stata tuttavia già condivisibilmente notata l’impossibile riduzione ad alcuna fenomenologia. Come ha scritto Franzini, (op. cit. p. 380), esso porta Dufrenne nell’alveo di un’improbabile e non sempre credibile ‘rinascita’ romantica e surrealista. Esempi del poeta ispirato così come è concepito da Dufrenne si potrebbero trovare in Holderlin come in Eluard o Superville. 567 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 163. 568 Lo sbocco su di una filosofia della Natura, a partire dalla quale descrivere la coscienza, è per Dufrenne senza alcun dubbio più proficuo che non ipotizzare una psicologia, o filosofia della coscienza, a partire da cui desumere la Natura. 569 Cfr. E. Franzini, op. cit. p. 381. 191 percorso di Dufrenne, che la correlazione intenzionale soggetto-oggetto presuppone "une corrélation ontologique qui subordonne l'homme comme partie de la Nature au devenir de la Nature."570 E questo divenire si conferma allora come "l'infinito orizzonte di oggetti non ancora ridotto a mera cosalità" che sintentizza Franzini, "materia che l'uomo deve sfruttare e violentare nella produzione", fondo concreto, legato alla corporeità dell'uomo e ad esso consustanziale.571 La Natura diventa mondo per l'uomo come il tempo diventa storia, "mais elle a l'initiative de cette métamorphose en ce qu'elle suscite l'homme par qui elle s'accomplit."572 Quello che la Natura indica, e che l'ontologia di Dufrenne mira a porre a tema, è allora proprio questa componente di impensabile ed inesauribile potenza del fondo: il fatto che l'essere non sia l'apparire, "ni le sens ni la lumière", ma sempre e solo la realtà che potrebbe apparire, ma che apparirà sempre e solo con l'uomo e all'uomo, e che infatti produce l'uomo proprio per apparire. Certo l'impresa resta impossibile, quella metafisica rimane un'intuizione, la verbalizzazione di tutto questo implica già la presenza dell'uomo poichè è impossibile collocarsi nella contermporaneità del fondo buio che precede la coscienza, "dans la ténèbre que nul regard ne traverse, dans le silence que nulle parole ne rompt."573 Il fatto di parlarne non equivale alla possibilità di esperirlo, possibilità preclusa dal nostro essere costantemente nella storia oltre che nel tempo, ma ciò non impedisce di afferrare l'aspetto più importante del reale, che è quello di essere apparenza in cui qualcosa si dissimula oltre che manifestarsi, in cui il possibile agisce costantemente richiedendo di essere considerato. "Le monde peut offrir de multiples visages parce que tout est possible à la puissance du fond."574 È questa potenza del fondo a rappresentare quello che Dufrenne chiama la "dimensione poetica della Natura", dimensione su cui insiste e che esplora in varie direzioni, interessato alla messa a fuoco dell'espressività del mondo come ciò che è disponibile ad essere colto ma anche e soprattutto costantemente prodotto. Il poetico è 570 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 164. E. Franzini, op. cit. p. 381. 572 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 164. 573 Ibidem. 574 Ivi, p. 165. 571 192 quindi considerato in senso ampio; certo, Dufrenne non disdegna riferimenti concreti a poesie ed autori, secondo quel suo procede per esempi non sempre indispensabili che lo caratterizza e forse addirittura diverte. Ma se anche egli parla di poesia, quello che gli interessa -o che comunque più interessa noi in questa sede- è il portato teorico delle sue scelte. Poesia quindi è da intendere qui come essere poetico della natura, che certo suscita lo stato poetico e sollecita il linguaggio poetico (che diventano sue figure), ma in essi non esaurisce il suo senso teorico. Questo senso sarà ancor più chiaro alla fine di questa parte di percorso, là dove il poetico si rivelerà leggibile in termini di categoria, anzi nei termini ancora più decisivi di prima categoria del fondo originario. Prima di afferrare questa conclusione, tuttavia, è bene capire in che senso Dufrenne possa parlare di un poetico interno alla Natura e in che modo esso sia legato all'uomo. Se dunque ci capiterà, seguendo l'autore, di guardare alla figura del poeta, teniamola sempre presente, appunto, come figura; indice di dinamiche universali. Il contesto poetico implica innanzitutto il riconoscimento e l'apertura di un contesto discorsivo. Poetico, infatti, non è solo qualcosa di immaginifico né rappresentativo, ma innanzitutto qualcosa al cui interno si gioca principalmente un'azione di parole. Azione che, in senso poetico, appunto, rivelerà significative affinità con le conclusioni cui siamo giunti nell'esaminare, nel capitolo precedente, il potere significante dell'oggetto estetico. Là abbiamo messo a fuoco l'azione stilistica del linguaggio e le sue possibili incarnazioni grazie a quegli oggetti peculiari che sono gli oggetti estetici. Qui vedremo uno schema molto simile agire però al di qua, o al di sopra degli oggetti, nell'ottica più matura di un lavoro che segue di dieci anni la Phénomenologie. Abbiamo visto come la Natura "voglia" l'uomo, lo chiami affinchè con la sua presenza di cosa tra le cose egli attivi il contesto intenzionale e l'essere possa apparire. Fin qui abbiamo indicato nella percezione la soglia di apertura che dischiude nella Natura la dicotomia soggetto-oggetto. Qui Dufrenne fa un passo ulteriore e connette alla percezione il linguaggio quale potere che l'uomo possiede di convertire la scienza ingenua della percezione in saggezza e sapere. È un modo, sempre molto figurativo in verità e poco utile al rigore ontologico, di articolare meglio quel tipo di relazione che 193 egli sta indagando. È il linguaggio il luogo in cui le cose prendono forma e in cui "les relations se dessinent entre elles pour composer la figure d'un cosmos."575 Di più, il linguaggio diventa luogo in cui il trascendentale si esercita, in stretto legame con la facoltà percettiva che, a sua volta, presuppone il potere di nominare. "Dès qu'il parle – dès que l'homme perçoit – la Nature devient monde."576 È in questo senso che Dufrenne può veder confluire l'attività di filosofo e poeta, sullo sfondo di una Natura magmatica e tenebrosa che di volta in volta prende forma, come sotto un cono di luce, dandosi a vedere e lasciandosi nominare.577 Quella Natura che abbiamo descritto inafferrabile e invisibile, oggetto di quella che Dufrenne stesso riconosce come "un'intuizione metafisica", si lascia tuttavia esprimere, nelle pieghe di un linguaggio non codificato ma produttivo come quello poetico. Linguaggio che, infatti, come già l'oggetto estetico, apre un mondo. E con questo mondo l'uomo può "co-naître, venir à un monde possible qui s'ouvre jusqu'à se perdre en lui."578 Torna nuovamente quella scissione che Dufrenne tiene ferma come molto produttiva tra un rapporto al mondo predicativo e conoscitivo e una relazione intuitiva e sentimentale. L'aspetto di mondo, la manifestazione della Natura che con il poetico è chiamata ad apparire è "ce visage d'un monde possible qui se révèle à la lecture" che "si n'est pas conceptuellement identifiable et définissable, est eprouvé vivement."579 Parlare di rapporto poetico con il fondo significa allora parlare di quel potere del linguaggio che si manifesta nella sua originarietà, che Dufrenne legge come la risposta dell'uomo al linguaggio della Natura o, meglio ancora, ciò che porta ad espressione la Natura come un linguaggio. Ecco perchè la Natura stessa si rivela poetica, nella poesia ma anche prima di essa, nella 575 Ivi, p. 167. Ibidem. 577 Dufrenne interpreta in questo senso l’idea di un’ispirazione che parte dalla natura per investire il poeta (e l’uomo) e crede di trovarne esempio rappresentativo ed efficace nei versi dell’VII Elegia a Duino di Rilke che cita (tradotta in francese): “Mais parce qu’être ici est beaucoup, et parce que nous semblons / nécessaires à toutes les choses d’ici, ces éphémères, qui / étrangement nous sollicitent (…) Du penchant de la montagne le voyageur n’apporte pas / non plus dans la vallée une poignée de terre, pour tous indicibile, mais / un mot acquis, pur, la jaune et la bleue / gentiane. Sommes nous peut-être ici pour dire: maison / pont, fontane, porte, cruche, arbre fruiter, fenêtre, / tout au plus: colonne, tour…? Mais pour dire, comprens-le, / ô pour dire tout ce que les choses elles-mêmes jamais / ne pensérent être dans leur ntimité. N’est-ce pas une ruse cachée / de cette terre qui toujours se tait, lorsqu’elle presse les amants / pour que dans leur sentiment claque chose, chacune, se transfigure? (…) Voici le temps des choses dicibles, voici leur patrie.” (Ibidem) 578 M. Dufrenne, La poésie: où et pourquoi?, cit. p. 253. 579 Ibidem. 576 194 misura in cui essa esercita ed esprime il proprio poiein. Ed il primo frutto di tale poiein è, come abbiamo già visto, l'uomo stesso in quanto sguardo nel quale essa potrà rispoecchiarsi, in quanto voce che saprà nominarla. La Natura diventa allora quel fondo che già Kant aveva intuito nell'idea di sublime, che Dufrenne allarga in chiave metafisica fino a qualificare quella Natura di cui possiamo presagire la potenza grazie al suo inarrestabile divenire, alla sua grandezza selvaggia quanto alla sua creatività. In questo senso il sublime è addirittura precedente al poetico. Ma non è qui il punto che a Dufrenne interessa di più. Molto più importante che il suo immenso e inarrestabile fluire, è la direzione della manifestazione della Natura: essa mira la coscienza, il suo stesso divenire è un venire alla coscienza, che si riconferma cardine di un'indagine che, per quanto ontologica, è nella relazione intenzionale che fissa la propria stella polare. Tra essere e apparire, tra possibile e reale, la Natura si colloca in posizione di stallo, imponendo di considerare entrambi i poli dei due dualismi, perchè di nessuno si può pensare che sia definitivo e definitorio. Ecco quindi che l'autore deve tornare a considerare l'apertura dell'immaginazione, quella stessa apertura che anche noi abbiamo già visto agire più sopra, parlando della sensibilité généralisatrice. Alla coscienza, per entrare in relazione con il mondo, non è sufficiente essere percettiva senza essere immaginante. Certo, i correlati noematici della relazione intenzionale mutano (è la coscienza che può scegliere l'atteggiamento da assumere), ma accade che il poetico – come l'oggetto estetico – susciti un atteggiamento immaginativo nello stesso tempo in cui lo percepiamo. Anzi, pur essendo innanzitutto alla nostra percezione che tali immagini, tali oggetti, si propongono senza però esaurire in essa le proprie sollecitazioni. Di più, la produttiva possibilità della Natura rivela un'eccedenza rispetto alla percezione che si apre ben oltre l'immaginazione: è lo sbocco etico di questa filosofia della Natura, su cui dovremo tornare, ma che fin d'ora si manifesta con tutta la sua importanza. L'immaginario che completa la percezione non è solo fantasia, esso può essere anche utopia: "l'irréel peut être saisi comme à réaliser, la poésie qui le déploie 195 peut être un appel à l'action dans le monde."580 E se il reale è anche quotidiano, esso non è percepito che per essere agito, "et le champ de la présence est le lieu de la praxis."581 Punto di incontro e reazione di tutte queste componenti, l'immagine (la cosa, la parola poetica) è allora il correlato di una coscienza sia percettiva, sia immaginante, che di un individuo che sulla base di ciò si prepara ad agire: "elle est l'annonce faite à l'homme d'une Nature naturante."582 Va da sé che non sempre essa si manifesta con il suo potere poetico, essendo a volte oggetto preso di mira per conoscere o per essere manipolato, ma la potenza dei possibili abita sempre, in possibilità appunto, ogni piega manifesta dell'essere. Ma in quelle immagini che debordano la familiarità che si ha per loro, in quelle cose che non esauriscono il loro senso perchè il loro stesso essere significanti sfugge ogni codice, in tutto ciò la Natura può manifestarsi. "Ce monde aux contours indécis, c'est la façon dont la Nature se suggère à nous."583 Ecco allora, nuovamente, quella valorizzazione della sfumatura e dell'ombra che Dufrenne persegue con decisione; valorizzazione contraria ad un approccio scientifico al reale e consapevole, invece, della sua inesauribile e innafferrabile ricchezza. Tale ricchezza ha un connotato ulteriore. Insistendo sul linguaggio poetico come figura del linguaggio della Natura, Dufrenne riconosce come ogni volta tale linguaggio sia parola parlata di un mondo singolare: quello del poeta, appunto. Ma tale figura è più utile ad illuminare il versante soggettivo della ricchezza del reale; la soglia della sua emergenza che è sempre legata al soggetto che la percepisce e nomina. Senza indulgere ad alcun relativismo, ma riconoscendo ad ogni soggettività il potere di dischiudere un mondo; che è fatto molto diverso dalla facoltà di accedere tutti allo stesso mondo. Ecco in che senso Dufrenne sottolinea come il suo sia stato un tentativo di "comprendre les mondes singuliers comme des possibles du monde."584 Infinite possibili delimitazioni di un mondo illimitato. Proprio su questa infinita e indefinita diversità Dufrenne insiste, poichè è esattamente nella proliferazione inarrestabile dei mondi singolari che si 580 Ivi, p. 255. M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 174. 582 Ibidem. 583 Ivi, p. 175. 584 Ivi, p. 176. 581 196 manifesta la potenza infinita della Natura. "En se révélant dans une image singulière la Nature s'exprime comme l'inépuisable foyer des possibles, le grand silence de Pan."585 La valorizzazione della soggettività non mira allora in alcun modo ad una soggettività trascendentale; al contrario, è esattamente la singolare dispersione degli individui ad essere l'obiettivo teorico. L'idea kantiana suggeriva a Dufrenne "un monde impersonnel et objectif comme la raison elle-même, la promesse ou le voeu d'une tonalité intelligible enfin conquise par l'entendement."586 Al contrario, la lettura estetica del mondo, e la teoria della Natura, mirano a mettere a fuoco il dinamismo tuttaltro che intellegibile della realtà: "l'irradiation d'une qualité affective, l'expérience pressante et précaire où l'homme découvre un instant le sens de son destin, lorsqu'il est tout intier engagé dans cette épreuve."587 Dufrenne parla allora del poeta e dell'artista, ma come tramite per mettere a fuoco una vicenda decisamente extra artistica. Poetico è, infatti, l'essere stesso della Natura che riguarda l'uomo in generale molto prima e molto più di quegli uomini particolari che sono i poeti e gli artisti. La poesia diventa infatti il luogo che rende vivo e manifesto, che esprime, la possibilità – disponibile universalmente – di frequentare gli aspetti pre-concettuali dell'intelletto, "à mi-chemin entre le régime diurne du logos et le régime nocturne de l'imagination."588 Lungi dal limitare il poetico ad una pratica artistica, infatti, Dufrenne lo intende innanzitutto come la possibilità di entrare in comunicazione con il fondo della Natura, con il suo essere poetico, attraverso quel mondo che ci è dato da sentire: una possibilità di conoscenza, pour chacun de nous.589 585 Ibidem. M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, oggi in Esthétique et philosophie, cit. tome 1, p. 33. 587 Ibidem. 588 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 179. 589 Ivi, p. 180. 586 197 3.3 Natura poetica ed Estetica Abbiamo visto come il potere poetico della Natura, nei suoi legami con la coscienza abbia condotto ad una valorizzazione della soggettività che consapevolmente mira ad affrancarsi dall'idea trascendentale. Resta ancora da esplorare il versante tipicamente artistico di cui, come abbiamo già intravisto, Dufrenne si serve ampiamente nella sua indagine sull'umano. Relativamente alla Natura così come l'abbiamo descritta, infatti, l'arte rivela un ruolo privilegiato e speciale, che gli oggetti estetici incarnano con estrema fecondità. L'essere poetico, che è poi, e Dufrenne lo dice chiaramente, l'espressività590 è quell'elemento comune alla Natura e agli oggetti estetici così come lo stato poetico, che è poi l'atteggiamento estetico, è quello condiviso da creatore e spettatore dell'opera.591 Se è chiaro che ogni singola apertura di mondo è una delle infinite possibilità di apparizione dell'essere, si capisce allora anche in che senso ogni oggetto estetico, ogni opera d'arte, sia un'imitazione della Natura. Imitazione, tuttavia, in un senso molto diverso da quello tradizionale poichè ciò che della Natura viene riprodotto non è certo l'aspetto formale bensì la consistenza espressiva, il fatto di essere Natura Naturata che è un volto della Natura Naturante. Ogni oggetto estetico è espressivo in questo senso come la Natura, cristallizzazione possibile e sempre in fieri di una potenza di fondo inesauribile. Se l'arte imita la Natura sarà allora nel suo essere Abgrund, qualcosa di più e di più originario di ciò che nel mondo è già concreto: Natura naturante, dove la 590 Ibidem. In questo ritorno alla Natura così radicato nel piano estetico e che parte da concrete opere d’arte percepibili si riscontra un chiaro richiamo a Il visibile e l’invisibile di Merelau-Ponty dove allo stesso modo si tentava un ritorno ad un’ontologia (se non ad una filosofia della Natura) che comprendesse la consustanzialità di soggetto e oggetto. “Un ritorno verso un essere ‘selvaggio’, plesso di significati che l’uomo sempre di nuovo trae alla luce, physis dove originariamente gli uomini erano indivisi e in cui forse, dietro o sotto le scissure della nostra cultura acquisita continuano ad esserlo. Merleau-Ponty, poco prima della sua morte, affermava che la Natura ‘è l’essere dietro di noi’, mondo originario cui siamo carnalmente legati attraverso la nostra corporeità percipiente, fondo ontologico ‘che comprende tutte le possibilità ulteriori dell’esperienza’, ‘terra originaria’, ‘preoggetto’, comune Grund dove, come voleva Schelling, si incontrano il soggetto e l’oggetto.” (E. Franzini, op. cit., p. 378.) 591 198 maiuscola ha molta importanza "perchè indica non solo l'esteriorità, ma l'anteriorità del mondo in rapporto al soggetto; e significa anche l'energia dell'essere."592 La prima conseguenza teorica rilevante riguarda il tema del valore estetico dell'oggetto (che è anche valore attribuibile alle cose del mondo in generale qualora vengano afferrate secondo questa impostazione) e i modi in cui tale valore può essere descritto. Non si può infatti in alcun modo giustificare più un'idea di valore formale. Ogni singola opera d'arte, quindi ogni singolo oggetto, si rivela incarnazione di un proprio specifico valore singolare. I valori estetici si trovano quindi moltiplicati all'infinito, obbligando -e questo è senz'altro uno dei punti che Dufrenne stanno più a cuore- ad abbandonare ogni ricerca di ordine formale per accettare invece di considerare gli aspetti materiali, quelli sì davvero centrali, di "chaque essence singulière, donc revenir au sens que propose chaque objet esthétique."593 Il valore estetico diventa allora qualcosa di molteplice, materiale e incarnato riportandoci a riaggangiare il discorso sullo stile che più sopra avevamo lasciato in sospeso contando di ritornarci. Il valore materiale riguarda infatti l'inseparabilità di senso e segno nel contesto estetico, il loro sorgere simultaneo e autoproduttivo, ma soprattutto l'inestricabile viluppo del senso in seno al sensibile. Nel manifestare la potenza produttiva del senso, che artisticamente non si esaurisce mai in un segno codificato, si apre come abbiamo visto il contatto con il fondo produttivo della Natura e quello che viene espresso è dunque, in una qualità affettiva inesprimibile, la totalità sintetica del mondo. L'estetico è allora un valore plurale e moltiplicato, afferabile proprio in virtù di tale sua dispersione materiale. Con questo approccio diventa insostenibile l'idea di concepire i valori estetici come modelli esteriori all'oggetto per arrivare anzi all'estremo opposto e riconoscere gli oggetti stessi come il loro valore estetico "en tant qu'il sont vraiment ce qu'ils prétendent être"594. Il valore estetico sarà allora da identificare con l'oggetto medesimo, sarà ciò che lo abita come suo principio e suo fine. Questa concezione del valore investe a sua volta due aspetti. 592 M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 164. M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 31. 594 Ivi, p. 32. 593 199 Il primo riguarda di nuovo il coté etico che abbiamo già visto fare capolino più volte e sul quale Dufrenne finisce sempre con lo sboccare consentendo di afferrarlo come uno dei suoi nodi teorici più personali. Se l'oggetto è il valore estetico, infatti, creare oggetti significherà creare valori, con un notevole accrescimento dell'attenzione da attribire all'impegno dell'individuo. "Créer le valeurs esthétiques, ce sera produire des oeuvres nouvelles chargées d'un nouveau sens, initiatrices d'un nouveau style, messagères d'un nouveau monde."595 Certo, questa lettura del valore può essere messa in questione da chi neghi la possibilità che il valore sia creato; ma la posizione che Dufrenne attribuisce alla dimensione del possibile all'interno della sua filosofia è uno strumento efficace per rendere conto di questa "creazione del valore" che non è un magico far apparire ma una dinamica di realizzazione sempre ben radicata nel reale. Il secondo aspetto che questa lettura materiale del valore implica di considerare è, di nuovo, il tema della soggettività (artistica) quale si è già prefigurato poco sopra. Legato alla produzione di valore, letto in chiave profondamente sensibile e materiale, il ruolo del soggetto richiede infatti di essere esplicitato, soprattutto in relazione alla questione della verità. Se si accetta, infatti, che ciò che si manifesta in un'opera sia quella particolare espressione della Natura in rapporto a una singola soglia, si potrebbe essere tentati di attribuire all'individuo un'attività di costituzione o di interpretazione del mondo. Ruoli che Dufrenne rifiuta invece di riconoscere. La dinamica che nel suo pensiero resta quella più esaustiva è la stessa che abbiamo già visto, improntata all'idea di ispirazione. Con questa idea il meccanismo dello stile, come esistenza incarnata, presa di posizione sul mondo, si arricchisce del connotato ontologico che il riferimento alla Natura comporta. In questo modo soggetto e oggetto, uomo e mondo, si implicano a vicenda in un contesto di scambi e mutazioni reciproci che esclude la costituzione degli oggetti da parte di una coscienza come anche un'attività ermeneutica alla base del nostro rapporto col mondo. Il contesto, nella dimensione materiale del valore, è molto più esistenziale che ontologico, più estetico che artistico. 595 Ivi, p. 33. 200 L'ispirazione è allora la figura che dà conto di come il mondo, "eterno personaggio in cerca di autore"596, solleciti la paziente operazione dell'artista, dell'uomo, per apparire e venire alla presenza. Si capisce bene allora, nell'afferrare ogni opera come foyer di possibili e di verità, come possa risultare instabile ogni tentativo di mettere a fuoco una verità. Ogni mondo che si rivela in un'opera (ma ormai possiamo capire, in una vita) è portatore di una sua propria verità, una delle tante possibili in quella sorgente di reale che è il Mondo della Natura. È il gioco stesso della Natura a produrre e prodursi in una serie infinite di singolarità, aperte ciascuna dall'incarnazione percettiva che, lo abbiamo già visto, diventa infatti non a caso condizione dell'individuazione. Ma queste singolarità "ne sont pas libres et nommables: elles s'investissent dans les choses, et surtout dans les individus", e in questo senso, davvero e senza nessun relativismo: "chaqun son monde, chaqun sa verité." 