Università degli Studi di Palermo
Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi
Dottorato di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti - XXI Ciclo
Coordinatore: Prof. Luigi Russo
SSD: M-Fil/04
ARTE E SINESTESIA IN MIKEL DUFRENNE
di Cecilia Antolini
Tutor: Chiar.mo Prof. Luigi Russo
Co-tutor: Chiar.mo Prof. Salvatore Tedesco
Co-tutor esterno: Chiar.mo Prof. Elio Franzini
A mio marito Dario
a mia figlia Olivia
INDICE
INTRODUZIONE............................................................................................................................................. 1
CAPITOLO 1:
L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA VERSO MIKEL DUFRENNE ..................20
1.1
Mikel Dufrenne: un’introduzione storica .........................................................................................20
1.2
Antropologia filosofica: lineamenti storici.......................................................................................43
1.3
Riferimenti kantiani............................................................................................................................65
1.4
Helmut Plessner, tra Kant e la fenomenologia husserliana............................................................77
1.5
M. Merleau-Ponty, da H. Plessner verso Dufrenne.........................................................................88
CAPITOLO 2: L’OGGETTO ESTETICO, UN MONDO TRA PERCEZIONE E
IMMAGINAZIONE .......................................................................................................................................96
2.1
La sensibilité généra(lisa)trice..........................................................................................................96
2.2
Il significato dell’oggetto estetico ...................................................................................................121
2.3
Il mondo dell’oggetto estetico .........................................................................................................146
CAPITOLO 3:
LA NATURA E L’ORIGINE. TRA FONDAMENTO E POSSIBILITA’ .........159
3.1
L’oggetto estetico come la cosa stessa ...........................................................................................159
3.2
Natura e coscienza: un legame poetico ..........................................................................................180
3.3
Natura poetica ed Estetica...............................................................................................................198
3.4
Materialismo poetico e trascendentale...........................................................................................210
CAPITOLO 4:
L’OCCHIO E L’ORECCHIO ...................................................................................219
4.1
Il pittore e il soggetto sinestetico ....................................................................................................219
4.2
Il mondo del tangibile ......................................................................................................................227
4.3
Un soggetto immaginario ................................................................................................................235
4.4
Il virtuale: un’ontologia impossibile...............................................................................................244
CONCLUSIONI ............................................................................................................................................256
BIBLIOGRAFIA...........................................................................................................................................269
INTRODUZIONE
È solo del 2004 la traduzione italiana dell’ultimo lavoro di Mikel Dufrenne, L’oeil
et l’oreille, pubblicato nel 1987. L’attenzione italiana verso Dufrenne ha risentito negli
anni del privilegio accordato a pensatori come Merleau-Ponty e Sartre finendo con il
riservare alla scuola milanese uno dei pochi e più approfonditi spazi di studio di questo
autore. Profondamente legato, umanamente e filosoficamente, a Dino Formaggio,1 con
il quale tra le altre cose ha realizzato il molto noto Trattato di estetica2, l’autore
francese è stato dunque oggetto di studi approfonditi quasi esclusivamente nel contesto
fenomenologico di Milano.
1
Un’amicizia che è stata sodalizio teorico e umano tra i più intensi e che ben si respira nello scritto di
Dino Formaggio realizzato in occasione della morte dell’amico dove con trasporto Formaggio ricorda il
loro ultimo saluto: “Et nous, mon cher Mikel, nous nous sommes sentis proches alors, comme nous nous
sommes sentis proches l’un de l’autre – et nous nous le sommes dit – le soir de ton dernier appel
téléphonique, le 9 juin. Lorsque, sereinement, tu m’annonças que, le landemain, la machine à oxygène qui
t’avait pendant des années tenu lié à ton corps (…) devait etre débranchée. J’ai ancore dans les oreilles ta
voix qui me salue, douce et paisible comme toujours: “Allo, Dino…” C’était la salutation de toujours
comme de quelqu’un qui part en voyage, le signe affectueux de notre solide amitié. Et moi, quoique
boulversé par cette nouvelle soudaine, une fois de plus j’étais avec toi, une fois ancore nous nous sommes
compris.” (D. Formaggio, Mikel vivant, in “Revue d’esthétique“ 30, 1996, p. 38.)
2
M. Dufrenne, D. Formaggio, Trattato di Estetica, Mondadori, Milano, 2 voll., 1981. Di questo lavoro
Formaggio ha parlato, in Mikel vivant (cit. p. 39), come de “l’aboutissement d’un long chemin, le fruit de
notre long dialogue engagè précisément à partir de notre première rencontre..”. Si legge nella prefazione
un brano molto significativo del comune stile e approccio, nonostante le differenze di pensiero, dei due
autori. “Concepito e attuato non certo come un monumento, ma come uno strumento di lavoro, questo
Trattato, come metodo d’assieme, è sorto dallo sforzo di rompere ogni chiusura dogmatica, ogni
parzializzazione dovuta a fissazioni ideologiche ossificate, e insieme il fastidio e il pericolo di quel che
Bachtin aveva così ben individuato come mondo fonologico della cultura moderna. Al monologismo
dell’unità dell’essere abbiamo sempre preferito la libera polifonia delle molte voci dialoganti, pur nel loro
relativismo armonico o disarmonico, persuasi soprattutto che nessun’altra esperienza come l’arte chiede
di essere descritta, fuori da ogni valenza riduttiva (e l’unità ontologica o definitoria è stata spesso questa
violenza), in tutto il corpo vivente dei suoi imprevedibili e anarchici mondi, nella perenne metamorfosi
della sua meravigliosa veste fenomenica di sensi, di immagini, di segni, di speranze e di destino delle
società umane e del mondo. Ogni descrizione, come ogni riflessione, non può darsi che come descrizione
in cammino.” (pp. 1-2)
1
La scarsa inclinazione nazionale, e in verità anche internazionale, verso questo
autore si spiega forse con la contrapposizione sistematica della sua meditazione a
filosofie come quelle di Heidegger e Derrida, oltre che Blanchot e Lévi-Strauss che
fanno del suo pensiero il luogo quasi solitario di una forma di difesa dell’uomo e della
presenza. Ne è esempio significativo il volume pubblicato nel 1968, Pour l’homme3, che
prendendo le distanze dalla temperie culturale strutturalista e anti-umanista dell’epoca si
propone
esplicitamente
di
“evocare
l’antiumanesimo
proprio
alla
filosofia
contemporanea, e di difendere contro di esso l’idea di una filosofia che potrebbe avere
cura dell’uomo.”4 Si capisce in che senso questo pensiero possa essere stato, se non
trascurato, almeno sottovalutato, avendo avuto tra i propri bersagli polemici proprio
quegli autori che con maggior rigore si sono imposti all’attenzione filosofica della
tradizione recente. Tra essi spicca ad esempio Michel Foucault, che Dufrenne addita
come uno dei massimi rappresentanti di quella filosofia che, riconoscendo all’essere un
primato sull’uomo, conduce a una progressiva scomparsa di quest’ultimo e ad un suo
asservimento e nullificazione. In autori come Foucault, così come Heidegger, o LeviStrauss e Lacan, benché le loro meditazioni non siano ovviamente raccoglibili sotto un
solo e medesimo indice, Dufrenne rintraccia una corrente di devitalizzazione del reale
che, a suo parere, rischia di impoverire di senso tanto la filosofia quanto il reale stesso.
Uno dei luoghi in cui più radicalmente compare la dissoluzione del soggetto
condannata da Dufrenne è forse il pensiero di Deleuze, con idee quali “macchina
desiderante”, “corpo senz’organi” o “molecolare”; eppure le proposte deleuziane
attraversano spesso il percorso di Dufrenne. Di Deleuze Dufrenne non condivide la
prospettiva, ma certo il progetto di entrambi sembra mirare a un comune empirismo
trascendentale; e anche un certo spinozismo di fondo sembra accomunare i due percorsi,
allontanando entrambi da quella forma di ontologia negativa diffura nel pensiero
contemporaneo francese: “Credere non a un altro mondo, ma al legame tra uomo e
mondo, all’amore o alla vita, credervi come all’impossibile, all’impensabile, che
tuttavia può soltanto essere pensato: ‘Un po’ di possibile sennò soffoco.’”5
3
Pour l’homme, Seuil, Paris 1968.
Ivi, p. 9.
5
G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, tr. it. Ubulibri, Milano 2001, p. 190. I rapporti tra Deleuze e
Dufrenne furono intimi, come si può leggere in questa lettera firmata da Deleuze in data 25 aprile 1991 e
4
2
L’autonomia di questo autore nei confronti dei grandi sistemi, che rispecchiava tra
l’altro il suo approccio alla vita, è stata ben sintetizzata da Dino Formaggio, nel già
citato articolo dedicato all’amico in occasione della morte:
“Il n’y eut jamais entre nous de désaccord sur nos principes (…) surtout grâce à
Mikel, grâce à ce vivant enseignement de quelqu’un qui avait nourri sa
philosophie de sa vie, et fait de la philosophie une généreuse plénitude de vie. Il
avait toujours affablement fait preuve d’une libre et exceptionnelle souplesse
conceptuelle et existentielle. Contre toute raideur autoritairement classificatrice
de la vie et de la pensée, contre toute dureté dogmatique des jugements
cloisonnants et des divisione artificielles qui rangent personnes et concepts dans
des cases, il professa et pratiqua, selon se refus théorique et éthique, une
plasticité mentale et physique libératrice.6
L’itinerario di pensiero dufrenniano si è sottratto costantemente ad ogni suo
possibile accostamento univoco a una delle grandi correnti del secondo dopoguerra.
Quello che lui stesso viveva come una forma di anarchismo ne ha fatto un pensatore
indipendente, non restio neppure all’uso di strumenti teorici di altri piegati a nuovi
scopi. Questi elementi, insieme alla rilettura da lui effettuata di alcuni grandi classici del
pensiero, primo fra tutti il concetto di a priori kantiano, è stata probabilmente un freno
all’esplorazione e al recupero dei suoi lavori.7
In linea con questa autonomia, pur inserendo se stesso all’interno di un quadro
fenomenologico, Dufrenne non manca di marcare la propria indipendenza anche dalla
fenomenologia husserliana. In particolare, coerentemente con la rivalutazione
dell’umano cui abbiamo appena accennato nonché con la lezione merleaupontiana, egli
oggi riprodotta nel numero 30 della “Rivista di Estetica”: “Cher Mikel, Merci de ton petit mot, au bout de
la circulaire de la revue d’Esthétique. Hélas, je ne pourrai pas participer à ce numéro parce que, ayant
enfin terminé le livre que je revais le dernier pour moi, Qu’est-ce que la philosophie?, je voudrais arreter
au moins deux ou trois ans, et atteindre à la vraie retraite.C’est d’ailleurs nécessaire parce que l’hiver a
été facheux pour ma santé: longue suffocation, attaché comme un chien à ma bouteille d’oxygène, sans
souffrance, mais beaucoup de panique respiratoire. Convalescence qui traine. Toutes ces plaintes moins
pour m’affliger que pour te faire signe, et souhaiter que ta santé à toi ait bien tenu. J’amais beaucoup nos
rencontres, j’espère etre bientot en état de te téléphoner, et de les reprendre. A bientot, je t’ambrasse.
Gilles.”
6
D. Formaggio, Mikel vivant, cit. p. 40.
7
In Italia è certo apparsa per tempo una traduzione, benché parziale, dell’opera principale di Dufrenne,
Fenomenologia dell’esperienza estetica, realizzata non senza coraggio a Roma nel 1969 dalla casa
editrice Lerici. Tuttavia la traduzione si è occupata solo del primo volume, che ad oggi risulta
difficilmente reperibile. Simile sorte è poi toccata alle altre traduzioni italiane dei lavori di Dufrenne, da
Le poetique a Esthétique et philosophie.
3
prende le distanze dall’idea del soggetto costituente grazie al quale l’oggetto
rappresenta il mero supporto dell’attività di un soggetto trascendentale. Ne è una chiara
dichiarazione, il passo presente all’interno della Fenomenologia dell’esperienza
estetica8, in cui leggiamo:
La riduzione non culmina più nella scoperta di una coscienza costitutiva, ma
nella scoperta della propria impossibilità; sforzarsi di comprendere la tesi del
mondo, di rinunciare all’atteggiamento naturale e al suo realismo spontaneo è
sperimentare che non si può farlo, che nessuno può astrarsi dal mondo in cui è,
e che il rapporto con il mondo quale lo vive in modo irriflesso la percezione, è
sempre già dato: e l’intenzionalità è quel progetto, sempre ripreso, attraverso il
quale la coscienza concorda con l’oggetto prima di qualsiasi riflessione.9
La domanda di Dufrenne riguarda, sempre, proprio la relazione uomo-mondo,
relazione che egli tenta di descrivere con un uso della fenomenologia in direzione
immanentistica e anti-coscienzialistica; tale direzione lo conduce ad una forma di
materialismo che nel corso di questo lavoro vedremo caratterizzarsi come poetico e
trascendentale in un senso paradossalmente immanente al sensibile.
L’esigenza di base del procedere di Dufrenne si può descrivere come un
riafferramento e una ridescrizione dell’intelletto, e di tutto l’ambito logico predicativo
dell’umano, a partire dalla potenza creatrice ed espressiva del corpo a sua volta letto
costantemente secondo il suo carattere fenomenologico precategoriale.
Una descrizione dell’esperienza della sensibilità sulla base di un suo accordo
costitutivo con il senso implica naturalmente una rivisitazione dei rapporti tra sensibilità
e intelletto, il superamento della dicotomia cartesiano-kantiana tra interno ed esterno,
corpo e anima, uomo e mondo.
Se si è scelto il tema della sinestesia quale cardine su cui svolgere il pensiero
dufrenniano ciò è dovuto alla profonda densità che questa nozione rivela in particolare
nell’ultima opera. Se, infatti, è quasi solo in queste pagine che di sinestesia
8
M. Dufrenne, Phénoménologie de l’experience ésthétique, PUF, Paris 1953, tr. it. parziale,
Fenomenologia dell’esperienza estetica, Lerici, Roma 1969.
9
Ivi, p. 510.
4
esplicitamente si parla, in questo tema confluiscono le più importanti questioni
dell’intera meditazione dell’autore.
È questo quanto il presente lavoro si propone di indagare, nel tentativo di mostrare
la coerenza di un’indagine che ha fatto della controversa nozione di originario il centro
nevralgico del proprio procedere. Quella di Dufrenne è, infatti, una domanda
costantemente riproposta sul senso e il modo in cui origine e originato, origine e
significato, scandiscono il rapporto tra se stessi e, conseguentemente, tra l’uomo e il
mondo. E in questa relazione l’arte si colloca in un’area particolarmente
rappresentativa. Sono appunto gli oggetti d’arte, con il loro connotato dufrenniano di
oggetti estetici, gli enti in grado di aprire e mostrare quelle fessure attraverso cui
l’originario agisce ed è, seppur vagamente, afferrabile.
Ciò che si organizza a partire dai sensi e che, proprio a partire da essi, li sorpassa e
forse persino esclude puntando verso un invisibile, è l’obiettivo che Dufrenne ha di
mira; è questa dinamica tutta umana, in cui un diagramma corporeo diventa azione e
interazione con il mondo, il fondo che si tenta di mettere a fuoco. Con Dufrenne si mira
a cogliere lo splendore del sensibile quale soglia da cui emana il preriflessive, il
precategoriale. E, come ha sintetizzato Formaggio, con Dufrenne compare, tra Schelling
e Merleau-Ponty, il pensiero di un mondo di a priori materiali del senso e del
sentimento così come la loro esaltante primarité constitutive rispetto agli atti etici e
noetici del conoscere e dell’agire. Si punta così a ritrovare, nell’immanenza dei valori
puri di un sensibile che non si trascende, in questo luogo in cui la carne si fa senso, un
originario cosmico indifferenziato, dove l’unità indistinta di soggetto e oggetto celebra
un vivente originario. 10
Tale fondo, rappresentato dall’originario che con Dufrenne prende il nome
spinoziano11 di Natura, è il fondo in cui si radica innanzitutto l’adesione corporea e
percettiva al mondo. Proprio questo è quanto maggiormente preme a Dufrenne porre a
10
Cfr. D. Formaggio, Mikel vivant, cit. p. 40.
Spinoza è presente in Dufrenne con la stessa forza con cui lo si ritrova all’interno di buona parte della
fenomenologia francese, in particolare Merleau-Ponty. In Spinoza si ritrova un metodo di affrontare il
problema della verità che certo resta sullo sfondo dei contributi di questi autori. La verità appare come
qualcosa che ha in se stessa a propria causa e alla natura si può guardare solo come a qualcosa di esistente
e presente, con i suoi attributi in infiniti modi. Negli autori francesi, nei quali Spinoza filtra attraverso
Alain, questo autore compare ‘deteologizzato’ come l’interprete di un principio monistico quale origine
del senso, dell’unione tra l’uomo e il mondo.
11
5
tema, nella sua inesauribilità, nel suo costante transitare e, soprattutto, nel suo essere
relazione.
Natura, originario, fondo sono tutti concetti chiave della filosofia di Dufrenne,
articolati in senso perspicuo a partire da una prospettiva che ha nel concetto di presenza
una chiave d’accesso fondamentale. La radicalizzazione del concetto di presenza
operata da Dufrenne, oltre ad essere la sua risposta a quelle che abbiamo indicato come
filosofie dell’assenza, implica la radicalizzazione di una posizione che costantemente ha
presente il mondo come totalità sempre aperta e disponibile alla relazione: presenza
come apertura e presenza come ciò che si dà in quanto già aperta a. Presenza di me al
mondo e del mondo a me.
È entro questo orizzonte che si sviluppa la ricerca di Dufrenne, nella quale la
presenza diventa indice sotto cui raccogliere non solo il reale ma anche il logico e il
prelogico, il possibile e il virtuale. Ciò significa indagare la percezione umana,
attraverso una consapevolezza ovviamente mutuata da Merleau-Ponty, in quanto
accesso per noi al mondo e alla sua verità ma anche riconoscere proprio alla percezione
il ruolo di soglia attiva in cui confluiscono le azioni di sentimento e immaginazione.
Sentimento e immaginazione che proprio nel loro carattere espressivo e prelogico
interessano a questo autore che mira a rintracciare nel corporeo il fondamento e il luogo
da cui ogni dicotomia e ogni conoscenza predicativa possono svilupparsi. La sua è
allora un’indagine sul fatto stesso dell’essere al mondo, prima e più che essere nel
mondo, riconoscendo priorità ontologica proprio a questa relazione. La domanda che la
sinestesia incarna riguarda proprio l’insieme controverso e complesso di tutto ciò che
mi sta intorno e che proprio a partire da me si articola. Quale rapporto vi sia tra i miei
sensi, molteplici, e il sensibile come tessuto carnale che mi ingloba è la questione che,
proprio attraverso la presenza, viene posta e riproposta.
Presenza e rapporto intenzionale uomo mondo sono in Dufrenne i luoghi in cui
agiscono quegli a priori che con questo autore assumono connotati specifici, che nel
corso di questo lavoro saranno esplicitati. Di essi è tuttavia bene tenere presente fin
d’ora l’intenzione principale di Dufrenne, che fu quella di applicare proprio l’idea degli
a priori all’esperienza umana intesa in senso poetico. È questo il modo perseguito
dall’autore per tentare di dare una risposta autonoma ed efficace proprio al problema del
6
rapporto soggetto-oggetto. Ciò che egli cerca di mostrare con convinzione è il legame
espressivo che connota, da un lato, il mondo dell’oggetto, nel quale ogni senso eccede le
singole incarnazioni e, dall’altro, il mondo del soggetto, nel quale la percezione del
mondo eccede ogni discorso che volesse fissarla. Al di là di questi due poli, la direzione
della filosofia di Dufrenne è indicata con chiarezza: risalire a quel luogo di emergenza
primordiale, origine assoluta del rapporto originario tra l’uomo e il mondo, che nella sua
filosofia assume il nome di Natura. A questo fondo, originario, percettivo eppure
sempre inafferrabile, mira lo sguardo di questo filosofo che nell’esperienza estetica
rintraccia le fessure concesse all’uomo per intravedere le dicotomie non ancora spezzate
e riconoscere l’enigma del mondo senza in esso dissolversi. È l’esperienza estetica,
infatti, ciò che è in grado di restituire al sensibile il suo essere enigmatico, senza però
sottrargli la sua virtù espressiva. Negli oggetti che essa implica, nel loro essere estetici,
infatti, accade la commistione più intima tra il soggetto e l’oggetto, in un rapporto che è
sì percettivo eppure non prende di mira un dato da analizzare ma un processo che si
costruisce. E tale processo si costruisce nella relazione, nell’accordo a priori grazie a cui
l’uomo si apre alle cose e le cose gli si rivelano.
Ne consegue una non trascurabile domanda sul tipo di verità e sulle modalità del
suo disvelamento che sono concesse all’uomo. Ed è proprio nel senso di una verità in
movimento, disponibile per e attraverso un corpo, che il domandare di Dufrenne invita a
procedere.
Il problema della verità emerge con forza nel momento in cui si voglia dar conto di
un corpo quale base assoluta del nostro commercio col mondo, cogliendo
nell’originarietà della vita percettiva la soglia di ogni pensiero logico, formulazione
scientifica e spinta affettiva. In questo senso la filosofia di Dufrenne raccoglie
certamente le istanze aperte dai suoi immediati predecessori, con importante riguardo
per Merleau-Ponty, inserendosi nel contesto di una ridiscussione del pensiero causale
che naturalmente non significa una sua messa in discussione ma il tentativo di
comprenderne le linee operative e i limiti. Il suo concetto di presenza si allarga infatti al
contesto della verità, che proprio alla percezione si vuole connettere molto più e molto
prima che a una fin troppo ampia ma ristretta idea di causa.
7
Accanto a questi elementi si dispongono questioni pertinenti all’estetica come
teoria dell’arte. Nell’indagare il rapporto intenzionale, infatti, e nel farlo con adesione
costante alla dimensione corporea e percettiva, il confronto con quei particolari oggetti
che sono le opere d’arte risulta obbligatorio. È proprio la serie di fessure simboliche che
di fronte ad essi si aprono a consentire una descrizione della relazione sensibile in
termini poetici e dinamici. In questo senso il percorso di Dufrenne è un passaggio
significativo nella storia di quel pensiero che si interroga sul ruolo del sentimento e del
prelogico all’interno del nostro commercio col mondo. Con lui all’arte non si guarda
cercando risposte interenti a un Essere di stampo metafisico o ontologico. Se con lui
l’arte rende visibile non è solo relativamente a un fondo invisibile, non è nel senso di
un’intenzione che mira all’Essere o che, merleaupontianamente, rende la pittura
“metamorfosi dell’Essere nella visione del pittore.” L’Essere invisibile che l’arte con
Dufrenne consente di afferrare è quello della relazione poetica che lega l’uomo al
mondo, in una relazione dinamica in cui il rapporto al senso è genealogico. È la Natura
nel suo essere naturante, nel suo ribollire di possibilità reali e virtuali, ciò che si rende
afferrabile, almeno in figura. È bene tenere presente il ruolo che l’arte riveste in questo
autore, solo così sarà possibile comprendere secondo quale ottica egli vi si rivolga.
L’oggetto estetico di Dufrenne non si presenta come accesso privilegiato a una
regione dell’Essere isolabile, al contrario, esso è propriamente una cosa, un ente che
come tale esercita effetti sensibili e intuitivi nel mondo intorno a sé. Se è importante
rivolgersi agli oggetti estetici per reperire coordinate essenziali al pensiero di Dufrenne,
e forse anche a questioni cardine di tutta la filosofia da Platone in poi, è perché in essi si
esercitano forze che però sono forme e sono rappresentazioni, dunque sensibili.
Tuttavia, proprio nella loro caratteristica sensibile, essi si sottraggono a dinamiche
logiche e costitutive. Dell’oggetto estetico Dufrenne dice che “apre un mondo”,
investendo le coordinate di spazio e tempo di significati importanti quanto opachi;
nell’oggetto estetico di Dufrenne non accade dunque nulla che sia in rapporto con
l’Essere o qualsiasi sua sinonimica definizione, al contrario accadono fatti che, benché
in figura, sono manifestazioni di un senso intuitivo e percettivo. Certo, la Natura di
Dufrenne pone l’inevitabile tentazione di una lettura in senso ontologico, ma la sua
stessa azione nel contesto degli oggetti estetici la ripropone efficacemente su un piano
8
molto più vicino al poiein umano: se la Natura vi si manifesta, infatti, lo fa in maniera
per così dire operativa, attraverso il suo essere naturante, quindi produttiva, genealogica
e creativa. Soprattutto, essa lo fa in stretto rapporto con un soggetto percipiente, la cui
presenza all’oggetto è condizione imprescindibile perché lo scambio si attui.
Attraverso l’oggetto estetico e l’arte si delinea una concezione genealogica del
sentimento su cui Dufrenne sembra tornare a più riprese e che acquista importanza
crescente nel nostro discorso. In quest’ottica, infatti, non si affronta il mondo come
totalità indefinita dei fenomeni, totalità variegata ma a suo modo unitaria che è sempre
in qualche modo già là; al contrario, del mondo si valorizza la componente di soglia e
apertura, che ha quasi una “qualità generatrice”, vale a dire non solo in trasformazione
lei stessa ma pronta a trasformare ciò che la incontra. In questo senso si legge il
soggetto stesso come apertura a sua volta genealogica nei confronti del mondo.
L’incondizionato non sarà allora da intendere in maniera ontologico-metafisica come
l’ultimo e inaccessibile oggetto del mondo, ma, al contrario, come quel fondo che è
sempre là e dal quale tutto il resto diparte ed è generato. Generazione che passa, a sua
volta sempre e necessariamente, dal soggetto che è in sé apertura.
Nell’arte si manifesta dunque una sorta di frammento di carne che non appartiene
né al mondo né all’uomo ma rende esplicito e afferrabile il potere naturante e creativo
che appartiene al fondo in cui soggetto e oggetto si incontrano.
L’originario di Dufrenne diventa il correlato di un’indagine dal duplice carattere:
da un lato, infatti, l’interesse si mostra di carattere ontologico, mentre dall’altro è
piuttosto a una forma di antropologia che con questo autore si è portati ad andare.
Dufrenne stesso ha esplicitato tale duplicità, riconoscendo proprio alla filosofia la
possibilità di sottrarsi ad un’opposizione di ontologico ed antropologico: “Au lieu
d’opposer comme on le fait aujourd’hui anthropologie et ontologie, si l’on définit
l’homme comme l’étant qui se soucie de l’être, ne faut-il pas définir l’être comme se
dont se soucie l’homme?”12 E, sostiene Dufrenne, la filosofia così concepita fonda
un’antropologia molto più che non la rifiuti o la superi.13
12
13
M. Dufrenne, Suis je philosophe?, “Revue d’ésthétique” 30, 1996, p. 62.
Ibidem.
9
È proprio con gli esiti teorici cui giunge Dufrenne nel suo ultimo lavoro che
l’indagine ontologica mostra il proprio approdo. Le ultime pagine de L’occhio e
l’orecchio, infatti, si concludono con la constatazione dell’impossibilità di un’ontologia:
“Ontologia impossibile tuttavia. L’idea di un’omogeneità del sensibile sfugge alla
nostra presa, l’unità del plurale non è afferrabile.”14
Con la sinestesia, infatti, ed è quanto questo lavoro intende giungere a mostrare,
Dufrenne opta per una soluzione non ontologica del chiasma merleaupontiano, della
commistione tra soggetto e oggetto le cui ambiguità e opacità non rappresentano un
ostacolo bensì una caratteristica di ricchezza.
Sulla rivisitazione di tale chiasma si sviluppa l’indagine di Dufrenne che
programmaticamente intende affrontare il problema della presenza del mondo in
relazione alla coscienza alla luce di un fondo genealogico nel quale ogni monismo si
radica. La sua è una filosofia che punta ad individuare tale fondamento a partire dalla
percezione e, proprio attraverso di essa, reperire un accordo tra una filosofia della
Natura e una filosofia della Coscienza. È questo, d’altra parte, proprio il compito che
egli considera l’impensato della filosofia merleaupontiana che si propone di raccogliere:
se a Merleau-Ponty restava qualcosa da fare o da pensare era proprio di congiungere
l’idea della Natura all’idea del fondamento, “et de surprendre la naissance du dualisme
et les métamorphoses de l’homme et du monde à la racine même du monisme.”15
Intendiamo giungere a queste conclusioni, e le renderemo forse più esplicite e
comprensibili, attraverso una ricognizione critica e descrittiva dei temi e delle nozioni
lungo cui si sviluppa la filosofia di Dufrenne. L’intenzione è quella di mostrare
l’organicità e la coerenza del percorso dell’autore rilevando come nel tema della
sinestesia confluiscano quelle domande che sempre hanno animato il suo percorso.
Il lavoro si articola quindi in quattro capitoli: di essi il primo ha carattere storico e
introduttivo e si propone di indicare un possibile ampliamento della prospettiva
rimarcando come le esigenze di Dufrenne abbiano una possibile e interessante eco in un
ambito da lui in realtà piuttosto lontano. Ci si è rivolti pertanto all’antropologia
14
15
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, Il Castoro, Milano 2004, p. 204.
M. Dufrenne, Maurice Merleau-Ponty, in Jalons, M. Nijhoff, La Hague 1966, p. 221.
10
filosofica di stampo tedesco, nella quale sono confluite, benché sotto indici teorici a
volte differenti e comunque mai rigorosamente fenomenologici, istanze affini. Il
percorso di Dufrenne indicherebbe quindi uno dei luoghi significativi di quelle che sono
state le coordinate teoriche di un comune, diffuso e condiviso orizzonte di senso e di
indagine. In particolare, si è voluta sottolineare l’affinità del discorso dufrenniano con
alcune delle conclusioni più rilevanti di una delle figure di spicco dell’antropologia
filosofica tedesca, Helmut Plessner. Benché il primo segua un percorso fenomenologico
che ben lo differenzia dal secondo, per Plessner estesiologia e antropologia sono
intimamente correlate, poiché propriamente estesiologia è la condizione antropologica
dell’uomo, costantemente decentrata, “eccentrica”, rispetto al proprio sé, aperta alla
ricchezza qualitativa del coté oggettuale. L’uomo, per Plessner, è il luogo in cui la
natura e lo spirito si incontrano, ed è importante indagare i punti specifici di rottura e di
vicinanza nei quali si trova l’afferramento reciproco delle strutture naturali e spirituali.
La ricrca di un’apertura al mondo della natura rappresenta d’altronde un programma
metodico altamente diffuso nel clima culturale dell’epoca di Plessner e, sotto questo
aspetto, accomuna la sua rilfessione alle filosofie della vita di Nietzsche, DIlthey e
Bergson ma anche, conducendolo su terreni che hanno nutrito ovviamente anche
Dufrenne, alle teorie fenomenologiche di Husserl e Merleau-Ponty nonchè ai paradigmi
del pragmatismo americano e all’indagine biofilosofica di scienziati come Buytendijk,
Driesch e Uexkull. Al passaggio del secolo, tra Ottocento e Novecento, lo sviluppo
delle scienze dello spirito e le nuove scoperte scientifiche nel campo dell
aneurobiologia, della fisiologia e della psicologia hanno sollecitato la filosofia a
riformulare le sue categorie tradizionali, prima di tutto i concetti di spirito, coscienza,
anima e il loro rapporto con il bios. Per legittimare nella modernità il valore scentifico
della filosofia dinnanzi allo sviluppo delle scienze empiriche occorre, infatti, restituire
al’indagine filosofica il mondo della natura e, con esso e in esso, un uomo in carne e
ossa, che agisca e patisca, complessione di spirito, corpo e anima.
Il primo e comune riferimento da mettere in discussione è rappresentato dunque dai
modelli gnoseologici e antropologici di stampo cartesiano, dal momento che la totale
eterogeneità tra mondo esterno e mondo interno che essi implicano non consente di
afferrare la relazione più complessa che lega, nella dinamica espressiva e genealogica
11
della vita, il soggetto e l’oggetto. La questione secolare del rapporto tra corpo, anima e
mondo esige, infatti, il superamento degli schemi unilaterali che le teorie razionaliste e
sensiste hanno ereditato dal cartesianesimo, attraverso una riflessione che consenta di
comprendere il soggetto e l’oggetto quali elementi costitutivi e indiscernibili
dell’esperienza conoscitiva e extraconoscitiva. È sotto questo aspetto che la filosofia di
Dufrenne e l’antropologia filosofica, in linea con le filosofie della vita e il pragmatismo
americano, nonostante le differenze specifiche, concordano fortemente fino a consentire
di guardare a questi temi quali capisaldi della cultura filosofica cui apparteniamo. La
critica è rivolta in tutti i casi a quell’ipostatizzazione del mondo e neutralizzazione
dell’esperienza sensibile cui il dualismo rigidamente cartesiano tra res cogitans e res
extensa conduceva. La concezione sostanzialistica del mondo lascia il posto a una
descrizione dinamica e relazionale tra soggetto e oggetto, il cui confronto si basa
sull’analisi del vivente nel mondo della natura e della pratica, in quella zona d’ombra
che è soglia dell’emergere del senso delle cose.
Lo scopo condiviso è quello di precisare natura e confini del significato sensibile al
fine di ricusare ulteriormente l’analisi intellettualistica che si vuole invece sempre
respingere. L’unità dei sensi non appartiene al medesimo ordine dell’unità degli oggetti
di scienza. Ugualmente, l’effetto della nostra percezione di riunire in un unico mondo le
nostre esperienze sensoriali non avviene secondo il medesimo schema secondo cui la
scienza collega oggetti e fenomeni. Non si tratta, cioè, di una sorta di schema
rappresentativo di oggetti in sequenza spazio temporale, bensì di mettere a fuoco
problematizzare il coglimento del mondo in unità e secondo uno schema presentativo.
La direzione comune è quella che mira all’annichilimento di tutti i dualismi sterili e
scientifici che oppongono anima e corpo. I rapporti tra essi, infatti, in questi itinerari di
pensiero restano oscuri solo fintanto che si cerchi di trattare astrattamente il corpo come
frammento di materia trascurandone i poteri dialettici.
Quello dell’inquadramento, della comprensione e della descrizione dei rapporti tra
gli aspetti corporei dell’uomo e gli aspetti spirituali che lo caratterizzano è un problema
complesso che caratterizza la riflessione sul fenomeno umano tanto nei termini
antropologici quanto nei termini filosofici e fenomenologici in particolare. L’affinità di
temi tra questi autori e questi ambiti di ricerca è l’altro lato dell’importanza filosofica
12
che lo sviluppo di questo tipo di questioni, derivate tra l’altro da molteplici e stratificate
esperienze scientifiche, filosofiche e culturali precedenti, ha assunto nel corso del secolo
scorso. La sensibilità viene infatti vissuta e analizzata secondo problematiche
angolazioni al fine di esplicitare la possibilità, tramite essa, di afferrare sensi che i sensi
veri e propri non sono in grado, fisicamente, di esaurire. Il problema della sinestesia,
dell’unità dei sensi e delle loro interazioni diventa allora il problema della possibilità,
che i sensi stessi dischiudono, di afferrare qualcosa (un insieme, un significato) che da
essi permette di esulare.
Con il procedere del lavoro si affrontano invece sistematicamente temi e teorie
propri dell’autore.
Il secondo capitolo riguarda dunque i problemi posti da una descrizione
dell’esperienza estetica nella quale con Dufrenne si tematizza il peculiare rapporto tra
sensibilità, intelletto e ragione. Tale approccio ha consentito di delineare due triangoli
teorici entro i quali si è potuto articolare il restante discorso. Essi si sono sintetizzati
come segue: sensibile, con immaginazione e sensazione, il primo, e sinestesia con
espressione e stile, il secondo. Tutti questi elementi fanno capo, anche se in modi e
secondo angolazioni leggermente differenti, al problema generale dell’unità del
sensibile che, a sua volta, è raccoglibile sotto quello con il quale la filosofia occidentale
si confronta fin dai suoi albori: il problema dall’uno e del molteplice, il particolare e
l’universale, e che implica il problema di come il loro rapporto debba essere inteso. Il
generale, la Natura di Dufrenne, parla sì di un invisibile, ma, diversamente da quello
platonico classico, non si configura come immateriale e sovrasensibile, coglibile solo
dall’intelletto. Con l’autore francese si ha, infatti, una lettura del generale come sempre
e solo concreto, dato sempre e solo nel particolare. Inoltre, il potere di coglierlo non è
appannaggio solo delle facoltà intellettuali grazie all’astrazione logica, poiché esso si
presta ad essere catturato in qualche modo anche dalla percezione, che anzi ne permette
l’incarnazione.
Il discorso sull’esperienza estetica conduce inevitabilmente al tema, già accennato
come centrale per l’autore, dell’oggetto estetico. Nell’oggetto estetico, riferimento
13
fondamentale per il percorso di Dufrenne, confluiscono alcuni dei nodi tematici più
significativi e si raccoglie la sintesi dei due triangoli teorici sopra indicati. Attraverso la
messa a fuoco del suo potere espressivo si mostra come esprimere per quell’oggetto sia
in qualche modo trascendersi verso un significato che non è il significato esplicito
assegnato alla rappresentazione, ma un significato più fondamentale che proietti un
mondo. L’obiettivo dell’autore è quindi quello di mostrare come l’oggetto estetico
condivida con la soggettività la possibilità di esser all’origine di un proprio mondo,
irriducibile al mondo oggettivo. Tale mondo, configurato come mondo espresso,
richiede un polo soggettivo che gli cor-risponda e che sia in grado di esercitare quella
particolarissima modalità di apprensione che è quella del sentimento. Modalità di
apprensione che permetterà il coglimento di una parte di realtà tanto reale quanto il
mondo oggettivo se si è compreso il punto fondamentale su cui Dufrenne insiste a più
riprese: “la nozione di mondo ha radice nel singolare processo di disvelamento che
viene effettuato dalla soggettività, cosicché il reale è prima di tutto ciò che viene
realizzato da questa soggettività.”16
Si comprende allora con chiarezza di che tipo di “Mondo” si stia parlando, un
mondo che della realtà e della verità conosce la cerniera soggettiva e il versante di
proposta sempre rinnovata. È questo che consente a Dufrenne di parlarne in termini di
profondità e fondamento, termini pregnanti proprio in virtù del tipo di relazione che
richiedono di attuare e che la modalità di apprensione sentimentale che l’autore indica
come necessaria invita a riconoscere nella loro peculiarità.
Attraverso l’oggetto estetico si mette dunque in luce un possibile scarto sempre
aperto all’interno della relazione uomo-mondo. Scarto che permette di leggere persino il
tempo e lo spazio, con le loro caratteristiche di rigida categorialità, in termini dinamici
ed esistenziali. Oltre ad essere nel tempo e nello spazio, l’oggetto estetico è all’origine
di un proprio tempo e di un proprio spazio: all’origine di un proprio mondo che è un
mondo abitato da sensi e significati anche spazialmente e temporalmente orientati.
Tuttavia, naturalmente, tale mondo con il suo proprio spazio e il proprio tempo, cessa di
16
M. Dufrenne, Phénomenologie de.., cit. p. 282.
14
esistere al di fuori dell’esperienza estetica rimanendo come indice di un altrove
comunque possibile.
Di più, l’analisi di questo tema con Dufrenne ci condurrà a riconoscere l’oggetto
estetico come l’oggetto che sorge all’apparire o, in maniera ancora più forte, come la
cossa stessa in un senso che piega decisamente le istanze husserliane in un senso
originale: nel tentativo di reperire il punto di emergenza del senso, si arriva a
riconoscere all’intenzionalità, letta come percettiva, proprio il ruolo di fondamento
irrelativo da cui procedono le distinzioni relative di oggetto e soggetto.
Tra essi, vive una forma intermedia, che ne rende esplicite le prerogative, che è
quella del quasi-soggetto incarnato dalle opere d’arte.
Su questa possibilità dell’oggetto estetico di agire alla stregua di un quasi-soggetto,
si è innestato il passaggio al capitolo successivo. In esso, la Natura come fondo
ontologico e il suo carattere poetico come categoria estetica rappresentano i fili
essenziali del proseguimento della trattazione. Si intende mettere in luce da un lato le
questioni teoriche che animano l’autore e dall’altro le vie che lo conducono, nel suo
ultimo scritto, a introdurre il tema del soggetto sinestetico e della sinestesia quale
categoria centrale della sua ontologia del sensibile. In queste pagine si porta in luce, in
particolare, il senso ontologico dell’intenzionalità e del rapporto di affinità apriorica che
lega oggetto e soggetto. Se, infatti, l’oggetto estetico si compie solo nel suo legame con
le percezione, in questo legame indissolubile con la percezione si inserisce anche il
problema della coscienza conducendo a un’interrogazione dell’oggetto estetico
relativamente al problema dell’intenzionalità. Con Dufrenne la coscienza si riconferma
sempre una coscienza percettiva, la cui trascendenza è per lui stabile e per nulla
illusoria. La coscienza, sartreanamente, esplode verso, ed è così che l’uomo è veramente
al mondo, presente alle cose, invece di avere le cose in rappresentazione nella sua
coscienza. Ed è proprio la presenza del mondo il tema decisivo, il punto critico che
Dufrenne, rivisitando parzialmente Fink e Heidegger, oppone a Husserl. Punto che egli
vede come inizio di un percorso che la metafisica potrebbe illuminare in modo nuovo.
È proprio sul pensiero radicale dell’idea di intenzionalità che invita a concentrarsi
l’attenzione dell’autore: in essa si concentra il fenomeno autenticamente concreto e
primo, l’origine dell’opposizione stessa dell’oggetto e del soggetto.
15
Ma è necessario collocare l’intenzionalità nella coscienza? Certamente
l’intenzionalità deve essere pensata come origine, ma come origine di una
reciprocità o di una complicità piuttosto che di una opposizione.
L’intenzionalità non può essere posta nella coscienza poiché ne è la stessa
origine, ma sarà piuttosto la coscienza a essere posta nell’intenzionalità di modo
che l’intenzionalità possa assumere un senso propriamente ontologico. Questa
ontologia dell’origine può essere concepita da una filosofia della Natura alla
quale forse ci invita Merleau-Ponty.17
In ogni caso è senz’altro questa la direzione che l’oggetto estetico come viene
descritto da Dufrenne dischiude e indica. Si può così arrivare a comprendere un altro dei
punti
più
perspicui
che vede la percezione estetica come una modalità
dell’intenzionalità portata alla sua più alta intensità. Intenzionalità che rivela il proprio
carattere genealogico e fungente proprio nella relazione che lega la coscienza a questo
tipo di oggetto che si dà sì sempre “in un sol colpo”, ma è un sol colpo esteso in una
durata, poiché l’oggetto è a sua volta una totalità in divenire. L’esperienza estetica
condivide e mostra allora il carattere fungente di un’intenzionalità vissuta.
Quell’intenzionalità che nella sua commistione con la percezione ha il proprio carattere
genealogico e dinamico.
Correlato teorico di tale intenzionalità percettiva che nell’esperienza estetica
raggiunge uno dei suoi culmini più rappresentativi è il fatto che l’essere proprio
dell’oggetto estetico risieda nel suo apparire. Esso infatti è il reale in quanto percepito.
Il suo essere è un essere percepito, profondamente integrato nella regione dell’aistheton;
le sue qualità si dispiegano nel campo del sensibile e in esso si radicano. Nel sensibile si
radica così anche il senso dell’oggetto in questione, senso immanente che non è forse
concettualizzabile ma che è sperimentato senza equivoco e che può essere detto nel
vocabolario dell’affetto.
Nell’ultimo capitolo si indagano i punti di arrivo di questo percorso, che l’autore
formalizza nel suo ultimo lavoro L’occhio e l’orecchio, con particolare riguardo alle
istanze antiscientifiche, alle caratteristiche del soggetto sinestetico in rapporto alla
17
M. Dufrenne, L’oggetto estetico come la “cosa stessa”, in "Fenomenologia e scienza dell'uomo", n. 1,
1985, p. 11.
16
fruizione del mondo e le conseguenti problematiche. È in queste pagine che emergerà,
tra l’altro, il rilievo dell’ambito artistico quale luogo in cui con maggior evidenza può
emergere la dinamicità che connota la relazione intenzionale dell’uomo al mondo.
Si intende dunque giungere a mostrare come la sinestesia rappresenti la risposta
non ontologica ai problemi dell’Essere che, appunto nel soggetto sinestetico, mostra la
propria radice ineludibilmente antropologica. Attraverso l’estetica di Dufrenne, si
giunge a riaffermare un’ontologia non come teoria dell’essere ma come esplicitazione
del significato fenomenologico dell’esistenza.
Con il soggetto sinestetico si intende mettere a fuoco un soggetto il cui rapporto
con la verità non sarà mai nichilistico, e però neppure mai causalistico né definitivo; un
rapporto con la verità che l’arte, senza poterla mai davvero produrre fino in fondo, può
tuttavia felicemente mostrare come dinamica simbolica e relazionistica, espressiva e
genealogica, infine virtuale e sinestetica.
Delle spinte teoriche e metodologiche che hanno segnato il passo della sua vita e
del suo pensiero Dufrenne ha fornito una sintesi estremamente efficace in una
conferenza di cui oggi resta traccia nella “Rivista di estetica” pubblicata in occasione
della sua morte. Vale la pena citarne qui un lungo passaggio, in cui il respiro e gli
obiettivi del suo procedere si manifestano con tutta la loro forza.
Et sans doute, devant la réflexion, l’homme semble débouté: tout savoir
formalisable tend à s’ériger en savoi absolu et à perdre l’homme dans l’absolu:
substance, logos ou concpept. En même temps que son savoir échappe à
l’homme, pareillement son acte: que ce soit l’acte inspiré de l’artiste, la
contemplation “immortalisante” du sage aritotélicien ou l’acte paradoxal du
héros stoicien.
Mais nulle philosophie n’a tenu ce bout de la chaîne sans tenir l’autre, celui qui
tient l’homme. Et c’est ainsi que’elle s’assure de son objet. Certes, la question
qu’elle pose – qu’elle est – est une question radicale, c’est-à-dire trascendentale;
mais il ne s’agit pas seulement de la possibilité de la philosophie, mais de la
possibilité de tout savoir et de toute enterprise; la question n’est pas la question
de la question, mais la question dont précisément l’initiative revient à l’homme,
des rapports du questionnement et du questionné: de l’homme et du monde. (...)
Il reste à la philosophie à rappeler la science à elle- même, ou plutôt le savant,
l’homme qui decrit cette genèse, l’observateur de l’observateur, qui n’est pas
l’objet, mais l’inventeur de la science, qui est au monde mais pour le quelle le
17
monde prend un sens. La philosophie n’est pas la science parce qu’elle est la
conscience de la science: réflexion absolue. Non pas réflexion de l’absolu, si
l’on entend par là que le monde susciterait l’homme pour se réflechir à travers
lui ou qu’une instance supérieure à l’homme et au monde les susciterait tous
deux pour promouvoir un devenir qui soit discours; mais acte du pohilosophe,
en qui l’homme se reconnait come absolu à qui la preuve ontologique finit par
s’étendre, et qui devient conscius sui. (...)
Cet eveloppement réciproque de l’homme et du monde n’est pas une genèse qui
consacrerait un monisme; aucun de deux termes ne peut réduire ou engendrer
l’autre. La relation n’est, par rapport aux termes, ni antérieure ni productrice; si
l’on peut faire émerger le vivant et son milieu d’une totalité individu-milieu,
peut être même le sentant et le senti d’un acte commun, qui serait encore une
structure métastable, on ne peut engendrer ni la conscience des signification ni
la liberté d’où procèdent aussi bien l’instauration d’un ordre de raison et
l’affirmation pratique des valeurs.
L’eidétique reste toujours en tension avec une génétique. Le problème ultime
des rapports de l’homme et du monde est bien plutôt celui de leur affinité, d’une
harmonie qu’on n’a pas besoin de croire préétablie: comment le monde peut-il
être une partie pour l’homme? En quoi on revient toujours au problème
critique: comment la connaissance est-elle possible? Comment l’action est-elle
possible dans la mesure où elle s’inscrit dans le temps et signifie progrès?
Comment le monde est-il ouvert à l’homme qui l’habite et lui confère un sens?
Être philosphe, c’est prendre conscience de ces problèmes et comprendre qu’ils
surgissent dès que s’éveille une conscience. La philosophie ne vaut pas une
heure de peine si elle nie l’heure, et la peine: si elle rêve de s’installer dans un
absolu où l’homme n’est plus qu’une apparence, qui doit mourir pour que le
monde soit. Vivre selon la philosophie, il faut que ce soit encore vivre; et qui est
incapable de vivre selon la philosophie, il peut au moins tenter de philosopher
selon la vie.18
C’è da chiedersi però se non sia anche questa frequentazione della filosofia “in
prima persona”, con le conseguenti derive tratti empiristiche a tratti soggettivistiche, ad
aver contribuito al disinteresse diffuso nei confronti di questo autore. Le sue sono a
volte argomentazioni che ricorrono all’esempio secondo frequenze e modalità che
rischiano di indebolire anzichè corroborare le teorie che egli ha di mira; accanto a ciò, il
passaggio da piani antropologici a contesti ontologici, estetologici e fenomenologici non
brilla per rigore e anzi, in particolare in alcune opere come L’occhio e l’orecchio, è
talvolta talmente serrato da apparire frettoloso.
18
M. Dufrenne, Suis-je philosophe?, cit. pp. 62-65.
18
Interessarsi a un autore come Dufrenne significa però accettarne la sfida che,
proprio contro un’eccessiva sistematizzazione del pensiero a scapito del soggetto, invita
a guardare sempre oltre, verso quell’origine che già si sa non si potrà mai davvero dire.
Ma non si può smettere di cercare.
19
CAPITOLO 1:
L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA
VERSO MIKEL DUFRENNE
1.1 Mikel Dufrenne: un’introduzione storica
La meditazione di Mikel Dufrenne (Clermont, Oise, 1910 - Paris, 1995), ispirata
alla fenomenologia di Sartre e Merleau-Ponty nei confronti dei quali lo stesso autore
riconosce il debito in diverse parti della sua opera, molto attenta ad altri aspetti
fondamentali della filosofia contemporanea, da Husserl ad Heidegger fino a Jaspers e
alle semiologie di varia ispirazione da cui però si mantiene sempre a critica distanza,
incarna uno dei punti di arrivo più rappresentativi della maturazione di quegli elementi
teorici che per decenni hanno percorso l’estetica francese.
Le radici di questo pensiero sono, infatti, puntualmente ravvisabili nella temperie
culturale caratterizzante la Francia dell’ultimo secolo di cui portano in modo netto e
perspicuo i segni, soprattutto rispetto ad un’impostazione che conosce i dissidi delle
interrogazioni più radicali dei suoi predecessori e che sa fondere in sé le diverse
prospettive storiche e teoriche che l’hanno preceduta. Umanista ostile ad ogni torsione
della filosofia verso teologie della trascendenza, è stato nel campo dell’esperienza
estetica che Dufrenne ha concentrato la sua ricerca intorno alle possibilità intrinseche
alla Natura e all’Uomo, punto di partenza e di arrivo della sua meditazione filosofica. Il
suo percorso si snoda lungo due direttrici distinte che vedono sviluppare, accanto ad un
approccio estetico-fenomenologico a sfondo ontologico, una direzione di stampo
antropologico.
Sono queste caratteristiche di sintesi feconda di aspetti che la tradizione filosofica
francese vedeva filtrare attraverso di sé da oltre mezzo secolo a fare del contributo di
Dufrenne uno degli snodi teorici più densi e rappresentativi della storia della filosofia
20
recente. Nella sua opera confluiscono difatti istanze tra le più pressanti e ad oggi tuttora
prolifiche della tradizione più prossima. In particolare, è lo sviluppo dell’Estetica, in
quanto autonoma disciplina, a vedere nel contributo dufrenniano un momento
particolarmente saliente dei suoi itinerari.
Constatazione ineludibile in partenza è quella che sottolinea la grande importanza
sempre riconosciuta da Mikel Dufrenne a tematiche di sociologia e antropologia. Le sue
posizioni si esprimono spesso a proposito delle questioni più salienti del secolo19
mostrando come la sua pratica della filosofia non si sia mai discostata da sociologia e
interesse politico. Di questi ultimi, è la dimensione del poiein cui rimandano a fare da
sfondo e punto di riferimento costante per un’elaborazione teorica di stampo
fenomenologico. Se lo sguardo dell’autore non cessa di indagare quanto accade nel
mondo a lui contemporaneo, è tuttavia in questo stesso sguardo che si radica un
pensiero dell’azione che non riduce quest’ultima all’esatta e concreta realizzazione di
un programma pratico, ma la riconosce pregna di potenzialità insondabili di cui
sottolinea la creatività. L’indagine si rivolge pertanto all’evento umano, imprevedibile e
radicato in quel reale tanto più ricco di ogni immaginario. Quello che Dufrenne lascia
individuare dietro i suoi interessi di carattere politico e sociologico è la forza di quegli a
priori irriducibili ad un solo sistema di azione che testimoniano invece, ben più
profondamente, di una risalita possibile e costantemente rinnovabile verso ciò che egli
ripetutamente nomina come l’originario20. L’interesse di questo autore si è rivolto,
infatti, principalmente alla ricerca di una forma di originario e unitario principio che
presieda l’esperienza del mondo e nel quale veder confluire la base fenomenologica di
tale esperienza. L’attenzione per il poiein umano ne nasconde, senza dissimularla per
nulla, una più profonda verso quel poiein che, non rimandando ad alcun sapere né tanto
meno saper-fare, afferisce a un’inesauribile possibilità di invenzione nella misura in cui,
19
Tanto quando egli collabora con quotidiani nazionali come Combat o riviste quali Les cahiers
internationaux de sociologie o Esprit, quanto nel momento in cui dà alle stempe opere come La
personnalité de base (1953), Pour l’homme (1968), o Subversion/perversion (1977).
20
Cfr. M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, recherche de l’originaire, Paris, Christian Bourgois, 1981.
21
come si legge nelle ultime righe de L’inventaire des a priori, “una filosofia dell’azione
chiama a una filosofia della Natura”21.
Questi temi permettono di delineare in modo chiaro le direttrici storiche che
precedono e in qualche modo introducono la meditazione di Dufrenne nella quale,
appunto, elementi tradizionali confluiscono in modo perspicuo e sintetico.
La sua è forse una delle più dense elaborazioni di una filosofia intesa come
“filosofia della cultura”, punto di arrivo della storia del pensiero dell’ultimo secolo,
lontana dalle metafisiche più trascendentali e ancorata piuttosto allo studio meticoloso e
appassionato dei fenomeni e dell’uomo.
Come è stato scritto22, il suo si presenta come un tentativo sempre riproposto di
piegare la fenomenologia a una vocazione immanentistica e anti-coscienzialistica
all’interno di un’estetica soggettivista di matrice kantiana.
Il rapporto stesso di Dufrenne con la fenomenologia è un rapporto caratterizzato da
significativi chiaroscuri, impliciti non-detti e velate mutazioni; la sua è un’estetica che
“peut etre représentée en priorité par la phénoménologie, et de fait notre propos a été
implicitement
phénoménologique”23.
Una
fenomenologia
quindi
che,
come
probabilmente l’intera fenomenologia francese, mutua se stessa dai presupposti
husserliani senza mai perseguirli in modo ripetitivo, ma anzi ricodificandoli all’interno
di orizzonti che già conoscono razionalismo, positivismo e spiritualismo. In questo
senso quella di Dufrenne è una fenomenologia in un senso fortemente merleaupontiano, descrizione che ha di mira un’essenza, cioè il significato immanente al
fenomeno e dato con questo.24
21
È bene tenere presente fin d’ora, benché a puro titolo introduttivo, come sia sotto questi aspetti che la
pratica politica interessa Dufrenne compatibilmente e parallelamente a quella artistica. Queste due sono
infatti considerate analoghe se non altro per il comune atto di correre il rischio dello sconosciuto, dato che
ciò che vale per l’azione vale per l’arte, come scrive l’autore: “è questa potenza del fondo che l’arte si
sforzerà di ridire”. Ivi, p. 312.
22
E. Franzini, L’estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, Edizioni Unicopli, Milano 1984, p.
348.
23
“Può essere rappresentata prioritariamente dalla fenomenologia e, di fatto, il nostro proposito è
implicitamente fenomenologico”, M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome II, Klincksieck, Paris
1976, p. 28.
24
Particolarmente densa di significati storici e teorici è l’assimilazione dei contenuti husserliani da parte
di Dufrenne. Un approfondimento esaustivo di questo rapporto si trova nel già citato volume di E.
Franzini dedicato all’estetica francese del Novecento a cui si rimanda e nel quale si legge: “Husserl, con
22
En tout cas c’est à la phénoménologie qu’ici je me réfère: à cette
phénoménologie librement interprétée, dont l’oevre de Merleau-Ponty est la
meilleure illustration, qui débouche sur une ontologie ou, comme nous l’avons
esquissé, sur une métaphysique de la Nature.25
Restano chiari e presenti, in Dufrenne, seppur a grandi linee, i riferimenti alle
teorie husserliane di intenzionalità, fenomenologia della percezione e teoria degli a
priori, con larga condivisione degli intenti anti-psicologisti. Lo sviluppo generale del
pensiero segue invece poi linee meno rigorose rispetto all’autore tedesco, ritagliando
uno spazio di notevole autonomia che affonda le sue radici principalmente nel terreno
culturale francese.
Facendo un passo indietro, i prodromi del pensiero dufrenniano si intravedono nel
quadro apparentemente contraddittorio della filosofia francese di fine Ottocento: al
sostanziale superamento delle dottrine comtiane, e in modo specifico di quelle relative
alla gerarchia evolutiva delle scienze, fa riscontro un generale risveglio dell’attenzione
nei confronti di alcuni principi metodologici generali del positivismo stesso, quali il
rifiuto della metafisica e la ricerca di relazioni costanti fra i fenomeni. Discipline dalle
impostazioni e interessi differenti eppure sotto certi aspetti convergenti quali la fisica, la
biologia, la sociologia e la psicologia hanno ormai preso direzioni molto diverse da
quelle ipotizzate da Comte e nella loro nuova veste sono portatrici di un metodo
«positivo» attento ai «fatti», alla descrizione degli eventi e alla loro comparazione più
che alle grandi «instaurazioni» ideali e metafisiche. Metodo cui la filosofia stessa non si
mostra incline a sottrarsi.
Così, accanto a quella corrente che ama richiamarsi alla tradizione illuminista e che
si esprime attraverso Taine e Renan, accanto a quello spiritualismo che non cessa di
particolare riferimento alle sue ultime opere, è spesso accusato da Dufrenne, come da Merleau-Ponty, di
idealismo a causa dell’eccessivo rilievo che avrebbe dato all’attività costituente del soggetto a discapito
dell’oggetto, che sarebbe così ridotto a mera costruzione della soggettività trascendentale.” (E. Franzini,
op. cit., p. 349.)
25
“In ogni modo, è alla fenomenologia che io mi riferisco: a questa fenomenologia liberamente ispirata,
di cui l’opera di Merleau-Ponty è la migliore illustrazione, che sbocca in un’ontologia o, come noi
l’abbiamo delineata, in una metafisica della natura.” (M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, cit. p. 29.)
23
essere presente, spesso integrato da posizioni kantiane o cartesiane, incarnato da Maine
de Biran a Cousin, Renouvier, Brunschvicg, Ravaisson o Fouillée, si può notare un
profondo mutamento metodologico, che segna i destini della filosofia del nuovo secolo:
Boutroux, ma soprattutto Bergson e Durkheim, al di là delle grandi differenze di
pensiero che li separano, scrive Brehier, “invece di dissolvere la natura umana nel
meccanismo universale come i deterministi, invece di fare delle sue esigenze le
condizioni della realtà come i kantiani, cercano di svelare i rapporti d'interiorità che
collegano l'uomo all'universo, e porlo di nuovo nel circuito di realtà, da cui le teorie
precedenti l'isolavano”26.
In questa nuova ricerca relativa alla «natura» umana non cessano tuttavia di
presentarsi antichi frammenti «positivi», altre varie discontinue tendenze del passato
filosofico e accademico francese; ma, per lo più, come sistematizzato puntualmente da
Brehier, “le filosofie dell'inizio del ventesimo secolo si oppongono tutte insieme alle
filosofie che affermano un'evoluzione o un progresso necessario o quelle che, come in
Taine, lo pongono, senza più alcun determinismo rigoroso”27. E ancor prima, nelle
filosofie di fine secolo, all'interno di una dissoluzione del positivismo ancora lontana
dagli aspetti di più radicale e programmatica opposizione, sono ormai chiari i poli entro
cui oscillano le indagini più feconde: poli compresi tra la realtà generale dell’universo e
la libertà umana, aspetti complementari che vanno indagati nei diversi piani delle loro
correlazioni e interazioni.
L'intera cultura francese è dunque percorsa da una serie di esigenze che, al di là dei
poteri universitari o delle filosofie accademiche, non potevano che frammentarsi in
varie scienze, di cui la filosofia costituisce il costante punto di riferimento e confronto
fino ad assumere i connotati di una «filosofia della cultura». Una filosofia dove “ogni
attività spirituale autentica è un aspetto di quella stessa intelligenza che ha creato le
scienze: la morale vera, l'arte vera, la religione vera, ovvero la morale, la religione, l'arte
liberate dalle formule, dalle tradizioni, dai sentimenti soggettivi, non hanno una radice
diversa da quella del vero sapere.”28
26
E. Brehier, Transformation de la philosophie française, Paris, Flammarion, 1950, p. 17.
Ivi, p. 45.
28
Ivi, p. 56.
27
24
In questo quadro, posto a sé è occupato dalla disciplina dell’Estetica, che, come le
altre scienze di derivazione filosofica, partecipa al vero sapere di questa filosofia della
cultura ma senza ridurre ad essa i suoi principi fondanti. Dopo anni di ricerche sul bello
ideale e di esperimenti meccanicistici e empiristici nel campo delle belle arti, è fra i due
secoli che si assiste in Francia al lento processo di nascita di una riconosciuta e rigorosa
“scienza estetica”.
Riconoscere la “crisi del positivismo” è, infatti, senz’altro fondamentale, ma non
sufficiente per inquadrare quelle figure che, da Guyau a Séailles, Delacroix o Lalo,
dedicavano i loro sforzi teorici alla delineazione dell’estetica tra le altre scienze umane,
cercando e trovando supporto per questo anche in teorie e studi di stampo sociologico e
psicologico. Sono strumenti presi in prestito proprio a questo genere di discipline quelli
che permettono, al voltare del secolo, la fondazione di quel nuovo sapere destinato ad
assumere le dimensioni e generare gli effetti che conosciamo nella meditazione
successiva.
Modellata su scienze fisico-biologiche come ad esempio la fisiologia, la disciplina
estetica si configura, prima e più che come ricerca nel campo dell’arte, come ricerca dei
ruoli e delle funzioni degli oggetti estetici e delle «facoltà» soggettive loro collegate
nella coscienza, nella società e nella storia.
È dunque a partire da una serie di ricerche tendenzialmente indipendenti dalle
posizioni più autenticamente filosofiche che nasce in Francia, come del resto in
Germania, quella che oggi riconosciamo come l’estetica contemporanea. Fisiologia,
psicologia e sociologia rappresentano i punti cardinali di una serie di contributi destinati
ad allontanarsi da esse in modo inesorabile ma condannati, neppure troppo
infelicemente, a non affrancarsi mai del tutto.
Ormai ben lontane tuttavia dai deterministici canoni prefissati propri dell’ambito
positivista, tali discipline di riferimento innestano se stesse, con la disciplina estetica
che ad esse guarda, su un territorio di confine, dove a strumenti scientifici di antico uso
vengono assegnati nuovi problemi teorici e poste questioni inedite,
sotto rispetti
concettuali prima imprevisti. È dalla fusione di prospettive filosofiche con elementi di
questo tipo che prende il via quell’estetica che, per queste ragioni, E. Brehier non esita a
25
definire “semifilosofica” e che si intende rivolta, in primo luogo, alle modalità di
frequentazione del mondo e sua comprensione sotto gli aspetti dell’atto creativo.