597 Così, se la verità non è un gioco di specchi, se ogni apparire è un'espressione dell'essere, la verità stessa – che non ha più nulla di logico – confluisce nel regno delle possibilità. Ogni singolarità è uno e uno solo dei "visages possibles" del mondo, e la verità stessa condivide lo spazio con l'immaginazione. "Le possible ici – l'imaginaire – atteste la force silencieuse du reél, la puissance du monde."598 Il possibile proiettato da una singolarità sarà una verità del reale, non la prima né la sola ma neppure per questo meno vera. Ecco allora il destino della soggettività: "être au monde, c'est faire partie du monde"599 e farne parte significa partecipare alla sua verità, perchè il mondo non è ilmondo-senza-di-me più me, come scrive Dufrenne: 596 Ivi, p. 34. Il riferimento esplicito da parte di Dufrenne è qui a Deleuze. Senza dubbio egli pensa alle singolarità in termini di avvenimenti, ma per Dufrenne in quanto eventi esse in qualche modo riguardano gli individui, senza però costituirli. “Le seul événement constituant, c’est celui qui constitue l’individu: la naissance. Et si, à claque perception, la naissance se démultiplie en renaissance? Oui, mais il y a bien une première naissance: l’individue est donné à lui-même une fois pour toutes, des événements ne cesseront de le’affecter, mais il aura une manière propre d’être affecté: son temps propre de cicatrisation, son style propre d’invention, comme son acuité propre de perception ou sa propre fantasmatique.” (M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 93.) 598 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 34. 599 Ibidem. 597 201 Le monde n'est pas monde sans moi plus moi, et je ne suis pas l'autre du monde; j'existe à l'interieur de la corrélation dont je suis un des termes: il n'y a de monde que pour moi, mais je ne suis pas le monde; ce qui semblait naître de moi me donne naissance, l'idée kantienne revient à la nature, natura naturans; j'en reste pourtant l'indispensable et formel témoin.600 Ed ogni testimone è un possibile testimone di un possibile. È questo ruolo di possibile testimone quello che l'artista, "subjectivité par excellence"601 incarna in maniera specifica. Creare, infatti, è una maniera "éminente" di portare a compimento il destino del soggetto, è uno dei modi privilegiati con cui il mondo, la Natura, si lascia cogliere. È infatti sempre il mondo stesso, "cette puissance du possible interieur au reél", l'abbiamo visto, a prender voce ed esigere la parola. Come si configura quindi il mondo quale correlato della nostra frequentazione? Esso si conferma in quanto entità che non è nascosta da qualche parte, in attesa di essere scoperta; "il est là, infini sans cesse annoncé dans le fini, chose en soi chatoyante dans chaque apparence, savoir présent dans chaque songe." Ed ogni cosa che l'arte, o la vita, fissa annuncia il mondo come componente possibile, riflessa dalla coscienza estetica, di questo reale "dont la signification est inépuisable." 602 La dicotomia adombrata da questa prospettiva è quella che angustia la filosofia occidentale sin da Platone e da Aristotele, quella che oppone l’uno e il molteplice, il particolare e l’universale, e che implica il problema di come il loro rapporto debba essere inteso. Il generale, la Natura, parla sì di un invisibile, ma, diversamente da quello platonico classico, non si configura come immateriale e sovrasensibile, coglibile solo dall’intelletto. Con l’autore francese si ha, infatti, una lettura del generale come sempre e solo concreto, dato sempre e solo nel particolare. Inoltre, il potere di coglierlo non è appannaggio solo delle facoltà intellettuali grazie all’astrazione logica, poiché esso si presta ad essere catturato in qualche modo anche dalla percezione, che anzi ne permette l’incarnazione. È così possibile ritornare allo stile che si conferma come questa modalità principale, nell’arte e nella vita, di realizzazione e manifestazione di questa generalità, preconcettuale ma concreta. 600 Ibidem. Ibidem. 602 Ivi, p. 35. 601 202 È dunque nella stiftung della significazione, che avviene stilisticamente, che i due estremi si riconciliano qui.603 Ogni uno, ogni opera d’arte, è quindi, un’onda con la sua schiuma di passato e la sua cresta di avvenire, feconda di tutti i suoi concepibili effetti su qualsiasi spettatore possibile e reale. È quanto si ritrova nella dialettica hegeliana mutuata e riconfigurata nel fenomeno dell’espressione: “Un procedere che si crea da sé il suo corso e ritorna in se stesso.”604 E proprio questo procedere espressivo dialettico, nell’intimità di ogni espressione ad ogni espressione, implica “effettivamente la congiunzione dell’individuale e dell’universale”605. Tutto ciò ripropone e riconferma l’estraneità di ogni interpretazione solipsistica e psicologistica dall’intero percorso. Il mondo non è un nostro costrutto, né della nostra ragione né della nostra fantasia, e neppure dei nostri sensi. Il mondo percepito cade, infatti, sotto il dominio della nostra praxis intersoggettiva, alla quale si offre congiuntamente al proprio significato, all’apparire del senso che esso avrà per noi606. La manifestazione, per quanto affettiva e non concettuale, di senso e verità ha quindi la particolarità fondamentale di essere sempre “engagé dans le sensibile”607 che a sua volta, anziché essere qualcosa che vada annullato e oltrepassato, rivela tutta la sua radiosa portata. Ogni apertura singolare incarnata da un artista, e dall’uomo in senso lato, è allora sempre un modo diverso, ma concreto e sensibile, affettivamente orientato, di entrare in rapporto con il mondo, “de saisir et de fixer un nouvel aspect du réel.”608 603 Questa relazione concreta tra l’uno e il molteplice è già stata formalizzata da Merleau-Ponty quando scrive: “Nella storia della pittura […] il predominio dell’uno sul molteplice non riassorbe la successione in una eternità, ma viceversa esige la successione, ne ha bisogno nel tempo stesso che la fonda come significazione.” (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 99.) 604 Ivi, p. 102. 605 Ivi, p. 103. 606 Si torna in questo modo alle considerazioni di apertura tratte da La fenomenologia della percezione: “Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. […] Il problema consiste allora […] nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del ‘reale’, nell’esplicitare la nostra idea del mondo come ciò che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo davvero un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. […] Noi siamo nella verità e la nostra esperienza è ‘l’esperienza della verità’. Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità.” (M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., pp. 25-26.) 607 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 35. 608 Ivi, p. 36. 203 Eccoci dunque ricondotti al poetico come potere condiviso dall’artista e dall’oggetto estetico, dall’uomo e dalla Natura. Con il Poetico Dufrenne intende render conto dell’universalità dell’arte quanto fondarne l’oggettività, ad esso arriva ad attribuire il fatto di essere “espressività di ogni espressione”609, condizione di possibilità stessa di ogni apparizione del possibile. È così che arriva a rivendicare al poetico, come potenza, il ruolo di categoria principale dell’estetica, “a priori des a priori esthétiques”610 correlato della Natura che è a sua volta per lui l’a priori di ognuno degli a priori che originariamente legano l’uomo al mondo. Ogni categoria estetica, dal tragico al grottesco, sgorga sempre da quella categoria fondamentale che è il poetico, inteso, come abbiamo visto, in senso molto più ampiamente produttivo che letterario. Il contesto poetico del mondo estetico si oppone per Dufrenne a quegli aspetti del mondo che invece, ridotti a prosa semplice e piana, si presentano senza manifestare più alcuna dinamica di espressività. L’universo della scienza è quella parte di mondo che, benché utile e necessario ad una ovvia serie di competenze pratiche, non presenta per Dufrenne alcun eco poetica. Non si tratta certo di dover scegliere tra poeti e scienziati, né di voler escludere l’una o l’altra dimensione dalla propria analisi: si tratta semplicemente di distinguere il poetico da ciò che poetico non è. Si tratta semplicemente di mettere in evidenza, per differenza, come l’universo della scienza si rivolga innanzitutto alla ragione, ben più che alla percezione e al sentimento; e come al suo interno la percezione sia richiesta per registrare dati la cui interpretazione si rivolge ad una prassi razionale e certo non a raccogliere un senso che faccia appello alla poesia. “Mais en un sens plus précis le poétique est dans ce langage du monde une intonation particulière. Il est la gloire de l’apparaître.”611 Su questa linea Dufrenne sceglie di portare altri esempi che in qualche modo finiscono però per indebolire il suo procedimento. Dire ad esempio che l’impressionismo sia più poetico del cubismo, sulla base del fatto che rigore e austerità sono meno poetici di esuberanza e libertà, è forse una concessione un po’ semplicistica a qualche forma di empirismo non del tutto 609 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 181. Ibidem. 611 Ivi, p. 193. 610 204 indispensabile. Quello che più conta, allora, non è tanto la descrizione dei modi in cui il Poetico come categoria può incarnarsi, quanto piuttosto la messa a punto del ruolo che esso gioca con il quale, abbiamo visto, è il possibile a legarsi profondamente con l’Essere molto più che il reale. Come categoria estetica, infatti, il Poetico riguarda proprio quell’apparire dell’essere che è propriamente umano e che, proprio in virtù di tale sua caratteristica, non cessa di far oscillare l’ontologia di Dufrenne verso una complessa antropologia: “mais si l’on veut spécifier le poétique comme catégorie esthétique, c’est l’humanité de l’apparaître qu’il faut alors invoquer: le poétique réside à la fois dans la générosité et dans la bienveillance du sensibile.”612 Si rende allora ancora più esplicito quello che si è già visto emergere con la dimensione di profondeur dell’oggetto estetico. Il potere dell’arte, in cui il poetico si mostra come categoria persino esistenziale oltre che ontologica, è proprio quello di manifestare questa potenza del mondo non come se esso fosse sempre lì, “il vecchio stanco mondo” direbbe Dino Formaggio, in attesa solo di essere rappresentato, ma il mondo nel suo instancabile e inarrestabile sorgere: “non l’apparence mais l’apparaître.”613 Con una fertile tensione tra Spinoza e Schelling, Dufrenne mette a fuoco, con la sua Natura naturante, l’idea di un fondo che è ben più di un fondamento. Nel fondo si rivela, infatti, una potenza genealogica che nessun fondamento statico614 potrebbe manifestare. Il coglimento di questo fondo, che resta radicalmente impensabile, si rivela disponibile a quella modalità di pensiero non riflessiva che il sentimento dischiude. “È questa potenza del fondo che l’arte si sforzerà di ridire.”615 Il potere dei poeti, che è quello dell’arte e quello dell’uomo in quanto poieta è infatti quello di imitare la poesia della Natura per, scrive Dufrenne, ricondurci “a quanto c’è di elementare negli elementi, che non richiede una psicoanalisi, Bachelard l’ha capito, ma una fenomenologia 612 Ivi, p. 194. M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit. p. 145. 614 L’opposizione a quelle che Dufrenne addita come ontoteologie, incapaci di render conto proprio di questo potere poetico/poetico dell’Essere, è esplicitata e approfondita da Dufrenne nel saggio Pour une philosophie non théologique che egli aggiunge come prefazione alla seconda edizione de Le poétique. 615 M. Dufrenne, Inventare des a priori, cit. p. 71. 613 205 dell’apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento irresistibile dell’apparizione, l’insistenza dell’essere.”616 Tutta la pratica artistica, e con essa la pratica umana in senso ampio, sfuggendo ad ogni possibile sistematizzazione, è allora testimonianza incarnata di questa risalita costante verso l’originario che Dufrenne terrà ferma fino alla sua ultima opera in cui leggeremo: “Le arti, forse, vivono proprio del tentativo di completare questo movimento di avvicinamento.”617 La Natura come fondo genealogico è quindi la sorgente inesauribile di tutta l’infinità non categorizzabile di possibili che costituiscono il nostro mondo. Sono grandi immagini quasi archetipiche618 disponibili per essere colte e dette al modo dell’arte, la quale risponde al linguaggio della Natura stessa. Linguaggio in cui la potenza espressiva rimane in funzione, non ancora appiattita dalla prosa informativa della scienza e della tecnica. È infatti il linguaggio, e quello dell’arte e della poesia in particolare, “lo strumento dello scambio dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con se stesso” ma soprattutto “dell’uomo con il mondo, attraverso la mediazione del segno analoga a quella dell’a priori che, insieme soggettivo e oggettivo, è come un termine medio tra l’uomo e il mondo.”619 L’arte, il linguaggio del poeta, l’espressione creatrice che abita il fare artistico, è allora il luogo in cui è data la possibilità dell’apparizione di questa Natura madre, originaria e vitale, “infinita potenza di Gaia sempre gravida di vita.”620 È in questo senso che Dufrenne può indicare nella Natura il luogo dell’a priori primigenio all’interno del quale, quindi, “Il poetico può rivendicare di essere l’a priori degli a priori estetici”621, in cui si radica la categoria che esprime il fondo, l’origine di tutte le categorie affettive manifestabili dall’arte. L’arte è allora quel luogo in cui il fare dell’uomo si rivela e conferma come quella pratica che, proprio attraverso l’uomo, rinvia ad un poiein originario nel quale egli si radica ed iscrive. Come categoria originaria dell’estetico il poetico dice molto più di quanto l’estetica richiederebbe: esso conduce in un ambito nel quale la filosofia 616 Ibidem. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 34. 618 Cfr. E. Franzini, op. cit., p. 378. 619 M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 71. 620 E. Franzini, op. cit., p. 379. 621 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 181. 617 206 dell’azione diventa centrale, rappresentando una soglia non trascurabile tra estetica ed etica, che per questo autore è subito anche politica. Soglia che tutto il percorso di Dufrenne ha sempre frequentato con interesse e costanza. Con l’arte intesa come poiein, e con il contesto genealogico nel quale la Natura la inserisce, si rende esplicita, infatti, una lettura del fare umano come creativo ed irriducibile a qualcosa come un’esatta realizzazione di un programma precedentemente scritto.622 L’abbiamo già visto considerando la verità con cui il soggetto è in relazione, verità che si è confermata percettiva e in costruzione; lo rivediamo con ancora maggior forza a questo punto, riconoscendo alla dimensione pratica dischiusa dall’estetica una potenziale apertura politica. Questa apertura è una sorta di punto di riferimento costante per l’autore, anche quando le sue indagini sembrano focalizzate su aree differenti.623 È l’azione in generale, non solo quella artistica, ad essere irriducibile ad ogni forma di sistema testimoniando invece, ogni volta, un potere di avvicinamento all’originario che è anche riscoperta del proprio potenziale essere naturante, quindi creativo, quindi sempre potenzialmente aperto all’utopia, “poiché si tratta sempre, per l’individuo come per il gruppo, di ritrovare il naturante sotto il naturato, cioè sotto ciò che il sistema sociale snatura.”624 Ogni azione creatrice in senso artistico o non conformista in senso sociale è potenza poetica che spinge verso l’originario.625 L’originario diventa allora anche il corrispettivo di una sorta di immaginario che attiva il desiderio del nuovo, artistico e 622 Su questo piano si inserisce anche la caratterizzazione che, proprio attraverso poetico e poesia, Dufrenne offre della filosofia. La poesia infatti, nel suo legame con la Natura, si mostra come l’espressione di un’esperienza che sfugge ogni riferimento a un sistema, anzi che è essa stessa ogni volta la sua propria rivelazione. “Et l’on comprend que la philosophie, lorsqu’elle renonce, non pas à la verité, mais à l’idée d’une vérité dogmatique énonçable, et qu’elle identifie la vérité au mouvement de la révélation plutôt qu’à son contenu, se tourne vers la poésie. Il faut en effet d’abord comprendre la poésie à partir de la philosophie, même si la poésie n’est pas philosophique, même si le poète ne sait pas qu’il est animé par un dessin comparable à celui du philosophe et qui prolonge la philosophie.” (M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 286) 623 Dufrenne esplicita questo aspetto ad esempio in Jalons quando riconosce a Sartre, con ammirazione, il fatto di aver manifestato con chiarezza l’inseparabilità di una filosofia autentica da una politica. 624 M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 316. 625 Resta il fatto, per Dufrenne poco felice, che la vocazione del soggetto suo contemporaneo sembra piuttosto quella di allontanarsi dai luoghi oscuri dell’origine, per affermarsi “en maitrisant l’objectivité par le savoir et la technique. En sacrifiant l’imaginaire au bénéfice d’une réalité décantée et manipulable. Regardez nos dirigeants: jamais l’imagination n’a été si loin du pouvoir. Jamais aussi une civilisation n’a autant ressemblé à un termitière. Peut être la praxis exige-t-elle pour son contenu cette sinistre ascèse. Mais pour ses motivations? Peut-être la praxis, et singulièrement la praxis politique, serait-elle plus efficace, moins morne en tout cas, si elle était animée par le rêve, ou par l’espérance. C’est peut-être, dans ce peuple de fourmis, ce qui privilégie ancore les savants: ils inventent, et pour inventer ils imaginent encore.” (M. Dufrenne, L’imaginaire, cit., p. 131.) 207 politico. Gli uomini e le società si reinventano costantemente all’interno di pratiche mai del tutto riconducibili a un modello; ogni arte (politica) è priva di sapere e saper fare che possano regolarla, ma si basa soltanto su un’inesauribile potenza inventiva e, come conclude L’inventaire des a priori: Bisogna che intervenga l’immaginario per ‘rinaturare’ il reale restituendogli l’aura di cui lo spoglia la rappresentazione; bisogna che il sentimento ci renda sensibili all’Essere bruto come focolare dei possibili: bisogna infine che gli a priori specifici del sentimento ci aprano alle qualità affettive attraverso le quali questo Essere si lascia presentire. Una filosofia dell’azione si appella a una filosofia della Natura.626 Parlando della pratica artistica Dufrenne parla allora anche, sempre, della pratica politica. La loro analogia si basa proprio su quello che è stato chiamato “le risque de l’inconnu”627 sul cui terreno le due pratiche si ricongiungono, proprio per il tentativo di ridire quella potenza del fondo che abbiamo individuato. La figura dell’azione si conferma allora quale segno sotto cui raccogliere l’arte e con essa la politica, attraverso l’invenzione della vita e delle istituzioni: “la socialité a son fondement dans l’humanité, et l’humanité dans la Nature. C’est l’expérience apriorique de ce fondement qui s’opère dans la pratique utopique, quand le désir d’une société autre ranime l’expérience d’une socialità originaire.”628 Etico, politico ed artistico attingono tutto il loro senso da questo comune riferimento alla pratica, che a sua volta si richiama al naturante della Natura e a tutto il virtuale629 e il possibile di cui essa è feconda. Nell’avvicinamento della pratica artistica a quella politica che la teoria della Natura consente a Dufrenne si può inserire, al fine di illustrarne ancora meglio le funzioni, una terza esperienza differente, sulla quale Dufrenne torna in modi e momenti diversi. Si tratta dell’esperienza del gioco. Il gioco umano ha per Dufrenne un senso profondo, nella misura in cui con esso l’uomo imita il gioco della Natura, “il devient surhomme en 626 Ivi, p. 316. Maryvonne Saison, Le matérialisme poétique et la puissance du fond, cit., p. 237. 628 M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 313. 629 Il virtuale si rivelerà categoria fondamentale all’interno dell’ultima opera di Dufrenne che, come vedremo, rappresenta un densissimo punto d’approdo e di rilanciamento per quanto esplorato sin qui. 627 208 se laissant porter par la volontà de puissance qui le traverse, en mimant l’innocence et la liberté de la vie.”630 È nel gioco che si può intravedere la figura che rende conto di quel legame con l’irreale che per Dufrenne caratterizza la pratica artistica come quella politica; legame creativo, innovativo e sempre rinnovantesi. La Nature n’est pas le réel, lêtre reduit à sa plus simple expression par une pensée laborieuse et désenchantée, elle est la mère des possibles, de l’irréel comme du réel, de l’imaginaire comme des images par quoi elle se revèle. Ainsi l’homme qui joue avec le possible se dispose-t-il à pressentir la Nature.631 L’esperienza del gioco è una forma di esperienza senza concetto dove il simbolismo dinamico di possibile e reale si manifesta con tutta la sua potenza nelle manifestazioni della fantasia e dell’immaginario.632 È proprio il ruolo dell’immaginario, allora, quello che aiuta meglio a cogliere tanto la Natura simbolizzata nel gioco quanto il fatto che questo gioco sia, innanzitutto ma non solo, una questione di pertinenza dell’arte. Di fronte immagini, colte come apparizioni della Natura prima e più che prodotti della ragione, il giocatore, cioè colui che non rifuta di lasciarsi giocare633, sa cogliere l’evento prima del fatto naturato; sa rapportarsi ad esso senza cedere alla tentazione, che invece appartiene all’uomo di scienza e all’uomo comune, di cercare di interpretarle come effetti o come segni incatenati al mondo della realtà. Il gioco condivide e mostra quella forza dell’arte che abbiamo già visto essere imitazione dell’aspetto naturante della Natura, indifferente alle sue già naturate individuazioni. Nelle immagini dell’arte e del gioco634 la Natura si rivela doppiamente, “comme force du possible, comme éclat de l’apparaître.”635 630 M. Dufrenne, Le jeu et l’imaginaire, cit. p. 148. Ibidem. 632 Il riferimento neanche troppo implicito di queste righe di Dufrenne è a Nietzsche, utilizzato però in forma forse più suggestiva che sostanziale. È il personaggio di Dioniso, con le caratteristiche di libertà che lo definiscono, a rappresentare il punto di contatto. Azione e passione diventano forme di quella duplicità della Natura su cui Dufrenne sta insistendo, e il gioco del culto è per lui esempio efficace di questa ambivalenza che lega il giocatore alla sua origine, il giocatore che sa di essere giocato “et tant pis s’il est pris au piège, s’il est dechiré par les Ménades!” (Ivi, p. 149.) 633 “Farsi giocare” in francese ha un senso simile al nostro “lasciarsi prendere in giro”, ma senza la componente di inganno e malignità che l’espressione italiana in qualche modo conserva. 634 La conclusione cui Dufrenne mira nell’accostare arte e gioco va oltre il piano del nostro discorso, arrivando ad investire un ambito esistenziale ed etico che egli ritrova nel contesto del lavoro. Se il gioco rappresenta quell’attività libera con cui, come nell’arte, l’uomo può riavvicinarsi alla Natura nella sua potenza, Dufrenne si chiede se noi siamo ancora capaci di giocare. Noi intesi come l’uomo 631 209 Sotto questo segno si raccoglie di nuovo il poetico, tanto come forma di vita che appartiene all’uomo – esercitata nell’arte, nel gioco, nella politica – quanto come categoria estetica che, affondando in quell’humus originario che è la Natura, è condizione di possibilità di ogni altra categoria estetica. 3.4 Materialismo poetico e trascendentale In questa visione mitica e quasi romantica della Natura, che non a caso ha attirato a Dufrenne alcune critiche636, restano ben radicati alcuni degli elementi chiave dell’itinerario di pensiero di Dufrenne. Due in particolare rappresentano punti essenziali e di rilievo del suo percorso. contemporaneo, che lui ipotizza sconfitto da quelle che sembrano le nostre vittorie, e dal culto del lavoro. Nel lavoro che diventa un fine e non un mezzo, nell’alienazione del lavoro forzato (“et il ne l’est pas qu’au bagne”), l’uomo richiude la porta dei sogni e di se stesso, prendendo le distanze dal potere del fondo in cui, solo, egli potrebbe trovare la propria forza vitale. Le domande che chiudono la riflessione sono dense di suggestioni, strettamente legate all’aspetto politico che abbiamo richiamato più sopra, che vale la pena citare proprio perché caratterizzano l’uomo Dufrenne oltre che il filosofo: “Et sans doute l’homme ne devient-il adulte qu’en se soumettant au principe de realité. Mais lui faut-il pour autant faire son deuil de l’imaginaire et renoncer au jeu? Ne peut-on concevoir un travail qui serait jeu en même temps? L’artiste et le philosophe ont-ils le monopole de ce travail? Mais que devrait être une société pour que le travail de tous y soit jeu? Ne faudrait-il pas que la révolution y soit permanente? Et la révolution elle-même, pour préserver le jeu, peut-elle, doit-elle être jeu?” (Ivi, p. 150) 635 Ivi, p. 149. 636 Lo stato poetico descritto da Dufrenne è stato indicato come ispirato da un’idea di poesia “che sembra giustificata da una buona parte della poesia romantica” ma che è “difficile mantenere universalmente” (E. Casey, Le poétique, in “Revue d’esthétique”, 1966, n. 4, p. 318). Franzini stesso, che di Dufrenne si è occupato in Italia in modo specifico e quasi solitario, fa notare che: “Vi è nella Natura una dialettica che, dopo Feuerbach e Marx, non è riducibile alla sua romantica ‘poeticità’ o agli impulsi desideranti del surrealismo di Eluard. E vi sono nella poesia concetti, costruzioni, vera dialetticità con la filosofia che la Natura, naturante o naturata, rischia di portare, come accade anche in Maritain, su un piano mistico, confuso, inavvicinabile per il pensiero ed afferrabile da un sentimento che è in realtà vaga emozione senza un oggetto preciso.” (op. cit., p. 382) Un’altra delle debolezze imputabili al pensiero dell’originario di Dufrenne è stata sottolineata da M. Carbone che di Dufrenne scrive: “a ragione questi insiste sull’impossibilità di riattingere l’originario allorché l’intende quale ‘originario assoluto’ situato ‘al di qua della sua esplosione’ e quindi del pensiero e del linguaggio – un originario inevitabilmente posto a tergo come immediato irrimediabilmente perduto – ma finisce così per connotare quell’esplosione quale seconda anziché coessenziale all’originario stesso – l’originario non è tale se non esplodendo – e per gettare perciò sul pensiero e sul linguaggio un’ipoteca non emendabile quanto al pensarlo e al parlarne.” (M. Carbone, Il sensibile e l’eccedente, cit. p. 136.) 210 Il primo è quello che possiamo considerare una forma di materialismo, poetico e trascendentale, e che rappresenta uno dei punti più fecondi dei contributi di Dufrenne. Nella visione della Natura come natura naturante, infatti, e nel suo correlato poetico, si radica da una parte l’affermazione di un materialismo, come ciò che rinvia alla natura, e, dall’altra parte, il rifiuto assoluto di ogni forma di naturalismo. Proprio la natura, che è sempre poetica perché sempre naturante, incarna questa esigenza basilare nel percorso di Dufrenne.637 Tutta la fenomenologia di Dufrenne è infatti basata su un assunto materialistico che si traduce in quella cui lui si riferisce sempre come ad una filosofia della presenza, presenza intesa, come è stato ben sintetizzato, come il porsi hic et nunc del reale prodigo e imprevedibile, dono che non implica donatore, che non richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell’uomo che abita questa potenza.638 L’invocazione della Natura, all’ombra della presenza, assume un insieme di significati che Dufrenne riassume suggerendo che forse non è senza importanza che una filosofia della Natura – “de l’étant qui s’exprime” – dalla quale scaturiscono sia un’Estetica che un’Etica si opponga a una filosofia dell’Essere, “qui est une philosophie du Neutre”. Con la filosofia della Natura quello che viene caratterizzato in modo specifico e importante è il soggetto, il quale esiste come trascendentale, ma profondamente radicato nel mondo: “comme réciproque du monde et capable de le produire à la coscience, parce que en même temps il est au monde, parce que il y a un fait de son être-là.”639 Dufrenne si mantiene così ben a distanza tanto dal naturalismo quanto dall’empirismo: Si le sujet est constitué, c’est par le trascendental: il n’est pas le résultat d’une histoire, et l’histoire ne peut che faire apparaître ce transcendental. Autrement dit, c’est le transcendental qui est un fait, un fait premier sur lequel se fonde l’histoire des rapports de l’homme et du monde: par nature l’homme est accordé au monde, il connaît quelque chose du monde, le monde qu’il révèle se révèle comme ce qu’il connaît.640 637 Tanto che Maryvonne Saison è arrivata ad indicare proprio in questa teoria il nodo indispensabile per la comprensione del pensiero di Dufrenne sia in direzione retrospettiva che nei confronti dei lavori successivi al 1963. 638 E. Franzini, op. cit., p. 382. 639 M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 276. 640 Ibidem. 211 Il secondo risvolto di questa filosofia della Natura è il difficile concetto di a priori applicato all’esperienza poetica. Questa idea rappresenta per Dufrenne il cardine di uno dei suoi interessi principali, articolato nei due punti inseparabili del lato dell’oggetto e di quello del soggetto. Nel primo il senso eccede sempre le sue differenti incarnazioni, che sono solo alcune reali di tutte quelle possibili. Dal lato del soggetto, ugualmente, vi è sempre, sul piano dell’espressività, un’eccedenza rispetto a qualsiasi discorso logico che volesse metterla a punto. Al di là, o meglio al di qua, come ha fatto giustamente presente Paul Ricouer,641 di questa separazione “Mikel cherchait à rejoindre ce lieu d’émergence, source des deux faces de l’a priori, ce nexus primordial entre l’homme et le monde, cette affinità qu’il célébrait sous le nom de Nature.”642 Su questo concetto di a priori che Dufrenne rilegge in chiave poetica, materiale ed esistenziale, si potrebbe insistere senza mai esaurirlo. Il contributo fondamentale, tuttavia, e l’impostazione che lo rende efficace al nostro percorso, riguardano il proposito essenziale che anima l’autore e che consiste nel deformalizzare quell’a priori che da Kant abita la filosofia occidentale per riafferrarne invece il carattere non logico di struttura intramondana che solo l’esperienza e la vita possono trasmettere. È quanto la dinamica della Natura naturante come egli la rivisita mette in scena: l’assenza di una dipendenza dell’a priori dall’esperienza ma anche, al contempo, il suo esser privo di ogni primato nei suoi confronti. Con il poetico quale a priori di ogni a priori estetico emerge un’opposizione essenziale. Il carattere poetico della Natura naturante, infatti, oppone la posizione di Dufrenne a ogni forma di strutturalismo e neopositivismo scientifico. A questa opposizione era dedicato in particolare Pour l’homme che mira proprio alla messa in discussione del materialismo scientifico e di ogni discorso strutturalista. Tale lavoro, apparso senza grande successo nel 1968, segna proprio l’inizio di quella opposizione, che Dufrenne ha poi coltivato per tutta la vita, nei confronti della natura proposta dallo strutturalismo nella quale si dissolve, a parere di Dufrenne, la storia concreta e del 641 642 P. Ricouer, In memoriam Mikel Dufrenne, in “Revue d’esthétique”, 1996, n. 30, p.13. Ibidem. 212 singolo individuo. Con Pour l’homme compare invece quella alternativa concezione del materialismo su cui l’autore ha continuato ad insistere successivamente, secondo la quale il terreno stesso della filosofia è da ricostruire sulla base di una centralità dell’uomo come oggetto per eccellenza e solo oggetto che non può mai essere oggetto. È l’uomo in quanto uomo che apre il mondo intero alla filosofia: La philosophie n’exige pas que l’homme soit mis entre parnthèse, ou pacé au service de quelque insane transcendante, et par exemple de la philosophie ellemême. Au contraire la philosophie ne garde son sens que si elle est le discours d’un homme qui s’addresse à des hommes et leur parle du monde et de l’homme.643 Ribadendo il ruolo e le possibilità della filosofia Dufrenne sta però soprattutto ribadendo il ruolo e le possibilità dell’uomo; è proprio la soggettività “dans sa relation au système”644 l’elemento che continua a rappresentare un problema per lui e che egli si sente costantemente chiamato a rivedere e ricomprendere. Senza scivolare neppure nel rischioso contraltare di sogiologismo o empirismo, Dufrenne tiene fermo un costante obiettivo polemico: quel logocentrismo scientifico che, dimentico del potere originario della parola poetica, pretende di identificare e strutturare il reale secondo le proprie regole, all’interno di un universo chiuso che esso stesso ha costruito. Il naturalismo del poeta è invece quella capacità di riaffondare nella potenza del reale, per attingere innanzitutto e per lo più alla dimensione naturante della Natura. Il privilegio che comunemente si accorda alla scienza deve restare immune da una confusione letale: “il n’autorise pas la confusion du monde scientifique et de l’univers, même si la science appelle univers le monde qu’elle élabore.”645 Per quanto la scienza abbia presa sul reale, di esso controllerà sempre e solo una porzione definita, già decontestualizzata e astratta dal fondo di potenza che invece la Natura apre, incarna e rende possibile. Il reale dischiuso dalla scienza è contemporaneamente il più vicino e il più lontano, il che non assicura affatto una reale conoscenza: “il est le monde de l’êtreau-monde, ce dans quoi on est – et la science aussi est au monde – et qui, précisément 643 M. Dufrenne, Pour l’homme, cit. p. 122-123. Ivi, p. 123. 645 M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 244. 644 213 parce qu’on est dedans, est toujours au-dehors.”646 La rappresentazione del mondo come universo della scienza è allora proprio una rappresentazione perché esso non si dona affatto come tale. “Le monde scientifique représente un effort pour traduire le monde en univers, et c’est sa dignità, mais il n’est ni l’un ni l’autre, car le monde est donné en deça dans les mondes, et l’univers comme verité du monde est toujours au delà.”647 Contrapporre il poetico della Natura al logocentrismo della scienza, e farlo su base estetica, conduce quindi a caratterizzare anche il rapporto percettivo con il reale in termini che vanno sempre rivisti e di cui è necessario render conto. Infatti, quello cui la percezione ha accesso è quella porzione possibile di reale, ma la percezione ne coglie anche la plénitude, che tuttavia si prospetta solo in forma di sentimento, “c’est-à-dire en intension plutôt qu’en estension.”648 E in questo senso la percezione avrà sempre accesso a un mondo e mai a il mondo. Questa caratterizzazione del rapporto con il mondo sotto l’egida del possibile si ammanta di una forma di apparente ambiguità, ma quello che viene in evidenza e che per Dufrenne rappresenta uno degli snodi più fecondi parte proprio da qui: da questo soggetto inteso come partecipante a una potenza di fondo di cui egli è depositario privilegiato. Con tutte le ombre e le sfumature che un reale inteso “solo” come possibile può comportare, si sottolinea però come ha scritto bene Ricoeur che “l’homme fait jeu égal avec le monde” e che i due opposti sono legati da una forma di legame paritario di cui Dufrenne parla esplicitamente in termini di ‘affinità’. Concetto apparentemente sfuocato, l’affinità è invece altamente funzionale alla descrizione di un rapporto che per Dufrenne sfugge completamente ogni logica, ogni dialettica e ogni sistema. Il trascendentale stesso si configura come un fatto, e un fatto principale, come abbiamo già visto, “sur le quel se fonde l’histoire des rapports de l’homme et du monde.”649 In questa affinità si radica un rapporto a priori con il mondo che qualifica contemporaneamente l’oggetto e il soggetto. L’a priori che Dufrenne vuole mettere a fuoco è una forma relazionale implicata dalla nozione di intenzionalità. “La rélation entre le sujet et l’objet que dénote cette notion”, infatti, non presuppone solo che il 646 Ibidem. Ibidem. 648 Ibidem. 649 Ivi, p. 276. 647 214 soggetto si apra all’oggetto, “ou se transcende vers lui, mais ancore que quelque chose de l’objet soit présent au sujet avant toute expérience, et qu’en rétour quelque chose du sujet appartienne à la structure de l’objet antérieurement à tout projet du sujet.”650 Chiamato in causa proprio dalla teoria dell’intenzionalità, l’a priori serve ad indicare quella forma di comunione e comunicazione tra l’uomo e il mondo in quanto soggetti e oggetti incarnati, presenti, possibili e reali e non in quanto elementi teorici utili a descrivere relazioni logiche. E se il mondo e il soggetto non sono estranei, come abbiamo visto, alla dimensione del possibile e del poetico, non lo sarà neppure la relazione dell’a priori che li lega. Se il possibile è potenza del reale, si ‘possibilizza’ anche l’a priori, che non sarà più struttura teorica indefinibile, ma variegata struttura dell’esistente e dell’affettivo, “dans la mesure où il est constituant de certains objets ou de certains mondes”, ma anche altrettanto nella misura in cui “il appartient au sujet et le constitue comme transcendental.”651 La percezione del mondo, frammista di sentimento e inerente un contesto precategoriale, dischiude quindi l’accesso a qualità materiali che appartengono agli oggetti, in particolare estetici, costituendone la struttura espressiva. Queste qualità sono a priori materiali, non formali come li avrebbe voluti Kant, che ineriscono al sentimento e all’espressività dell’oggetto e che esprimono ‘dall’interno’ il mondo affettivo del soggetto e dell’oggetto, radicandosi in essi come loro strutture costitutive. La possibilità dell’esperienza esula allora da qualsiasi apparato logico di un a priori puramente formale, per radicarsi invece in un a priori materiale (nel senso di Husserl e Scheler) “che è insieme nel soggetto e nell’oggetto e che, in virtù di questa duplicità, permette l’apertura dell’uomo al mondo e del mondo all’uomo come catena infinita di possibilità.” 652 Così, ed è quello che a noi interessa maggiormente recepire e mettere in luce, a costo di tralasciare altri aspetti non meno importanti ma qui meno essenziali della teoria dufrenniana degli a priori, intenzionalità e a priori arrivano ad illuminarsi a vicenda proprio sulla base della ineludibile e inesauribile storia di relazioni tra l’uomo e il mondo. 650 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 60. M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 245. 652 Cfr. E. Franzini, op. cit., p. 373. 651 215 L’intentionnalité signifie donc que l’homme et le monde sont de la même race: la communication qu’elle con note se fonde sur une communauté. Elle a ainsi un sens ontologique, mais sans autoriser pour autant une ontologie, car elle n’implique pas nécessairement l’idée de l’Être comme d’une instance transcendante, d’un sens dont l’objet et le sujet seraient les phénomènes; elle suggère plutôt que le sujet et l’objet, parce qu’ils restent distincts au sein même de leur rapport et pour pouvoir le contracter, ne peuvent être subordonnés à un principe supérieur: la totalità qu’ils forment en vertu de leur affinità ne les engendre pas, le dualisme ne peut être résorbé dans un monismo, dialectique ou non. L’homme est au monde comme dans sa patrie, mais il n’y est pas comme un objet parmi d’autres; de même que l’objet esthétique est à la fois en-soi et pour-nous, le monde est pour lui et il est pour le monde: c’est parce qu’il est en quelque sorte égal au monde qu’il est aussi dans la vérité.653 Questa unità apriorica e intenzionalmente precategoriale dell’uomo e del mondo, la quale si lascia mettere a fuoco al livello di un sentimento percettivo e immaginativo, è quel superamento del dualismo che Dufrenne ha sempre di mira. Superamento che avviene dunque al livello del sentimento il quale si lascia suscitare e trasmettere, nella sua unità, proprio dalla parola poetica o da quella pratica umana che ne raccoglie le caratteristiche poietiche.654 In questo a priori definito sì in termini materiali ma, elemento ancor più importante, in termini relazionali, si situa uno degli snodi più densi del percorso di Dufrenne. La sua ricerca di fondamento dell’uomo, benché a tratti indecisa tra un’ontologia molto lontana dalla fenomenologia e interessi di stampo prettamente antropologico, ha in questo punto uno dei suoi fondamenti essenziali. Il fondamento stesso, l’origine, l’essere stesso forse, ma lo vedremo di nuovo più avanti, non sono da ricercare né nella apparente fissità del mondo degli oggetti né nell’Io del soggetto che li esperisce, costituisce o quant’altro. Al contrario, e in questo risiede il senso ontologico dell’intenzionalità e del rapporto di affinità apriorica che lega oggetto e soggetto, il fondamento risiede propriamente nella relazione: “le fondement n’est ni le monde ni le sujet, il est l’accord de l’homme et du monde.”655 653 M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 61 (corsivo mio). Si può allora capire perchè Levinas, commentando proprio questo materialismo trascendentale, sia giunto a scrivere che “tout ce matérialisme transcendental n’est pas très matérialiste!” (E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris p. 186.) 655 M. Dufrenne, Jalons, cit., p. 211. 654 216 Sulla base di quanto visto fin qui si tratta ora di capire quali sviluppi abbia avuto la ricerca di Dufrenne e in quale direzione pieghi dunque la nostra. L’ambito di riferimento sembra infatti caratterizzato secondo un’indagine di stampo ontologico ma proprio su questo punto è necessario soffermarsi. È davvero un’interrogazione dell’Essere quella che si è andata delineando? La proposta di Dufrenne, o il lato di essa che ci interessa di più, sembra invece aprire in un’altra direzione. Direzione che diventerà più chiara seguendo il suo ultimo lavoro, L’oeil et l’oreille. Molto più che a una teoria dell’essere, infatti, l’indagine di Dufrenne si è orientata a una messa a fuoco e messa in discussione del rapporto intenzionale tra l’uomo e il mondo perché se di un essere si può parlare è per lui solo sulla base di questa relazione. L’ontologia di Dufrenne raccoglie ed esaspera i caratteri antropologici ed esistenziali che già l’ontologia di Merleau-Ponty aveva manifestato. L’obiettivo principale e condiviso riguarda l’annullamento dell’alternativa tra soggetto e oggetto al fine di risalirne all’indistinzione originaria che, benché sfugga sempre necessariamente a un suo completo coglimento, rappresenta quella profondità inesauribile che sola può illuminare il nostro rapporto con il mondo. Con Dufrenne questo obiettivo risulta potenziato, e tutto il suo lavoro, in particolare nelle ultime opere, si concentra proprio sull’infinità delle articolazioni di questo rapporto. “Du fond comme tel, nous ne pouvons rien dire que sa métamorphose dans les figures avec lesquelles nous co-naissons.”656 Queste figure che aprono il contatto con il fondo sono quelle dell’arte, la sola che può manifestare l’originaria potenza poetica, ma più importante ancora è proprio che il fondo come tale sia inafferrabile e che di esso si possa parlare solo in figura: proprio il ricorso a figure, infatti, intese come immagini ma anche come metodologia filosofica, costella tutto il procedere di Dufrenne. E persino l’Essere e l’ontologia che una parte della sua meditazione sembra perseguire sembrano prestarsi in parte a questa lettura. Che il percorso di Dufrenne sembri ontologico è quasi più una conseguenza formale, animata dalla mira originaria che lo anima, che non un’istanza teorica. La fenomenologia di Dufrenne diventa ontologia se e perché dalla percezione passa alla vita intenzionale, sua base e fondamento: “Ainsi la phénoménologie est nécessairement 656 M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit. p. 98. 217 phénoménologie de la perception. Quand elle se fait phénoménologie de la phénoménologie, quand elle s’interroge sur l’être de la vie intentionnelle à quoi elle se découvre liée, elle devient ontologie.”657 Se c’è ricerca di fondamento ontologico allora, è nel senso di una ricerca molto più orientata all’uomo che all’Essere, e il carattere poetico della Natura è proprio su questo che in fondo insiste. “Le fondement, ce serait la Nature, non pas la Nature en-soi qui ne porte pas le sens dont la science décide, mais la Nature dans son mouvement vers l’homme, à la fois perçue et percevante, s’exprimant dans l’homme et par l’homme.”658 657 658 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 216. Ivi, p. 217. 218 CAPITOLO 4: L’OCCHIO E L’ORECCHIO 4.1 Il pittore e il soggetto sinestetico L’opposizione, che abbiamo incontrato a più riprese, al pensiero riflessivo e al naturalismo chiuso della scienza, con il suo logocentrismo che universalizza il mondo senza poterne mettere a fuoco la componente poetica e potenziale, appartiene fisiologicamente a tutta la tradizione fenomenologica, in Francia in particolare. L’originarietà della vita percettiva configura tanto la descrizione dell’umano quanto una riconsiderazione polemica, presente in Dufrenne quanto in Merleau-Ponty, della verità scientifica e dell’atteggiamento che la consente. Recuperare il valore fungente dell’operatività percettiva del corpo, accanto a quelli che sembrano sistemi incrollabili di certezze scientifiche, significa ricollocare tutto l’umano su tale livello e riconoscere quanto più problematico risulti quindi l’accesso alle strutture che lo regolano. Significa inoltre configurare la verità, e le possibilità di accedervi, secondo uno schema specifico, molto lontano dalla tradizione causalistica che, da Aristotele in poi, ha animato la ricerca filosofica e scientifica occidentale. Non è un caso, allora, che le due opere più mature e concluse di Dufrenne e di Merleau-Ponty, L’occhio e l’orecchio e L’occhio e lo spirito, a cui il primo rappresenta risposta puntuale, aprano considerando l’atteggiamento scientifico, “il pensiero allegro e improvvisatore della scienza”659, e i meccanismi che esso attua, per opporvi due proposte affini ma differenti, estremamente rappresentative dei pensieri dei due autori. Vedremo, e sarà la conclusione del nostro lavoro, come sia proprio la figura della sinestesia quella cui Dufrenne affida la propria risposta, nel tentativo di problematizzare 659 M. Merelau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 15. 