Le questioni chiamate in causa dalle discipline che abbiamo visto sullo sfondo, con
particolare riguardo per la psicologia, aiutano a comprendere quell’indubbia centralità
che il problema del soggetto ha all’interno delle prime delineazioni estetiche del secolo.
Tale problema si presenta sotto mentite spoglie nel problema del genio creativo che
raccoglie e rinnova in inedita sintesi tanto la tradizione settecentesca, da Du Bos in poi,
quanto l’ambigua influenza positivista che, ad esempio con Hyppolite Taine29, aveva
presentato il fatto artistico e creativo alla stregua di un fatto scientifico soggetto ad
analisi.
Se, infatti, le teorie positiviste hanno l’indubbia debolezza delle strutture troppo
poco elastiche, è tuttavia anche grazie alla loro influenza nell’ambito della delineazione
dei problemi che l’estetica, in forma ancora di psicologia della creazione, ha la
possibilità di svilupparsi svincolata da motivazioni di carattere metafisico e lontana
dall’affascinante ma teoricamente irrilevante mistica della creazione di stampo
romantico.
Le basi che l’estetica prende in prestito alle discipline sopra indicate rappresentano
la condizione di possibilità per l’estetica stessa di sottrarsi a dinamiche di disordinato
carattere poetico per assumere su di sé, piuttosto, una più proficua meditazione di
carattere genetico delle componenti che ineriscono la prassi del soggetto nel momento
creativo.
Il percorso autoriale che conduce alla nascita della disciplina estetica in territorio
francese all’ombra di psicologia e fisiologia contempla in parte contributi di secondaria
importanza filosofica che provengono per lo più da psicologi e sociologi; tenere fermo il
contributo di tali autori permette tuttavia di ricordare la fondamentale importanza
29
Basti ricordare qui sinteticamente le teorie di Hyppolite Taine quali emergono ne La philosophie de
l’art che, pur risalendo al 1865 è stata rimaneggiata negli anni fino ad essere raccolta, sotto forma di
antologia di saggi, nel 1881. Se quindi l'opera d'arte è determinata da un insieme di regole culturali ed
ambientali precedentemente esistenti, il genio, l'ispirazione o l'invenzione divengono fatti inerenti a un
processo psicologico di creazione e vanno inquadrati in un contesto storico-sociale schematicamente
inteso, cui ogni opera spirituale può e deve venire ricondotta. L'estetica, per Taine, deve giungere a
definire la natura e le condizioni d'esistenza di ogni arte non come nel passato, cercando una regola per il
bello, ma costruendo una scienza storica che non impone dei precetti bensì ricerca delle leggi e le cause
della produzione del «fatto» opera di arte: «intesa in tal modo, la scienza non condanna né perdona, ma
constata e spiega».
26
rivestita dalle loro influenze, strumentali se non teoriche, nell’ampliamento dei confini
teorici del positivismo stesso ricondotto ad una prolifica forma di dibattito a più voci e
fra vari ambiti scientifici.
Si deve a Joseph Segond, filosofo che Huisman definisce “mistico ed
empiricissimo”, la sistematizzazione sintetica e storicamente ben costruita di tali
percorsi; sistematizzazione che, benché comparsa a Novecento inoltrato con Le
problème du génie30 del 1930, permette un riesame utile e specifico dei problemi di
psicologia della creazione sotto diversi aspetti filtrati nell’estetica francese. Con questo
autore, che raccoglie in sé, a volte con acume e discreta organicità, contributi tra fine
Ottocento e inizio Novecento, da Guyau a Pulhan fino ad Alain e Breton, si vede
l’estetica ricondotta a una “psicologia dell’arte”, da non intendere come scienza della
natura ma in quanto studio della generazione dei valori spirituali articolati attraverso un
finalismo biologico e indirizzati a un idealismo dei valori che trova nell'estetica il suo
significato più profondo.31 Con buona pace di qualsiasi annosa scienza del bello,
l’estetologo si ritrova investito del compito di “rendersi conto di ciò che noi proviamo
di fronte alle opere d'arte, cercare da un punto di vista puramente psicologico in che
consistono le espressioni di ciò che si chiama la bellezza”32.
Dall’analisi di Segond, i fenomeni che conducono alla creazione non emergono di
per sé misteriosi e incomparabili, ma si presentano riconducibili alla sfera complessa
della sinestesia nella quale confluiscono spettri sentimentali oltre che affettivi che
conducono ad instaurare una “estetica del sentimento” da cui prende avvio, in forza di
una “ricreazione mistica” del nostro essere interiorizzato, una “psicologia del
sentimento stilizzato”. Al mondo interiore si va dunque, con Segond, a guardare, nella
ricerca di una forma d’arte che preceda le concrezioni pratiche dell’arte, caratterizzata
da spontaneità e immediatezza prima di ogni schematizzazione esterna.
Alla base dell'opera si pone un'intuizione soggettiva di carattere affettivo radicata
nella cinestesia, campo “che è impossibile limitare” in quanto “ingloba la nostra intera
esperienza ed anche le creazioni proprie alla vita più raffinata, la vita spirituale
30
J. Segond, Le problème du génie, Flammarion, Paris 1930.
Cfr. su questo tema il fondamentale studio di E. Franzini Estetica francese del Novecento. Analisi delle
teorie, Edizioni Unicopli, Milano 1984.
32
J. Segond, L'esthétique du sentiment, Boivin, Paris 1927, p. 3.
31
27
integrale”33. Nelle opere di Segond, il campo creativo è considerato in una sua ampiezza
cosmologica e psicologica che trascende la particolarità della creazione artistica
compiendo delle corrispondenze indefinite e senza fine intelligibili dei valori umani34.
Punto di riferimento costante di tutto il suo percorso, fortificato tra l’altro dai
riferimenti autoriali che lo caratterizzano, è quello che vuole l’attenzione costantemente
orientata alla fisiologia, scienza che ha dato origine in Francia a un gran numero di
lavori dedicati al ruolo dei ritmi corporei all'interno dei processi di creazione o
percezione di un'opera d'arte.
Oltre a Segond, è fondamentale tenere presente l’alto numero di autori che dietro
l’impostazione filosofica, e a volte anche essendone privi, hanno visto nel ritmo
fisiologico l’origine stessa dell’estetica, da considerare a partire dalle sue basi organicovitali35; impostazione questa non priva di effetti di primaria importanza sulle
meditazioni estetiche proprie della fenomenologia francese e, come vedremo, di quella
di Dufrenne in particolare.36
Al di là di tali e simili estremistiche riduzioni della creazione alla fisiologia, il
corpo e la sua cinestesia occupano un ruolo fondamentale nella costituzione del genio al
quale si riconosce tuttavia, nel rispetto della tradizione, anche una componente casuale,
ineffabile benché non necessariamente misteriosa. Ciò consiste in un'ostinazione
cosciente a scavare tutti i meandri del possibile, in un intelletto riflessivo e pronto a
provare tutte le combinazioni possibili, “in uno sforzo instancabile e sempre cosciente
attraverso il quale si mostrerà il meccanismo stesso della combinazione che si apre, in
breve in un cosciente persistere a voler comprendere indefinitamente il segreto della sua
propria operazione”37.
33
Ivi, p. 114.
J. Segond, Le problème du génie, cit., p. 46.
35
Il fondamentale problema dei rapporti fra estetica e fisiologia è trattato da V. Feldman, L'estetica
francese contemporanea, a cura di D. Formaggio, Minuziano, Milano l945.
36
Il legame così istituito fra l'attività creativa e i movimenti corporei conduce alcuni autori a far derivare
da esso le stesse «facoltà estetiche» della memoria e dell'immaginazione. È il caso, per esempio, di L.
Arréat, influenzato dal tedesco G. Hirth di cui, nel 1892, traduce una Fisiologia dell'arte. Indagando il
ruolo di memoria e immaginazione in pittori, musicisti, poeti e oratori, Arréat afferma che le distinzioni
fra le facoltà nell'ambito funzionale di ciascuna disciplina artistica vanno ricercate esclusivamente nella
psicologia e nella fisiologia dei loro protagonisti.
37
J. Segond, Le probléme du gènie, cit., p. 144.
34
28
Sono queste le posizioni che si ritroveranno in maniera evidente ad esempio nel
pensiero di Valéry, con il quale vediamo riaffermare con forza l’idea che la nozione di
genio ispirato e ineffabile sia di per sé vuota, poco esauriente rispetto al chiarimento dei
procedimenti reali della creazione artistica e per nulla utile nello spiegare l’intelligibilità
e ancor meno il senso di un’opera d’arte. Questa è invece piuttosto da osservare nelle
sue caratteristiche di produzione tecnica, storica e culturale, momento perspicuo nel
ciclo fenomenologico della tecnica artistica.
È nella psicologia del genio che si incarna dunque, in particolare in Francia,
quell’incredibile ricchezza di posizioni che accompagna il processo di nascita e
assunzione di autonomia della disciplina estetica. È storicamente al voltare del secolo
che si collocano i prodromi di quegli sviluppi teorici che, via Husserl in Germania, via
Alain, Bachelard, Merleau-Ponty in Francia fino a Dufrenne, porranno all’estetica
domande tra le più feconde. In esse si manterrà fermo il riferimento al corpo e, con
questo, la contaminazione della meditazione filosofia con tematiche che da essa
sembrerebbero esulare ma che, tra psicologia, fisiologia e psichiatria, sapranno offrire
terreno fecondo di sviluppo teorico.
Istanze di questo tipo arrivano infatti ad animare persino la meditazione di
Merleau-Ponty, sin dalla pubblicazione de La structure du comportement38, punto di
avvio che condivide l’interesse per una dimensione psicologica e fisiologica
dell’esistenza e che condurrà alla più matura elaborazione di una fenomenologia di
carattere ontologico e rigoroso.
È ad un simile sostrato che guarda l’opera di Dufrenne, nella quale confluiscono
temi che a volte arrivano ad esulare dai più rigorosi presupposti fenomenologici.
Nel 1968, in piena temperie strutturalista e antiumanista, Dufrenne pubblica il
saggio Pour l’homme, in cui si propone esplicitamente di “evocare l’antiumanesimo
proprio alla filosofia contemporanea, e di difendere contro di esso l’idea di una filosofia
che potrebbe avere cura dell’uomo”39. Lo sfondo della meditazione, se da una parte
tiene saldi i riferimenti alla tradizione fenomenologica, dall’altro piega nella direzione
38
39
M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, Presses Universitaires de France, Paris 1949.
M. Dufrenne, Pour l’homme, cit., p. 9.
29
che già con Merleau-Ponty si vide accostarsi a una tradizione di antropologia filosofica
in cui vediamo agire, in particolare, le meditazioni di Segond, i contributi di pensatori
non filosofi quali psicologi, e in particolare antropologi, e i presupposti sviluppati da
figure come quelle di Maurice Pradines40 e, soprattutto, di Erwin Straus41.
Proprio a tali pensatori si rivolge infatti a più riprese esplicitamente la riflessione di
Dufrenne che anzi arriva a indicare il secondo quale modello per uno dei temi centrali
sia per lui che per questo lavoro: il tema dell’unità dei sensi42. È costante e articolato il
riferimento dufrenniano a Vom Sinn der Sinne43, con particolare riguardo per i concetti
dell’abitare del corpo nel mondo, della dimensione percettiva come fondo intuitivo e
corporeo di ogni possibile frequentazione ma anche, in ideale diretto dialogo con
Merleau-Ponty oltre che con Husserl, Heidegger e Cassirer, per il tema del sentire come
terreno che precede la distinzione percettiva tra soggetto e oggetto.
Si ritrova infatti a più riprese, nelle parole di Straus, una forma di introduzione
esplicita a quelli che saranno, via Merleau-Ponty44 gli sviluppi di Dufrenne:
40
M. Pradines (1874-1958), filosofo spiritualista prima ancora che psicologo, professore per oltre
vent’anni Strasburgo e poi, dal 1938 alla Sorbonne. La sua ricerca abbraccia il campo psicologico e
psicofisico trovando sistemazione prima in Philosophie de la sensation (Paris 1928-34, 3 voll.) poi nel
Traité de psychologie générale (Paris 1943-46, 3 voll.)
41
E. Straus (1891-1975), medico e neuropsichiatria tedesco. Allievo a Monaco di Kraepelin, a Zurigo di
Beluler e Jung, è stato dal 1931 docente di psichiatria all’Università di Berlino e, dopo essere emigrato
negli Stati Uniti nel 1938, al Black Mountain College (North Carolina). Dopo la guerra ha lavorato come
direttore al Veteran Administration Hospital di Lexiton in Kentucky e come professore di psichiatria alla
University of Louisville. È considerato, insieme a Binswager e Minkowski, fra i più significativi
rappresentanti della psichiatria fenomenologica. Fra i suoi lavori si ricordano Geschenis und Erlebnis
(Berlin – Gottingen –Heidelberg 1930), la raccolta di saggi Phenomenological Psychology (New York
1966) e soprattutto il fondamentale lavoro sulla sensazione Vom Sinn der Sinne (Berlin – Gottingen –
Heidelberg 1935).
42
M. Dufrenne, L’oeil et l’oreille, tr. it. L’occhio e l’orecchio, cit., p. 49 e segg.
43
E. Straus, Vom Sinn der Sinne. Ein Beitrag zur Grundlegung der Psychologie, Springer, BerlinGottingen-Heidelberg 1935, tr. francese che qui si utilizza di G. Thines e J.P. Legrand, Du sens des sens.
Contribution à l’étude des fondements de la psychologie, Millon, Grenoble 2000.
44
Non a caso entrambi i pensatori sono elencati da Merleau-Ponty fra le “Opere citate” di Phénoménolgie
de la perception (cfr. M. Mereleau-Ponty, Phénoménolgie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it.
di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 587 – 588). A sua volta,
nella prefazione alla seconda edizione del proprio volume, Straus colloca Merleau-Ponty (insieme con
Binswager, Buytendijk, von Gebsattel e Zutt) fra gli autori nei cui confronti deve riconoscere un “debito
profondo” (cfr. E. Straus, op. cit., p. V). È opportuno ricordare, ai fini di una miglior comprensione della
molteplicità di riferimenti incrociati, che nela stessa sede egli riconosce inoltre di aver trovato con alcune
opere dell’ultimo Husserl pubblicate postume, “su più di un punto una convergenza incoraggiante con le
mie proprie vedute” (Ibidem).
30
Dell’esperienza vissuta, nella sua globalità, si è sempre preso in considerazione
e osservato il momento gnosico, ma mai il momento patico. (…) Il patico
appartiene allo stadio più originario dell’esperienza vissuta, e se risulta così
difficilmente accessibile tramite la conoscenza concettuale, è proprio perché
con i fenomeni noi instauriamo una comunicazione immediatamente attuale,
intuitivo-sensibile, ancora di stato preconcettuale.45
Vi è dunque la possibilità di avvicinare la meditazione di Dufrenne proprio a
partire da questa ininterrotta eco di consonanze che scorre da Vom Sinn der Sinne a
Phénoménologie de la perception volgendosi con uguale intensità tanto all’ambito più
strettamente filosofico e fenomenologico quanto a quello, comunque sempre presente,
dischiuso dalle ricerche psicologiche e fisiologiche.
Di tale duplice direzione è impregnata l’intera opera di Dufrenne, fino all’ultimo
scritto L’occhio e l’orecchio, che lascia reagire l’interesse estetico-ontologico su
posizioni di carattere psicologico-antropologico, mettendo forse in campo l’ultimo
tentativo di sintesi offerto dall’autore. In quest’opera, in particolare nel problema della
sinestesia, filtrano e si intrecciano i temi di fondo di tutta la filosofia dufrenniana e,
soprattutto, si leggono chiaramente in filigrana le differenti direzioni di interesse che ne
hanno animato la ricerca. Ma è questo uno dei punti di arrivo cui questo lavoro si
propone di approdare; preliminarmente, è opportuno concentrare l’attenzione sulle
coordinate tematiche che, storicamente e teoricamente, introducono quanto andremo ad
esplorare.
Esiste un passo merleaupontiano, nel quale confliuiscono tanto le ricerche di Straus
quanto i presupposti husserliani, di fondamentale importanza sia all’interno dell’intera
ricerca merleaupontiana che per la sua lettura da parte di Dufrenne, che possiamo
utilizzare a titolo di riferimento introduttivo: è quello che si trova nella Premessa della
Phénoménologie, là dove l’autore si propone di esplicitare a suo modo il senso
dell’esortazione di Husserl a tornare alle cose stesse:
Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla
conoscenza di cui la coscienza parla sempre, e nei confronti del quale ogni
45
E. Straus, op.cit., tradotto in italiano in A. Pinotti (a cura di), Erwin Straus, Henri Maldiney. L’estetico
e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, p. 43.
31
determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia
nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è
una foresta, un prato, un fiume.46
La citazione strausiana è esplicita: il
riferimento è infatti alla sua celebre
distinzione fra spazio del paesaggio e spazio geografico. Il primo sarebbe uno spazio
originario del “sentire” (Empfinden), che egli intende nella sua inscindibile unità con il
muoversi, in cui il mondo è “qui per me ed è solo così che è qui per me ed è qui in
qualche modo”47; lo spazio geografico è invece spazio in equilibrio precario tra quello
del paesaggio e quello fisico48, è lo spazio “del mondo umano della percezione”49, che
non conosce orizzonte ma coordinate vincolate a un punto-zero stabilito arbitrariamente,
come il meridiano di Greenwich. Se il paesaggio è lo spazio che abitiamo in comune
con l’animale, la geografia è un dove esclusivo dell’essere umano, capace di quella
razionalizzazione globale della spazialità che rappresenta la sua vita.
Il riferimento husserliano è basilare, nel senso letterale di humus cui si attinge e da
cui si diparte, e proprio in questo passo si può leggere una delle direttrici che MerleauPonty lascia avviare, e allontanare, proprio a partire dal padre della fenomenologia. Il
motto di ritorno alle cose stesse è inteso secondo uno slittamento fondamentale, in una
sorta di adeguamento agli interesse dell’autore francese, che lo vede come un ritorno
all’origine stessa dell’espressione, alla fondazione originaria di ogni senso che viene
attribuito alle cose. In Merleau-Ponty, uno dei riferimenti più ricorrenti a Husserl
avviene, infatti, come si legge nei più diversi contesti, sotto lo stimolo costante di un
motivo delle Meditazioni cartesiane: “È l’esperienza […] ancora muta che per la prima
volta deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso”.
La frase compare nella prefazione della Fenomenologia della percezione nel
momento in cui l’autore affronta la riduzione eidetica, a proposito della quale troviamo
un passo da tenere presente:
46
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 17.
E. Straus, op. cit., p. 329.
48
“Il mondo percettivo umano sta tra il paesaggio e la fisica. (…) Poiché esso confina con entrambi, con
il paesaggio e con la fisica, stando tra di loro, rimane ambiguo in se stesso, e non solo per chi osserva.
Teso fra questi contrasti esso si trova in equilibrio estremamente instabile, sempre minacciato da
un’oscillazione eccessiva verso questo o quel lato.” Ivi, p. 381.
49
Ibidem.
47
32
Quali che siano le variazioni di senso che infine hanno dato luogo alla parola e
al concetto di coscienza come acquisizione del linguaggio, noi abbiamo un
mezzo diretto per accedere a ciò che esso designa, abbiamo l’esperienza di noi
stessi, di questa coscienza che noi siamo: su tale esperienza si misurano tutti i
significati del linguaggio, ed essa fa sì che esso voglia appunto dire qualcosa
per noi. “È l’esperienza … ancora muta che ora per la prima volta deve essere
portata all’espressione pura del suo proprio senso.” Le essenze di Husserl
devono ricondurre con sé tutti i rapporti viventi dell’esperienza, come la rete
porta dal fondo del mare i pesci e le alghe palpitanti. […] La funzione del
linguaggio consiste nel far esistere le essenze in una separazione che, a dire il
vero, è solo apparente, giacché per mezzo del linguaggio esse riposano ancora
50
sulla vita antepredicativa della coscienza.
Ancora nella Fenomenologia, si ritrova un passo che, facendo riferimento a Kant,
ribadisce la questione nei seguenti termini:
Ma l’Io riflesso differisce dall’Io irriflesso per lo meno in questo, che è stato
tematizzato. Come lo stesso Kant osserva acutamente, ciò che è dato non è la
coscienza né l’essere puro, ma l’esperienza, ossia, in altri termini, la
comunicazione di un soggetto finito con un essere opaco da cui questo soggetto
emerge, ma in cui rimane ancorato. È “l’esperienza pura e per così dire ancor
muta che ora, per la prima volta, deve essere portata all’espressione pura del suo
senso proprio.” Noi abbiamo l’esperienza di un mondo, non nel senso di un
sistema di relazioni che determinano interamente ogni evento, ma nel senso di
una totalità aperta la cui sintesi è interminabile.51
Ne Il visibile e l’invisibile ritroviamo la frase in questione in un passaggio cruciale,
a conclusione del primo capitolo che ha per oggetto l’interrogazione filosofica. Qui il
riferimento, in totale coerenza con l’impostazione dell’opera matura, è ontologico e
riguarda:
Lo svelamento di un Essere che non è posto, poiché non ha bisogno di esserlo,
poiché è silenziosamente dietro tutte le nostre affermazioni, negazioni, e anche
dietro tutte le domande formulate, non perché si tratti di dimenticarle nel suo
silenzio, non perché si tratti di imprigionarlo nelle nostre chiacchiere, ma perché
50
51
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 24.
Ivi, p. 297.
33
la filosofia è la mutua riconversione del silenzio e della parola: è l’esperienza
52
ancor muta che deve essere portata all’espressione pura del suo proprio senso.
Il commento più esauriente a questa “piccola frase” si ha però nel 1959 quando, in
occasione di una discussione con Alphonse de Waelehens53, Merleau-Ponty espone il
postulato husserliano come “il compito più difficile, quasi impossibile” assegnato da
Husserl alla fenomenologia. Compito realizzabile, benché la sua paradossale difficoltà
ne faccia uno dei nodi di maggior interesse, grazie ad una frequentazione del mondo e
ad un linguaggio che si manifestano come un “fare”54 e come un saper-fare prima di
essere tematizzati al livello del sapere esplicito.
Queste linee tematiche mutuate da Husserl, con la libertà propria di Merleau-Ponty,
tornano a intersecare, come in un gioco di specchi e di rimandi incrociati, la prospettiva
di Straus, lungo la già citata analisi dello strato patico della vita che Straus ha messo a
fuoco. Tale strato è infatti quello dell’esperienza al suo stadio genetico e germinale,
originario nel suo essere antecedente tanto alla costituzione del fenomeno come oggetto,
quanto alla costituzione del soggetto come suo correlato.
Abbiamo visto una certa cosa mille volte, e tuttavia non l’abbiamo mai vista
veramente. Una domanda ci costringe a vederla correttamente per la prima
volta. La prima visione era una visione del sentire, nella partecipazione
dell’espressione; la seconda visione, invece, è una visione del percepire. La
domanda ci introduce in un nuovo ordine della comprensione. Siamo stati
interrogati da “qualcosa” (…) Nella visione del sentire il “qualcosa” era era solo
qui ed ora per me, momentaneamente, transitoriamente. Ma ora dopo il
passaggio al mondo della percezione, questo esserci-per-me è colto come un
55
momento della serie generale degli eventi.
In questo continuo rilancio della scommessa di risalire là dove la dimensione
percettiva precede quasi paradossalmente la percezione stessa, che vedremo confluire
mutatis mutandis nel problema sinestetico impostato da Dufrenne, agisce una forma di
consapevolezza del carattere attivo, originario e fungente della relazione percettiva tra
52
Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2003, p. 146.
Cfr. B. Waldenfels, Fair voir par les mots, “Chiasmi International” n. 1, 1999, p. 58.
54
M. Merleau-Ponty, La prose du monde, Gallimard, Paris 1965, ed. it. La prosa del mondo, Editori
Riuniti, Roma 1984, p. 54.
55
E. Straus, op. cit., p. 382.
53
34
soggetto e oggetto. Si innesta qui uno dei cardini del nostro percorso e di questa
relazione storica e teorica che corre tra le diverse voci cui stiamo accennando. È il tema
della dimensione antepredicativa dell’esperienza, che Straus tematizza come originaria
apertura simpatetica ed empatica al mondo56 e nel quale Merleau-Ponty, derivandolo
direttamente da Husserl, insedia tutta la fenomenologia della coscienza percettiva che
costituisce la sua Fenomenologia della percezione.
Quella svolta da Merleau-Ponty è un’indagine intorno ai territori precategoriali
dell’esperienza57 in una costante interrogazione dell’originario a partire da corporeità e
56
Cfr. E. Straus, op. cit., pp. 423 e segg.: “Soprattutto, l’interpretazione del sentire come legame
simpatetico con il mondo apre la strada alla comprensione dell’intero gruppo dei sintomi (…)
L’individualità si trova con ciò racchiusa in un contesto che è già fondato e, insieme, ogni volta di nuovo
da fondare. (…) L’esperire simpatetico viene prima del dubbio, e quindi prima della possibilità delle
contraddizioni, delle ragioni e delle motivazioni.” Il capitolo è dedicato alla teoria delle allucinazioni e
significativamente ripreso da M. Merleau-Ponty nella Fenomenologia, cit., pp. 180 e segg.
57
Il riferimento che storicamente non solo introduce ma anche supporta questa indagine merleau-pontiana
è naturalmente rappresentato dalla meditazione di Husserl. Quest’ultima è però a sua volta fortemente
debitrice dei contributi di Kant del quale egli mira in qualche modo a completare la prospettiva. È proprio
Husserl (cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore,
Milano 1961) a notare come Kant sembri “accedere a una fondazione diretta, puntata sulle fonti
originarie”, ma per interrompersi subito senza indagare il “fungere estetico” originario e fondativo di
questa spontaneità. Il riferimento è in particolare a alcuni passi della Critica del giudizio che conviene qui
sinteticamente ricordare. Sono quei passi in cui Kant, là dove si concede, con un excursus squisitamente
illuministico, di tentare una suddivisione delle belle arti ne reperisce il principio più comodo nell’analogia
dell’arte con “quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto
più perfettamente possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni” (I. Kant, La critica del
giudizio, Laterza, Bari 2007, p. 317). Tale partito linguistico ed espressivo rappresenta una importante
novità introdotta in questa sezione, relativamente isolata, della Critica del giudizio. Viene con esso
delineato uno statuto delle arti (e forse anche dell’estetica) fondato sulla definizione di esse come
espressione e comunicazione di concetti e sensazioni, senza che alcuna considerazione rilevante sia
concessa all’antico partito imitativo. Con questa cesura è permesso rintracciare il principio dell’artistico
nell’espressione di idee estetiche e con ciò, infatti, iniziare a rilevare due elementi centrali: la speciale
valenza conoscitiva riconosciuta all’esperienza estetica, in campo artistico ma non solo, e lo statuto
peculiare riconosciuto al sentimento all’interno dell’intera Critica del giudizio. Le idee estetiche sono, per
definizione, quelle “rappresentazioni dell’immaginazione che danno occasione a pensare molto, senza
però che un qualunque pensiero o concetto possa esser loro adeguato; e che, di conseguenza, nessuna
lingua può completamente esprimere e rendere comprensibili” (Ivi, p. 305). Esse esulano dunque dalla
logica che obbedisce all’intelletto legiferante, aprendo una dimensione extradiscorsiva e portando sul
piano del sensibile qualcosa che ad esso, e alle sue forme precostituite, non è del tutto riconducibile. Con
questa indagine si apre la possibilità di leggere l’ambito gnoseologico secondo una fondamentale
accezione simbolica, nel momento in cui le facoltà del soggetto rivelano una potenzialità eccedente, e
forse superiore, rispetto alla semplice apprensione dei fenomeni sensibili. Questa capacità eccezionale,
tutta umana, che si incarna nel genio e nella sua produttiva espressività, è quella che si manifesta nel
trovare i modi adeguati alla rappresentazione comunicativa delle idee estetiche nelle loro qualità
precategoriali. Il rapporto tra le facoltà si instaura tra immaginazione e intelletto, ma grazie alla libertà
vigente in questa relazione, esso si estende fino a coinvolgere anche la ragione. La ragione, in occasione
di un’intuizione dell’immaginazione nella libertà creatrice del genio, è spinta a pensare oltre la
determinatezza dei concetti, fino a un’unione di sensibile e soprasensibile.
35
percezione. Quest’ultima tematizzata come dimensione dell’ambiguità precategoriale
sfuggente ogni oggettivazione della coscienza tetica, diretta da una logica vissuta cui
l’intelletto non richiede rendiconto. La percezione, così come la descrive l’autore
francese, dischiude infatti la primordiale aderenza dell’io al mondo senza mai essere del
tutto categorizzabile negli univoci schemi del pensiero intellettuale. “Cercare l’essenza
della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma definita
per noi come accesso alla verità”58.
La sintesi operata dal corpo percipiente è di carattere prelogico, non si attesta nella
trasparenza di una coscienza tetica e percepire le cose significa, in prima istanza,
viverle59.
Sulla base di questa notazione, meno banale di quanto sembri, si attesta la
valorizzazione di un aspetto decisivo dell’intenzionalità, con il riconoscimento del
primato dell’intenzionalità fungente su quella tematica.
Non si tratta di sdoppiare la coscienza umana in un pensiero assoluto, che, dal
di fuori, le assegnerebbe i suoi fini. Si tratta invece di riconoscere la coscienza
stessa come progetto del mondo, destinata ad un mondo che non abbraccia né
possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi, e il mondo come
quell’individuo preoggettivo la cui unità imperiosa prescrive alla conoscenza il
60
suo scopo .
Kant delinea quindi una conoscenza che, avendo di mira “ciò che trascende la natura”, configurandosi
come “una coscienza del soprasensibile”, non si può spiegare perché irriducibile a un concetto, ma si può
esprimere. Ciò significa precisamente “esprimere ciò ch’è inesprimibile nello stato d’animo in cui ci
mette una rappresentazione e renderlo comunicabile universalmente” (Ivi, p. 311). Si parla, a questo
proposito, di ipotiposi simbolica, cioè di una modalità di esibizione allusiva di quelle rappresentazioni
prive di concetti adeguati che sono appunto le idee estetiche. L’idea estetica rivela la messa in atto di una
esibizione simbolica, quindi non diretta e dimostrativa ma indiretta e analogica, del soprasensibile. La
riflessione sul giudizio estetico porta alla rivelazione di come, nel libero gioco delle facoltà conoscitive
suscitato da una bella forma e dal piacere libero e universale che ne consegue, al soggetto sia concessa
l’esperienza di qualcosa che trascende il piano dei fenomeni determinati da una meccanicistica causalità.
A partire dalla relazione del soggetto con oggetti apparentemente radicati nella sensibilità e nella
contingenza si apre la possibilità di passare dal modo di pensare valido per i fenomeni a quello applicabile
a realtà sovrasensibili.
In tal senso, a partire da Kant, si può nominare la possibilità di una modalità di conoscenza simbolica,
nella misura in cui la concezione espressiva dell’arte si trova direttamente collegata agli aspetti dei
fenomeni non afferrabili in modo logico e pur tuttavia esteticamente ben presenti. Ne risulta, per
l’esperienza estetica, una valenza gnoseologica peculiare che si può a giusto titolo configurare come
conoscenza simbolica, che illumina quei territori sui quali non è possibile esercitare una conoscenza
effettiva.
58
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 26.
59
Per un approfondimento di questi aspetti si veda S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la
dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 24 e segg.
60
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 27.
36
L’intenzionalità fungente costituisce, nelle parole di Merleau-Ponty, “l’unità
naturale antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri,
nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio, più chiaramente che nella conoscenza
oggettiva”61 e che porta in evidenza l’originarietà ineludibile dell’atteggiamento
naturale, di carattere eminentemente sensibile-affettivo, nel quale si radica la verità
antepredicativa della nostra stessa vita. Esiste dunque uno scarto, che va riconosciuto e
tematizzato, tra l’intenzionalità tematica della coscienza rappresentativa, incarnata nel
Cogito riflesso, e la spontaneità selvaggia dell’intenzionalità corporea che ricorda come
anche la vita percettiva sia in filigrana attraversata da un’ineludibile intenzionalità.
Strumento teorico fondamentale è qui evidentemente la distinzione husserliana tra
intenzionalità d’atto e intenzionalità fungente, cioè tra un rapporto col mondo
configurato come conoscitivo in senso stretto e una modalità di relazione che lo
trascende. Nell’ottica merleaupontiana, un movimento intenzionale si impone come
base trascendentale da tematizzare non più, come per Husserl, in quanto intenzionalità
della coscienza, non più nell’ordine dell’oggettività già costituita o in quello di un atto
teoretico, bensì su un piano sotteso e precedente ognuno di questi atti, su un piano
fungente.
Per Merleau-Ponty questo si traduce in una riduzione iniziale dell’intenzionalità
alla corporeità quale base naturale indispensabile per ogni costituzione di senso.
L’introduzione e la seconda parte della Fenomenologia della percezione comprendono
una dettagliata analisi del fenomeno del sentire tesa a mostrarne la valenza di
intenzionalità primordiale. Al sentire corporale viene ricondotta ogni condizione del
pensiero concettuale e questo lo rende irriducibile alla sola ricettività e passività dei
sensi. Nemmeno le sensazioni più elementari, ad esempio le differenze di colore,
possono ridursi semplicemente a un certo stato del corpo passivamente sollecitato:
piuttosto “esse si offrono con una fisionomia motrice, avviluppate in una significazione
vitale”62.
61
Ibidem.
Ivi, p. 292. Cfr. E. Straus: “Il vedere non è solo un avere colore e luce, l’udire non è solo un avere
suoni e rumori. Vedere e udire sono modi diveri della comunicazione del mondo, ed è per questo motivo
62
37
La stessa vita fungente assume in quest’ottica il ruolo del trascendentale, che a sua
volta viene dunque fatto discendere sul piano più squisitamente estetico e quindi, in
ultima istanza, prettamente umano. “Il sentire è questa comunicazione vitale con il
mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita. È ad esso che
l’oggetto percepito e il percipiente devono il loro spessore. È il tessuto intenzionale che
lo sforzo di conoscenza cercherà di decomporre”63.
All’origine si colloca l’identificazione del più profondo nucleo di soggettività,
formulato filosoficamente nell’idea di una vita di coscienza anonima che, nella
Fenomenologia della percezione, si configura come Cogito tacito. Questo io silenzioso
che esperisce l’immediato contatto con la propria vita prima di esprimersi con la parola
è assunto a luogo di fondazione dell’io articolato nel linguaggio razionale che si
manifesta nel Cogito riflesso. Esso costituisce anche una forma di limite: non può
divenire oggetto di conoscenza ma solo forma di vita al di qua di qualsiasi
chiarificazione concettuale, è estraneo alla coscienza tetica.64
Tra la sfera percettiva e il Cogito si instaura un rapporto fondamentale, la cui
chiave di lettura, in ottica trascendentale, è primariamente rappresentata dall’aspetto
estetico della relazione tra corpo e oggetto.
Il trascendentale stesso è ridefinito alla luce della corporeità percipiente, il cui
fungere è rigorosamente estetico. Su questo piano si staglia l’importanza
dell’intenzionalità fungente, anonima ma sempre presente, originale, riconducibile alla
motilità. Come specifica Andrea Bonomi65, il corpo, non appartenendo al regno dell’in
sé, è animato da un movimento esistenziale polarizzato verso il mondo, e la coscienza si
configura come l’inerire alla cosa attraverso la mediazione del corpo. “Il corpo è il
nostro mezzo generale per avere un mondo”66.
che la sfera visiva è più strettamente affine al delirio, mentre quella uditiva è affine alla metamorfosi
schizofrenica.” (op. cit., p. 425).
63
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 309.
64
È molto indicativo notare come la transizione dal Cogito tacito a quello parlato non sia descritta in
termini di progresso ma piuttosto come un necessario appiattimento della pienezza della dimensione
primordiale.
65
A. Bonomi, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano 1967, p. 71.
66
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 202.
38
Il corpo si spoglia delle valenze oggettuali di cui è rivestito nella fisiologia classica,
per essere invece investito del ruolo di veicolo primo del nostro essere-al-mondo; esso è
il campo primordiale di ogni nostra esperienza, “mediatore di un mondo”67.
Inoltre, il sentire è quel primo atto grazie a cui ci è possibile costituire una certa
identità degli oggetti senza che si renda necessario l’intervento della riflessione.
I sensi si traducono vicendevolmente senza aver bisogno di un interprete, si
comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea. Queste
osservazioni permettono di dare tutto il suo senso all’espressione di Herder:
“L’uomo è un sensorio comune, che ora è toccato da una parte ora dall’altra.”
Con la nozione di schema corporeo non è solo l’unità del corpo a essere
68
descritta in modo nuovo, ma anche, attraverso di essa l’unità dell’oggetto.
Il sentire rinvia certo alla ricettività corporea, ma la sua attività giunge fino alla
costituzione degli oggetti, con la loro unità e il loro senso.
Costituita inizialmente dai sensi senza l’intervento della facoltà riflessiva, la prima
identità degli oggetti percepiti precede dunque il cogito per ancorarsi profondamente in
un ambito pre-riflessivo. Si spiega in questo modo la qualificazione del sentire come
forma di intenzionalità pre-riflessiva.
Questa descrizione della peculiarità del corpo, e della sua intenzionalità nella
dinamica di apprensione del reale, può stendersi su due temi differenti, a loro volta
intrecciati al problema dell’espressione, generale e artistica: lo spazio e il simbolo.
In primo luogo, il corpo come soglia di apertura del nostro essere-al-mondo si pone
in una relazione peculiare con la categoria dello spazio69. Tra spazialità del corpo e
spazialità oggettiva esiste uno
scarto, inevitabilmente aperto dalla valenza
trascendentale della relazione corporale. La spazialità del corpo è nettamente diversa da
quella degli oggetti esterni: essa “non è una spazialità di posizione, ma una spazialità di
situazione”70. In tal senso l’orientamento corporeo non è ricavabile dal riferimento
posizionale a coordinate esteriori, il Qui del corpo si configura come un Qui originario,
67
Ivi, p. 200.
Ivi, p. 314.
69
Certo anche la relazione temporale non è priva di interesse, ma necessariamente estranea alla
trattazione in questa sede. Per un’esaustiva indagine di questo aspetto si veda A. Bonomi, op. cit., cap. V,
p. 101 e sgg.
70
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 153.
68
39
assoluto71. E assoluto è ugualmente il sapere sotteso alla presenza del corpo, quel sapere
innato che fa in modo che sempre si sappia “dov’è la pipa”72.
Nella chiarificazione del nostro essere-al-mondo attraverso il tema della spazialità
corporea si ritrova il tema dell’intenzionalità. Lo spazio corporeo, infatti, “può essermi
dato in una intenzione di prensione senza essermi dato in una intenzione di
conoscenza”73. È a partire dal corpo, dunque, che si incarna e concretizza quel principio
originario di presa sul mondo precedente la tematizzazione della coscienza tetica,
dell’intenzionalità d’atto. Si riconferma con ciò centrale il fungere originale
dell’intenzionalità corporea identificabile con l’apertura fondamentale della motilità.
Quest’ultima dischiude di fronte al soggetto un orizzonte di virtualità da rinnovare e
ristrutturare di continuo, condizione di possibilità di tutte le formalizzazioni
comportamentali a venire. In questa prospettiva, di carattere trascendentale, “il corpo è
eminentemente uno spazio espressivo”74.
C’è un originario inerire estetico, dove questo aggettivo assume tutte le valenze più
etimologiche possibile, alla base del rapporto uomo-mondo e soprattutto sulla soglia di
apertura di ogni possibile dinamica espressiva75.
In secondo luogo, è possibile vedere qui la rivelazione di una forma di valenza
simbolica che Merleau-Ponty tematizza dall’apertura dagli stessi atti corporali.
Nell’operazione del percepire avviene una simbolizzazione a livello dei registri
sensoriali ognuno dei quali viene spontaneamente tradotto negli altri. È quello che
Merleau-Ponty descrive come un dialogo intersensoriale, che permette l’accesso alla
cosa nella sua ipseità. Tuttavia,
71
Cfr. A. Bonomi, op. cit., p. 67.
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit.., p. 153.
73
Ivi, p. 158.
74
Ivi, p. 202. In questo contesto teorico il corpo viene assimilato alle opere d’arte, “cioè esseri in cui non
si può distinguere l’espressione dall’espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che
irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale”. Esso, come l’opera,
si configura come un “nodo di significati viventi”, “un insieme di significati vissuti che va verso il
proprio equilibrio” (Cfr ivi, pp. 216-218) Questa notazione rivelerà la propria efficacia là dove, con
Dufrenne, passeremo all’analisi del problema sinestetico in relazione al campo artistico.
75
“Il mio corpo è il luogo, o meglio l’attualità stessa del fenomeno di espressione (Ausdruck), in esso
l’esperienza visiva e quella auditiva, per esempio, sono l’una pregnante dell’altra, il loro valore espressivo
fonda l’unità antepredicativa del mondo percepito e, attraverso di essa, l’espressione verbale
(Darstellung) e il significato intellettuale (Bedeutung)”. (Ivi, p. 314)
72
40
L’ipseità non è mai raggiunta: ogni aspetto della cosa che cade sotto la nostra
percezione non è che un invito a percepire oltre, e una pausa momentanea nel
processo percettivo. Se raggiungessimo la cosa stessa […] essa cesserebbe di
76
esistere come cosa nel momento stesso in cui crederemmo di possederla.
L’apprensione della cosa avviene percettivamente tramite uno schema corporeo i
cui aspetti sensoriali “sono immediatamente simbolici l’uno dell’altro perché il mio
corpo è appunto un sistema già fatto di equivalenze e trasposizioni intersensoriali”77.
Nell’unità antepredicativa della percezione si radica ogni possibilità di donazione di
senso, all’oggetto naturale ma anche agli oggetti culturali e ai significati intellettuali.
In questa prospettiva si chiarisce la valenza simbolica riconoscibile all’origine
medesima del nostro essere-al-mondo: le sensazioni corporee non vanno a costituire un
rigido schema estetico senza sbocco, bensì forniscono la possibilità stessa del nostro
“frequentare questo mondo, comprenderlo e trovargli un significato”78, costituendo il
corpo stesso come “simbolica generale del mondo”79.
Nell’originarietà di questa esperienza non tetica, preoggettiva e precosciente, infine
eminentemente estetica, si dipartono diverse intenzioni, ancora vuote, che
nell’esperienza della cosa potranno riempirsi del pensiero tetico. “La riflessione stessa
coglie quindi il suo senso pieno solo se menziona il contenuto irriflesso che presuppone,
di cui beneficia, e che per essa costituisce un passato originario, un passato che non è
mai stato presente.”80
Sono questi alcuni dei riferimenti teorici più densi che nel pensiero di Dufrenne
troveranno non solo ripresa, ma anche sviluppo autonomo e completamento originale.
Per quanto radicata in indagini di carattere estetico, quella di Dufrenne è una
filosofia che mira a sfociare in un’etica, nella quale l’uomo nella sua totalità paticopratica rappresenta il centro assoluto. Rispetto alla fenomenologia merleau-pontiana
Dufrenne si pone quasi con l’intento di chiudere, completandolo, un percorso che
l’amico, a causa della prematura scomparsa, non poté che lasciare abbozzato. È un
76
Ivi, p. 312.
Ivi, p. 314.
78
Ivi, p. 316.
79
Ibidem.
80
Ivi, p. 322.
77
41
percorso che dalla fenomenologia della percezione aveva ormai preso con ogni evidenza
una direzione strettamente legata a problematiche ontologico-antropologiche di cui è
riccamente intessuto quell’archivio di temi che Merleau-Ponty si proponeva di
sviluppare, rimasti nelle densissime note di lavoro che seguono l’edizione italiana de Il
visibile e l’invisibile. L’ontologia cui guarda Dufrenne condivide l’orizzonte
antropologico di quella dell’ultimo lavoro merleau-pontiano: “Questo mondo, questo
Essere, fattività e idealità indivise, che non è uno, nel senso degli individui che
contiene, e tanto meno, nella stesso senso è due o più, non è niente di misterioso: è in
esso che abitano, a prescindere da ciò che ne diciamo, la nostra vita, la nostra scienza e
la nostra filosofia.”81
In entrambi i casi l’ontologia si presenta “decapitata” in senso esperienziale (se si
vuole “fenomenologico”); non si tratta di un ontologia husserliana, come tentativo di
cogliere descrittivamente il significato dell’esperienza in relazione alle singole “regioni”
di oggetti. Al contrario, quello che questi autori perseguono, è un incessante movimento
di interrogazione dell’Essere nelle sue esperienze grezze, in quella trama
“precateogoriale” che è carne delle cose e del visibile, che li fodera, li sostiene e li
alimenta e che ne rappresenta la possibilità e la latenza.
Al lavoro di Merleau-Ponty Dufrenne guarda in modo esplicito e programmatico,
tenendone sempre presente la lezione soprattutto relativamente ai temi di percezione,
coscienza percettiva e intenzionalità fungente. Sono infatti questi tre degli elementi
peculiari, cardini dell’ontologia come della prospettiva antropologica di Merleau-Ponty
che Dufrenne mutua dichiaratamente.
È qui, così come nella commistione con altre discipline extrafilosofiche che
l’autore programmaticamente non rifugge, che si può reperire un punto di contatto
peculiare e significativo con le istanze che altrove, teoricamente e geograficamente, si
andavano affermando.
81
Ivi, p. 136.
42
Ci si riferisce in particolare a quella disciplina che, sotto l’etichetta
significativamente troppo ampia di antropologia filosofica, ha fatto la sua comparsa
ufficiale nella Germania negli anni Venti del secolo scorso.
I punti di tangenza tra la riflessione dufrenniana, nonché l’estetica in generale, e i
temi dell’antropologia filosofica sono molteplici e formano una costellazione teorica di
alcuni degli sviluppi più interessanti di temi centrali a entrambi gli orizzonti.
Prima di riservare spazio a tali incroci, sarà opportuno gettare un sintetico sguardo
sull’evoluzione storica dell’antropologia filosofica, così da intravedere quali percorsi
l’hanno introdotta e cercare di comprenderne il più efficacemente possibile le questioni,
le loro linee di sviluppo e la metodologia di indagine.
1.2 Antropologia filosofica: lineamenti storici
Se è nel Novecento che l’antropologia assume i caratteri che la portano a
rispondere ad esigenze in sintonia con quelle filosofiche, tanto da influenzare la
definizione di un settore di essa come antropologia filosofica, è però nel Settecento che
affondano le sue radici storiche, nello stesso humus e in quell’orizzonte di indagini e
interrogativi che, sotto aspetti altri ma non discordanti, conduceva altrove alla nascita
dell’estetica.
Dedicheremo ora alcuni cenni alle condizioni storiche che l’hanno introdotta e ne
hanno permesso di delineare le caratteristiche teoriche, anche se esse, come si mostrerà,
si intersecano di frequente e anzi si sovrappongono a quelle dell’antropologia tout court.
Vedremo anche come tali condizioni storiche abbiano un punto di passaggio
fondamentale nella meditazione kantiana e come proprio grazie a quest’ultima sia
possibile rilevare un punto di incontro fondamentale tra gli interessi che animano
l’antropologia filosofica e quelli che invece vivono nell’estetica.
43
Come riflessione filosofica che mira a delineare una immagine unitaria di
quell’essere complesso che è l’umano, riflettendo sui risultati delle scienze che in modi
e con strumenti differenti si occupano dell’uomo, l’antropologia filosofica mira a porsi
come:
Scienza fondamentale dell’essenza e della costruzione essenziale dell’uomo; una
scienza fondamentale del suo rapporto con i regni della natura (regno anorganico, regno
delle piante, regno degli animali) e con il fondamento di tutte le cose; una sicenza della
sua origine metafisica essenziale e del suo inizio fisico, psichico e spirituale nel mondo;
delle forze e potenze che lo muovono e che egli muove; una scienza delle tendenze e
delle leggi fondamentali del suo sviluppo biologico, storico-spirituale e sociale, tanto
delle possibilità essenziali di questo sviluppo quanto delle sue effettualità. È qui
contenuto il problema psico-fisico anima-corpo e il problema poetico-vitale. Soltanto
una tale antropologia sarebbe in grado di dare un fondamento ultimo di natura filosofica
nonché, insieme, scopi della ricerca sicuri e definiti, a tutte le scienze che hanno a che
fare con l’oggetto “uomo”, alle scienze naturali e mediche, a quelle che si occupano
della preistoria, alle scienze etnologiche, a quelle storiche e a quelle sociali, alla
psicologia normale e alla psicologia evolutiva nonché alla caratterologia.82
Intenti apparentemente enciclopedici, che mostrano chiaramente un’esigenza forte,
alimentata dalla capillarizzazione scientifica che ha caratterizzato il grande sviluppo del
ventesimo secolo. In seguito alla inedita moltiplicazione e differenziazione delle scienze
relative ai diversi aspetti dell’uomo, ed al loro potenziamento esplosivo, infatti, ha preso
vita un tipo di approfondimento rispetto all’umano che ha costantemente privilegiato
l’analisi e la delimitazione di singole aree di interesse, a scapito della considerazione del
fenomeno umano nella complessità della sua unità.
Proprio alla complessità unitaria del fenomeno umano, invece, si è rivolta quella
nuova disciplina che, assegnando alla questione un posto centrale e principale, si
82
M. Scheler, Uomo e storia, in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Guida, Napoli 1988, p. 257
44
proponeva di affrontarla secondo criteri e con strumenti indipendenti rispetto agli altri
problemi filosofici.
Quella che si manifesta nei primi decenni del Novecento è dunque una forma di
interrogazione del fenomeno umano che si pone il compito e il dovere di tenere conto
tanto dei risultati offerti dalle scienze quanto delle istanze che, al modo della filosofia,
conducevano a ribadire un’autorità disciplinare teorica nella complessità delle
caratteristiche dell’oggetto in questione.
Le risposte vengono dunque cercate secondo strade indipendenti, e solo in parte
parallele, da ogni logica costruzione di filosofie già compiute; strade che spesso
incrociano quelle delle scienze e che al grado di oggettività delle scienze, almeno delle
scienze umane, aspirano.
Prima ancora di essere filosofica, infatti, la disciplina dell’antropologia tout court
ha dovuto ritagliare il proprio spazio d’azione all’interno delle scienza umane andando a
configurarsi sì come una di esse, ma giungendo anche a esserne il minimo comune
denominatore, l’ambito da cui tutte le altre partono e ritornano.83
La disciplina dell’antropologia filosofica ha continuato a condividere questo
orizzonte, integrandolo però con le prospettive mutuate da quella sorta di “nuovo
umanesimo”
che
le
correnti
esistenzialistiche
e
fenomenologiche,
nonché
neoidealistiche e spiritualistiche, aprivano. Uno degli impulsi più significativi è stato
poi senza dubbio rappresentato dalla crisi dell’ideologia positivista e scientista e dalla
reazione da parte della filosofia all’invasività totalizzante e fortemente tendente alla
frammentazione e specializzazione che caratterizzava le scienze.
83
La questione del rapporto con le altre scienza umane, che riguarda l’antropologia tanto nella sua
accezione scientifica quanto in quella filosofica, è uno dei nodi teorici su cui si divide la sua storia. Per
semplificare si può ricordare la bipartizione caratteristica tra l’accezione dominante in Germania e quella
dominante in Francia e nei paesi anglofoni. La prima vede l’antropologia come studio dell’uomo da un
punto di vista principalmente biologico da mettere in relazione sul piano morfologico e fisiologico con le
altre specie; la seconda privilegia piuttosto le caratterisitiche comuni all’etnologia come ricerca sulle
culture primitive e studio delle relazioni che hanno legato l’uomo e l’ambiente dai punti di vista culturale
e sociale. Cfr. a questo proposito C. Tullio Altan, Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo,
Bompiani, Milano 1993 e F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati-Boringhieri,
Torino 1992.
45
In nessun’altra epoca, come ha puntualizzato Maria Teresa Pansera84, le concezioni
sull’essenza e l’origine dell’uomo sono state così incerte, indefinite e molteplici nella
loro polisemanticità. “Noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto
completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso; in cui egli non sa più che
cosa è, ma nello stesso tempo sa anche che non lo sa.”85
Nel loro Le filosofie del Novecento86, Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari fanno
notare come la crisi dell’uomo e la frammentazione della sua autoimmagine si possano
in parte far derivare proprio da quegli sviluppi scientifici con i quali si erano raggiunti i
maggiori successi: l’astronomia copernicana, che aveva rimosso la terra, e con essa
l’Uomo, dal centro dell’universo87; l’evoluzionismo darwiniano, con cui all’Uomo
84
M. T. Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori Editori, Milano 2001, p. 3.
M. Scheler, Uomo e storia, cit., p. 257-258.
86
G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002.
87
Il riferimento ai mutamenti insorti in seguito alla cosmologia copernicana è più denso di conseguenze e
significati rispetto all’antropologia, e a quella filosofica in particolare, di quanto si potrebbe a tutta prima
presupporre. Il mondo copernicano è, infatti, quell’universo in cui, per la prima volta, viene messa a
questione in modo esplicito la correlazione tra la concezione dell’astronomia e la coscienza che l’uomo ha
di sé. L’uomo copernicano, come tematizza approfonditamente H. Blumenberg (cfr. H. Blumenberg, Die
Legitimität der Neuzeit, F.a.M., Suhrkamp 1974, tr. it. C. Marelli, La leggitimità dell’età moderna,
Marietti, Genova 1992, pp. 133-240 e pp. 372-489), ha preso coscienza della propria perifericità
nell’universo che si presenta a lui nella propria imprescrutabile immensità, inchiodandolo ad una ormai
impossibile identità tra ciò che vede e ciò che sa, tra evidenza visiva e realtà, natura e teoria. Secondo le
metafora che Blumenberg teorizza, “geocentrismo ed eliocentrismo, ovvero acentrismo, diventano
diagrammi dai quali si deve poter derivare un indice per capire cosa ci stia a fare l’uomo nel mondo.
Questa direzionalità del nostro autointendimento ad opera della metafora cosmologica è diventata un
topos della nostra attuale critica della situazione contemporanea, e si è così smarrita di gran lunga la
differenza che c’è fra l’interpretazione metaforica di un risultato teoretico e l’assunzione della sua
causalità a esplicazione di qualcosa da esso e con esso. Il mondo copernicano diventa la metafora per
l’operazione critica che toglie legittimità al principio della teleologia, alla ‘causa finalis’, nell’insieme
delle cause aristoteliche; e non c’è dubbio che solo la metafora copernicana fece esplodere primamente il
pathos della deteologizzazione, che solo su di essa riposa una nuova coscienza di sé legata all’eccentricità
cosmica dell’uomo”. (H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Buovier, Bonn 1960, tr. It.
M. V. Serra, Paradigmi per una metaforologia, Mulino, Bologna 1969, pp. 139-140). O ancora, come
scrive A. O. Lovejoy: “Solo dopo che la terra aveva perduto il suo monopolio, i suoi abitanti
cominciarono a scoprire il proprio interesse maggiore nell’andamento generale degli avvenimenti
terrestri, e giunsero a parlare finalmente delle loro vicende effettive e potenziali – per quanto il complesso
di esse per comune ammissione non costituisse se non un episodio momentaneo nelle infinite vicissitudini
del tempo e non avesse altra scena se non una minuscola isola in un cosmo incommensurabile e
incomprensibile – come se il destino generale dell’universo dipendesse interamente da esse o in esse
raggiungesse il suo compimento.” (A. O. Lovejoy, The great chain of being. A study of the history of an
idea, Harvard Univ. Press 1936 tr. it. L. Formigari, La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano
1981, pp. 150-151). A partire dal XVI secolo non c’è campo umano che possa sottrarsi ai segni di questo
epocale cambiamento epistemologico dove il concetto stesso di autoconservazione della specie, non più
rassicurato dal calore della certezza divina, viene messo in discussione reclamando, di conseguenza, la
massima attenzione sull’autoconoscenza della specie e, prima ancora degli individui. “Tratto caratteristico
85
46
veniva sottratto ogni predominio nei confronti degli altri viventi; infine, la psicoanalisi
che, con il riconoscimento dell’importanza delle componenti inconsce della vita, aveva
reso persino il governo della coscienza appannaggio irraggiungibile.88
Se da una parte, inoltre, il massimo della frammentazione proveniva dall’ambito
scientifico, dall’altra le scienze umane non offrivano pacificazione migliore. Tutte
(psicologia, etnologia, sociologia ecc.) tendevano a riunire i propri esiti empirici sotto
l’egida di un’interpretazione unificante ed armonizzante.
Da una situazione storica e teorica di questo tipo deriverebbe quindi quel bisogno
così acuto di un intervento filosofico che, senza addentrarsi in metafisiche visioni
lontane dalle istanze della scienza, sappia ricomporre in unità la figura umana.
L’antropologia filosofica arriva a presentarsi dunque come quella branca del sapere
che elabora i dati forniti dalle singole scienze che riguardano l’uomo senza tuttavia
mirare a porsi né come loro supporto né come loro pari. “Ponendosi al crocevia tra
filosofia, scienze della natura e scienze dell’uomo, l’antropologia filosofica vuole
riallacciare i fili di un discorso che aiuti l’essere umano a recuperare la comprensione di
dell’età nuova fu l’affermazione della vita; l’uomo e i suoi rapporti naturali con l’ambiente divennero il
centro dell’interesse. Vivere, far valere la propria volontà di potenza, godere la bellezza della vita e dei
riflessi di essa, la letteratura e l’arte: ecco il nuovo complesso di vita, che allora si presentò alla coscienza.
Di tutto ciò si ebbe il riflesso filosofico in un’ampia letteratura, che aveva per oggetto l’uomo, la
condizionalità fisiologica della vita dell’anima, la potenza degli affetti, i temperamenti, la diversità dei
caratteri negli individui e nei popoli, la fisiognomica e il rimanente corredo dei mezzi atti a far conoscere
i caratteri e infine le conseguenze che da questa scienza dell’uomo si potevano far derivare per la condotta
morale. (…) La letteratura che così si andava formando possiede la sua dottrina di scuola, costituita da
una nuova antropologia. Questa, a differenza della psicologia moderna, esamina lo stesso nucleo
sostanziale della natura umana, il nesso vitale, nel quale si esprimono il contenuto e i valori della vita, i
gradi evolutivi di tale espressione, i rapporti con l’ambiente e infine le forme individuali di esistenza per
le quali l’uomo si differenzia. (…) Il tratto più saliente di essa consiste nella mutata valutazione della
sensibilità umana nel campo della percezione e dell’affetto.” (W. Dilthey, “La funzione dell’antropologia
nella cultura dei secoli decimosesto e decimonono”, tr. it. G. Sanna in Id. L’analisi dell’uomo e
l’intuizione della natura, Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 210-218).
Notazioni su questo tema non mancano neppure nei più noti rappresentanti dell’antropologia filosofica.
H. Plessner afferma: “La svolta copernicana non è una semplice metafora. Nel suo segno sta tutto il
mondo moderno.” E ancora Gehelen scrive che il potenziale di autocomprensione offerto dall’immagine
cosmologica è un elemento antropologicamente costitutivo. Che per esempio l’uomo sia attratto da ritmi e
regolarità astrali la si deve a una sorta di risonanza “che è per così dire una specie di senso interno
dell’uomo per il proprio elemento costituzionale e risponde a ciò che nel mondo esterno presenta affinità
con tale propria costituzione: e se noi oggi parliamo ancora del corso degli astri, dell’andamento di una
macchina, questi non sono paragoni superficiali, bensì autoconcezioni di determinati tratti caratteristici
dell’uomo, oggettivati per il fenomeno di risonanza, dell’uomo che interpreta il mondo secondo la sua
immagine e viceversa se stesso secondo immagini del mondo.” (A. Gehelen, Der Mensch im technischen
Zeitalter, Rowohlt, Munchen 1957, tr. it. A. B. Cori, L’uomo nell’era della tecnica, Sugarco, Milano
1984, p. 25).
88
G. Fornero, S. Tassinari, op. cit., p. 1308.
47
se stesso e a identificare i tratti caratteristici della sua esistenza”89. La risposta
antropologica alla frammentazione dei saperi nonché dei livelli di realtà mette in campo
quindi una forma di reazione a un decentramento e una capillarizzazione ancor più
generali; al punto che il compito antropologico è stato definito come “interpretazione
filosofica dei risultati scientifici”90. Il riferimento all’empiria è sì centrale, senza tuttavia
che l’oggetto in questione sia costituito realmente ed esclusivamente dai dati empirici.91
Al contrario di quanto avveniva nell’antichità92 risulta impossibile basare qualsivoglia
ricerca sulle certezze che provengono da dicotomie rigide e accertate come quelle che
tradizionalmente tagliavano il mondo biologico, con la contrapposizione tra uomo e
animale, o il mondo politico, con quella tra libero e schiavo o tra uomo e barbaro.
In questo quadro disarticolato e frammentato si inserisce dunque la nascita di
questa disciplina che risente e anzi incarna essa stessa lo spirito del tempo da cui prende
vita, tanto da aver condotto a parlarne come di una “tendenza fondamentale” di
un’epoca. Stiamo parlando degli anni Venti, uno dei periodi più fervidi e intensi della
storia del Novecento: gli anni “dell’inestricabile incrocio di conservatorismo e
avanguardismo, di volontà innovativa e clima melanconico”93, gli anni della repubblica
di Weimar. Sono gli anni in cui si avvertono con maggior veemenza gli effetti dei
mutamenti epistemologici avvenuti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e
in cui essi si mischiano, con risultati imprevedibili, con crisi di tutt’altro genere come
quella sociale, politica e culturale94. “Grande è la ricchezza di un’epoca in agonia, di
89
Ibidem.
J. Habermas, Antropologia, in Aa. Vv., Filosofia, Feltrinelli, Milano 1966, p. 20.
91
Questo è un aspetto che avvicina significativamente l’antropologia all’epistemologia, dalla quale
tuttavia resta sempre ben distinta per quanto concerne le finalità: l’antropologia ha infatti di mira la
costituzione di un’immagine globale dell’uomo e non la delineazione di una logica e metodologia di
ricerca rigorosa come è per l’epistemologia.
92
Sull’antropologia antica cfr. R. B. Onians, The origins of european thought about the body, the mind,
the soul, the world, time and fate, tr. it P. Zaninoni, Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano
1998; M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari, donne all’origine della razionalità
scientifica, Saggiatore, Milano 1979; M. Vegetti, P. Manali, Cuore, sangue e cervello. Biologia e
antropologia nel pensiero antico, Episteme ed., Milano 1977; M. Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia
antica, Bollati-Boringhieri, Torino 1988; G. Reale, Corpo, anima, salute. Il concetto di uomo da Omero a
Platone, Cortina, Milano 1999.
93
M. Russo, La provincia dell’uomo, La città del sole, Napoli 2000, p. 158.
94
Benché la gran parte dei movimenti culturali legati al periodo di Weimar – espressionismo, architettura
funzionale, fisica della relatività, psicanalisi e psicologia del profondo, sociologia della conoscenza,
atonalismo ecc. – risalissero agli anni prebellici, fu a partire dagli anni Venti che essi: “penetrarono nella
coscienza popolare e cominciarono ad influire sull’atteggiamento della gente verso se stessa e verso il
90
48
una sorprendente epoca di confusione in cui si mescolano sera e mattina, negli anni
Venti.”95
La cultura e la filosofia sono significativamente segnate da due tipi di eco96: da una
parte il requiem spengleriano del Tramonto dell’occidente, dall’altra la preoccupata ma
mondo nel quale viveva. (…) Fu quindi soltanto negli anni Venti che vennero organizzate speciali
esposizioni di artisti moderni e che i visitatori dei musei si abituarono a vedere i pittori rompere con tutti i
canoni formalistici del passato. La cultura di Weimar fu prevalentemente moderna anche perché quelli
che la crearono sentivano di appartenere a una nuova età e credevano di vivere anche loro in una nuova
epoca nella quale tutto doveva essere creato di nuovo. La guerra aveva scavato un enorme abisso tra loro
e il passato, le cui istituzioni, tradizioni e valori erano stati distrutti senza rimedio, e sentivano tutto
questo come una liberazione e una sfida. (…) Questa sensazione dell’inizio di qualcosa di nuovo,
quest’ansia di essere diversi e di fare le cose in maniera diversa fu la caratteristica dello stile degli anni
venti. (C. Craig, Germany 1866-1945, Oxford Univ. Press, 1978, tr. it. O. A. Merla, Storia della
Germania 1866-1945, Ed. Riuniti, Roma 1983, p. 509). A molti elementi della modernità (tecnica,
democrazia, avvento delle masse, assenza di assoluti) si cercò di dare una risposta, e non un rifiuto
inappellabile, per mezzo di nuovi strumenti teorici e artistici. Tale “modernismo” si accompagna però a
una diffusa “ansia di totalità”, la spinta regressiva che trovava appagamento in parole come ‘popolo’,
‘organismo’, ‘impero’, ‘comunità’, ‘capo’ fino a rendere questa ansia da totalità intrisa d’odio. “Il mondo
politico, e talvolta anche il privato, fu un mondo paranoico, fitto di nemici: la meccanizzazione
disumanizzante, il materialismo capitalista, il razionalismo ateo, una società sradicata, il cosmopolitismo
ebreo e il grande mostro che tutto divora, la città.” (P. Gay, Weimar culture. The outsider as insider,
1968, tr. it. M. Merci, La cultura di Weimar, Dedalo, Bari 1978, p. 132). Il tratto più caratteristico di
questa collisione tra ‘ansia di totalità’ e coscienza del nuovo risulta essere un certo distacco,
quell’atteggiamento ironico immortalato da Musil e professato da Thomas Mann, il cui figlio Klaus,
peraltro, ebbe a scrivere “noi siamo una generazione che ha, per così dire, in comune una sola cosa: la
perplessità. Infatti non abbiamo trovato ancora uno scopo per il quale unirci in uno sforzo comune, anche
se tutti partecipiamo alla ricerca di esso” (cit. in G. Craig, op. cit., p. 516). Plessner stesso scrive a
proposito degli artisti: “Per questi uomini che perseguivano l’opera rivoluzionaria prima della guerra, in
un’epoca di trasformazione, era sopravvissuto soltanto l’atteggiamento ironico verso una società già in sé
dissestata ma non ancora crollata. Ciò si manifestava nella tendenza alla sperimentazione e al controllo
razionale delle premesse – tendenza finora tenue e del tutto secondaria – del lavoro letterario,
rappresentativo, architettonico e musicale. Schonberg, Brecht, Klee, Musil, Gropius mettono in evidenza
questa nuova serietà distanziandosi ironicamente dalla realtà, che aveva assunto in sé e superato la cultura
formalistica del tardo romanticismo della rivoluzione etico-estetica intorno al 1900. Questa serietà era
nata dal fuoco della delusione, dell’umiliazione nazionale e umana, dalla disperazione e dal definitivo
disincantamento, dal ferimento e dalla rivolta, questa volta non più soltanto artistica bensì dell’uomo
stesso. (H. Plessner, La leggenda degli anni venti, in Al di qua dell’utopia, cit. pp. 100-101). Cfr anche
W. Laqueur, Weimar. A cultural history, Weidenfeld a. Nicolson, London 1974, tr. it. L. Magliano La
repubblica di Weimar, Rizzoli, Milano 1979 e J. Willet, The new sobrietà. At and politics in the Weimar
period, Thames a. Hudson, London 1978.
95
E. Bloch, Erbschaft unserer Zeit, (1935), tr. it. L. Boella, Eredità del nostro tempo, p. 5.
96
Due, senza considerare una delle posizioni più dense. È opportuno ricordare, infatti, per l’assoluta
importanza dell’impatto generato in seno alla cultura dell’epoca e successiva, che è su questa scena che
irrompe, nel 1927, Heidegger con Essere e tempo. M. Russo (op. cit., p. 161) rileva che, nonostante la
forza innovatrice, dimostrata appunto dall’immediato successo riscosso, tale opera fu da molti recepita
come una fondazione dell’antropologia, o comunque come un’opera da inscrivere nella dominante
inclinazione antropologica della filosofia recente. In fondo Heidegger sembrava caduto vittima di uno
stato di cose che egli stesso ha saputo perfettamente diagnosticare: “Oggi la parola ‘antropologia’ non è
più da gran tempo il semplice nome di una disciplina, ma indica la tendenza fondamentale della posizione
attualmente assunta dall’uomo sia rispetto a se stesso sia rispetto alla totalità dell’ente. Secondo questa
posizione fondamentale, si ritiene di conoscere e di comprendere qualcosa solo quando si sia trovata una
49
fiduciosa ridiscesa alle fonti della “costituzione originaria del senso” che Husserl
progetta nella Crisi delle scienze europee. Mentre ancora vive l’influsso neokantiano, si
fa strada con acutezza il problema della storia97, si acclimata la filosofia della vita e
viene applicato sempre più di frequente, con rigore variabile, il metodo
fenomenologico.98
spiegazione antropologica al riguardo. L’antropologia non cerca soltanto la verità intorno all’uomo, ma
pretende di stabilire che cose saignifichi, in generale, la verità.” (M. Heidegger, Kant una das Problem
der Metaphysik (1929), tr. it. M. E. Reina, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981,
p. 181). A parte ogni eventuale affinità, è al passo seguente che si imputa generalmente la causa
dell’equivoco e della impossibile sovrapposizione del pensiero di Heidegger con qualsivoglia tradizione
antropologica: “l’analitica dell’Esserci non pretende di offrire un’ontologia completa dell’Esserci,
ontologia che deve essere certamente costruita se qualche cosa come un’antropologia ‘filosofica’ deve
poggiare le basi su qualcosa di filosoficamente sufficienti. In vista di un’antropologia possibile o della sua
fondazione ontologica, l’interpretazione che segue non offre che alcuni frammenti, anche se tutt’altro che
inessenziali.” (M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1978, p.
72). Per un quadro della ricezione di quest’opera in quegli anni si rimanda a C. Strube, Kritik und
Rezeption von ‘Sein und Zeit’ in den ersten Jahren nach seinem Erscheinen, in “Perspektive der
Philosophie”, 9, 1983, pp. 41-67, in cui è interessante vedere che essa, mentre per tutto finalmente rompe
in modo decisivo con la filosofia ‘teoreticistica’, avvicinandosi alla filosofia della vita e all’antropologia,
viene da perte di queste ultime criticata perché ancora troppo formale, universalizzante e finto concreta.
Del resto, nonostante la sempre rimarcata differenza, lo stesso Plessner rileva: “Sulla portata relativa ad
una critica radicale di tutta la metafisica fino ad oggi e alla rifondazione dell’ontologia si deve dare un
giudizio scettico. Ma come paradigma di una nuova dottrina dell’uomo Essere e tempo non ha ancora
esaurito il suo ruolo. Ha dato un esempio, e rinvia, traversando il vincolo che lo lega all’epoca in cui è
sorto, ben oltre la sua epoca.” (H. Plessner, Deutsches Philosophieren…, cit., p. 161). La critica
heideggeriana all’antropologia era comunque di vecchia data, iniziata già in occasione del corso del ’23,
Ontologie – Hermeneutik der Faktizitat (tr. it. G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, Guida,
Napoli 1988, p 29 e segg.) in cui il bersaglio polemico era Scheler.
97
È naturalmente all’opera spengleriana che si deve la ripresa programmatica del problema della storia.
Come scrisse Plessne: “Non più gli eventi, non le prospettive, appartenenti a essi, di speranza e paura, di
tradizione e attesa, collegano il filo della storia. Con la relativizzazione delle norme, dei valori e degli
ideali, essa si disfa, lasciando come residuo una determinazione dell’essere umano altrettanto puramente
formale quanto fatale: la sua storicità. Questa può significare tutto, ma per se stessa non significa nulla. Il
successo di Spengler, per quanto affettivamente condizionato dalla situazione di allora (la nostra sconfitta
come parte di un generale declino, anche dei vincitori), aveva ragioni più profonde. Innanzitutto, il
proprio mondo perde gravità nella coscienza di una relatività globale, che penetra spazio, tempo, concetti,
assiomi, valorizzazioni. (…) Ma poi, l’aspetto relativo acuisce l’autocoscienza, sottraendole la base
ritenuta ovvia nella vita quotidiana. Noi tutti crediamo di vivere in una natura indipendente da noi, la
quale possiede un suo fisso ordine. Facciamo affidamento nella ragione, negli imperativi della coscienza
morale e della bellezza, quasi parlassero a tutti gli uomini di tutte le epoche. Che così di fatto non sia, che
niente di ovvio, nessuna permanente base in temporale per tutte le epoche ci sia (le più elementari verità
dello spazio, della logica e della matematica comprese), risospinge l’uomo su se stesso, lo discopre a se
medesimo”. (H. Plessner, Deutches Philosophieren in der Epoche der Weltkriege (1953), cit. in M.
Russo, op. cit, p. 160).
98
Lo stesso Husserl non manca di fare riferimento alla situazione dell’epoca e alla posizione, in seno ad
essa, dell’antropologia filosofica: “Nell’ultimo decennio, com’è noto, si sta imponendo tra le nuove
generazioni della filosofia tedesca una crescente dedizione all’antropologia filosofica. La filosofia della
vita di Wilhelm Dilthey, un’antropologia sotto nuove vesti, esercita un grande influsso. Anche il
cosiddetto movimento fenomenologico è catturato dalla nuova tendenza. Si dice che soltanto nell’uomo, e
in ispecie in una teoria riguardante l’essenza del suo esserci concreto e mondano, risiederebbe il vero
50
Il clima generale che contraddistingue umori e pensieri è quello che è stato definito
da Menscheitsdammerung, descritto tanto chiaramente da Karl Jaspers in un testo,
Situazone spirituale del tempo (1931), divenuto paradigmatico:
Da più di mezzo secolo si è fatto questione della situazione spirituale del tempo;
ciascuna generazione ha risposto secondo le proprie circostanze. Ma se prima si
trattava di una riflessione di pochi, i quali avvertivano la minaccia del nostro
mondo spirituale, adesso, da dopo la guerra, ognuno si trova coinvolto in questa
questone. (…) Ci furono tempi in cui l’uomo avvertiva il suo mondo come un
mondo permanente, incastonato tra una scomparsa età dell’oro e una fine del
mondo promanante dalla divinità. A confronto con questi tempi, l’uomo è
sradicato, sapendosi collocato solo in una determinata situazione storica
dell’esser umano. È come se egli non potesse più sostenere l’essere. Noi
vorremmo penetrare il fondo della realtà nella quale stiamo; perciò è come se il
terreno ci sprofondasse sotto i piedi: giacché, andata
in frantumi
l’irrefrangabile unità, non vediamo che un mero esistere, da un lato, e la nostra e
altrui coscienza di questo esistere dall’altro. Noi non riflettiamo solo sul mondo,
ma anche su come viene concepito, e dubitiamo della verità di ogni concezione;
dietro ogni uità apparente dell’esserci e della coscienza di esso, scorgiamo di
nuovo la differenza tra mondo reale e mondo saputo. (…) Si è diffusa la
consapevolezza che tutto fallisce; non c’è nulla che non possa essere messo in
questione; niente di autentico riesce a comprovarsi; è un vortice infinito,
consistente nel reciproco inganno e nell’autoinganno attraverso ideologie. La
coscienza dell’epoca si separa da ogni essere e s’affaccenda con se stessa. Chi
pensa così sente se stesso come un nulla. La sua coscienza della fine è al tempo
stesso coscienza della nullità del suo proprio essere. La sradicata coscienza
dell’epoca è finita sottosopra. 99
Se questo è stato lo spirito del tempo, l’insieme mostrava con chiarezza tutti i suoi
elementi di criticità. L’epoca tutta è stata di fatti descritta come “nata sotto il segno del
fondamento della filosofia. In questo si ravvisa una necessaria riforma dell’originaria fenomenologia
della costituzione, una riforma solo attraverso la quale essa raggiungerebbe l’autentica dimensione
filosofica. Viene compiuto dunque un completo rivolgimento dell’atteggiamento fondamentale iniziale.
Mentre la fenomenologia originaria, maturatasi poi come trascendentale, respinge la partecipazione di
qualunque tipo di scienza dell’uomo al lavoro di fondazione filosofico, adesso dovrebbe valere invece il
contrario: la filosofia fenomenologica dovrebbe essere ricostruita in modo completamente nuovo a partire
dall’esserci umano. In questa discussione ritornano, in veste rinnovata, le vecchie contrapposizioni che
avevano agitato la filosofia dell’età moderna. Fin dall’inizio, la tendenza che tipicamente appartiene a
quest’epoca si esplica in due direzioni contrapposte: l’una in quella antropologica (o psicologistica),
l’altra in quella trascendentalistica. La fondazione soggettiva della filosofia, avvertita costantemente come
necessità, deve effettuarla senz’altro – così dice una parte – la psicologia. Dall’altra si esige una scienza
della soggettività trascendentale, completamente nuova, solo sulla cui base tutte le altre scienze, e dunque
anche la psicologia, andrebbero fondate filosoficamente.” (E. Husserl, Phanomenologie una
Anthropologie, in “Philosophy and phenomelogical research”, II, 1941-1942, p. 1).
99
K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, cit., pp.5-6, 15.
51
‘soggetto’”, di cui doveva probabilmente scontare tutti gli sdoppiamenti intrinseci:
soggetto e uomo, ‘io’ trascendentale e ‘io’ empirico.100
A questo si aggiunge la situazione tecnico-scientifica, cui abbiamo già accennato, e
le molteplici risposte che da tale ambito vengono date al problema uomo. “Quello che
esse hanno da offrire in positivo viene largamente superato dalla ulteriore entificazione
cui inevitabilmente riducono l’esistenza umana.”101 La ricerca si spinge verso
profondità inesplorate, dimensioni altre in cui ricompattare in un ordine nuovo quel
100
È lo stesso Plessner a proporre una lettura della filosofia dell’epoca, reputata esistenzialistica, o
metafisica, o autoscientista, nei termini di una reazione in cui ontologismo nichilistico, l’eroicizzazione
della finitezza e della singolarità apparivano piuttosto una fuga dalla crisi del tempo che un prenderne
solo distanza critica. La reazione sarebbe quindi stata sintomo evidente del suo stato di crisi. La lettura
plessneriana inserisce tale crisi nel quadro della defunzionalizzazione della filosofia, via via acuitasi
nell’età del capitalismo avanzato, di cui ci si riesce a fare un’idea esatta solo collegandola al ‘caso
Germania’. L’idea chiave, esplicitata da M. Russo (op. cit. pp. 165,166) è quella del ritardo storico che
affligge la storia tedesca: “quando nei secoli Sedicesimo e diciassettesimo le principali nazioni europee
avevano formato stati nazionali e sviluppato una concezione dello stato e della società civile, istituendosi
così una simmetria tra sviluppo politico-economico e coscienza sociale e culturale, la Germania era
frammentata in numerosi staterelli. Il ruolo di potenza unificatrice toccò pertanto – a fronte della religione
del lavoro e della verità interiore – a intellettuali e in particolare filosofi. Ma ad un’unificazione solo
concettuale, cui fa riscontro la verità coscienziosa del singolo, non corrisponde alcuna unità reale né una
effettiva coscienza politica. L’occasione per la formazione di una cosciente Zivilisation (che comporta
un’accettazione dell’anonimia, dell’estraniazione, della convenzionalità, dell’abilità diplomatica, proprie
della sfera pubblica, sfera della superficialità), da potersi vivere senza scissioni schizofreniche, mancò e
almeno fino alla catastrofe nazista tale mancanza non poté essere più recuperata. Lo scompenso tra
Kultur e Zivilisation è l’emblema del ‘ritardo’, del dislivello endemico della storia tedesca; grandezza e
miseria della Germania cominciano qui. Con l’unificazione bismarkinana e l’enorme crescita economica,
scientifica e industriale, la Germania si trovò – da idea di nazione senza nazione reale - ad essere una
“grande potenza senza idea di stato”, uno stato cioè dove la potenza reale è tutto. L’importante ruolo
‘formatore’ degli intellettuali – che spiega non solo la straordinaria ricchezza della filosofia tedesca, ma la
sua ‘serietà’ esistenziale, la ‘missione’ vitale di cui si sentiva investita – viene sminuendosi, sostituita
com’è dal meccanismo di produzione e dall’industrializzazione della scienza. Il controllo sulla politica e
sullo stato, sia pure nella forma irreale della speculazione e della letteratura, viene meno; i tentativi di
inserirsi, di esercitare una funzione diretta di indirizzo vengono troppo tardi rispetto alle modificazioni in
atto. L’assenza di una reale identificazione con lo stato-nazione, dunque di una partecipazione cosciente
alla cosa pubblica, spiega il bisogno di trovare “radici” altrove, bisogno che sfocia da un lato nella
mitizzazione del passato eroico, nell’ideologia del popolo e della razza, nell’enfatizzazione comunitaria.
Dall’altro, per gli intellettuali che non condividono queste posizioni, si pone il problema di una
ridefinizione di ruolo, compressi come sono per un verso nella Zivilisation industriale, dall’altro dalle
masse ‘incolte’ ma sempre più dominanti proprio in virtù dello sviluppo economico. Il più delle volte la
soluzione risulta essere il recupero di una autentica dimensione individuale (decisionismo esistenziale), il
ripristino in varie forme di una sovradeterminazione dell’essenza della filosofia. L’acutezza con cui venne
avvertita l’irrappresentabilità della totalità e di un’immagine unitaria dell’uomo fu pari solo alla forza con
cui prima era stata costruita. Il radicalismo critico della filosofia tedesca andò di pari passo con la propria
progressiva disintegrazione e defunzionalizzazione sociale. Lo stesso processo di crisi non fu così
virulento in quei paesi dove la filosofia non era stata investita (proprio perché il ceto che la esercitava era
parte effettiva di una società meno disarticolata) di tanta significatività e da lungo tempo s’era abituata ad
una disincantata osservazione analitica del tipo ‘uomo’ (quel disincanto scettico che la ‘profondità’
germanica dileggiava come ‘superficialità’).”
101
M. Russo, op. cit., p. 168.
52
mondo improntato alla più disorientante fluidificazione dell’esperienza. Persino delle
correnti artistiche, in particolare dell’espressionismo, si arrivò a scrivere come
dell’unica forza capace di attingere una “nuova immagine dell’uomo” in mezzo al “caos
di distruzione della realtà”102. E in mezzo a tale caos neppure il ceto intellettuale ed
accademico si sentiva in grado di svolgere quella funzione d’orientamento e formazione
che precedentemente aveva incarnato secondo il modello di Humboldt, fondatore
dell’università di Berlino.103 “Buona parte della propria crisi di stato si trasfuse in una
diagnosi di universale crisi della cultura; il tema della crisi divenne una specie di rituale,
una moda, un’ossessione, resa sublime solo dalla talora stupefacente fora analitica e
diagnostica.”104 Sul piano filosofico il contraccolpo si manifesta nel radicalismo dei
nuovi progetti filosofici nel cui solco l’antropologia filosofica si insedia proprio
rispondendo, dopo la sparizione di ogni certezza del soggetto, a questa sorta di appello
perché l’”uomo” potesse essere “salvato”. E il primo passo verso questa redenzione si
concretizzò nel ricondurre ogni disperso spaesamento a una singola domanda, che
l’antropologia filosofica ha raccolto e direttamente affrontato: chi è l’uomo?
“Abbattuti gli idoli, abbattuti i ‘megaracconti’, abbattuta persino, come in una sorta
di vendicativo genium malignum cartesiano, la consistenza della realtà, la compattezza
dell’esperienza, ci si chiese se e cosa resta dell’uomo medesimo. L’uomo senza qualità
è fatto di qualità senza l’uomo; di questo antico personaggio sembrano esistere ormai
solo più i sintomi.”105
102
G. Benn, Expressionismus (1934), tr. it. a c. di L. Zagari in Id., Lo smalto del nulla, Adelphi, Milano
1992, pp. 152-153. “Realtà, demonico concetto proprio dell’Europa: felici solo quelle epoche e
generazioni in cui ce n’era una indubitabile, quale profondo primo tremito del Medioevo al dissolversi di
quella religiosa, quale fondamentale scosa ora, dopo il 1910, al frantumarsi di quella scientifica, divenuta
‘reale’ ormai da quattro secoli. Nuova realtà, perché la scienza potè evidentemente distruggere solo quella
antica, l’uomo guardò dentro di sé e dietro di sé. Fuori si dissolsero i più antichi resti della realtà, e ciò
che rimase furono solo relazioni e funzioni. Dissoluzione della natura, dissoluzione della storia… persino
le forze più concrete come stato e società ormai impossibili da afferrare come sostanza, sempre solo il
funzionamento in sé e solo il processo in quanto tale…geniale psicologia della razza bianca: impoverita
ma maniacale, sottonutrita ma sovraeccitata; con venti marchi nella tasca dei pantaloni prendono le
distanze da Sils Maria e dal Golgota e si comprano le formule del processo funzionale. Questo fu il
periodo 1920-25, questo era il mondo votato al tramonto.”
103
Cfr. F. K. Ringer, Die Gelehrten. Der Niedergang der deutschen Mandarine 1890-1933, Klett, Stuttgart
1983, p. 229 e segg.
104
Ibidem.
105
M. Russo, op. cit, p. 173. Nella stessa sede si rimanda opportunamente alla seguente citazione: “Non
esiste più affatto l’uomo, esistono ancora solo i suoi sintomi. In questi cinquant’anni abbiamo visto strani
movimenti, l’estinguersi e l’accendersi di cose nuove, soprattutto: la liquidazione della verità e un porre le
53
Così lo stesso Scheler:
Sicchè noi possediamo tre antropologie, una scientifica, una filosofica, una
teologica, le quali non si curano l’una dell’altra – un’idea unitaria dell’uomo,
però, non la possediamo. Inoltre la crescente moltitudine delle scienze
specialistiche che s’occupano dell’uomo, nasconde, per quanto preziose esse
possano essere, l’essenza dell’uomo più che non illuminarla. Se si pensa poi che
i tre menzionati gruppi di idee tradizionali oggi sono notevolmente scossi, in
particolare la soluzione darwinistica del problema dell’origine dell’uomo, si può
allora dire che l’uomo mai, in nessuna epoca, è diventato così problematico a se
stesso. (…) Nonostante, dunque, la ricchezza delle informazioni di cui
disponiamo, l’autoproblematicità dell’uomo ha oggi raggiunto un massimo
sconosciuto alle altre epoche.106
In definitiva si può dire che è una forma di esasperata autoproblematicità
dell’uomo a dar vita, in questo preciso momento epistemico, tanto allo sfondo filosofico
dell’antropologia quanto, viceversa, allo sfondo antropologico della filosofia107. E come
nota Scheler:
Posso constatare con soddisfazione che oggi i problemi di un’antropologia
filosofica sono addirittura diventati in Germania il punto centrale di tutta la
problematica filosofica, e anzi ben oltre l’ambiente filosofico, biologi, medici,
psicologi e sociologi, lavorano ad una nuova immagine della costituzione
essenziale dell’uomo.108
Il riferimento ad esponenti di altre discipline, che abbiamo già visto caratterizzare
l’indirizzo disciplinare in questione, assume un connotato di ulteriore significatività nel
momento in cui di esso si comprenda la portata all’interno di una ricerca intellettuale
fondamenta dello stile. Non bastano più le interpretazioni per andare avanti, il destino lavora, la
trasmutazione si volge dalla nostra parte. Fra poco le luci di bengala della crisi e gli articoli di terza
pagina sui fondamenti delle cose non saranno altro che pascolo per gli struzzi o una steppa sulla quale
corrono le volpi. Ottimismo e pessimismo si abbracceranno come due giovani nella fornace di fuoco, e le
loro ceneri un vento mongolico le disperderà. Scappatoie non ce ne saranno più, i tentativi di
ricostituzione del centro perduto avranno l’effetto di un movimento di riforma, come il Mazdaznan.” (G.
Benn, Lo smalto…, cit. pp. 264-265).
106
M. Scheler, Die stellung der Menschen in Kosmos (1928), in Id. Schriften zur Anthropologie (a c. di
M. Arndt), Reclam, Stuttgart 1994, pp. 126-128.
107
“Quando la potenza della unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto
il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno
dell’antropologia.” (G. W. F. Hegel, Primi scritti critici, Mursia, Milano 2006, p. 15).
108
M. Scheler, Stellung, cit., p. 126.
54
che cerca altresì i mezzi per tematizzare e affrontare aspetti come l’essere organico,
l’espressività corporea, l’emozionale, la fantasia, l’inconscio, insieme alle loro
manifestazioni culturali. E infatti, in maniera quasi inedita in campo filosofico,
l’intellettuale volge in quegli anni lo sguardo alla vita corporea.109
Sulla base di ciò le letture del fenomeno antropologico hanno seguito
caratterizzazioni quali: efficiente visione del mondo, filosofia finalmente scientifica,
ultimo territorio rimasto alla filosofia o anche reazione filosofica alle scienze.
“Si trattava in quest’ottica di un’operazione quasi anamnestica: all’uomo in crisi,
frantumato, deraciné, all’uomo invaso dal suo stesso mondo, dagli incubi notturni e
dalle nevrosi quotidiane, all’uomo dal volto cancellato, fu riofferto innanzitutto il
perimetro della sua immagine fisica, e, con essa, una serie di mappe per ritessere il filo
dell’identità; mappe per rivivere l’interno, la singolarità autentica e insostituibile, e
mappe per l’esterno, per ricordare che alla fin fine pur dietro il caos e l’estraneazione, a
109
H. Plessner si esprime a questo proposito così: “Ogni epoca trova la sua parola redentrice. La
terminologia del diciassettesimo secolo culmina nel concetto di ragione, quella del diciottesimo nel
concetto di sviluppo, quella del presente nel concetto di vita. Ciascuna epoca indica in questo modo
qualcosa di diverso; ‘ragione’ fa risaltare l’intemporale e l’universalmente vincolante, ‘sviluppo’ ciò che
incessantemente diviene e si accresce, ‘vita’ ciò che demonicamente gioca, che inconsciamente crea. E
tuttavia le epoche vogliono cogliere tutte il medesimo; per esse l’autentico significato delle parole diventa
solo lo strumento, a non dire il pretesto, per rendere visibile quell’ultima profondità delle cose, senza la
coscienza del quale ogni umano cominciamento resta senza sfondo e insensato. Ora, che a un’epoca
proprio questo concetto, e nessun altro, venga come simbolo o pretesto, ha motivi precisi. Come
redentrice una parola agisce solo se l’epoca pronuncia in essa, al tempo stesso, la propria giustificazione e
la propria sentenza. Il grande momento per l’odeologia della vita venne con la caduta dell’ottimismo
progressistico, con la stanchezza della civiltà, con la disperazione riguardo al senso creatore del
socialismo. Un’epoca profondamente rassegnata cominciò a vedere come ideologia del capitalismo
avanzato in espansione ciò che finora era valso come incrollabile possibilità: sviluppo e progresso di tutta
l’esistenza organica e dell’agire umano. Con tale risveglio venne anche la nostalgia di un nuovo sogno, di
un nuovo incantamento. Solo, da che cosa si sarebbe lasciata incantare un’epoca diventata così sospettosa,
scettica e relativistica? Per una trascendenza in grande stile si era diventati troppo razionali e coscienti,
per l’immanenza troppo mondani, troppo avventurieri. L’uomo lo si vedeve nella sua condizionatezza
storica ed evolutiva. Al tempo stesso, però, natura e storia avevano esaurito la loro forza persuasiva sugli
animi, da quando si credette di essere arrivati a scoprire che le loro leggi e le grandi linee della loro
configurazione derivavano dal potere creatore dello spirito umano. Incantare poteva solo qualcosa di
indiscutibile, coglibile al di qua di ogni ideologia, di dio e dello stato, della natura e della storia, e dalla
quale forse le ideologie stesse sorgono, venendone però di nuovo inghiottite: la vita. In questa parola
l’epoca percepisce la propria forza, il proprio dinamismo, la propria capacità di gioco, la sua gioia per la
demonicità del futuro ignoto – e le proprie debolezze, la propria mancanza di originarietà nel vivere
dedizione e capacità; con questa nuova formula magica, che fin da Nietzsche esercita il suo effetto,
l’epoca di svolge e si perseguita. Una filosofia della vita ancque, originariamente con la missione di
affascinare la nuova generazione – come ogni generazione è stata tenuta nella fascinazione di una
filosofia – ora però chiamata a condurre questa alla conoscenza e liberarla così dall’incantamento. (H.
Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, tr. it. I gradi dell’organico e dell’uomo, cit., pp. 34).
55
ciò che sfugge al controllo, dietro alla storia impazzita, resta sempre il personaggio
uomo, la natura umana, teomorfica, ontologica, o storica o biologica che fosse.”110
È dunque in questo contesto che si radicano le meditazioni dei tre pensatori111 ai
quali si ascrive storicamente e teoricamente la genesi ufficiale dell’antropologia
filosofica: Max Scheler 112, Arnold Gehelen113 e Helmut Plessner114.
110
M. Russo, op. cit., p. 183.
Sono stati rilevati tre motivi particolari del perché essi abbiano ritenuto di non avere nulla alle loro
spalle. In primo luogo l’aspirazione, tutta umana, alla paternità assoluta, che ha portato anche ad alcuni
ungenti commenti come quello secondo cui “la continuità dell’antropologia filosofica stava a quanto pare
nel fatto che i suoi autori avevano copiato gli uni dagli altri” (W. Lepenies, Wandel der
Disziplinkonstellationen in den Wissenschaften vom Menschen, Solaris, Innsbruck 1983, p. 70, cit. in M.
Pangallo, op. cit., p. 195). In secondo luogo, l’identificazione della filosofia con l’antropologia, dunque
dell’antropologia come una nuova forma ‘moderna’, ‘scientifica’, unitaria e sistematica della filosofia, il
cui compito risulta stare, essenzialmente, nel proporre un’immagine complessiva e ben fondata
dell’uomo. Infine, l’incapacità, che da quanto detto è conseguita, di potere e volere scorgere somiglianze
con tentativi precedenti. Detto questo, va comunque rilevato qualche avvertimento in questi autori di
predeccessori di cui tenere conto. Così Gehelen: “L’antropologia filosofica, o teoria dlel’uomo, non è una
scienza nuova. L’ultima opera di Kant portava il titolo di Antropologia (1798) e, sebbene questo vocabolo
sia stato utilizzato in misura crescente per indicare l’ultimo capitolo della zoologia, ossia della scienza
dell’uomo in senso fisico, la tradizione di una scienza filosofica di questo tipo non si è mai interrotta del
tutto, anzi si assiste a partire all’incirca dalla metà degli anni venti, ad un vivace sviluppo in diverse
direzioni.” (A. Gehelen, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, tr. it. G. Auletta,
Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, p. 83) Egli rileva inoltre (ivi, p. 192):
“Fino al XVII secolo non c’è un’antropologia filosofica, ma c’è, naturalmente, una teoria dell’uomo
all’interno della teologia. Qui si tratta espressamente di una scienza non empirica (…) la filosofia si è
emancipata dal vincolo con la teologia nel XVII secolo con Cartesio.” E Plessner: “L’antropologia
filosofica non è una scoperta dei nostri tempi. Una filosofia dell’uomo c’è sempre stata, se per ‘uomo’
non si intende una particolare formazione nel cosmo (e per antropologia una teoria di questa formazione
in considerazione del suo rapporto con l’essere, la sua posizione), ma l’orizzonte dei compiti assegnatici,
che sono stati visti – nelle diverse culture e spaziando su grandi distanze storiche – come peculiari
dell’uomo (…) Ce n’è d’avanzo per poter parlare di una storia della’antropologia filosofica. Solo non è
permesso dimenticare che essa è intrecciata con la storia delle scienze in generale, e in modo
particolarmente intimo con la storia delle scienze umane. (…) Ciò che per secoli s’era tenuto conneso,
tenuto insieme dai cardini dell’immagine teologica del mondo, si scinde esplicitamente, dopo che quei
cardini sono venuti meno. (…) A ben vedere nell’antropologia filosofica trova compimento l’intenzione
che per la prima volta nelle analisi dell’uomo del XVI e XVII secolo si rese visibile e, attraverso i grandi
inglesi e francesi del XVIII secolo, raggiunse il suo culmine in Kant.” (H. PLessner, op. cit., pp. 33-34). E
ancora, altrove, lo stesso Plessner sottolinea che “l’esigenza di un’antropologia filosofica è il tardo
riflesso di un lungo cammino percorso dal pensiero moderno applicatosi all’uomo, che ha immerso la sua
natura in una luce tanto più chiara, quanto più il suo ruolo nel mondo diventava oscuro. Tardi, nel decorso
di questa storia, si è svegliato l’interesse empirico per le cose umane, tardi si è canalizzato in un metodo
scientifico proprio, perché la teologia ha dominato la scena ancora nel Settecento. Solo più tarid le
narrazioni di viaggi e le notizie di scoperte furono prese sul serio per la conoscenza, e si cominciò a
confrontare il proprio mondo con quello non cristiano. (…) L’antropologia di Kant, un’opera secondaria
nella sua produzione filosofica, offre ancora, quasi come in una vetrina delle rarità, frammenti di una
psicologia individuale e collettiva antelettera, dal punto di vista prammatico della conoscenza dell’uomo.
Per la Germania la scienza empirica dell’uomo diventò rilevante filosoficamente soltanto nella seconda
metà dell’Ottocento, da quando cioè le scienze umanistiche di tipo storico, la psicologia, la biologia e
sociologia, avevano privato la posizione dell’uomo dei suoi sostegni tradizionali: la scoperta del
pluralismo e della storicità dei sistemi di norme umane accese in modo virulento la critica al proprio
111
56
Poggiando su comuni atteggiamenti e istanze teoriche, la costituzione
dell’antropologia filosofica come disciplina autonoma viene in luce innanzitutto come
fenomeno moderno, anzi peculiare del pensiero postmedievale, e come fenomeno
tedesco poiché è in Germania che di essa si consolida lo sfondo filosofico.
A partire dai significati dell’attributo “filosofico” si diramano direzioni che, se non
precise, sono precisamente configurabili in termini di efficacia di un approccio mirante
all’essenziale, di ampiezza di veduta e di capacità conglobante e dialettizzante che nella
filosofia tradizionalmente si incarnano. Il richiamo tanto esplicito alla filosofia è inoltre
manifestazione programmatica e consapevole della volontà, oltre che della necessità,
comuni all’antropologia scientifica, di affrancarsi da termini, discorsi e riferimenti
condivisi con la tradizione metafisico-teologica115; dall’urgenza di sottrarsi a principi di
sistema di norme europeo. Con la relativizzazione della coscienza a forze vitali e sociali finì una storia
dell’emancipazione, svoltasi da Cartesio all’esistenzialismo.” (Al di qua dell’utopia, cit., pp. 187-188).
112
Max Ferdinand Scheler nasce nel 1874 a Monaco di Baviera. Cresciuto secondo i precetti del
giudaismo in una famiglia ebraica, a quindici anni rinnega la propria formazione per convertirsi al
cristianesimo. Tutta la vita adulta e persino parte dei suoi scritti portano tangibili i segni di questa
conversione. Nel corso della sua vita, infatti, il rapporto con la fede non si assestò mai su una posizione
definitiva, ondeggiando tra fasi di tormentato ripudio e fasi di cieca adesione fino ad un distacco
definitivo negli ultimi anni prima della morte, avvenuta all’ospedale di Francoforte nel maggio del 1929.
113
Arnold Gehelen nasce a Lipsia nel 1904 da padre editore. Dopo un semestre trascorso a Colonia, dove
frequenta le lezioni di Max Scheler e Nicolai Hartman, si laurea in filosofia con una tesi sul pensiero del
sui maestro Hans Driesch e ottien la libera docenza nel 1930. Nel 1938 si trasferisce a Konisberg dove
ottiene la cattedra di filosofia che era stata di Kant. Nel 1940 si sposta all’Università di Vienna dove
insegna fino alla fine della guerra quando, come tutti i docenti “tedesche del Reich” in Austria perde la
cattedra. I suoi rapporti con il nazismo furono difficili e controversi: all’inizio della sua carriera sembrava
esserci un certo legame con il partito al potere, ma fin dai primi anni 40 emersero tensioni con la classe
politica fino a un allontanamento ancor più evidente a causa della fredda accoglienza riservata al suo
fondamentale L’uomo la sua natura e il suo posto nel mondo. Muore ad Amburgo nel 1976.
114
Helmut Plessner nasce nel 1892 a Wiesbaden. Frequentò la facoltà di Medicina e poi si traferì ad
Heidelberg, dove seguì corsi di Zoologia e Filosofia. Nel 1914 frequenta i corsi di Husserl a Gottinga e in
seguito, specialmente dopo la svolta Husserliana del 1913 abbandonò la città e proseguì i suoi studi
occupandosi di Kant. Nel 1926 ottiene il primo incarico accademico all’Università di Colonia fino a che
nel 1932 non è costretto ad abbandonare tale attività e la Germania a causa delle leggi razziali. Vi fa
ritorno nel 1951 e ottiene la cattedra di Sociologia all’università di Gottinga, ma i suoi interessi filosofici
si fanno in questo periodo sempre più assidui. Plessner muore a Gottinga, nel 1985, a 92 anni.
115
“La sostituzione del primato della teologia con il primato dell’antropologia fu una tendenza
caratteristica e predominante della modernità. Il primato dell’antropologia significò due cose interrelate
tra loro: l’unico oggetto di conoscenza interessante o accessibile è l’uomo e i restanti oggetti, cioè extra o
ultra umani, devono essere visti in rapporto all’uomo, poiché essi sono conoscibili solo nella misura in cui
partecipano a quel rapporto, poiché dunque essi possono essere rappresentati solo entro, e soprattutto
mediante la prospettiva conoscitiva umana. Dal primato dell’antropologia risultò così il primato della
gnoseologia. Ma prima ancora, cioè dalla prima fase del movimento umanistico, il primato
dell’antropologia si era coscientemente e apertamente legato alla priorità della questione pratico-morale
57
autorità divina e istanze teologiche per rivolgersi invece a criteri di autolegittimazione
che facessero capo esclusivamente alla logica e alla ratio116.
Se gli albori dell’antropologia si intravedono a grandi linee quando, a partire dalla
metà del Sedicesimo secolo, psicologia e somatologia confluiscono in un tipo di studio
unificato, quelli dell’antropologia fiosofica hanno carattere ancora meno determinabile
ed identificabile.
Non si può forse dire che prima della nascita dell’antropologia non esistesse un
sapere di questo tipo, ma esso ha sempre mantenuto carattere implicito e disarticolato.
Si deve a Werner Sombart117 il merito di aver indagato ed indicato con considerevole
puntualità i criteri di identificabilità della tradizione alla base di tale disciplina:
l’elemento della sistematicità e quello dell’empiricità. “La parola antropologia – in
tedesco dottrina dell’uomo – definisce due ambiti conoscitivi, dei quali l’uno contiene la
dottrina dell’essere e del senso, l’altro la dottrina dell’esistenza concreta e specifica
dell’uomo.”118 Al primo gruppo appartiene la antropologia speculativa, al secondo
quella antropologia che:
Cerca di raggiungere un sapere universale dell’uomo e perciò si mantiene
all’interno dell’esperienza e dell’evidenza logica, e, dunque, ha carattere
scientifico. Si ha una tale antropologia come ramo della conoscenza autonomo,
quando un determinato complesso di conoscenze o di problemi viene raccolto in
unità mediante il suo correlarsi all’uomo e viene provvisto di specifica
denominazione. La sistematizzazione può essere di tipo più esteriore, quando si
raggruppano e si indirizzo differenti campi conoscitivi allo studio dell’uomo -p.
es. si fondono la dottrina della psiche e quella del corpo-, o può essere una
sistematizzazione interna, come quando si parte dall’assenza dell’uomo e se ne
deducono le differenti scienze dell’uomo.119
rispetto a quella teologica e ontologica” (P. Kondylis, Die neuzeitliche Metaphysikkritik, Klett-Cotta,
Stuttgart 1990, pp. 20-21, tr. it. M. Russo, op. cit., p. 69).
116
Con una leggera forzatura teorica ma con condivisibile elasticità tematica, un emblema di ciò è
indicato da M. Russo (op. cit. p. 69) nell’invito kantiano alla ragione che nella Critica della ragion pura
che risuona così: “la ragione dovrà assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza
di sé, e di erigere un tribunale che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non
hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne e immutabili leggi; e questo tribunale
non può essere se non la critica della ragion pura stessa” (I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. G.
Gentile, Laterza, Bari 1971, p. 7).
117
W. Sombart, Beitrage zur Geschichte der wissenschaftlichen Antropologie, in “Sitzungsber. Preuss.
Akad. D. Wiss”, phil.-hist- Klasse 13, 1938 pp. 96-130 tr. it. in M. Russo, op. cit., p. 33.
118
Ibidem.
119
Ibidem.
58
Secondo un’ampia ricostruzione storiografica120 che fa capo alla sistematizzazione
approfondita di Odo Marquard121 (1928), il cui filo conduttore è la storia del concetto e
del termine in questione, l’antropologia inizierebbe ufficialmente nel 1501 con la
pubblicazione da parte del Magister Magnus Hundt del Antropologium de hominis
digitate, natura et proprietatibus, cui seguirebbe un’altra tappa significativa alla fine del
secolo con la Psychologia anthropologica sive animae humanae doctrina di Otto
Cassmann. Profondamente debitrici della tradizione umanistico-rinascimentale, queste
opere rappresentano però solo uno snodo simbolico, più suggestivo che scientifico, di
quello che sarà lo sviluppo della disciplina in senso stretto. La sua affermazione
autonoma e istituzionalizzata si inizia ad intravedere, infatti, solo nel corso del XVIII
secolo, in quel periodo in cui si verificano quei presupposti teorici che Sergio Moravia
ha indicato con puntualità quali condizioni di possibilità teoriche della costituzione
degli interessi precipui delle scienze umane prima e dell’antropologia filosofica poi: la
liberalizzazione epistemologica, la mondanizzazione di “tutto” l’uomo, la riabilitazione
della corporeità umana, la scoperta dell’ambiente e l’apertura geo-antropologica verso
l’Altro (dove Altro è tanto lo straniero, quanto il selvaggio e il pazzo) 122.
Risale al 1719, ed è di grande rilevanza notare la contemporaneità con i primi
riferimenti teoricamente consapevoli all’estetica, la prima lezione universitaria dedicata
all’antropologia che viene tenuta a Lipsia dal professore di retorica Gottfried P. Muller;
è del 1754 il volume Antropologia naturalis sublimior del professore di medicina Karl
W. Struve e del 1772 la Anthropologie fur Arzte und Weltweise di Ernst Platner,
anch’egli professore di medicina. Nel semestre invernale tra il 1772 e il 1773 Kant tiene
il suo primo corso di antropologia che prelude alla pubblicazione, nel 1798
120
Cfr. M. Russo, op. cit., p. 34.
“Questa tradizione e storia dell’antropologia filosofica è una faccenda che non rientra né in ciò che è
eternamente umano né deriva da una qualche filosofia eterna, ma risulta in tutto e per tutto un frutto
esclusivo della ‘modernità’. In generale già la parola ‘antropologia’ esiste certamente solo a partire dal
XVI secolo. E la teoria filosofica che ricorre a questo vocabolo come fosse uno slogan si consolida
anzitutto a partire da un duplice distacco, possibile solo in epoca moderna: un distacco della filosofia da
un lato dalla ‘metafisica scolastica tradizionale’ e dall’altro dalla ‘scienza matematica della natura’.
Questo duplice distacco consiste, di fatto, in una svolta in direzione del mondo della vita ed è in questa
forma, una prima condizione della necessità e della crescente importanza dell’antropologia filosofica” (O.
Marquard, Compensazioni. Antropologia ed estetica, a cura di T. Guffaro, Armando Editore, Roma
2007).
122
S. Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei Lumi, Sansoni, Firenze 1982, pp. 3-43.
121
59
dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht123. Fino alla metà dell’Ottocento, si
assiste a una continua fioritura delle pubblicazioni relative a temi antropologici che
incarnano forse una vera e propria moda il cui culmine si verifica nelle innumerevoli
filosofie della natura che in età romantica fanno dei temi antropologici il proprio nucleo.
Appartiene a questo contesto, e ne incarna il senso con considerevole significatività, la
celebre affermazione di Feuerbach per cui “la nuova filosofia fa dell’uomo, nel quale
include la natura come base dell’uomo, l’oggetto unico, universale e supremo della
filosofia – e fa quindi dell’antropologia, integrata alla fisiologia, la scienza
universale”124.
La meditazione sull’uomo in questo periodo non può rimanere indifferente neppure
al sorgere e all’affermarsi, proprio tra Settecento ed Ottocento, della biologia in senso
moderno125. Si pone pertanto anche il filosofo, oltre che l’antropologo, di fronte alle
urgenze delle indagini sui rapporti tra mente e corpo, sull’intelligenza degli animali,
sulle patologie fisiche e psichiche, sulle facoltà e i limiti della conoscenza, che non a
caso rappresentano i temi caratteristici dell’Illuminismo.
“La radicale riabilitazione della sensibilità e la valorizzazione ontologica della
materia sono i due indici sotto cui il pensiero poté non soltanto configurarsi come
orientato sull’uomo, ma, forte, di un nuovo sapere scientifico, tendere a risolversi in una
conoscenza complessiva di tutto l’uomo, fin giù alle sue cellule, e di qui tornare a
comprendere i principi del suo operare mondano.”126
Allo stesso tempo, l’altra caratteristica fondamentale, che fa sì che proprio qui si
vedano i prodromi del tipo di interesse che stiamo descrivendo, riguarda le nuove
123
I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), tr. it. G. Vidari, Antropologia pragmatica,
Laterza, Bari 1993.
124
L. Feuerbach, Grundasatze der Phiosophie der Zukunft (1843), tr. it. C. Cesa, Principi della filosofia
dell’avvenire, in Id., Scritti filosofici, Laterza, Bari 1976, p. 271.
125
“Alla fine del secolo, si modificano dunque i rapporti tra interno ed esterno, fra aspetti superficiali e
realtà profonda, fra organi e funzioni. Attraverso il confronto degli organismi, l’analisi scopre un sistema
di rapporti che si articolano in profondità e assicurano il funzionamento dell’essere vivente. Dietro le
forme visibili si profila un’architettura segreta, imposta dalle necessità della vita. (…) A poco a poco
viene delineandosi l’oggetto di una scienza che non studia più i vegetali o gli animali come facenti parte
di determinate classi di esseri naturali, ma studia l’essere vivente, dotato di una certa particolare
organizzazione che gli conferisce delle particolari proprietà. (…) Il problema è quello di mettere in
evidenza le caratteristiche comuni a tutti gli esseri viventi e di dare un contenuto a quella che viene ormai
chiamata la vita.” (F. Jacob, La logique du vivant. Une histoire de l’héredité, Gallimard, Paris 1970, tr. it.
A. e S. Serafini, La logica del vivente, Einaudi 1971, pp. 107-109).
126
M. Russo, Op. cit., p. 75.
60
risposte offerte al problema del dualismo. Nonostante lo sviluppo biologico e le
attenzioni prima impensate che esso impone, infatti, è nella direzione opposta al
materialismo che si sviluppano i contributi più significativi. Una vera e propria
antropologia nasce solo nel momento in cui si sfalda la presa del dualismo cartesiano127
oltre che ogni impostazione fortemente materialistica e meccanicistica, in favore
piuttosto di una visione plurilaterale, in grado di comprendere l’uomo nella sua globalità
e unità psicofisica.128
Materiale e spirituale si configurano quindi come due aspetti inscindibili,
vicendevolmente influenzatisi dove la natura si invera, sia sul piano orizzontale che su
quello verticale arricchendo a dismisura le potenzialità da esplorare. Queste, tra tardo
Settecento e inizio Ottocento, si raccolgono in maniere particolarmente accentuata sotto
il tema della sensibilità, indice e soglia materiale quanto spirituale per l’essenza umana
che si va indagando. La sfera del sensibile -e vedremo come questo sarà fondamentale
tanto per l’antropologia filosofica che si vorrà considerare quanto, soprattutto, per la
meditazione di Dufrenne che tornerà centrale più avanti- si riscopre via d’accesso non
solo per gli aspetti superficiali immediatamente disponibili della mondanità, ma anche
per quell’altrove e quell’altro impensabile e indefinibile che nel sogno, nel sentimento,
nell’arte, nella follia e nella sessualità si adombra. “Regni dell’incoscienza intesa come
ciò che sta a lato o sotto la coscienza, come il non-razionalizzabile dentro cui la stessa
ragione affonda le radici e il cui terreno è quello fibroso, opaco e in trascendibile della
127
A lungo è durato l’impatto della sistematizzazione cartesiana sulle teorie successive e tuttavia,
nell’ottica di sviluppo di un’antropologia come sapere globale intorno all’uomo, essa ha presto mostrato
le proprie ingerenze in termini di impaccio. Al contempo è vero che proprio la tradizione cartesiana,
tematizzando il dominio materiale della natura umana come qualcosa di accessibile al modo delle altre
cose del mondo naturale cioè attraverso spiegazioni meccaniche e matematiche, aveva favorito in maniera
sensibile l’avvio di uno studio scientifico e sistematico dei meccanismi che regolano la corporeità. Come
ha scritto M. Russo (op. cit. p. 84), infatti: “Il modello dualistico fu a lungo predominante e influenzò
direttamente e indirettamente lo sviluppo dell’antropologia. Direttamente, perché da molti, soprattutto
medici e naturalisti, l’antropologia fu intesa come studio della fisiologia umana, alla psicologia o alla
metafisica spettando invece il compito di indagare sulla parte razionale. Indirettamente, perché comunque
intesa l’antropologia, l’uomo rimaneva connotato dalla duplicità (anima-corpo, senso-intelletto, passioneragione), dalla ‘gemina natura’ cui dovevano corrispondere diverse prospettive e metodi di ricerca. Ciò
contribuì a mantenere lo statuto epistemologico-disciplinare dell’antropologia fortemente oscillante.
L’antropologia poteva ora venire considerata dottrina della natura corporale dell’uomo, ora di quella
spirituale e morale (spesso confondendosi con la psicologia, o risolvendosi in un’attardata moralistica),
ora, ancora, come dottrina della doppia natura umana, ritenuta o un composto eterogeneo o una effettiva
connessione e comunione di fisico e psichico.”
128
Cfr. S. Moravia, op. cit., p. 37.
61
vita.”129 Questi sono i temi che andranno a confluire nella filosofia della natura e in
quella medicina speculativa in cui Marquard ravvisa il culmine ottocentesco
dell’antropologia prima del suo definitivo assetto nel Novecento.
In queste sue prime ed embrionali manifestazioni, inoltre, l’antropologia tra Sette e
Ottocento, influenzata come abbiamo detto dal forte incremento delle scienze
biologiche, non è lontana neppure dal campo più propriamente medico; anzi, gran parte
degli studi antropologici in questo periodo sono opera proprio di medici-filosofi. Non a
caso è proprio ad uno di loro, Ernst Platner, che pare sia dovuto l’uso per la prima volta
del termine ‘Antropologia’130 in relazione allo studio dei rapporti tra corpo e spirito,
natura e psiche. “Il concetto platneriano di antropologia indica esattamente il punto in
cui (…) antropologia fisica e antropologia morale si toccano. La storia del concetto di
antropologia nel diciottesimo secolo riflette così quella tendenza, nella storia della
medicina, al superamento della separazione tra fisiologia e filosofia.”131
Nei suoi studi132, Platner distingue infatti la fisiologia dalla psicologia proprio sulla
base della diversità degli oggetti che indagano: la prima essendo deputata all’analisi
esclusiva del corpo e la seconda a quella separata dei poteri e delle facoltà dello spirito.
Segue questa impostazione la sua definizione di antropologia come studio dei “reciproci
rapporti, limitazioni e relazioni” tra anima e corpo.
Quella di Platner è un’impostazione che risente particolarmente dell’esigenza di
empiria e concretezza che nella filosofia non si vedeva del tutto rispettata. Non gli
interessa il raggiungimento di verità metafisiche circa la relazione tra anima e corpo,
che egli vede come un anelito cui è impossibile dare soddisfazione. Piuttosto, egli
guarda al chiarimento dei diversi rapporti, sensazioni e stati d’animo, di cui facciamo
quotidianamente esperienza in noi e negli altri, poiché se la realtà psichica è in qualche
modo conoscibile, essa lo è solo attraverso l’esperienza del mondo. Con Platner si vede
chiaramente come la ricerca di scambio e interazione tra medici e filosofi fosse presente
129
M. Russo, op. cit., p. 83.
Cfr. M. Linden, Untersuchungen zum Antropologiebegriff des 18. Jarhunderts, Lang, Fam 1976, tr. it.
M. Russo, op. cit., p. 84.
131
M. Riedel, Verstehen oder Erklaren? Zur Theorie und Gesichichte der hermeneutischen
Wissenschaften, Klett-Cotta, Stuttgart 1978, tr. it. G. di Costanzo, Comprendere o spiegare? Teoria e
storia delle scienze ermeneutiche, Guida, Napoli 1989, p. 15.
132
Cfr. il già citato Anthropologie fur Arzte und Weltweise del 1772.
130
62
e pressante là dove si riteneva che, in mancanza di questo tipo di scambio, ai filosofi
non sarebbe rimasta che una generica moralistica priva di applicazione mentre i medici
sarebbero rimasti privi di una visione generale e universale del fine ultimo della propria
attività. Ora, non è in questione la fondatezza o meno di tali teorie, ma è bene tenere
presente come con Platner si sia ancora sullo sfondo di un forte dualismo che
l’antropologia si fa largo nel momento stesso in cui tenta di stemperarlo.
Di tale dualismo, pur nella ricerca di unità, a lungo si terrà conto; in parte proprio a
causa dell’impostazione disciplinare stessa, che si vuole impostata sì sul rigore teorico,
ma anche e soprattutto dedicata a una crescita ed un perfezionamento intesi in termini
assolutamente pratici. La filosofia stessa viene letta i termini di Weltweisheit (saggezza
mondana), strumento pratico che si tenta di affinare nel tentativo di raggiungere una
forma di felicità. Questa impostazione è strettamente correlata a un’altra idea intorno a
cui si è sviluppato l’insieme di esigenze messe in campo dall’antropologia: è l’idea della
Bestimmung133, di una forma di destinazione cui l’uomo è chiamato a mirare e che a sua
volta implica in modo imprescindibile l’idea di progresso. Nel versuch einer
Anthropologie oder Philosophie des Menschen nach seiner korperlischen Anlagen134
del 1974 scrive ad esempio Johannes Ith che, secondo il suo autentico concetto “la
filosofia dell’uomo, o l’antropologia nel suo significato corrente, deve avere ad oggetto
la natura e i più generali rapporti e la destinazione (Bestimmung) dell’uomo.”135
L’idea è ampiamente condivisa, come testimoniano i numerosi riferimenti che
costellano gli scritti dei più diversi autori. Wezel, ad esempio, argomenta che essendo il
sommo fine ultimo dell’uomo lo scopo della vera antropologia, “la più alta destinazione
(Bestimmung) dell’uomo può ben essere raggiunta semplicemente tramite la corretta
conoscenza della natura umana, e di conseguenza tramite innanzitutto lo sviluppo
completo ed adeguato di tutte le disposizioni naturali dell’uomo, dato che il nostro
comportamento per la gran parte dipende dalle nostre concezioni.”136 “Armonia ed
equilibrio tra entrambi i fini, tra il progredire delle due parti della nostra natura, quella
133
Su questo tema nelle sue implicazioni antropologiche, cfr. L. Fonnescu, Antropologia e idealismo la
destinazione dell’uomo nell’etica di Fiche, Laterza, Bari 1995.
134
Cit. in M. Linden, op. cit., p. 127.
135
Ibidem.
136
A. Wezel, Grundriss eines eigentlichen Systems der anthropologischen Psychologie uberaupt und
empirischen insbesondere (1804) cit. in M. Linden, op. cit., p. 134.
63
soprasensibile e quella votata al godimento della felicità sensibile, dev’essere la
destinazione dell’uomo, altrimenti, riguardo al rapporto tra queste due disposizioni
ugualmente originarie del suo essere e dei fini che ne risultano, egli resta a se stesso un
eterno enigma.”137 Anche con Herder l’umanità intesa come insieme di tutti i tratti fisici
e spirituali più sublimi dell’uomo “è il compito dell’autentica filosofia umana”138.
Che sia nell’accezione platneriana, o che sia in stretta relazione più con la
fisiologia o più con la psicologia, in ogni caso è al voltare del secolo che si può davvero
iniziare a considerare l’antropologia come scienza autonoma, benché con caratteristiche
ancora in fase di sviluppo.
Anche gli esiti cui sembra si arrivi nel corso del XVIII secolo rappresentano
comunque solo punti di passaggio verso quella dimensione che abbiamo visto destinata
a diventare incomparabilmente più ampia, all’epoca affatto prevedibile.
Esempio lampante di quel fermento e della serie di effetti che si andavano
preparando è, se ci è concesso un passo indietro, la collocazione nella storia del
pensiero del contributo kantiano insieme agli oltre trent’anni di corsi sull’antropologia
da lui tenuti e solo recentemente139 rivalutati; se da una parte è lo stesso Kant a
qualificare tali studi come letture divulgative, letteralmente “populäre Vörtrage”140, è
però impossibile pensare, data l’ampiezza dei materiali, che essi abbiano occupato un
posto irrilevante o secondario nell’organizzazione dei suoi percorsi.
Al fine di chiarire, quindi, ulteriormente l’eredità filosofica che l’antropologia ha
raccolto, e preparando il terreno per una introduzione ai contributi plessneriani che,
137
K.H.L. Politz, Populare Anthropologie oder Kunde von dem Menschen nach seinen sinnlichen und
geistigen Anlagen (1800), cit. in M. Landmann, De homine. Der mensch im spiegel seines Gedankens,
Alber, Freiburg-Munchen 1962, p. 380, cit. in M. Russo, op. cit., p. 89.
138
J. C. Herder, Ideen zu einer Geschichtphilosophie der Menscheit (1784), tr. it. V. Verra, Idee per una
filosofia della storia della umanità, Laterza, Bari 1992, p. 60.
139
Cfr. a questo proposito G. M. Tortolone, Esperienza e conoscenza. Aspetti ermeneutici
dell’antropologia kantiana, Mursia, Torino 1996 e P. Manganaro, L’antropologia di Kant, Guida, Napoli
1983.
140
I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 4. Questa notazione kantiana è perfettamente in linea,
d’altronde, con il carattere divulgativo che in generale l’antropologia non cessò di avere nel corso del
secolo: “La popolarità che lo studio dell’uomo raggiunse verso la fine del secolo diciassettesimo si mostra
forse nel modo più evidente con la assai ampia letteratura antropologica, la quale si rivolgeva a quei
cittadini colti, amanti della discussione, da cui partiva la richiesta di letture divulgative e di svago
sull’argomento ‘uomo’”. (M. Linden, cit. p. 81).
64
come vedremo, riecheggiano in modo significativo quanto andremo successivamente
indagando insieme a Dufrenne, intendiamo ora soffermarci brevemente su suggestioni
kantiane con un duplice obiettivo: da una parte mostrare, come detto, il background
filosofico dell’antropologia e nello specifico di quella plessneriana e, dall’altra, mettere
in luce l’affinità di temi che correla l’antropologia filosofica con il più ampio orizzonte
dischiuso dall’estetica, settecentesca prima e fenomenologica poi.
Vedremo pertanto come dai molteplici interessi che animano gli studi kantiani, e in
particolare dalla cesura, che è al contempo legame, tra gli studi antropologici e quelli
critici e dall’attenzione che in essi si concentra rispetto al problema della sensibilità, sia
possibile desumere parte dell’impianto plessneriano. L’attenzione sarà naturalmente
rivolta quasi esclusivamente al settore estesiologico della ricerca e al tema dei sensi e
della loro unità.141
1.3 Riferimenti kantiani
Risale al 1798 la Antropologia pragmatica, l’opera in cui Kant organizza in modo
sistematico la propria riflessione intorno alla natura dell’uomo, assumendo come punto
di vista centrale quello del rapporto tra interno ed esterno. La distinzione su cui si regge
tutto l’impianto separa la conoscenza fisiologica dell’uomo da quella pragmatica
secondo l’idea che tutto quello che si può affermare dell’uomo scientificamente è
riducibile alla fenomenicità, cioè alla sua fisiologia, escludendone quindi tutta la “natura
in sé”, teoricamente inafferrabile, il suo carattere intelligente, imponderabile.142
Pur fermo restando, dunque, l’ovvia posizione di minor importanza rispetto alla
meditazione critica, sono stati messi in luce significati non secondari in quell’orizzonte
di indagine che in seguito sarebbe appartenuto all’antropologia filosofica. In particolare,
sono gli aspetti collegati alla praticità e concreta messa in atto della teoresi quelli che a
141
Per una più esaustiva introduzione a Plessner che comprenda anche la filosofia sociale e politica, qui
necessariamente trascurata, cfr. S. Giammusso, Potere e comprendere. La questione dell’esperienza
storica e l’opera di Helmut Plessner, Guerini, Milano 1995.
142
Cfr. I. Crispini, Tra corpo e anima. Riflessioni sulla natura umana da Kant a Plessner, Saggi Marsilio,
Venezia 2004, p. 27.
65
partire da Kant vengono mutuati, approfonditi e, benché piegati a differenti intenti,
lasciati agire. Il ruolo dell’antropologia, così come Kant consente di figurarlo, è
profondamente legato, infatti, a quegli eventi concreti che corrispondono alle leggi
morali e che vedono l’uomo non solo come attento osservatore ma anche e soprattutto,
chiamato in causa da protagonista sulla scena di quel mondo che osserva. Pragmatico è,
significativamente, l’aggettivo che denota l’approccio antropologico kantiano,
indicando espressamente l’applicazione delle regole acquisite alla vita concreta143, lo
studio delle norme che guidano un Gebrauch für die Welt, un migliore uso del mondo.
L’intreccio sostanziale è così quello che del percorso antropologico fa una sorta di
contraltare per quello morale144 e di integrazione fondamentale per un approccio
filosofico al mondo dell’empiria umana145 al fine di considerare “quello che l’uomo
come essere libero fa oppure può e deve fare di se stesso”.146
Proprio questa aderenza al piano concreto e immanente dell’esistenza rappresenta
uno degli impianti di base che dall’approccio kantiano si ritrovano essenzialmente in
tutta la storia delle idee antropologiche successiva. Non è infatti in primis a partire da
questioni fisiologiche che esse si sviluppano, meno che mai in Kant, ma da prospettive
143
Cfr. M Russo, op. cit., p. 99 e segg.
P. Mangano, op. cit., p. 280 esplicita l’antropologia kantiana proprio come “referenza esterna” della
morale, momento in cui la libertà “s’inchioda nella finitezza”, nella contingenza e attualità del mondo
empirico.