219 il piano estetico e fungente del nostro rapporto intenzionale al mondo ma anche con l’obiettivo e il risultato di assottigliare le valenze ontologiche di questi temi per riconfigurarli in un piano innanzitutto antropologico ed esistenziale. Con il suo ultimo lavoro, Dufrenne sembra raccogliere e radicalizzare una esortazione presente nelle prime pagine del lavoro del suo maestro: “Bisogna ritrovare il corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni, che è un intreccio di visione e movimento.”660 Il corpo che Dufrenne ha di mira, in parte erede della proposta merlaupontiana, è un fascio ancor più complesso: “L’oeil oui, mais pourquoi pas l’oreille, aussi bien la main?”661 Un intreccio sì di visione e movimento ma ancor più di visione, tattilità e ascolto, un corpo da cui non è estranea neppure la dimensione verbale. Commentando esplicitamente lo scritto di Merleau-Ponty, Dufrenne prima e più ancora di affrontare le complesse questioni teoretiche che lo attraversano,662 si concentra su quanto va in scena nel titolo. L’occhio e lo spirito, le due entità coordinate, si rivelano ben presto trattate in modo molto differente all’interno del testo. Se il primo ritorna costantemente pagina dopo pagina, il secondo è raramente nominato, “car l’esprit n’est pas un organe comme l’oeil, ni une substance qu’un substantif peut désigner.”663 Altrove Dufrenne dirà che se Merleau-Ponty non lo nomina anche nel testo “non è per dimenticanza, bensì perché lo cerca dove esso non ha nome.”664 A suo modo, è sullo spirito come ‘ordine umano’ che egli vuole insistere, su quella dicotomia tra pensare e vedere che il testo pontiano e tutta la filosofia di entrambi i filosofi ha esplorato sistematicamente. Lo spirito è allora il luogo della divisione tra soggetto e oggetto, che ha luogo nel pensiero; divisione che la visione introduce ma non consuma del tutto. E proprio su questo dualismo, e sulle sue condizioni di possibilità, indagherà il 660 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 17. M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, Conferenza tenuta a un Colloque Merleau-Ponty, organizzato dall’Università di New York a Stony Brook nel 1977, oggi in Esthetique et philosophie, cit. tome 3, p. 101. 662 Autoironico con disarmante serietà, Dufrenne introduce l’argomento così: “Un des derniers textes de Merleau-Ponty, peut-être le plus beau, dont Sartre a écrit: “Il y a L’oeil et l’esprit qui dit tout, pourvu qu’on sache le déchiffrer” (Temps modernes, n° Merleau-Ponty, p. 372). Le saurais-je? Plutôt que m’y risquer, je voudrai principalement commenter le titre même.” (Ibidem.) 663 Ibidem. 664 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 45. 661 220 Dufrenne de L’occhio e l’orecchio, per cercare fin dal corpo stesso e dalle polivalenti sensibilità che lo costituiscono, l’accesso al mondo precategoriale e preriflessivo. Se L’occhio e lo spirito ci parla dunque dell’opposizione tra vedere e pensare, “ma première interrogation porte sur le et. Que signifie cette conjonction?”665 Non un rapporto dialettico, essendoci solo due termini; ma potrebbe trattarsi di un rapporto di priorità, come tra causa ed effetto, o persino di un rapporto di complementarità, come tra la forma e il contenuto? Dufrenne conosce l’opposizione seguita da Merleau-Ponty, sa in che senso la visione preceda il pensiero. “L’homme voit avant de penser, et sans doute vient-il à la pensée parce que la vision l’y provoque, ancore que Merleau-Ponty ne suive pas cet avénement.”666 A questa prima notazione solo lievemente critica Dufrenne ne aggiunge subito una seconda, che caratterizza la sua posizione lungo tutte le teorie che abbiamo seguito fin qui. Il passaggio tra la vita irriflessa della visione e quella del pensiero non ha in Merleau-Ponty alcuna caratterizzazione verbale, mentre per Dufrenne il contesto del linguaggio resta sempre presente, come la definizione poetica della Natura lasciava intendere. Questo riferimento al linguaggio, su cui egli torna lungo i suoi lavoro come ne L’Occhio e l’orecchio, non è in realtà del tutto articolato con rigorose motivazioni. Sembra più un’esigenza costantemente riproposta, una consapevolezza ciclicamente mostrata, secondo quel rilancio di prospettive che caratterizza – positivamente e negativamente – il percorso di questo filosofo.667 Resta sempre presente, ed è comunque un altro debito nei confronti di Merleau-Ponty, il linguaggio inteso nel suo senso originario, impegnato ad esprimere al di là delle significazioni concrete, il nostro contatto muto con le cose, prima che esse siano dette. Il linguaggio cui Dufrenne vuole dare spazio, tra l’occhio e lo spirito, è quel linguaggio che la filosofia contemporanea gli ha insegnato essere mediazione.668 Se gli interessa il linguaggio non è allora perché esso possa suscitare né chiarire il vedere, è piuttosto 665 M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit., p. 97. Ibidem. 667 È stato già ragionevolmente notato che “Dufrenne è un filosofo, per così dire, sempre in presa diretta, poco incline, se non addirittura ostile, a ogni forma di decostruzionismo, al quale preferisci sempre e comunque il rilancio di prospettiva.” (C. Fontana, Prefazione all’edizione italiana de L’occhio e l’orecchio, cit. p. 19.) 668 “Merleau-Ponty n’invoque pas cette médiation, et c’est là l’ojection principale que lui addresse par exemple Lyotard.” (M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 98.) 666 221 perché proprio la dinamica linguistica, nelle suo componenti poetiche, gli sembra comprensibile come un vedere e in questo ulteriormente utile a quella descrizione del rapporto intenzionale al mondo che egli persegue: “Mais en revanche peut-être le parler peut-il se comprendre lui-même comme un voir: l’homme parlant est au langage comme il est au monde, il s’accorde à son épaisseur comme à la chair du sensibile, il le vit en l’habitant.”669 A questa considerazione del linguaggio Dufrenne resta fedele, tanto che essa viene riproposta in forma esplicita all’interno de L’occhio e l’orecchio come strumento utile al chiarimento della relazione che corre tra i sensi e il sensibile, tra l’uomo e il mondo. Lì Dufrenne instaura una circolarità descrittiva tra il rapporto intenzionale e il rapporto linguistico tra mondo parlato e uomo parlante che usa in questo modo: Certo il linguaggio preesiste all’uomo, la lingua all’individuo; ma è anche necessario che l’uomo, unico tra i viventi, sia capace di parlare, ed è la sua parola che anima il linguaggio e ne rivendica la padronanza: egli fa uso del linguaggio, ci gioca, istituisce dei giochi linguistici. Il suo divenire soggetto accade nel linguaggio, ma non discende esclusivamente da esso; e il volto che il mondo assume ai suoi occhi non è interamente determinato dalla lingua che egli parla; la ligua orienta e sollecita la sua percezione, ma sembra che essa sia, a sua volta, sollecitata dal percepito, come se le cose e gli eventi del mondo si nominassero di fronte a lui affinché lui li possa nominare, in maniera tale che, nella misura in cui la lingua preesiste all’individuo, essa non detenga questa priorità come un suo peculiare potere, vale a dire in forza del suo essere culturale, bensì in forza della natura stessa che chiama l’uomo al linguaggio per riflettersi nella parola dell’uomo; questo però non significa attribuire alla natura un potere assoluto né rimuovere il soggetto parlante rifiutandogli l’iniziativa della sua parola. La relazione di uomo e mondo all’interno del linguaggio si rivela piuttosto una sorta di simbiosi nella quale è impossibile attribuire a uno dei termini un’anteriorità o una preminenza.670 Questa corrispondenza linguistica, di cui Dufrenne tratta come se non necessitasse alcuna chiarificazione perché già implicita nella sua impostazione poetica come in quelle strutture significanti che abbiamo visto incarnate nell’oggetto estetico, viene inserita nello stesso contesto del rapporto intenzionale che egli sta cercando di chiarire e che, a suo parere, Merleau-Ponty ha esaurito senza l’apertura definitiva a un piano che 669 670 Ibidem. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 54. 222 esulasse quello delimitato dalla visione. È il suo modo di riportare tutti gli elementi che lo interessano, compreso quello linguistico ma ancor più quello percettivo, sotto il segno di quel rapporto affettivo e a priorico al mondo che egli indaga come unitario e principale. Ne L’occhio e lo spirito questa dimensione non è presente, ma se Dufrenne ritiene utile inserirla non è per indicare una mancanza, quanto per suggerire un’ipotesi di ampliamento. La medesima solidarietà tra uomo parlante e mondo parlato unisce, “senza che si possa scoprire tra di loro un’ineguaglianza”671 i sensi (tutti i sensi, nelle loro commistioni con la vista) che costituiscono (tutti insieme) il soggetto aprendolo al mondo e il sensibile che in quanto carne è disponibile per i sensi. De L’occhio e lo spirito, e più in generale della lezione pontiana, Dufrenne tiene fermi diversi punti di riferimento, ma più che di binari teorici si tratta di interrogazioni che ne animano il percorso: il “regime selvaggio” della visione rimane il fondo da investigare, e il suo correlato – artistico e umano – oggetto della ricerca. Dell’interrogazione della pittura operata da Merleau-Ponty Dufrenne raccoglie volentieri l’idea che nella pittura abbia luogo l’esplosione dell’originario, “le surgissement de l’apparaître”, e che questo éclatement produca un chiasma che a sua volta va indagato. Nella filosofia di Dufrenne precipita tutto il vigore di questa interrogazione con il senso e la consapevolezza che proprio l’apparire instauri una distanza tra l’uomo e le cose, dualismo che simultaneamente viene realizzato, “mais sans que leur séparation soit jamais radicale”. 672 Che la questione dell’origine sia ineludibile è certezza che l’ha accompagnato per tutta la vita e che il confronto con L’occhio e lo spirito non fa che riconfermare; ma la risposta di Merleau-Ponty rimane ancorata a una forma di certezza ontologica che l’ultimo Dufrenne non può far sua. La pittura presa di mira da Merleau-Ponty, nella sua adesione quasi totale alla dimensione del visibile, “risveglia, porta alla sua estrema potenza un delirio che è la visione stessa, perché vedere è avere a distanza, e la pittura estende questo bizzarro possesso a tutti gli aspetti dell’Essere”673; essa apre su una trama dell’Essere “di cui i messaggi sensoriali discreti sono solo le interpunzioni o le cesure, e che l’occhio abita 671 Ibidem. M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 100. 673 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 23. 672 223 come l’uomo la sua casa.”674 È questa dimensione che invece Dufrenne ha di mira, ed è il carattere sensoriale di questo messaggio che egli pone a tema poiché, ed è forse qui uno dei suoi meriti maggiori, la simbolicità della pittura, dell’arte, ma anche potenzialmente delle cose in generale, non è da cercare in un fondo ontologico inaccessibile ma nella problematicità stessa nel nostro rapporto, intenzionale e percettivo, con il mondo. Il soggetto de L’occhio e lo spirito è il pittore, “l’unico ad avere diritto di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle”, di fronte al quale perdono il loro potere “le parole d’ordine ‘conoscenza’ e ‘azione’”.675 Per Dufrenne, che fedelmente persegue, al fine di descriverne una possibile assenza, l’opposizione alle parole d’ordine di ‘conoscenza’ e ‘azione’, tale soggetto è meno specificamente caratterizzato. Il soggetto, al di fuori di conoscenza e azione, è innanzitutto, “un oeil et une oreille qui s’ouvrent, un creux dans le sensibile, où la coleur et le son se recueillent.”676 Cambia pertanto in modo sostanziale il referente teorico che incarna il soggetto che si ha di mira e che la definizione di esso come creux, letteralmente ansa, conca, specifica in maniera estremamente significativa. “À chercher l’esprit comme être separé, comme âme voltigeante, on ne le trouvera nulle part; mais à chercher l’âme comme forme du corps, on la trouve.”677 Con L’Occhio e l’orecchio, Dufrenne radicalizza la sua posizione: se l’arte è utile, lo è come strumento attraverso cui si rende manifesta quella duplicità essenziale che è innanzitutto nel e dell’uomo in quanto corpo. Se si vuole interrogare l’originario e le sue manifestazioni sensibili, sarà necessario svuotarlo di contenuti ontologici perché è su un altro piano che si metterà a fuoco quello che davvero gli importa. “Trouvez le corps individué, la machine sentante et désirante, chair co-naturelle à la chair du monde, et vous aurez bientôt l’homme.”678 Si potrebbe addirittura ipotizzare, con sincero timore di eccedere in libertà interpretativa, che il ruolo che Merleau-Ponty attribuisce alla pittura, e di conseguenza al pittore, slitti in Dufrenne alla sinestesia, e di conseguenza al soggetto percipiente. Il soggetto come creux in cui si condensa il sensibile, la sua costitutiva apertura al possibile, all’immaginario e a quello che vedremo tra poco come virtuale, sembrano i 674 Ivi, p. 24. Ivi, p. 16. 676 M. Dufrenne, Le jour se lève, in Esthétique et philosophie, cit. tome 3, p. 204. 677 Ivi, p. 205. 678 Ibidem. 675 224 luoghi in cui precipita quello che ne L’occhio e lo spirito era il potere della pittura: “Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute.”679 Il soggetto della percezione sinestesica è la proposta dufrenniana per illustrare questo soggetto che non è (ancora) soggetto grammaticale né soggetto di diritto, il quale vive i paraggi dell’originario e sa perdersi nell’oggetto “come nel grembo del naturante dal quale non sarebbe ancora nato.”680 Che di esso Dufrenne arrivi a parlare come di un soggetto che “può anche essere definito soggetto ontologico” ci spinge ancor più in là nella prospettiva che abbiamo introdotto: l’accesso all’Essere, qualora esistesse, non è appannaggio di una pratica artistica, ma diventa con Dufrenne accesso incarnato, vissuto, articolato nell’infinita dispersione percettiva che è il corpo umano. I soggetti sinestesici sono come i pittori che, ne L’occhio e lo spirito, hanno sovente amato raffigurare se stessi nell’atto di dipingere, “aggiungendo a quel che allora vedevano ciò che le cose vedevano di loro, come a testimoniare che esiste una visione totale e assoluta, al di fuori della quale niente rimane, e che si richiude su loro stessi.”681 Il soggetto sinestesico sarebbe allora molto meno il pittore che si autoritrae che non il pittore ritratto, colui che nel suo essere guardato dalle cose all’interno di una visione (e non è più solo visione) totale si può afferrare solo in figura; colui del quale si può parlare solo ex post. È al livello del soggetto sinestesico che si rivela come la genesi del senso solo “à ras de l’homme”682 possa attivarsi. Il livello originario della sinestesia, così come Dufrenne lo intende, investe tanto l’attività percipiente del soggetto quanto il suo apporto immaginativo; su questa duplicità, che benché radicata nel corpo sa oltrepassarlo, si costruisce il senso del soggetto sinestesico e la sua stretta vicinanza con il soggetto del pittore che aveva in mente Merleau-Ponty. Quello che Dufrenne ha di mira, in un’ottica di ripensamento pontiano in grado di esplicitarne il portato universale, 679 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 28. M. Dufrenne, L’occhio e lo spirito, cit. p. 135. 681 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 28. 682 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208. 680 225 è quella “base di natura disumana su cui l’uomo si colloca”683 e che rappresenta quel Tutto indivisibile da cui ogni separazione successiva prende avvio. Per renderne conto sarebbe opportuno mirare al pre-estetico, a quell’unità primordiale che precede la dispersione percettiva, ma, e Dufrenne ne è più che consapevole: “è il sinestetico e non il pre-estetico che il pensiero può cogliere.”684 Il soggetto sinestetico è dunque la figura del punto zero in cui la percezione primordiale si apre e manifesta al quale le cose del mondo si presentano innanzitutto abitate e vissute e per il quale esse rappresentano il centro da cui i sensi stessi si irradiano. Nel soggetto sinestetico sembra rivivere con forza e significati precisi quel pittore incarnato dal Cézanne di Merleau-Ponty: colui che ha sempre voluto “rimettere l’intelligenza, le scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo che esse sono destinate a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienza ‘che ne sono scaturite’.”685 Il soggetto sinestetico è allora colui che vive ciò che il Cézanne di Merleau-Ponty metteva in arte: la non scelta tra sensazione e pensiero, l’adesione totale alle cose “dietro l’atmosfera” a un livello primordiale cui tutto il resto è secondo. Il soggetto sinestetico è colui che vive ciò che nell’arte di Cézanne veniva evocato, cioè l’ordine nascente delle cose che, da un fondo inarticolato, si coagulano sotto i nostri occhi. Entrambe le figure pongono a tema le certezze dell’ambiente in cui viviamo, quelle cose di cui siamo abituati a pensare come necessarie e incrollabili: in loro si invera quella visione che “va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita.”686 Ecco allora che nel soggetto sinestetico si raccoglie e manifeste di nuovo il senso espressivo della frequentazione del mondo. Il pittore di Merleau-Ponty “riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”687; il soggetto sinestetico abita questa vibrazione, è colui nel quale questa genesi stessa ha realmente e originariamente luogo. Colui del quale la figura del pittore è neccessaria 683 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 35. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 131. 685 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 32. 686 Ivi, p. 35. 687 Ivi, p. 36. 684 226 incarnazione seconda, poiché in quanto sinestetico egli non può avere coscienza di quanto accade. 688 4.2 Il mondo del tangibile Si esplicita in questa dimensione l’ineludibile valore che con Dufrenne e la sua idea di sinestesia si attribuisce alla sfera del tangibile. Toccare significa essere prossimi alle cose, averle intorno, e da queste reciprocamente essere toccati. Il carattere reversibile della visibilità assume con la dimensione tattile un’estensione in cui si manifesta, fortificata, la carnalità del mondo e del suo senso. “Così il tangibile riveste i caratteri del sensibile, sotto gli indici dei quali la carne si esperisce nella presenza.”689 Il tatto è quel senso cui si presta tradizionalmente minor attenzione, ma che per Dufrenne incarna un asse fondamentale del rapporto uomo-mondo. Di più, nella dimensione tattile – “dalla quale, tra l’altro, avremmo potuto cominciare”690 – si raccoglie il senso fondamentale del rapporto verticale che correla l’uomo e il mondo; rapporto fatto di ombre e sfumature, di sopravanzamenti che annullano, o quanto meno indeboliscono, la rigidità di ogni dualismo. Lo abbiamo già visto nel capitolo dedicato alla sensibilité généralisatrice, ma lo ritroviamo in forma ancora più esplicita nell’ultima opera dell’autore, a testimonianza di una instancabile forma di interrogazione del reale molto coerente e decisa, la difesa della tattilità fa parte delle posizioni di Dufrenne lungo tutto il suo percorso. Ma cosa motiva una tale insistenza? È nel tatto, secondo Dufrenne, che si manifesta con maggior forza, la dinamica di scambio e reazione che caratterizza il contatto dell’uomo e del mondo; mondo inteso come fondo naturale e, nel senso che abbiamo già visto, poetico. Il primato del tatto 688 Cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e…, cit. p. 49. “La visione del pittore non è più uno sguardo su un di fuori, relazione meramente fisico-ottica col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile e il quadro, infine, può rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere anzitutto ‘autofigurativo’; può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo ‘spettacolo di niente’, perforando ‘la pelle delle cose’ per mostrare come le cose si fanno cose e il mondo mondo.” 689 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 117. 690 Ivi, p. 114. 227 deriva sì da considerazioni di carattere filogenetico (“per la filogenesi il tatto è certamente il primo tra i sensi”691), ma rinvia anche a caratteristiche primarie della frequentazione del mondo: Essere al mondo significa essere a contatto, cosa tra le cose, toccante e insieme, toccato. Il tatto è il culmine della prossimità e mi rende prossimo al mondo, giacchè manifesta al meglio quella reversibilità secondo la quale la mia carne è innestata sulla carne del mondo: io non tocco le cose se non nella misura in cui esse mi toccano, ed esse hanno spesso l’iniziativa; mi capita di essere toccato pur non volendolo, senza nemmeno sentirmi attivamente toccante. Le cose non sono, dunque, tangibili, se non nella misura in cui lo sono io stesso. Siamo di sicuro della stessa specie. È proprio da quel fondo di co-naturalità che io emergo. E ancora, certo l’ontogenesi stessa riconferma tale primato (“il bambino non è forse quel tocca-tutto che deve essere costantemente sorvegliato?”692), ma di nuovo non è su questo piano che a Dufrenne interessa insistere. Il tatto del bambino incarna in maniera empirica ed esplicita la potenzialità estrema di questo senso: potenzialità che investe il possedere l’esterno prima e più che il conoscerlo. Nella ricerca di seno da parte del neonato vi è più la richiesta di un oggetto confortante accanto al nutrimento del latte che non la semplice soddisfazione di un bisogno specifico. Egli cerca “meno un oggetto da conoscere che un oggetto da possedere per esserne posseduto, per ritrovare l’estasi.”693 È proprio questo che interessa a Dufrenne, aldilà delle implicazioni infantili: la caratteristica di estasi e possesso che può riguardare un senso. Il fatto che il senso della tattilità possa rappresentare anche, accanto ad un organo di esplorazione del mondo esterno, la soglia di un’interiorizzazione che ingloba l’esterno per esserne a sua volta inglobato in una dinamica di riconoscimento del mondo ma anche si se stessi. È nel tatto che si dà la massima possibilità percettiva dell’esperienza di sé. È toccando le cose che non sono me che posso, mentre ne esperisco le caratteristiche di ruvidità e consistenza, fare esperienza anche di me: “un me toccante, distinto e insieme solidale con il me toccato, con il quale si identifica, senza con ciò che si possa dire quale sia 691 Ibidem Ibidem. 693 Ivi, p. 115. 692 228 l’oggetto per l’altro nella misura in cui il toccare è tanto passione quanto azione, in maniera tale che l’autoposizione e l’autoaffezione, in questo caso coincidano.”694 Al tatto appartiene quella che Dufrenne chiama una “familiarità congenita”, descritta in termini di azione spesso inconsapevole svolta dal corpo tutto intero; il tatto non ha neppure un organo specializzato, investe tutta la superficie dell’organismo, “ed è appunto quando si evoca tale funzione che è possibile parlare di un corpo senz’organi o di un corpo tutto organo, tutto aperto al sensibile.”695 Torna nuovamente un parallelismo, che sottolinea una differente posizione, con le indagini de L’occhio e lo spirito di Merleau-Ponty. Lì, come del resto altrove e sovente nell’opera del filosofo, la reversibilità e il rapporto attivo-passivo di un senso con le cose riguardava principalmente la visibilità. È nel mondo della visibilità che egli colloca in maniera importante sia la reversibilità che il potere delle cose di esercitare un certo senso su di noi. I pittori che ricorda Merleau-Ponty sono coloro che spesso hanno detto di sentirsi “guardati dalle cose”696. Ancora, è nel dominio della visibilità che si giocano alcune delle massime contraddizioni del “tentativo” e del “fallimento” cartesiano. L’esempio pontiano, che la trattazione del tatto di Dufrenne richiama alla memoria anche se forse senza rimando esplicito e voluto, è quello dello specchio. Davanti allo specchio il filosofo avverte tutta la potenza dell’enigma della visione, con la sua ubiquità e il suo simbolismo. Il cartesiano, al contrario, “non si vede nello specchio, vede un manichino, un ‘fuori’ e ha tutte le ragioni di pensare che gli altri lo vedano allo stesso modo, ma questo manichino non è carne, né per lui né per gli altri.”697 Lo specchio, invece, emblema dello sguardo pre-umano del pittore, è la figura dell’essere vedente-visibile, perché “esiste una riflessività del sensibile che esso traduce e raddoppia.”698 Lo specchio di Merleau-Ponty condivide con il tatto di Dufrenne una forma di magia, esso infatti “è lo strumento di una magia universale che trasforma le cose in spettacoli e gli spettacoli in cose, me stesso nell’altro e l’altro in me stesso.”699 694 Ivi, p. 114. Ivi, p. 115. 