145
Non a caso molti dei termini che ricorrono nella trattazione kantiana in questione sono termini che
potremmo dire “sporchi di mondo”: Weltkenntnis, Weltklugheit, Weltweisheit…
146
I.Kant, op. cit., p. 3. Questo è uno dei punti in cui l’approccio kantiano si mostra tanto vicino alla sua
lontana filiazione quanto da essa molto distante. Il suo interesse non si rivolge mai, infatti, al contrario di
quello che avverrà quando l’identità dell’antropologia raggiungerà una maggior definizione, al versante
fisiologico e naturale dell’uomo. La concezione della natura umana figurata da Kant ha carattere,
potremmo dire, restrittivo. Scrive infatti Kant: “La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se
stesso tutto ciò che va oltre la costituzione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse
ad altra felicità o perfezione se non a quelle che egli stesso, libero da istinti, si crea con la propria ragione.
In altre parole, la natura non fa nulla di superfluo e non è prodiga nell’uso dei mezzi ai suoi fini. Essa
diede all’uomo la ragione e, su di questa fondata, la libertà del volere, e con ciò ha dato un chiaro indizio
della sua intenzione circa il modo di dotarlo. Egli cioè doveva essere guidato non dall’istinto e neppure
essere fornito a conoscenza innata, ma doveva piuttosto tutto ricavare da se stesso. Le provvidenze
relative al cibo, alle vesti, ai mezzi di difesa e sicurezza esterna (per le quali la natura non gli diede né le
corna del toro, né gli artigli del leone, né i denti del cane ma solo le mani), ogni divertimento che potesse
rendere piacevole la vita, la stessa sua perspicacia e avvedutezza e persino la buona disposizione del
volere dovevano essere interamente opera sua. Pare che qui la natura si sia compiaciuta della sua massima
economia e di aver commisurato le qualità animali dell’uomo strettamente, rigorosamente, al bisogno
supremo di una esistenza iniziale.” (I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltburgerlicher
Absicht (1784), tr. it. Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici,
Utet, Torino 1956, p. 126).
144
66
prettamente connesse all’orizzonte esistenziale nelle sue manifestazioni pratiche. E
proprio in queste prospettive, che già Foucault ha rintracciato e riconosciuto nella loro
peculiarità147, si radicano alcuni punti di riferimento essenziali per l’antropologia
filosofica. Si deve a Kant, in questo senso, l’aver suggellato il legame dell’antropologia
con le questioni dell’agire morale. Una delle questioni più importanti che con lui si
sollevano riguarda ad esempio il problema del rapporto tra la teoria e la prassi che
concerne a sua volta tanto il ruolo istituzionale della filosofia quanto quello tecnico
delle facoltà dell’uomo.
Nel percorso kantiano si legge un tipo di interesse animato da quella stessa
domanda che regge l’antropologia filosofica nei suoi percorsi:
Io ho imparato dalla Critica della ragion pura che la filosofia non è una scienza
delle rappresentazioni, dei concetti e delle idee, o una scienza di tutta la scienza,
o qualcos’altro di simile; ma è una scienza dell’uomo, del suo rappresentare,
pensare e agire. Essa deve presentare l’uomo in tutte le sue componenti, come
egli è e come deve essere, cioè tanto secondo le sue determinazioni naturali
148
quanto anche secondo la condizione della sua moralità e della sua libertà.
Se la risposta di Kant ha trovato la propria messa a fuoco nell’analisi critico
trascendentale delle facoltà, in particolare della ragione, quella antropologica è invece
rimasta ben ancorata a questo campo pratico esistenziale, con tutti i rischi di empirismo,
sia detto, che questo comporta. Si mette così in luce, di nuovo, come l’attenzione
antropologica sia rivolta sì a quel fondo inattingibile (Abgrund) che è la ragione umana,
ma solo per vederne e mostrarne le incarnazioni vitali. A questo aspetto dell’analisi
kantiana si è fatto costante e continuo riferimento, mutuando dal grande pensatore non
tanto la cesura, che pure esiste, tra teoria e prassi, quanto la connessione che tra esse
rimane adombrata persino nella distinzione netta degli scritti. Filosofia critica e filosofia
antropologica risulterebbero quindi, in Kant stesso e a partire da lui, i due lati
inseparabili di un’indagine globale dove all’uomo si tende attraverso un percorso che ne
147
Risale al 1960 la presentazione da parte sua della prima traduzione in francese dell’Antropologia
pragmatica, accompagnata da 124 pagine di inedito commento, come parte dei lavori previsti per il
conseguimento del dottorato alla Sorbona. Questo rappresentò uno dei punti di avvio de Le parole e le
cose (cfr. la biografia di J. Miller, The passion of Michel Foucault, tr. it. E. Campominosi, La passione di
Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994).
148
I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Mursia, Torino 1994, p. 277.
67
prenda di mira tutte le componenti senza dimenticare di considerare gli ambiti nella loro
autonomia; lasciando tuttavia alla scienza, cui comunque l’antropologia filosofica in
qualche modo non vuole del tutto rinunciare, la conoscenza di quelle determinanti che
sono rigorosamente verificabili.
La distinzione kantiana tra filosofia critica e studi antropologici, di fatti, è stata
letta149 nei termini di un approccio ai campi della teoria e della prassi nella
consapevolezza della stretta relazione che li lega e, al contempo, della loro insolubile
dicotomia. Le ricerche antropologiche risulterebbero, in tal senso, un “modo di
filosofare ab externo, che, abbandonata la gravosa opera autocritica consentisse
finalmente di guardare in presa diretta ‘cosa c’è’, senza più il rischio di tradimento del
proprio ufficio critico e della propria finalità suprema: l’homo noumenon.”150 In
quest’ottica, il contributo kantiano rappresenterebbe una prima e rigorosa apertura che,
a partire da un questionare filosofico, si avvicinasse al soggetto umano puntando
direttamente sulle pieghe concrete del suo agire. “Finalmente la filosofia poteva fare
ingresso e impegnarsi direttamente nel mondo effettuale degli uomini, osservandone le
colorate superfici e recuperando volti ed espressioni prima cancellati.”151 Animata da
un’esigenza, solo in parte comprensibile, di concretezza, questa lettura manca forse
della profondità che il sistema critico imporrebbe, ma ha il merito di sottolineare e
ribadire quella caratteristica dell’antropologia che ne rappresenta l’essenza, oltre che
forse il limite: l’interesse per il mondo della vita nella sua messa in atto specifica e
reale152, prima ancora dell’approfondimento delle strutture che lo reggono
universalmente ed a priori.
L’attenzione che nell’antropologia filosofica si è manifestato nei confronti del coté
pragmatico dell’antropologia kantiana si motiva, pertanto, con un’interpretazione di
149
M. Russo, op. cit., pp. 113 e segg.
Ivi, p. 115.
151
Ibidem.
152
“Antropologia filosofica si denomina non qualunque teoria dell’uomo, ma quella che diventa possibile
con l’abbandono della metafisica di scuola tradizionale e delle scienze matematiche della natura, e cioè
con il rivolgersi al ‘mondo della vita’ e divenendo fondamentale con il ‘rivolgersi alla natura’ ossia con la
rinuncia alla filosofia della storia. L’antropologia filosofica è allora –sotto la condizione di una
fondamentale comunanza: il volgersi al mondo della vita– il contrario della filosofia della storia; in
quanto si rivolge alla natura.” O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Surkamp,
FaM, 1983.
150
68
esso nei termini di oggettivazione tangibile di un fondo irriducibile, di cui si percepisce
la presenza e si sentono gli effetti senza tuttavia potervi attingere direttamente.
Un ulteriore fondamentale punto di tangenza che correla il contributo kantiano
tanto agli usi che se ne sono fatti in ambito antropologico quanto all’ancora più esteso
campo estetico è quello che investe in modo fondamentale il tema della sensibilità.
Interpretato da Ines Crispini addirittura nei termini di una “apologia della
sensibilità”153 tale contributo sembra adombrare un interesse leggibile in stretta
relazione con quello che anima in diverso modo, ma eguale misura, antropologia
filosofica ed estetica. Nelle “Osservazioni generali sull’estetica trascendentale”, Kant
contesta in modo diretto l’idea che dalla sensibilità si possano ricavare solo
rappresentazioni confuse delle cose, apprensioni parziali e confuse di ciò che le cose
sono in se stesse e su cui l’intelletto sarebbe chiamato ad intervenire per riportare
distinzione e chiarezza154. Come scrive Kant:
Noi, mediante il senso non è già che semplicemente conosciamo in modo
oscuro la natura delle cose in sé, ma non la conosciamo punto; e, appena
prescindiamo dalla nostra natura soggettiva, non si trova più, né può
essere trovato l’oggetto rappresentato con le proprietà che gli attribuiva
l’intuizione sensibile, poiché appunto questa natura soggettiva determina
la forma di esso come fenomeno.155
Riguardo a questo punto è tuttavia stato rilevato come uno dei riferimenti kantiani
di maggior spessore sia rintracciabile proprio all’interno dell’Antropologia da un punto
di vista pragmatico che permette di sottolineare, nella direzione già indicata da
Manganaro, come l’antropologia non sia tanto distante dalla filosofia trascendentale e
anzi, a tratti, sia ad essa più affine che non alla psicologia156. “Dal testo della
153
I. Crispini, op. cit., p. 41.
I. Kant, Critica della ragione pura, Laterza, Bari 1960, p. 216.
155
Ivi, p. 85.
156
Cfr. I. Crispini, op. cit., p. 42, P. Manganaro, op. cit., p. 121. Su questo tema del rapporto tra
l’antropologia kantiana e la psicologia di scuola wolffiano-leibniziana cfr. N. Hinske, La psiclogia
empirica di Wolff e l’antropologia pragmatica di Kant. La fondazione di una nuova scienza empirica e le
sue complicazioni, in AA. VV., La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico,
Atti del convegno internazionale, Napoli 2-5 aprile 1997, a cura di G. Cacciatore, V. Gessa-Kurotschka,
H. Poser, M. Sanna, Guida, Napoli 1999, pp. 207-224. In generale tutti i commentatori concordano nel
154
69
Antropologia risulta infatti assai chiaro lo spostamento del rapporto tra sensibilità e
intelletto dal piano del gradualismo razionalistico leibniziano al piano distintivo. Al
posto della chiarezza e della confusione, all’intelletto e alla sensibilità è assegnata una
funzione, l’attività o la passività, e questo è un punto veramente importante”157.
Il testo dell’Antropologia non è correlato a questo proposito con le Lezioni di
antropologia158 bensì con la prima critica. Nelle lezioni non si trova, infatti, alcuna
spiegazione riguardo alla ragione per cui i due segni distintivi fondamentali di intelletto
e sensibilità siano attività e passività, come invece si legge nella prima critica.
Dall’interpretazione che stiamo seguendo risulta chiaro, quindi, che l’antropologia
kantiana deve, dopo il 1770, l’occasione della sua origine non tanto alla psicologia
empirica quanto a quella trascendentale, cioè a quella rifondazione della psicologia
tradizionale in base alle nuove strutture di conoscenza dell’Analitica, per cui alla
‘chiarezza’ e alla ‘distinzione’ si sopperisce meglio con i contrassegni dell’ ‘intuizione’
e del concetto. “Il significato dunque dei rapporti tra sensibilità e intelletto è una di
quelle questioni che investono direttamente il senso della fondazione filosofica kantiana
e, nel contempo, assumono una precisa rilevanza antropologica.”159
Nel testo dell’Antropologia del ’98 Kant imposta la questione della distinzione tra
sensibilità e intelletto in questo modo:
Riguardo allo stato delle rappresentazioni il mio animo o è agente, e
allora dimostra una facoltà, oppure è passivo e allora possiede una
sensibilità. Una conoscenza racchiude in sé ambedue le cose e le
possibilità di averle trae il nome di facoltà di conoscere dalla parte più
eccellente, cioè dall’attività dell’animo di collegare le rappresentazioni e
di separare le une dalle altre.160
All’interno di questo quadro quello che è condivisibilmente messo in luce, e che
rivelerà i propri legami anche con quanto andremo successivamente indagando, è la
rimandare, come fondamentale strumento di indagine e ricostruzione delle fonti della antropologia
kantiana, a R. Brandt, Kommentar zu Band 25 “Antropologie” der Kant-Ausgabe der Akademie der
Wissenschaften, Gottingen 1997, cit. in I. Crispini, op. cit., p. 43.
157
I. Crispini, op. cit., p. 42.
158
I. Kant, Vorlesungen uber Anthropologie, in Gesammelte Schriften, bd. Xxv, a cura di R. Brandt e W.
Stark, W. De Gruyter, Berlin-New York 1997.
159
I. Crispini, op. cit., p. 43.
160
I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 23.
70
complessità del problema dei rapporti tra le due facoltà in questione nel contesto della
riflessione antropologica, laddove questi rapporti si rivelano particolarmente intrecciati
e molteplici e in ogni caso mai definitivamente determinati secondo le caratterisitiche di
attività e passività. “Anzi, la trattazione pragmatica rivela come i luoghi e le figure di
queste due facoltà investano la possibilità di determinare complessivamente la
Menschenkenntnis.”161 L’analisi di cui stiamo tenendo conto prosegue ravvisando,
all’interno delle argomentazioni162 kantiane a favore della sensibilità contro le forme di
razionalismo leibnizio-wolffiane, una forma di svelamento delle tensioni e delle
disarmonie
delle
figure
speculative
della
filosofia
trascendentale
e,
contemporaneamente, le duplicità e le tensioni che appartengono alla natura dell’uomo.
L’argomentazion kantiana, infatti, all’interno dell’Antropologia, si sviluppa a
partire dalla attribuzione del carattere di passività della sensibilità e quello di facoltà
vera e propria all’intelletto e prosegue, in linea con la prima Critica, riprendendo
l’antica polemica nei confronti della scuola leibniziano-wolffiana163. A tale tradizione si
imputa l’errore di aver caratterizzato la sensibilità come una facoltà di rappresentazioni
indistinte e l’intelletto come capacità di elaborare rappresentazioni distinte, e di aver
quindi individuato una differenza a livello esclusivamente formale, logica, della
coscienza, anziché reale, psicologica, relativa cioè anche al contenuto del pensiero. È
161
I. Crispini, op. cit., p. 43.
Argomentazioni che, a volte, sottraggono la distinzione tra attività e ricettività alla conseguente
separazione-opposizione tra due ordini di sapere, quello logico e quello psicologico e, a volte, invece,
drasticamente ve la risolvono. (Cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 24.)
163
Come stiamo per mostrare, la posizione kantiana si snoda lungo un rovesciamento totale del rapporto
tradizionale che, secondo la metafisica leibiniziano-wolffiana, legherebbe intelletto e sensibilità. Vedremo
tra poco, brevemente, gli esiti cui esso conduce e la loro rilevanza per il percorso che si sta affrontando in
questa sede. Meno pertinente per noi, ma di non minore interesse, è invece un’altra conseguenza
importantissima di tale posizione che è bene qui ricordare. Con l’esito kantiano, infatti, la recettività, e
con essa la finitezza, è posta come necessità ontologica, come elemento imprescindibile nell’apprensione
degli oggetti, riducendo così l’ideale di scienza compiuta o di sapere assoluto ad un semplice ideale
soggettivo, un puro pensiero cui non risponde alcuna realtà in sé. Secondo la prospettiva tracciata da
Kant, quindi, come ha notato I. Crispini nel testo che stiamo citando (p. 46), “la scienza non giungerà
mai, non più della metafisica, a razionalizzare completamente il mondo, poiché ogni conoscenza
oggettiva implica sempre un dato sensibile e, dunque, un momento non concettuale. E, d’altro canto, la
pretesa oggettività assoluta della scienza o della metafisica viene sgretolata nell’idea che il conoscere è
comunque un’attività di una natura soggettiva, un atto creativo di un soggetto di cui Kant vuole certo
tracciare il profilo trascendentale, universale, quando conduce la critica delle facoltà del conoscere o
dell’agire, nel senso proprio di ciò che è comune a tutti gli individui che appartengono alla medesima
specie e senza dimenticare che questa specie potrebbe essere specificamente l’umanità. L’unica
oggettività pensabile è, dunque, quella pur sempre relativa, di una natura soggettiva e non certo quella
oggettività degli oggetti cui la scienza e la metafisica illusoriamente aspirano.”
162
71
così che la sensibilità consisterebbe soltanto in una forma di mancanza di chiarezza
mentre la natura della rappresentazione intellettuale consisterebbe nella capacità di
analizzare e illuminare il contenuto oscuro delle rappresentazioni parziali offerte dalla
conoscenza sensibile. La posizione di Kant risulta invece connotata da tutt’altra
convinzione, che risulta rintracciabile già a partire da La critica della ragion pura: la
sensibilità è infatti per lui qualcosa di assolutamente positivo, un’aggiunta
indispensabile alla rappresentazione dell’intelletto e un momento prioritario e
necessario alla produzione di una conoscenza.164 La conclusione di tale difesa della
sensibilità si risolve in una vera e propria “Apologia della sensibilità” tesa alla
dimostrazione di tre punti sostanziali: i sensi non perturbano, non comandano
all’intelletto e non ingannano.165 La sensibilità si trova assunta nella sua evidenza
fenomenica. Nel momento in cui sembra che i sensi perturbino, è l’intelletto a
intervenire, nel senso che esso:
Trascura i suoi doveri e (senza avere prima ordinato le rappresentazioni
dei sensi sotto leggi), poi si lagna del loro perturbamento, come se lo si
dovesse imputare alla natura originariamente sensibile dell’uomo.166
Il motivo per cui abbiamo dedicato spazio a questi temi kantiani emerge a questo
punto con chiarezza: si trova infatti qui uno dei significati più profondi per quanto
riguarda la connessione kantiana con l’antropologia e, al contempo, con i temi più
propriamente estetici che qui si vanno indagando. L’interesse dell’apologia dei sensi
kantiana sembra, infatti, superare quello della difesa di questa facoltà come
fondamentale per la conoscenza; rivelandosi essere piuttosto un interesse che investe,
direttamente, l’obiettivo stesso dell’antropologia.
È proprio la sensibilità, infatti, come è stato scritto, il vasto territorio su cui si basa
e si sviluppa questa scienza pragmatica dell’uomo. Se le regole dell’intelletto si trovano
infine nella logica, l’orizzonte sterminato dischiuso dalla sensibilità umana trova le sue
regole più generali in questa disciplina che non solo studia l’uomo come fenomeno, ma
164
I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 23-24.
Ivi, p. 26.
166
Ivi, p. 27.
165
72
ne precisa anche tutte le attività e le funzioni in cui la sensibilità è direttamente
chiamata in causa: udito, vista, immaginazione, piacere, desiderio, creatività.167
È duplice dunque la conseguenza cui conduce questa posizione kantiana a favore
della sensibilità. Come si legge nell’Antropologia:
Ciò che vi è di passivo nella sensibilità, che noi, d’altronde, non
possiamo eliminare, è propriamente la caus di tutto il male che le si
attribuisce. La perfezione interna all’uomo consiste in ciò: che egli abbia
in suo potere l’uso di tutte le sue facoltà per sottoporlo alla propria libera
volontà. Ma per questo si richiede che l’intelletto domini, ma non
indebolisca, la sensibilità (…): senza la sensibilità, infatti, non ci sarebbe
materia che possa essere elaborata ad uso dell’intelletto legislatore.168
Il primo esito riguarda quindi, chiaramente, la caratteristica di passività che
inevitabilmente investe la sensibilità: da essa non è possibile prescindere all’interno del
processo conoscitivo di cui rappresenta, invece, una conditio sine qua non. Senza di
questa, il vuoto e il non senso delle funzioni logiche intellettuali.
Il secondo esito investe il versante antropologico della riflessione sulle facoltà del
conoscere: con esso viene ribadita la forma sensibile della conoscenza medesima, per
sua natura legata ad una soggettività che determini gli oggetti come fenomeni,
inaccessibili e inesistenti qualora da tale soggettività si cerchi di prescindere.
Per completare il quadro di questi cenni ai lasciti kantiani, prima di sfruttarli per
passare concretamente a Plessner, è bene ricordare, seppure molto brevemente, che Kant
si è d’altra parte imposto anche quale obiettivo polemico nel corso della meditazione
antropologica là dove essa ha assunto le caratteristiche di antropologia filosofica. È il
caso in particolare di Max Scheler cui qui brevemente accenniamo proprio nell’ottica di
mostrare la polivalenza degli effetti generati dal pensiero kantiano sullo sviluppo delle
tesi che portarono alla nascita e affermazione dell’antropologia filosofica. Oltre a ciò si
nota come, proprio sui temi innescati dall’opposizione a Kant, Scheler sviluppi una
meditazione antropologica intorno all’ordine apriorico dell’uomo che non è estranea, in
167
168
Cfr. I. Crispini, op. cit., pp. 44-45.
I. Kant, Antropologia, cit., p. 27.
73
parte, alla fondamentale nozione di a priori che vedremo svilupparsi nella ricerca di
Dufrenne.
Proprio in riferimento a quel legame, qui già messo in luce, che con Kant si
suggella tra antropologia e agire morale, Scheler sviluppa dunque una ricerca tesa alla
fondazione di un’etica “materiale dei valori”169. Il suo fondamentale Il formalismo
nell’etica e l’etica materiale dei valori170 rappresenta infatti il tentativo di una
fondazione contenutistica e non formale dell’etica, attraverso cui mantenere l’idea
kantiana di un’etica non relativistica né utilitaristica né eudemonistica, che si presenti
però libera da quei condizionamenti formali con cui Kant, a parere di Scheler, l’aveva
privata di ogni contenuto171. La nuova etica cui punta Scheler, in sintonia con
quell’anelito alla materialità e concretezza della vita che caratterizza tutta
l’impostazione antropologica e sul quale torneremo, si fonda sulla possibilità di un a
169
È di recente pubblicazione lo studio, cui rimandiamo, realizzato da Giuliana Mancuso sul dibattuto
neokantismo del giovane Scheler. Cfr. G. Mancuso, Il giovane Scheler, LED Edizioni Universitarie,
Milano 2008.
170
M. Scheler, Der formalismus in der Ethik und die materiale Wertehtik, 1913-27, tr. it. di G. Caronello
Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Vita e Pensiero, Milano 1975.
171
A questo proposito è stato opportunamente scritto: “Il misurarsi di Scheler con la filosofia
trascendentale kantiana, con la posizione che essa ha rappresentato nella storia della filosofia, con il
retaggio kantiano successivo non assume, a mio avviso, mai lo spessore di una posizione interpretativa
né, tanto meno, il carattere di una rielaborazione delle categorie del criticismo in funzione nuova, come è
avvenuto per il neocriticismo. Piuttosto il tentativo scheleriano si configura come necessità di sottolineare
le lacune intrinseche del pensiero kantiano per evidenziare, soprattutto nei primi scritti, lo statuto
fondamentale del nuovo metodo fenomenologico e per spostare nel campo della pratica quello che, in
fondo, era un problema centrale anche nella riflessione del neokantismo, cioè il problema del rapporto tra
possibilità (il trascendentale) e realtà e, all’interno di questo, il problema lasciato irrisolto dalla filosofia
kantiana, del contrasto tra ragione e sensibilità. In questa prospettiva va dunque inquadrato il rifiuto
scheleriano del metodo trascendentale anche nelle rielaborazioni della scuola di Marburg e nella
reinterpretazione di Cohen, in quanto l’impianto trascendentale, a causa del suo apriorismo formale, non
offre comunque spazio all’apporto del divenire storico e culturale, sfociando inevitabilmente in un
oggettivismo logico che impone di attribuire anche alla riflessione etica un carattere teoretico-conoscitivo
e un legame stretto con la logica.” (I. Crispini, op. cit. p. 75). Scrive d’altronde Scheler stesso: “Solo in
quanto il contenuto a priorico essenziale viene trovato nelle cose stesse e tutti i principi e i concetti
dell’intelletto trovano in esso la loro effettuazione (il loro riempimento) sfuggiamo alla conseguenza di
fare della filosofia una sapienza verbale (…). È quindi del tutto assurdo voler ricondurre l’essenza della
verità o l’essenza dell’oggetto, rispettivamente, ad una necessità del giudicare o dei principi e alla
necessità di una connessione delle rappresentazioni (…). La necessità di una proposizione è, appunto
oggettiva soltanto quando essa riposa su di una oggettiva visione di un contenuto apriorico.” (M. Scheler,
op. cit., pp. 72-75).
74
priori materiale172 basato a sua volta sul superamento di quello che egli legge come un
falso dualismo tra ragione (Vernunft) e sensibilità (Sinnlichkeit).
In contrapposizione a Kant, noi tendiamo quindi a sviluppare
decisamente un apriorismo dell’emozionale e a spezzare la falsa identità
sinora operata tra apriorismo e razionalismo. L’‘etica emozionale’, a
differenza dell’‘etica razionale’, non è necessariamente un empirismo che
desumerebbe i valori etici dall’osservazione e dall’induzione. La
percezione affettiva, il preferire e il posporre, l’amare e l’odiare hanno
nello spirito un loro contenuto a priori specifico che è idipendente
dall’esperienza induttiva come lo sono le pure leggi del pensiero.
Nell’uno e nell’altro ambito sussiste un’intuizione eidetica degli atti e
delle loro ‘materie’, dei loro rapporti di fondazione e delle loro
correlazioni. Nell’uno e nell’altro caso sussistono l’‘evidenza’ e la più
rigorosa esattezza dell’accertamento fenomenologico.173
Quello cui punta Scheler, in contrapposizione a Kant, è un “apriorismo
dell’emozionale”, che implica una scissione tra apriorismo e razionalismo.
Per potere costruire un’etica materiale apriori bisogna finirla una volta
per tutte con il pregiudizio che riduce lo spirito umano all’alternativa
della ragione contrapposta alla sensibilità e non ammette di poter ricevere
nulla se non dall’una o dall’altra delle due sorgenti.174
In tale prospettiva la volontà viene a perdere il primato che le conferiva il
razionalismo etico, diventando più semplicemente un mezzo per indirizzarci verso certi
valori piuttosto che altri. L’aspetto fondamentale delle analisi scheleriane175 consiste,
dunque, nel sancire l’autonomia e l’indipendenza delle formazioni spirituali del mondo
morale rispetto alle strutture logiche e conoscitive proprie di ogni sapere razionale.
Nell’ottica di Scheler si tratta pertanto di mettere in luce e far risaltare l’esistenza di
172
Pur in assenza di ogni diretta filiazione si può accennare qui alla ricerca di Dufrenne e alla sua basilare
teorizzazione della nozione di a priori, con particolare riguardo per quegli a priori affettivi che
rappresentano un punto saliente del suo percorso e sui quali inevitabilmente torneremo.
173
M. Scheler op. cit., p. 26.
174
Ivi, p. 83.
175
Per un approfondimento di questi temi cfr. I. Crispini, op. cit., p. 80.
75
quello che Blaise Pascal chiamava “l’ordre du coeur”, quella “logique du coeur” i cui
dati costitutivi sono apriori.176
Che lo si veda, come nel caso di Scheler, quale punto di riferimento da cui
discostarsi; che non si accetti di considerarlo quale capostipite di alcuna dottrina
antropologica sostenendo che di fatto l’antropologia pragmatica non ha avuto alcun
seguito dopo la sua opera; che si ammetta al contrario la rilevanza storica e teorica,
anche nel contesto antropologico, delle ricerche kantiane; in ogni caso quella di Kant
resta quale tappa estremamente significativa di un percorso di idee di cui non si può non
tenere conto, pur o proprio perché in contrasto con la tendenza fisiologistica e
psicologistica delle antropologie dell’epoca.
Come è stato scritto:
Ciò che Kant diede agli studenti degli anni sessanta fu la rinnovata
convinzione, dopo quasi un quarantennio di wolffismo scolastico
dominante, che si dovessero finalmente sostituire le sterili esercitazioni
logistiche e le vuote costruzioni metafisiche con una filosofia utile
all’uomo comune; ed invero con le lezioni kantiane la ‘dottrina
dell’uomo’ come chiama Wundt l’istanza della ‘terza generazione
illuministica’, quella del trentennio 1750 – 80, fa negli anni sessanta il
suo rientro nel mondo accademico.177
I cenni a Kant, doverosi all’interno di questo percorso, richiederebbero uno spazio
di approfondimento che qui è impossibile dedicare. Di essi ci è dunque utile tenere
ferme le suggestioni e gli eco che maggiormente, e se non altro più esplicitamente, si
avvertono all’interno del tema circoscritto e degli autori che andiamo trattando.
Su queste basi possiamo quindi passare alla delineazione del problema della
sensibilità da parte di Plessner, l’autore tra gli antropologi filosofici che appare più
176
“Tutta la nostra vita spirituale, e non soltanto il conoscere oggettivo e il pensare nel senso di
conoscenza dell’essere, possiede atti e leggi di atti, beninteso la vita pura, indipendente secondo la sua
essenza ed il suo contenuto dalla situazione di fatto dell’umana organizzazione. Anche la parte
emozionale dello spirito, il sentire, il preferire, l’amare, l’odiare, ha un contenuto originario apriorico, che
non è tolto in prestito dal pensare e che l’etica, in piena indipendenza dalla logica, ha il compito di
rivelare. C’è un apriorico ordre du coeur, o logique du coeur, come dice acutamente Blaise Pascal.” (M.
Scheler, Il formalismo…, cit. p. 63).
177
N. Merker, L’illuminismo in Germania. L’età di Lessing, Ed. Riuniti, Roma 1989, pp. 111-112.
76
rappresentativo di quella comunione di intenti e affinità di tematiche che Dufrenne e
l’estetica fenomenologica in generale hanno messo in campo al modo della filosofia.
1.4 Helmut Plessner, tra Kant e la fenomenologia husserliana
Proprio allo sfondo kantiano di cui sopra ha dedicato larga parte dei suoi studi
Helmut Plessner che con tale sostrato si confronta a più riprese, treando da esso lo
spunto, anche polemico, per giungere ad alcuni dei suoi esiti più interessanti. Esiti che
riguardano in massima parte il problema dei sensi e della loro unità e relazione.
Gli scritti giovanili dell’autore sono prevalentemente dedicati allo studio del
criticismo kantiano mentre gli scritti successivi al 1928, anno cardine della ‘svolta
antropologica’ recano tangibili segni di un ormai avvenuto e maturo discostamento. 178
Ma è nel periodo a metà tra queste due fasi, precisabile cronologicamente sull’anno
1923, che Plessner si dedica a quello tra i suoi temi più rilevante per noi: il problema
estesiologico179. È quello l’anno in cui vede la luce l’ampio studio, portato a termine nel
dicembre del 1922, sul problema dell’unità e molteplicità dei sensi Die Einheit der
178
Del resto, è lo stesso Plessner, riprendendo le parole di Windelband, a scrivere: “comprendere Kant
significa oltrepassarlo” (Gesammelte Schriften II, cit., p. 17).
179
Il concetto di estesiologia fa parte della nostra tradizione filosofica in modo più sensibile di quanto a
prima vista non sembri. Se la consultazione di una qualunque dizionario filosofico italiano non porterà
alcun chiarimento rispetto a questa voce, praticamente inespressa. Alla voce “estetica” dell’Abbagnano
(in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1988, p. 433), tuttavia, tra gli sviluppi del’estetica
del secondo Novecento, M. Ferrarsi indica un atteggiamento estetologico in senso ampio volto a
recuperare la nozione baumgarteniana di conoscenza sensibile, “il cui oggetto prioritario non è il dominio
dell’arte, né del bello, ma quello della sensazione come aisthesis e più complessivamente di tutta la sfera
dell’apparire in quanto ambito complementare e insieme distinto da quello logico” e il concetto kantiano
di estetica trascendentale, indipendente dal carattere soggettivo del giudizio di gusto. Tra gli autori che in
modo diverso hanno contribuito allo sviluppo di tale orientamento nell’estetica si ricordano: Husserl delle
Analisi delle sintesi passive e di Esperienza e giudizio; le indagini di Merleau-Ponty sul carattere estetico
dell’ontologia in I visibile e l’invisibile; il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche; le riflessioni di
Goodman e Garroni sull’estetica come filosofia non speciale; le ricerche di Walton (Mimesis come
creazione di finzione) sulla differenza specifica tra realtà e immaginazione. In ambito poi più nettamente
scientifico Ferrarsi sottolinea il rilievo delle teorie della percezione della psicologia della Gestalt. Infine,
Derrida ha contribuito sensibilmente, con la sua ‘grammatologia’ su basi kantiane e fenomenologiche
all’approfondimento dei rapporti tra logica ed estetica.
77
Sinne. Grundlinien einer Asthesiologie des Geistes180 all’interno del quale è
significativamente compresa una lunga appendice sul sistema critico kantiano come
teoria della conoscenza: Kants System unter dem Gesichtspunkt einer Erkenntnistheorie
der Philosophie181. Quest’opera si era posta al centro della intensa discussione
filosofico-scientifica tedesca, ormai invalsa dalla seconda metà dell’Ottocento, intorno a
natura e struttura delle leggi del pensiero; la stessa discussione, nel segno generale di un
“ritorno Kant”, aveva tra l’altro portato alla fondazione della “psicologia fisiologica”
da parte di Wundt e Helmoltz. È questo tra l’altro il momento in cui, come abbiamo già
accennato in fase introduttiva, l’intreccio tra psicologia, fisiologia e teoria della
conoscenza caratterizza il dibattito culturale e filosofico.182 È proprio a questo dibattito
e questa temperie culturale che fa riferimento Plessner fin dalla prefazione del libro che
nasce infatti, secondo il disegno iniziale, come primo volume di un progetto editoriale
di stampo cassireriano sulla teoria della conoscenza che doveva dipartirsi, anziché dal
linguaggio, dalla teoria della conoscenza sensibile. Il tentativo era quello di “mettere in
crisi i limiti formali dell’estetica trascendentale kantiana dall’interno, dimostrandone
l’incapacità, in base ai postulati della ragione pura, di legittimare una teoria critica della
sensibilità.”183
Quando però, nella seconda metà degli anni venti, gli interessi dell’autore si
concentrano sistematicamente sulle possibilità e i metodi dell’antropologia filosofica il
progetto si arresta. “Nondimeno, è significativo che l’esito estremo o sviluppo di una
riflessione estetica che intende mettere in crisi i limiti formali della filosofia kantiana in
modo strutturale, muovendo cioè dalla stessa estetica trascendentale, e non dalla terza
Critica, è la presa di distanza definitiva di Plessner dalla Erkenntnistheorie di
180
L’unità dei sensi. Lineamenti fondamentali di estesiologia dello spirito, in Gesammelte Schriften,
Suhrkampf, Frankfurt am Mein 1980-85. Tr. it. parziale in Helmut Plessner, Studi di estesiologia.
L’uomo, i sensi il suono, a cura di A. Ruco, Clueb Bologna 2007.
181
Il sistema di Kant dal punto di vista di una teoria della conoscenza della filosofia, ora in Ibidem. Pp.
323-345.
182
Tramite una chiave di lettura introdotta da Fries e Maimon l’analisi della conoscenza era stata
ricondotta alla psicologia divenendo analisi dell’esperienza come viene resa possibile dalla nostra
organizzazione psicofisica. La teoria della conoscenza passava quindi per l’analisi dei processi di
sensazione, percezione e coscienzializzazione che i risultati delle scienze positive andavano chiarendo. Su
questo dibattito scientifico-filosofico che in area tedesca si è sviluppato a partire da Fries e Maimon, cfr.
S. Poggi, I sistemi dell’esperienza, Il Mulino, Milano 1977.
183
Cfr. A. Ruco, Estetica e antropologia filosofica nella teoria estesiologica di Helmut Plessner,
prefazione a H. Plessner, Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a c. di A. Ruco, Clueb, Bologna
2007, pp. 7-61 in particolare pp. 12 e segg.
78
derivazione kantiana e neokantiana e l’elaborazione di una teoria più vicina al mondo
della vita, nei suoi aspetti estesiologici e antropologici.”184
L’obiettivo teorico entro cui si muove Plessner è far riconoscere al criticismo le sue
stesse lacune e limiti, approfondendo metodicamente i punti di rottura con esso.
Il riferimento oppositivo a Kant, che pure di questi raccoglie notevole eredità,
risuona in modo molto esplicito fin dal momento in cui, là dove si accinge ad esporre i
criteri metodologici e i problemi teorici generali dell’estesiologia, l’autore ne lamenta la
carenza di immediatezza con questo passo:
Il veterocriticismo di Kant e il neocriticismo dei kantiani di tutti gli
orientamenti (la scuola di Marburgo, di Heidelberg), ma anche tutti gli altri
orientamenti attuali che si attengono al procedimento critico come il solo
possibile per la filosofia, sono d’ostacolo per elaborare una filosofia della natura
e delle sue forme. Infatti il procedimento critico tenta di dimostrare i criteri del
sentire, del volere, del pensare, del credere e per tale ragione, persino nella sua
versione più ampia, può sfociare soltanto in una filosofia della cultura. Così
come Kant ha voluto definire la facoltà conoscietiva dell’uomo in base alle sue
prestazioni matematiche e scientifico-naturali, ovvero ha voluto definire i
confini del conoscere in modo analitico-regressivo, in base ai confini ideali di
queste prestazioni, i suoi perfezionatori moderni tentano di aggiungervi le
prestazioni storiche e della scienza della cultura, per ottenere uno sguardo più
vasto sulle facoltà teoretiche. La costruzione della natura nelle scienze naturali
concorda con la costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito. Non
importa, inoltre se la critica filosofica pervenga ai criteri di valutazione soltanto
attraverso un’analisi delle scienze o in parte anche attraverso un’analisi
immediata delle opere. Il fatto è che con questo metodo è stato tolto alla
filosofia un accesso immediato alla natura. L’ambiente immediato resta
185
incomprensibile.
Sono questi, nelle loro istanze di globalità e immediatezza, i contorni entro cui si
delinea il problema estesiologico così come Plessner invita a configurarlo e che, come si
legge e come si è detto, mira al totale superamento delle dicotomie cartesiane a favore
di un riafferramento della realtà secondo declinazioni onnicomprensive.
In questa tematica si vedono confluire questioni etiche, estetiche e gnoseologiche
secondo l’articolato tentativo dell’autore di elaborare un’analisi della realtà che sappia
abbracciarne la complessità oltre che l’armonia in modo più efficace delle prospettive di
idealismo e realismo.
184
185
Ivi, p. 13.
H. Plessner, Autopresentazione inedita dell’”unità dei sensi”, in A. Ruco, op. cit., p. 61.
79
L’impostazione formalistica di matrice kantiana si rivela per Plessner incapace di
esaurire la ricchezza di contenuti con cui noi esperiamo il mondo. Da questa
constatazione l’autore trae uno dei motivi che lo spingono al superamento di tale
impostazione in favore di una visione della sensibilità che sleghi i caratteri di oggettività
dal loro esclusivo rapporto con le esperienze scientifiche. Come prosegue il passo che
abbiamo citato:
Non basta basare una dottrina delle scienze dello spirito e della storia su una
dottrina dell’intuizione e della percezione tagliata soltanto sulla scienza della
natura. Una critica universale dell’intelletto e della ragione esige una critica dei
sensi altrettanto universale.186
Tale critica dei sensi si traduce in una sorta di domanda-guida esplicitabile nei
termini di “dove si trova il senso della sensibilità?”187 e che risponde a una duplice
esigenza: da una parte restare fedeli alla ricchezza e pienezza dell’esperienza vitale del
mondo, e dall’altro trovarne un fondamento legittimante, sistema delle condizioni che
rendono valida quell’esperienza, non meramente soggettiva ma oggettiva, riconoscibile
e coordinata. L’indagine plessneriana sui sensi, presentandosi come una estesiologia, e
più precisamente come una estesiologia dello spirito,188 si discosta rapidamente
dall’estetica come filosofia dell’arte per rivolgersi piuttosto in modo diretto alla
grammatica del sensibile e del corporeo. “Il genitivo dello spirito in questo caso ha
valore sia oggettivo sia soggettivo, rinvia al tentativo di legittimare un accordo
reciproco – materiale o funzionale che sia – tra la sensibilità e l’insieme delle modalità
di elaborazione di senso dello spirito, le prestazioni culturali oltre che della scienza,
dell’arte e del linguaggio.”189
Come esplicita A. Ruco nel volume che abbiamo citato, nel sottolineare il rilievo
che assume lo spirito nelle sue ricerche estetiche Plessner mette in luce il carattere
critico-trascendentale della sua riflessione estetica e la conseguente presa di distanza dai
186
Ivi, p. 62.
H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 76.
188
“Definiamo estesiologia quella disciplina, dottrina della percezione o della sensazione, tuttavia con
l’aggiunta pienamente giustificata: dello spirito, ponendo l’accento sulla netta linea di separazione tra la
nuova questione e la questione più chiaramente psicofisica che emergerà più avanti.” (Ivi, p. 32).
189
Cfr. A. Ruco, op. cit., p. 15.
187
80
metodi empirici della scienza della natura, le cui indagini quantitative non permettono
di comprendere la natura qualitativa del problema dell’unità dei sensi.190
L’estesiologia dello spirito è allora, precisamente:
La scienza dei modi di simbolizzazione dei contenuti spirituali e dei fondamenti
di essi. Essa mostra, che a determinati conferimenti di senso [Sinngebungen]
sono necessari determinati materiali e perché non altri sono possibili.
Conseguentemente essa è la via data per l’interpretazione della molteplicità
delle modalità sensibili. Da questo obiettivo discende, con altrettanta necessità,
che a essa è concesso di trascegliere solo quei domini di valore a cui
corrispondono connessioni pure di significazione e intuizione. Non l’intera
pienezza della cultura, non tutte le produzioni di valore dell’uomo vengono
indagate, ma solo le possibilità del suo comprendere e le materie a queste
specifiche, nelle e con le quali il comprendere è connesso.191
Lo spirituale cui rimanda l’estesiologia plessneriana è allora l’insieme degli atti di
conferimento di senso e nel momento in cui di esso si tenti di discutere la validità
occorre che l’insieme di questi atti sia in rapporto necessario con ciò che viene investito
del senso.192 Gli atti di un certo tipo, cioè, si possono relazionare esclusivamente con
determinati contenuti sensibili. L’estesiologia plessneriana è allora quella forma di
indagine che proprio a tale rapporto esclusivo si rivolge, studiando le condizioni
materiali della produzione di senso.
In questo senso quello che con Plessner si delinea come compito principale
dell’indagine è il reperimento di un nesso che renda possibile legare, senza costringerla
né distruggerla, la varietà dell’esperienza; di un elemento unificante che sia al tempo
stesso a priori, ossia non meramente empirico, e tuttavia già sempre ricco di contenuto.
“Contenuto e principio d’unità dovranno stare in un rapporto di connessione intrinseca,
effettiva, concreta, non quindi in un rapporto di connessione formale, di vuota
legalità.”193
190
Cfr. Ibidem.
H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 278.
192
È stata notata la risonanza avvertibile in questo contesto della definizione di ‘simbolo’ offerta da
Cassirer: “Abbiamo tentato di far rientrare in esso il complesso di quei fenomeni in cui si presenta in
genere una qualsiasi ‘realizzazione significativa’ del sensibile, in cui un elemento sensibile, nella
fattispecie del suo esistere e del suo esser-così, si presenta al tempo stesso come differenziazione e
materializzazione, come manifestazione e incarnazione di un significato”. (E. Cassirer, Filosofia delle
forme simboliche, vol. 3, I, Nuova Italia, Firenze 1984, p. 124).
193
M. Russo, op. cit., p. 237.
191
81
Tutta la questione si radica sul nucleo teorico fondamentale della riflessione di
Plessner, che è l’intento di tematizzare la differenza, la ricchezza di sfumature
qualitative del mondo, salvaguardandone la singola molteplice e variegata ricchezza
irriducibile alla generalità del concetto. È proprio in queste zone d’ombra, dove il rigore
scientifico perde la sua presa in favore di un più elastico approccio indagativo, che si
posiziona l’uomo, nella sua individualità che è vita vissuta prima che compresa.
L’uomo è il luogo in cui la natura e lo spirito si incontrano, e vale la pena
indagare i punti specifici di rottura e di vicinanza nei quali si trova
l’afferramento reciproco delle strutture naturali e spirituali.194
Le molteplici forme in cui appare la materia seguono nell’essere umano variazioni
e articolazioni, a loro volta conduttrici di senso, che è lo “spirituale”, con la propria
inventiva e creatività, a produrre e rendere possibili. È per tale ragione che, considerata
la varietà dei modi fondamentali di apparizione delle cose e considerato il loro essere
indissolubilmente legati ai sensi corporei, Plessner arriva a parlare di unità di anima, o
spirito, e corpo e con ciò della persona umana come “regno intermedio dell’indifferenza
psicofisica”195. Quello che con queste considerazioni si mira a mettere in luce è
quell’intima conformità, cui più volte Plessner ritorna, tra la nostra organizzazione
sensibile con le forme e i modi possibili della significazione, quindi su quel nesso
inscindibile tra fisico e simbolico. “Nell’articolazione del mondo intuitivo, nello strano
fatto della sua differenziazione sensibile, è custodita una legge di senso, se così non è,
se conformità non c’è, se nesso necessario non c’è, allora veramente le differenze
qualitative sensibili hanno, come volevano Kant e i kantiani, carattere meramente
empirico e quindi valenza meramente soggettiva”196.
Quelli che egli suggerisce di chiamare forme ideali e prodotti culturali non sono
entità astratte surrettiziamente aggiunte a insignificanti sezioni di materia; al contrario,
194
H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p. 371.
È da Scheler che il concetto di ‘indifferenza psicofisica’ giunge a Plessner. Con Scheler, infatti: “il
processo vitale fisiologico e quello psichico sono dal punto di vista ontologico strettamente identici. Essi
sono solo fenomenicamente diversi, ma anche fenomenicamente sono strettamente identici nelle leggi di
struttura nella ritmica del loro decorso…” (M. Scheler, Die stellung der Menschen in Kosmos, cit. p.
196).
196
M. Russo, op. cit., p. 251.
195
82
essi esistono come forme sensibili e la possibilità di una loro integrazione sensibile è ciò
di cui la ricerca estesiologia si propone di dar conto.
Il fatto che il mondo appaia in modi acustici, tattili, visivi, olfattivi e che questi
modi, per quanto intimamente interrelati secondo specifiche disposizioni sinestetiche
del soggetto, siano qualità fenomenicamente irriducibili esige, per Plessner, la
possibilità di legittimare un’unità positiva, non intermodale, dei sensi. Con essa, non si
intende tuttavia delineare un’immagine del mondo parcellizzata, ridotta alla somma di
qualità empiriche variegate. La prospettiva plessneriana tende piuttosto a prendere le
distanze dalle ricerche empiriche della psicologia e della fisiologia, per indagare le
qualità molteplici dell’esperienza sul piano filosofico. Nell’ambito scientifico, infatti, i
contenuti della sensazione si trovano ridotti a quantità calcolabili oppure considerati in
termini asettici e astratti come materia, dati sensibili o impressioni esterne. La domanda
di Plessner muove proprio da questa forma di mancanza verso l’obiettivo di rendere
conto dei “modi di apparizione di questo mondo”197.
A tali modi di apparizione di questo mondo egli guarda sempre alla luce della
costituzione di quel soggetto che tale mondo esperisce. Di tale soggetto, umano
naturalmente, si interpreta come elemento costitutivo l’intreccio tra corporeo e spirituale
indicando pertanto la possibilità di una riflessione filosofica che integri in qualche modo
il modello delle scienze, superandole tuttavia nel far reagire le strutture basilari della
natura umana di cui esse si occupano con la molteplicità storica e culturale che tale
natura completa e complica.
La questione dell’unità dei sensi si prospetta quindi nei termini dell’unità delle
molteplici modalità che ogni cosa implica per manifestarsi.
Da questo presupposto si può comprendere un’altra caratteristica fondamentale che
tale indagine ha per il suo autore: l’elaborazione di una estesiologia dello spirito è per
Plessner condizione di possibilità per l’elaborazione di una ontologia della conoscenza.
197
H. Plessner, Die Einheit der Sinne, cit. p 23. Vedremo come questo sfondo sia condiviso dalla ricerca
fenomenologica dufrenniana, che condivide il senso dell’osservazione merleau-pontiana: “Il pensiero
oggettivo ignora il soggetto della percezione. Esso si dà infatti il mondo bell’e fatto, come contesto di
ogni evento possibile e tratta la percezione come uno di questi eventi.” (M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia della percezione, cit., p. 284).
83
Di più, la sua antropologia filosofica stessa, che segue le istanze estesiologiche, si
presenta come continuamento teorico delle prospettive dischiuse con l’estesiologia, e
questo nonostante le molteplici diversità.
All’antropologia filosofica spetterebbe dunque il compito di rappresentare un
approfondimento teorico e metodico rispetto agli scenari dischiusi con l’estesiologia.
Con quest’ultima, infatti, Plessner propone un metodo per affrontare i problemi che
dalla filosofia della cultura, regressivamente, giunge fino a una forma di biologia
filosofica.
Il carattere presentato inizialmente dalle ricerche estesiologiche è quello comune
alla secolare riflessione teoretico-conoscitiva del valore oggettuale dei sensi e della loro
molteplicità. Il percorso plessneriano, però, conduce a un passaggio dell’attenzione con
il problema dell’oggettualità spostato in secondo piano in favore di ciò che per Plessner,
concerne effettivamente la molteplicità dei sensi: la differenziazione delle loro modalità.
Con tale spostamento si chiarisce che la teoria delle modalità costruisce per la questione
dell’oggettualità “esattamente il fondamento della sua soluzione”.198
Oltre che su Kant, Plessner ha lavorato a lungo su Husserl, sul problema della
forma sistematica in filosofia e sul problema filosofico metodologico dell’accesso ai
fenomeni, perseguendo l’obiettivo di coniugare i due ambiti.199 In tutto il suo percorso
non si perde mai la consapevolezza della difficoltà di dover rispondere
antropologicamente a problemi teoretici e questo per la natura stessa dell’antropologia,
costitutivamente in bilico tra riflessione e osservazione, rigore teorico e elasticità
interpretativa, principi “astratti” e concretezza. Il metodo husserliano della descrizione,
interpretato nella sua inesausta fiducia naturale nei confronti del mondo delle cose, resta
198
H. Plessner, Die Eineheit…, cit. p. 294.
L’interrogazione del criticismo Kantiano avviene costantemente all’ombra di un filtro
fenomenologico, nel tentativo di legittimare il carattere costruttivo e spontaneo di un principio
incondizionato del filosofare. La sua esigenza di approfondire la filosofia critica di Kant matura, infatti,
tra il 1914 e il 19196 durante gli anni di studio dottorale a Gottingen, dove egli concorda con Husserl un
progetto di ricerca sul pensiero scientifico di Fiche in rapporto alla problematica dell’Io e della coscienza
intenzionale nella fenomenologia (il primo volume delle Idee era stato pubblicato l’anno prima). Presto
però Plessner si accorge che una tale ricerca non può prescindere da un attento studio della filosofia
kantiana. Per tale ragione, quando Husserl nel 1916 viene chiamato a Friburgo, Plessner anziché seguirlo
decide di concludere il suo progetto di dottorato a Erlangen con il neokantiano Paul Hansel.
199
84
alla base di tutta la ricerca plessneriana e del suo sforzo di elaborare un sistema critico
aperto.
Per inciso, è interessante a questo proposito ricordare, e probabilmente Plessner lo
sapeva sebbene non vi faccia cenno, che anche Husserl, nel corso della sua
‘somatologia’, parla di unità ‘fisico-estesiologica’, di uno ‘strato estesiologico’ inteso
come il campo o sistema di sensazioni specifiche del corpo proprio psicofisico che
sempre inerisce, condizionandola, a qualunque sensazione fisica.200
Le due direttrici, kantiana e husserliana, rappresentano dunque, come dicevamo, i
cardini basilari che consentono di comprendere il sistema antropologico plessneriano
“all’interno del quale l’istanza di matrice kantiana, risalire a ciò che rende possibile
l’esperienza, si arricchisce e dilata grazie al metodo fenomenologico dell’intuizione di
essenza capace di promuovere il ritorno alle cose stesse.”201 Queste prospettive vengono
interpretate e utilizzate all’ombra di quel bisogno di concretezza che l’autore
costantemente sottolinea202 e con il quale, comprensibilmente, stride però spesso
l’aspirazione al rigore sistematico che ugualmente lo anima. La dicotomia resta pertanto
viva e dichiarata lungo la meditazione di una vita: la ricerca di idee e asserti filosofici di
natura indiretta, ipotetica, riflessiva, che possano formare un tutto autoconsistente e
però possano essere misurati, revisionati e sperimentati nell’esperienza diretta. Da un
lato, dunque, c’è un’istanza sintetico-costruttiva, il cercare un principio unificante
capace di autoverifica e autoapprensione nel corso della propria stessa attività
200
Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Einaudi, Torino 1982, pp. 547-551. E in relazione a
ciò si ricorda questo passo: “l’intuizione è caratterizzata da questo, che essa si riferisce a un oggetto in
modo tale che in questo riferirsi l’oggetto steso si dà immediatamente. (…) I modi di un tale darsi di
qualcosa sono i sensi, e ciascuno dà di volta in volta, in un determinato ambito, un molteplice, ciascuno
ha un campo del proprio darsi. Ciascun senso, Kant non analizza ulteriormente ciò, ha un determinato
campo; i colori non possono essere mai ascoltati, i suoni mai visti. (…) Ciò che in generale nell’ambito di
un senso può darsi va analizzato innanzitutto secondo la sua struttura materiale. Tale analisi Kant stesso
ha mancato di farla, e, finora, quasi l’intera filosofia; è un’analisi specificamente fenomenologica, fatta da
Husserl per la prima volta nelle sue iniziali lezioni a Gottinga, un’analisi che lui stesso usava chiamare
estesiologia dei sensi.” (M. Heidegger, Logic-Vorlesung 1925-26, cit. in M. Russo, op. cit., p. 231 n.).
201
M. Russo, op. cit., p. 206.
202
“Questo volevo io fin da studente a Heidelberg nel 1914: un principio della filosofia che non ci lasci
nuotare contro al flusso sospingente costantemente in avanti della vita. Volevo un collegamento del
romanticismo con Bergson – a quei tempi un’equiparazione della critica alla vita, pensare e natare,
scrivania e frescura estiva in un sol colpo. Ora si mostra che il metodo della ascesa è certo la via che va al
mare – il sole alle mie spalle…” Così in una lettera di Plessner all’amico Josef Konig nel dicembre del
1924 in cui l’autore allude alla consapevolezza di un afferramento diretto della realtà (in H. Plessner – J.
Konig, Briefwechsel 1923-1933, cit. in M. Russo, op. cit., p. 207 n.).
85
unificante: se l’esperienza, spiegata in base a tela principio, risulta essere un complesso
ordinato, un sistema coerente, allora il principio è valido e può effettivamente essere
definito condizione dell’esperienza. Dall’altro c’è l’esigenza di ripristinare l’integrità
dell’esperienza così come essa ordinariamente si presenta, spontaneamente viene fatta,
in tutta la sua varietà e ricchezza. A questa esigenza Plessner trova risposta nell’analisi
fenomenologica203, cui egli stesso dedica alcuni saggi espositivi.204
Dell’uso che egli intende fare di questa filosofia è lui stesso a dare indicazioni:
Tutto quello che si capisce da sé, che è immediatamente comprensibile, perché
noi lo viviamo ogni giorno nell’indisturbato andamento delle cose e nel
linguaggio quotidiano, diventa in questo modo un tema espressivo. Ma lo può
diventare solo se noi lo prendiamo da un punto di vista paradigmatico. Ciò che
ci permette, per esempio, di chiamare accordo un accordo e di distinguerlo da
una conversazione o da una promessa deve essere in qualche modo ancorato a
una struttura oggettiva della cosa, ad uno specifico ‘qualcosa’ appunto di questa
cosa, alla sua essenza e se ciò riabilita l’osservazione ingenua, prescientifica
(…) è perché il fenomenologo segue sempre il principio del rispetto della
intenzionalità delle cose che di volta in volta gli si presentano, rispetto cioè del
205
‘senso dell’atto’ (Aktsinn) di cui ogni volta prendiamo coscienza.
Come è stato scritto206, l’enorme potenziale liberatorio della fenomenologia,
smantellati teoremi speculativi, posizioni scientifiche, ‘ismi’ di ogni genere, stava
appunto nella possibilità di riacquisire alla filosofia, sotto il titolo di ‘fenomeni’,
l’infinito campo dell’esperienza, “andando da una melodia a una cifra, da un ricordo a
un affetto, da un calcolo a un’allucinazione, senza imbrigliarli in un sistema
definitivo”207. In essa “l’epoca dell’esperienza aperta sembra avere veramente trovato la
sua filosofia: filosofia come scienza tra le scienze, come lavoro in un orizzonte
203
Plessner racconta un episodio personale, cit. in M. Russo (Op. cit., p. 209) illustrativo del proprio
bisogno di concretezza. Tra il 1914 e il ’15 egli lavora sul rapporto tra coscienza fichtiana e coscienza
husserliana, ponendo continuamente domande su ciò a Husserl, di cui seguiva i seminari. Una volta di
ritorno da uno di questi seminari, davanti al cancello di casa di Husserl, questi “manifestò il suo profondo
malumore: ‘tutto l’idealismo tedesco mi è sempre stato allergico. Per tutta la mia vita – e qui impugnò il
suo snello bastone da passeggio dall’impugnatura d’argento e lo puntò contro il montante del cancello –
non ho fatto altro che cercare la realtà.’ In una maniera insuperabilmente plastica il bastone rappresenta
l’atto intenzionale e il montante la sua realizzazione.”
204
Cfr. Phanomenologie. Das werk Edmund Husserls (1938); Bei Husserl in Gottingen (1959); Husserl in
Gottingen (1959).
205
H. Plessner, Al di qua dell’utopia, cit., pp. 107-112.
206
M. Russo, op.cit., p. 210.
207
Ibidem.
86
aperto”208, ed invero la fenomenologia è “una filosofia sul terreno dell’esperienza, una
filosofia come esperienza che, più ampiamente che la Ratio opposta all’empiria,
abbraccia a posteriori e a priori”209. Altrettanto che l’ermeneutica, la fenomenologia
rivela la propria utilità nel condurre al superamento del dualismo tra scienza e teoria
della conoscenza ossia della opposta sopravalutazione di uno di quegli aspetti del reale
che o si lasciano raggiungere con procedimento empirico (a posteriori) o mediante
elaborazione teorica (a priori). Il problema fondamentale, per Plessner e nel quadro più
completo degli obiettivi dell’antropologia filosofica, è invece quello di tenere insieme
entrambi.210 La questione adombra l’ulteriore dicotomia entro cui la meditazione
plessneriana si è coerentemente e costantemente assestata: la dicotomia tra ontologico
ed empirico. È proprio a metà tra questi ambiti, in una sorta di regione intermedia, vista
anche come soglia e ponte di passaggio tra entrambi, che Plessner – e l’antropologia
208
H. Plessner, Al di qua dell’utopia, cit. p. 109.
H. Plessner, Phanomenologie…, cit. p. 142.
210
È fondamentale, a proposito di questi temi, il riferimento costante da parte di Plessner alla filosofia
della vita di Dilthey nella quale egli trova uno strumento utile al superamento di quello che egli vede
come limite della fenomenologia, ossia l’idealismo coscienzialistico. Di Dilthey, Plessner apprezza in
particolare la considerazione dell’uomo e della realtà come concretamente appaiono, ossia nelle loro
determinazioni storiche, così come si depositano e si stratificano nella cultura. In Dilthey tutto viene
riportato all’immanenza – processo della storia – rendendo impossibile un esame del reale che non si
estenda alla ‘connessione dinamica’ di concetti, valori, norme, linguaggio, arte, conoscenza, insomma a
tutto l’insieme di ciò che viene denominato cultura o ‘prodotto spirituale’. Alla coscienza soggettiva
trascendentale subentra la totalità vitale, la vita quale intreccio di forze che dalle sfere più elementari della
sensazione e del vissuto urge verso l’oggettivazione, spinge ad agire, creare, esprimersi. Se già per il
fenomenologo l’intuizione non è quella astratta e formale delle scienze, bensì quella ‘piena’ del vissuto
coscienziale, per l’ermeneuta l’intuizione si articola sempre necessariamente all’interno di una
grammatica culturale, storicamente mobile e mutevole. Come si esprime lo stesso Plessner: “La vita nel
senso di Dilthey è l’esperienza storica stessa, essa dischiude espressivamente la propria piena profondità
alla comprensione che l’investe. Nel medium della loro propria storia, agendo e patendo, soggetto e
oggetto sono reciprocamente apparentati e trasparenti l’uno per l’altro nella comunicazione e nell
comprensione (…). Questo è il senso della parola ‘vita’ usato terminologicamente da Ditlhey; essa trae da
sé stessa il suo significato, assieme alle categorie ermeneutiche che le appartengono, consegnandoli alla
comprensione pensante; essa, nella linea della sua realtà effettiva divenuta storia, forma le sue stesse
condizioni di possibilità. Mai ci si riconduce ad una zona di valori puri o di verità eterne oltre – o
sovrasotriche. L’eterno nel contenuto delle prestazioni umane non perde la sua pretesa nei confronti della
vita, ma certo perde la sua distanza ontologica da essa. Le categorie della vita sono pertanto grandezze
storicamente divenute, che hanno potere di formare la storia. La filosofia si trova qui in uno scambio con
l’esperienza del tutto nuovo: non più in una fissa distanza dalla conoscenza probabilistica di essa, o
rinunciando a sé in favore di questa, e neanche come trasformazione ed esternazione dell’esperienza nel
senso hegeliano, mainserita nel circolo con essa e nello scambio medesimo; una teoria essa stessa non
conchiusa di un passato storico non conchiuso. La relazione tra apriori e aposteriori in questo senso è
innanzitutto il fondamento per le connessioni su cui poggiano i giudizi di storia spirituale dei filologi, dei
giuristi, degli economisti e degli storici.” (H. Plessner, Lebenphilosophie und Phanomenologie (1949),
cit. in M. Russo, op. cit., p. 212.) L’analisi dell’opera di Plessner in relazione allo storicismo è condotta in
modo ampio e particolareggiato nel libro di S. Giammusso, Potere e comprendere…, cit.
209
87
filosofica in generale – dischiude, che si colloca l’indagine incessantemente rilanciata.
Di questa regione, faticosamente si cerca la descrizione, in un’indagine certo in linea
sotto alcuni aspetti con la fenomenologia: quello che resta da comprendere, la questione
fondamentale sempre di nuovo riproposta211 è dunque se a tale regione si possa pensare
come un luogo epistemico, di fondazione o esplicazione dei fenomeni secondo leggi,
ordini, relazioni, o non piuttosto il luogo in cui ogni fondazione, struttura, diviene
problematica. La terza ipotesi, infine, è quella che ne vede i caratteri tanto di fondazione
quanto di problematicità: la stabilità dell’episteme e la discontinuità che il domandare
stesso produce e alimenta.
1.5 M. Merleau-Ponty, da H. Plessner verso Dufrenne
Il riferimento all’a priori kantiano è quell’elemento all’ombra del quale si
raccolgono, prima di diramarsi in differenti direzioni, le riflessioni tanto di Plessner
quanto di Dufrenne, e prima di lui Merleau-Ponty.
Di quest’ultimo si può tenere fermo un passo presente nella Fenomenologia della
percezione, che esplicita la posizione dell’autore nei confronti di Kant e nella quale si
riflettono eco significative di quanto esposto con Plessner e di quanto seguirà con
Dufrenne:
Kant ha già dimostrato che l’a priori non è conoscibile prima dell’esperienza,
cioè fuori del nostro orizzonte di fattività, e che è assurdo distinguere due
elementi reali della conoscenza, uno dei quali sarebbe a priori e l’altro a
posteriori. Nella sua filosofia l’a priori conserva il carattere di ciò che deve
essere, in contrapposizione a ciò che esiste di fatto e come determinazione
antropologica, solo nella misura in cui egli non ha seguito fino in fondo il suo
programma, che si proponeva di definire le nostre facoltà conoscitive mediante
la nostra condizione di fatto e che doveva obbligarlo a ricollocare ogni essere
concepibile sullo sfondo di questo mondo. A partire dal momento in cui
l’esperienza – cioè l’apertura al nostro mondo di fatto – è riconosciuta come il
comnciamento della conoscenza, non c’è più modo di distinguere un piano della
verità a priori e un piano delle verità di fatto, ciò che il mondo dev’essere e ciò
211
E messa puntualmente a fuoco da V. Vitello nella presentazione al volume di M. Russo (op. cit. pp. 919).
88
che esso effettivamente è. L’unità dei sensi, che passava per verità a priori, non
è più se non l’espressione formale di una contingenza fondamentale: il fatto che
siamo al mondo; - la diversità dei sensi, che era considerata come data a
posteriori, anche nella forma concreta che essa assume in un soggetto umano,
appare necessaria a questo mondo, cioè al solo mondo che possiamo pensare in
modo conseguente: diviene dunque una verità a priori.
La meditazione merleaupontiana, in particolare nelle prime opere, è costellata di
passi in cui riecheggia in modo esplicito la riflessione di Plessner.
Se anche non si può certo parlare di filiazione diretta, è però possibile ravvisare se
non altro alcuni passaggi considerabili come trait d’union teorico e simbolico tra i due
autori cui ci rivolgiamo, considerando la grande influenza avuta da Merleau-Ponty sul
pensiero di Dufrenne.
Uno degli esempi più lampanti si trova ancora nella Fenomenologia della
percezione:
La sensazione, così come ce la offre l’esperienza, non è più una materia
indifferente e un momento astratto, ma è una delle nostre superfici di contatto
con l’essere, una struttura di coscienza: anziché avere uno spazio unico,
condizione universale di tutte le qualità, con ciascuna di esse abbiamo una
maniera particolare di inerire allo spazio e, in un certo qual senso, di fare dello
spazio. Non è né contraddittorio né impossibile che ogni senso costituisca un
piccolo mondo all’interno di quello grande; anzi, è in ragione della sua
212
particolarità che ogni senso è necessario al tutto e sbocca in esso.
Come si vede, è in questa linea di pensiero che le considerazione di Plessner
trovano nel pensatore francese una sorta di commento virtuale.
Ancora, quella della differenziazione e delle proprietà specifiche dei sensi, con
tutte le implicazioni nei riguardi di una teoria della conoscenza nonché di un’ontologia,
che fanno sensibilmente parte del problema estesiologico plessneriano, sono punti
essenziali nello sviluppo della filosofia merleaupontiana prima e dufrenniana, poi.
Come si legge di nuovo ne La fenomenologia della percezione:
212
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 300.
89
I sensi sono distinti l’uno dall’altro e distinti dall’intellezione, in quanto
ciascuno di essi porta con sé una struttua d’essere che non è esattamente
trasferibile. Possiamo riconoscerlo perché abbiamo respinto il formalismo della
coscienza e fatto del corpo il soggetto della percezione. E possiamo
riconoscerlo senza compromettere l’unità dei sensi. Infatti, i sensi comunicano.
(…) L’esperienza sensoriale è instabile ed è estranea alla percezione naturale, la
quale si effettua con il nostro corpo tutto insieme e sbocca in un mondo
213
intersensoriale.
Un comune atteggiamento nei confronti delle certezze frammentate della scienza,
così come lo abbiamo visto sviluppato da Plessner, fa parte dei binari su cui si sviluppa
la fenomenologia dell’autore francese.
La percezione sinestesica è la regola e se non ce ne accorgiamo, è perché il
sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo disimparato a vedere, a
udire e, in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione corporea
e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò ce dobbiamo vedere, udire e
sentire. (…) I sensi comunicano tra di essi aprendosi alla struttura della cosa.
(…) Pertanto, considerati come qualità incomparabili, i “dati dei diversi sensi”
dipendono da altrettanti mondi separati, dal momento che ciascuno di essi è,
nella sua essenza particolare, una maniera di modulare la cosa: ciò non toglie
214
che comunichino tutti in virtù del loro nucleo significativo.
Lo scopo, in questo caso, resta quello di precisare natura e confini del significato
sensibile al fine di ricusare ulteriormente l’analisi intellettualistica che l’autore vuole
invece sempre respingere. L’unità dei sensi non appartiene al medesimo ordine
dell’unità degli oggetti di scienza. Ugualmente, l’effetto della nostra percezione di
riunire in un unico mondo le nostre esperienze sensoriali non avviene secondo il
medesimo schema secondo cui la scienza collega oggetti e fenomeni. Non si tratta, cioè,
di una sorta di schema rappresentativo di oggetti in sequenza spazio temporale, bensì di
coglimento di qualcosa in unità e secondo uno schema presentativo.
Torneremo più avanti su queste distinzioni che vedremo ripresentarsi con
Dufrenne, che di fatti da Merleau-Ponty le deriva, in modo significativo.
213
214
Ivi, p. 303-304.
Ivi, p. 308-309.
90
Appartiene sempre a Merleau-Ponty quell’orizzonte che, con una comunanza di
tesi talora perfetta con Plessner, l’autore francese dischiude nel suo volume del 1942 La
struttura del comportamento.215 All’interno di quest’opera sono numerosi i riferimenti a
letture comuni, in particolare a F. Buytendijk in collaborazione con il quale Plessner
stesso pubblicò un lavoro.216 All’interno de La struttura del comportamento MerleauPonty si propone di discutere, basandosi principalmente sulla psicologia della forma, le
teorie sul comportamento delle principali scuole di psicologia, con particolare riguardo
per la psicologia della Gestalt e il behaviorismo. Differentemente dalla psicologia della
Gestalt, tuttavia, egli intende tematizzare tutti i diversi livelli, e le differenze che tra loro
intercorrono, in cui il comportamento si manifesta. Quest’ultimo, infatti, occupa una
sorta di regione intermedia tra fisico e psichico:
La struttura del comportamento quale si offre all’esperienza percettiva non è né
cosa né coscienza, ed è questo che la rende opaca all’intelligenza. (…) Il
comportamento è quindi fatto di relazioni, non è un involucro di coscienza pura,
217
e come testimone di un comportamento io non sono una coscienza pura.
Ciò significa comprendere il comportamento come la sola possibilità di afferrare il
corpo proprio e quello altrui nella sua specificità: cioè senza confonderlo col corpo
oggettivamente considerato della scienza fisiologica, riconoscendone la valenza
oggettuale e soggettiva allo stesso tempo. Ogni corpo sfugge ad ogni considerazione che
investirebbe un oggetto statico, presentandosi come il centro di prospettive e di
comportamenti verso il mondo che solo lui è.218 Non si può, in altre parole, ricondurre il
corpo in quanto tale alla cosa semplicemente percepita nel mondo, nella misura in cui i
suoi movimenti saranno sempre dei comportamenti: mai riferibili a un corpo estraneo
quale oggetto tra gli oggetti. I gesti del corpo, infatti, non sono coscienza astratta, ma
modi reali di stare al mondo e di esistere.
215
M. Merleau-Ponty, La structure du comportement, PUF, Paris 1942, 3° ed. 2006.
Die physiologische Erklarung das Verhaltens (1935).
217
M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 208-209.
218
È stato notato (M. Pangallo, op. cit., p. 80), e indicato quale punto debole, come così dicendo MerleauPonty assegni il medesimo statuto fenomenologico al comportamento vissuto in prima persona come a
quello osservato in altri. Se da un lato, infatti, una certa sinonimia tra i due è innegabile, dall’altro risulta
fenomenologicamente poco condivisibile l’atto di porli sullo stesso piano.
216
91
Di più, contrariamente a quanto accade per gli animali, i comportamenti dell’uomo
sono essi stessi portatori e generatori di significati tanto reali quanto simbolici:
Con le forme simboliche, compare una condotta che esprime lo stimolo per se
stesso, che si apre alla verità e al valore proprio delle cose, che tende
all’adeguazione del significante e del significato, dell’intenzione e di ciò che
essa mira. A questo punto il comportamento non ha più solamente un
219
significato ma è egli stesso un significato.
Interno ed esterno giocano un ruolo pressoché paritario e comunque mai del tutto
distinguibile nell’influenzare un comportamento; entrambi si articolano in modo
variabile e ogni volta influente nel suo complesso e per la sua complessità.
I rapporti tra l’individuo e il suo ambiente seguono costantemente un andamento
dialettico, per la descrizione del quale la nozione di ‘forma’ mantiene la propria
efficacia: “La forma è una configurazione visiva, sonora o addirittura anteriore alla
distinzione dei sensi, nella quale il valore sensoriale di ogni elemento è determinato in
base alla sua funzione nell’insieme e varia con questa funzione.”220
Di più, i differenti livelli su cui si assesta il comportamento dell’individuo umano
si spiegano secondo un duplice andamento che segue il corpo e l’anima, nel cui regno
intermedio trova posto l’elemento spirituale. Con quest’ultimo, inoltre, si inserisce nel
discorso anche quell’apertura all’agire morale che abbiamo visto dischiudersi con Kant,
essere perseguito con fermezza da Plessner e nel quale vedremo sboccare il percorso di
Dufrenne. Leggiamo:
Qui si vuole uguagliare la coscienza all’intera esperienza, raccogliere nella
coscienza per sé tutta la vita della coscienza in sé. Una filosofia di ispirazione
criticista fonda la morale sulla riflessione che ritrova dietro tutti gli oggetti, il
soggetto pensante nella sua libertà. Se al contrario riconosciamo, sia pure a
titolo di fenomeno, una esistenza della coscienza e delle sue strutture resistenti,
la nostra conoscenza dipende da ciò che noi siamo, la morale comincia con una
critica psicologica e sociologica di se stessa, all’uomo non si assicura dall’inizio
di avere una fonte di moralità, la coscienza di sé non gli appartiene di diritto, e
non si acquisisce che attraverso l’elucidazione del suo essere concreto, non si
219
220
M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 133.
Ivi, p. 212.
92
verifica che attraverso l’integrazione attiva delle dialettiche isolate -corpo e
221
anima-, tra le quali egli è inzialmente dislocato.
Una descrizione dell’uomo non può quindi avvenire nei termini di un essere
animale dotato di ragione, anche gli istinti rientrano nella dialettica spirituale, così come
questa è inconcepibile al di fuori delle situazioni concrete in cui si incarna.
Materia, vita e spirito non vanno a formare ordini distinti di realtà, indipendenti e
ciechi, ma rappresentano tre piani di significazione, tre forme di unità che tra loro
interagiscono e si legano “secondo una dialettica particolare”.222 Infine indistinguibili,
se non nei termini di differenti gradi di integrazione,223 si esibiscono in unità in quella
forma di fenomeno che è il comportamento umano.
È in questa visione che si invera, in una direzione che lo stesso Plessner a più
riprese aveva percorso, l’annichilimento di tutti i dualismi sterili e scientifici che
oppongono anima e corpo. I rapporti tra essi, infatti, nella lezione merleaupontiana,
restano oscuri solo fintanto che si cerchi di trattare astrattamente il corpo come
frammento di materia trascurandone i poteri dialettici.
Infatti:
Il soggetto vive in un universo di esperienza, in un ambiente neutro rispetto a
distinzioni sostanziali tra l’organismo, il pensiero e l’estensione; in un
commercio diretto con gli esseri, le cose ed il suo proprio corpo. L’ego come
centro dal quale irradiano le sue intenzioni, il corpo che le sostiene e le cose cui
si rivolgono, non sono confusi tra loro: sono soltanto tre settori di un unico
224
campo.
Si trovano numerosi rimandi virtuali ai problemi estesiologici, grazie ai quali è
possibile afferrare svariate suggestioni teoriche.
Come per Plessner, per Merleau-Ponty l’esperienza di una cosa reale non può
essere spiegata con l’azione di questa sulla mia mente. Se è il senso delle cose ciò che
221
Ivi, p. 240.
Ivi, p. 217.
223
Ibidem.
224
Ivi, p. 205.
222
93
infine giunge alla coscienza umana, esso giunge però solo in virtù delle esperienze
percettive e ancora in virtù di queste ultime esso è in grado di trascenderle.
Il comportamento diventa pertanto il luogo in cui la profonda solidarietà che lega
corpo e anima si manifesta e rende intelligibile.
La soluzione merleaupontiana va poi oltre e si manifesta in una specifica visione
della coscienza, letta esplicitamente nei termini di coscienza percettiva. Infatti, come si
legge nella Fenomenologia della percezione: “Per quanto concerne la coscienza,
dobbiamo concepirla non più come una coscienza costituente e come un puro essereper-sé, ma come una coscienza percettiva, come il soggetto di un comportamento, come
essere al mondo o esistenza.”225
Prima di passare alla trattazione diretta di Dufrenne, che è quanto ci sta
maggiormente a cuore, possiamo concludere questa breve diversione merleau-pontiana
riassumendo i motivi che ci hanno condotto ad aprirla e, con essi, i punti che questi
primi due capitoli ci hanno permesso di mettere a fuoco.
Quello dell’inquadramento, della comprensione e della descrizione dei rapporti tra
gli aspetti corporei dell’uomo e gli aspetti spirituali che lo caratterizzano è un problema
complesso che, come abbiamo visto, caratterizza la riflessione sul fenomeno umano
tanto nei termini antropologici quanto nei termini filosofici e fenomenologici in
particolare. L’affinità di temi tra questi autori e questi ambiti di ricerca è l’altro lato
dell’importanza filosofica che lo sviluppo di questo tipo di questioni, che come abbiamo
visto a loro volta affondavano in molteplici e stratificate esperienze scientifiche,
filosofiche e culturali precedenti, ha assunto nel corso del secolo scorso.
Le iniziali digressioni di carattere storico sono quindi servite per molteplici ragioni.
Quelle relative a Dufrenne hanno permesso di mettere a fuoco la provenienza della
sua meditazione e di sottolinearne la pregnanza nel quadro delle questioni che da oltre
un secolo animavano l’estetica francese e che, come si vede nella seconda parte del
primo capitolo, non sono estranee allo sfondo teorico dell’antropologia filosofica di area
tedesca.
225
Mereleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 456.
94
Quelle relative all’antropologia filosofica, necessarie ad introdurre una disciplina
tanto complessa e in Italia non a tutti nota, hanno risposto a un duplice obiettivo:
innanzitutto mettere in luce il momento storico in cui questo tipo di problemi si è fatto
strada e radicato in modo ineludibile nell’orizzonte dei pensatori. Momento in cui la
differenziazione dei saperi e la loro specializzazione ha portato in primo piano la
frammentazione dell’umano e richiesto un suo nuovo e più completo riafferramento. In
secondo luogo, è stato possibile esplicitare il medesimo humus da cui hanno preso vita
quelle due declinazioni tanto distanti, eppure sotto molteplici aspetti tanto affini,
dell’interrogazione dell’umano rappresentate dall’estetica e dall’antropologia filosofica.
Con Plessner, e grazie all’apertura fornita dai riferimenti kantiani, abbiamo visto
come la sensibilità sia stata vissuta e analizzata secondo problematiche angolazioni al
fine di esplicitare la possibilità di, tramite essa, afferrare sensi che i sensi veri e propri
non sono in grado, fisicamente, di esaurire. Il problema della sinestesia, dell’unità dei
sensi e delle loro interazioni diventa allora il problema della possibilità, che tramite essi
ci è offerta, di afferrare qualcosa (un insieme, un significato) che da essi permette di
esulare.
Se è possibile individuare in questo aspetto una delle caratteristiche fondamentali
dell’umano, si spiega allora quella comunanza di direzioni che abbiamo cercato di
esplicitare. Si spiega anche la necessità di un cenno a Merleau-Ponty, per il quale il non
percepibile che è oltre e grazie a la nostra percezione è stato oggetto delle ricerche di
una vita, dal momento che è a partire dal suo pensiero che ci si può avvicinare a quello
di Dufrenne.
Di quest’ultimo indagheremo in particolare il concetto di sinestesia all’interno
dell’indagine antropologica, così come esso è implicato dalla sua notion d’à priori.
Cercheremo poi di farla agire nel contesto artistico, facendo perno sull’eredità teorica
dell’autore, raccolta nell’ultima opera L’occhio e l’orecchio. Dovremmo poterne
ricavare un quadro esauriente della concezione del soggetto da parte dell’autore
arricchita dalle aperture offerte dalla proposta dufrenniana di pensare un quasi-soggetto
che si incarna nelle opere d’arte.
95
CAPITOLO 2:
L’OGGETTO ESTETICO, UN MONDO
TRA PERCEZIONE E IMMAGINAZIONE
2.1 La sensibilité généra(lisa)trice
Il passaggio da un orizzonte specificamente antropologico ad uno dove la
prospettiva antropologica si integra con una più strettamente fenomenologica richiede in
prima istanza una notazione basilare: in questo ambito qualsiasi discorso che abbia per
oggetto l’uomo si configura essenzialmente e in modo pressoché assoluto come un
discorso sul corpo. È a questo che, sulla scia dell’eredità husserliana, tanto con
Merleau-Ponty che con Dufrenne si guarda esplicitamente, nel costante tentativo di
chiarirne le valenze sia antropologiche sia ontologiche e persino metafisiche.
In questa linea, nella meditazione di Mikel Dufrenne confluiscono, reagendo l’uno
sull’altro secondo nuove prospettive, tanto i lasciti merleaupontiani che quelli
husserliani. In particolare, Dufrenne ha e tiene costantemente più che presente la figura
che con Merleau-Ponty esplicita le relazioni che legano il soggetto, inteso sempre come
soggetto percettivo, al mondo delle cose e degli altri soggetti: la carne, che va a
svolgere la funzione dell’antico termine “elemento, nel senso in cui lo si impiegava per
parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco”226. Concepita come “nozione
ultima”, la carne è intesa “nel senso di una cosa generale, a mezza strada fra l’individuo
spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere
in qualsiasi luogo se ne trovi una particella”227.
226
227
Il visibile e l’invisibile, cit., p. 156.
Ibidem.
96
Come ricorda Emmanuel de Saint Aubert228, la scelta del termine carne da parte di
Merleau-Ponty pone al lettore l’inevitabile tentazione di ricondurre il concetto al Leib
husserliano di Ideen II o della Quinta Meditazione Cartesiana229. Termine di difficile
traduzione, il Leib designa in Husserl il corpo vivente, ma anche il corpo vissuto, quello
legato a una soggettività. Distinto quindi dal corpo materiale fisico, che i tedeschi
indicano col termine di Korper, che non si può considerare secondo questo duplice
punto di vista, il Leib è in prima istanza il mio corpo, intimamente vissuto dall’interno,
immediatamente avvertito come la mia soggettività, sensibile e senziente. Sotto questo
punto di vista la carne di Merleau-Ponty potrebbe condividere alcuni aspetti con la
nozione di Husserl, designando tanto il corpo vivente quanto quello vissuto o anche ciò
che ne L’uomo e le avversità viene semplicemente chiamato il “corpo animato”230. Un
esplicito accostamento della chair al Leib si trova in realtà solo in pochi brevi passaggi
di alcune note personali non destinate alla pubblicazione, in cui i due concetti sono
assimilati, come troviamo ad esempio nelle note di lavoro che seguono Il visibile e
l’invisibile: “La carne, il Leib, non è una somma di toccarsi (di sensazioni tattili), ma
nemmeno una somma di sensazioni tattili + delle ‘cinestesi’, è un ‘io posso’”231.
Il Leib husserliano si presenta in effetti, diversamente dalla chair del filosofo
francese, come una totalità metodicamente isolabile all’interno della relazione
intenzionale, “resto di un’operazione astrattiva”232. Mai del tutto riducibile, descritta in
termini dinamici, la carne merleau-pontiana è invece costantemente in circolo,
sostanzialmente impura nel suo continuo rimescolamento negli altri e nel mondo.
228
E. de Saint Aubert, Du lien des etres aux éléments de l’etre. Merleau-Ponty au tournant des années
1945-1951, Vrin, Paris 2004.
229
Una possibile corrispondenza della chair merleau-pontiana con il Leib di Husserl sembra
esplicitamente considerata da M. Richir in Le sensibile dans le reve, in Merleau-Ponty, Notes de cours
sur “L’origine de la géométrie de Husserl, suivi de Recherches sur la phénoménologie de Merleau-Ponty,
Presses Universitaires de France, Paris 1998, pp. 239-254.
230
M. Merleau-Ponty, L’uomo e le avversità, in Segni, cit., pp. 294-317.
231
Note di lavoro, ne Il visibile e l’invisibile, cit. p. 267. Un’analisi dettagliata delle occorrenze del
termine Leib nei testi di Merleau-Ponty si ha in E. de Saint Aubert, op. cit., in cui si sottolinea come l’uso
del termine sia quasi del tutto riservato all’interno dei tre corsi su Husserl (1957, 1959 e 1960.)
232
P. Ricoeur, Edmund Husserl. La cinquiéme méditation cartésienne, in A l’école de la phénoménologie,
Vrin, Paris 1986.
97
La carne non rientra nella meditazione merleau-pontiana in un’ottica di
ripensamento husserliano, bensì assume caratteri che la rendono un’originale novità233,
inserita in un progetto decisamente personale.
Nella chair del filosofo francese è tuttavia presente un ripensamento radicale e
rigoroso di un concetto husserliano: il darsi in carne e ossa234. Al paragrafo 24 di Ideen
I, Husserl enuncia il noto “principio di tutti i principi” della fenomenologia:
ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza,
tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne e ossa) è
235
da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà.
In questo modo la verità è raccolta sotto l’evidenza dell’intuizione, come presenza
incarnata di ciò che è percepito. Nell’intuizione, immaginativa o percettiva, l’oggetto
non è rappresentato, ma letteralmente presentato, presente in carne e ossa236. Alla
descrizione essenziale della percezione risulta estraneo ogni riferimento alla sensazione,
con un allargamento del campo percettivo anche a qualcosa che è sostanzialmente
assente237.
Barbaras ritiene in modo condivisibile che senza dubbio questa prospettiva informi
l’approccio al tema della percezione sviluppato da Merleau-Ponty, in particolare
all’interno de Il visibile e l’invisibile, dove la fede percettiva può essere letta all’ombra
della donazione in carne e ossa con una radicalizzazione della prospettiva husserliana.
Secondo questa comune impostazione è possibile tematizzare la percezione sfuggendo
alla dicotomia di sensibile e intelligibile: non è la sensazione che apre l’indagine sul
233
“Ed è noto che nella filosofia tradizionale non c’è nome per designare tutto ciò”. M. Merleau-Ponty,
(Il visibile e l’invisibile, cit. p. 155.)
234
Il parallelismo riscontrabile tra i concetti dei due filosofi è tematizzato in particolare da R.
Barbaras, in Le tournant de l’expérience. Recherches sur la philosophie de Merleau-Ponty, Vrin, Paris,
1998, p. 82.
235
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a c. di E. Filippini,
Giulio Einaudi Editore, Torino 1970, pp. 50-51.
236
“L’esperienza originalmente offerente è la percezione, nel senso usuale della parola” (Ivi, p. 15), “La
visione empirica, in ispecie, l’esperienza, è coscienza di un oggetto individuale; […] in quanto è
percezione, lo porta a datità originaria, ossia è consapevolezza di afferrare l’oggetto nell’originale, in
carne ed ossa” (Ivi, p. 19.)
237
L’esempio più pregnante è senz’altro costituito da alcuni passaggi relativi al tema del ricordo primario,
distinto dalla rimemorazione e assimilabile alla percezione. Il tema è complesso e certo non esauribile in
questa sede dove si ritiene preferibile, per quanto non esauriente, un breve cenno funzionale alla
comprensione dell’ottica di Merleau-Ponty.
98
rapporto percettivo, bensì questa modalità di emergenza del mondo denotata come darsi
in carne.
L’aspetto più originale e interessante è la descrizione di questo emergere del
mondo in termini di iniziazione a un certo senso238 d’essere, se non proprio al senso
dell’Essere, dei fenomeni stessi del mondo. Ciò significa riconoscere nell’originario
mélange percettivo il germe di ogni riconoscimento di senso, che eccede ogni
determinazione, più o meno implicita, dell’essere in termini di Oggetto puro e semplice.
La presenza carnale è quel fondo a partire dal quale qualcosa come un oggetto può
essere investito di senso; essa esplicita il fungere di una presenza originaria sulla cui
base si può pensare e comprendere ogni articolazione e donazione di senso.
La digressione su questo tema non è trascurabile, come vedremo, la carne
merleaupontiana è sfondo teorico molto pregnante per tutto il percorso di Dufrenne. Ma
tale inciso non è secondario soprattutto per l’esplicitazione di un’impostazione di
pensiero che si può ritrovare con costanza anche in Mikel Dufrenne: l’interrogazione
del rapporto originario col mondo e tra i soggetti è profonda e radicale, essendo la
domanda che sola può portare in luce l’emergenza dell’essere e del suo senso per noi
che equivale a esplicitare il nostro modo di frequentare il mondo.
È possibile identificare in questo sfondo le forze che continuano ad esercitarsi nel
cammino dufrenniano e, tenendole presente, prendere come punto di partenza, utile a
mettere a fuoco direzioni e intenti del percorso, lo scritto che egli dedica alla Sensibilité
238
Si impone a questo proposito una precisazione terminologica: in Merleau-Ponty, che non entra a fondo
nel valore logico e linguistico della distinzione tra senso e significato, questi due termini restano
indistinti. Di fatto, come osserva J. Hyppolite (Figures de la pensée philosophique, PUF, Paris 1971), si
può ravvisare una riduzione di ogni significato al senso. È comunque vero che l’assenza di un esplicita
distinzione tra senso e significato non è casuale nelle opere di Merleau-Ponty. Tutte le sue analisi sono
infatti in sintonia con una tesi che egli mutua da Sartre: “Il punto di vista di una coscienza pura è
contradditorio: non vi è che il punto di vista della coscienza impegnata. Il che significa che la conoscenza
e l’azione non sono che due facce astratte di una relazione originale e concreta”. (Jean Paul Sartre,
L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 384). Di fatto Merleau-Ponty assume una distinzione tra
senso e significato, ma si mostra convinto che nessuno dei due possa presentarsi se non con-fuso all’altro.
Un passo rende esplicita la reciproca implicazione; infatti, come si può leggere nella citazione che segue,
il significato rappresenta il correlato della coscienza nella sua contemplazione disinteressata, mentre il
senso rimanda al sapere della prassi in connivenza passionale con il reale: “ Noi non abbiamo altro modo
di sapere ciò che è un quadro o una cosa se non guardarli, e il loro significato non si rivela che se noi li
guardiamo da un certo punto di vista, da una certa distanza e in un certo senso, in una parola se noi
mettiamo al servizio dello spettacolo la nostra connivenza col mondo.” (Fenomenologia…, cit., p. 548).
Pertanto, non v’è “spettacolo” che non nasconda una “connivenza”, significato che non vesta un senso.
99
génératrice, del 1960.239 Qui, a partire da alcuni passi del Traité d’Esthétique di
Raymond Bayer (1898-1959), uno dei protagonisti dell'estetica francese di ispirazione
realistico-formale e cofondatore insieme a Lalo e Souriau della “Revue d'Esthétique”
nel 1948, Dufrenne si interroga su “cette sensibilité qui semble revendiquer les
fonctions de l’intelligence”240, protagonista dell’esperienza estetica. Quello che snoda in
queste pagine è un percorso intorno ad alcuni dei temi rimasti sempre centrali nella sua
filosofia, come la sensibilità e l’esperienza estetica in generale, esplicitati però secondo
un’angolazione particolarmente pregnante che non sempre si ripresenta con la stessa
sintetica decisione nei testi più importanti.
Seguiamo allora l’esposizione dell’autore intorno a questo tema, al fine di mettere a
punto alcune delle linee che saranno guida di quanto seguirà, indice dei suoi e nostri
interessi, interrogativi e riferimenti teorici.
Notazione di base e di partenza, forse banale ma non scontata -almeno non in
quell’orizzonte teorico dove Dufrenne sceglie di collocarsi tra la fenomenologia
husserliana e quella francese- è quella che ribadisce il ruolo primario della sensibilità
all’interno dell’esperienza estetica.241 Ma è proprio questa sensibilità essenziale a
rivelarsi immediatamente oggetto di una seria messa in questione, nelle sue commistioni
con gli ambiti che tradizionalmente riguardano intelletto e jugement. Quello che preme
al Dufrenne di queste pagine, in linea con le indagini filosofiche di una vita, è districare
il melange percettivo che, in presenza di un oggetto estetico, mette in corto circuito
essere e apparire, ragione e sentimento.
C’est toujours au verdict de la sensibilité que nous nous en remettons, créateur
pour juger que l’oeuvre est achevée, spectateur pour juger qu’elle est belle.
Ainsi déjà la sensibilité semble exercer la fonction du jugement.242
Ma, continua Dufrenne, si tratta di un tipo di giudizio lontano da quello
tradizionale, poiché in questo caso esso non si esercita sull’oggetto stesso, presentandosi
239
La sensibilité génératrice, “Revue d’Esthétique”, Paris 1960, XIII, 2 oggi in M. Dufrenne, Esthétique
et philosophie, Tome 1, Klincksieck, Paris 1988, pp. 62-71.
240
Ivi, p. 62.
241
“Que l’expérience esthétique concerne en premier la sensibilité, nul n’en doute”. (Ivi, p. 62.)
242
Ibidem
100
piuttosto come la promessa di un’attesa colmata in un’esperienza “felice”. Uno dei
primi riferimenti nel chiarimento di questi temi è rappresentato da Husserl, in
particolare dal suo concetto di riempimento così come Dufrenne lo legge e lo cita da
Ideen II. Se ogni atto, nel suo essere donazione di senso, percezione di un oggetto, è
ricerca e attesa e in maniera generale l’evidenza è il riempimento dell’intenzionalità da
parte della presenza dell’oggetto, al livello della sensibilità questo riempimento può
essere quantitativo o qualitativo; l’uno teso al riconoscimento della realtà di un oggetto
l’altro all’afferramento della sua bellezza. Ma lo strumento husserliano non basta a
Dufrenne per rendere conto di quella sensibilità che, nell’esperienza estetica, condivide
e addirittura secondo lui rivendica, alcune caratteristiche dell’intelligenza. In questo,
come dichiara egli stesso, l’autore è più in linea con certe meditazioni di Heidegger che
riconoscono al sentire estetico l’allure del pensare. Allure che, evidentemente, richiede
esplicitazione e comprensione filosofica dei “caractères pensifs” del sentire estetico,
inteso come “sensibilité-sentiment”243. “Si ce sentiment nous situe en deçà de
l’intelligence et de sa fonction judicatoire, par lui du moins nous sommes d’intelligence
avec l’oeuvre; nous éprouvons l’oeuvre dans sa vérité.”244 E questa verità è per
Dufrenne molto lontana dall’idea del vero per adeguazione. A questa nozione egli
sostituisce piuttosto il concetto di svelamento (dévoilement), pregnante in un’ottica che
dell’esperienza estetica voglia centrare la componente di “apparire” e mettere questa in
stretta e diretta relazione con l’essere. È proprio in questa prospettiva, infatti, che
Dufrenne costruisce il suo discorso e, all’interno stesso della direzione fortemente
ontologica innesta e rivela un profondo interesse antropologico. Si legge precisamente
in queste righe una delle affermazioni dove la sintesi di queste due direzioni si
manifesta con maggior chiarezza, non a caso riguardo all’esperienza estetica.
Prima di citarla e analizzarla leggiamo brevemente come egli vi giunga attraverso
l’idea di svelamento sulla quale pare investire con determinazione:
Le dévoilement n’est pas l’acte de l’Être, c’est la vocation d’un être, et c’est
pourquoi cet être en appelle à ma sensibilité, comme déjà à la sensibilité du
243
244
Ivi, p. 63.
Ibidem.
101
créateur pour qui chaque esquisse doit apparaître pour comparaître devant son
jugement.245
Ne emergono alcune scelte lessicali e teoriche salienti. La prima è quella, in linea
con l’apertura del saggio, dell’appello alla sensibilità; sottolineata e confermata in
questo caso, però, nel suo carattere ontologico di appartenenza rispetto all’oggetto
considerato. In secondo luogo, viene dichiarata e ribadita la dimensione intersoggettiva
dell’esperienza estetica nell’accostare la sensibilità percipiente, diciamo del pubblico, a
quella dell’autore di un’opera. Infine, con la sottile distinzione tra apparaître e
comparaître, l’apparire di un’opera viene articolato tanto nel suo venire alla presenza,
assumere esistenza dal nulla, quanto nel suo più semplice ripresentarsi alla vista e, ogni
volta di nuovo, al giudizio.
Diventa più importante e sottile il riferimento al rapporto percettivo in termini
anche di apparire, proprio perché la nozione di svelamento chiama in causa una
componente di innovazione e rinascita che nell’apparire stesso si manifesta. Quando
questa percezione riguarda l’oggetto estetico, allora, il rimando non può più essere
esclusivamente contenuto entro i limiti della presenza e dell’indiscutibile realtà. Al
contrario, quella che Dufrenne delinea qui, è una caratterizzazione di considerevole
importanza dell’oggetto estetico in chiave antropologica, poiché: “L’expérience
esthétique n’est pas l’expérience de la présence, mais de la réalité d’un objet qui
requiert pour être que je lui sois present”246. Al di fuori di questa presenza, che è
termine pregnante nel percorso del filosofo tanto da diventare, come si vedrà, filo
conduttore del suo ultimo scritto, l’oggetto estetico semplicemente non esiste. La sua
realtà stessa viene messa in completa discussione e tutti i suoi possibili effetti annullati
in un discorso vano.247
Il punto saliente che emerge in questo saggio riguarda quindi, da una parte, la
caratterizzazione
antropologica
dell’oggetto
estetico
proprio
in
quanto
245
Ibidem.
Ibidem.
247
La centralità di questa presenza percettiva non indebolisce, ma anzi corrobora, la necessità di indagare
anche le specificità ontologiche che all’oggetto estetico appartengono. Tale ambito è tuttavia meglio
affrontato nell’opera principale Phénoménologie de l’experience esthétique della quale ci occuperemo più
avanti.
246
102
indissolubilmente legato a un momento di presenza al soggetto e, dall’altra, la lettura
della percezione che ne rende possibile l’apparire -nel duplice senso di apparaitre e
comparaitre- in termini di sensibilité généralisatrice. In essa Dufrenne mostra l’azione
congiunta di un sentire che è già, esso stesso, più che percezione poiché:
Ce qui est à l’oeuvre dans cette perception, ce qui aiguise la sensibilité
esthétique, c’est l’imagination. Non point l’imagination emportée et délirante
que la perception toujours réprime, mais l’imagination ordonnante et exaltante.
“Un des caractères principaux de la sensibilité généralisatrice, c’est d’être une
248
sensibilité imaginative” écrit Bayer.
Sul tipo di azione di questa immaginazione interna all’attività percettiva l’autore
torna a più riprese nei suoi scritti successivi, mantenendo una coerenza che completa
lungo il percorso quello che nel testo qui preso in esame è lasciato inespresso.
L’immaginazione che agisce nella percezione degli oggetti estetici come la intende
Dufrenne è già quella che si prepara a tornare anni dopo ne L’occhio e l’orecchio, è:
Meno potere di associare che potere di aprirsi e di comunicare, di lasciare che il
sentito riecheggi nel senziente. È importante, ribadiamolo, distinguere
nettamente tra un immaginario che, procedendo dal soggetto, offusca la
percezione fino ad annullarla nell’illusione, e un immaginario che dispiega e
arricchisce il senso del percepito.249
Con l’apertura immaginativa, con lo scarto operato all’interno della realtà percepita
dall’azione dell’immaginazione, l’oggetto estetico può essere colto nelle sue molteplici
stratificazioni che chiamano in causa quell’approccio vasto e globale che si raccoglie
sotto il segno della sinestesia. Ma il saggio che stiamo seguendo ora, vira in una
direzione diversa. Non meno perspicua. Qui, nel momento in cui si interroga
sull’apertura e la varietà insite nell’oggetto estetico e nella sua percezione, Dufrenne
rintraccia il polo unificatore del processo nel concetto di espressione. È l’espressione il
luogo in cui la dispersione immaginativa della sensibilità generalizzatrice si raccoglie
sotto un segno unico e singolare che permette l’identificazione (che è al tempo stesso
248
249
M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 65.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 134.
103
creazione) dell’oggetto. Certo, e Dufrenne lo sa bene e lo riconosce poche righe dopo,
chiamare in causa l’espressione implica una forma di sapere precedente, una mediazione
o, con la forma che usa lui, il fatto che non si vada mai nel mondo a mani vuote; ma
quello che conta, per lui e per noi, è il fatto che l’afferramento finale avviene in un sol
colpo, poiché tutto ciò che accade nella percezione estetica riguarda l’antepredicativo e
ci
riporta
sempre
“à
la
spontaneité
d’avant
la
connaissance”250,
cioè
all’immaginazione251.
Grazie alla sensibilité généralisatrice si dischiude inoltre l’accesso a quella che
Dufrenne, in linea con Husserl, indica come l’essenza dell’oggetto. Il carattere
principale di tale essenza risulta quello di essere sensibile, incarnata e disponibile alla
presentificazione. Tutto il senso dell’oggetto non dipende da una concettualizzazione di
esso, al contrario, è un senso “totalement immanent au sensibile”. In questo modo,
lontana da derive metafisiche, quella di Dufrenne si chiarisce esplicitamente come una
posizione che riconosce la possibilità del dialogo tra momento percettivo e
caratteristiche ontologiche come anche, in definitiva, tra antropologia e ontologia.
A questa immaginazione, tuttavia, l’uomo è introdotto, nella teoria dufrenniana, nel
più paradossale dei modi: non tramite aperture scomposte, che conducono al disordine
di fantasmi e fantasie, bensì “par ce qu’il y a d’intelligent dans la sensibilité
estéthique”.252 Lo sbocco immaginativo, quindi, si configura come elemento d’ordine e
di rigore, benché libero; elemento comunicativo e, benché intellettuale, sempre
sensibile. Di più, “dans le sujet l’imagination est d’abord le pouvoir d’unifier le
sensibile”. 253 Su questo punto Dufrenne è esplicito nel marcare la propria diversità da
Kant: l’unità del sensibile non rimanda per lui al concetto, come per il maestro tedesco,
250
M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 66.
Questo snodo teorico non sembra rappresentare un caposaldo privo di indecisioni nel percorso di
Dufrenne. In un testo di qualche anno precedente la preoccupazione dell’autore sembrava più quella di
affrancare la percezione estetica da qualsiasi altra influenza per riconoscerle piuttosto una forma di
primato. “La perception esthétique, en effet, est la perception royale, celle qui ne veut être que perception,
sans se laisser seduire ni par l’imagination qui invite à vagabonder autour de l’objet présent, ni par
l’entendement qui invite à le redire, pour le maitriser, à des déterminations conceptuelles” (M. Dufrenne,
Intentionnalité et esthétique, “Revue philosophique”, 1-3, PUF, Paris 1954 oggi in M Dufrenne,
Esthétique et philosophie, tome 1, p. 55.) Già in queste pagine, tuttavia, l’autore adombrava la necessità
di dare ragione della componente concettuale che abita la percezione sensibile che lo condurrà quindi, in
seguito, allo sviluppo dell’idea qui presa in esame di sensibilité génératrice.
252
M. Dufrenne, La sensibilité génératrice, cit. p. 66.
253
Ibidem.
251
104
ma sempre e solo al sentimento sensibile. Rimanda alla presenza del mondo che, seppur
in modi ineffabili, si rivela sempre e innanzitutto al sentimento.
Car il faut aussitôt ajouter que l’imagination, en même temps qu’elle unifie,
illimite l’objet, le dilate aux dimensions d’un monde: elle n’ajoute pas de
l’imaginaire au réel, mais elle grandit le réel jusqu’à l’imaginaire, un imaginaire
qui est ancore le réel et qui achève de l’unifier au lieu de le disperser.
Questa osservazione conduce a una conclusione ulteriore, che dall’oggetto si sposta
sul soggetto, poiché l’unità del primo non è consacrata se non nell’unificazione anche
del secondo che, tutto intero, si fa presente all’oggetto. Elevando, in una forma di
progressione che è anche in un certo modo sovrapposizione e equivalenza, la sensibilità
al sentimento. In tal modo, è proprio grazie all’azione dell’immaginazione, nei termini
in cui la descrive Dufrenne, che tra sensibilità e sentimento si instaura quella
comunicazione che è flusso e corto circuito, caratteristica specifica della percezione
estetica: rigorosa eppure ineffabile.
La dispersione che l’immaginazione sa riunire non è quindi legata esclusivamente
alla diversità e molteplicità del reale e alle variegate sfumature dell’oggetto estetico;
oltre a questo, infatti, essa investe con altrettanta forza tutte le potenze dell’io per
restituire di esso un’immagine singolare. Nella quale le differenze coesistono ma non ne
disperdono unità né unicità.
Di questa immaginazione che agisce nel momento percettivo, grazie al suo potere
unificante quanto creativo, si può allora capire il carattere prelogico e, in perfetta linea
con le direzioni degli interessi dell’autore, originario. In questo modo si risolve la
dicotomia tra sensibile e intelligibile senza negare il coté concettuale dell’oggetto
estetico; anzi, di esso si riconosce necessità e particolarità poiché “ce qu’il y a de
logique” nell’oggetto estetico “ne peut être dit que dans le langage de l’affectivité”.254
Come si vede, questo ci riconduce con coerenza al fondo merleaupontiano che abbiamo
citato in apertura, quello che riconosce nel rapporto carnale al mondo il nodo in cui la
dicotomia tra sensi e concetti si scioglie.
254
Ivi, p. 69.
105
Immaginazione e sensazione sono all’opera nella percezione estetica, nella
sensibilité généralisatrice, ma Dufrenne non manca di chiarire quanto intensamente
esse siano all’opera nella fase creativa del lavoro artistico. In questo senso si crea una
sorta di livellamento lessicale, che è tutt’altro che un appiattimento, tra espressione e
percezione estetica, che a sua volta conduce agli ambiti di riferimento della sinestesia e
dello stile.
Quest’ultimo, in senso assolutamente merleaupontiano, è ben chiaro a Dufrenne
che anche nel testo qui esaminato vi fa esplicito riferimento riconducendo sotto di esso
l’azione dell’immaginazione come l’abbiamo appena vista che a sua volta diventa
“marque d’un style”.255 La sinestesia, invece, viene chiamata in causa in maniera meno
esplicita benché con coerenza teorica. La dispersione sensibile, infatti, che
l’immaginazione riunisce e che la sensibilità generalizzatrice afferra con le sue
componenti concettuali, condivide la problematicità della differenziazione dei sensi, la
necessità di una loro comprensione in unità anche in forza del loro rappresentare un
accesso a ciò che di sensibile nell’oggetto estetico non c’è.
Si capisce quindi, probabilmente, il valore originario e fungente delle nozioni che
in questo modo si dispiegano e che, a loro volta, tornano a dialogare assiduamente con
quell’intenzionalità fungente tematizzata da Husserl cui abbiamo fatto riferimento in
apertura di questa tesi. Il rapporto che unisce soggetto e oggetto nella percezione
estetica, con la quale ora intendiamo insieme a Dufrenne sia l’atto del creatore che
quello dello spettatore, si configura allora come rapporto originario al mondo del quale
è bene sottolineare come sia non delirio ma uno dei modi di nominare “le premier
visage che le monde révèle à l’homme, le logos enveloppé dans la nature”.256
Quello dell’immaginazione in questo contesto si riconferma allora un ruolo
comunicativo grazie al quale Dufrenne può equiparare, al fine di chiarirli possibilmente
entrambi, il rapporto tra l’uomo e il mondo e quello tra l’artista e l’opera che del primo
rappresenta un esempio significativo. La potenza del vedere e la potenza del fare si
intrecciano allora in un insieme che nell’oggetto estetico trova compimento. È su questa
base che Dufrenne sente il richiamo che, proprio a partire da una filosofia dell’arte,
255
256
Ibidem.
Ibidem.
106
spinge verso una filosofia della natura secondo quel binario di interessi che costituisce
una delle sue principali linee guida.
La prima conclusione a cui possiamo giungere allora, grazie alla sintesi teorica
offerta dallo scritto sulla sensibilité généralisatrice è quella che permette di indicare, se
non altro, i contorni teorici che delimitano il nostro percorso che è forse possibile
configurare in due triangoli: sensibile con sensazione e immaginazione, sinestesia con
espressione e stile.
Tutti questi elementi fanno capo, anche se in modi e secondo angolazioni
leggermente differenti, al problema generale dell’unità del sensibile che, a sua volta, è
raccoglibile sotto quello con il quale la filosofia occidentale si confronta fin dai suoi
albori: il problema dall’uno e del molteplice.
Indagare questi temi con Dufrenne significa accettare di farlo rimanendo a stretto
contatto con quel dominio sfrangiato e variegato che è il mondo delle arti. È Dufrenne
stesso a indicare espressamente questa notazione; nella maggior parte dei casi attraverso
una pratica filosofica spesso e volentieri sporca d’arte, ma anche con un passo esplicito
che si legge ne L’occhio e l’orecchio.
Le ragioni, e ce ne sono due, per cui chiederemo alle arti se e come tendano a
ritrovare l’unità originaria del sensibile, non sono immediatamente evidenti. Il
problema con il quale ci stiamo confrontando è, infatti, quello dell’uno e del
molteplice, e quanto osserviamo in prima istanza è la pluralizzazione dell’arte,
la pluralità delle arti che conferma la pluralità del sensibile.257
La frammentazione dei sensi fa parte dei riferimenti dufrenniani con una costanza
che gli deriva tanto dai suoi interessi specifici quanto, altrettanto, da quell’immensa
mole di lavoro che egli mutua da Merleau-Ponty.
Nella sua analisi, tenendo anche e soprattutto conto di quel ruolo che egli
attribuisce all’immaginazione, Dufrenne opera una strenua difesa della tattilità258
257
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 138.
Il tatto è stato protagonista, com’è noto, di innumerevoli analisi, spesso legate anche all’arte in diverse
sue manifestazioni. Burke, ad esempio, pur continuando a ribadire il trionfo della vista, era arrivato ad
258
107
parallela a una critica della priorità che la vista possiede nella storia della cultura e della
civiltà occidentali. D’altra parte, l’apertura alle cose così come la descrive Dufrenne,
non avviene grazie a singole e separate azioni che si sintetizzano ma tramite una
comunicazione nella totalità del corpo di tutti gli organi sensoriali. Tutto il corpo, nella
sua interezza, è chiamato in causa nel momento percettivo senza che sia mai possibile
stabilire confini netti tra ciò che è percepito dall’occhio piuttosto che dal naso. Quello
che su cui l’autore francese torna a più riprese, e che la sensibilité généralisatrice che
abbiamo descritto presenta eloquentemente, è il ruolo attivo, e non semplicemente
ricettivo, dei sensi. Da questa impostazione che vede i sensi come campi interagenti
consegue l’eliminazione definitiva di ogni netta separazione e specificità degli organi
sensoriali. L’intera percezione è allora descrivibile in termini di sinestesia se, con
Dufrenne, si riconosce un’unità originaria dei registri sensoriali.
Come vedremo, ma possiamo già anticipare qui, L’occhio e l’orecchio rappresenta
il luogo in cui la riflessione su questi temi raggiunge il culmine e in cui si condensa
quell’intreccio tra estetologia, fenomenologia e ontologia che caratterizza tutta la vita
filosofica dell’autore. Qui la categoria di sinestesia è ripensata, a partire dal MerleauPonty di Fenomenologia della percezione, quale categoria centrale di un’ontologia del
sensibile.
Trattiamo dunque il primo dei nodi che abbiamo messo a fuoco con l’excursus
sulla sensibilité généralisatrice, che è rappresentato dal sensibile con sensazione259 e
immaginazione e vediamo secondo quali linee teoriche e con quali intenti filosofici
attribuire al tatto il ruolo di senso del bello, suscettibile di essere eccitato da alcuni oggetti con la stessa
forza con cui altri oggetti producono piacere per la vista. “Sentire e vedere, sotto questo riguardo,
differiscono in pochi punti. Il tatto riceve il piacere della morbidezza, che non è originariamente un
oggetto della vista; la vista, d’altro canto, afferra il colore, che può difficilmente essere percepito dal tatto.
Il tatto, inoltre, ha il vantaggio nel piacere che trae da un moderato grado di calore; ma l’occhio trionfa
per l’infinita estensione e molteplicità dei suoi oggetti”. Tuttavia, l somiglianza tra il piacere suscitato dal
tatto e quello suscitato dalla vista è talmente evidente che, per Burke, se fosse possibile distinguere i
colori con il tatto, la loro disposizione giudicata bella dalla vista sarebbe allo stesso modo gradita al senso
tattile. (E. Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime, a cura di G. Sertoli e G. Maglietta, Aesthetica,
Palermo 1998, pp. 133-134.)
259
Dufrenne sceglie espressamente di parlare di sensibile anziché di sensazione con il rispettabile
l’obiettivo di “evitare la trappola dell’atomismo psicologico. Se ci accadrà di far riferimento ancora alla
sensazione, sarà pensando a Cézanne e al suo dipingere la sensazione che ne parleremo. La difficoltà che
Cézanne non ha mai smesso di affrontare per poterla dipingere, il filosofo la incontra per poterla
descrivere.” (M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 86.)
108
l’autore lo mette a fuoco. Per comprendere in maniera efficace in che modo Dufrenne
possa parlare di unità originaria dei registri sensoriali è bene seguire Dufrenne là dove
egli, in esplicito e costante dialogo e debito verso Merleau-Ponty, si occupa del
sensibile intendendolo come carne.
Merleau-Ponty chiama il sensibile “carne”; nozione ultima, egli dice, ultima
perché prima, giacchè si connette alla questione per così dire, più iniziale, che
non è quella dell’origine ma quella dell’originario, del c’è [il y a] in quanto c’è
dell’ente o della physis. Il sensibile è l’apparire dell’originario, il suo venire alla
presenza. Non dobbiamo farci scrupoli e lasciarci guidare da ciò che si esperisce
nella presenza.260
Agisce qui quella consapevolezza che è base portante di tutta la riflessione
fenomenologica che Dufrenne stesso palesa quando scrive, poco dopo: “La percezione
mi mette al mondo”261. Vi è un’originalità assoluta e fungente nella percezione, la stessa
tematizzata tra Husserl e Merleau-Ponty all’inizio di questo lavoro come intenzionalità
fungente, dove lo sfondo è rappresentato dall’unità; quella stessa unità che rende
possibile tanto la dualità di soggetto e oggetto quanto la pluralità dei sensi.
La dualità non viene dunque più posta dall’inizio e come irriducibile, così come
la coscienza non può più beneficiare del privilegio dell’assolutezza accordatole
dalla fenomenologia husserliana e nemmeno la materia può più godere del
privilegio accordatole dal materialismo. Ora, ciò che non può più essere posto
come principio diviene effetto, ma questo non significa che non c’è arché,
significa soltanto che il c’è è l’arché; il soggetto e l’oggetto custodiscono nel
loro essere la traccia dell’originario dal quale sono generati e che li fa conaturali; detto altrimenti: il naturato testimonia del naturante dal quale nasce.
Tuttavia è sempre già nato e può essere colto soltanto come tale.
In questa che egli definisce una “strana alleanza”262 che costituisce la carne il
soggetto e l’oggetto non sono quindi ancora separati e tutto ciò che è sensibile lo è in
maniera globale, che sia sentito o senziente. È questo quel luogo fondamentale nella
filosofia dufrenniana, quell’originario per lui tanto più importante perché il luogo della
260
Ivi, p. 87.
Ibidem
262
M. Dufrenne, Vers l’originaire…, In Esthétique et philosophie, cit., tome 2 p. 92.
261
109
Natura, che diventa mondo solo successivamente, nell’attimo in cui si produce
l’inversione, la rottura, l’atto percettivo dal quale nascono e si distinguono il soggetto e
l’oggetto, il senziente e il sentito. È questa forma di nascita doppia e simultanea a
rendere presente il mondo e, in questa presenza,263 lasciare esistere ogni dicotomia.264
La nozione di presenza rappresenta in Dufrenne il correlato imprescindibile di
quell’originario di cui, attraverso la sensazione, stiamo seguendo le tracce e, benché
teorizzata con precisione solo nell’ultima opera, attraversa in modo significativo tutto il
suo filosofare.265 Come è stato condivisibilmente notato: “Certo è che la questione della
presenza contiene e porta con sé tutti i temi dell’ultima sua opera, nessuno escluso:
sensi, sinestesie, immaginario, virtuale vanno tutti riguardati dentro l’orizzonte di quella
nozione, quale ancoraggio ontologico della fenomenologia del sensibile”266.
La presenza dufrenniana va immediatamente messa a fuoco come presenza a,
implicando quindi, conseguentemente, una prima e ineludibile forma di differenza che
Dufrenne legge con le parole di Sartre: “Ogni presenza a implica dualità, quindi
separazione almeno virtuale”267. Questo è importante nella misura in cui, ricercando
quell’originario unitario indifferenziato si sia in grado di riconoscere la posizione da cui
263
Quella della presenza è una delle nozioni fondamentali su cui si impernia L’occhio e l’orecchio. A
partire da essa si articolano tutti i concetti-chiave del filosofare dell’autore. Come è stato notato: “Se parte
influente della filosofia contemporanea ha fatto dell’assenza il suo termine privilegiato, Dufrenne
risponde a essa con una radicalizzazione della nozione di presenza. Certo, ci sono più aspetti per cui una
simile radicalizzazione fa problema: così come non è possibile in assoluto definire la nozione di assenza,
analogamente si deve dire per la nozione di presenza; è il gioco inesauribile della loro coappartenenza ciò
che fa realmente problema e che meriterebbe, forse, l’attenzione del filosofo. Resta il fatto che Dufrenne
incardina su quel concetto una parte non marginale della sua speculazione.” (C. Fontana, Prefazione
dell’edizione italiana de L’occhio e l’orecchio, cit. p. 13.)
264
Ed è proprio, ma lo vedremo meglio più avanti, attraverso la percezione estetica che nella separazione
sempre già attualizzata della nostra esistenza si manifesta una possibilità di riaccedere all’originario,
lontano eppur sempre presente.
265
È altrettanto significativo considerare che proprio l’ultimo lavoro rimasto in concluso di MerleauPonty si è arrestato sul concetto di Presenza sul quale evidentemente il filosofo stava ritornando a
meditare. La ripresa di Dufrenne è allora doppiamente significativa se è vero, come vedremo, che la sua
riflessione finale mira proprio a concludere quello che egli riteneva il percorso in concluso dell’amico e
maestro.
266
E questo resta vero nonostante le questioni che restano aperte. “Proviamo a elencarne qualcuna:
innanzitutto, che le ‘cose’ stiano in mia presenza è un dato originario oppure si rende necessaria
un’ulteriore retrocessione fenomenologica? Che cosa sono le cose ‘intorno a me’? e soprattutto, che cosa
è questo ‘intorno’? importantissima è poi la domanda circa l’affermazione di apertura del brano appena
citato, vale a dire: che cosa significa che le cose mi stanno intorno secondo una disposizione? Potremmo
pensare il senso del brano come segue: non è forse che le cose non solo accadono secondo una
disposizione ma, soprattutto, non è forse quel disporre a far emergere le cose in quanto tali e con un
intorno?” (C. Fontana, cit., p. 15.)
267
M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 77.
110
lo si sta cercando: una posizione che già conosce la rottura e la lontananza poiché “io
non sono mai del tutto uno con: c’è sempre una certa distanza”268. E tale distanza
riguarda anche, e anzi soprattutto, quegli stessi sensi che rendono possibile la presenza;
sensi che, nell’atto stesso di sentire si confermano come sensi a distanza.
Uno degli aspetti indubitabilmente più interessanti e più densi del tema della
presenza riguarda la duplicità di azione che l’autore le riconosce: quando ne parla,
infatti, Dufrenne sovrappone in essa tanto la presenza al mondo quanto la presenza a sé.
Con tale nozione, quindi, viene adombrata un’analisi del problema della coscienza del
mondo che implica anche, in maniera rilevante, il problema della coscienza di sé o
autocoscienza.
La coscienza si desta come coscienza del mondo e la presenza è, in primo
luogo, presenza al mondo, quel mondo dal quale faccio sempre ritorno su me
stesso. Debbo forse operare diversamente questo movimento di andata e
ritorno? La presenza al mondo è già da sempre la mia presenza.
Il modo in cui Dufrenne affronta questo elemento è profondamente correlato e anzi
totalmente debitore della descrizione merleaupontiana della coscienza in termini di
coscienza percettiva che abbiamo visto nel corso del precedente capitolo. Dufrenne lo
chiarisce in termini piuttosto sintetici, ma il debito verso il suo maestro è riconosciuto a
più riprese tanto da consentire di pensare che per lui la nozione merleaupontiana di
coscienza percettiva fosse da dare per scontata: “Il corpo è coscienza e non bisogna fare
di quest’ultima un’istanza separata.”269
In questo modo la stessa dicotomia tra corpo e coscienza viene risolta nel tema
della presenza senza soluzione di continuità con la lettura carnale del sensibile. I sensi,
infatti, non si possono descrivere per Dufrenne come strumenti a disposizione di una
sorta di coscienza sovrana che possa utilizzarli scegliendoli e attivandoli a piacimento;
al contrario, essi sono esattamente questo estremo della carne in cui la carne del mondo
diviene sensibile nell’attimo stesso in cui è sentita.270 E, come il mondo, diviene
sensibile l’Io stesso del soggetto che si esperisce, se possiamo accettare, con l’autore, il
268
Ibidem.
Ibidem
270
Cfr. M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 92.
269
111
fatto che “presenza al mondo e presenza a sé sono dunque indissociabili”271. Certo,
suggerire una lettura della presenza come sinonimo di coscienza è probabilmente
spingere Dufrenne un po’ oltre le sue intenzioni, ma è forse possibile allora, almeno, un
avvicinamento che si fermi solo poco prima della sovrapposizione dei due termini272.
La riflessione sul sensibile può essere condotta, secondo l’autore francese, solo in
funzione della presenza, di questa presenza al mondo sempre differita e a distanza di cui
i sensi, anch’essi a distanza, sono gli artefici.
La questione della presenza al mondo è, dunque, quella sola a partire dalla quale
Dufrenne può elaborare l’idea del sensibile. Tale idea si sviluppa pertanto sulla base di
quella posizione fondamentale in cui la nozione di presenza ci ha disposti e che vede il
mondo come qualcosa che c’è per un ente che ne è parte, in una circolarità dove la
stessa separazione tra soggetti e oggetti parte da un cortocircuito:
L’essere nel mondo è qui – Da – c’è ed è così che ci è un mondo per esso; ma di
questo mondo esso ne è anche, senza per questo ridursi del tutto al mondo
stesso. Questa presenza, per chi la vive, è meno la sua presenza al mondo che la
presenza del mondo a lui. Ciò non significa tuttavia che vi sia una presentazione
a una coscienza situata fuori di essa; né significa il darsi di una presenza
frontale, come quella del quadro rispetto all’occhio concepita dai teorici della
prospettiva artificiale. Il mondo non è davanti a me bensì intorno a me; l’occhio
stesso lo sa, essendo sferico e avendo, pertanto, una visione che spinge fino ai
suoi margini. L’occhio non lo sento come uno specchio, piuttosto come
un’apertura attraverso la quale il mondo mi penetra così come, possedendo una
vista acuta, io penetro in esso. Infatti, io sono a contatto con il mondo, o meglio
sono corpo a corpo con il mondo.273
Il sensibile è allora descrivibile solo in termini di una globalità inglobante di fronte
alla quale è impossibile arretrare e sulla quale ogni punto di vista sembra impossibile:
“è in esso che si esperisce la presenza ancor priva di distanza”274. Eppure, ovviamente, è
271
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 82.
“Noi siamo pertanto esseri nel mondo, presenti al mondo e, al contempo, presenti a noi stessi; senza
però, che la presenza sia mai totale, senza essere mai pienamente noi stessi né del tutto identificabili al
percepito: senza essere Dio.” (M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 83)
273
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 85.
274
Ivi, p. 87. È questo uno dei (numerosi) passaggi in cui la presenza di Merleau-Ponty, peraltro
esplicitata dall’autore stesso che fa riferimento al concetto di Einfühlung, si fa pregnante. Una delle note
di lavoro de Il visibile e l’invisibile è, tra le altre, particolarmente rappresentativa di questo dialogo:
“Carne del mondo, descritta (a proposito di tempo, spazio, movimento) come segregazione,
dimensionalità, continuazione, latenza, sopravanzamento – Poi interrogare di nuovo questi fenomeniproblemi: essi ci rinviano a Einfühlung percipiente-percepito, in quanto vogliono dire che noi siamo già
272
112
sempre sotto la specie del sensibile che il mondo ci è presente, “mai come un in-sé
intoccabile”275.
Quello che risulta fondamentale per Dufrenne, e che resta riferimento
imprescindibile nel suo percorso, è il riconoscimento del sensibile come di qualcosa a
partire dal quale tutto comincia. “E tanto peggio per quell’atteggiamento filosofico che
si vieta di parlare di cominciamento!”276 Tutto il filosofare dufrenniano si incardina su
una concezione dell’umano, della natura e dell’arte letti all’ombra di un’origine e la
presenza e l’azione dell’originario sono punti problematici quanto essenziali nel
percorso dell’autore.
Delle qualità sensibili, e Dufrenne fa proprio l’esempio del colore277, si può così
parlare come di eventi, che sopravvengono contemporaneamente al soggetto e
all’oggetto: la sensazione altro non è, allora, che l’evento del sensibile. E, al tempo
stesso, evento del soggetto. “La percezione mi mette al mondo”278.
È determinante la conseguenza che se ne trae e che Dufrenne affronta nel già citato
saggio dedicato all’originario. La percezione, intesa come evento originario, costituisce
infatti il soggetto nella sua singolarità e originalità. Egli è nel sensibile, sul sensibile,
un’apertura singolare. La sensorialità stessa, “inséparable de l’individuation”279, diventa
principium individuationis. Occorre allora ribadire come quell’unità originaria cui
Dufrenne mira non sia figura metafisica di un tentativo di pacificazione della
molteplicità del reale bensì, più perspicumente, indicazione teorica della possibilità di
riconoscere un fondo comune al mondo e all’umano, “totalità che non è la mera somma
dei corpi materiali né dei fatti psichici, ma piuttosto l’elemento comune al senziente e
nell’essere così descritto, che noi ne siamo, che fra esso e noi c’è Einfühlung. Ciò significa che il mio
corpo è fatto della stessa carne del mondo (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è
partecipe il mondo, esso la riflette, il mondo sopravanza su di essa ed essa sopravanza sul mondo (il
sentito saturo di soggettività e al tempo stesso di materialità), essi sono in rapporto di trasgressione o di
sopravanzamento – Ciò vuole anche dire: il mio corpo non è soltanto un percepito tra i percepiti, è
misurante di tutti, Nullpunkt di tutte le dimensioni del mondo. (…) Parallelamente esso si tocca e si vede.
E quindi è capace di toccare e vedere qualcosa, ossia di essere aperto a delle cose nelle quali
(Malebranche) esso legge le sue modificazioni.” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., pp. 260261.)
275
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 86.
276
Ibidem
277
Ibidem
278
Ivi, p. 88.
279
M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit., p. 92
113
al sentito, quel che si potrebbe definire l’elemento percipi dell’originario vale a dire
dell’Essere”280: la Natura.
Di questa Natura, fondo originario che resta sempre da afferrare, la percezione
comune non coglie se non forme rese necessarie da codici e corrispondenze culturali. Il
proponimento di Dufrenne è allora proprio quello di smascherare tali codici e, attraverso
un’analisi il più possibile dettagliata della percezione, nelle sue differenze dalla
percezione estetica, mostrarne l’azione e recuperare il fondo che, dietro di essi, lavora.