696 “E André Marchant, dopo Klee: ‘Più volte in una foresta ho sentito che non ero io a guardare la foresta. Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano…Io ero là, in ascolto.” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e…, cit. p. 26.) 697 Ivi, p. 30. 698 Ibidem. 699 Ibidem. 695 229 Più difficile ma non impossibile sarebbe però per un cartesiano opporsi alla “magia” del tatto. Il contrasto però è il medesimo, quello che oppone colui che coglie il rapporto col reale, sia esso visivo, tattile o sinestetico, come un rapporto problematico e sempre in fieri a colui che, come ad esempio Cartesio, rifiuta per principio ogni promiscuità tra visibile e vedente, toccabile e toccante. La concezione carnale che Merleau-Ponty ha della visibilità e Dufrenne persegue nella tattilità è proprio l’opposto di quel giudizio che, facendo di ogni dualismo i propri rigidi binari, interpreta con meccanicità il rapporto del corpo al mondo secondo una schema di riflessi interpretati come effetti prevedibili e fisiologicamente descrivibili. È probabilmente ovvio ma bene specificare che né Dufrenne né Merlau-Ponty immaginano di negare gli aspetti fisici e fisiologici della percezione. Quello che entrambi questionano, e che per Dufrenne diventa cardine ancora più importante, è la riduzione di ogni descrizione a questo piano meccanico ed effettuale, tutto concentrato sugli effetti e totalmente ignaro delle implicazioni umane e metafisiche che il rapporto uomo-mondo esige. La percezione, per entrambi gli autori, è esperienza molto più densa e ambigua di quanto il meccanicismo consenta di presupporre e proprio in questa ambiguità si radicano le caratteristiche dell’umano e del suo senso. In questa ottica, quello che si dispiega di fronte ai nostri occhi, o per meglio dire intorno ai nostri sensi, non è mai puramente un oggetto, ma un fondo, e come tale pluridimensionale, verticale, orizzontale ma anche obliquo, qualcosa che si può indagare seconde le rigide coordinate di spazio e tempo ma anche, e con non minore efficacia, secondo le prospettive aconcettuali che di tali coordinate conoscono il punto zero. Su questa lettura del mondo come fondo prima che come oggetto si concentra, come abbiamo già visto a più riprese, il percorso filosofico di Dufrenne. Quello che non abbiamo ancora visto, e che solo ne L’occhio e l’orecchio viene esplicitato in modo importante, è il distanziamento dell’autore da una lettura di questo fondo in termini ontologici come vedremo emergere nelle pagine che seguono. Il mondo come fondo è il mondo del soggetto sinestetico e dell’artista, riappropiato al di là del suo essere puro Gegen-stand e riconfigurato a partire dal punto zero -di tempo e di spazio- che solo l’individuo è. Dufrenne parla di mondo del tangibile, per descrivere con forza le caratteristiche inglobanti di cui è passibile il fondo. Certo, per il 230 vedente che può tenere le cose a distanza questo mondo può rimanere spesso nascosto sotto il visibile. Ma il tangibile “fa mondo” non meno del visibile, pur rappresentando questa un’esperienza limite che solo una condizione di cecità consente di comprendere davvero. Il mondo del tangibile è anzi ancora più simbolico di quella coestensione che implica carnalmente l’uomo e il mondo. Se la visibilità di principio ha il contraltare di una notte nera e l’udibilità fa sì che il silenzio appartenga in qualche modo al rumore, invocare una tangibilità generalizzata di principio induce a riconoscervi l’assenza di lacune: “Non c’è lacuna nel tessuto del tangibile equivalente al silenzio o alla notte. Non c’è nulla che sia di diritto intoccabile.”700 Di questa immersione totale nel fondo del mondo il soggetto è protagonista assoluto e della originaria apertura su questo fondo unico detentore. Di questa sua caratteristica di originaria apertura creativa l’artista mostra la figura più densa come ha ben mostrato Merleau-Ponty dedicando alcune delle sue pagine più memorabili proprio alla descrizione del pittore come “più umano tra gli umani” il cui emblema è uno “sguardo pre-umano”. Dufrenne conosce il ruolo dell’arte in questa risalita verso l’originario, ne riconosce il senso e rispetta il ruolo. Non a caso tutto L’occhio e l’orecchio è un dialogo aperto con le forme d’arte più varie, chiamate in causa a dire il vero anche quando non sembra essercene ragione assoluta. E anche parlando del tatto l’autore sceglie di metterlo in relazione con una forma d’arte; ma non lo fa scomodando la scultura e il piacere tattile, quasi sempre istituzionalmente negato, cui essa a volte ci chiama. La scelta di Dufrenne è più originale, e significativa. L’arte legata al tatto è quella pratica che fu arte ai tempi di Ovidio, in un epoca in cui essa (l’arte) “non si era ancora gelosamente definita per ottenere uno statuto privilegiato.”701 L’autore si sta riferendo all’erotismo, “un’arte propriamente popolare che non è, grazie a Dio, riservata a specialisti o a geni, che ciascuno reinventa per proprio conto con esiti più o meno felici.”702 L’arte erotica è quella forma d’arte che “ha come materia prima la carne”, intesa in senso propriamente pontiano: “carne di un corpo che è tutto zona erogena, 700 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 116. Ivi, p. 117. 702 Da distinguere naturalmente dalla pornografia, che al contrario è “sistema di ricette precostituite.” (Ibidem) 701 231 carne che si esperisce illimitandosi nel dono che offre e insieme che riceve.”703 Intesa come arte quella dell’erotismo implica e mette in scena in maniera evidente la spersonalizzazione di cui è passabile il corpo umano, una forma di “reversibilità per antonomasia”704 che ne investe il corpo nella sua interezza e un sopravanzamento di attività e passività i cui contorni si disperdono: “infatti la mano o la bocca che si fanno strumenti della carezza, ispirate (quando quest’ultima non sia il gesto indifferente di una tecnica professionale) da ciò che le si dona e che le suscita, non si appartengono più, la loro attività diviene passività e la passione dell’uno suscita quella dell’altro.”705 In questa dinamica in cui la reversibilità raggiunge il suo apice si intravede, nella descrizione di Dufrenne, la struttura che caratterizza le interazioni carnali del nostro corpo con il mondo, fatte di reciprocità, attività che è anche passività e conseguente riavvicinamento all’originario, “mentre la pelle è ciò che vi è di più profondo, giacché nutre l’esperienza del fondo nel quale il soggetto si perde.”706 Nel momento in cui il sensibile giunge a questo suo culmine tangibile esso assurge al livello di sensuale, “merita di chiamarsi sensuale.”707 Con questa analisi del tangibile relativamente a sensualità ed erotismo Dufrenne sta dicendo qualcosa di molto più importante che non un semplice riferimento alla sfera erotica dell’esistenza. Innanzitutto, richiamando il carattere di Arte di questa dimensione egli prende posizione contro la considerazione dell’arte (pittorica, scultorea ecc.) come unica depositaria della possibilità dell’uomo di avvicinarsi all’originario. Richiamado l’erotismo come Arte egli sottolinea la dimensione artistica che sottende la vita di ogni uomo, a prescindere dal suo essere un artista; egli ribadisce il ruolo della corporeità, innanzitutto e soprattutto, nel fungere da soglia principale per l’originario, soglia comune e disponibile per ogni individuo. Il contesto erotico è, inoltre, un contesto caratterizzato da una strutturale apertura intersoggettiva; apertura che la reversibilità del tatto che vi viene esercitata manifesta con estrema puntualità. Certo, la considerazione artistica dell’erotismo rientra nella riabilitazione del tatto in un contesto artistico, nella consapevolezza che le arti tradizionali non sembrano riservare grande 703 Ibidem. Ibidem. 705 Ibidem. 706 Ivi, p. 118. 707 Ibidem. 704 232 spazio al tatto. Ma quello che più interessa a Dufrenne non è una retrograda classificazione delle arti in base al senso con cui comunicano, bensì il reperimento del nucleo originario del corpo all’interno della sfera corporea medesima. In altre parole, con la riabilitazione del tatto l’autore mira a una considerazione globale della sensibilità, nei cinque sensi in cui si articola: cinque sensi che un’accezione sensuale del sensibile chiama in causa con una potenza che nessuna considerazione artistica o pittorica potrebbe fare. È in una dimensione memore del portato tattile dell’esperienza, nella consapevolezza del corpo come luogo zero di scambi che si vogliono intersoggettivi e reciproci, che si può intravedere quel corpo che interessa a Dufrenne: un corpo che non è lo strumento dei cinque sensi, ma loro depositario.708 Questo permette di considerare ogni cosa, tutto il mondo, con lo spazio e il tempo che lo scandiscono, proprio a partire da questo sempre diverso punto-zero corporeo che mai vive il mondo secondo il suo involucro interiore ma sempre vi è inglobato. “Dopotutto”, come diceva Merlau-Ponty, “il mondo è intorno a me, non di fronte a me.”709 E proprio su questa immersione del soggetto nel mondo Dufrenne insiste, indicandovi la condizione principale della possibilità di cogliere il fondo originario come qualcosa di sempre vissuto immediatamente, prima e oltre che percepito. L’occhio e l’orecchio allora, come risposta decisa e decisiva, evocata da un corpo che è sì abitato dallo spirito, ma è innanzitutto e per lo più corpo, e come tale vissuto e indagato. Ecco allora che l’arte erotica diventa importante proprio in quanto arte, indebolendo quel primato snobistico che attribuisce all’arte un potere che sembra lontano dall’uomo che vive. È il tatto il senso che dischiude l’accesso all’esperienza corporea e intercorporea, e solo attraverso il tatto è dato prefigurare quell’insieme organico e organicamente connesso al mondo che è il corpo. Riconoscere al tatto un dominio artistico, e nel senso poco artistico dell’erotismo, significa allora riconoscergli un ruolo fondamentale, cardine, in quell’esperienza di mondo che si vuole totale, donatrice di senso e lontana da una concezione scientifica del corpo del quale invece si riconosce, ed esalta, al contrario il carattere dinamico e genealogico. 708 709 Come del resto già scriveva Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito, cit. p. 42. Ibidem. 233 La considerazione artistica dell’erotismo ci chiarisce, tra l’altro, un’ulteriore posizione dell’autore: quella che riguarda la pratica dell’arte. A questa Dufrenne sembra rimproverare una frammentazione incontrollata e sottomessa a pressioni di tipo più sociale che culturale. Scrive: “il concetto di arte si frantuma sotto la pressione del moltiplicarsi delle pratiche e dell’interferenza dei generi”, come a dire che la differenziazione pratica finisce col discostare il fare artistico, come chi lo compie, dal suo più autentico senso, finendo, proprio in virtù di questa specializzazione col rendere l’arte qualcosa di “gelosamente definito per ottenere uno statuto privilegiato.” Se l’arte erotica “non è, grazie a Dio, riservata a specialisti o a geni” 710, proprio in quel grazie a Dio si rivela il senso di oppressione e vuoto che una pratica artistica avulsa dalla corporeità e dall’umanità finisce con l’incarnare. Se l’arte è più che un dato e un prodotto dell’uomo, ma rappresenta operativamente quello che il corpo fa nella sua frequentazione del mondo, si spiega perché non sia tanto secondario per Dufrenne concedere all’erotismo lo statuto di arte. Così facendo, è possibile continuare ad occuparsi di arte, sia essa pittura, scultura o anche performance, con la consapevolezza che si tratta sempre e in maniera molto rilevante di uno schema umano, importante in quanto umano prima e più che in quanto artistico. Con l’apertura all’erotismo in quanto arte Dufrenne ha quindi esplicitato in un certo senso la propria posizione rispetto all’arte medesima, esortandoci a seguirlo là dove l’arte è gesto, progetto e dinamica vissuta a scapito di quelli che, per quanto seri, non sono altro che oggetti, prodotti e cristallizzazioni di quella progettualità originaria e genealogica che il corpo è. Solo a questa condizione, e non in virtù di qualche magica caratteristica intrinseca, l’arte merita l’ernorme considerazione che le indagini di Dufrenne, come di MerlauPonty e altri, le hanno concesso. 710 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 117. 234 4.3 Un soggetto immaginario Abbiamo visto come, per seguire Dufrenne nelle sue analisi sulla sinestesia mantenendole vicine all’arte, sia necessario riafferrare l’arte stessa come pratica genealogica e produttiva, diagramma corporeo, prima di identificarla con gli oggetti che essa produce. Questo consente di comprendere in che senso l’arte sia importante, proprio come figura altamente simbolica di tale pratica corporea, così come in che senso il corpo possa agire quale punto zero di una produzione di senso che da esso poi si separa. Molte delle considerazioni del Dufrenne de L’occhio e l’orecchio, lo abbiamo detto, sono una risposta puntuale al Merleau-Ponty de L’occhio e lo spirito. E proprio a questa risposta il primo sembra affidare i punti di maggiore distacco, con il risultato di rimarcare la propria autonomia filosofica proprio a partire da domande comuni. Intimamente legata a quanto detto fin qui è una pagina pontiana, che merita di essere letta con attenzione: Qui il corpo non è più strumento della vista e del tatto, ma loro depositario. I nostri organi non sono affatto strumenti, semmai sono i nostri strumenti ad essere degli organi aggiunti. Lo spazio non è più quello di cui ci parla la Dioptrique, un reticolo di relazioni fra gli oggetti, come lo vedrebbe un testimone della mia visione o un geometra che la ricostruisse sorvolandola, ma è uno spazio considerato a partire da me come punto o grado zero della spazialità. E non lo vedo secondo il suo involucro esteriore, lo vivo dall’interno, vi sono inglobato. Dopotutto il mondo è intorno a me, non di fronte a me. La luce viene riscoperta come azione a distanza, e non più ridotta all’azione di contatto, ossia concepita come potrebbe essere da coloro che non vedono. La visione riacquista il suo fondamentale potere di manifestare, di mostrare più che se stessa. E poiché ci dicono che un po’ di inchiostro basta per farci vedere foreste e tempeste, bisogna che la visione abbia il suo immaginario. La sua trascendenza non è più delegata a uno spirito lettore che decifra gli impatti della luce-cosa sul cervello, e che potrebbe esercitare questa funzione anche se non avesse mai abitato un corpo. Non si tratta più di parlare dello spazio e della luce, bensì di far parlare lo spazio e la luce esistenti. Interrogazione senza fine, poiché la visione, a cui essa è rivolta, è anch’essa interrogazione. Tutte le ricerche che credevamo concluse si riaprono. Che cosa sono la profondità, la luce, τι το ον? Che cosa sono, non per uno spirito che si isoli dal corpo, ma per quello spirito che come disse Cartesio, è diffuso per tutto il corpo? E che cosa sono, infine, non solamente per lo spirito, ma per se stesse, dal momento che ci attraversano, ci inglobano? 235 È questa filosofia ancora tutta da fare, che anima il pittore, non quando egli esprime le sue opinioni sul mondo, ma nell’istante in cui la sua visione si fa gesto, quando dirà Cézanne, egli “pensa in pittura”.711 È questa filosofia ‘ancora tutta da fare’ che anima Dufrenne che proprio raccogliendo e rilanciando questi interrogativi sviluppa la propria sinestesia. In particolare, quell’immaginario che qui si suggerisce appartenere alla visione diventa con Dufrenne una struttura cardine della sinestesia che, a sua volta, si rivela una commistione di percezione e immaginazione. La sinestesia diventa il luogo in cui figurare la correlazione tra tutti gli elementi che, proprio a partire dal corpo, articolano la realtà; proprio questa correlazione è quella che permette di afferrare l’unità della carne “prima della sua differenziazione e di avvicinarci all’idea dell’originario al di qua della sua esplosione.”712 Questa differenziazione accentua in Dufrenne il proprio carattere estetico; se con Merleau-Ponty lo spirito ha in tutto questo un ruolo importante, Dufrenne preferisce assestarsi là dove, come abbiamo appena letto nella citazione, lo spirito è diffuso in tutto il corpo. Questo significa ribadire l’assenza di elementi concettuali e di pensiero da questa sfera per concentrarsi invece sul luogo in cui essi stessi emergono: quello strato originario, che sarà chiamato carne, in cui il sentire emerge. Si ripresenta su questo piano l’opposizione programmatica alle impostazioni della scienza: Nel corpo-oggetto, vale a dire nell’organismo differenziato, è la carne che bisognerebbe ritrovare ma la scienza non lo consente. Quest’ultima affronta sì il problema del molteplice, studia la solidarietà tra gli organi, le procedure che regolano l’equilibrio del tutto e che assicurano il suo funzionamento, infatti è attraverso questo funzionamento che il tutto si esperisce. La scienza ha pensato l’organismo come macchina, mentre oggi lo pensa come sistema, ma ciò non significa ancora pensare la carne, tanto meno quando si studia questo sistema come sotto-sistema inscritto in un sistema più ampio, l’essere al mondo del soggetto incarnato.713 711 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. pp. 42-43. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 121. 713 Ivi, p. 131. 712 236 Proprio contro questa sistematizzazione del corpo prende allora posizione il pensiero di Dufrenne. Continuando il parallelismo tra il pittore di Merleau-Ponty e il soggetto sinestetico potremmo dire che a questo soggetto ne L’occhio e l’orecchio è dato di “far parlare lo spazio e la luce esistenti”, di agire il proprio pensiero prima che esso sia tale. Così come nell’erotismo accade ciò che l’arte poi ripresenta: un’adesione immediata all’altro da sé, che è fusione orgasmica, tattile e aconcettuale. Persino il corpo dell’altro ci indica una totalità sinestetica e sinergica che, al pari di un’opera d’arte, è coinvolto nella sua totalità da ciascuna delle sue posture.714 Ma c’è di più. Se il pittore cui si riferisce Merleau-Ponty è colui la cui visione si fa gesto e che, dicendola con Cézanne, “pensa in pittura” anche nel corpo sinestetico c’è un’importante riferimento al contesto del pensare, al contesto riflessivo e allo scarto che esso introduce nella frequentazione del mondo. In fondo è proprio sull’esistenza di questo piano concettuale e sul ribadirne la non esclusività che, abbiamo già visto, con queste riflessioni si torna ampiamente. L’originario assoluto non è coglibile, come già detto, “nulla ci può venire in aiuto a proposito di un originario assoluto, sciolto da ogni pensiero, poiché per poterlo pensare, avremmo bisogno di un non-pensiero o di un prepensiero”715, tuttavia è proprio nel corpo e nella sua commistione sinestetica al mondo che tale pensiero stesso si genera. In una circolarità importante, che la scienza ignora completamente, il pensiero ha origine in una profonda corporeità che proprio nel momento in cui lo origina si ritrova definitivamente allontanata dalla propria origine. “Infatti, è dell’essere e non dell’esperire – del vissuto e non del vivere – che si può sondare lo spessore e intuire il fondo.”716 L’apertura produttiva di pensiero all’interno del corpo, pensiero che solo a posteriori sarà tale e diventerà verbalizzabile, condivide con il pittore una forma di creatività o, meglio, immaginazione che ne rappresenta la risorsa caratteristica. Questo significa cogliere e ribadire nella percezione, e in generale nell’adesione sentimentale, precategoriale, aconcettuale al mondo da parte del corpo, la soglia a partire da cui tutto il resto si articola e concettualizza. Ma Dufrenne va oltre. La sua posizione sembra raccogliere e superare i due binari, che cita, di Straus e MerleauPonty. La psicologia del primo, nel sottolineare l’irriducibilità del biologico al fisico, 714 Ibidem. Ivi, p. 125. 716 Ivi, p. 129. 715 237 “descrive la relazione vitale del vivente al proprio ambiente, l’Einfulung animale, l’animalità primigenia dell’Einfulung”; mentre la fenomenologia del secondo si spinge verso la costituzione di un’ontologia, “guardando all’essere bruto che si rivela come carne, il naturante in cui si originano al contempo il mondo e l’essere al mondo.”717 La cosa che sembra maggiormente stargli a cuore è l’asse delle sovrapposizioni (MerleauPonty li chiamava sopravanzamenti) che costituiscono l’umano; asse che egli vuole situare e rafforzare principalmente all’interno dell’umano anche quando essi implicano aperture verso il mondo esterno. I punti che articolano questo principale interesse di Dufrenne sono due. Il primo riguarda il concetto del virtuale, dell’immaginazione immanente al percepito che apre il percepito stesso a qualcosa che esula il rapporto con il corpo. Il secondo fa parte delle conclusioni non solo del suo lavoro ma di tutta la sua vita ed è il punto relativo al carattere non ontologico dei sopravanzamenti che costituiscono i rapporti stratificati tra il corpo umano e tutte le altre dimensioni che lo riguardano. Dopo aver dedicato lunghe indagini, di cui abbiamo visto l’orizzonte ontologico, al concetto di Natura, Dufrenne si assesta infatti su una posizione che di esso tiene ferme le caratteristiche e l’importanza, spostandone tuttavia il livello d’azione completamente all’interno dell’umano e precisamente del suo corpo. Se non è un oggetto ciò di cui egli è in cerca, ma il fondo, L’occhio e l’orecchio sembra compiere quello che il suo autore aveva già indicato come progetto di ricerca nelle sue pagine dedicate a Merleau-Ponty: il pensare l’accordo dell’uomo e del mondo attraverso una filosofia capace di congiungere filosofia della Coscienza e filosofia della Natura.718 La filosofia della Natura si rivela anzi un’impresa impossibile da conseguire proprio perché il mondo è mondo solo nella sua relazione dialettica all’uomo. Vediamo ora come egli tratta il tema del virtuale, che è ancora tema percettivo e discorso sull’immaginazione; tema artistico ma soprattutto umano. La definizione di virtuale rappresenta per Dufrenne la condizione imprescindibile perché sia possibile parlare di immaginazione nel contesto della percezione. “L’immaginazione”, infatti, “è 717 718 Ivi, p. 130. M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 221. 238 strettamente legata a questa percezione nella misura in cui si definisca l’immaginario mediante il virtuale.”719 Quell’immaginazione che abbiamo già visto nel capitolo dedicato alla sensibilté généralisatrice torna nell’ultimo lavoro di Dufrenne con un ruolo e una forza ancora più espliciti. Nella sua lettura, infatti, una percezione “limitata al solo registo sensoriale”720 è condannata a una forma di insicurezza. Attraverso l’intervento dell’immaginazione, di un’immaginazione che abbiamo già visto è “meno potere di associare che potere di aprirsi e di comunicare, di lasciare che il sentito riecheggi nel senziente”721, la percezione stessa si ritrova potenziata e arricchita. Senza concedere all’immaginazione un anarchico potere associativo, Dufrenne la legge in stretta relazione con il mondo percepito, “essa restituisce all’oggetto presente la sua pienezza, si direbbe anche la sua aura, nel momento in cui consacra il reale come surreale.”722 Cosa significa allora questo reale consacrato come surreale? Esso mostra quella caratteristica del reale su cui insiste tutta l’opera di Dufrenne, coerentemente con la tradizione da cui discende: un reale cui non è mai del tutto estranea la dimensione del “come se”, dell’analogia e della modificazione. Tale idea è strettamente connessa alla sfera della percezione intesa come sinestesia, nella quale con Dufrenne si vuole mettere in luce e ribadire l’impossibilità di immobilizzare i dati e farne astrazioni poiché è sempre necessario, come già scriveva Bergson che Dufrenne certamente conosce, riconoscerne il movimento, un certo ritmo, la ‘durata’. È in questo senso che Dufrenne può attribuire all’oggetto la capacità di permetterci di esperire “l’affinità di quel diverso che lo costituisce come oggetto determinato.”723 Prendendo le distanze da quella corrente di pensiero che, ad esempio con Sartre, vedevano percezione e immaginazione come due atteggiamenti irriducibili della coscienza, che si escludono a vicenda, Dufrenne preferisce portare avanti l’idea opposta: quella che di percezione e immaginazione riconosce l’interazione in una forma di rapporto con il mondo che dialetticamente unisce tutte le modalità della coscienza sotto il segno del corpo. È nella presenza del soggetto che l’oggetto può espandersi fino a riguardare aspetti non del tutto piani e semplici. “Una simile espansione dell’oggetto 719 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 133. Ibidem. 