È la differenziazione sensoriale a mettere in campo, attraverso la pluralizzazione
del sensibile, la necessità di interrogarsi sull’unità di quel plurale e a porre così la
domanda se sia possibile almeno pensare tale unità se non proprio conoscerla. Quello
che si adombra dietro questa interrogazione, condotta in particolare nell’ultimo scritto
del filosofo, è allora di nuovo il problema di come attingere a quel fondo Originario
dove la Natura agisce e si rende presente prima di essere ridotta a oggetto di
conoscenza.
Il tema del sensibile diventa allora centrale in Dufrenne non solo per l’ovvia
condivisione etimologica con i temi dell’estetica ma anche e soprattutto per la
prospettiva con cui il filosofo francese vi si rapporta. La sua, infatti, è una dichiarata
presa di posizione nei confronti di molta filosofia concentrata più volentieri sul tema del
linguaggio o legata alle tradizionali distinzioni fra soggetto e oggetto, fra attività e
passività.281 Ne L’occhio e l’orecchio Dufrenne dichiaratamente si propone, reagendo a
‘l’imperialismo dell’occhio” della nostra cultura, di “riflettere intorno alla pluralità dei
sensi o, più esattamente, intorno a ciò che si organizza a partire dai sensi – dobbiamo
chiamarlo sensazione, sentimento o sensibile?”282 Proprio questa triade terminologica
rappresenta un nucleo che, lungo tutta la meditazione del filosofo anche nelle opere che
precedono L’occhio e l’orecchio, non mai ha cessato di essere vista come qualcosa la
cui distinzione non è né semplice né scontata.
280
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 89.
Queste tendenze peraltro, come ha notato M. Carbone (Il sensibile e l’eccedente, Guerini studio,
Milano 1996 p. 17), non si sono mai necessariamente poste in alternativa.
282
M. Dufrenne, L’occhio e…, cit. p. 32.
281
114
Nell’ultimo lavoro l’approccio è più deciso di quanto non sia parso in precedenza.
Qui è messo in chiaro, fin dall’introduzione, che è possibile parlare di sensi “senza con
ciò essere costretti a chiamare in causa delle sensazioni, senza cadere nella trappola del
riferimento all’interiorità. (…) La pluralità non è più la prima parola, come accade
quando si distingua il sentire dalla sensazione”283. Nella ricerca di unità e unicità
intorno al tema del sensibile, in quella sorta di risalita verso un punto zero e infinito del
rapporto uomo-mondo, Dufrenne sa bene di non poter fissare quella “prima parola” in
una coscienza. “È possibile, infatti, che la coscienza sia una, ad esempio unità
dell’appercezione, ma essa ha un’unità di per sé, non ha nulla in sé stessa.”284
Centrale in questa analisi è proprio la conclusione cui giunge l’autore a questo
proposito, conclusione che è anche impostazione programmatica del suo percorso.
L’unità, infatti, se di unità è possibile in qualche modo parlare, risiede nel fatto, scrive
Dufrenne, “che la coscienza ‘tende a’, nel fatto di darsi attraverso i registri del
sensibile”285; risiede in un movimento intenzionale che, quello sì, può essere descritto in
termini di unicità nella molteplicità. L’unità non è quindi il prodotto di un’attività
unificante, ma una proprietà di alcune cose “in quanto sentite”, nel loro essere calate e
introdotte nel rapporto intenzionale “che con ogni evidenza non esclude la diversità di
quelle stesse cose e di quanto vi è di mobile e variopinto nel mondo”286.
La dualità di soggetto e oggetto non è questione da discutere. Essa va, bensì,
oltrepassata, perché solo così è possibile pensare e afferrare, prima di viverla, l’unità
“come unità dell’intenzione e di ciò che la riempie, unità del senziente e del sentito.”287
Perché sia possibile pensare un’unità, per Dufrenne, è allora una fenomenologia del
sentire quella forma di domandare che bisogna perseguire. Forma di domandare che, in
effetti, ne L’occhio e l’orecchio non fa che raccogliere e proseguire un percorso
coerente precedentemente avviato. È allora particolarmente singolare e significativo che
sia proprio nell’ultima sua opera, in quella sorta di rilancio e testamento filosofico, che
questi temi si facciano pressanti. Ricorrendo a Struas, Dufrenne specifica: “il sentire
deve essere concepito come modo di comunicazione tra un sé -Selbst- e il mondo,
283
Ibidem.
Ibidem.
285
Ivi, p. 33.
286
Ibidem.
287
Ibidem.
284
115
comunicazione che deve essere sufficientemente stretta affinché il rapporto sé-mondo
possa manifestarsi come totalità.”288 Il rapporto di originaria implicazione reciproca che
ci lega al mondo è quello che deve caratterizzare, per Dufrenne, l’impostazione del
discorso il quale deve privarsi di ogni riferimento pregiudiziale alla dicotomia fra
soggetto e oggetto.
Fin da Phénomenologie de l’expérience esthétique la correlazione percettiva è il
tema all’ombra del quale è possibile affrontare il problema della relazione tra soggetto e
oggetto all’interno dell’esperienza estetica.289 L’intenzionalità percettiva con il suo
carattere fungente rivela nella fenomenologia dell’esperienza estetica tutto il suo senso e
la sua portata. Come abbiamo già messo in luce, all’oggetto estetico è infatti essenziale,
per trovare il proprio compimento, la percezione di uno spettatore, la quale ha il suo
stadio originario nella “presenza” in cui la sensibilità dell’uno e la corporeità dell’altro
compongono una totalità indiscernibile.
Come distinguere allora percezione ordinaria e percezione estetica? Una possibilità
che Dufrenne esplora a più riprese è quella di collocare questa demarcazione
nell’ambito del sentimento come facoltà peculiare alla percezione estetica: è infatti sul
piano del vissuto che esse si differenziano in modo radicale. “Al sentimento, infatti,
l’oggetto estetico rivela la sua espressività, il suo mondo affettivo, si rivela ‘quasisoggetto’ insomma, portando a termine la sua autogenesi.”290 La percezione estetica,
contrariamente a quella ordinaria che cerca e può trovare solo verità sull’oggetto, cerca
la verità dell’oggetto, cerca cioè la sua forma che è insieme di sensibile e di senso.291 È
in questo senso che la percezione estetica è la percezione royale, che non chiede di
essere altro che percezione, mentre:
288
Ibidem.
La fenomenologia dell’esperienza estetica è, infatti, per lui, in via privilegiata, descrizione
dell’esperienza percettiva dello spettatore e del costituirsi in essa dell’oggetto estetico, che vi si rivela
dotato di un proprio “mondo” con una sua specifica struttura sensibile. Da ciò come ha scritto M.
Carbone (op. cit., p. 37) la definizione dell’oggetto estetico come ‘quasi-soggetto’ della quale sono
evidenti i nessi da un lato con la riabilitazione ontologica del sensibile decretata da Merleau-Ponty e
dall’altro con il darsi dell’opera d’arte quale presenza in oggettiva descritto da Maldiney.
290
M. Carbone, op. cit., p. 37.
291
“A tutta prima tale differenza può forse richiamare la distinzione proposta da Straus fra sentire e
percepire, ma al proposito va allora sottolineato che Dufrenne non descrive la percezione estetica e quella
ordinaria come essenzialmente diverse, considerando piuttosto la prima quale verità della percezione toutcourt.” (Ibidem).
289
116
La perception ordinare, toujours tentée par l’intellection dès qu’elle accède à la
représentation, cherche une verité sur l’objet, qui donne eventuellement une
prise à la praxis, et la cherche autour de l’objet, dans les relations qui l’unissent
aux autres objets, la perception esthétique cherche la vérité de l’objet, telle
qu’elle est immédiatement donne dans le sensible.292
Il sentimento, inteso come “facoltà che permette all’uomo di cogliere le qualità
materiali che, come ‘a priori’, costituiscono la struttura affettiva dell’oggetto estetico e
della soggettività”293 è allora la dimensione entro cui si dispiega la percezione estetica,
tanto creatrice quanto fruitrice.
In linea con questo pensiero, l’oggetto estetico si qualifica come il correlato di ciò
che Dufrenne chiama a priori affettivo. Attraverso questa elaborazione teorica originale
ed efficace, come ha scritto Barilli, “i sentimenti, più che materie brute, spessori iletici
gravanti sulla coscienza, sono forme, categorie non meno di quelle dell'intelletto, e che
adempiono alla stessa funzione di unificare il materiale percettivo".294 Un a priori
quindi, caratterizzato come trascendentale “in quanto unifica la materia nel quadro di
un’unità di senso; e intenzionale, in quanto non resta dentro l’uomo ma si estrinseca sul
mondo.”295 Altrettanto importante è la seconda notazione che già Barilli ha messo in
luce e che rappresenta uno dei nostri punti di riferimento essenziali. Infatti, il correlato
di tale a priori all’ombra del quale la percezione procede, è l’espressione che, a sua
volta, “non sarà più l’automanifestarsi di uno stato d’animo interno, ma un cavar fuori
dal mondo aspetti e profili sotto la sollecitazione catalizzante di un sentimento-modo
generale di condotta"296. Si deve ancora a Barilli la messa a fuoco di un ulteriore
passaggio fondamentale grazie al quale si sottolinea che:
Ovviamente non è che ogni manifestazione affettiva abbia uno sfocio
nell’estetica. Gli a priori affettivi li incontriamo prima di tutto sul piano della
presenza, nell'ambito della prassi quotidiana, dell'esperienza comune [...]
Comprendiamo allora che tali a priori affettivi, colti in questa fase iniziale della
loro attività [che si svolge nella sfera della coscienza preriflessiva], altro non
sono se non un diverso aspetto dell'immaginazione pratica, appartengono al
vasto capitolo delle formazioni generali, eidetiche, spontaneamente sorgenti
292
M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 55.
E. Franzini, “Natura e poesia. Su un inventario degli a priori di Mikel Dufrenne”, Fenomenologia e
scienze dell’uomo, n. 2, 1982, p. 67.
294
R. Barilli, Per un'estetica mondana, Bologna, Il Mulino, 1964, p. 284
295
Ibidem.
296
Ibidem.
293
117
dall'incontro tra l'uomo e il mondo, da cui poi per affinamento e vaglio
riflessivo si potranno ricavare le formazioni più responsabili e culturalmente più
agguerrite.297
Quello che emerge e che va tenuto presente è allora il ruolo non neutro né
secondario che affettività e immaginazione hanno fin dai primi momenti preriflessivi
del rapporto intenzionale al mondo; affettività e immaginazione, nella lettura
dufrenniana, sono infatti due dimensioni costitutive di quello strato di esperienza
identificabile con l’intenzionalità fungente, la percezione nelle sue caratteristiche
preriflessive e, in generale, l’adesione dell’umano al mondo originario della Natura.
Prima di continuare è allora bene soffermarsi ancora brevemente sul ruolo che
Dufrenne attribuise all’immaginazione nel processo. Il tema dell’immaginazione lo
interessa in particolar modo nella misura in cui la maggior parte delle dottrine che lo
hanno affrontato gli sembrano averlo fatto sotto l’egida di un appiattimento di
immaginario e irreale. Tale appiattimento conduce, nella sua lettura, a una forma di
opposizione tra reale e immaginario basata sull’idea che il reale sia già sempre
determinato, o se non altro determinabile, e renda sempre possibile l’esclusione
dell’irreale immaginario dal quadro percepito. Sarebbe pertanto la percezione stessa a
rappresentare il garante nell’insieme del giudizio di realtà.
Ma, nota Dufrenne: “Peut-être faut-il précautionneusement controler cette
perception pour séparer, dans ce qu’elle offre, le bon grain de l’ivraie, le perçu de
l’imaginaire.”298 L’immaginario definito come irreale va rapidamente a corrispondere
all’illusorio, incarnando così il nemico principale di ogni forma di razionalismo.
Tuttavia, è proprio tale corrispondenza affrettatamente articolata tra immaginario e
irreale quello che Dufrenne mette in discussione. Seguiamo allora la sua riflessione,
esplicitata nel citato saggio dedicato proprio a L’imaginaire299, intorno a quel campo
semantico fort confus che è il paradigma immagine/immaginario/immaginazione.
La prima osservazione esprime una consapevolezza metodologica: presi
isolatamente i tre termini pongono tre differenti problemi. L’immaginazione, un
297
Ibidem.
M. Dufrenne, L’imaginaire, in Esthétique et philosophie, cit. tome 2, p. 100.
299
Ivi, pp. 100 e segg.
298
118
problema critico o antropologico: “quel est ce pouvoir (cette “faculté”) d’imaginer,
comment joue-t-elle et que signifie-t-elle pour une conscience?” Nell’immagine si
riscontra invce un problema di carattere gnoseologico: “quelle est, selon les aspects
qu’elle peut revêtire, sa fonction dans la connaissance?” Infine, il problema implicito
nel polo dell’immaginario è un problema di tipo ontologico: “peut-il se définir par
rapport au réel, et qu’implique leur confrontation pour l’un et l’autre terme?”
È quest’ultimo il nodo problematico che sta maggiormente a cuore all’autore ma
per affrontarlo è necessario dissociare i tre termini del paradigma di partenza.
Nella descrizione di Dufrenne, non essendo l’immagine necessariamente un
prodotto dell’immaginazione, essa si riferisce piuttosto alla percezione stessa, senza che
una facoltà immaginativa le si debba opporre. Senza per forza chiamare in causa
l’immaginazione, l’immagine può avere quello che egli chiama il privilegio di
consegnarci dunque ora la cosa ora il suo concetto300.
Ma l’immaginazione è altrettanto lontana dall’immaginario, ciò che è immaginato
non è necessariamente irreale anzi; “l’imaginé n’est pas imaginaire, il est réel, et même
suprêmement”301. Perché la percezione non sia, infatti, solo registrazione passiva di dati
ma, più proficuamente, atto dello spirito, è necessario che l’immaginazione sia sempre
presente in essa.
Que la perception soit fausse d’abord, cela signifie sans doute la servitude d’une
pensée soumise à l’empire du corps, mais aussi la liberté du jugement; le faux,
c’est aussi l’invisible qui n’apparait jamais, que l’art seul peut fixer, et dont
l’introduction dans le plein du monde témoigne pour l’esprit – un esprit qui se
révèle et s’éprouve au détour de l’erreur.
300
Può essere utile, al fine di chiarire questo punto, riportare gli esempi cui ricorre Dufrenne
(L’imaginaire, cit. p. 101). L’immagine diventa l’immagine di un concetto quando sembra che un
concetto venga ad abitarla ed illustrarla: davanti ad un uomo che urla e trema si può dire “è l’immagine
della collera”, poiché sembra che un’essenza venga a radicarsi in questo comportamento esemplare. Qui il
percepito è afferrato come ciò che ci consegna tale essenza. Allo stesso modo, oltre che a concepire,
l’immagine può anche spingere a immaginare, ma è sempre innnanzitutto alla percezione che essa si
presenta. Il secondo esempio riguarda un impiego della parola immagine che no sbocca nemmeno
sull’immaginazione. È quello condiviso dal latino species e dal greco eidolon. Secondo questa lettura la
percezione non rimanda alla cosa stessa, ma è questo rappresentante che solo può superare la distanza tra
soggetto e oggetto e bussare alla porta di una coscienza separata. L’immagine arriva quindi a designare la
percezione stessa, un rapporto al percepito che prescinde ogni mediazione. Da questo punto di vista la
cosa si presenta senza dover essere rappresentata e l’immagine è il miglior approccio all’oggetto senza
riferimenti al concetto. Questa valle si mostra nella sua verità sensibile, nella sua essenza singolare, che
non è l’essenza della valle come l’uomo agitato poteva esserlo della collera.
301
Ivi, p. 102.
119
Come ha sintetizzato efficacemente Elio Franzini302, dunque, per Dufrenne la
funzione primaria dell’immaginario all’interno della percezione è quella di performare
il reale facendolo divenire, secondo l’insegnamento di Alain, un progetto umano,
l’affermazione di un valore che disvela un senso del reale. “L’immaginazione quindi
non è l’irreale da contrapporre al reale percepito, ma un sistema di possibili che aderisce
alla fissità del dato animandolo nella sua stessa ricchezza rappresentativa.”303
Vi è dunque, all’interno dell’immaginazione stessa, una forma di espressione
dell’uomo che riguarda però innanzitutto, ed è questo probabilmente il punto più
importante, il suo rapporto percettivo al mondo a seconda di ciò che da esso egli si
aspetta e desidera. È così che l’immaginario può esprimere il mondo stesso, più e prima
che l’irrealtà la quale, a sua volta, non può essere proposta o ispirata all’uomo se non
dal reale. “C’est ensuite que l’imaginarie peut exprimer aussi le monde, que l’irréel peut
être proposé ou inspiré à l’homme par le réel, enfin que la Nature peut imaginer à
travers l’homme.”304
Come è già stato notato, tuttavia, né Dufrenne né Sartre “hanno messo in luce, dal
lato di una fenomenologia delle immagini, la densità degli sfondi in cui vive e si orienta
l’oggetto percepito e in cui le immagini che ad esso aderiscono rivestono un ruolo
fondamentale per la sua definizione propriamente estetica.” 305
Partendo da quella sintesi di temi rappresentata dalla nozione di sensibilité
généralisatrice abbiamo dunque messo a punto i due triangoli teorici che ci sembrano
rappresentare le pareti parallele della filosofia dufrenniana. Questi sono, come abbiamo
detto: sensibile con sensazione e immaginazione, sinestesia con espressione e stile.
302
E. Franzini, L’estetica francese del Novecento. Analisi delle teorie, cit. pp. 339.
Ibidem.
304
M. Dufrenne, L’imaginaire, cit. p. 108.
305
Ivi, pp. 341 e segg. Secondo questa lettura, infatti, “gli oggetti percepiti sono carichi di quegli elementi
immaginari che Bachelard ha chiamato rêveries, elementi che permettono una valorizzazione
immaginativa del percepito nella sua stessa immanenza concreta dove, al di là di voli ‘nullificanti’ si
mettono in luce i suoi aspetti simbolici e metaforici, che nell’opera d’arte, come scrive Durand, fanno
apparire un ‘senso segreto’, l’epifania di un mistero.”
303
120
Di essi abbiamo iniziato ad approciare il tema del sensibile, e abbiamo potuto
vedere, attraverso le nozioni di carne e presenza, come in esso si radichi e trovi slancio
filosofico una delle questioni più care a Dufrenne, cioè quella riguardante la Natura,
l’originario.
All’interno del tema del sensibile abbiamo visto ritagliare lo spazio proprio alla
percezione, che è tuttavia con Dufrenne uno spazio largamente condiviso
dall’immaginazione. Il rapporto percettivo al mondo, grazie alla descrizione della
sensibilité généralisatrice, si può afferrare come un rapporto sempre aperto e in fieri
all’interno del quale sono da sempre implicate le sfumature di affettività e
immaginazione. Questo significa accettare l’intenzionalità fungente come una dinamica
relazionale mai chiusa, nella quale il mondo non si scopre semplicemente ma in qualche
modo sempre si forma. E sempre secondo la cifra del possibile che attraverso
l’immaginario accompagna persino la sensazione. Ci torneremo più avanti, l’importante
è comprendere fin d’ora come il triangolo di sensibilità, con percezione e
immaginazione sia per questo autore estremamente forte e significativo. È su queste
basi che possiamo comprendere la componente espressiva che l’intervento del
sentimento apporta alla relazione con il mondo. Tale componente caratterizza
stilisticamente la percezione stessa, come modalità genetica e non semplicemente
ricettiva in rapporto al senso. Il culmine di ciò, come vedremo, sarà rappresentato
dall’immagine della sinestesia.
2.2 Il significato dell’oggetto estetico
Per passare al secondo dei triangoli teorici che abbiamo indicato, quello relativo ad
espressione, stile e sinestesia, può esserci utile considerare quel passo della
Phenoménologie de l’experience esthétique che l’autore dedica a delineare se e come un
oggetto estetico sia in grado di significare. Il problema della significazione dell’oggetto
estetico rappresenta una parte particolarmente saliente di quel problema più generale,
121
centrale tanto nella filosofia di Dufrenne quanto nel nostro percorso, che è il problema
del senso del mondo, della nostra possibilità di coglierlo e, in ultima istanza, quindi, il
problema della sua verità. Verità della quale non solo si dovranno esplicitare i caratteri
ma anche se e come all’uomo sia dato coglierla, tenuto conto della rigida base estetica,
cioè corporea, in cui la fenomenologia francese, e Dufrenne in particolare, lo colloca.
Tutta la riflessione dufrenniana converge verso un punto specifico, che egli stesso
riassume in una duplice domanda:
Se l’opera serba un potere significativo, se l’oggetto estetico non è un mero
sensibile, qual è da un lato il posto di quella significazione nella struttura
dell’opera, o anche la sua funzione di dinamismo nell’atto creatore? E, d’altra
parte, com’è colta dalla percezione estetica?306
Si vede qui come il problema relativo alla percezione estetica sia, considerato nelle
sue conseguente teoriche, un problema di coglimento di senso oltre che di sensibile; un
problema di definizione del nostro commercio con il mondo. Commercio che l’arte
mette in scena in modo esemplare continuando a ricordare come quell’invisibile che
sappiamo essere parte del nostro panorama costantemente richieda di essere ridefinito e
afferrato, descritto e ricompreso.
Proprio il Senso è quindi il cardine su cui ruota il domandare qui in questione che
conduce a seguire Dufrenne nell’analisi di un aspetto essenziale dell’oggetto estetico: il
suo potere di significare.
Per mettere in luce questa caratteristica Dufrenne si serve del confronto con quelli
che egli chiama “oggetti significanti”307, la cui funzione consiste non nel permettere
un’azione o soddisfare un bisogno, ma nel dispensare sapere, come un libro di scienza o
un catechismo.308 Ben conscio della differenza che separa questi oggetti dalle opere
306
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthetique, cit. p. 192.
Ivi, p. 183.
308
“Senza dubbio qualsiasi oggetto può essere detto significante, ma bisogna dare un posto a parte a
quelli in cui il significato non serve semplicemente a destare l’azione, e non si perde quando questa sia
compiuta: un libro di scienza, un catechismo un album di fotografie e già, più modestamente, il cartello
indicatore, sono segni il cui significato non determina un’azione se non fornendo prima un’informazione.
In un mondo culturale che, come il nostro, attribuisce un grande valore alla conoscenza positiva e ai
mezzi per fissarla e diffonderla, questi oggetti significanti formano un gruppo autonomo e prestigioso, il
307
122
d’arte, Dufrenne è tuttavia portato a interrogarsi sulla possibilità che le opere d’arte
hanno, in luoghi ove scienza e religione ancora sono sovrapposte o dove non esistono
biblioteche, di trasmettere quel sapere. “Suger sa bene che il catechismo si legge sulla
pietra dei timpani o dei capitelli di Saint-Denis; e noi impariamo la religione dei Sumeri
dai loro bassorilievi”309. È infatti solo con l’arte moderna che l’aggettivo “figurativo”
arriva a designare un carattere facoltativo delle arti. La domanda da porsi, quella dietro
cui probabilmente si cela più di una risposta, riguarda allora proprio il carattere
significante dell’oggetto estetico. Esso, dunque, “non attende da noi prima di tutto la
lettura di questo significato?”310.
Uno dei primi caratteri dell’oggetto estetico di cui in questa analisi va tenuto conto
è allora quello relativo al suo rapporto con realtà e verità. Esso, se è suscettibile di verità
in quanto rappresenta, non si rivolge tuttavia a quel tipo di verità cui sembrano
rivolgersi gli oggetti intellettuali. “Sospettiamo che si tratti di una verità ad esso
intrinseca, che non può verificarsi nel mondo degli oggetti reali, una verità non inerente
a ciò che rappresenta ma a come lo rappresenta”311. Nel momento in cui la verità cui
l’opera tende si situi fuori di essa in modo che proprio il mondo reale diventi verifica
del suo senso, l’opera in questione perde semplicemente il suo carattere estetico per
collocarsi, invece, altrove. Quello che interessa a Dufrenne è però oltre questa irrealtà
del significato, poiché ciò che ci viene rappresentato non sempre ha molto interesse e
non è questo che deve animare la nostra attenzione, a differenza di quanto accade per
l’oggetto significante che si giudica esattamente in base a ciò che significa e per il quale
la forma dipende completamente dal contenuto.312 Rispetto al proprio contenuto
l’oggetto estetico ha un atteggiamento del tutto diverso, genera effetti di tutt’altro tipo e,
soprattutto, richiede un approccio completamente differente. In questa analisi, che a
tratti indulge anche a notazioni di carattere un po’ empirico, l’autore mira a sottolineare
cui prestigio del resto si estende pericolosamente dino ai sottoprodotti più degradati, fino ai giornali e alla
pubblicità.” (Ivi, pp. 183-184)
309
Ivi, p. 184.
310
(Ibidem.) Si propaga da qui, e vi torneremo a più riprese, quella distinzione fondamentale per l’autore
tra significato ed espressione che lui stesso specifica a proposito di questi temi in una nota in cui
sottolinea tra l’altro come tale distinzione sia parallela a quella proposta da Souriau tra esistenza reica ed
esistenza trascendente.
311
Ivi, p. 185.
312
Cfr ivi pp. 186 e segg.
123
un particolare aspetto relativo all’oggetto estetico e, di riflesso, al mondo dell’arte come
a quello della vita: “L’oggetto estetico non dimostra, mostra”313. L’arte significante non
imita e la sua verità non è in alcun modo rintracciabile nella verosimiglianza.
“Quell’oggetto irreale che vi è rappresentato non intende essere una copia del reale, il
cui valore sia proporzionale all’esattezza.”314
È qui evidente il rimando a diversi contributi merleaupontiani. In particolare, è
noto il passo in cui l’esclusione artistica di una pratica rappresentativa viene
formalizzata:
Nessuna pittura valida è mai consistita nella semplice rappresentazione. […] la
concezione moderna della pittura come espressione creatrice è stata una novità
molto più per il pubblico che per i pittori stessi i quali l’hanno sempre praticata
315
anche se non ne facevano la teoria.
Merleau-Ponty
prende
netta
distanza
dal
concetto
di
rappresentazione,
formalizzando esplicitamente una precisa critica della Vorstellung316. L’artista
manifesta ciò che secondo il filosofo ogni uomo fa in senso lato: non mira a
rappresentarsi un’idea, un’immagine, che rispecchi la realtà, ma tende a ricreare questa
stessa realtà come egli stesso la vive, riconfigurandola dal suo proprio punto di vista
vissuto. Per questo motivo, davanti a una tela nessuno spettatore vedrà
solamente l’evocazione di una donna, o di un mestiere, né di un
comportamento, neppure di una ‘concezione della vita’ (quella del modello o
313
Ibidem.
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthetique, cit. p. 188.
315
M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 74, corsivo mio.
316
Il rifiuto di una coscienza di tipo rappresentazionale in Merleau-Ponty è radicale. A questo proposito è
significativa una nota di lavoro che segue l’edizione italiana de Il visibile e l’invisibile, datata Maggio
1960: “Generalizzare la critica del quadro visivo in critica della Vorstellung. Infatti la critica del quadro
visivo non è critica del realismo, o dell’idealismo (sinossi) solamente – è essenzialmente critica del senso
d’essere dato da entrambi alla cosa e al mondo. Vale a dire il senso d’essere In sé (in sé non riferito
all’unica fonte del suo senso: la distanza, lo scarto, la trascendenza, la carne) orbene, se questa è la critica
del quadro visivo, essa si generalizza in critica della Vorstellung. […] Ciò che io intendo fare è restituire
il mondo come senso d’essere assolutamente diverso dal ‘rappresentato’, cioè come l’Essere verticale che
nessuna delle ‘rappresentazioni’ esaurisce e che tutte raggiungono, l’Essere selvaggio.” (Il visibile e
l’invisibile, cit., p. 265.)
Su tale rifiuto di Merleau-Ponty si veda R. Bernet, The phenomenon of the gaze in Merleau-Ponty and
Lacan, in “Chiasmi International” n. 1, 1999, pp. 105-118.
314
124
quella del pittore), ma di un modo tipico di abitare il mondo e di trattarlo, infine
317
di significarlo.
Lo stesso autore che Dufrenne cita a questo proposito è dialogo implicito con
Merleau-Ponty. Il riferimento è infatti a Malraux, quello stesso Malraux, che MerleauPonty assume spesso come obiettivo polemico prendendo le distanze dalla sua idea
secondo cui il movimento della pittura moderna in generale rappresenterebbe un ritorno
all’individualismo, e che fornisce tuttavia al filosofo una definizione che egli trova
largamente condivisibile nel definire lo stile: “deformazione coerente”. Benché per
Malraux ciò significasse la volontà dell’artista di trovare e utilizzare un linguaggio
strettamente personale, visto attraverso la lente degli scritti husserliani con MerleauPonty il concetto viene ricondotto al modo naturale che ogni uomo possiede, e ogni
artista manifesta con particolare evidenza, di esprimersi utilizzando il proprio corpo, i
propri gesti, il proprio comportamento quale struttura intima e significante di per sé.
Il riferimento a Malraux con Dufrenne si sposta leggermente, ma la direzione resta
la medesima. Il Malraux citato in questo caso è infatti quello che raccomanda allo
spettatore di “non giudicare l’opera come se fosse un qualsiasi oggetto significante,
confrontare l’oggetto rappresentato con l’oggetto reale per denunciarne o rettificarne le
infedeltà, insomma voltare le spalle all’oggetto estetico per evocare quell’oggetto
reale.”318 Quello che il confronto portato avanti da Dufrenne mira a sottolineare e
ribadire è infatti che “l’oggetto estetico non è l’organo di un sapere, e neppure il
surrogato di un originale”319 perché “l’oggetto estetico non è un segno che rimandi ad
altro che a se stesso”320.
Non si mira a negare e annichilire ogni forma di significazione interna all’oggetto
estetico, al contrario, si punta a comprendere come a tale significazione sia estranea
l’imitazione, da parte dell’oggetto rappresentato, di un oggetto o fatto mondano. Il
317
La prosa del mondo, cit., p. 78, corsivo mio. Abbiamo già incontrato nel primo capitolo l’idea di un
significato esistenziale, sotteso e precedente quello concettuale, che si può riconoscere in ogni atto di
espressione, linguistica ma non solo.
318
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 188.
319
Ibidem.
320
E ancora: “Un ritratto, somigliante o meno, è un oggetto estetico solo quando cessa di essere un ritratto
– l’equivalente di ciò che è oggi per noi una fotografia: quando non sono tentato di evocare un modello, e
l’oggetto dipinto mi sembra necessariamente determinato dalla pittura, quando davanti al Cartesio di
Franz Hals invece di pensare a Cartesio penso ad Hals, o piuttosto sono sul suo stesso piano.” (Ibidem.)
125
significato dell’oggetto estetico si esaurisce nel fatto che qualcosa sia rappresentato o
proferito, anche se questo qualcosa come nel caso dell’arte astratta non possa essere
identificato. Certo però, l’opera ha sempre un soggetto. Soggetto che, non essendo la
cosa principale che attiri la nostra attenzione né esiga l’imitazione del reale, deve forse
essere identificato come il mezzo di un’altra significazione e, per se stesso, forse
soltanto un simbolo. È questa la domanda in cui si sintetizza questo passaggio del
percorso Dufrenniano e che adombra già non solo le sue conclusioni ma una serie di
conseguenze che rimbalzano, insieme alla domanda, sul problema di come
quell’apparente disprezzo delle apparenze possa ancora significare. Tornando sul
confronto tra oggetto estetico e oggetto significante e sulla loro sovrapposizione fino
all’identità in determinate epoche, Dufrenne indica nel sacro quel significare cui
l’oggetto in questione rimanda. L’oggetto estetico, che l’autore legge come sacro prima
che come opera d’arte, esprime innanzitutto “quella verità che non sta nelle apparenze
insignificanti del mondo quotidiano, ma nelle grandi forze cosmiche che lo attraversano,
negli eventi esemplari che il mito racconta e la festa ripete, in ciò che dà un senso alle
apparenze invece che riceverlo da queste.”321 Nell’opera d’arte allora si traduce la
percezione che l’individuo ha del mondo, quella percezione che attraverso le apparenze
“frammentarie e insignificanti” sa riscoprire forze cosmiche e vitali. Una prima
conseguenza di questa lettura, molto poetica e suggestiva, implica che il significato
delle arti selvagge sia innanzitutto mistico, ben più che estetico, e che, di conseguenza,
l’opera non tenda a divenire oggetto estetico bensì lo diventi suo malgrado. Vi è una
densa attenzione antropologica che agisce qui, sullo sfondo di questo discorso. Quando
dice che l’oggetto estetico è tale in quanto è percepito, infatti, Dufrenne dice più di
quanto sembri. La presenza, come abbiamo visto sopra, è certo conditio sine qua non
dell’emergere, dell’apparire dell’oggetto estetico, ma prima ancora che l’oggetto
estetico possa apparire, affinché esso possa esistere, deve sparire l’oggetto sacro. Il
vaso, la maschera e il bronzo del museo aprono la strada alla tela e al quadro dei nostri
artisti proprio per il loro essere nel museo; per il fatto stesso che, guardandoli, non si
partecipa più in alcun modo alla fede che li fece nascere. “È allora che l’opera d’arte
321
Ivi, p. 189.
126
subisce ‘la sua metamorfosi’: cessa di essere simbolo per divenire oggetto estetico.”322
Situazione ambigua: celebra il trionfo dell’oggetto estetico, e con esso del nostro
rapporto all’arte e infine al mondo, mentre constata quasi con rassegnazione la fine di
un altro tipo di rapporto all’arte e infine al mondo.323 Da una parte, dunque, l’oggetto
estetico è figlio di una forma di morte, è sedimentazione di un significato nel mezzo di
una globale “indifferenza ai significati”.324 Ma tale indifferenza ai significati non
rappresenta sempre uno sbocco morto; è proprio su questo sfondo, infatti, che l’opera
come noi la conosciamo può divenire oggetto estetico. Vi è una forma di crescita
progressiva in questa sorta di “perdita dell’ingenuità” che sottrae alla religione ogni
ruolo estetico per affidarlo invece, esclusivamente, all’oggetto. Oggetto che non perde,
ma muta, il suo potere di significare. Il timpano di Autun, per seguire l’esempio
dell’autore, può forse perdere per noi la sua funzione didattica, ma come oggetto
estetico, precipitato di una forma d’arte passata, esercita comunque un suo potere.
Potere che si tratta, allora, di mettere a fuoco. Si torna a ribadire quindi l’indifferenza
del soggetto dell’opera, poiché è il soggetto stesso a parlarci “e per il modo in cui è
trattato”.325
322
Ibidem.
Teniamo presente, e ci sarà utile, il passo che Merleau-Ponty dedica al museo e ai significati che in
esso vanno in campo: “Sotto questo profilo, la funzione del Museo, come quella della biblioteca, non è
completamente benefica. Il Museo ci dà modo di vedere insieme, come momenti di un unico sforzo,
produzioni che giacevano nel mondo, immerse nei culti o nelle civiltà di cui volevano essere l’ornamento:
in questo senso esso fonda la nostra coscienza della pittura come pittura. Ma quest’ultima risiede anzitutto
in ogni pittore che lavora, e vi risiede allo stato puro, mentre il Museo la compromette con i cupi piaceri
della retrospezione. […] Sentiamo bene che si perde qualcosa e che questo raccoglimento da necropoli
non è il vero ambiente dell’arte, che tante gioie e sofferenze, tanta collera, tanto lavoro non erano
destinati a riflettere un giorno la trista luce del Museo. […] Mentre in ogni pittore lo stile viveva come la
pulsazione del suo cuore e lo rendeva appunto capace di riconoscere ogni sforzo come diverso dal suo, il
Museo riconverte questa storicità segreta, pudica, non deliberata, involontaria, insomma vivente, in una
storia ufficiale e sfarzosa. […] Il Museo fa sì che i pittori divengano per noi misteriosi, come le piovre o
le aragoste. Queste opere che nacquero nel calore di una vita, esso le trasforma in prodigi di un altro
mondo, e il respiro che le animava non è più, nell’atmosfera pensosa del Museo e sotto la protezione dei
suoi vetri, se non un debole palpito della superficie. Il Museo uccide la veemenza della pittura come la
biblioteca, diceva Sartre, trasforma in ‘messaggi’ quegli scritti che originariamente furono i gesti di un
uomo. Esso è storicità di morte; e c’è una storicità di vita, di cui il Museo ci dà solo l’immagine decaduta:
quella che risiede nel pittore al lavoro, quando egli congiunge con un unico gesto la tradizione che
riprende e quella che fonda, quella che d’un sol tratto lo unisce a tutto ciò che è stato dipinto nel mondo,
senza che egli debba lasciare il suo posto, il suo tempo, il suo lavoro benedetto e maledetto, e che
riconcilia le pitture in quanto ciascuna di esse esprime l’esistenza intera, in quanto sono tutte riuscite –
invece di riconciliarle perché sono tutte finite e come altrettanti gesti vani.” (M. Merleau-Ponty, Il
linguaggio indiretto…, cit., pp. 90-91.)
324
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 191.
325
Ibidem.
323
127
Continuando nel confronto iniziale tra oggetto estetico e oggetto significante, si
può così cogliere come per entrambi il soggetto sia centrale ma anche come per il
primo, a differenza di quanto accade per l’altro, esso sia centrale non in sé ma per come
viene trattato. In questo caso, infatti, detto in altre parole, il soggetto è un ingrediente
inevitabile dell’opera ma non tanto per se stesso quanto “per la forma che gli è data e
grazie alla quale diventa espressione”.326 Il significato in questo caso non rimanda più a
nulla di esterno: esso, al contrario, è immanente al significante. In questo modo si
distingue anche, nuovamente, la percezione ordinaria, che cerca il senso del dato oltre il
dato, da quella estetica. “L’oggetto estetico trasmette il proprio senso soltanto a
condizione che, invece di attraversare il dato, la percezione vi si fermi; non tollera che
se ne stacchi.”327
Nell’oggetto estetico è all’opera una forma di significazione primordiale che si può
concepire come luogo trascendentale dell’unità tra significato e significante, il punto di
emergenza stesso della loro differenza che si configurerà solo in un secondo momento
come significativa328. La relazione che intercorre in questa prospettiva tra i due elementi
riconducibili al significato e al significante può essere descritta in analogia a quella che
regola la semeiotica medica. Sotto questa luce, infatti, il sintomo si presenta come segno
della malattia solo nel momento stesso in cui anch’essa sorge. Si presentano insieme,
passibili di differenziazione solo alla forza di uno sguardo astraente e successivo. Il
sintomo non designa la malattia, esso la è, accade simultaneamente con lei e sun piptein,
in effetti, cadere insieme, è proprio il contenuto della più semplice considerazione
etimologica.
Con maggiore coerenza si può parlare di semiosi affettiva, interpretando l’oggetto
estetico come avente un significato, precisamente come espressione di un contenuto,
326
“Non è espressivo il Giudizio universale descritto da un libro di teologia, ma lo è il Giudizio
universale scolpito da Gislebert, non la malattia descritta da un manuale di patologia, ma la malattia
trasporta nella mimica di una danza selvaggia.” (Ibidem.)
327
Ivi, p. 194.
328
La consapevolezza sottesa a questa prospettiva è basilare tanto nella filosofia di Merleau-Ponty quanto
in quella di Dufrenne. Indagare alla sua origine il fenomeno del significato, espresso in arte o in altra
forma, implica privarsi di ogni significazione già istituita. Trascurare il punto di emergenza del significato
equivarrebbe a non comprendere nessuna creazione, nessuna cultura, rimanendo ancorati alla
supposizione di un mondo “intelligibile dove tutto sia in anticipo significato”. (Cfr. M. Merleau-Ponty, La
prosa del mondo, cit., p. 76.)
128
che ad esso e solo ad esso pertiene. “E in effetti il significato non ha esistenza
autonoma; esiste solo mediante l’oggetto estetico che lo rivela, non gli preesiste”.329
In questo modo, in un certo senso, l’oggetto estetico dice qualcosa e proprio su
questo dire torna a interrogarsi Dufrenne puntando sull’oggetto estetico come
linguaggio,330 poiché nelle sue modalità e nel suo schema di procedimento, così come
nelle sue molteplici possibilità di essere inteso, si radica tutto il suo significato. Non
solo. Proprio l’analisi dell’oggetto estetico in relazione al linguaggio consente di
giungere ad alcune conclusioni salienti che dall’oggetto estetico permettono di esulare
per illuminare meglio l’immagine dell’uomo di Dufrenne e, con essa, il suo rapporto al
mondo. Il linguaggio viene infatti descritto in analogia con l’uomo stesso: “che vive
identificandosi con il proprio corpo, e inaugura il pensiero desolidarizzandosi dal corpo
senza potergli mai sfuggire, il linguaggio è diviso tra il monismo in cui si radica e il
dualismo in cui rischia di abolirsi portandosi a compimento.”331 L’equilibrio possibile è
allora sempre un equilibrio instabile, “tra l’essere del gesto, attraverso il quale diventa
espressivo, e l’essere del verbo, attraverso il quale diventa razionale”332. La lettura
dell’umano che sottende questa descrizione si rivela con efficacia in termini di apertura
e contrasto. La stessa apertura e lo stesso contrasto che reggono la percezione come
soglia di apertura dell’umano e suo accesso al mondo; radicata in un monismo di cui il
solo soggetto è portatore e però sempre nuovamente dispersa e passibile della
frammentazione e della lacerazione che l’attività razionale, con astrazione successiva,
può apportare. È la stessa divisione che sussiste tra l’indifferenziato della carne e il
sempre individuato della ragione; la stessa distanza che si legge, e Dufrenne lo esplicita,
tra natura e spirito.333 Di tale distanza si comprende l’ampiezza: essa riguarda ancora la
329
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 194.
“Ogni oggetto, infatti, è in un certo senso un linguaggio; e inversamente il linguaggio è una specie di
oggetto.” (Ivi, p. 196)
331
Ibidem.
332
Ibidem.
333
Il riferimento, che Dufrenne esplicita in una nota, è alle Recherches sur la nature et le fonctions du
langage di B. Parain in cui l’autore “sembra partire dalla constatazione che l’origine del linguaggio ci è
nascosta; a questo punto non possiamo risolvere il problema della denominazione, né essere certi che le
parole abbiano un qualche avvallo, sia una cosa singola di cui costituiscono il segno naturale, sia
un’essenza intelligibile di cui costituiscano il segno convenzionale. Ma se questo problema resta in
sospeso, c’è un’altra funzione del linguaggio, la cui dimostrazione il cui esame ci conduce non più verso
l’inafferrabile principio ma verso il fine del liguaggio. (…) Il linguaggio è allora un programma, un
330
129
funzione del linguaggio. Funzione che è ambigua, potendo implicare tanto un ruolo
espressivo quanto uno significante:
Significante in quanto racchiude un significato oggettivo che in qualche modo
ad essa è esterno e richiede l’uso dell’intelletto, espressiva in quanto porta in sé
un significato immanente che trascende il senso oggettivo colto dall’intelletto;
la parola è segno e più che segno, dice e contemporaneamente mostra, e ciò che
mostra è diverso da ciò che dice.334
Su tale duplice possibilità di funzionare che caratterizza il linguaggio è bene
insistere: grazie ad essa, e alle analogie e differenze che Dufrenne indica rispetto al
funzionamento espressivo dell’oggetto estetico, si renderanno chiari tanto alcuni nodi
problematici fondamentali insieme ad alcune delle linee teoriche essenziali.
Una delle caratteristiche principali del linguaggio, così come lo descrive Dufrenne,
è quella di essere “strumento razionale”, riguardante cioè una forma di comunicazione e
di azione che sa e vuole stabilirsi al livello del pensiero: “e il pensiero può prendere
coscienza di sé solo facendo del linguaggio un mezzo e non un fine”335. Questa
esplicitazione del carattere razionale del linguaggio e della significazione che lo abita
non è secondaria rendendo possibile, per differenza, l’attribuzione di un carattere che
sia altro dal razionale a qualcosa che sia altro dal linguaggio. Come vedremo, infatti,
l’indagine generale riguarda proprio, e in misura che non è possibile ignorare, le
condizioni di possibilità della razionalità stessa come schema di interpretazione del
mondo, come base dell’atteggiamento scientifico nonché di quello ingenuo. Oltre a
quella che è comunemente indicata come razionalità, e forse prima di essa, vi è infatti
l’oggetto della ricerca di Dufrenne. Oggetto di cui non si può dare per scontata
l’esistenza.
Del linguaggio allora si può e si deve dire anche che oltre al dominio della
razionalità appartiene a quello “del pensiero o dell’azione”. E pensiero e azione, come
conoscenza e pratica, sono proprio quegli atteggiamenti al di là dei quali si gioca il
ordine o una promessa: esprime il possibile e non il reale, un possibile da realizzarsi. Di qui l’idea di una
teoria espressionista del linguaggio.” (Ibidem, n.)
334
Ivi, p. 196.
335
Ivi, p. 197.
130
gioco dell’estetizzazione; quegli atteggiamenti la cui riduzione è forse la condizione
necessaria per accedere al piano estetico e fungente, o anche espressivo, stilitistico,
sinestesico, dell’esistenza.
All’interno del linguaggio, inteso come trasmissione di significati, agisce un senso
che è sempre presupposto, che può essere oggettivo solo a patto di essergli anche
immanente. Ma al linguaggio Dufrenne, che ancora una volta ricalca e cita MerleauPonty aderendovi in parte tanto da darne alcuni presupposti per scontati, riconosce la
possibilità anche di un’altra caratteristica. Quella che Merleau-Ponty chiama “parola
originaria” è la figura che esplicita come ogni linguaggio possa, e Dufrenne
significativamente dice “divenendo estetico”, proporre un senso che sia diretta
secrezione del segno. Il linguaggio può, cioè, portare con sé il proprio senso nell’attimo
stesso in cui si manifesta, senza tradurre necessariamente un’idea preesistente né
supporre una comunicazione già realizzata tra gli interlocutori. La prima parola di cui
Merleau-Ponty si serviva, metaforicamente ma non troppo, è quella parola lanciata
“senza sapere se essa potrà essere altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di
vita individuale in cui nasce e presentare (…) l’esistenza indipendente di un senso
identificabile”336. A questa dimensione del linguaggio precedente la sua stessa
formalizzazione punta anche la descrizione dell’oggetto estetico di Dufrenne. Ma prima
di giungervi l’autore indugia su un’altra caratteristica dell’espressività del linguaggio,
che è quella di essere all’interno di una relazione tra un io e un tu. Il linguaggio, nel suo
essere espressivo, non porta alla presenza solo un senso nuovo ma manifesta anche il
soggetto. Esso “è un gesto di cui leggo il senso e che mi indica le intenzioni di chi mi
parla, non è soltanto il mezzo per comunicare un’idea con la scelta stessa delle parole,
ma il mezzo per darsi.”337 Quando Dufrenne pensa alla parola “a partire dal gesto” sta
ovviamente ricalcando, con la consapevolezza di utilizzare uno strumento acuto, la
distinzione merleaupontiana338 tra parola parlante e parola parlata. Parola parlante è
per definizione quella “nella quale l’intenzione significante si trova allo stato
336
M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, in Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 32.
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 199.
338
Distinzione teorica funzionale formalizzata all’interno della Fenomenologia della percezione, là dove
si affronta il tema del corpo come espressione insieme alla parola e ripresa più tardi ne La prosa del
mondo, ed. it. Editori Riuniti, Roma 1984.
337
131
nascente”339, che spezza il silenzio primordiale. Al contrario, la parola parlata “fruisce
dei significati disponibili come di un patrimonio acquisito”340, è “il linguaggio
successivo, quello che è acquisito e che svanisce davanti al significato di cui è diventato
portatore”.341
È densamente significativo a tale proposito un passo presente in Sulla
fenomenologia del linguaggio342
con cui Dufrenne sembra esplicitamente volere
dialogare:
Le parole, le costruzioni necessarie per portare all’espressione la mia intenzione
significativa, si presentano alla mia mente, quando parlo, solo in virtù di ciò che
Humboldt chiamava innere Sprachform (e che i moderni chiamano
Wortbegriff), ossia in virtù di un certo stile di parola da cui essi sorgono e
secondo il quale si organizzano senza che io abbia bisogno di rappresentarmeli.
C’è una significazione “langagière” del linguaggio che opera la mediazione tra
la mia intenzione ancor muta e le parole, cosicché le mie parole sorprendono me
stesso e mi insegnano il mio pensiero. I segni organizzati hanno il loro senso
immanente che non deriva dall’“io penso” ma dall’“io posso”. Questa azione a
distanza del linguaggio, che raggiunge le significazioni senza toccarle, questa
eloquenza che le indica in modo perentorio, senza mai tramutarle in parole e
senza far cessare il silenzio della coscienza, sono un caso eminente
343
dell’intenzionalità corporea.
L’atto linguistico è rigorosamente ricondotto sotto, senza però certo essere ridotto
a, il movimento intenzionale del corpo, quella espressività generale che nell’apertura
estetica corporea trova il primo assoluto luogo di fondazione. L’analisi del fatto
linguistico porta in evidenza un significato esistenziale sotteso a quello concettuale che
si può e si deve riconoscere al parlare.
La parola in questo senso si configura come “l’eccedere della nostra esistenza
sull’essere naturale”344. E questa è la chiave interpretativa fondamentale, la
339
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. p. 269.
Ibidem.
341
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 38.
342
Comunicazione fatta a Bruxelles il 13 aprile 1951 in occasione del Primo Colloquio Internazionale di
Fenomenologia, pubblicata per la prima volta in Problèmes actuels de la Phénoménologie nel 1952, ora
pubblicato in Segni, cit. pp. 117-134.
343
Ivi, p. 122.
344
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 269.
340
132
consapevolezza che, al di là di ogni possibile e forse legittima obiezione345, permette in
ogni caso un’impostazione che resta valida. Vitale si rivela infatti la messa in luce
dell’atto linguistico, e con esso di ogni possibile atto espressivo, come infinita apertura
creatrice, non fedele traduzione da affiancare o sovrapporre a sostrati sempre presenti e
di incerta provenienza.
Paragonabile a un gesto, la parola ha con ciò che esprime lo stesso rapporto che
lega il nostro corpo con l’oggetto cui tendiamo, intenzionato in modo implicito senza
che alcuna rappresentazione di noi stessi e dell’ambiente sia richiesta346. “La
significazione anima la parola come il mondo anima il corpo: mediante una presenza
sorda, che suscita le mie intenzioni senza dispiegarsi di fronte ad esse”347.
L’azione delle parole si attua nel loro essere attirate a distanza dal pensiero “come
le maree dalla luna”348, in un potere evocativo che va oltre il richiamo di una
significazione da parte di un “indice indifferente e predestinato”349. In questo senso il
predicato più forte del linguaggio è quello di essere “obliquo e autonomo”350 in un
processo espressivo che non si regola su un sostrato testuale predefinito.351 Dufrenne
raccoglie con particolare attenzione l’indicazione del linguaggio espressivo come
qualcosa di non condannato ad aderire a componenti oggettive predefinite; gli interessa
la possibile immediatezza e spontaneità della comprensione che si attua in questo caso,
il suo carattere non predicativo né grammaticale. L’elemento cui queste caratteristiche
introducono, infatti, con la sua potenza e le sue difficoltà, è rappresentato da “ciò che
viene comunemente chiamato sentimento”352. Sentimento che, a sua volta, incarna
345
Vale a titolo di esempio l’osservazione di L. Fontaine-De Visscher: “la parola, essendo il suo proprio
eccesso, può provenire solo dalla parola, e non da una non-parola, che sarebbe Significato puro e che al
limite escluderebbe ogni significante come inessenziale” (L. Fontaine-De Visscher, Phénomène ou
structure? Essai sur le language chez Merleau-Ponty, Publications des Facultés Universitaires SaintLuois, Bruxelles 1974, cit. in M. Carbone, Ai confine dell’esprimibile, Guerini Studio, Milano 1990, p.
61.)
346
Cfr M. Merleau-Ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio, cit, p. 122.
347
Ivi, p. 123.
348
Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, in Segni, cit., p. 69.
349
Ibidem.
350
Ivi, p. 70.
351
“La parola opera sempre su uno sfondo di parola, non è mai altro che una piega nell’immenso tessuto
del parlare. Per comprenderla non dobbiamo consultare qualche lessico interiore che ci dia, per i vocaboli
o le forme, i pensieri puri a cui essi corrisponderebbero: basta che ci offriamo alla sua vita, al suo
movimento di differenziazione o di articolazione, alla sua eloquente gesticolazione”. (M. Merleau-Ponty,
Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, cit., p. 69)
352
M. Dufrenne, Phénomenologie de l’expérience esthétique, cit. p. 201.
133
quell’area problematica la cui descrizione sfugge la rigidità delle categorie eppure
impone assoluta attenzione e massima cautela. Nelle parole di Dufrenne, sentimento è
“precisamente un certo modo di essere al mondo, d’istituire con esso una certa
relazione, di scoprirne un volto e vivervi certe emozioni; appunto nei sentimenti si
elabora il rapporto originale di un essere col mondo e si manifesta l’inafferrabile
spontaneità del per-sé”353.
Emerge così in modo preciso come sia un fondo affettivo e sentimentale ad
alimentare e precedere, secondo Dufrenne, le categorizzazioni e predicazioni che
avvengono nel linguaggio, quindi nella pratica, quindi nella ragione. Categorizzazioni e
predicazioni la cui natura si caratterizza pertanto all’interno di una prospettiva
fortemente antropologica che si pone al confine, mai definitivamente delimitato, con le
regioni -e i problemi- dell’ontologia. Qui il sentimento agisce in un duplice senso.
Innanzitutto rivela l’azione di un per-sé a cui resta estraneo ogni solipsismo. Proprio il
potere espressivo, infatti, con il sentimento su cui fa leva, rivela il senso di un
comportamento costitutivamente aperto all’altro; rivela il potere di un per-sé che è
anche, sempre e costitutivamente, un per-altri. In secondo luogo, nell’oggetto
dell’espressione, quindi nel sentimento, si rende visibile e presente ciò che l’esperienza
comune costantemente nasconde: “ciò che è senza concetto”354. Poiché soltanto
dell’oggetto c’è concetto, dove è in causa un soggetto, almeno quando si tratti dell’atto
fondamentale per cui è soggetto, e cioè della sua relazione più spontanea con il mondo,
il concetto è inoperante.”355 Il linguaggio diventa allora quell’apertura attraverso la
quale è possibile scorgere, seppur sempre di sfuggita, il luogo primario ove l’adesione al
mondo è totale e spontanea, disarticolata e assoluta. Questo ci rimanda coerentemente al
pensiero dello stile, sul quale dovremo tornare. Inoltre, questa descrizione del
linguaggio implica una seconda conseguenza teorica: quella che spinge a comprendere
come l’apertura del linguaggio implichi l’ingresso de soggetto non solo in uno stato di
cose relazionale e razionale, ma anche in un contesto pratico. Quindi etico. Nominare
l’oggetto, infatti, non significa solo invocarlo, ma anche “farlo entrare nel regno della
353
Ibidem.
Ibidem.
355
Ibidem.
354
134
ragione; parlare è impegnarsi – se stessi e l’altro – a sottomettersi alle esigenze formali
e anche etiche del pensiero.”356
La dimensione relazionale-razionale del linguaggio esprime con precisione le
caratteristiche dell’agire umano, proprio quelle caratteristiche a monte delle quali
Dufrenne spinge ad indagare. La razionalità, infatti, condivide il campo con una forma
di frattura, che nel caso del linguaggio Dufrenne configura come “frattura semantica”,
in virtù della quale esiste la possibilità di riflessione stessa. Una forma di separazione
che consente il confronto. La descrizione dell’espressività del linguaggio punta invece
l’attenzione su un’altra possibilità sempre sottesa all’esperienza: quella di cogliere la
presenza del mondo proprio come presenza, che a sua volta non richiede sempre e per
forza che si metta in gioco il potere di giudicare né le regole del giudizio. In questo
modo, anche la verità sottesa al discorso si riconfigura in termini non predicativi; si
riconfigura come verità nella e della presenza, non ancora umanizzata perciò non ancora
soggetta alla ragione con le sue dicotomie.
L’esempio cui ricorre Dufrenne è quello della diversa reazione che, di fronte a un
bel paesaggio, avranno un uomo qualunque e un artista. Il primo ricorrerà al linguaggio,
come forma di conversione di “un’impressione eloquente ma informe in un’impressione
lucida e legittima”; sentirà infatti l’esigenza di articolare il proprio pensiero, per
comprenderlo lui stesso oltre che condividerlo. L’artista, al contrario,
volendo
“perpetuare il mistero dell’oggetto, non chiarirlo”357 prenderà i pennelli e inizierà a
dipingere, lasciando che il paesaggio e la cosa dipinta coincidano in pieno e che il loro
senso resti opaco quanto intenso.
Non è naturalmente casuale che l’opposizione riguardi il fare artistico e quello
comune: vedremo infatti come sia proprio l’arte la dimensione dell’umano che, nella
meditazione del filosofo francese, meglio rende visibile il rapporto originario ed
espressivo al mondo.
Tornando però all’espressività del linguaggio, e alla sua utilità descrittiva, troviamo
nuovamente sottolineata l’assenza dell’universo della ragione dal momento espressivo.
Naturalmente, Dufrenne non sta questionando la possibilità della ragione né mettendone
356
357
Ivi, p. 202.
Ibidem.
135
in dubbio l’importanza. Il suo è piuttosto un discorso che mira a ricollocarsi nella
prospettiva fenomenologica che Merleau-Ponty gli ha indicato. La fenomenologia
descritta da Merleau-Ponty che qui si ripercorre è infatti:
Una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa
comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro “fattività”. È una
filosofia trascendentale che pone fra parentesi, per comprenderle, le
affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale
il mondo è sempre “già là” prima della riflessione, come una presenza
inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il
mondo per dargli infine uno statuto filosofico.358
È questa la base teorica di tutto il meditare di Dufrenne, lente attraverso la quale è
possibile seguirne il percorso. Si spiega in questi termini, allora, anche l’interesse
dell’autore nei confronti del linguaggio come luogo in cui si manifesta il sorgere di una
razionalità che non è sempre là, che non è se non in seguito a una fertile rottura.
Riconoscere l’espressività del linguaggio implica riconoscergli il potere, non certo
metafisico ma molto umano, di esprimere un oggetto nel momento stesso in cui l’uomo
si esprime in esso ed, esprimendosi, gli conferisce “il potere di significare, e forse di
significare un senso nuovo”.359 Il senso ed il pensiero sono quindi da ricomprendere nel
loro sorgere e fondarsi a partire da quello che letteralmente è un “incanto”
nell’espressione: un luogo in cui, come nella magia, i rapporti di causa ed effetto, le
predicazioni e le previsioni non sono ammissibili.
È quindi a partire dall’espressione, e Dufrenne tiene a sottolinearlo proprio perché
applicandolo poi all’oggetto estetico questa notazione gli sarà particolarmente utile, e a
partire dal suo essere indifferenziato che il linguaggio trova il proprio fondamento e il
segno il proprio senso. E la condizione perché questo accada, perché l’epressione possa
incarnarsi – dire verificarsi sarebbe troppo ambiguo – è il fatto che in essa si manifesta
un soggetto.
Al soggetto, umano e individuale, si riconosce così un ruolo cardine, in lui si
riconosce la condizione di possibilità di ogni apparire di senso interno al linguaggio e
358
359
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 15.
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 205.
136
esterno nella comunicazione. E abbiamo visto come il terreno umano da cui questa
dinamica attinge sia il sentimento, grazie al quale descrittivamente ma anche
operativamente è possibile cogliere e vivere quella fondamentale adesione spontanea al
mondo. Proprio in questa non discorsiva ma affettiva partecipazione con le cose nella
quale si fonda ogni potenzialità espressiva trova il proprio ancoraggio il concetto di stile
sul quale più avanti torneremo e che ci aiuterà a comprendere meglio il delicato
rapporto tra “ciò che è senza concetto” e gli oggetti con cui comunemente operiamo,
sempre nella pratica e sempre nel concetto.
Servendosi delle conclusioni cui giunge la sua analisi del linguaggio, Dufrenne può
così passare all’oggetto estetico, alla sua virtù espressiva con le implicazioni teoriche
cui il suo stesso riconoscimento conduce.
Nell’oggetto estetico, infatti, si verifica quello che la descrizione del linguaggio ha
visto accadere nel momento della parola originale, “che al tempo stesso desta un
sentimento e scongiura una presenza, più che recarci un senso concettuale.”360
L’oggetto estetico nella lettura di Dufrenne, è quello che, più di ogni altro, è in grado di
abitare quel terreno su cui la concettualizzazione non attecchisce. Terreno caratterizzato,
invece, da una dimensione estetica che riguarda anche i segni e i sensi che lo abitano.
Quando si tratti di una poesia, tale dimensione estetica riguarda le parole che la
compongono, “quelle accozzaglie di parole” insolite solo per l’intelletto che “non
dubitiamo che dicano qualche cosa che essi soli possono dire, in modo incalzante”.361
Meno poetico, meno empirico e più pregnante è però l’oggetto estetico del quale
l’espressività venga descritta in modo più generale. In esso, non soltanto nel linguaggio
della poesia, ma nell’atteggiamento della ballerina, nella curva della melodia come nella
sagoma di una colonna, infatti, se qualcosa si dice si dice in un modo che “non può
tradursi in termini di mondo”362, o se non altro non nei termini del mondo che siamo
abituati a frequentare. L’espressività dell’oggetto estetico, letta in termini di
trasmissione di un senso la cui comprensione non può avvenire sotto la lente
dell’intelletto, è un’espressività che, come abbiamo ripetuto, rimanda a un fungere
360
Ivi, p. 206.
Ibidem.
362
Ivi, p. 207.
361
137
estetico e sentimentale. Ma soprattutto, rimanda alla componente di apertura e relativo
inserimento di un senso nuovo che tale fungere dischiude. Questo ha ripercussioni
importanti sul rapporto tra l’oggetto estetico e la verità le quali, a loro volta, non sono
indifferenti alla descrizione del problema della verità nel quadro più generale della vita
e della filosofia. Quella che l’oggetto estetico mette in campo, nella sua lettura di
oggetto espressivo, quindi creatore di un senso che solo in esso e per la prima volta si
manifesta, è la possibilità che il vero, il reale dunque l’oggetto su cui basiamo le nostre
pratiche e conoscenze, non sia quell’indubitabile e unitario essere con cui la scienza
crede di confrontarsi. È la possibilità che ogni reale sia attraversato in filigrana dal
mondo del possibile, altrettanto meritevole di attenzione e dignità filosofica. Tutto ciò
che è nell’oggetto estetico, infatti, non richiede – né avrebbe senso farlo – di essere
messo in relazione con dimensioni e comportamenti oggettivi. A tutto ciò che vi si trova
non si può chiedere che rimandi a una storia reale, esso “è vero soltanto in un mondo
che lui stesso mi apre”.363 La sua stessa espressività, parallelamente a quella del
linguaggio, implica la sua potenziale creatività; il suo potere fondativo e inaugurale, il
suo essere apertura e passaggio. Del reale, di quel mondo là fuori, l’oggetto estetico
semplicemente non fa parte. Il suo mondo appartiene a lui e a lui solo, “e al di là c’è
soltanto il reale da cui l’oggetto estetico è assente”364.
È evidente che riferirsi al reale accompagnandolo con soltanto è scelta lessicale
non neutra. Vi si rivela infatti, di nuovo, quel pensiero che respinge la totale adesione di
vero e reale in favore di una più sfumata e ricca articolazione di tale rapporto. L’oggetto
estetico, e il mondo che intorno ad esso si apre, è abitato dalla propria verità cui
espressivamente egli stesso dà vita; verità che è più vicina al dominio del sentimento,
quindi a quello della vita, che al dominio del pensiero e della ratio.
Preme a questo punto eivtare, e Dufrenne non manca di rimarcarlo, un possibile
grave equivoco. Insistere sull’espressione dell’oggetto estetico suggerendone il legame
con il sentimento non implica in alcun modo metterlo in relazione con l’emozione. “È
importante non confondere emozione e sentimento, commovente ed espressivo.”365 Il
363
Ibidem.