721 Ivi, p. 134. 722 Ivi, p. 133. 723 Ibidem. 720 239 richiede la pienezza della mia presenza; io mi lascio fare dall’oggetto, lascio che il mio corpo si affidi a esso come sinergico, come tutto-organo, ricco della sua cultura, carne che comunica con la carne dell’oggetto, con l’oggetto come carne.”724 Ed è proprio attraverso l’appello dei sensi che avviene l’appello all’immaginazione, in un gioco di sopravanzamenti dell’attività umana che difficilmente si prestano ad una analisi definitiva. È in questo senso che Dufrenne può specificare quanto lontana sia questa immaginazione “aderente al percepito” dalla fantasia, che è invece “la madre dei fantasmi e dei sogni, potere d’errare e di deviare”725. Il problema che ruota intorno al ruolo dell’immaginario nel percepito non riguarda la capacità, per quanto meravigliosa, di creare fantasie e irrealtà. Al contrario, con questo tema Dufrenne si assesta con coerenza in quella prospettiva fenomenologica per la quale, come ha già puntualizzato Dino Formaggio, “l’oggetto, non può, non può più, consistere in una solida esistenza in sé posta ed affermata (oltre che costituita) da uno spirito che è ogni spirito e da un Io che è ogni io.”726 In quest’ottica si rivela una forma di relatività degli oggetti rispetto ai molteplici io che con essi si relazionano, “l’oggetto non è mai solo, l’io non è mai tutto con se stesso. Tutto entra in sistemi a più variabili relazioni.”727 L’intervento dell’immaginazione non è appannaggio esclusivo della percezione quando essa incontri oggetti estetici, al contrario, esso non cessa di essere presente per Dufrenne a tutti i livelli del commercio estetico con il mondo. Tuttavia, è quasi ovvio, di fronte a quegli oggetti il cui senso è costitutivamente in fieri tale ruolo si presenta con maggior pienezza. Che vi sia un’immaginazione al lavoro durante la lettura di un’opera poetica è cosa esplicitata, almeno da Bachelard in poi.728 Nella prospettiva che da lui deriva la lettura dell’opera avviene secondo una forma di époché, come sospensione del reale e 724 Ibidem. Ibidem. 726 D. Formaggio, Appunti sull’oggetto immaginario, in "Fenomenologia e scienze dell' uomo", n. 1, 1985, p. 5. 727 Ivi, p. 6. 728 E infatti è proprio a Bachelard il riferimento di Dufrenne in queste pagine. “È comprensibile che questa immaginazione aderente alla percezione sia del tutto differente dalla fantasia, la madre dei fantami e dei sogni, questo potere d’errare, di deviare, di delirare secondo associazioni arbitrarie. Per corroborare questa differenza si potrebbe ricorrere all’opposizione, sottolineata da Bachelard, tra sogno [rêve] e fantasticheria [rêverie], cogito notturno e cogito diurno; il lettore bachelardiano di poesie si abbandona alla fantasticheria senza sprofondare nel sonno, quando sono le parole a sognare, quando, invece di abbandonarsi agli azzardi di costellazioni psicologiche, si lascia ispirare dalla poesia stessa. Oggi si parla volentieri di iconicità; è in generale, dell’iconicità del linguaggio che si tratta e, più precisamente, dell’opera scritta, romanzo o poesia.” (M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. pp. 133-134.) 725 240 apertura all’immaginario. La posizione di Dufrenne però, mira ad un allargamento della possibilità di questa prospettiva non solo ad opere che non siano letterarie ma anche agli oggetti in generale, investendo pertanto un tipo di relazione al mondo più ampio rispetto a quello voluto dal contesto artistico. Per Dufrenne, infatti, non è soltanto all’opera letteraria, ma anche all’oggetto, sia esso plastico o musicale, che si deve attribuire l’iconicità e, “più in generale, quando la percezione è sinestesia, all’oggetto percepito, gravido di virtuale, grazie a cui si manifesta pienamente nella totalità dei suoi aspetti.”729 Se le parole, in poesia, possono sognare, anche le cose del mondo possono farlo. E la condizione di possibilità di questo sognare non è nelle cose ma nel soggetto, che deve essere “veramente in contatto con quelle cose.”730 Questo contatto profondo non riguarda ovviamente nulla di mistico; si tratta della conseguenza coerente di quella dinamica poetica che abbiamo visto può animare il rapporto tra soggetto e oggetto. L’immaginario come virtuale, infatti, non è qualcosa che il soggetto aggiunge all’oggetto per così dire dal di fuori, esso “è chiamato in causa dal reale che lo abita.”731 Ancora una volta il soggetto sinestetico condivide una posizione con il pittore di Merleau-Ponty, che non aggiunge nulla di surrettizio dall’esterno ma si limita in un certo senso a raccogliere ciò che le cose volevano dire. Il rapporto col mondo si arricchisce, con l’apertura all’immaginario, di una descrizione efficace dei molteplici piani che lo caratterizzano, perfettamente in sintonia con quell’opposizione agli schemi rigidi della scienza da cui siamo partiti in questo capitolo. Il rapporto con i fenomeni è allora un rapporto ondeggiante, e non per questo meno fecondo, del quale è bene riconoscere la ricchezza a scapito della chiarezza definitiva. Ogni io percettivo correlato ad un oggetto dà vita ad un agglomerato ogni volta diverso. Questi agglomerati, nelle parole efficaci di Formaggio, “costituiscono centri egologici e oggettuali momentanei”, di volta in volta instabili e mutevoli nel tempo, sempre in via di trasformazione. In tutto questo ondeggiare fenomenico, dove il puro fenomeno trionfa senza più un sopra, un sotto, o altro che non sia il puro fenomenico, l’apparizione dell’adirivieni dinamico delle apparizioni, si deve dire che entra costitutivamente in base a permanenze più o meno fisse (ma mai del tutto stabili, una 729 Ivi, p. 134. Ibidem. 731 Ibidem. 730 241 volta per sempre), di diritto il sensibile, l’estetico, l’immaginazione, l’immaginario, in tutto o in parte per legame con altre parti, sempre di nuovo.732 In questa connessione, variamente articolata e sempre sfumata, alla moltitudine degli io qualcuno potrebbe leggere un’inclinazione insostenibile verso psicologismo e soggettivismo. Al contrario, Dufrenne è ben lontano dall’attribuire al soggetto capacità demiurgiche o da varie propensioni allo psicologismo della teoria associazionista. Il suo è un soggetto che è sì immerso nella molteplicità dei soggetti, ma che in tale molteplicità vive con la forza dell’adesione a un fondo originario. In questo senso il soggetto sinestetico è un soggetto ontologico, “esso tende a ritornare nei paraggi dell’originario, a perdersi nell’oggetto come nel grembo del naturante dal quale non sarebbe ancora nato”.733 Il soggetto può essere ontologico oltre che sinestetico proprio perché il fondamento è radicato in lui. Ma, e questo è certo uno dei nodi fondamentali, questo radicamento del fondamento non riguarda il soggetto in quanto soggetto, ma in quanto correlato del mondo. Di più: il fondamento stesso “n’est ni le monde ni le sujet, il est l’accord de l’homme et du monde. Non un terme, mais une relation.”734 E solo all’interno di questa relazione i termini possono esitere, mentre di essi non si trova traccia a cercarli isolatamente. In questa relazione ogni volta diversa si comprende perché sia tanto importante l’apertura immaginativa: “la forza di trasformazione fenomenica e di relazione reciproca nella costituzione temporanea dei centri egologici od oggettuali – o di entrambi insieme, come per lo più avviene – appartiene all’immenso regno dell’immaginario.”735 Da questo ruolo sempre nuovo e rinnovato della relazione soggetto-oggetto e sulla sua costante mutevolezza si potrebbe desumere una forma di arbitrarietà che tenderebbe ad indebolire l’apparato generale psicologizzando l’immaginazione. Non è questo che interessa a Dufrenne che risponde: “Non è secondo me, né tanto meno secondo il parere generale, che quella tal sonorità possiede quel tal colore, ma solo secondo Kandinsky.”736 A questo punto l’immaginazione potrebbe essere solo foriera di errori e astrusi psicologismi privati; oppure ogni individuo è portatore di una personale e individuale esperienza sinestetica, 732 Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 135. 734 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 211. 735 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6. 736 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 135. 733 242 che si impone a lui e solo a lui rivelandogli un certo mondo che egli può a sua volta rivelare ad altri. “E se fossimo noi, tanto peggio per noi, ad essere ciechi a quel mondo?”737 È in queste pagine che Dufrenne esplicita una delle sue conclusioni più importanti, nella quale si articola e chiarisce la sua posizione rispetto al ruolo del soggetto in questa poetica, sfumata e sfrangiata realtà che lui ha di mira. Tale soggetto non si annulla in nessun disperato annichilimento, né si dissolve in una intersoggettività incapace di raccoglierne il contributo. Al contrario, “il riferimento all’individuo non è vincolato allo psicologismo se questo individuo si rende capace di vivere un’esperienza ontologica che non inclina più al relativismo.”738 Se è nell’individuo, nella sua relazione al mondo, che si innesta lo scambio carnale originario e originale, si può accettare che tale scambio riguardi tutti i soggetti nella loro dispersione individuale e investa il mondo non solo al livello del reale, ma anche al livello, altamente significativo, del possibile. “Il fatto che certi aspetti del mondo si rivelino solo ad alcuni soggetti ciò non impedisce che siano dei possibili del mondo; all’intersoggettività non si richiede di fornire la propria garanzia di credibilità se non per un pensiero impersonale del mondo.”739 Ogni oggetto nasce nella relazione con il soggetto aprendosi al senso e a tutti i sensi che questo soggetto mette in campo. Ogni oggetto si apre al senso come “una potenzialità naturale suscettibile di infinite saturazioni di significati (sia pure dentro a gamme delimitate),”740 ma tale senso si costituisce ogni volta in base alle variazioni del contesto di soggetti, o centri egologici, che vi interagiscono. “Nuota nell’intersoggettività ed anzitutto nella intercorporeità naturale e sensibile.”741 Ogni oggetto diventa tale all’interno di una comunità e pertanto il suo senso si sviluppa nelle prassi operative e conoscitive di società storiche “in pieno travaglio elaborativo di culture.”742 Relativismo storico o soggettivismo? Tuttaltro. Proprio nella descrizione sinestetica dell’emergenza di un senso sempre diverso legato a una soggettività, a sua volta legata a una comunità storicamente determinata, si radica un presupposto universale di grande portata. Quel 737 Ibidem. Ibidem. 739 Ibidem. 740 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 7. 741 Ibidem. 742 Ibidem. 738 243 presupposto di cui Dufrenne è in cerca fin dalle prime pagine delle sue ricerche e che mira a reperire il fondamento dell’umano e del suo senso in una prospettiva consapevole della carnalità e della temporalità che costituiscono il soggetto. Dufrenne si schiera con forza, come dichiara di aver imparato da Merleau-Ponty, su una posizione di netto rifiuto di tutte “les tentations du système et même des majuscules” per mirare invece a sorprendere la genesi del senso “à ras de l’homme, au lieu de la déployer dan un ciel métaphysique.” 743 L’infinito dell’Essere si stende allora per Dufrenne solo a partire da quella concrezione spazialmente incarnata e temporalmente vissuta che è un soggetto sinestetico nell’apertura della sua sensibilità; e solo a partire dalla sua apertura immaginativa, costitutivamente presente nel suo corpo, ogni possibile entra a far parte, di diritto, del reale che si deve esaminare. Ecco in che senso l’arte torna utile, e Dufrenne continua a rivolgersi ad essa anche se forse non con il rigore che altre parti del suo percorso hanno manifestato. È nell’operazione creativa che si manifesta con massima forza questa dinamica genealogica, espressiva, che caratterizza il rapporto percettivo al mondo. È l’arte il luogo in cui si riversa al suo grado più evidente la progettualità infinita dell’immaginario. In questo senso la storia dell’immaginario e dei suoi oggetti più puri, le opere d’arte, appartiene alla storia della libertà, o, meglio, della infinita liberazione dell’uomo. Ed è per questo che l’immaginario, con tutti i suoi segni e con tutti i suoi simboli, ha sempre a che fare con l’infinito.744 4.4 Il virtuale: un’ontologia impossibile La sinestesia e l’immaginario che la abita, dunque, si qualificano quali modi attivi d’essere, svelatori di possibilità di senso infinite all’interno del mondo. Tale svelamento accade a un livello originario di adesione al mondo che, lo abbiamo già visto, non può mai essere oggetto di conoscenza specifica proprio perché della conoscenza è esso 743 744 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 7. 244 stesso condizione principale. Ecco perché la pratica delle arti, così come gli oggetti estetici, mantengono la loro costante utilità nel riferimento: è in questo ambito che l’unità del sensibile, se non avvicinata, è almeno suggerita. È in quest’ambito che l’oggetto può essere colto nel suo atto di nascita, che è produzione espressiva di sensi senza la cristallizzazione congelata dei significati. L’oggetto estetico, così come il mondo a un livello sinestetico, è un oggetto in nascita e rinascita continua, costantemente in movimento per essere illuminato ogni volta da una realtà egologica differente cui non si chiede di produrre certezze sempre valide. Dino Formaggio distingue con efficacia questo duplice ruolo del senso con gli aggettivi plurisituazionale e unisituazionale.745 Il significato univoco e plurisituazionale è quello della scienza, che deve servire per valere allo stesso modo in situazioni differenti. Al contrario, nella pulviscolare differenziazione corporea ogni oggetto, e in particolare quello estetico, modifica il proprio senso in base all’agglomerato corporeo con cui entra in contatto dando ogni volta luogo a differenti formazioni. Sempre valide, ma sempre caduche. In questo modo “si verifica ad ogni istante la nascita seconda di un diverso senso (…) Diverso innanzitutto perché di segno opposto: monovalente tendenzialmente, univoco e plurisituazionale il primo, plurivalente tendenzialmente, plurivoco e unisituazionale, il secondo, che appartiene all’immaginario.”746 L’immaginario, che stiamo per comprendere nel suo senso di virtuale, per Dufrenne appartiene costitutivamente alla relazione tra l’oggetto e il soggetto; anzi è proprio ad un soggetto che ci si deve riferire innanzitutto quando si parla di immaginario e virtuale. Infatti, “il tratto che conferisce lo statuto di virtuale a quel presentito che si associa e, al limite, si identifica al sentito, orienta l’attenzione verso il soggetto.”747 Se il percepito passa sempre, ovviamente, attraverso la mediazione fondamentale di un corpo percipiente, “è proprio per un soggetto e mediante un soggetto che c’è dell’impercepito intrecciato al percepito.”748 Anzi, la presenza del soggetto si rivela molto più determinante che non quella dell’oggetto; la sinestesia 745 Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 8. Ibidem. Il saggio di Formaggio cui si sta facendo riferimento non è commento specifico a Dufrenne né utilizza il linguaggio filosofico di quest’ultimo ed è qui usato per la sua efficacia strumentale e descrittiva degli stessi problemi di Dufrenne. 747 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p 195. 748 Ibidem. 746 245 rivela una relazione dinamica che avviene all’interno del sensibile “senza doversi affidare all’identità di un oggetto che sia principio dell’associazione.”749 La virtualità della sinestesia che Dufrenne vuole mostrare riguarda la possibilità originaria e genealogica di raggiungere, attraverso la percezione, stimoli che non riguardano informazioni da raccogliere ma sollecitazioni non del tutto categorizzabili che da certi oggetti ci vengono. La virtualità riguarda allora una stratificazione di senso che non riguarda la sollecitazione contemporanea e congiunta di occhio e orecchio: non è uno spettacolo danzato e musicato ciò che si sta indagando. Al contrario, è quel ben più difficilmente determinabile insieme che riguarda, ad esempio, “la musica del quadro”: non un oggetto determinato offerto a determinati sensi, ma un oggetto indeterminabile capace di creare una forma di confusione sensoriale. Di fronte a certi oggetti, come anche a determinate situazioni, non è in ciò che vediamo né in ciò che sentiamo che si racchiude il senso che ci raggiunge. Tale senso viene da un più inafferrabile insieme, che riguarda tutti i sensi, nella loro indivisibilità, nonché – come abbiamo già visto più volte nei capitoli precedenti – un’azione originaria descrivibile in termini di sentimento. Dove si colloca dunque questo virtuale? Dufrenne avanza l’ipotesi della memoria, chiedendosi se esso non riguardi qualche cosa che si sa per lo meno per averla già percepita e quindi custodita nella memoria. Quest’ultima non basta però a Dufrenne, poiché con essa si rimanda principalmente a una dimensione di sapere e conoscenza. Se di memoria, relativamente al virtuale, si può parlare, è molto più in termini di familiarità con le cose del mondo.750 Ecco allora che il virtuale inizia a caratterizzarsi in maniera più ampia rispetto sia all’immaginazione sia alla memoria, arrivando a coprire un’area più estesa che le comprende entrambe senza esaurirsi al contributo di nessuna delle due. Il virtuale non è un sapere cieco del corpo, “cieco quanto un riflesso condizionato innestato sul corpo-oggetto, la presenza che gli va riconosciuta è quella di un immaginario immanente al percepito.”751 Ecco allora che si delinea un'altra posizione che definisce la meditazione di Dufrenne, non senza un’analogia e una differenza sostanziali nei confronti del suo 749 Ibidem. Cfr. Ibidem. 751 Ibidem. 750 246 riferimento teorico Merleau-Ponty. Quello che per quest’ultimo era visibile o invisibile per Dufrenne non è percepito o impercepito. La cesura fondamentale per lui è piuttosto tra immaginato e non immaginato, intendendo questo secondo termine nel senso forte di non dato in immagini, non dato in figura, non dato in presenza. Eppure non assente, ma dato in altro modo. Questa insistenza sul ruolo dell’immagine ci dice evidentemente molto, soprattutto tenendo fermo il fatto, su cui torneremo ancora tra poco, che il potere e l’importanza del virtuale per Dufrenne risiedono proprio in questo suo non essere ancora immagine.752 Questa dicotomia investe con conseguenze importanti il modo di concepire il reale ed il vero. Il virtuale, infatti, non appartiene al regno dell’irreale, esso non è “l’altro rispetto al reale”753 poiché, al contrario, è profondamente radicato nella realtà della relazione tra soggetto e oggetto. Ne consegue un’idea di verità e realtà estremamente aperta e flessibile, che abbiamo già visto comparire a più riprese a partire dalle considerazioni sull’oggetto estetico fino a quelle sulla Natura poetica. Non è tuttavia senza importanza che su tale insieme di riflessioni si trovi ad insistere l’autore nella sua ultima opera. Il reale che egli ha di mira non è un mondo pieno e positivo, ma una realtà stratificata e variamente articolata in cui ogni oggetto si mostra e rivela su un piano sensibile, ma anche precategoriale, preriflessivo e extralogico. Delineando l’immaginario come virtuale Dufrenne mantiene una forte coerenza con queste idee. Il suo immaginario come virtuale presenta due caratteristiche molto dense: esso non è necessariamente immaginato né necessariamente soggettivo. Questo significa riconoscere la possibilità di afferrarlo a prescindere dalla sua concretizzazione 752 Con questa sua elaborazione finale del tema dell’immaginazione Dufrenne prende definitivamente le distanze da Sartre: “Tutto ciò implica che ci guardiamo da una teoria dell’immaginazione come quella che ha formulato in maniera così brillante Sartre: l’immaginazione ‘grande funzione della coscienza’ il cui potere di derealizzazione, di volgere deliberatamente le spalle la reale, testimonia la libertà del per-sé, almeno fino a che la coscienza non si lasci prendere nella sua stessa trappola, ceda alla vertigine, sprofondi nel delirio; essa può divenire, infatti, tanto la manifestazone di una fntasmatica ossessiva quanto la manifestazione di un potere atipico di invenzione e creazione. Non si tratta di rifiutare senza appello questa dottrina dell’immaginazione, possiamo anzi augurare buona fortuna alle diverse scienze del sogno che la sviluppano. Essa non è senza conseguenze per una filosofia del soggetto; ponendo l’accento su una fantasmatica privata, si fornisce alla nozione di individuo un appiglio non indifferente. L’io dell’io penso si manifesta nella sua particolarità nel caso in cui l’io penso si pieghi verso l’io deliro. E non è possibile negare al soggetto il fatto che il potere di affermarsi si rivela, talvolta, come potere di nientificazione e quello stesso potere come potere di immaginare. Ciò nonostante quest’idea dell’immaginazione non può essere d’aiuto per una teorizzazione del virtuale.” (Ivi, p. 196.) 753 Ivi. p. 196. 247 in immagini e a prescindere dalla soggettività che lo produce. “Ciò che è presentito all’ombra del sentito, lo chiamiamo immaginario, vale a dire non sentito, non dato in carne e ossa, leibhaft come dice Husserl, ma nemmeno necessariamente dato ‘in immagine’ né necessariamente immaginato.”754 Ecco perché sarebbe meglio dire immaginabile, riconducendo anche questo aspetto sotto il segno del possibile, del poetico e del genealogico. Immaginario virtuale nel senso di Dufrenne non è il risultato dell’operazione di immaginazione, non è la figura del sogno o il prodotto dell’arte; esso è una possibilità sempre aperta, che si sposta sempre un po’ più in là ogni volta che un’immagine immaginata prende corpo. L’immaginario condivide quindi l’orizzonte dell’invisibile di Merleau-Ponty, e persino la dinamica che sembra descriverlo meglio potrebbe venire proprio da quest’ultimo; ci riferiamo a quell’idea di dialettica senza sintesi, che non vuole aprire né allo scetticismo, né al relativismo né a uno sterile ineffabile. Il virtuale di Dufrenne sembra calare nel rapporto percettivo, sinestetico, proprio l’impossibilità di fermarsi mai definitivamente di fronte a un nuovo positivo, una nuova posizione. “Come nella vita, così nel pensiero e nella storia noi conosciamo solo superamenti concreti, parziali, oberati di sopravvivenze, gravati di deficienze; non c’è superamento onnicomprensivo.”755 L’apertura possibile è quella della “carne inesauribile”756 dell’oggetto che si rivela, di nuovo, il fuoco dell’attenzione dell’autore. È proprio attraverso la nozione di virtuale, e all’oggetto che essa implica, suscettibile di investimenti immaginifici sempre differenti, che l’oggetto stesso è più fortemente coglibile come carne. “Il virtuale invita a cogliere l’oggetto come carne.”757 La seconda caratteristica che abbiamo visto appartenere all’immaginario come virtuale era il non essere necessariamente soggettivo. Cosa significa? L’immaginario come virtuale è una nozione che Dufrenne vuole concepire senza appellarsi all’immaginazione intesa come facoltà di un soggetto. Esso designa “una virus o una vis dell’oggetto: non più ciò che è in potere di un soggetto, come ciò che egli custodisce nella memoria e che può evocare o come ciò che egli può inventare, bensì ciò che è in 754 Ivi, p. 198. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. p. 115. 756 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p 198. 757 Ibidem. 755 248 qualche modo in potere dell’oggetto senza manifestarsi immediatamente.”758 Di nuovo torna il rimando a questa dimensione di invisibile tanto pontiana; con Dufrenne tuttavia, di essa si accentua il carattere di potenzialità intrinseca e di trasformazione genealogia costante. Non vi è nessuna idea di disvelamento di lati nascosti che si tratta di scoprire, al contrario, vi è l’idea sempre più marcata della possibilità. Così è del possibile di cui è gravido il reale, quando il possibile non significhi la contingenza dell’evento come il ‘può darsi che’, ma quando si annuncia come possibile di – di chi può dire ‘io posso’, o di chi senza dire nulla, diviene ciò che non è e che, tuttavia, è in qualche modo se promette di esserlo, come il germe promette di essere frutto, costituendo ciò che Bloch chiama ‘possibilità reale’.759 Nel quadro del possibile vanno allora a confluire impercepito e invisibile, dei quali si sottolinea la presenza infinita e inesauribile a livello potenziale. Questa blochiana ‘possibilità reale’ diventa per Dufrenne quella dell’impercepito “che non appare, ma che è un possibile dell’apparire e che annuncia mediante ciò la pienezza del reale.”760 È questo l’invisibile che ha per Dufrenne peso e importanza; un invisibile che niente ha a che fare con il non visto, con ciò che il giudizio può dedurre quando si concentra sulla percezione e ne trae conseguenze logiche. Un invisibile dunque che aderisce al visibile come sua potenzialità infinita che la figura della sinestesia, come percezione di rapporti verticali, indica con precisione. “Il visibile dice questo invisibile come l’oro dell’acino dice lo zucchero che contiene, come la trasparenza del cristallo dice il suo tintinnio.”761 Dino Formaggio, che qui Dufrenne cita,762 scriveva del parlare dell’oggetto; è questo parlare che si esplicita come espressione, che a sua volta diventa virtuale soglia di un 758 Ivi, p. 199. Ibidem. 760 Ibidem. 761 Ibidem. 762 “L’oggetto parla, come la canoa evocata da Dino Formaggio, la cui linea ‘esce dagli uomini che cavalcano i tronchi sui fiumi, avanza, si pulisce, si perfeziona dentro allo stesso lavorare le canoe, fino a che emerge limpidissima; la sua funzionalità d’uso si fa perfetta, taglia l’acqua in maniera impareggiabile, ma al tempo stesso ‘dice’ tutto questo, dice delle misure, dei movimenti, del peso del corpo umano, dice delle sue potenze e insieme dice l’agilità dei propri movimenti nella corrente, dice la velocità, si solleva in simbolo di una certa unità di vita, raccoglie in sé una precisa unità temporale di prassi umana, si fa memoria e immaginazione viventi, tanto che può essere amata come un corpo ricco di segni’.” (Ibidem.) 759 249 mondo, che a sua volta è “ancora un virtuale molto vicino a schiudersi, per conferire all’oggetto la pienezza del suo significato.”763 Ecco in che senso l’immaginario virtuale di Dufrenne non è necessariamente soggettivo. Esso appartiene altrettanto all’oggetto, abita il reale, “è in esso come sovrabbondanza d’essere, sovrabbondanza di senso”764 e ad esso si deve la possibilità di abitare poeticamente il mondo senza restarvi ancorati nella chiusura delle dicotomie cartesiane. Con questo si arriva a chiarire ulteriormente la valenza dell’a priori dufrenniano: “assegnato al tempo stesso all’oggetto, nel quale designa un potenziale, e al soggetto nel quale designa una possibilità”.765 È questa ambivalenza dell’a priori a farne uno specifico del virtuale, un cardine fondamentale delle conclusioni di Dufrenne. Con questa descrizione del virtuale, infatti, e della sinestesia, in quanto percezione in cui esso si manifesta, si mette a fuoco quel luogo intermedio tra soggetto e oggetto. La loro verità è nella loro relazione; la loro carnalità è nella densità dei reciproci rapporti. La separazione degli a priori dell’oggetto e del soggetto può avvenire solo a un livello razionale, che fondamentalmente non li riguarda. Tra essi esiste una relazione partecipativa, una profonda “comunanza”. Di conseguenza, il discorso sul virtuale torna a chiudersi su quello dell’intenzionalità, che abbiamo già visto emergere come relazione originaria, “irrelativo” da cui procedono sia l’oggetto che il soggetto. L’immaginazione come virtuale, infatti, qualifica una modalità di relazione tra il soggetto e l’oggetto che è “capacità di apertura a quanto non è immediatamente percepibile”, riconfermandosi in quanto “modo di quell’intenzionalità che marca il soggetto come essere al mondo.”766 Definito in questi termini che ne ribadiscono l’apertura, la comunicatività, la disponibilità e la responsabilità nei confronti del mondo, il soggetto si rivela anche “incerto, intrappolato e perduto” ma per questo sempre liberabile. Tale liberazione passa proprio attraverso l’immaginario la cui storia, incarnata dai suoi oggetti più rappresentativi che sono le opere d’arte, è proprio la storia dell’infinita liberazione dell’uomo. Certo l’apertura dell’immaginazione è sempre singolare, essa appartiene 763 Ivi, p. 200. Ibidem. 765 Ivi, p. 201. 766 Ibidem. 764 250 precisamente ad un soggetto e da esso dipende. Ma il suo contenuto, ciò che inerisce alla sua virtualità, appartiene al mondo: “un mondo singolare perché subordinato a una disponibilità singolare, diciamo il mondo di un soggetto, ma questo mondo è un possibile del mondo, non è il mondo privato nel quale si inabissa una coscienza intorpidita o delirante.”767 È questo un altro dei punti salienti cui approda Dufrenne; punto che lo situa con coerenza all’interno di un quadro filosofico che tiene fermo il valore dell’intersoggettività e dell’apertura comunicativa. L’immaginazione che lavora nella percezione, questo aspetto virtuale del nostro rapporto con il mondo che non è mai pura raccolta di dati, si dimostra transoggettiva nel senso che fonda il soggetto stesso come correlato di un mondo. Non siamo lontani da quanto abbiamo indagato seguendo Dufrenne nella sua descrizione del mondo dell’oggetto estetico; ora però se ne comprende maggiormente la valenza, inserendone la struttura nel rapporto tutto umano tra soggetto e oggetto. Questa ricerca di fondazione del soggetto stesso è molto distante da una sua psicologizzazione. Al contrario, l’apertura virtuale insiste nuovamente sulla carnalità di tale soggetto, del quale si vuole evidenziare il carattere di naturato, nato dalla Natura, piuttosto che di naturante. Scrive Dufrenne, con molta determinazione: “Rifiutiamo il trionfalismo del trascendentale, l’identificazione di costituente e di naturante, ma nemmeno accettiamo il trionfalismo di un sapere che ridurrebbe il soggetto all’essere determinato di un oggetto.”768 La caratterizzazione dell’immaginario come virtuale ha quindi l’ulteriore merito di evitare un’eccessiva inclinazione allo psiclogismo assestando piuttosto l’intera riflessione nell’ambito di un’indagine carnale. Il virtuale non è dunque un sinonimo di immaginario, esso è, lo ripetiamo, l’immaginabile, qualcosa che esercita la propria potenza proprio perché non è ancora immaginato, “vale a dire, realizzato in immagini.”769 Relativamente all’oggetto estetico, e artistico in particolare, questo virtuale assume dunque una valenza importante ed esemplare. È di fronte ad oggetti così poco determinabili che la possibilità di creazione di senso e di immagini si moltiplica e che l’immaginario si presenta al suo massimo grado di potenzialità. 767 Ivi, p. 202. Ibidem. 769 Ibidem. 768 251 Relativamente alla percezione, ancora, il virtuale riconferma la necessità di riconoscere l’impossibilità di inscrivere ogni cosa in un registro determinato, “visto che è a cavallo di molti registri: transsensibile perhcè multisensibile, oseremmo dire, ma anche multisensibile perché presensibile.”770 Certo il virtuale restituisce al percepito il suo spessore, ma con molta più pregnanza esso restituisce al percepito il suo carattere primigenio; ne ribadisce il potere genealogico, l’appartenenza a un regno che non è quello del non sentito (né dell’invisibile) ma del “sentito prima della differenziazione sensibile.”771 Tutto questo rimanda, nuovamente, al problema del senso che si riconosce di nuovo, e con maggior forza, come un elemento dinamico, la cui origine assoluta resta sfuggente e del quale tuttavia si deve dire chiaramente che essa è sempre all’opera. Nell’afferramento virtuale delle possibilità della sinestesia, il soggetto può avere una certa esperienza di un ritorno nei paraggi dell’originario. Non si esperisce più come naturate, del tutto individualizzato, differente, ritrova semmai, per un momento, l’intimità prenatale (che la riflessione può esplicitare teorizzandone l’a priori) con l’altro, con l’oggetto che non è nemmeno definitivamente naturato, che non è ancora oggettivato, l’oggetto come carne, ancora indifferenziato. Ecco quindi a cosa approda la riflessione di Dufrenne: a un’ontologia della carne, chiamata proprio dalla fenomenologia del virtuale. Ma, e questo è senza dubbio il punto finale che, nella sua ambiguità mantiene ferma la sua importanza, un’ontologia di questo tipo sarà sempre “un’ontologia impossibile”772. Conclude infatti l’autore, con righe dense che meritano di essere citate completamente: Ontologia impossibile, tuttavia. L’idea di un’omogeneità del sensibile sfugge alla nostra presa, l’unità del plurale non è afferrabile. Il virtuale può certo invitare a parlare di uno stato primigenio del sensibile, ma questo non può essere provato. O ancora, l’affinità del diverso che ispira le sinestesie non si compie nell’unità di quel diverso. Questo è infatti il paradosso del presentito: non è ancora sentito, ma è sensibile, e in quanto tale non specificato.773 770 Ivi, p. 203. Ibidem. 772 Ivi, p. 204. 773 Ibidem. 771 252 Si esplicita allora in maniera evidente la relazione che il virtuale consente di mettere in luce a livello ontologico. Dire che l’ontologia sia impossibile sposta il fuoco su una dimensione di carattere metafisico eppure antropologico: carattere antropologico perfettamente in linea con quello sfondo esistenziale che animava già l’ontologia di Merleau-Ponty e che con Dufrenne si radicalizza. L’Essere non può essere oggetto di indagine, il fondo resta confuso e come tale sfuggente; tuttavia, proprio la relazione intenzionale, caratterizzata in senso sinestetico e virtuale, può mettere in luce l’orignarietà di tale fondo e il suo carattere relazionale. Se di essere si può parlare, è sempre alla luce della presenza del mondo e in virtù di un contesto percettivo; sapendo che l’essere in quanto tale precederà sempre sia l’oggetto che lo presenta che l’uomo che vi si avvicina, eppure potrà compiersi sempre e solo nella relazione tra i due. È qui che Dufrenne forse compie quanto aveva dichiarato di voler fare nel suo scritto su Merleau-Ponty: non legare l’afferramento del fondo ad una ontologia sempre sfuggente, ma congiungere l’idea della Natura all’idea di fondamento, come a priori di ogni a priori, “et de surprendre la naissance du dualisme et les métamorphose de l’homme et du monde à la racine meme du monisme.”774 Nel corpo la distinzione tra il soggetto e l’oggetto è “irrémédiablement brouillée” e quello che li lega, sia esso chiasma merleaupontiano o rapporto sinestetico dufrenniano sfugge ad ogni definitiva sistematizzazione; al contrario vi si manifesta con chiarezza l’azione costante di elementi precategoriali e originari. Il soggetto sinestetico, quindi, e l’immaginario virtuale che lo abita, interagiscono ancora con il pittore pontiano: essi sono i protagonisti dell’avvenuto chiasma, coloro i quali aprono mondi di sensi e ne abitano la labilità e la trasformazione. Al contrario del pittore di Merleau-Ponty, tuttavia, il soggetto sinestetico si spoglia di ogni valenza ontologica. L’Essere mostra nel soggetto sinestetico la sua radice ineludibilmente antropologica, forse poco fenomenologica in questo, ma profondamente poetica. Anche il compito della filosofia ne viene quindi influenzato: con Dufrenne si fa evidente il rifiuto di quelle che egli chiama filosofie “dell’assenza”, come quelle di Derrida o Blanchot. L’estetica di Dufrenne si riafferma come portatrice, o come è stato scritto, 774 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 218. 253 “oggi l’unica portatrice, di una filosofia della presenza, presenza intesa come il porsi hic et nunc del reale prodigo ed imprevedibile, dono che non implica donatore, che non richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell’uomo che abita questa potenza.”775 Il virtuale che abita la sinestesia ci ricolloca pertanto sul piano della Natura molto più che dell’essere, caratterizzandola come possibilità; possibilità che solo il rapporto reciproco, dinamico e genealogico tra un oggetto e un soggetto può attivare. “Si vuole con ciò riaffermare, attraverso l’estetica, un’ontologia non come teoria dell’essere, ma come esplicitazione del significato fenomenologico dell’esperienza, da ricercare e disgelare nell’incontro preriflessivo fra l’io e il mondo, fra l’uomo e la sua ‘terra’”.776 Si capisce dunque, infine, quanto pregnante sia all’interno del percorso dufrenniano la conclusione della sua meditazione sulla sinestesia. Con questo tema egli si riconferma come ultima voce francese concentrata sull’estetica fenomenologica e di questa posizione segna, al contempo, un deciso passo di distacco. L’ontologia cui approda, infatti, nel suo essere impossibile, si assesta su una prospettiva che nulla condivide dell’ontologia husserliana orientata alle regioni degli oggetti e dell’essere traminte cui risalie al significato dell’esperienza. Al contrario, l’introduzione della sinestesia di Dufrenne, e con l’idea che la base dell’ontologia sia proprio il rapporto intenzionale, l’ambiguità e la verticalità del rapporto uomo mondo si spostano proprio sul punto di contatto tra essi. Il nodo ontologico, quella figura chiasmatica che dopo Merleau-Ponty consentiva di porre a tema l’ambigua ricchezza relazionale del corpo, si spoglia con Dufrenne proprio del suo portato ontologico. La forza di quest’ultimo, infatti, viene raccolta e potenziata da una lettura antropologica del chiasma, cioè della sinestesia e della sua ambigua virtualità; antropologia che non si vuole né ingenua né psicologica, ma comunque nemmeno ontologica. La sinestesia incarna allora, riportandoci alle considerazioni con cui abiamo aperto questo lavoro, la forza del mostrare; la potenzialità espressiva, stilistica e poetica del corpo umano in cui si raccoglie e manifesta tanto il sensibile quanto l’immaginazione. 775 776 E. Franzini, La verità del corpo, art. cit., p. 28. Ibidem. 254 Con il soggetto sinestetico si mette a fuoco un soggetto il cui rapporto con la verità non sarà mai nichilistico, e però neppure mai causalistico né definitivo; un rapporto con la verità che l’arte, senza poterla mai davvero produrre fino in fondo, può tuttavia felicemente mostrare come dinamica simbolica e relazionistica, espressiva e genealogica, infine virtuale e sinestetica. 255 CONCLUSIONI “Le jour se lève. Ce n’est pas le lendemain qui chante, c’est l’aujourd’hui: le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui. (…) Pour moi qui ne suis pas dans une situationlimite, il convient que j’ouvre l’oeil: le jour m’y invite, pour sourgir de ma nuit. (…) Quoiqu’il en soit, nous sommes sans prise sur le jour: il a l’initiative quand il se lève.”777 A questo giorno che si leva, senza che noi possiamo impedirgli di rischiarare il mondo intorno a noi e aprirlo alla nostra frequentazione ed esperienza; a questa forza spontanea che ci mette in condizione di aprire i nostri sensi e rendere possibile ogni evento della presenza; a questo soggetto chiamato a testimoniare dell’apparire delle cose come alle interazioni tra esso e il mondo dischiuso dai suoi sensi, è stato dedicato lo sforzo di Dufrenne e di questo lavoro da lui ispirato. Il problema alla base dell’indagine era in fondo piuttosto semplice: non siamo in contatto con un mondo che possiamo trattare come un puro e asettico fatto, non abbiamo a che fare (solo) con oggetti che basta analizzare per comprendere o conoscere per usare. Tutta l’estetica di Dufrenne si basa proprio sullo sforzo di descrivere quella forma di adesione al mondo che dalla pratica e dalla conoscenza prescinde, senza tuttavia essere fusione informe e sterile. Eccoci allora alla prima conclusione da esplicitare, che riguarda il modo in cui possiamo ridescrivere il soggetto umano nella sua dinamica relazionale con il mondo. 777 M. Dufrenne, Le jour se lève, cit. p. 203. 256 Dufrenne sottolineava come il suo sia stato un tentativo di "comprendre les mondes singuliers comme des possibles du monde."778 Infinite possibili delimitazioni di un mondo illimitato. Senza indulgere ad alcun relativismo, ma riconoscendo ad ogni soggettività il potere di dischiudere un mondo; che è fatto molto diverso dalla facoltà di accedere tutti allo stesso mondo. Proprio su questa infinita e indefinita diversità abbiamo insistito con Dufrenne, poichè è esattamente nella proliferazione inarrestabile dei mondi singolari che si manifesta la potenza infinita della Natura. "En se révélant dans une image singulière la Nature s'exprime comme l'inépuisable foyer des possibles, le grand silence de Pan."779 La valorizzazione della soggettività non mira allora in alcun modo ad una soggettività trascendentale; al contrario, è esattamente la singolare dispersione degli individui ad essere l'obiettivo teorico. L'idea kantiana suggeriva a Dufrenne "un monde impersonnel et objectif comme la raison elle-même, la promesse ou le voeu d'une tonalité intelligible enfin conquise par l'entendement."780 Al contrario, la lettura estetica del mondo, e la teoria della Natura, mirano a mettere a fuoco il dinamismo tuttaltro che intellegibile della realtà: "l'irradiation d'une qualité affective, l'expérience pressante et précaire où l'homme découvre un instant le sens de son destin, lorsqu'il est tout intier engagé dans cette épreuve."781 Dufrenne ci ha portati a parlare del poeta e dell'artista, ma come tramite per mettere a fuoco una vicenda decisamente extra artistica. Poetico è, infatti, l'essere stesso della Natura che riguarda l'uomo in generale molto prima e molto più di quegli uomini particolari che sono i poeti e gli artisti. La poesia diventa infatti il luogo che rende vivo e manifesto, che esprime, la possibilità – disponibile universalmente – di frequentare gli aspetti pre-concettuali dell'intelletto, "à mi-chemin entre le régime diurne du logos et le régime nocturne de l'imagination."782 Lungi dal limitare il poetico ad una pratica artistica, infatti, Dufrenne lo intende innanzitutto come la possibilità di entrare in 778 Ivi, p. 176. Ibidem. 780 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 33. 781 Ibidem. 782 M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 179. 779 257 comunicazione con il fondo della Natura, con il suo essere poetico, attraverso quel mondo che ci è dato da sentire: una possibilità di conoscenza, pour chacun de nous.783 Tutto ciò spinge a riproporre e riconfermare l’estraneità di ogni interpretazione solipsistica e psicologistica dall’intero percorso. Il mondo non è un nostro costrutto, né della nostra ragione né della nostra fantasia, ma neppure dei nostri sensi. Il mondo percepito cade, infatti, sotto il dominio della nostra praxis intersoggettiva, alla quale si offre congiuntamente al proprio significato, all’apparire del senso che esso avrà per noi784. La manifestazione, per quanto affettiva e non concettuale, di senso e verità, ha quindi la particolarità fondamentale di essere sempre “engagée dans le sensibile”785 che a sua volta, anziché essere qualcosa che vada annullato e oltrepassato, rivela tutta la sua radiosa portata. Ogni apertura singolare incarnata da un artista, e dall’uomo in senso lato, è allora sempre un modo diverso, ma concreto e sensibile, affettivamente orientato, di entrare in rapporto con il mondo, “de saisir et de fixer un nouvel aspect du réel.”786 Il soggetto della percezione sinestesica è la proposta dufrenniana per illustrare questo soggetto che non è (ancora) soggetto grammaticale né soggetto di diritto, il quale vive i paraggi dell’originario e sa perdersi nell’oggetto “come nel grembo del naturante dal quale non sarebbe ancora nato.”787 Che di esso siamo arrivati a parlare come di un soggetto che “può anche essere definito soggetto ontologico” ci ha spinto ancor più in là nella prospettiva che abbiamo introdotto: l’accesso all’Essere, qualora esistesse, non è appannaggio di una pratica artistica, ma diventa con Dufrenne accesso incarnato, vissuto, articolato nell’infinita dispersione percettiva che è il corpo umano. 783 Ivi, p. 180. Si torna in questo modo alle considerazioni di apertura tratte da La fenomenologia della percezione: “Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. […] Il problema consiste allora […] nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del ‘reale’, nell’esplicitare la nostra idea del mondo come ciò che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo davvero un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. […] Noi siamo nella verità e la nostra esperienza è ‘l’esperienza della verità’. Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità.” (M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., pp. 25-26.) 785 M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 35. 786 Ivi, p. 36. 787 M. Dufrenne, L’occhio e lo spirito, cit. p. 135. 784 258 Il soggetto di cui siamo andati in cerca con Dufrenne precede quindi ogni soggetto grammaticale o di diritto, ogni soggetto empirico e anche trascendentale: è il soggetto puro, nel suo essere innanzitutto un creux all’interno del sensibile, in cui suoni e colori precipitano. E in questo soggetto, tutto corporeo, attraverso gli organi che lo compongono nella loro indifferenziata interazione, si raccoglie un particolare e unico visage du monde. L’uomo, lo spirito, si rivelano lì dove i sensi aderiscono al mondo rendendolo oggetto per un soggetto: “Trouvez le corps individué, la machine sentante et désirante, chair co-naturelle à la chair du monde, et vous aurez bientôt l’homme.”788 Nella sua adesione sinestetica alla realtà, con il coté virtuale e eternamente aperto alla possibilità che tale originarietà implica, l’uomo diventa quel punto zero a partire da cui tutte le coordinate del mondo si dispiegano. È da questo medesimo punto zero, profondamente corporeo, che si apre il passaggio all’universo del pensiero. La vocazione del soggetto avviene proprio in questo passaggio: “Car lorsque l’homme invente la pensée, c’est parce que il la veut si différente, si incorruptible, si autonome qu’il se refuse à lui assigner une source ou un lieu; mais si prêt qu’il soit à la dépersonnaliser, il doit bien l’attribuer à un je et ce je c’est bien l’individu.”789 Individuo che Dufrenne descrive come un essere fragile, investito dal mondo da ogni lato, ma in grado di affermarsi e rompere il cordone ombelicale proclamando il mondo esterno e preparandosi a dominarlo. Ma tutto ciò è solo quella situazione, che pure siamo condannati ad abitare, che segue la distinzione di soggetto e oggetto, il momento in cui la cerniera è definitivamente aperta. Del soggetto si può parlare in senso ontologico oltre che sinestetico proprio perché il fondamento è radicato in lui. Ma, e questo è certo uno dei nodi fondamentali, questo radicamento del fondamento non riguarda solo il soggetto in quanto tale, nella sua autonomia, ma in quanto correlato del mondo. Di più: il fondamento stesso, quel fondamento cui tutta la meditazione dufrenniana mirava, “n’est ni le monde ni le sujet, il est l’accord de l’homme et du monde. Non un terme, mais une relation.”790 E solo all’interno di questa relazione i termini possono esitere, mentre di essi non si trova traccia a cercarli isolatamente. In questa relazione ogni volta diversa si comprende 788 M. Dufrenne, Le jour se lève, cit., p. 205. Ibidem. 