Ibidem.
365
Ivi, p. 208.
364
138
rapporto che il vero oggetto estetico, “l’arte vera”366, instaura con il corpo non è
“compiacente”, “non è per lusingarlo ma per convincerlo.”367 Tale convincimento,
affine ma differente da quello che la ragione ottiene dal reale, appartiene al mondo della
conoscenza, nella misura in cui quel mondo cui l’espressività dell’oggetto estetico
introduce è in qualche modo conoscibile. Ma in quest’ambito la conoscenza si ritrova
collocata su un binario separato. Di fronte all’oggetto estetico “il sentimento che (esso)
desta è un mezzo di conoscere quel mondo, uno strumento di conoscenza”, diverso
quindi dall’emozione, che è solo “un mezzo di difesa e il segno di uno
sconvolgimento.”368 L’oggetto estetico, che Dufrenne volentieri assimila all’arte, può
essere significante solo a condizione di essere espressivo: quindi in grado di creare e
scoprire da sé quei nuovi significati che saprà poi trasmettere. Esso, infatti, come la
parola quando è espressiva, reca in sé la cosa e il suo senso, portandoli a una presenza
che dobbiamo dire affettiva. “L’arte”, infatti, “non rappresenta veramente se non
esprimendo, vale a dire comunicando, attraverso la magia del sensibile, un certo
sentimento grazie al quale l’oggetto rappresentato può apparire presente. È significante
prima di tutto perché è espressiva.”369 Si ottiene così un’adesione quasi totale tra
espressività e significatività che a sua volta sposta il cardine della significatività del
sensibile proprio sulla sua espressività. È quest’ultima, infatti, a permettere che il
“sensibile grezzo” si trasformi in “sensibile estetico”370, che il fondo selvaggio si
trasformi in primo piano significante.
Al pari della parola originaria, l’oggetto estetico in quanto espressione appartiene a
quell’“atteggiamento centrale in base al quale è parimenti possibile conoscere, agire e
creare”371, in un fare che ha l’imprevedibilità ma anche l’ineluttabilità dell’originario.
L’oggetto estetico si configura così, come il fare artistico, quale gesto inaugurale, che in
quanto tale, citando Dufrenne, “dà senso e consacra assai più di quanto non dia
inizio”372, e, citando Merleau-Ponty, “introduce un senso in ciò che non ne aveva, e
366
Ibidem.
Ibidem.
368
Ibidem.
369
Ivi, p. 209.
370
Ivi, p. 210.
371
M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, cit., p. 41.
372
Dufrenne M., Estetica e filosofia, cit., p. 5.
367
139
dunque, invece di esaurirsi nell’istante in cui ha luogo, inaugura un ordine, fonda
un’istituzione o una tradizione”373.
La descrizione del rapporto tra oggetto estetico e significato si rivela funzionale per
comprendere altresì il rapporto tra il sensibile e il significato, che nel fenomeno
dell’espressione trovano la propria cerniera. “Se il sensibile è così portatore di un
significato cui dà una propria inflessione e che diventa espressione, si può dire che
inversamente questo significato informa il sensibile.”374 In una forma di circolarità non
viziosa, l’in-formazione del significato investe il sensibile e al contempo da esso
diparte. Da una parte, infatti, è quasi evidente, troviamo un’informazione nel senso più
comune del termine come elemento che consente di avere conoscenza di fatti. La
struttura cui rimanda ha la forma di un passato, di un già significato che si tratta di
reiterare e trasmettere. Sul versante espressivo, invece, si fa pregnante la valenza
etimologica dell’informazione, che, come tutti sanno, restituisce l’idea originaria di
messa in forma, del dare forma modellando e rimanda al tempo presente del participio
del significante.
In questo nodo significato informato l’elemento del significato come senso da
trasmettere va concepito, con Merleau-Ponty, “in una dimensione che non è più quella
del concetto o dell’essenza ma quello dell’esistenza”375. Questa prospettiva è
perfettamente in linea con l’impostazione attraverso cui Dufrenne riconduce il parlare, e
l’esprimersi in generale, a un fare prima che a un sapere concettuale, a una dimensione
eminentemente esistenziale. In questo senso, risalendo nuovamente al fungere
antepredicativo dell’intenzionalità ricollegata a una prospettiva eminentemente
esistenziale di “vita vissuta”, ci si ritrova a contatto con una dimensione ancora lontana
dalla formalità del concetto. Tale dimensione rientra a pieno titolo nella sfera di
influenza di contenuti affettivi, emotivi, motori primi di ogni operazione di espressione
e fondazione di significati nell’ottica qui considerata.
Quella che si vede all’opera nell’oggetto estetico è una forma grazie alla quale è
unificato l’oggetto estetico stesso. “L’oggetto estetico (…) ci appare come un tutto: è
373
M. Merleau-Ponty, l linguaggio indiretto…, cit., p. 96.
Dufrenne M.. Phenomenologie…, cit. p. 210.
375
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 61.
374
140
unificato dalla sua forma. Ma questa forma non è più soltanto l’unità del sensibile, è
l’unità del senso.”376 La forma, nella realtà dell’oggetto estetico, non si riferisce in alcun
modo al contenuto che in esso è rappresentato, e il discorso sulla forma in relazione al
significato non è quindi, in alcun modo, un discorso sul significato degli oggetti
rappresentati. “Sta qui il segreto dell’opera d’arte, e vi insisteremo ancora: il soggetto
viene esattamente a coincidere con la forma del sensibile, è forma di quella forma”.377
La forma ultima dell’oggetto estetico, infatti, è proprio la sua espressione nella quale
prende corpo “il senso del suo senso”.378 “Così la forma si ricollega al rappresentato
unicamente perché è innanzi tutto collegata al sensibile, cui è immanente la
rappresentazione. È il principio di organizzazione di quel sensibile, ciò che lo esalta, e
non più il contorno.”379 Si comprende allora anche perché il coglimento della forma così
intesa non possa essere appannaggio della percezione comune, sempre “occupata a
identificare l’oggetto per conoscerlo o utilizzarlo.”380
Con evidenti riferimenti alla Psicologia della Forma, Dufrenne amplia la possibilità
di identificare l’oggetto, estetico ma anche in generale, al di là della sua organizzazione
spazio-temporale di dato, per estenderne il riconoscimento fino alla sua espressività. Per
l’oggetto estetico poi, l’aspetto affettivo si rivela ineludibile: esso ne fa parte in modo
costitutivo, poiché “esso (l’oggetto) non parla soltanto con la ricchezza del sensibile, ma
per quella qualità affettiva che esprime e che permette i riconoscerlo senza passare
attraverso il concetto.”381 La sua forma si completa con l’aspetto affettivo, che non ne
rappresenta una superficiale sovrastruttura ma, al contrario, costituisce la sua unità.
Unità che, infatti, “non è soltanto sensibile ma affettiva.”382
In questo senso l’aspetto affettivo non è da cogliere come una delle possibili e
molteplici forme attraverso cui il reale si completa, bensì come un suo “nuovo viso”383:
un suo aspetto che comprende anche gli altri, con i quali interagisce e si compenetra.
L’oggetto impone e implica tale componente, senza opporle un’altra parte come si
376
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 211.
Ivi, p. 214.
378
Ibidem.
379
Ibidem.
380
Ibidem.
381
Ivi, p. 215.
382
Ibidem.
383
Ibidem.
377
141
opporrebbe un primo piano a uno sfondo, e in questa unità gestaltica è l’unità
significante dell’oggetto. Quello che a Dufrenne preme rilevare è proprio questa
compenetrazione tra unità e senso che fa della forma estetica un’unità significante che
amplia la visione di J. Hersch, che l’autore ha ripetutamente citato, di “quella forma
assoluta capace di conferire all’opera d’arte un’esistenza non derivata”.384 Definire la
forma implica, infatti, nella sua visione, un riferimento ineludibile al senso e, di riflesso,
al sentimento “nella misura in cui il sentimento fa cogliere l’espressione che è a sua
volta senso.”385 Questo scongiura il rischio di interpretare la forma come qualcosa di
astratto che informa la materia, riafferrandola invece nelle sue caratteristiche
ontologiche oltre che estetiche. Dufrenne si spinge fino a raccogliere il concetto di
anima aristotelico e la nozione di Gestalt sotto il medesimo indice, facendoli coincidere
secondo l’idea che “la forma è l’anima dell’opera come l’anima è la forma del
corpo.”386 La distinzione tra forma e materia è una dicotomia che non gli interessa più
nella misura in cui “tutta la materia, da cui non può essere escluso il senso, è assunta
dalla forma.”387
E tale forma, o tale anima organizzata, in ogni caso questa totalità significante
entro cui si raccoglie l’unità dell’oggetto estetico esiste per la percezione e per la
scienza che ne deriva. La forma, ciò “per cui un oggetto ha un senso” è innanzitutto un
affare estetico; la sua stessa esistenza è subordinata alla percezione che la coglie. E da
questa percezione essa si lascia decifrare, imponendosi in modo tanto diretto, “senza
tener conto delle esigenze dell’intelletto e secondo un’esigenza che le è propria”388
poiché, lo ripetiamo, la sua significazione ha qualcosa di “misterioso”, irriducibile al
discorso.
Dufrenne non si sta riferendo qui a quella “profondità incomprensibile del senso”
che tutte le arti, soprattutto della nostra epoca, hanno ripetutamente sfruttato e
sottolineato. Per lui, infatti, “anche l’arte in apparenza più facile cela qualche cosa di
384
Ivi, p. 216.
Ivi, p. 217.
386
Ibidem.
387
Ibidem.
388
Ivi, p. 218.
385
142
misterioso per il semplice fatto che si rivolge alla percezione, e da questa al sentimento,
piuttosto che all’intelletto.”389
Si vede qui, molto chiaramente, quale sia l’interesse vero, la questione
fondamentale: di che cosa realmente si sta parlando, effettivamente, se non di questa
modalità di relazionarsi con il mondo che esula il dominio della logica per manifestarsi
invece indubitabilmente attraverso le opacità indicibili della corporeità e dell’esteticità?
La questione della forma dell’oggetto estetico, il problema del suo senso, chiama in
causa, infatti, la necessità di puntualizzare se e come esso si relazioni con le potenzialità
recettive del soggetto che la esperisce e con il mondo che la circonda. E questo esige,
ancora una volta, che di tale ricettività e di tale mondo si dia conto. L’oggetto estetico si
relaziona alla nostra percezione secondo strutture affini ma differenti dall’oggetto
naturale. Di quest’ultimo condivide “l’indifferenza, l’opacità, la sufficienza”390, ma
diversamente da esso, l’oggetto estetico non è sempre in balìa del mondo. La cosa
naturale, infatti, rimanda sempre, “di cosa in cosa, a un mondo in cui si radica e sullo
sfondo del quale appare: il suo in-sé è come affetto da impotenza, essa non è neppure
completamente ciò che è, perché è in balia del mondo.” 391 E questa perenne relazione
con il suo sfondo attiva la nostra percezione, che ha una sola risorsa: “quella di
comprenderla (la cosa), cioè di coglierla nel suo contesto.”392 Ecco perché qui la
percezione tende a tramutarsi in intellezione, animando in noi la costante
preoccupazione di trovare una forma di oggettività stabile, punto di riferimento saldo e
fermo come un punto cardinale.
La cosa naturale si configura come “puramente cosa (…) quella cosa che non è
posseduta e animata da un significato intrinseco, quella cosa non espressiva appartiene
all’essere solo per perdervisi”.393 È quasi neutro persino il suo portato ontologico, dal
momento che “l’essere che essa attesta è l’essere indeterminato, che non è l’unità ma
l’abisso delle determinazioni, l’essere deserto di cui la natura, finché non porta il
marchio delle determinazioni umane, è l’immagine.”394
389
Ibidem.
Ibidem.
391
Ibidem.
392
Ibidem.
393
Ivi, p. 219.
394
Ibidem.
390
143
L’esteriorità dell’oggetto estetico, invece, si unifica proprio in virtù della forma e
nella sua forma manifesta anche “una promessa di interiorità”. Questo esclude quel
rapporto al mondo come a uno sfondo cui si giunga, come abbiamo visto, “di cosa in
cosa”. Esclude la necessità e annulla l’utilità di cogliere la cosa nel suo contesto al fine
di comprenderla: l’oggetto estetico “è a se stesso il proprio mondo”395 e per
comprenderlo non si può fare altro che restargli il più vicino possibile, nei suoi paraggi,
e ad esso costantemente tornare. Nei suoi confronti non valgono più i punti di
riferimento offerti dal mondo delle cose naturali, essi semplicemente si annullano in
quel nuovo orizzonte che la sua stessa espressività introduce e dischiude.
Deriva da qui la celebre definizione, problematica e utilissima, dell’oggetto estetico
come di un “quasi soggetto”. Nel momento in cui si riconosce la forma come promessa
di interiorità, infatti, se ne coglie il portato espressivo che rende l’oggetto estetico simile
a un per-sé:
C’è un per-sé dell’in-sé, che è per l’in-sé la propria assunzione, un modo di
essere luminoso a forza di opacità non ricevendo una luce estranea mediante la
quale si disegni un mondo, ma facendo scaturire da sé la propria luce; è questo
l’esprimere. Diremo così che l’oggetto estetico è un quasi-soggetto.396
Da questa notazione, e dalle conseguenze che Dufrenne ne trae relativamente
all’oggetto estetico, derivano alcune considerazioni che contribuiscono in maniera
notevole a una descrizione perspicua del rapporto uomo-mondo e del ruolo che in esso
svolge la sinestesia.
Prima di arrivarci, tuttavia, può essere utile comprendere con Dufrenne a quali
schemi corrisponde la descrizione del rapporto tra l’oggetto estetico e il mondo. Proprio
nel suo essere un quasi-soggetto, infatti, esso caratterizza a tratti per analogia a tratti per
differenza, il Soggetto tout court, la cui relazione intenzionale al mondo sfugge la
rigidità di una descrizione basata su semplici dicotomie.
Quella dell’oggetto estetico è una situazione soggetta a un’ambiguità ineludibile.
Ambiguità che anzi renderebbe maggiormente produttivo l’afferramento teorico del
quadro globale.
395
396
Ibidem.
Ibidem.
144
L’oggetto estetico, infatti, è “nel mondo e contemporaneamente è principio di un
mondo”397 come un soggetto esercita delle “capacità di presa” sul mondo che, a sua
volta, “non è soltanto spettacolo ma anche teatro delle nostre azioni e dei nostri
progetti”.398 Per Dufrenne, la dimostrazione di queste caratteristiche implica e anzi esige
il coglimento del contesto relazionale nel quale si giocano tutti gli equilibri tra oggetto e
soggetto. Contesto relazionale che, come detto, esclude ogni forma di descrizione in
chiave dicotomica poiché:
Il mondo è quella luce proiettata da ciascuno secondo il proprio essere nel
mondo, e tuttavia anche il luogo comune, la luce di tutte queste luci, l’orizzonte
degli orizzonti; ciascuno vi è preso, e tuttavia esso è preso in ciascuno, e
soltanto al limite è il mondo di nessuno, l’in sé che non sia per me.399
Nell’espressività dei soggetti, che l’oggetto estetico condivide, si delinea
chiaramente quel paradosso che riguarda tanto il mondo quanto i soggetti che lo
abitano: l’espressione, infatti, indica da una parte l’essere di una soggettività e,
dall’altra, “la possibilità di un mondo irradiato da quella soggettività”.400
Nell’espressività dei soggetti, che l’oggetto estetico condivide, si delinea
chiaramente quel paradosso che riguarda tanto il mondo quanto i soggetti che lo
abitano: l’espressione, infatti, indica da una parte l’essere di una soggettività e,
dall’altra, “la possibilità di un mondo irradiato da quella soggettività”.401
Ancora una volta è la cerniera che unisce e separa la vita riflessa della ratio dalla
vita vissuta del corpo a manifestarsi quale limite assurdo, paradossale eppure
immensamente significativo: infatti, “in quanto rifletto, questo mondo è mio e si spegne
con me; in quanto vivo, ne sono oltrepassato e preso dentro come un topo in una
trappola.”402 Per questa ragione, e Dufrenne riconosce la responsabilità teorica di questa
397
Ivi, p. 221.
Ivi, p. 222.
399
Ivi, p. 223.
400
Ibidem.
401
Ibidem.
402
Ivi, p. 224.
398
145
consapevolezza, una riflessione veramente trascendentale sarà quella capace di ritornare
a “quella prima certezza scoprendomi in situazione.”403
Come quello del soggetto, il rapporto dell’oggetto estetico con il mondo è un
rapporto opaco e disarticolato, condannato a una ineludibile ambiguità che ne
rappresenta altresì la fertilità di significati.
Così, il mio rapporto col mondo e il mondo stesso sono ambigui; ho il mio
mondo nel mondo, e tuttavia il mio mondo è soltanto il mondo. Allo stesso
modo potremmo parlare di un mondo dell’oggetto estetico; c’è soltanto il
mondo, e tuttavia quell’oggetto è gravido di un suo mondo.404
Questo rende chiara la difficoltà di descrivere il modo in cui l’oggetto estetico si
lascia cogliere all’interno del mondo, essendo esso profondamente differente dalle cose
naturali e dal loro modo di presentarsi.
Proprio a questo tema dedicheremo dunque il prossimo paragrafo.
2.3 Il mondo dell’oggetto estetico
Come abbiamo accennato, seguire Dufrenne lungo la sua meditazione a proposito
dell’oggetto estetico e del suo rapporto con il mondo ci permetterà di cogliere, secondo
analogie e differenze, quella specifica relazione con il mondo che caratterizza l’uomo, al
di là delle specificità dell’oggetto estetico. Questo sarà particolarmente utile
nell’illustrare il ruolo, teorico e metaforico, a sua volta giocato dalla sinestesia in tale
rapporto. Ruolo di cui vedremo le implicazioni più simboliche proprio nel contesto
dell’arte.
Ma, andando con ordine, seguiamo ora l’autore nella problematica e per nulla
scontata delineazione del rapporto tra l’oggetto estetico e il (suo) mondo.
Il percorso dell’autore è disseminato di riferimenti ed esempi che a volte non
temono di confondersi con un certo empirismo. Spesso deboli, quasi mai davvero
403
404
Ibidem.
Ibidem.
146
illuminanti, tali riferimenti fanno tuttavia parte degli scritti di Dufrenne in maniera tanto
diffusa da diventarne quasi una cifra caratteristica. Si potrebbe riflettere a lungo sui
motivi che spingono l’autore a scelte a volte tanto poco rigorose. Forse però è
preferibile e più efficace prescinderne, limitandosi a tenere conto dei contributi teorici
che, ben oltre il sensismo apparente, non perdono la propria pregnanza.
Uno di questi riguarda appunto il ruolo del mondo rispetto all’oggetto estetico e
viceversa.
Rispetto agli altri oggetti del mondo, quegli oggetti il cui uso ci richiede un
controllo e una conoscenza accurati che le concezioni deterministiche contribuiscono ad
affilare, l’oggetto estetico si pone con una maggiore indipendenza. La stessa
indipendenza che contraddistingue l’essere vivente, “che si distingue dall’ambiente e gli
si unisce attraverso la propria mobilità”405. Similmente, anche se secondo sfumature
ancora diverse, l’oggetto estetico è abitato da un’energia estranea alla cosa naturale che
fa sì che esso sfugga all’integrazione percettiva del mondo quotidiano. Di più, come
abbiamo già visto, l’oggetto estetico esige una presenza che, attraverso la percezione,
porti esso stesso alla Presenza. Tra lo spettatore e l’oggetto estetico corre un corto
circuito per cui, nella visione di Dufrenne, il primo diventa anche attore del secondo.
“L’oggetto estetico estetizza ciò che gli sta intorno integrandolo nel proprio mondo, fa
di quei contorni altrettante province del suo regno, servitori della sua potenza.”406
Purtroppo è proprio questo uno dei nodi in cui l’autore più diffusamente indulge a quel
tipo di esemplificazione cui abbiamo accennato.407 Quello che gli interessava mostrare,
405
Ivi, p. 226.
Ivi, p. 227.
407
Ecco, ad esempio, un passo in cui l’indulgenza a esemplificazioni forse un po’ prolisse ed empiriche si
manifesta con chiarezza. Si vede bene come la questione teorica sia più che pregnante, eppure diluita a tal
punto da risultare quasi pretestuosa. “La percezione stenta a isolare l’oggetto dal campo percettivo. Con le
arti temporali, a rigore, è possibile, hanno una propria durata, e vedremo come questa conferisca loro
un’indipendenza più manifesta e un’interiorità più sensibile; e si può ascoltare della musica o della poesia
ciudendo gli occhi. Allo stesso modo le arti in cui la significazione è più eloquente, come quelle del
linguaggio, ci trascinano più facilmente nel loro mondo particolare e ci fanno lasciare le zone del
quotidiano. Ma le arti dello spazio permettono meno facilmente questa separazione: l’oggetto spaziale
prende posto nello spazio quotidiano per il suo peso di materia e la sua struttura di cosa. Come si
affermerà allora l’oggetto estetico? Annettendo quel vicinato indiscreto ed esercitando su di esso la sua
regalità estetica. Consideriamo infatti un monumento: il castello di Versailles: ne faccio il giro, vi entro,
lo visito; svolgo intorno ad esso una specie di danza sacra, attraverso i viali che mi apre; ne prendo una
molteplicità di vedute, alcune privilegiate, alcune insignificanti, tanto che posso dire di vederlo veramente
dalla spianata, o dal tappeto verde, o da un cert’altro luogo in cui mi colloco. Mentre musica e teatro mi
sollevano in alto su un tappeto magico e mi depongono in un altrove che non è più nel mondo, il
406
147
e che forse sarebbe stato chiarito con maggior vigore in assenza di tali esempi, resta
comunque denso e significativo. Si tratta del ruolo “regalmente” estetico che l’opera
sarebbe in grado di giocare nella dinamica di rapporti intersoggettivi. Essa, infatti,
“diviene il soggetto degli oggetti in cui regna, calamita l’ambiente come fa, secondo
Sartre, lo sguardo altrui. Tutto converge verso di lei e attraverso lei si trasforma.”408 Tra
l’oggetto estetico e gli altri oggetti si leva una sorta di velo: separazione fisica e
concettuale che lo sguardo stesso di chi osserva mette in scena. Vi è, infatti, secondo
Dufrenne, una solidarietà intrinseca e indissolubile tra l’oggetto estetico e lo sguardo
poiché “è estetico ciò che conta esteticamente per lo sguardo.”409 Questa forma di
solidarietà non è però priva di contraddizioni e problemi, ben sintetizzati anche nel fatto
che i limiti dell’estetico e i limiti dello sguardo non sempre coincidono; lasciando
presentire un allargamento del campo estetico ben oltre quello che il singolo sguardo
può mettere a fuoco. Ma, al di là dell’empiricissima notazione che “so bene che il
monumento, il parco, il cielo non stanno interamente nel mio campo percettivo
presente”410, quello che conta è proprio quel travalicare dell’oggetto estetico rispetto al
mio sguardo benché l’oggetto estetico si offra sempre come totalmente presente. “Ma è
tuttavia lo sguardo, almeno uno sguardo possibile, ad assegnargli i limiti della sua
influenza, perché appunto per lo sguardo è estetico.”411 Stagliandosi sul fondo del
mondo l’oggetto estetico al contempo lo nega, in una dinamica di piani multipli che
sostanzialmente mette tra parentesi quel contorno succube della “regalità” dell’oggetto.
Certo, ciò non significa che il mondo reale al cospetto dell’oggetto estetico sia del tutto
abolito, “perché allora sogneremmo l’oggetto estetico invece di percepirlo”412; lo spazio
ritagliato dall’oggetto estetico risponde a una sorta di cono di luce che “irrealizza il
monumento mi fissa nel mondo annunciandosi come oggetto del mondo. Tuttavia si staglia nettamente su
di un fondale. Quale? È questo parco da cui lo contemplo o che vedo attraverso le finestre, questa città
che è a sua immagine, questo cielo senza pari dell’Ile-de-France. Però quel parco non è esattamente uno
scenario associato al monumento; mentre lo scenario annuncia l’ingresso nel mondo dell’Opéra, dove ha
la sua ragione d’essere, e con ciò allontana il mondo naturale, il parco inerisce al mondo naturale con tutte
le radici degli alberi; è un vero parco, che ha la sua verità nel mondo delle potenze vegetali e delle
stagioni cui comanda obbedendo, sorgendo dal bosco che lo cinge e gli rende omaggio. Collega il castello
ala natura, lo mette al mondo, come fanno la piazza con i tigli e la fontana di pietra per la chiesa del
paese, la pianura della Beauce per la guglia di Chartres.” (Ivi, p. 228.)
408
Ivi, p. 229.
409
Ivi, p. 230.
410
Ibidem.
411
Ibidem.
412
Ibidem.
148
reale estetizzandolo.”413 E proprio nella condizione imprescindibile di essere all’interno
di quel mondo in cui “facciamo presa su un dato inesauribile”, e tuttavia in questo suo
rapporto stretto e ambiguo con una forma di irrealtà, l’oggetto estetico riconferma la
propria ineludibile vocazione sensibile. “Per l’oggetto estetico importa essere nel
mondo, e precisamente perché non esiste un sensibile, né un senso immanente al
sensibile, se non per le cose del mondo.”414 La sua posizione profondamente sensibile
risponde ad una sorta di sforzo di “liberarsi dalla condizione di cosa”, sforzo
descrivibile proprio in virtù della distanza che sempre separa le mere cose dagli oggetti
estetici.
È proprio questa distanza che Dufrenne mira a tematizzare e problematizzare,
riuscendo nell’intento di chiarire le difficoltà teoriche che investono una descrizione
determinista e dicotomica del mondo e del nostro modo di relazionarsi ad esso.
La medesima differenza riguarda l’oggetto estetico nel suo rapporto con il tempo;
tempo che, nei confronti dell’oggetto estetico sarà sempre caratterizzato in quanto
umano e storico. “Ogni oggetto estetico è un ‘monumento storico’.”415 Il rapporto con il
tempo non riguarda però tanto il corpo dell’oggetto che, in quanto cosa, appartiene al
tempo delle cose; riguarda piuttosto, e in maniera ben più significativa e pregnante, la
sua forma e il suo senso, “tutto ciò che l’uomo vi percepisce e vi legge, ciò che dice
dell’uomo e che l’uomo ne dice.”416 Proprio perché in costante relazione con il tempo
umano, allora, l’oggetto estetico si trova in una posizione ambigua anche rispetto al
tempo, poiché “la sua relazione con il tempo umano ha l’ambiguità della storicità.”417 Il
suo essere nel tempo è carico di conseguenze sul suo essere stesso poiché ogni sguardo
successivo riattiva l’oggetto estetico con la medesima forza del primo. L’oggetto
estetico si trova trascinato dagli sguardi umani nel tempo della storia, “e conosce una
fortuna diversa a seconda dell’intenzione di questi sguardi e della loro attitudine a
coglierlo.”418 Il mondo stesso dell’oggetto estetico si trova impigliato nel mondo,
diacronicamente in movimento, del suo pubblico e, benché senza dubbio esista una
413
Ivi, p. 231.
Ibidem.
415
Ibidem.
416
Ivi, p. 232.
417
Ibidem.
418
Ibidem.
414
149
verità atemporale di quell’oggetto, ogni spettatore contribuirà a lievi ma inesorabili
mutamenti. Infatti:
È destino di questa essenza singolare fenomenizzarsi, consegnarsi a dei
guardiani, come dice Heidegger, che non possono esserle sempre fedeli, o
piuttosto che le sono fedeli soltanto trasferendola nel proprio mondo,
consegnandola alle vicissitudini della storia.419
Dufrenne sta dunque dicendo due cose, entrambe molto importanti: esiste nel
mondo una particolare categoria di oggetti in grado di relazionarsi al tempo e allo
spazio secondo schemi differenti da quelli che riguardano gli oggetti in generale. Tale
possibilità non viene a questi oggetti da carattersitiche metafisiche di dubbia
dimostrabilità, bensì dalla particolare modalità con cui i essi si manifesta un senso e un
significato. Infatti, è ovvio, non si tratta qui di un’impossibile differenziazione del
tempo e dello spazio come categorie oggettive: in quanto oggetto l’oggetto estetico si
inserisce nello spazio e nel tempo che sono i nostri, né più né meno di quelli di qualsiasi
altra cosa. Il senso dell’oggetto estetico, però, è un senso dinamico che investe il tempo
e lo spazio essendone investito a sua volta. Non solo è come se in qualche modo
crescesse, quasi alla stregua di un essere umano che invecchia; ma, poiché risponde ad
un tempo storicamente e umanamente scandito, esso muta costantemente la propria
posizione e con essa, potenzialmente, ogni volta il proprio senso. Si capisce allora con
chiarezza cosa significhi per Dufrenne notare che: “attraverso i vortici della storia
generale, l’arte sembra essere al principio di una propria storia, o almeno di una storia le
cui relazioni con la storia generale non siano fissate da uno stretto determinismo.”420
Quello che si sta delineando è allora un possibile scarto sempre aperto all’interno
della relazione uomo-mondo. Scarto che permette di leggere persino il tempo e lo
spazio, con le loro caratteristiche di rigida categorialità, in termini dinamici ed
esistenziali. Oltre ad essere nel tempo e nello spazio, l’oggetto estetico è all’origine di
un proprio tempo e di un proprio spazio: all’origine di un proprio mondo che è un
mondo abitato da sensi e significati anche spazialmente e temporalmente orientati.
419
420
Ivi, p. 233.
Ibidem.
150
Tuttavia, naturalmente, tale mondo con il suo proprio spazio e il proprio tempo, cessa di
esistere al di fuori dell’esperienza estetica rimanendo come indice di un altrove
comunque possibile.
L’indipendenza dell’oggetto estetico non può essere totale, né nella storia né nello
spazio; eppure quello che esso apre è un mondo almeno in parte indipendente, sia nella
storia sia nello spazio.
In questa apertura rappresentata dall’oggetto estetico ben si inquadra il tema dello
stile: quello stile tanto individuale quanto collettivo che, da un punto di vista artistico,
rappresenta un modo d’essere e d’operare proprio di un autore e della sua epoca. Ma, al
di là del senso artistico, lo stile dell’oggetto estetico si ricollega a quanto visto a
proposito dell’espressione. Il suo è un ruolo cardine, attraverso cui il mondo e l’oggetto
estetico, come anche il mondo e il soggetto, si cor-rispondono in una dinamica di
scambi reciproci. Tali rapporti si configurano come un chiasma di soggettività e
oggettività, in quanto ognuno di noi, così come ogni oggetto estetico, è una particolare
presa di posizione sul mondo mentre al contempo il mondo si presenta entro un certo
orizzonte di invarianza oggettiva421.
È dunque questo chiasma ambiguo che caratterizza la modalità secondo cui
l’oggetto estetico si rapporta allo spazio e al tempo; la forma dell’oggetto estetico, che
ne rappresenta “in certo modo l’essenza singolare ma sensibile”422, ha a che fare con la
sua verità la quale, a sua volta, si relaziona al corpo sensibile dell’oggetto in maniera
sfuggente. Si tratta, infatti, di “una verità che ha bisogno del corpo materiale per
manifestarsi, ma non si lascia identificare con quel corpo.”423 Allo stesso modo, il suo
senso, si incardina su uno spazio e un tempo cui tuttavia si sottrae costantemente.
Si arriva così a cogliere, di nuovo, il carattere duplice che contraddistingue
l’oggetto estetico; il suo abitare una verità che non si esaurisce nella sua forma e
421
“Quando mi chiedo che cos’è il qualcosa o il mondo o la cosa materiale, io non sono ancora il puro
spettatore che, in virtù dell’atto di ideazione, sto per divenire: sono un campo di esperienze nel quale si
delineano soltanto la famiglia delle cose materiali, e altre famiglie, e il mondo come loro stile comune; la
famiglia delle cose dette e il mondo della parola come loro stile comune, e infine lo stile astratto e scarno
del qualcosa in generale.” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 130.)
422
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 243.
423
Ibidem.
151
neppure nel suo senso. Una verità dinamica e mutevole, che persino lo spazio e il tempo
non inquadrano mai definitivamente.
Così, per la forma intesa come verità, l’oggetto estetico è atemporale, “ma poiché
la sua forma è forma di un corpo, è votato al mondo e al tempo.” Il suo senso subisce il
medesimo movimento, ondeggiando in maniera significativa tra il suo inerire
indissolubilmente al sensibile e il suo sfuggirgli di continuo. Come sintetizza infine
Dufrenne:
In altre parole, la forma è la verità dell’oggetto estetico; e ha quella qualità
atemporale che è propria alla verità, la verità in quanto essere del vero, e non in
quanto evento prodotto in una storia: perché bisogna anche che la verità appaia.
Ma precisamente, la verità dell’oggetto estetico non può apparire altrimenti che
nel sensibile, nell’immediato esserci della natura. Cosicché quella verità,
immediatamente legata al suo apparire, solidale con la sua espressione, è subito
temporale: non ha la possibilità di rifugio in un cielo intelligibile.424
Collocandosi al principio di un mondo, dunque, l’oggetto estetico reca la sua
propria verità. Una verità che sfugge tuttavia la concettualizzazione rigorosa per
scivolare invece, molto più significativamente, nei territori dell’esistenza; in quei
territori in cui, come abbiamo già accennato, la riflessione veramente trascendentale
saprà coglierci “in situazione”.
L’oggetto estetico rappresenta allora un corpo esemplare, in senso proprio, in cui si
incarna e si manifesta un possibile e reale accesso alla verità e al senso che non si regola
sulle antinomie del pensiero causale e sulle rigide risoluzioni del determinismo.
Dandosi come qualcosa che “non è del mondo, ma costituisce un proprio mondo”425,
l’oggetto estetico rappresenta, al modo delle cose, quello che è agito al modo dei
soggetti: esso “resta una cosa del mondo, percepita come cosa del mondo, ma trascende
la propria condizione di cosa opponendo al mondo il proprio mondo.”426
Grazie alle possibilità dischiuse dalla descrizione dell’oggetto estetico, si delinea
così ulteriormente quell’interpretazione dell’umano in chiave di soglia e apertura nei
confronti di un mondo che non rappresenta solo lo spettacolo cui assistiamo ma anche il
424
Ivi, p. 244 (Corsivo mio).
Ibidem.
426
Ivi, p. 245.
425
152
teatro in cui agiamo. Questa illustrazione non considera ovviamente solo l’aspetto
pratico delle azioni -che pure, da un punto di vista etico interessa moltissimo Dufrenne-;
lo spettacolo del mondo, infatti, viene investito di sensi sempre nuovi proprio a partire
da quella molteplicità costante di individui che in esso operano. Dire dell’oggetto
estetico che esso “apre un mondo”, rappresentando un quasi-soggetto, significa
riconoscergli quel potere di fondare i significati che ogni individuo, con l’apertura
percettiva che incarna il proprio corpo, riproduce.
Alla base della lettura dell’oggetto estetico come soglia di apertura di un mondo vi
è il riferimento costante ad alcuni punti della meditazione di Merleau-Ponty, in
particolare alla trama carnale del mondo che abbiamo già indicato come sostrato teorico
essenziale di tutto il percorso di Dufrenne.
Nella trama carnale del mondo si radica l’esperienza del Mondo e, con esso,
dell’Altro. Tuttavia descrivere la specificità di questa esperienza comporta assumere
consapevolmente due coordinate non scontate: l’Altro non è afferrabile come una cosa
del mondo né da cercare come pura coscienza altra427. Tale definizione esclude
l’alternativa tra Altro come semplice oggetto nel mondo e Altro come coscienza pura.
Non si indica, infatti, in questo modo una presenza determinata che fungerebbe da
segno di una coscienza assente per noi perché presente esclusivamente a se stessa. Al
contrario, la presenza è l’accordo stesso con l’assenza, il corpo presente dialoga tanto
con la dimensione privata quanto con quella intersoggettiva, in quella dinamica di
scambi e aperture che è stata descritta come chair.
Latore di un paradosso formale, l’Altro è rigorosamente definito da Merleau-Ponty
come “presentazione originaria (Urprasentation) di ciò che per principio è
l’impresentabile (Nichturprasentierbar)”428.
Benché
questa
definizione
dell’Altro
come
presentazione
originaria
dell’impresentabile sia applicabile in linea di principio anche alla cosa percepita,
l’Altro, contrariamente alle cose del mondo, si anima sotto i nostri occhi incarnandosi in
un comportamento e in un orientamento coerente. Ne deriva la strutturale impossibilità
di situarlo su un piano strettamente oggettivo riducendolo a movimenti meccanici, “esso
427
428
Cfr. R. Barbaras, De l’etre du phénomène, cit., p. 295.
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 251.
153
è al di qua della quiete e del movimento oggettivi”429. Ciò implica il riconoscimento del
corpo altrui come incarnazione di un vivere che lo anima, Nichturprasentierbar per
definizione; significa che la percezione dell’altro come fenomeno non si indirizza
sempre e soltanto sul Per Sé dell’Altro, ma viene dirottata altrettanto su ciò che egli
stesso mostra con l’orientamento dei propri movimenti. Questi ultimi si frappongono
nella percezione dell’Altro, a testimonianza di una sua unità di fondo, di un suo sempre
rinnovabile potenziale je peux, aprendo così la possibilità di configurare o almeno
concepire una dimensione completamente altra da quella oggettiva semplicemente
percepita.
Ciò significa comprendere il comportamento come la sola possibilità di afferrare il
corpo altrui nella sua specificità: cioè senza confonderlo col corpo oggettivamente
considerato della scienza fisiologica, riconoscendone la valenza oggettuale e soggettiva
allo stesso tempo. Il corpo dell’altro sfugge ad ogni considerazione che investirebbe un
oggetto statico, presentandosi come il centro di prospettive e di comportamenti verso il
mondo che solo lui è430. Non si può, in altre parole, ricondurre il corpo altrui in quanto
tale alla cosa semplicemente percepita nel mondo, nella misura in cui i suoi movimenti
saranno sempre dei comportamenti: mai riferibili a un corpo estraneo quale oggetto tra
gli oggetti.
Ogni ipotesi di dualismo tra un corpo oggettivo e i movimenti che lo animerebbero
crolla a favore di una lettura unitaria del visibile431. Il corpo altrui, come il mio, è una
struttura bipolare in continuo scambio dialettico tra coscienza interiore e mondo
esteriore. L’Altro come fenomeno emerge in tutta la sua autonoma identità come
portatore unico di una concentrazione di differenze inseparabili, incarnazione attiva di
429
Ivi, p. 238.
È stato notato (M. Pangallo, op. cit., p. 80), e indicato quale punto debole, come così dicendo MerleauPonty assegni il medesimo statuto fenomenologico al comportamento vissuto in prima persona come a
quello osservato in altri. Se da un lato, infatti, una certa sinonimia tra i due è innegabile, dall’altro risulta
fenomenologicamente poco condivisibile l’atto di porli sullo stesso piano.
431
“Definire lo spirito come l’altra faccia del corpo – Noi non abbiamo idea di uno spirito che non sia
sotteso da un corpo, che non si stabilisca su questo suolo – “L’altra faccia” significa che il corpo, in
quanto ha quest’altra faccia, non è descrivibile in termini oggettivi, in termini di in sé, – che quest’altra
faccia è veramente l’altra faccia del corpo, trabocca in esso, sopravanza su di esso, è nascosta in esso – e
in pari tempo ha bisogno di esso, termina in esso, si ancora in esso. C’è un corpo dello spirito e uno
spirito del corpo e un chiasma tra di essi. L’altra faccia da intendere non, come nel pensiero oggettivo, nel
senso di un’altra proiezione del medesimo geometrale, ma nel senso di Ueberstieg del corpo verso una
profondità, una dimensionalità che non è quella dell’estensione, e di trascendenza del negativo verso il
sensibile”. (Il visibile e l’invisibile, cit., p. 271.)
430
154
una certa apertura di mondo. Se la sua presenza apre un mondo, evidentemente non si
colloca con semplicità all’interno del mondo percepito, non essendo dunque mai qui e
ora nel senso di un oggetto, ma sempre in una “specie di località”.
Alla luce di ciò, inoltre, diviene comprensibile la densa dichiarazione di MerleauPonty per cui nella incarnazione si individua “il fatto tipico, l’articolazione essenziale
della mia trascendenza costitutiva”432.
L’Altro si configura dunque come uno scarto nella apparentemente rassicurante
semplicità del rapporto tra me e il mio mondo, lasciando intendere chiaramente che c’è
qualcos’altro da considerare.
Imponendosi a un superficiale illusorio solipsismo, in altre parole, l’Altro produce
un decentramento della mia relazione col mondo. L’apertura è là; tutta da indagare
anche se, o proprio perché, mai esauribile.
È quanto esplicita il noto principio secondo cui è necessario:
Non considerare l’invisibile come un altro visibile “possibile” o un “possibile”
visibile per un altro: ciò equivarrebbe a distruggere la membratura che ci
congiunge ad esso. Del resto, poiché quest’“altro” che lo “vedrebbe”, o questo
“altro mondo” che esso costituirebbe, sarebbe necessariamente collegato al
nostro, la possibilità vera riapparirebbe necessariamente in questo
collegamento. L’invisibile è qui senza essere oggetto, è la trascendenza pura
senza maschera ontica. E in fin dei conti anche i visibili stessi sono solo centrati
433
su un nucleo di assenza .
È così che l’apparizione dell’Altro si manifesta primariamente come la prova di
uno scarto dissonante all’interno del mio proprio visibile.
Proprio a questo scarto fa ritorno Dufrenne. Quello che gli interessa, però, non è
indagarlo solo nella sua dimensione umana, ma anche attraverso la particolarità
dell’oggetto estetico, nella sua dimensione oggettiva. Quest’ultima, infatti, assume
particolare rilevanza per lui nella misura in cui gli consente di portare l’attenzione sul
versante oggettivo del rapporto uomo-mondo e non solo sul versante soggettivo.
432
433
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 246.
Ivi, p. 242.
155
Di questo versante oggettivo a Dufrenne preme sottolineare la valenza espressiva,
il potere creativo che appartiene all’oggetto estetico nei confronti del senso così come al
soggetto nei confronti del mondo. Tematizzare l’oggetto estetico come un quasisoggetto significa dunque mettere in questione il mondo delle cose, quel mondo
oggettivo che la scienza pretende di dominare; significa aprirvi uno squarcio e implica
rimetterne in questione se non l’unità, la modalità con cui essa si possa dare e cogliere:
Ora nel mondo oggettivo, che la scienza cerca di dominare, si può pensare che
l’idea di quell’unità venga dal principio stesso di unificazione: ciò che assicura
l’unità del mondo -che permette di pensare un mondo- è che tutte le cose siano
ugualmente sottomesse alle condizioni dell’oggettività; ciò che determina
l’indeterminato è almeno il fatto che esso è infinitamente determinabile. Sta
veramente qui la fonte dell’idea di mondo?434
Se questo non può valere, come abbiamo visto, per l’idea di un mondo che sia
proprio all’oggetto estetico la questione si amplia e si complica, richiedendo un
approccio più flessibile insieme alla consapevolezza della mancanza di rigidità.
Quello che abbiamo indicato come lo squarcio aperto dall’oggetto estetico
all’interno del mondo non è mai disgiungibile dalla presenza percettiva del soggetto. La
presenza dell’oggetto estetico rappresenta così una sorta di campo d’azione intermedio,
in cui un oggetto manifesta la possibilità di comportarsi diversamente dalle cose naturali
e, al contempo, chiede al soggetto di esercitare modalità di apprensione differenti da
quelle che normalmente esercita sulle cose del mondo.
Nell’oggetto estetico si mette quindi in scena una forma di ambiguità costitutiva e
proprio su questa forma di ambiguità dovremo concentrare la nostra attenzione nelle
pagine che seguiranno. Vedremo sciogliersi l’ambiguità nel riconoscimento di un
rapporto intenzionale al mondo che è molto più complesso che non ambiguo.
Accettiamo, momentaneamente, di configurarlo secondo l’idea di ambiguità e
riassumiamo quindi quali sono i termini che ambiguamente vi agiscono.
434
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 258.
156
All’interno di quel mondo composto da oggetti che possiamo percepire secondo il
segno del determinismo troviamo oggetti che a questo segno si sottraggono. Tali
oggetti, che definiamo estetici, “portano in sé il loro principio di unità”435, si
relazionano cioè al resto del mondo (altri oggetti e soggetti) secondo modalità loro
proprie e indipendenti che, come abbiamo visto, arrivano a riguardare persino le
categorie di spazio e tempo. Il principio di unità di cui sono portatori riguarda tanto
l’unità percepita dell’apparenza (corporea) quanto l’unità sentita di un mondo cui
l’apparenza introduce o, come dice Dufrenne, che essa “emana”. In tal modo la presenza
corporea di tali oggetti e il senso che in essi si incarna formano una totalità
indistinguibile, un’unità che “si converte in mondo.”436 A questo movimento di scambio
reciproco e dinamico tra corpo e suo senso che l’oggetto estetico rende esplicito come
movimento espressivo si deve dunque la fondazione dell’unità di quel mondo singolare
che tale oggetto è.
Nell’oggetto estetico si manifesta lo stile inteso come lo stile artistico del suo
autore; ma in esso si manifesta soprattutto quello stile
preconcettuale”
437
come “generalità
che, come diceva Merleau-Ponty, “è ciò che rende possibile ogni
significazione”438. Esso è un primum posto al di qua di qualsiasi significato, la modalità
unica e irrinunciabile attraverso la quale un senso emerge dall’indifferenziato,
dischiudendo al soggetto l’accesso a un regno sconosciuto.
Con lo stile si porta quindi in evidenza la singolarità della soglia di emergenza di
ogni senso, nella misura in cui esso appare come ciò che dà forma all’esperienza,
manifestando la visione e frequentazione del mondo proprie di un singolo439 nel suo
spontaneo e abituale commercio col mondo.
Letta in questo modo
435
Ibidem.
Ibidem.
437
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 65, corsivo nel testo.
438
Ivi, p. 76.
439
Nella prospettiva dufrenniana come in quella merleau-pontiana questa nozione viene svolta in totale
coerenza con la sempre sottesa tematizzazione della percezione. Lo stile del singolo è infatti visto
emergere a partire dal fondo comune offerto dal mondo percepito. Anzi, alla stessa percezione viene
riconosciuto e riconfermato il compito preciso di offrire una prima stilizzazione e articolazione del mondo
attraverso scarti e differenziazioni anzitutto percettive.
436
157
L’espressione dunque fonda l’unità di un mondo singolare. Non è l’unità di uno
spazio percettibile, di una somma totalizzabile, un’unità che possa essere colta
dal di fuori, sorvolata e definita; essa procede da una coesione interna che a sua
volta può essere soggetta soltanto alla logica del sentimento.440
E in questa logica del sentimento si regola allora quello che non è più tanto un
indagare fenomenologico ma soprattutto un movimento ontologico dove “il radicamento
stesso del senso, la Lebenswelt, assume la specificità di un Essere naturante.”441
Questa lettura espressiva dell’oggetto estetico investe altresì, e l’abbiamo già detto,
l’interpretazione della posizione del soggetto. L’oggetto estetico, infatti, non è oggetto
per un’intenzionalità descrivibile solo in termini di “mirare a” bensì anche di
“partecipare a”. In questa partecipazione, dove riflessione e sentimento interferiscono in
modo continuo l’uno con l’altro, il quasi-soggetto che è l’oggetto estetico si riconferma
espressivo nel senso che abbiamo indicato, stilisticamente orientato e ambiguamente a
contatto con quel fondo precategoriale (Essere o Natura) dove ogni senso può ancora
cristallizzarsi.
Se l’oggetto estetico incarna tale fondo, si comprende allora anche come Dufrenne
possa guardare all’arte quale luogo in cui l’Essere o la Natura si rivelano. Passeremo ora
a questo fronte, con l’obiettivo di vedervi agire la sinestesia quale figura principale di
quel rapporto ambiguamente chiasmatico tra oggetto e soggetto che abbiamo visto agire
per mezzo dell’oggetto estetico.
440
441
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 262.
E. Franzini, op. cit., p. 371.
158
CAPITOLO 3:
LA NATURA E L’ORIGINE. TRA
FONDAMENTO E POSSIBILITA’
3.1 L’oggetto estetico come la cosa stessa
Quanto detto fin qui conduce ad interrogarsi sulla natura di questo “mondo” cui
abbiamo fatto riferimento in relazione all’oggetto estetico. Questo mondo che esso
stesso apre, inserendo uno scarto in quella che dovrebbe essere un’oggettività
facilmente identificabile e rigorosamente esplorabile. Come abbiamo già sottolineato,
infatti, il percorso di Dufrenne è fortemente improntato da quell’interesse squisitamente
fenomenologico, in senso merleaupontiano, che mira a una descrizione del reale, e della
sua verità, che sappia andare oltre rigidi causalismi deterministici per riconoscere,
sottolineare e comprendere la ricchezza genealogica del rapporto percettivo con il
mondo.
Per questa ragione Dufrenne non teme di chiamare “mondo” quell’atmosfera
trasmessa dall’oggetto estetico e che egli stesso riconosce come irreale, preferendo alla
dicotomia tra reale e irreale una più fertile e meno rigida commistione. Il problema
nasce, ancora, dal ruolo regolatore che l’intelletto abitualmente riveste e dalle sue
esigenze classificatore e predicative:
Per l’intelletto non c’è altro mondo se non il mondo oggettivo: la ragione, anche
se è responsabile dell’idea cosmologica, non fa nient’altro che pensare l’attività
dell’intelletto spingendola al limite; una concezione esistenziale del mondo che
lo soggettivizzi legandolo all’opera d’arte, e attraverso questa a un soggetto
concreto, è un non senso. Dobbiamo accettare questa obiezione?442
442
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 275.
159
Dufrenne non si sta interrogando, né lo farà successivamente, su un problema di
realtà. Che un mondo intrinseco ai segni sia un mito non è questione che lo riguardi. Il
suo, infatti, è un problema di rapporto con queste entità, reali e corporee o possibili e
incorporee che siano, e con gli effetti della loro verità. Effetti che riguardano tanto il
mondo oggettivo quanto, soprattutto e in maniera notevolmente più importante e
interessante, la sfera del soggetto. Le due sfere, infatti, vivono una relazione di cui
Dufrenne, con Jaspers, riconosce la problematicità. La nozione stessa di un mondo
oggettivo e totale non risulta infatti accettabile, “non appena l’utilizzo scopro che mi
rimanda al mio mondo, il mondo in cui sono e che sono, e che costituisce per me
insieme un correlato e un destino”443. Per l’individuo che lo vive, il mondo è
ambiguamente proiezione personale, elastica e metaforica, quanto reale, incalzante e
irriducibile presenza oggettiva. E su questo duplice ruolo è necessario soffermarsi.
Dufrenne pensa a come persino i biologi, sulle orme degli antichi sociologi,
riconoscono le strutture del mondo come “environnement,
come qualcosa che
costituisce il vivente ma anche, per un’irriducibile causalità reciproca, è da lui
costituito.”444 Riconoscere la soggettività del mondo come sua parte costitutiva implica
riconoscerne la presenza e la serietà, annullando al contempo il monopolio al mondo
oggettivo. Quest’ultimo, infatti, “non è né il mondo vero di fronte al quale gli altri
sarebbero puramente illusori, né il mondo totale di cui gli altri siano soltanto parti.”445
Al contrario, proprio il suo radicamento nel mondo della coesistenza dei soggetti
respinge il rischio di nichilismo solipsista che nell’oggetto-mondo vede l’unica e ultima
parola possibile, quella che zittisce l’uomo. Il fatto stesso di essere oggettivo per un
soggetto lo inserisce nella realtà di essere oggettivo per tutti i soggetti, passibile di
esperienza scientifica eppure sempre foriero di quella “esperienza iniziale del mondo
soggettivo”.446 Non c’è apprensione di un mondo senza che vi sia, prima e a sua
condizione, un sentimento del mondo; cioè, in altri termini, non vi è oggetto prima che
443
Ivi, p. 276.
Ibidem.
445
Ibidem.
446
Ivi, p. 277.
444
160
vi sia adesione antepredicativa, sentimentale, fungente da parte di un soggetto.447 Il
mondo oggettivo allora, quello che crediamo di riconoscere quale cifra comune di tutti i
raggi che si dipartono dalle infinite soggettività, diventa dunque punto d’appoggio
privilegiato per qualsiasi discorso sul mondo si voglia fare. Privilegio che gli deriva,
nella visione di Dufrenne, proprio dal rappresentare “il limite cui tende ogni mondo
soggettivo quando cessa di essere vissuto per essere pensato”448. Tuttavia, la radice di
questo mondo oggettivo, che crediamo fisso e irriducibile, non affonda nella metafisica
certezza di un Essere altrettanto inflessibilmente fermo; al contrario, tale radice è
sempre e solo da cercarsi nel mondo soggettivo. La relazione fondamentale del mondo,
allora, non è quella che lega un Oggetto ad una soggettività trascendentale pura. Tale
soggettività trascendentale pura, infatti, non esiste e al suo posto si fa strada un soggetto
definibile solo in virtù di quella stessa relazione con il mondo, “per lo stile del suo
essere nel mondo.”449 È questa circolarità falsamente ambigua che l’oggetto estetico e il
suo “avere un mondo” figurano. La peculiarità stessa dell’oggetto in questione rivela
tutta la sua efficacia teorica nel consentire questa riconfigurazione della dialettica
soggetto-oggetto. Delineandosi come un quasi-soggetto, l’oggetto estetico richiede
infatti una profonda e radicale rilettura della distinzione tra oggettivo e soggettivo; ed è
proprio a tale rilettura che la filosofia di Dufrenne costantemente mira con l’obiettivo di
ritrovare la distinzione tra soggettivo e oggettivo solo dopo averla attraversata per
ricollocarsene al di qua.
Attraverso una lettura della prima critica di Kant che forse non tutti i kantiani
apprezzerebbero ma di cui non è qui in questione l’analisi, Dufrenne individua al di là
dei poteri dell’intelletto un incondizionato cui tendere cercando di andare oltre quei
principi attraverso cui l’intelletto cerca di ricondurre a un’unità. Il passo merita di essere
citato per intero:
447
L’immagine scientifica cui ricorre Dufrenne con quel suo modo di esemplificare a volte un po’ leggero
è efficace: “E quando la teoria della relatività ci insegna che in virtù dell’equivalenza meccanica tra il
riposo e la traslazione rettilinea uniforme, enunciata dal principio d’identità, ogni osservazione è legata
all’osservatore, ci sembra quasi di trovarvi una trasposizione scientifica dell’idea che ogni apprensione di
un mondo sia legata a un sentimento del mondo.” (Ibidem)
448
Ivi, p. 278.
449
Ibidem.
161
Infatti, se ora ci collochiamo, per ritrovarla, al di qua della distinzione tra
soggettivo e oggettivo, che cosa significa l’idea di mondo? Ce lo dice Kant: è
un’idea della ragione che presuppone il lavoro dell’intelletto, quel lavoro con
cui esso istituisce un ordine tra i fenomeni. Infatti la ragione “si riferisce
all’intelletto… essendo la facoltà di ricondurre all’unità le regole dell’intelletto
mediante i principi”; e tanto stretta è la sua relazione con l’intelletto che Kant,
dopo aver detto che “i concetti puri della ragione…che sono idee
trascendentali…sono dati dalla natura stessa della ragione”, aggiunge altrove
che “soltanto dall’intelletto possono emanare concetti puri e trascendentali,
mentra la ragione non produce propriamente alcun concetto, e non fa nient’altro
che liberare il concetto dell’intelletto dalle inevitabili restrizioni di
un’esperienza possibile”, in modo che “le idee trascendentali non sono
nient’altro che le categorie estese fino all’incondizionato.” Così l’idea di mondo
è propriamente incondizionata: la ragione cerca soltanto l’incondizionato.
L’idea della totalità dei fenomeni è semplicemente un’applicazione e
un’illustrazione dell’idea di un’unità primordiale: è perché “l’incondizionato è
sempre contenuto nella totalità assoluta della serie, quando ce la rappresentiamo
nell’immaginazione…” che “la ragione decide di partire dall’idea di totalità,
sebbene in realtà il suo fine ultimo sia l’incondizionato.” Perciò
l’incondizionato non sta al termine di una serie, non è l’ultimo e inaccessibile
oggetto di una rappresentazione ma piuttosto l’anima della serie, ciò per cui la
serie è serie; questo principio “in cui rientra ogni esperienza, ma che in sé non è
mai oggetto di esperienza” può essere determinato con una deduzione logica
analoga a quella che permette di scoprire le categorie a partire dai giudizi. Ma
allora non si potrebbe dire che l’incondizionato, se è inafferrabile per
l’intelletto, si rivela al sentimento, che l’idea del mondo è innanzitutto
sentimento di un mondo (come la legge morale, espressione pratica della
ragione, è colta innanzitutto nel rispetto)?450
Emerge con chiarezza quella concezione genealogica del sentimento su cui
Dufrenne sembra tornare a più riprese e che acquista importanza crescente nel nostro
discorso. In quest’ottica, infatti, non si affronta il mondo come “totalità indefinita dei
fenomeni”451, totalità variegata ma a suo modo unitaria che è sempre in qualche modo
già là; al contrario, del mondo si valorizza la componente di soglia e apertura, che ha
quasi una “qualità generatrice”452, vale a dire non solo in trasformazione lei stessa ma
pronta a trasformare ciò che la incontra. In questo senso si legge il soggetto stesso come
apertura a sua volta genealogica nei confronti del mondo. L’incondizionato non sarà
allora da intendere in maniera ontologico-metafisica come l’ultimo e inaccessibile
oggetto del mondo, ma, al contrario, come quel fondo che è sempre là e dal quale tutto
450
Ivi, p. 279.
Ibidem.
452
Ibidem.
451
162
il resto diparte ed è generato. Generazione che passa, a sua volta sempre e
necessariamente, dal soggetto del quale si dice, recuperando Heidegger, che è “in sé
apertura perché è (…) trascendentale.”453
Ed è proprio questa caratteristica che si desume a proposito del soggetto quella di
cui Dufrenne si preoccupa maggiormente e sulla quale concentra la propria attenzione,
mostrando di raccogliere e condividere quello che in una nota significativamente
chiama “lo scivolamento dal cosmologico all’esistenziale”454 operato da Heidegger.
Dufrenne legge questo punto come il luogo in cui Heidegger si ricollega a Kant. Non è
qui in questione la legittimità di questa tesi, che comunque pare condivisibile, quanto
l’importanza che il suo significato riveste nella lettura dufrenniana. L’Heidegger qui
citato discerne infatti in Kant due significati del mondo, “l’uno propriamente
cosmologico che si ricollega alla metafisica tradizionale, l’altro esistenziale, che non si
ritrova soltanto nella Antropologia ma già nella Critica”455 e proprio su questa lettura
duale dell’esistente sta focalizzando la propria attenzione il nostro autore. Il punto per
lui più importante, “il solo che qui ci importi”456, consiste proprio nella distanza che
separa il mondo come totalità dei fenomeni, che è un incondizionato ancora relativo a
una coscienza finita, da quello che Kant distingue come ideale trascendentale, “che è la
totalità di tutte le cose come oggetto dell’intuitus originarius”. L’idea adombrata, che
Dufrenne fa sua, è l’allusione oltre che alla finitezza della conoscenza, “all’essere
dell’uomo di cui questa finitezza è struttura fondamentale.”457 Su questa allusione pesa
il carico, che l’interpretazione di Heidegger secondo Dufrenne esplicita in modo
esemplare, del senso delle analisi che Kant offre nella sua Antropologia, in particolare
là dove egli dice “il concetto del mondo designa il concetto relativo a ciò che interessa
necessariamente ogni uomo.”458 Vi è dunque una tensione, su cui Dufrenne sta
evidentemente insistendo, tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tensione che nasce
nell’eperienza originaria del mondo la quale a sua volta è tuttavia “al di qua
453
Ibidem.
Ibidem, nota.
455
Ibidem.
456
Ibidem.
457
Ivi, p. 280.
458
Ibidem. Qui Dufrenne sta citando l’Heidegger di Kant e il problema della metafisica.
454
163
dell’oggettivo e del soggettivo.”459 Ed è proprio questa impossibilità di dare la
precedenza al mondo oggettivo o a quello soggettivo, dettata dalla loro carnale e
genealogica commistione, la conclusione cui l’autore ci conduce e che l’oggetto
estetico, apparendo come “essente nel mondo e apertura a un mondo”460 incarna e
conferma.
Si legge in queste pagine una delle conclusioni più rappresentative del percorso di
Dufrenne e della sua peculiare tensione tra antropologia e ontologia. Tensione mai del
tutto risolta, la cui chiave di interpretazione può essere offerta secondo l’autore da
un’applicazione particolare del metodo fenomenologico. La fenomenologia, infatti, è in
grado, a suo parere, di “condurre a una specie di psicanalisi esistenziale, a condizione
che si
accetti
il
passaggio
dal
trascendentale all’empirico,
dall’ontologico
all’antropologico.”461 Di tale psicanalisi esistenziale si può forse comprendere il senso
tenendo presente quell’indeterminato e originario che Dufrenne ha di mira.
L’accostamento della fenomenologia alla psicanalisi non è nuovo462, la prima, infatti,
come scriveva già Merleau-Ponty, condivide con la seconda un obiettivo fondamentale:
quello di comprendere il senso dell’evento umano senza collegarlo a “condizioni
459
Ibidem.
Ibidem.
461
Ivi, p. 281.