790 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 211. 789 259 perché sia tanto importante l’apertura immaginativa: “la forza di trasformazione fenomenica e di relazione reciproca nella costituzione temporanea dei centri egologici od oggettuali – o di entrambi insieme, come per lo più avviene – appartiene all’immenso regno dell’immaginario.”791 Da questo ruolo sempre nuovo e rinnovato della relazione soggetto-oggetto e sulla sua costante mutevolezza si potrebbe desumere una forma di arbitrarietà che tenderebbe ad indebolire l’apparato generale psicologizzando l’immaginazione. Tale rischio è però annullato nel momento in cui dell’apertura immaginativa e virtuale si colga non il lato che pertiene al soggetto e alla sua privata individualità, bensì il carattere poetico, produttivo ed espressivo che riguarda sempre la relazione del soggetto al mondo che è sfumata e sfrangiata realtà. Tale soggetto non si annulla in nessun disperato annichilimento, né si dissolve in una intersoggettività incapace di raccoglierne il contributo. Al contrario, “il riferimento all’individuo non è vincolato allo psicologismo se questo individuo si rende capace di vivere un’esperienza ontologica che non inclina più al relativismo.”792 Se è nell’individuo, nella sua relazione al mondo, che si innesta lo scambio carnale originario e originale, si può accettare che tale scambio riguardi tutti i soggetti nella loro dispersione individuale e investa il mondo non solo al livello del reale, ma anche al livello, altamente significativo, del possibile. L’infinito dell’Essere si stende per Dufrenne solo a partire da quella concrezione spazialmente incarnata e temporalmente vissuta che è un soggetto sinestetico nell’apertura della sua sensibilità; e solo a partire dalla sua apertura immaginativa, costitutivamente presente nel suo corpo, ogni possibile entra a far parte, di diritto, del reale che si deve esaminare. Tutto questo consente, come da intenzione dell’autore, di sorprendere la genesi del senso “à ras de l’homme, au lieu de la déployer dan un ciel métaphysique.”793 Tutto questo conduce con decisione verso la seconda conclusione saliente, relativa a una domanda che abbiamo visto riproporsi a più riprese nel nostro percorso: la 791 D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6. M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. . p. 130. 793 M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208. 792 260 questione della verità che questo rapporto carnale e sinestetico al mondo implica e di come essa vada intesa. Abbiamo visto come ne L’occhio e l’orecchio, coerentemente con tutto il percorso dufrenniano, sia presente una forte istanza oppositiva al pensiero riflessivo, al naturalismo chiuso della scienza e a quello che Merleau-Ponty chiamava il pensiero allegro e improvvisatore della scienza. Recuperare il valore fungente dell’operatività percettiva del corpo, accanto a quelli che sembrano sistemi incrollabili di certezze scientifiche, significa ricollocare tutto l’umano su tale livello e riconoscere quanto più problematico risulti quindi l’accesso alle strutture che lo regolano. Significa inoltre configurare la verità, e le possibilità di accedervi, secondo uno schema specifico, molto lontano dalla tradizione causalistica che, da Aristotele in poi, ha animato la ricerca filosofica e scientifica occidentale. Del reale con cui abbiamo a che fare Dufrenne, attraverso la sinestesia e l’intervento dell’immaginazione che in essa si esercita, arriva a cogliere la potenza surreale. Cosa significa allora questo reale consacrato come surreale? Esso mostra quella caratteristica del reale su cui insiste tutta l’opera di Dufrenne, coerentemente con la tradizione da cui discende: un reale cui non è mai del tutto estranea la dimensione del “come se”, dell’analogia e della modificazione. Tale idea è strettamente connessa alla sfera della percezione intesa come sinestesia, nella quale con Dufrenne si vuole mettere in luce e ribadire l’impossibilità di immobilizzare i dati e farne astrazioni poiché è sempre necessario, come già scriveva Bergson che Dufrenne certamente conosce, riconoscerne il movimento, un certo ritmo, la ‘durata’. È in questo senso che Dufrenne può attribuire all’oggetto la capacità di permetterci di esperire “l’affinità di quel diverso che lo costituisce come oggetto determinato.”794 L’oggetto non è, non è più, una solida esistenza in sé posta e affermata (oltre che costituita), come scriveva Formaggio795, da uno spirito che ogni spirito e da un Io che è ogni Io; in una forma di relatività per nulla negativa in cui, anzi, il rapporto con il vero è sempre più denso perché cangiante. Il rapporto con i fenomeni è allora un rapporto ondeggiante, e non per questo meno fecondo, del quale è bene riconoscere la ricchezza a scapito della chiarezza definitiva. 794 795 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 133. Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 5. 261 Profondamente fedele, almeno in questo, agli intenti fondamentali della fenomenologia, Dufrenne ci conduce alla ricerca del senso del mondo senza voler tenere conto delle cause ma rimanendo profondamente ancorati alla nostra presenza al mondo. La verità cui la sinestesia e il virtuale introducono è un flusso continuo e comunicativo tra il mondo e la mia presenza a lui, fondata su un’intenzionalità come voleva Husserl ma che, diversamente, diventa fondamento assoluto, originario se non addirittura ontologico. La sinestesia è allora, ogni volta, percezione in cui si realizza di una verità, mostrando come ogni interazione percettiva con il mondo sia già essa stessa filosofia796 in quel senso in cui è stato maestro Merleau-Ponty: “la filosofia non è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la realizzazione di una verità”797 e, “la vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo”798. Attraverso l’apertura sinestetica si mostra dunque come siamo sempre in contatto con una verità799 che non somiglia alle cose, che non si riscontra necessariamente in un modello eternamente replicabile, che non ha strumenti di espressione e tecniche predestinati e privilegiati, e che, nondimeno, è verità perché al di là di essa non vi è niente800: “è il relativo che diviene irrelativo”. Nella sfera dischiusa dal soggetto sinestetico non è possibile nominare nessuna distinzione cartesiana fra organico e psichico, esteriorità e interiorità, o ancora res cogitans e res extensa; esso è il luogo in cui questi livelli vivono 796 È questa interazione percettiva, ineludibilmente corporea, che funge da legame tra le cose e la coscienza, uno dei principali obiettivi teorici che Dufrenne eredita dal percorso merleaupontiano. Tale percorso era esplicito fin dalla prima opera La struttura del comportamento nel cui passo finale ci sembra risuonare con forza la spinta e la direzione raccolta e seguita dal nostro autore: “La ‘chose’ naturelle, l’organisme, le comportement d’autrui et le mien n’existent que par leur sens, mais le sens que jaillit en eux n’est pas ancore un object kantien, la vie intentionnelle qui les constitue n’est pas encore une représentation, la ‘compréhension’ qui y donne accès n’est pas ancore une intellection.” (M. MerleauPonty, La structure du comportement, cit., p. 241.) 797 M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., p. 30, corsivo mio. 798 Ibidem. Le stesse pagine riportano inoltre: “L’incompiutezza della fenomenologia e il suo modo di procedere incoativo non sono il segno di un fallimento, ma erano inevitabili perché la fenomenologia ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione. Se la fenomenologia è stata un movimento ancor prima di essere una dottrina o un sistema, ciò non è un caso né un’impostura. Essa è laboriosa come l’opera di Balzac, quella di Proust, quella di Valéry o di Cézanne – per lo stesso genere di attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo e della storia allo stato nascente.” (Ivi, p. 31.) 799 Risulta così evidente la pregnanza del concetto di verità che impariamo dai greci: alétheia è, letteralmente, il disvelamento che, come tale, è soggetto alla reiterazione eterna. 800 “Ma l’opera d’arte non è un che di arbitrario, o, secondo l’espressione comune, finzione. La pittura moderna, come in generale il pensiero moderno, ci costringe ad ammettere una verità che non somigli alle cose, che sia senza modello esterno, senza strumenti d’espressione predestinati, e che nondimeno sia verità. (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 84.) 262 ancora sovrapposti, avviluppati in un senso vitale il cui portato poetico e produttivo si manifesta in nuce e sempre in fieri. L’iconicità non è categoria estetica che riguardi solo l’opera d’arte, essa si estende “quando la percezione è sinestesica, all’oggetto percepito, gravido di virtuale, grazie a cui si manifesta pienamente nella totalità dei suoi aspetti.”801 La percezione sinestetica mostra come l’oggetto possa essere colto nel suo atto di nascita, che è produzione espressiva di sensi senza la cristallizzazione congelata dei significati. L’oggetto estetico, così come il mondo a un livello sinestetico, è un oggetto in nascita e rinascita continua, plurivalente tendenzialmente, plurivoco e unisituazionale; costantemente in movimento per essere illuminato ogni volta da una realtà egologica differente cui non si chiede di produrre certezze sempre valide. La virtualità della sinestesia che Dufrenne vuole mostrare riguarda la possibilità originaria e genealogica di raggiungere, a partire dal corpo e attraverso la percezione, stimoli che non riguardano informazioni da raccogliere ma sollecitazioni non del tutto categorizzabili. La filosofia di Dufrenne, in questo autenticamente fenomenologica, non si pone come fittizia costruzione di un ordine ideale e di verità, perché la verità cui essa tende non si risolve nella dialetticità del pensiero, ma si pone come costituzione dinamica di una tensione sempre aperta ad un più vasto sistema di relazioni. Pertanto, la verità non è un essere dato, ma un senso cui si tende, in una dinamica di progetto e azione continuamente rinnovati. Il rapporto tra verità e mondo si rinnova dunque ininterrottamente; ogni soggetto apre un mondo nuovo, secondo quelle forze che negli gli oggetti estetici si manifestano perspicuamente. Nella presenza del corpo, dei corpi, si attua ogni volta il cominciamento della verità del mondo: verità intersoggettiva, intercorporea e comunicativa, mai solipsistica né dogmatica. Attraverso quest’ultimo punto si giunge ad un’ulteriore notazione di rilievo: il legame simbolico, espressivo e genealogico che nella sinestesia si manifesta non passa innanzitutto per oggetti le cui caratteristiche avvierebbero tale processo. Al contrario, come abbiamo visto, la relazione dinamica che avviene nel sensibile avviene in quanto 801 M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 134. 263 legame e relazione, per un soggetto e mediante un soggetto, “senza doversi affidare all’identità di un oggetto che sia principio dell’associazione.”802 Nessun primato dunque, né al lato soggettivo né a quello oggettivo, bensì l’afferramento dell’ambiguità della loro relazione nella sua ricchezza e nei suoi adombramenti chiasmatici. Di nuovo, il fondamento è la relazione; la percezione e lo stile si sovrappongono, per restituire del mondo una descrizione espressiva e poetica. Il tema dell’immaginazione interessa qui in particolar modo nella misura in cui la maggior parte delle dottrine che lo hanno affrontato sembrano averlo fatto sotto l’egida di un appiattimento di immaginario e irreale. Tale appiattimento conduce a una forma di opposizione tra reale e immaginario basata sull’idea che il reale sia già sempre determinato, o se non altro determinabile, e renda sempre possibile l’esclusione dell’irreale immaginario dal quadro percepito. L’immaginario definito come irreale va rapidamente a corrispondere all’illusorio, incarnando così il nemico principale di ogni forma di razionalismo. Tuttavia, è proprio tale corrispondenza affrettatamente articolata tra immaginario e irreale quello che Dufrenne mette in discussione. Perché la percezione non sia, infatti, solo registrazione passiva di dati ma, più proficuamente, atto dello spirito, è necessario che l’immaginazione sia sempre presente in essa. “Que la perception soit fausse d’abord, cela signifie sans doute la servitude d’une pensée soumise à l’empire du corps, mais aussi la liberté du jugement; le faux, c’est aussi l’invisible qui n’apparait jamais, que l’art seul peut fixer, et dont l’introduction dans le plein du monde témoigne pour l’esprit – un esprit qui se révèle et s’éprouve au détour de l’erreur.” Ne consegue l’importanza del ruolo dell’immaginazione all’interno della relazione e la necessità di sottolineare l’azione, all’interno del reale, del possibile e del virtuale. Ad essi non si guarda in cerca di una poco proficua indagine sull’irreale, al contrario: attraverso la descrizione del soggetto sinestetico e la conseguente lettura della verità, si può cogliere perché tanto importante sia riconoscere la presenza e l’azione di un immaginario immanente al percepito. Al di là di visibile e invisibile siamo portati a ritrovare un’opposizione ancora più originaria e originale: quella tra immaginato e non immaginato, intesi nel senso forte di dati o non dati in immagini, in figura. 802 Ivi, p. 195. 264 L’immaginario è ciò grazie a cui al reale si guarda con la consapevolezza delle infinite possibilità di cui esso è intessuto; possibilità che solo la scintilla innescata dall’apertura percettiva nella sua originarietà sinestesica può rendere reali. L’immaginario è quella fessura grazie a cui il rapporto percettivo si conferma carne inesauribile; esso è da intendere come una virus o una vis dell’oggetto nella sua relazione con il soggetto che lo percepisce e non, semplicemente, come un potere esclusivo del soggetto. In questa possibilità di apertura che è a priori nell’oggetto e nel soggetto si designa proprio il loro potenziale poetico ed espressivo, e, di nuovo, il fatto che la loro verità sia nella loro relazione. L’ultima conclusione cui quanto detto fin qui ci conduce è, infine, quella che riguarda il lato propriamente artistico di quanto esplicitato. Ma se all’arte si guarda non sarà in nessun modo con l’obiettivo di aggiungere nulla a qualsivoglia teoria estetica in senso di teoria dell’arte. L’esito teorico del discorso sviluppato fin qui ha il pregio di utilizzare l’ambito artistico come regione d’esperienza significativa in cui veder esercitare quella vitalità che pertiene però all’uomo in generale. In questa direzione la meditazione di Dufrenne ha fornito due contributi importanti strettamente intrecciati l’uno all’altro: il primo relativo alla rivalutazione da lui operata della sensibilità in generale contro la tradizionale predilezione per la vista; il secondo relativamente alla differenza non ontologizzabile che appartiene all’arte e che riconferma, insieme a tutta la realtà che può sempre essere estetica, polo attivo di una relazione fondativa e genealogica in cui, se di Essere si può parlare, è sempre alla luce della presenza del mondo e in virtù di un contesto percettivo; sapendo che l’essere in quanto tale precederà sempre sia l’oggetto che lo presenta che l’uomo che vi si avvicina, eppure potrà compiersi sempre e solo nella relazione tra i due. “Per quanto si estenda oggi il dominio dell’arte, vi appaiono sempre delle opere. Ma non confiscano l’apparire: con esse, i esse, sorge il senso. Nello stesso momento in cui si rivelano, rivelano qualcosa. Accendono la luce, ma sono esse stesse luce: mostrandosi, mostrano.”803 Quel distanziamento dell’autore da una lettura del fondamento in termini ontologici, reso esplicito in particolare ne L’occhio e l’orecchio, ha come correlato 803 M. Dufrenne, Arte e natura, in M. Dufrenne-D. Formaggio, Trattato di estetica, cit. p. 40. 265 teorico una proposta di lettura del mondo come qualcosa di cui riappropiarsi al di là del suo essere puro Gegen-stand, da riconfiguare a partire da quel punto zero che l’individuo è. In questo senso gli oggetti estetici rivelano la propria efficacia nel descrivere tale relazione proprio per il loro essere forme, cose, di fronte ai nostri sensi; ma forme e cose che tali sensi riattivano costantemente spingendoli al limite stesso delle loro possibilità, là dove il non figurato, il non percepito e l’invisibile prendono corpo. “L’oeil oui, mais pour quoi pas l’oreille, aussi bien la main?”804 La corporeità tutta intera è protagonista della felice ambiguità intenzionale che le opere d’arte sanno incarnare con validità. È il passaggio dal sensibile al sensuale, a quella dimensione della realtà cui il corpo tutto tende con forza in un’interazione carnale con il mondo, fatta di reciprocità, attività che è anche passività e conseguente riavvicinamento all’originario. L’esperienza del mondo che ne consegue è naturalmente quanto di più lontano da una concezione scientifica del rapporto con il corpo del quale invece si riconosce ed esalta il carattere dinamico e genealogico. All’arte non si guarda pertanto alla ricerca di dati e prodotti dell’uomo da analizzare ma in quanto ambito in cui da una parte si rappresenta operativamente ciò che il corpo fa nella sua frequentazione del mondo e, dall’altra, si ripresenta ogni volta da capo l’originarietà fungente, precategoriale e sentimentale di questa frequentazione. In ogni forma d’arte si libera il sensibile e, almeno fin dove è possibile farne esperienza, si può forse presentire la sua unità. Il pre-estetico sarà sempre al di fuori della nostra portata, ma il sinestetico, almeno in figura, può essere presentito. In questa sfumata partecipazione al sinestetico, che la percezione estetica sa figurare, emerge con forza come la forma cui la percezione aderisce non sia leggibile solo in termini di forma di qualcosa ma al contempo Forma tout court, precategoriale e inserita in una dinamica di processi fungenti. In questo senso l’oggetto estetico (e potenzialmente il mondo intero, è sempre bene ripetere) si presenta decisamente come polo intorno a cui freme una genesi estetica, densa di contenuti simbolici in costante trasformazione. Di nuovo, è al processo, nel suo essere percettivo, fondativo e genealogico, che si guarda; non agli oggetti, per loro supposte caratteristiche intrinseche. 804 M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 101. 266 Se l’oggetto estetico esibisce ed esplicita l’adesione umana all’originario esso ci conduce però a ricomprendere gli schemi della percezione e allargarli all’inverosimile. È la potenza del fondo che l’arte si sforza sempre di ridire, come scrive Dufrenne ne L’inventaire; “i poeti imitano la poesia della Natura, ci riconducono a quanto c’è di elementare negli elementi, che non richiede una psicanalisi, Bachelard l’ha capito, ma una fenomenologia dell’apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento stesso dell’apparizione, l’insistenza dell’essere.”805 Ci è sembrato utile, in questa direzione, accostare il soggetto sinestetico dufrenniano al soggetto del pittore di cui parla Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito, con cui L’occhio e l’orecchio dialoga in modo esplicito fin dal titolo. Il soggetto sinestetico è emerso in quanto figura del punto zero in cui la percezione primordiale si apre e manifesta, al quale le cose del mondo si presentano innanzitutto abitate e vissute e per il quale esse rappresentano il centro da cui i sensi stessi si irradiano. Nel soggetto sinestetico sembra rivivere con forza e significati precisi quel pittore incarnato dal Cézanne di Merleau-Ponty: colui che ha sempre voluto “rimettere l’intelligenza, le scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo che esse sono destinate a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienza ‘che ne sono scaturite’.”806 Il soggetto sinestetico è allora colui che vive ciò che il Cézanne di Merleau-Ponty metteva in arte: la non scelta tra sensazione e pensiero, l’adesione totale alle cose “dietro l’atmosfera” a un livello primordiale cui tutto il resto è secondo. Il soggetto sinestetico è colui in cui si vive ciò che nell’arte di Cézanne veniva evocato, cioè l’ordine nascente delle cose che, da un fondo inarticolato, si coagulano sotto i nostri occhi. Entrambe le figure pongono a tema le certezze dell’ambiente in cui viviamo, quelle cose di cui siamo abituati a pensare come necessarie e incrollabili: in loro si invera quella visione che “va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita.”807 Ecco allora che nel soggetto sinestetico si raccoglie e manifesta di nuovo il senso espressivo della frequentazione del mondo. Il pittore di Merleau-Ponty “riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita 805 M. Dufrenne, L’inventaire…, cit. p. 71. M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 32. 807 Ivi, p. 35. 806 267 separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”808; il soggetto sinestetico abita questa vibrazione, è colui nel quale questa genesi stessa ha realmente e originariamente luogo. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, il ruolo decisivo della sinestesia: crocevia chiasmatico che sfugge ogni definizione ontologica per riafferrare, invece, la Natura e la Coscienza come poli inseparabili dell’originarietà fondamentale. Nel soggetto sinestetico dufrenniano si offre in figura il movimento poetico della Natura verso l’uomo, insieme alla loro espressiva relazione reciproca. Alla preoccupazione per l’Essere Dufrenne propone di sostituire la cura (souci) per gli enti, la preoccupazione di rendere giustizia agli oggetti lasciandoli essere e lasciando che nella relazione con loro si eserciti con tutta la sua forza la nostra adesione sinestesica, mai visibile ma se non altro vivibile come partecipazione immaginativa, attiva e creativa. Nei confronti della verità, dell’arte e del mondo tutto intero perché interamente passibile di estetizzazione. Le jour s’est levé. Plus tard, midi le juste. Mais déjà la lumière rend justice à ce qu’elle dévoile. Elle lasse être ce qui est, elle le conduit seulement à la gloire de l’apparaître. Et sans doute, l’homme aussi est lumière; c’est dans la lumière de son regard que le monde apparaît. Est il possible qu’il rend justice, lui aussi, que son regard ne soit pas celui du maître, qui ne jouit que d’asservir, mais celui de l’ami, qui en appelle à l’anarchie?809 808 809 Ivi, p. 36. M. Dufrenne, Le jour se lève, cit. p. 207. 268 BIBLIOGRAFIA OPERE DI MIKEL DUFRENNE: Jaspers et la philosophie de l'existence, in collaborazione con Paul Ricoeur, pref. di Karl Jaspers, Seuil, Paris 1947 Phénoménologie de l'expérience esthétique, PUF, Paris 1953, Tr. it. parziale Fenomenologia dell'esperienza estetica, Lerici, Roma 1969 La personnalité de base. Un concept sociologique, PUF, Paris 1953 La notion d'a priori, PUF, Paris 1959 Jalons, M. Nijhoff, La Hague 1966 Esthétique et philosophie. Klincksieck, Paris 1967 Art et politique, UGE, Paris 1974 Pour l'homme. 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