462
Dufrenne eredita quella che in Merelau-Ponty era un’impostazione silenziosa e profonda. Quasi tutte
le opere di questo autore recano tracce della psicanalisi freudiana, anche se non senza che siano
manifestate riserve e avanzate critiche. L’itinerario complessivo è comunque scandito da un progressivo
aumento dell’interesse per questi temi. Principale motivo di ciò è il riconoscimento da parte di MerleauPonty dell’opera di Freud come luogo decisivo del passaggio dalla rappresentazione del corpo oggettivo,
derivata dalla medicina ottocentesca, alla novecentesca tematica fenomenologica del corpo vissuto. Nel
complesso, Merleau-Ponty compie nei confronti di Freud un’operazione formalmente analoga a quella
attuata nei riguardi di Husserl: fare reagire l’intenzione profonda dell’impensato contro quella
programmatica e storicizzata, “separando il quadro di riferimento globale di Freud (individuato
nell’adesione a un orientamento positivistico e determinista) dalla sua autentica interpretazione dell’Eros,
che è poi integrata nella prospettiva fenomenologica di una filosofia dell’esistenza.” (S. Mancini, Sempre
di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Franco Angeli, Milano 1987, p. 274.) In
particolare, malgrado i primi commenti poco indulgenti presenti ne La Struttura del comportamento,
alcune suggestioni psicanalitiche si impongono fondatamente nella Fenomenologia della percezione, nei
corsi tenuti alla Sorbonne tra il 1949 e il 1952 e in diversi articoli. Nella Fenomenologia, in particolare,
l’autore mostra di rendersi conto della superficialità della sua precedente lettura dell’opera di Freud che
non può essere intesa come la mera riduzione della complessità del comportamento umano alla sua
infrastruttura sessuale. Una vicinanza dichiarata tra fenomenologia e psicanalisi si trova esplicitata nella
prefazione al libro di Hesnard (A. Hesnard, L’oeuvre de Freud et son importance pour le monde
moderne, Payot, Paris 1960, p. 9.) in cui si legge che la fenomenologia e la psicanalisi non sono parallele
convergendo invece entrambe verso la medesima latenza. Merleau-Ponty comprende la distanza che
separa la psicanalisi freudiana da una mera riduzione della psicologia alla biologia e raccoglie la scoperta
di un “movimento dialettico” in “funzioni ritenute puramente corporee.” (Fenomenologia…, cit., p. 224)
460
164
meccaniche”463. Ugualmente, come ha notato Mancini464, anche i bersagli polemici sono
comuni, individuabili nel determinismo proprio di una concezione positivistica
dell’essere e nel coscienzialismo465. Alla psicanalisi si riconosce il merito di conferire a
una particolare sfera dell’esistenza, quella sessuale per l’appunto, una capacità di
simbolizzazione che fa ricomprendere in
essa l’intera esistenza nella sua
pluridimensionalità. E proprio sotto la lente esistenziale la lettura freudiana rivela
influssi strutturali importanti sull’opera di Merleau-Ponty e, per suo tramite, di
Dufrenne. Nel registro dell’esistenza, infatti, il rapporto tra la vita corporea e lo
psichismo diventa una relazione di espressione reciproca. Il corpo non è più concepito
come un involucro indifferente per lo spirito, bensì come l’elemento in cui l’esistenza,
nella sua articolata complessità, si simbolizza e si attua. La lettura freudiana della
sessualità contribuisce a mostrare un luogo peculiare della dialettica di spirito e corpo
nei termini merleau-pontiani che fanno perno sul tema dell’espressione in relazione
all’espresso, dove un polo è già sempre immanente a quell’altro. Ugualmente, essa
chiarisce quella dialettica che Dufrenne intende rendere dinamica tra mondo oggettivo e
soggettivo. La psicanalisi di Freud è in questo affine all’impostazione di entrambi gli
autori, per cui l’esistenza è senso incarnato in quanto punto di contatto tra corpo e
significato spirituale che esso veicola e il mondo oggettivo è mondo incarnato a partire
dalla soglia originaria e soggettiva. Questo rientra tra le “più durature acquisizioni della
psicanalisi”466 che, insegnando a trattare la sessualità, e più in generale la corporeità,
come una dialettica offre uno strumento valido per comprendere una costituiva
ambiguità come costitutiva ed essenziale all’uomo; di più, essa insegna che “l’equivoco
è essenziale all’esistenza umana, e tutto ciò che noi viviamo o pensiamo ha sempre più
di un senso”.467
463
M. Merleau-Ponty, Phénoménologie…, p. 225.
S. Mancini, op. cit., p. 275.
465
Quest’ultimo è definitivamente messo fuori gioco tanto dall’epoché fenomenologica – che perviene a
disoccultare l’intenzionalità fungente della vita anonima della soggettività trascendentale – quanto
dall’operazione psicanalitica che ritrova e riconosce nella sessualità “le relazioni e gli atteggiamenti che
prima venivano scambiati per relazioni e atteggiamenti di coscienza” (M. Merleau-Ponty,
Fenomenologia…, cit., p. 224.)
466
Ibidem.
467
Ivi, p. 237.
464
165
Si capisce quindi perché Dufrenne si spinga a ipotizzare una fenomenologia come
varco verso una psicanalisi esistenziale. Il principio fondamentale è quello che lo
impegna nel tentativo di risalire a quel primum che nessun casualismo può identificare
grazie al quale il soggetto stesso, con le sue caratteristiche, è possibile. Dufrenne
completa l’esortazione a passare dall’ontologia all’antropologia con una nota ambigua e
impegnativa. Di questo passaggio egli dice, infatti, che esso “è per l’ontologia un
problema decisivo e inevitabile: bisogna tornare nella caverna.”468 E che cos’è la
caverna se non, con una flessione non indifferente di Platone, il luogo dove
l’indeterminato è ancora possibile? Il luogo sì dell’inganno, ma anche del primo e
originario domandare, che è adesione alle cose pur nel loro essere ombre.
Nella caverna si trova allora ancora quell’inconscio, cui la fenomenologia di
Dufrenne invita a tornare, che come già esplicitava Meraleu-Ponty è
da cercare, non in fondo a noi, dietro la nostra ‘coscienza’, ma davanti a noi,
come articolazioni del nostro campo. Esso è inconscio per il fatto che non è
oggetto, ma è ciò grazie a cui gli oggetti sono possibili, è la costellazione in cui
si legge il nostro avvenire – l’inconscio è tra di essi come l’intervallo degli
alberi tra gli alberi, o come il loro livello comune. È la Urgemeinschaftung della
469
nostra vita intenzionale, l’Ineinander degli altri in noi e di noi negli altri.
L’inconscio in questa prospettiva trascende evidentemente l’approccio strettamente
psicanalitico, investendo una sfera di elementi ben più ampia di quella cui si attiene
l’interesse freudiano e dischiudendo una visione che permette, e anzi esige, di trattare
l’uomo secondo un registro simbolico e relazionistico piuttosto che ristrettamente
causalistico e sostanzialistico. Registro che l’esperienza estetica percorre e ripercorre,
riattivandolo
costantemente.
“Nell’esperienza
estetica,
l’incondizionato
è
quell’atmosfera di mondo che viene rivelata dall’espressione, e in cui si manifesta la
trascendenza di un soggetto.”470 È forse un peccato che nel momento in cui Dufrenne
torna all’oggetto estetico come quasi soggetto da inserire in questa dinamica appena
illustrata scelga di farlo ricollegandosi al suo essere opera di un autore nella quale
468
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 281.
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., , p. 197.
470
M. Dufrenne, Phénomenologie de…, cit. p. 281.
469
166
appare sempre un soggetto. La descrizione dell’oggetto estetico in termini di quasi
soggetto non sembrerebbe infatti avere bisogno della stampella empirica del riferimento
al suo autore; la sua efficacia è ampiamente risolta nel suo potere espressivo perché
esprimere “per quell’oggetto è in qualche modo trascendersi verso un significato che
non è il significato esplicito assegnato alla rappresentazione, ma un significato più
fondamentale che proietti un mondo.”471 L’obiettivo, centrale e centrato, dell’autore è
quindi quello di mostrare come l’oggetto estetico condivida con la soggettività la
possibilità di esser all’origine di un proprio mondo, “irriducibile al mondo oggettivo.”472
Tale mondo, configurato come mondo espresso, richiede un polo soggettivo che gli corrisponda e che sia in grado di esercitare quella particolarissima modalità di apprensione
che è quella del sentimento. Modalità di apprensione che permetterà il coglimento di
una parte di realtà tanto reale quanto il mondo oggettivo se si è compreso il punto
fondamentale su cui Dufrenne insiste a più riprese: “la nozione di mondo ha radice nel
singolare processo di disvelamento che viene effettuato dalla soggettività, cosicché il
reale è prima di tutto ciò che viene realizzato da questa soggettività.”473
Si comprende allora con chiarezza di che tipo di “Mondo” si stia parlando, un
mondo che della realtà e della verità conosce la cerniera soggettiva e il versante di
proposta sempre rinnovata. È questo che consente a Dufrenne di parlarne in termini di
profondità e fondamento, termini pregnanti proprio in virtù del tipo di relazione che
richiedono di attuare e che la modalità di apprensione sentimentale che l’autore indica
come necessaria invita a riconoscere nella loro peculiarità.
La relazione tra l’oggetto estetico e il fondo indeterminato e originario cui esso
rinvia è messa in luce con particolare efficacia da uno scritto tratto da una conferenza
che Dufrenne ha dedicato nel 1979 alla Profondeur come dimensione dell’oggetto
estetico.474 Vi si trovano sintetizzati molti dei concetti su cui si fonda l’impianto del
pensiero di Dufrenne.
471
Ibidem.
Ivi, p. 283.
473
Ivi, p. 282.
474
M. Dufrenne, La profondeur comme dimension de l’objet esthétique, in Esthétique et philosophie, cit.
tome 3, pp. 140-146.
472
167
Indagando l’idea di profondeur Dufrenne mira a tematizzare quel fondo
incondizionato che abbiamo visto emergere con forza relativamente al territorio di
competenza dell’oggetto estetico:
Il signifie l’incommensurable, ce qui échappe à nos prises jusqu’à nous donner
le vertige, mais aussi ce qui se dissimile sous la surface et demeure caché: le
fond, et pareillement, dans la profondeur du temps, l’originaire. Le fond fonde:
ce caché n’est pas seulement fondation, il semble receler le secret du sens qu’il
porte.475
Accanto alla tematizzazione della profondità come dimensione, però, a Dufrenne
preme esplicitare anche e soprattutto le dinamiche che essa dischiude rispetto alla
relazione tra l’oggetto estetico e l’uomo. Tali dinamiche, infatti, permettono di cogliere
il ruolo attivo e fondativo che l’opera d’arte riveste nella visione di Dufrenne e, in
particolare, le conseguenze teoriche che tale ruolo consente di cogliere.
Del profondo che sottende il mondo, e in particolare il mondo dell’oggetto estetico,
Dufrenne tratta come di quel luogo in cui si gioca il destino dell’organismo, del
soggetto, del mondo stesso; luogo in cui si delinea e si afferma la figura irriducibile
dell’individuo. Se da una parte Dufrenne riconosce l’efficacia delle figure della
psicanalisi freudiana per esplicitare gli equilibri di tale fondo, “qui ne sont jamais
connues qu’à travers leurs représentants”476, dall’altra egli sa bene che non è necessario
invocare l’inconscio. L’elemento più interessante è quello per cui è possibile
individuare un luogo in certo qual modo segreto, nelle pieghe della totalità del soggetto,
un luogo in cui questa totalità si raccoglie e s’impegna tutta intera. “La totalité doit se
comprendere en intention, plutot qu’en extension”477 è il modo in cui si sintetizza allora
il rivolgimento necessario per comprendere la tipologia di mondo che Dufrenne ha di
mira.
Parlare di profondità dell’oggetto implica specularmene per Dufrenne riconoscere
gli effetti generati dalla profondità del soggetto, in un gioco di risposte reciproche che
non corre piano lungo pareti semplici ma segue i rimbalzi e le specularità delle
differenze. La profondità dell’oggetto è allora un’altra faccia della sua espressività
475
Ivi, p. 140.
Ivi, p. 141.
477
Ibidem.
476
168
(“non-profond comme non-expressif”478), e la profondità designa al tempo stesso
“l’intensité d’une présence”479, di quella presenza in cui il soggetto e l’oggetto
risuonano nelle loro reciproche profondità. La profondità di un’opera è quella
componente che fa appello al ruolo attivo e creativo dell’immaginazione, quella
componente irriducibile al già-visto e già-saputo attraverso cui l’oggetto va oltre il puro
e semplice piacere momentaneo. La profondità dell’opera è quella sua parte
costitutivamente orientata al sentimento al quale, solo, rivela il proprio senso. Torniamo
quindi nuovamente a quel luogo in cui le parole non esauriscono il senso proprio
dell’oggetto esperito: “La profondeur du sens signifie alors notre impuissance à le
verbaliser; inépuisable signifie indicibile, mais cet indicibile n’est pas muet; il donne à
sentir.”480 È su questa linea che l’indagine di Dufrenne conferma la propria inclinazione
verso una lettura ontologica di queste questioni. L’oggetto estetico in quanto opera
profonda è quell’oggetto il cui senso, anch’esso profondo, affonda sì in qualità affettive
che però sono, a loro volta, più perspicuamente descritte come qualità ontologiche.
“L’oeuvre est profonde lorqu’elle exprime le fond.”481 L’oggetto estetico è allora
quell’oggetto grazie al quale il fondo viene in primo piano; quel fondo che si legge in
opposizione alla superficie delle cose determinata e sempre più o meno dominata,
concettualmente e materialmente. Parlare della superficie delle cose significa parlare del
mondo degli oggetti, di quel reale con cui, per abitudine, ci relazioniamo e che
“l’idéologie nous apprend, à coups de tautologie, à penser comme naturel, nécessaire,
immuable”482. La superficie cui si oppone il fondo che Dufrenne ha di mira è allora
quella parte di reale sottomessa alle ombre della doxa e alle false certezze della scienza
che vengono prese per stabili; quella parte di reale che Dufrenne, citando Adorno,
chiama “monde administré”483 e che indica un oggetto quale correlato di un soggetto
“socialisé, acculturé, on oserait dire lui-même administré.”484 Tale superficie così opaca
nella sua apparente chiarezza è quella che si oppone al reale del fondo, l’essere bruto la
478
Ivi, p. 143.
Ivi, p. 142.
480
Ivi, p. 144.
481
Ibidem.
482
Ibidem.
483
Ibidem.
484
Ibidem.
479
169
cui caratteristica principale è quella di non essere ancora il correlato di una coscienza, di
non essere ancora mondo per alcuna coscienza, “la Nature avant qu’elle ne donne
naissance à l’homme et au monde”485, cioè in altre parole, dice Dufrenne, l’Originario.
Impensabile nel suo precedere la separazione stessa che è propria del pensiero, tale
fondo appartiene tuttavia tanto all’uomo quanto al mondo che egli abita, costituendone
il fondo selvaggio a partire dal quale ogni cosa assume senso e fondamento. “Comment
penser cet originare? Nous ne pouvons que le sentir, le pressentir, et seul le language de
la poésie ou de l’art peut l’exprimer.”486
La peculiarità del mondo che abbiamo visto dischiudersi intorno al soggetto che
esperisce l’oggetto estetico è allora propriamente quella di essere il mondo del naturante
molto più e molto prima che il mondo del naturato.487 Di più, quello che nell’opera si
mostra non è l’apparenza, ma l’apparire stesso delle cose, “le surgissment du réel: non
l’apparence mais l’apparaitre. L’Urbildlich dit Klee, image de la gestation, gestation de
l’image.”488 Il fuoco dell’attenzione torna a concentrarsi allora, nuovamente, sul ruolo
genealogico del contatto con il mondo, ruolo che l’oggetto estetico sa esercitare con
particolare e significativa intensità. Molto più che alle lusinghe della decostruzione
Dufrenne invita allora a guardare alle potenzialità di quella che egli chiama préconstruction, dinamica genealogica che si verifica in un’epifania che dall’infinitamente
piccolo sa risalire all’infinitamente grande. A partire dal minuscolo dettaglio
485
Ibidem.
Ibidem.
487
“Ce que cette oeuvre imite, ce n’est pas le naturé, c’est le naturant.” (Ivi, p. 145) Sono evidenti in
questa lettura le eco della lettura di Spinoza che, insieme a Kant oltre a Cartesio, fanno parte dei
riferimenti storici più impegnativi per Dufrenne così come già per Merleau-Ponty. L’approccio
spinoziano al problema della verità è un approccio che nella Phénomenologie di entrambi gli autori è più
che presente. Come ha sintetizzato efficacemente Elio Franzini (La verità del corpo, art. cit., p. 16) “In
Spinoza la verità ha in se stessa la propria causa: la natura non può essere concepita se non come
esistente, la sua verità è nella presenza, nel suo essere qui e ora presente, con i suoi attributi e infiniti
modi. Ogni causa, quindi, implica un’esistenza e ogni cosa esistente si inserisce in un ‘sistema’ di cose.
Così il corpo, in questa lettura ‘francese’ di Spinoza, fortemente influenzata da Alain, è una realtà
autonoma che esprime in maniera certa e determinata l’attributo divino della ‘estensione’. Se poi
consideriamo che in Spinoza ‘l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione
delle cose’ ne deriva un’intrinseca verità del corpo in virtù della sua unità sostanziale. Non solo, dunque,
a immagine degli attributi divini, l’uomo consta di mente e di corpo, ma questi due elementi sono
necessariamente uniti, e l’unione potrà venire compresa solo conoscendo il corpo in modo adeguato e
ricercando attraverso la filosofia le modalità, anche ‘passionali’ di tale unione. Per Merleau-Ponty, come
per Sartre e Dufrenne, Spinoza, sia pure uno Spinoza ‘deteologizzato’ appare come l’interprete di un
principio monistico quale origine del senso, dell’unione tra l’uomo e il mondo.”
488
Ivi, p. 145.
486
170
determinato sa ripensare l’immenso mai dettagliato indeterminato, origine e causa,
terreno fondativo, di ogni cosa possibile e reale. Attraverso l’oggetto estetico si assiste a
una forma di edificazione del mondo, in cui con termini di evidente eco pontiana,
“alors, dans cette épiphanie, se laisse pressentir le fond, l’invisible qui adhère au
visibile, l’ombre qui adhère à la lumière, le désordre qui adhère à l’ordre.”489 Nel caos
della profondità vige una forma di ambivalenza in cui caos e cosmos si sovrappongono
generandosi a vicenda. “Mieux vaudrait dire, avec Joyce, chaosmos.”490
Questo fondo che Dufrenne ha di mira, questa profondità che è caratteristica
essenziale dell’oggetto estetico è la figura in cui si condensa, ancora una volta, quel
riferimento fondamentale alla chair del mondo. “Ce qui surgit devant nous, c’est la
chair du monde, le flux ancore polémique du sensibile.”491 L’oggetto estetico, come il
mondo, come il soggetto, come l’immagine, è allora uno spazio conflittuale in cui il
reale si manifesta allo stato brado, “état brut”, all’interno di un dinamismo evolutivo in
cui il margine di crescita e mutamento è sempre molto ampio e produttivo492.
Il mondo con il quale l’oggetto estetico ci mette in contatto non è allora un mondo
altro, non è un mondo precedente né una realtà semplicemente possibile; è il mondo de
“les données sauvages du vécu”493, il mondo in cui, aldilà di ogni separazione, la
coscienza vive il suo stato aurorale e la Natura nàtura, in un andamento di influenza
reciproca dove entrambe si chiamano a vicenda.
Quella che emerge da queste analisi è un’indagine ontologica, incapace tuttavia di
esaurirsi di fronte al problema dell’Essere.
Dufrenne stesso esita spesso nel suo procedere e, come abbiamo già ripetutamente
specificato, tra ontologia, metafisica e antropologia nessun ambito sembra esaurire del
tutto il suo domandare.
489
Ibidem.
Ibidem.
491
Ibidem.
492
Le stesse dinamiche sono coerentemente applicabili al contesto artistico nelle sue forme specifiche di
pittura, scultura ecc. Il riferimento di Dufrenne è alla pittura: “Je cite ici Le Bot, commentane la peinture
de Velickovic: ‘Inquiétude, lutte violence sans fin qui témoignent que l’image est un espace conflictuel,
jamais stabilisé, no refermé sur soi. L’état brut du réel dont parle Velickovic se qualifiera dans sa peinture
sous forme d’images symboliques de l’insaisissable limite où toutes les réalités instituées ont ancore ou
déjà partie liée avec le chaos et avec l’in-fini. En cela toute peinture est essentiellement sa propre genèse
– Paul Klee le disait aussi. Elle s’inscrit, inceratine, sur un fond de chaos: elle en preserve le dynamisme
évolutif où la forme ne cesse de se prendre et de se reprendre.’” (Ibidem.)
493
Ivi, p. 146.
490
171
Le riflessioni portate avanti lungo questi temi rappresentano per Dufrenne i binari
della filosofia di tutta la vita, nella convinzione, da lui più volte ribadita, che il
ragionamento sull’esperienza estetica sia una via maestra per la filosofia:
Se non altro per una filosofia che intende dirigersi ‘verso il concreto’, come
diceva Jan Wahl, che è più preoccupata di descrivere che di sistematizzare: una
filosofia che prende le mosse dall’esame del primo rapporto dell’essere al
mondo con il mondo, la percezione, ma a cui la fenomenologia della percezione
non impedisce di andare un poco oltre. Ciò che rimane da pensare competerà
dunque all’ontologia o alla metafisica?494
Con questa significativa domanda retorica Dufrenne indica con chiarezza la via del
suo indagare, i dubbi che lo animano e le intenzioni che persegue. L’assestamento tra
ontologia e metafisica, senza tralasciare l’interesse antropologico per lui essenziale,
rende il movimento teorico di Dufrenne a volte indeciso, eppure, proprio per questa sua
indecisione, esplicito nel segnalare quali interessi siano prevalenti.
Ne è un chiaro esempio l’articolo, uno degli ultimi, che nel 1985 il filosofo dedica
-di nuovo- all’oggetto estetico, esplorandone le correlazioni con le nozioni più
importanti della filosofia husserliana. Quest’ultima diventa così l’interlocutore
principale di un percorso che ha di mira proprio il suo superamento. In questo articolo
Dufrenne torna di nuovo sull’oggetto estetico, estrapolando dal percorso precedente
alcuni nodi rimasti irrisolti e, soprattutto, esplicitando alcune conclusioni prima presenti
ma del tutto silenziose.
Dell’equilibrio tra ontologia e metafisica Dufrenne riconosce ovviamente la
problematicità, tenendo ferme le posizioni particolarmente rappresentative di Sartre e
Heidegger, oltre che di Husserl, prima di provare a proporne a sua volta una nuova
lettura.
Husserl non basta a esaurire il domandare di Dufrenne; per il filosofo tedesco,
come viene letto dal francese, infatti, “l’essere non costituisce un problema”495.
Nell’ambito dell’essere si pongono con Husserl “quelle questioni che la filosofia come
494
495
M. Dufrenne, L’oggetto estetico come la “cosa stessa”, cit, p. 11.
Ibidem.
172
scienza rigorosa è in grado di affrontare”496 e vi si possono distinguere le articolazioni
differenziate tra un’ontologia generale, in quanto formale, e le ontologie regionali. Nella
filosofia di Husserl, tuttavia, l’impegno non va oltre e si ferma prima della via
metafisica. Metafisica che invece risulta percorribile per Sartre con il quale comunque
tale strada non viene esaurita.497 Neppure il rovesciamento dei termini proposto da
Heidegger soddisfa pienamente Dufrenne. La sua lettura di Heidegger su questo
argomento, più fedele all’autore che in altre occasioni, ne rileva la metafisica nella
posizione di elemento che va superato verso una ontologia, “o che per meglio dire si
oltrepassa da sé perché il pensiero non può accedere alla metafisica se non in quanto
animato fin da principio dalla ‘cura dell’essere’: la metafisica si compie solamente
nell’ontologia dove al contempo si dissolve.”498
La posizione di Dufrenne propone una diversa linea teorica, che egli considera
conseguente alla fenomenologia husserliana, secondo la quale se si giunge a pensare
l’Essere come Natura, “al di là delle regioni o delle categorie secondo le quali lo
suddivide un pensiero ancora sistematico”499, l’ontologia viene vista compiersi solo
come metafisica.500 Tale compimento viene reso esplicito dalla trattazione dell’oggetto
estetico, quale in parte abbiamo già visto, e dalla lettura che Dufrenne ne propone in
termini di “cosa stessa” in senso husserliano. Heidegger resta presente sullo sfondo di
496
Ibidem.
Scrive Dufrenne: “Infatti, se l’ontologia fenomenologica gli ha permesso di cogliere ‘le sole regioni
dell’essere che possono essere chiarite: quelle dell’in-sé, del per-sé e la regione ideale della causa di sé’,
questa lascia senza risposta due problemi che è dunque necessario assegnare alla metafisica: la nascita del
per-sé e l’articolazione del per-sé all’in-sé. ‘Dualità separata o essere disintegrato?’” (Ibidem).
498
Ibidem.
499
Ivi, p. 12.
500
Il richiamo a Husserl è sempre, e dichiaratamente, libero. Dufrenne lo specifica: tratterà di questo
autore “a modo nostro, e non come storici.” (Ibidem) Sa bene che rifarsi a Husserl in questi termini può
essere considerata una scelta libera, scelta cui ad esempio Fink obietterebbe. “Fink ritiene che per un
simile progetto non ci si possa affidare a Husserl. Husserl, egli dice, non apre la via a un pensiero
speculativo: egli è preoccupato della scienza, instaura un metodo che lo conduce in qualche modo fuori
dalla storia e da quel ‘lavoro ontologico’ che vi si persegue, alla ricerca di un cominciamento radicale.
L’uomo diviene allora misura di tutte le cose e il soggetto è posto come assoluto. Il reale è ciò che appare
all’uomo: il fenomeno. Ma la ‘fenomenicità del fenomeno’, dice Fink, non è interrogata in se stessa.
L’essente è dunque ridotto all’essere di un oggetto, un oggetto per un soggetto e il rapporto soggettooggetto in totalità, con tutte le sue strutture poetico-nnoematiche, diviene a questo punto il tema proprio
della fenomenologia. Ciò è vero e dè del resto noto con quale pazienza e quale finezza Husserl si sia
dedicato all’analisi dell’intenzionalità che mette in luce queste strutture. Ma questo stesso studio della
vita intenzionale può anche impegnare la riflessione sulla via del pensiero speculativo. In questo caso
certamente l’itinerario filosofico non sarà quello che auspica Fink e che Heidegger apre quando si ferma
all’analitica del Dasein.” (Ibidem)
497
173
questo percorso, avendo il merito in particolare, per Dufrenne, di aver richiamato
l’opera d’arte quale elemento essenziale per chiarire la propria ontologia. A Dufrenne
tuttavia l’opera d’arte, per quanto centrale, non è sufficiente; il suo è il riferimento ad
essa sempre in termini di oggetto estetico: “vale a dire l’oggetto essenzialmente offerto
all’aisthesis per compiersi in essa”501. E proprio in questo legame indissolubile con la
percezione si inserisce un nodo cruciale: quello per cui parlare di percezione implica
parlare di coscienza e conduce a una lettura dell’oggetto estetico all’ombra del concetto
di intenzionalità per cui la coscienza è definita come atto che ha sempre di mira
qualcosa. Accostata all’oggetto estetico e alla necessaria presenza con cui esso è, e lo
abbiamo già visto, in relazione, la coscienza cui Dufrenne fa riferimento si riconferma
da leggere nei termini, anche questi già visti, di coscienza percettiva, la cui trascendenza
è per Dufrenne stabile e per nulla illusoria. Egli conviene con Sartre sul fatto che: “La
coscienza non è nulla poiché essa esplode:‘essa esplode verso’ ed è così che l’uomo è
veramente al mondo, presente alle cose, invece di avere le cose in rappresentazione
nella sua coscienza.”502 È la presenza del mondo il tema decisivo, il punto critico, che
Dufrenne, rivisitando parzialmente Fink e Heidegger, oppone a Husserl.503 Punto che
egli vede quale inizio di un percorso che la metafisica potrebbe illuminare in modo
nuovo e che la sua riflessione sull’oggetto estetico gli consente di percorrere
autonomamente.
Attraverso Husserl si perviene, nella lettura di Dufrenne e degli autori che sta
citando, “alla concezione di un processo universale nel quale l’opposizione di soggetto e
oggetto è contenuta nella totalità concreta della vita intenzionale”504. È proprio sul
pensiero radicale dell’idea di intenzionalità che continua a concentrarsi l’attenzione
501
Specificare questa differenza è per Dufrenne essenziale. Certo l’opera d’arte rimane per lui centrale,
ma più esaustiva ne è la lettura in termini di oggetto estetico, quindi “opera d’arte in quanto percepita e da
una percezione che gli rende giustizia”. Esso diventa quindi ogni cosa estetizzatile in quanto estetizzata.
(Ibidem.)
502
Ivi, p. 15.
503
La citazione di Fink è significativa: “Più originario di ogni essente,, di ogni oggetto e di ogni soggetto,
c’è il mondo. Il pensiero è secondo la sua essenza propria l’operazione di aprire l’uomo al mondo. (…)
L’essere stesso è lo spazio-tempo del mondo che contiene ogni cosa che è.” (Ibidem)
504
Ibidem.
174
dell’autore: in essa si concentra il fenomeno autenticamente concreto e primo, “l’origine
dell’opposizione stessa dell’oggetto e del soggetto.”505
Ma è necessario collocare l’intenzionalità nella coscienza? Certamente
l’intenzionalità deve essere pensata come origine, ma come origine di una
reciprocità o di una complicità piuttosto che di una opposizione.
L’intenzionalità non può essere posta nella coscienza poiché ne è la stessa
origine, ma sarà piuttosto la coscienza a essere posta nell’intenzionalità di modo
che l’intenzionalità possa assumere un senso propriamente ontologico. Questa
ontologia dell’origine può essere concepita da una filosofia della Natura alla
quale forse ci invita Merleau-Ponty.506
In ogni caso, ed è questo il punto saliente, è questa la direzione che l’oggetto
estetico, come viene descritto da Dufrenne, dischiude e indica.
Si capisce bene quale ruolo privilegiato continui ad avere, nella meditazione
dell’autore, il problema del rapporto soggetto-oggetto: problema che per lui la
fenomenologia della percezione consente di afferrare ma non esaurisce. Nella
percezione, l’abbiamo già visto a più riprese, l’oggetto estetico trova la propria
condizione di possibilità: esso è la cosa percepita per eccellenza.
In questa percezione si compie inoltre una forma di riduzione: diversa dalla
sospensione di ogni tesi di esistenza, la riduzione incarnata dall’oggetto estetico è di
stampo più esistenziale. È “la decisione di giocare un certo gioco, il gioco
dell’estetizzazione al quale ci sentiamo inclini, e di rinunciare così agli atteggiamenti
proprio della pratica o della conoscenza.”507 Tale riduzione, nella sua componente
percettiva ed estetica, resta comunque - e Dufrenne tiene molto a sottolinearlo - ben
distante da un ambito prettamente contemplativo. Qui l’esperienza estetica, infatti, è
intesa molto più come azione che come contempl-azione. “L’arpione si compie meglio
come oggetto estetico nell’uso che ne fa il pescatore eschimese che non sul muro di un
museo archeologico.”508 Qui Dufrenne si limita a un breve cenno, riconoscendo che
“sarebbe necessario spingere più a fondo questa analisi di una esperienza estetica
505
Ibidem.
Ibidem.
507
“L’oggetto estetico non sollecita né il sogno né la conoscenza, si dispiega in uno spazio di gioco dove
il mondo quotidiano è messo tra parentesi, dove l’oggetto estetico basta a se stesso come basta al fruitore
accoglierlo e gustarlo: è a queste condizioni che l’oggetto estetizzatile si compie come oggetto estetico.”
(Ivi, p. 16.)
508
Ibidem.
506
175
spontanea e irriflessa, vissuta in immediatezza vitale e che (…) fa della vita stessa un
gioco.” Questo resta tuttavia uno dei nodi più significativi della sua riflessione, che
dischiude la possibilità di “prendere di mira come opera d’arte non tanto un oggetto
determinato quanto piuttosto il mondo nel quale tale oggetto assume una funzione.”509
Le conseguenze di tale impostazione sono evidenti e non secondarie: come opera d’arte
l’oggetto estetico rappresenta un settore limitato e percorribile, indice però di un
meccanismo ben più ampio e antropologicamente più significativo e rilevante.
In ogni caso, grazie a questa impostazione, Dufrenne può affermare un altro dei
suoi punti più perspicui: “la percezione estetica è una modalità dell’intenzionalità
portata alla sua più alta intensità”510. Intenzionalità che rivela il proprio carattere
genealogico e fungente proprio nella relazione che lega la coscienza a questo tipo di
oggetto che si dà sì sempre “in un sol colpo”, ma è un sol colpo esteso in una durata,
poiché l’oggetto è a sua volta una totalità in divenire. L’esperienza estetica condivide e
mostra allora il carattere fungente di un’intenzionalità vissuta. Quell’intenzionalità che
nella sua commistione con la percezione ha il proprio carattere genealogico e dinamico.
Correlato teorico di tale intenzionalità percettiva che nell’esperienza estetica
raggiunge uno dei suoi culmini più rappresentativi è il fatto che l’essere proprio
dell’oggetto estetico risieda nel suo apparire. Esso infatti è il reale in quanto percepito.
Il suo essere è un essere percepito, profondamente integrato nella regione dell’aistheton;
le sue qualità si dispiegano nel campo del sensibile e in esso si radicano. “Senza dubbio
si potrebbe estendere ciò che diciamo dell’oggetto estetico ad ogni cosa percepita, ma
solo la riduzione spontanea che l’esperienza estetica opera si arresta all’essere sensibile
e lo gusta come tale.”511 Nel sensibile si radica così anche il senso dell’oggetto in
questione, “senso immanente che non è forse concettualizzabile ma che è sperimentato
senza equivoco e che può essere detto nel vocabolario dell’affetto.”512 Su questo punto
ci siamo già soffermati in precedenza e possiamo qui semplicemente rilevare come esso
rappresenti un caposaldo acquisito nel percorso dufrenniano. Ad esso si correla la
lettura, anche questa già vista, dell’oggetto estetico come un quasi soggetto, grazie alla
509
Ibidem.
Ivi, p. 17.
511
Ivi, p. 18.
512
Ivi, p. 19.
510
176
quale Dufrenne può nuovamente sottolineare l’immanenza del senso all’oggetto estetico
e al contempo come mediante questo senso esso trascenda se stesso, esplodendo verso
un mondo al quale fa accedere anche noi.513
Porre l’accento sul radicamento dell’oggetto estetico nel sensibile conduce
Dufrenne a considerare un altro dei temi centrali della filosofia husserliana: quello della
costituzione. Per lui l’evidenza di un oggetto estetico, che si rivela solo a una coscienza
che lo ha di mira secondo una certa intenzione, non autorizza a dire che questa
coscienza lo costituisca né che gli dia il suo senso, “se è vero che il senso abita l’oggetto
che lo esprime invece di essergli aggiunto in una sorta di libera interpretazione
soggettiva.”514 Il senso del sensibile non è qualcosa che ad esso giunga da una coscienza
che lo costituisce, al contrario, per Dufrenne vi è al livello del senso uno scambio reso
possibile da una forma di accordo e apertura reciproca tra oggetto e soggetto che egli
legge come un a-priori affettivo. Il tema dell’essere al mondo trova in questa
impostazione una significativa apertura. La riflessione sull’oggetto estetico ha
rappresentato, infatti, un continuo rilanciamento della filosofia dei Dufrenne nella
direzione di un originario legame (tra soggetto e oggetto) che non cessa di presentarsi
problematico. In quest’ottica, il sensibile si riconferma per Dufrenne come il prodotto di
una cooperazione tra soggetto e oggetto, “il luogo della loro nascita comune”515 in cui
essi, non essendo due entità che preesistono alla propria relazione, si scoprono
vicendevolmente. È l’esperienza estetica a permettere questa frequentazione simbolica
del sensibile; diversamente, nell’esperienza della percezione quotidiana, animata da un
interesse conoscitivo o pratico, noi “riferiamo il sensibile a una cosa che esso qualifica”
ed esso si ritrova messo in campo “come strumento di un pensiero o di una pratica,
misurato dal metro del sapere e spiegato da questo sapere”. Al contrario, “l’esperienza
estetica restituisce il sensibile al suo essere enigmatico senza perciò sottrargli la sua
virtù espressiva.”
516
In questo modo Dufrenne può intendere l’esperienza che del
513
“In ciò possiamo essere heideggeriani: l’opera è vera nella misura in cui essa manifesta questo potere
di Offenheit che presuppone anche un potere di ripiegamento o di dissimulazione, dunque nella misura in
cui ad un tempo apre un mondo e appartiene alla terra. Piuttosto che l’opera preferisco dire l’oggetto
estetico perché l’opera resta senza potere finché non è percepita e promossa al sensibile.” (Ibidem).
514
Ibidem.
515
Ibidem.
516
Ibidem.
177
sensibile si fa in ambito estetico come una forma di esperienza originaria in cui il
cominciamento è tale che nessuno ha la priorità o l’iniziativa. È questa forma di
esperienza che si rivela in grado di condurci all’inizio, dove “il mondo sensibile, come
dice Merleau-Ponty, è più antico dell’universo del pensiero.”517 E proprio a questo
proposito, rispondendo al suo maestro, Dufrenne introduce una delle teorie che
maggiormente identificano il suo percorso dischiudendone di nuovi. Il riferimento è alla
nozione pontiana di carne, che abbiamo già visto a più riprese riferimento basilare per
Dufrenne. Merleau-Ponty è stato condotto a questa nozione (“Nozione ultima, egli dice,
ultima perché prima: è il nome dell’originario”518) perché la sua riflessione era partita
dal corpo e di ciò che in esso è in gioco e lo mette in gioco doveva render conto. Ma
Merleau-Ponty, fedele alla necessità di consustanzialità con le cose, ne fa un elemento;
per lui la carne è il luogo della “doppia deiscenza”, del vedente in visibile e del visibile
in vedente. Questo conduce, a parere di Dufrenne, all’indebolimento dell’aspetto
originario a favore di una lettura della carne come un “tra due”.519 E se questo tra due
merita considerazione, se non è semplicemente una relazione istituita da un pensiero
superficiale, “è perché può dare vita ai due, agli essenti che saranno e si affermeranno
per loro conto.”520 E il conferimento di questo potere conferma a Dufrenne la necessità
di leggere tale elemento in una chiave differente, secondo un termine tradizionale che
tutta la sua filosofia si è concentrata a reinterpretare, la Natura. Dire che l’originario
esplode significa riconoscere l’uomo e il mondo come parti che sorgono dalla Natura
essendo della stessa razza. “Ma l’originario continua ad esistere come supporto: essi
non nascono una volta per tutte, essi non rompono il cordone ombelicale poiché non vi
è che una sola esplosione dell’essere che dura per sempre.”521 In questo modo la carne
merleaupontiana, nel suo essere demoltiplicata di una pluralità indefinita diventa carne
della Natura o Natura come carne. “Il sensibile è la figura di questa carne quando, per lo
stesso movimento irreversibile che produce in essa, accede all’apparire.”522
517
Ivi, p. 20.
Ibidem.
519
Ibidem.
520
Ibidem.
521
Ivi, p. 21.
522
Ibidem.
518
178
L’oggetto estetico, allora, riconferma il proprio ruolo e le sue valenze ontologiche:
esso è “precisamente questo oggetto che sorge all’apparire: la cosa stessa.”523 È in
questo modo che Dufrenne può ribadire e riconfermare la posizione occupata
dall’oggetto estetico all’interno della sua riflessione. Non si tratta, infatti, di un oggetto
particolare in sé le cui caratteristiche lo rendano eccentrico rispetto alle cose del mondo;
al contrario, proprio per le sue caratteristiche in esso si rendono manifeste strutture e
comportamenti propri del mondo in generale. Dire che esso è la cosa stessa significa
riconoscere la cosa stessa come inserita in un contesto dinamico e relazionale poiché
essa si manifesta nel movimento dell’apparire che, come abbiamo già accennato, è
venire alla presenza oltre che essere visibile. Di più, la cosa stessa risulta configurabile
solo come correlato di una relazione con un soggetto che, come abbiamo mostrato, si
presenta come una relazione genealogica e dinamica profondamente radicata nel
contesto del sensibile.
Le conclusioni di Dufrenne incarnano una posizione che con coerenza reagisce a e
fa reagire tra di loro le basi merlaeupontiane e i riferimenti husserliani:
Quando l’intenzionalità è percettiva, quando l’intenzione viene riempita e il suo
oggetto si dà come presente, come nell’afferramento dell’oggetto estetico, ci si
può domandare se questa intuizione che Husserl chiama originaria, perché
fonda tutte le altre, non ci conduca nei dintorni dell’originario nel senso in cui
lo intende Merleau-Ponty. La relazione intenzionale che la fenomenologia
descrive tra il senziente e il sentito non è allora forse l’irrelativo da cui
procedono l’uno e l’altro? La trascendenza che la descrizione presenta alla
coscienza non è allora il fatto stesso dell’originario, la sua esplosione verso il
mondo e l’uomo?524
Nella relazione intenzionale egli legge il fatto originario, il legame principe grazie
al quale ogni distinzione risulta possibile. Qui, come dice Dufrenne, il pensiero tocca il
fondo; arriva a intravedere la Natura “per la quale trascendersi e naturare è la stessa
cosa” e sa di non poter andare oltre né di potervisi soffermare. Tale fondo è, infatti, un
fondo in costante movimento, una Natura costantemente naturante alla quale solo
l’esperienza estetica consente di avvicinarsi nella fascinazioni esercitata dal sensibile.
523
524
Ibidem.
Ibidem.
179
L’oggetto estetico è allora, precisamente, “questo essere sensibile, questo
frammento di carne che non appartiene né al mondo né all’uomo, ma che manifesta il
potere naturante della Natura.”525 Con esso la coscienza è convocata a penetrare un
mondo con il quale è in relazione consustanziale di carne sensibile. Se l’oggetto estetico
è la cosa stessa, allora, esso non lo è in quanto cosa già naturata, già determinata, già
collocata dal sapere nello spazio-tempo, che si tratterebbe solamente di trovare tra le
altre. Come cosa stessa l’oggetto estetico non sarà mai la cosa presa di mira, “ma la
cosa che mi prende di mira”, un in-sé che solo in quanto io sono per esso può essere
per-me. L’oggetto estetico come cosa stessa non si dà dunque come un essere, oggetto o
soggetto, ma come “un apparire, una folgorazione i cui precipitati saranno oggetto e
soggetto.”526
È pertanto un’esperienza limite quella che dà accesso a un tale oggetto, tanto che
“si potrebbe dire dell’atto estetico ciò che Kant dice dell’atto morale: che non è mai
stato compiuto.”527
3.2 Natura e coscienza: un legame poetico
Se, come abbiamo visto, l'oggetto estetico manifesta il potere naturante della
Natura, diventa allora estremamente importante comprendere in che senso tale nozione
rientri nella meditazione dufrenniana e quale ruolo essa giochi relativamente all'estetica.
Grazie all'oggetto estetico come lo abbiamo visto, l'arte, in Dufrenne, si pone infatti
quale superiore indifferenza di Natura e Spirito, come rivelatrice attiva dell'Essere, della
Sostanza, della Natura naturante.528 Come è stato già notato, ciò permette a Dufrenne di
525
Ibidem.
Ivi, p. 22.
527
Ibidem.
528
Sono evidentissimi i riferimenti alla conoscenza intuitiva di Spinoza come all’assoluto di Schelling,
tanto che si renderebbe necessaria un’analisi dettagliata, purtroppo impossibile in questa sede, della loro
azione sul pensiero di Dufrenne come anche sulla fenomenologia francese in generale. Nella lettura di
Dufrenne resta comunque fondamentale che: “l’originalità di Spinoza consiste nell’identificare la
necessità esistenziale, vale a dire quella pienezza conferita all’esistenza dal fatto della sua identificazione
all’essenza, con la necessità logica: l’affermazione di sé che costituisce il conatus non è differente
526
180
non annullare l'antropologico, l'uomo nella sua corporeità, in una statica realtà suprema
ma di porlo anzi quale protagonista del divenire dell'essere stesso.529
Una delle opere in cui l'avvicinamento di Dufrenne a tematiche ontologiche è più
fecondo ed evidente è Le poétique, del 1963. L'origine dell'opera d'arte di Heidegger è
qui sfondo teorico costante del percorso dell'autore francese; per entrambi è l'arte stessa
piuttosto che l'artista ad essere all'origine dell'opera e dell'artista stesso. Diversamente
da Heidegger, tuttavia, Dufrenne insiste sul collegamento tra l'opera d'arte (l'oggetto
estetico) e la sensibilità umana respingendo i caratteri "ontoteologici" presenti nel
secondo Heidegger a favore di una prospettiva "ontofenomenologica". Se anche per
Dufrenne, nell'opera, è heideggerianamente in opera l'evento della verità e si verifica
l'apertura dell'ente nel suo essere, è chiaro che la verità si afferma per Dufrenne in un
divenire percettivo che invece per Heidegger tradirebbe il senso stesso dell'opera d'arte.
530
Al concetto di Natura Dufrenne dedica esplicitamente il terzo libro del lavoro del
1963, con l'intenzione di estrapolare il poetico dalla serie di accidenti della storia e della
cultura per tentare di coglierlo invece nella sua componente essenziale e oggettiva fino a
renderlo una categoria a se stante.
Afferrare l'idea di Natura con Dufrenne significa, ancora una volta, interrogarsi
sulla questione della correlazione intenzionale – pratica e noetica – tra l'uomo e il
mondo. La soggettività è indeclinabile o è necessario assegnare a qualche istanza
preumana il senso di cui la coscienza si rivendica portatrice?531 Se l'uomo e il mondo
sono legati da una forma di patto originario che li vede indissolubilmente legati, uno dei
due poli può meritare una qualche priorità nella relazione?
A dare conto della loro uguaglianza Dufrenne si è concentrato con attenzione in un
altra opera, di poco precedente a Le poétique. In La notion d'a priori, infatti, del 1959,
uomo e mondo vengono descritti secondo una forma di uguaglianza reciproca che
descrive il soggetto accordato con il reale in una dinamica che non può identificare
dall’affermazione logica che è anima del vero.” (M. Dufrenne, Brève note sur l’ontologie, in “Revue de
Métaphysique et de Morale”, 1954, n. 4, p. 404.)
529
E. Franzini, op. cit., p. 377.
530
Cfr. Ibidem.
531
M. Dufrenne, Le poétique, , PUF, Paris 1963, p. 139.
181
nessuno dei due come preesistente all'altro. L'indispensabile reciprocità che lega il
mondo al soggetto che lo abita è contenuta in quella che Dufrenne presenta come una
formula apparentemente semplice: "le monde comprend le sujet, le sujet comprend le
monde."532 Ma la comprensione, nelle due proposizioni, cambia di segno. Se il mondo,
infatti, comprende il soggetto, è individualizzandolo ma rinunciando al contempo ad
integrarlo. Il soggetto non fa parte del mondo come una parte in un tutto, esso rimane
irriducibile: "être au monde ce n'est pas s'inscrire dans un ensemble, c'est naître à la
réalité."533 Il soggetto a sua volta comprende il mondo particolarizzandolo e solo a
questa condizione può definirsi come soggetto. "Le sujet comprend le monde comme ce
qui ne peut être compris, le monde englobe le sujet comme ce qui ne peut être
englobé."534 E se la dualità di questa relazione rimane insormontabile ciò che li oppone
è comunque ciò che li rende solidali.535
Questa visione non viene abbandonata, ma il passaggio alla Natura permette di
dipanare alcune delle ambiguità che con il suo percorso fenomenologico Dufrenne
aveva mantenuto. Con la nozione di Natura, infatti, egli mette in campo un principio
ontologico in grado di fondare e reggere i significati di mondo e soggetto attraverso un
passaggio dalla fenomenologia alla metafisica che egli vede come risolutivo. "Nous
pensons que la phénomnénologie peut montrer l'homme partagé entre le travail et le jeu,
entre la scission et la réconciliation, entre le malheur et le bonheur, et que peut-être la
métaphysique peut comprendre cette bipolarité par l'examen du statut de l'homme dans
la Nature."536 È su questa idea che si legittima, tra l'altro, la sua riflessione sulla
dimensione poetica dell'esistenza.
Lo abbiamo visto attraverso l'idea di un mondo dischiuso dall'oggetto estetico alla
stregua di un soggetto: il Mondo si configura con Dufrenne come un luogo
costitutivamente comunitario, intersoggettivo e dinamico, in cui interagiscono i mondi
singolari e soggettivi. Se il Mondo è questo luogo in cui sono raccolti e contenuti tutti i
diversi mondi in potenza attraverso cui esso stesso si manifesta, con la Natura si indica
532
M. Dufrenne, La notion d’a priori, PUF, Paris 1959, p. 254.
Ibidem.
534
Ibidem.
535
Questa relazione descritta come non dialettica sfida, per Dufrenne, ogni tipo di logica e rappresenta lo
scacco di ogni tentativo di spiegazione naturalistico quanto idealistico.
536
M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 1.
533
182
allora tutto il reale nel suo essere débordant. 537 Nella Natura si ricomprendono tanto il
Mondo quanto i mondi che lo compongono, animano e abitano. In essa coesistono
differenti forme di realtà: "le réel dans sa présence immédiatement signifiante ordonné à
une conscience percevante et le réel dans son être extérieur et objectif, ordonné à une
conscience en général."538 Ma vi agisce anche un'altra forma più complessa di reale, "le
réel dans sa puissance, capable d'un devenir"539, con cui il possibile e il reale
confermano la propria azione congiunta e tuttaltro che oppositiva. Questo reale è quello
legato a una coscienza ispirata, poetica che tuttavia non si può riconoscere quale polo di
una relazione intenzionale che abbia nella Natura il proprio oggetto. Tra Natura e
coscienza ispirata o poetica non può esistere una forma di intenzionalità, grazie alla
quale si ricadrebbe nel problema costitutivo o comunque in una forma di oggettività di
cui invece la Natura è priva. Al contrario, la Natura rappresenta proprio il reale al di qua
della coscienza: la loro correlazione non è (solo) intenzionale, bensì (anche)
ontologica.540
Con l'idea di Natura quello che poteva apparire come un dualismo oppositivo tra
soggetto e mondo che, per quanto uguali, continuavano a presentarsi contrapposti, si
supera a favore di un riafferramento del fondo fondante che non resta più sottointeso ma
si può manifestare e intravedere nella propria inarrestabile produttività. Produttività che,
a sua volta, fa il pari con un'idea di libertà poichè, e Dufrenne sa che Heidegger l'ha già
ben mostrato, nel cuore dell'idea di fondamento c'è l'affermazione della libertà. Libertà
che rappresente il cominciamento, quel cominciamento di cui la Natura è figura
assoluta, che inaugura un ordine mai riducibile ai puri e semplici fatti.
Dufrenne individua in questa forma di interrogazione un passaggio essenziale, che
dal trascendentale porta al trascendente: il primo è rappresentato dall'esame della
correlazione intenzionale tra uomo e mondo, il secondo, dalla ricerca dell'origine prima
537
Ivi, p. 143.
Ibidem.
539
Ibidem.
540
Dufrenne si sta allontanando con ogni evidenza e sempre più da qualsiasi rigore fenomenologico:
“Non seulement la réflexion doit désormais faire abstraction de ce que la phénoménologie ou la science
ont pu lui apprendere, mais la conscience doit en quelque sorte faire abstraction d’elle-même.” (Ibidem)
Ma anche questa scelta non è casuale. Il suo è un tentativo radicale, forse non rigoroso ma neppure
ingenuo, di rileggere il rapporto tra soggetto e oggetto in una chiave produttiva, dinamica e propositiva
che, come vedremo, non resta estranea a esortazioni di tipo etico.
538
183
di questa relazione. Ciò significa che per Dufrenne il trascendentale stesso è considerato
alla stregua di un fatto. Questa considerazione fa sicuramente parte delle impostazioni
portanti del percorso di Dufrenne tutto teso a deformalizzare, delogizzare il
trascendentale, l'a priori, per farne piuttosto una struttura intramondana, che non
dipende dall'esperienza ma è in essa profondamente calata. La Natura di Dufrenne si
situa allora proprio a questo livello: ontico ma non del tutto metafisico, primo e
fondativo ma sempre reale e soprattutto materiale. È proprio la fedeltà al livello
materiale dell'esistenza, livello che il radicamento nel contesto percettivo rende
costantemente presente, a indicare quale sia l'orientamento costante dell'autore. La
Natura cui la scienza invita a tornare, così come è indicata dal positivismo, è proprio
l'esatto opposto di quella Natura che Dufrenne sta indagando: la Natura della scienza ci
parla di un mondo senza l'uomo, di un mondo prima dell'uomo. Con Dufrenne, al
contrario e in modo profondamente significativo, la Natura è il mondo dell'uomo:
mondo di fatti, oggetti, azioni e soprattutto loro significati benchè non ancora
cristallizzati. La metafisica di Dufrenne è allora il ricorso al fondo dell'ispirazione, che
precede le formalizzazioni concettuali e in cui vive il pensiero pre-critico. In questo prepensiero, in questa realtà originaria, è all'opera non ciò che è, ma tutto ciò che potrebbe
essere: "La Nature c'est d'abord l'inépuisable réalité." Inesauribile perchè ogni possibile
e reale è solo uno degli infiniti possibili e irreali. Dire mondo piuttosto che oggetti è poi
una scelta ancor meno indifferente, poichè la determinazione degli oggetti presuppone
già quella concettualizzazione che resta invece estranea all'idea di mondo.541
Realtà inesauribile, la Natura è allora altro e di più rispetto al sistema o alla totalità
degli enti, poichè l'idea stessa di totalità si presenta già come idea della ragione o del
sentimento. Parlare di Natura con Dufrenne significa mettere in luce non l'insieme
affettivo né l'universo intellettuale, i quali entrambi presuppongono già sempre l'uomo
come loro correlato, bensì accettare di nominare "l'être inassignable, et en tout cas
inassigné, de l'étant."542 Significa quindi comprendere l'essere nelle sue possibilità non
541
Come l'autore ha esplicitato nuovamente più tardi, nel 1975, in un altro scritto sempre dedicato, seppur
in modo differente, alla poesia. Cfr: La poésie: où et pourquoi?, “Revue d’esthétique”, 1975/ 3-4, oggi in
Esthétique et philosophie, cit., tome 2, p. 251.
542
M. Dufrenne, Le poétique, cit., p. 152.
184
ancora individuate badando bene, tuttavia, a non separare realtà da reale per evitare di
invocare un atto che conferisca al reale la sua realtà.
Si comprende bene in questo modo come l'obiettivo polemico del Dufrenne di
queste pagine sia rappresentato in particolare dai filosofi che distinguono essenza ed
esistenza, separando in modo netto l'ente dall'essere per subordinarli a qualche istanza
trascendentale. Subordinare l'esistenza all'essenza, facendone un predicato, è infatti per
Dufrenne un modo di privare l'esistente della propria autonomia mentre di essa egli mira
a riconoscere la soggettività di cui gli altri esseri sono predicati. Con l'idea di Natura
Dufrenne invita ad andare al cuore del reale, riconoscendo innanzitutto la realtà del
reale. Non è nemmeno la presenza ciò che egli sta invitando a mettere a fuoco, proprio
perchè come abbiamo visto la presenza sarà sempre presenza a mentre mirare alla
Natura equivale proprio a mirare a tutto ciò che potrà (o potrebbe) essere presente: il
fondo cioè, prima di essere illuminato dalla luce di una soggettività capace di introdurre
l'apparire nell'essere per articolarlo in figure e totalizzarlo in un mondo. La Natura è
questo fondo cieco, mai del tutto esplorabile proprio perché inesauribile nella sua
pesante opacità; fondo che, non appena viene avvicinato da una coscienza cessa di
essere tale per diventare già cosa identificabile e nominabile.
Relativamente al senso la Natura è allora descrivibile come non-senso, o nonancora-senso perchè "possibilité du sens"543. È a questo punto che si ritrova nuovamente
la necessità del salto dal contesto fenomenologico a quello metafisico: Dufrenne ripete
che la relazione intenzionale non è applicabile al livello del fondamento che per questo
richiede all'analisi un'impostazione metafisica, la sola capace di situarsi seriamente sul
fondo. Tale impostazione permette a Dufrenne di ristabilire la comunicazione tra quei
due estremi rappresentati dall'essere trascendente e dalla coscienza, estremi tra i quali
egli intende reperire una forma di comunicazione.544
543
Ivi, p. 154.
Tutta l’analisi è in dialogo stretto con le teorie di Sartre. Una è in particolare la tesi che egli mutua da
Sartre: “Il punto di vista di una coscienza pura è contradditorio: non vi è che il punto di vista della
coscienza impegnata. Il che significa che la conoscenza e l’azione non sono che due facce astratte di una
relazione originale e concreta”. (Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 384).
Per Sartre non avrebbe alcun senso, tuttavia, interrogarsi sull’essere precedente l’apparizione del per-sé.
Diversamente da Sartre, invece, Dufrenne ritiene importante e possibile l’interrogazione del fondamento
per comprendere come il per-sé sia possibile e come esso nasca all’interno dell’in-sé; questa domanda,
544
185
Quello che gli interesse porre a tema è proprio la dinamica che regola essere e
apparire se, come abbiamo già indicato, è proprio l'apparire individualizzato e
soggettivo che porta la Natura al livello del mondo. Questa dinamica richiede una
attenta messa in questione delle relazioni tra possibilità e realtà: quando parla di
possibilità Dufrenne ne parla in termini materiali, in quanto possibilità che è potenza
dell'atto, e non in termini logici dipendenti da un'immaginazione in grado di avanzare
ipotesi. Il possibile significa per lui "la plénitude du réel, son autorité et son efficience"
e la Natura risulta quindi non certo l'insieme dei casi possibili (hasards) ma una riserva,
una sorgente alimentata da "la forza silenziosa dei possibili".545 Certo, Dufrenne
riconosce l'impossibilità di parlare davvero della Natura prima dell'uomo poichè noi
possiamo parlarne solo nella misura in cui essa si manifesta ed appare; ma "nous
pouvons faire au moins l'hypothèse métaphysique d'une Nature antéhistorique et
pourtant déjà temporelle, et d'un devenir de cette Nature vers l'homme."546 È un'ipotesi,
certamente, ma non priva di consguenze teoriche interessanti.
La notazione più interessante riguarda la trattazione del tema della temporalità
rispetto alla Natura, trattazione che pone Dufrenne in posizione piuttosto eccentrica
rispetto ad ogni ontologia tradizionale. La Natura è temporale, infatti, nella sua
descrizione. Negarle la dimensione del tempo proprio in nome di una teoria del tempo
equivale per Dufrenne a cedere ancora a quell'idealismo da cui egli, anche se a volte in
maniera un pò opinabile, cerca sempre coerentemente di stare lontano. Lo scorrere
irreversibile del tempo è per lui costante e primo, sia che riguardi i flussi di coscienza
che il divenire delle cose. Certo, Dufrenne lo riconosce, il tempo di per sé non è nulla se
non un'astrazione o un parametro all'interno dei nostri calcoli, ma esso è comunque "le
caractère donné de tout donné, le caractère essentiel de tout étant."547 Il fondo è
temporale, tanto quanto l'uomo che in esso si radica.
Se il tempo non è un essere di cui si possa cercare il cominciamento e la fine,
l'essere è comunque temporale, "et il est vain de chercher, en dehors des objets ideaux
per lui, rappresenta la via d’accesso per illuminare il per-sé stesso attraverso la delineazione dell’essere
che lo precede.
545
M. Dufrenne, Le poétique, cit., pp. 154-155.
546
Ivi, p. 155.
547
Ibidem.
186
qui sont eux mêmes conçus dans l'histoire, un être intemporel."548 Se l'eternità ha un
senso sarà solo per designare l'intelligibilità di un oggetto logico, o la pienezza di un
istante vissuto.
Ecco quindi che per Dufrenne riferirsi a una Natura naturante implica e richiede
una riabilitazione del tempo, il che comporta due conseguenze decisive nella sua
filosofia.
La prima conseguenza riguarda il concetto di fondamento come cominciamento. La
Natura precede sì l'uomo, ma non c'è un Essere che preceda a sua volta la Natura, nè un
essere intemporale che preceda quello temporale. Il fondamento è così, propriamente,
un cominciamento: "de même que l'acte libre commence avec la décision, l'histoire
commence avec l'homme"549 e ogni percezione che fonda è altresì una percezione che
dà inizio a una storia temporale. Temporale e tuttavia non storico, il fondo è allora il
luogo di una letterale pre-istoria, "d'un devenir où sa puissance se manifeste par
l'actualisation des possibles."550
La seconda conseguenza che Dufrenne trae dalla sua riabilitazione della
dimensione temporale relativamente alla Natura è la possibilità di parlare di una
"polarizzazione della Natura verso l'uomo"551, cioè verso la coscienza in cui essa si
riflette e raccoglie. Se, come abbiamo visto, è l'apparire che fa della Natura (in-sé) un
mondo, si capisce perchè Dufrenne dica che proprio l'apparire è la suprema possibilità
dell'Essere, ciò verso cui esso tende proprio in virtù della sua temporalità. Perchè il
tempo investe l'essere secondo due modalità: è in lui il principio del divenire, ma è
anche la possibilità di un logos. Riprendendo Heidegger come Hegel, Dufrenne mira a
far riconoscere come il divenire naturale prepari e prefiguri il divenire logico del
discorso. È il suo essere temporale che orienta l'Essere verso l'apparire.552 E proprio
perchè temporale la Natura può essere potenza produttrice.
548
Ivi, p. 156.
Ibidem.
550
Ibidem.
551
Ibidem.
552
È importantissimo tenere ben distinte temporalità e temporalizzazione, la seconda dipendendo
strettamente da una coscienza e la prima caratterizzando invece anche l’Essere al di fuori del rapporto
intenzionale.
549
187
E proprio questo aspetto produttivo della Natura è ciò che Dufrenne ha di mira. Ma
non si tratta di un dinamismo produttivo finalizzato; il linguaggio di Dufrenne è tuttaltro
che antropomorfico. Dire, "in mancanza di termini migliori"553, che la Natura vuole
l'uomo non equivale affatto ad attribuire alla Natura una forma di volontà modellata su
quella umana, nè tanto meno su quella divina; non equivale neppure a ipotizzare una
premeditazione da parte della Natura nel concepire e volere l'uomo né che l'evoluzione
creatrice sia realizzazione di un programma.554 "Nous voulons seulement dire que la
Nature est puissance et que cette puissance produit l'homme."555 Certo la Natura non
tiene l'uomo in potenza come un possibile logico, ma neppure come un possibile
biologico: "l'homme n'est pas présupposé ou préformé dans la Nature, mais il est
produit par elle, même si, en tant qu'il est le correlat d'un monde, son surgissement est
absolu."556 Non vi è evidentemente qui alcun riferimento a insostenibili forme di
creazionismo, la figura che per Dufrenne esplicita meglio la relazione è allora piuttosto,
anche se con una certa torsione poetica, quella di destino. Con questo termine Dufrenne
crede sia più chiaro il legame che corre tra il fondo e l'uomo nelle sue vicende reali: "Et
ce qui permet au mieux de pressentir – sinon de penser – la Nature, ce n'est pas
seulement le fond, c'est la force du fond, ce que précisément l'homme appelle destin."557
Con il destino si vuole sottolineare la forza genealogica del fondo naturale, il suo essere
precedente ed estranea ad ogni struttura che nel mondo si trovi già fissata, e sia quindi
prevedibile o controllabile. Perchè se il mondo è soltanto "mondano", la Natura è
naturante, e mentre il mondo "est la figure du tout, la Nature est sa puissance."558
Quello che la Natura di Dufrenne permette di mettere a fuoco in modo decisivo è
allora l'emergere contemporaneo e coordinato di coscienza e oggetto: è nell'uomo che la
553
Ivi, p. 158.
Decisiva è per Dufrenne la critica bergsoniana della finalità e, ancor prima, il contributo di Schelling
che negli Essais insiste proprio sull’essere teleologico della Natura che pure rimane un meccanismo
cieco. Come Schelling Dufrenne rifiuta di mettere l’intenzione prima del prodotto poiché la più alta
finalità è proprio in questa Natura da cui resta assente tuttavia ogni mira voluta o deliberata. (Ivi, p. 159
n.)
555
Ibidem.
556
Ibidem.
557
M. Dufrenne, Le jeu et l’imaginaire, “Revue Esprit”, Juillet-Aout 1971, oggi in Esthétique et
philosophie, cit., tome 2, p. 147.
558
Ibidem.
554
188
Natura viene alla coscienza, che le cose divengono immagini e che queste immagini
sono in grado di dire qualcosa. È sempre nella Natura che l'essere appare, viene alla
presenza e la potenza si rivela, in ultima analisi, potenza di svelamento.
Così Dufrenne propone di pensare la Natura come idea-limite, allo stesso modo in
cui Merlau-Ponty aveva riservato alla carne questa qualifica. Questa visione conferma
l'idea che noi non abbiamo a disposizione alcuna intuizione originaria, e che ogni
attività si esercita su determinati dati. "Elle peut donc suggerer que nous sommes aussi
bien donnés à nous-mêmes et que le sujet transcendental n'est pas souverainement
constituant."559
La conclusione più importante è allora che per esercitarsi, la potenza non è in attesa
di una coscienza che ne attivi i possibili poichè è dalla potenza stessa che si produce la
coscienza. "Ce qui se révèle à l'homme, l'être même du dévoilé implique dans cet être
une puissance de dévoilement dont l'homme n'a pas originellement l'initiative."560 Ed è
in questo modo che per Dufrenne si può comprendere la relazione dell'uomo in quanto
coscienza con la Natura.
Natura disponibile allo svelamento, che anzi implica ed esige affinché, tramite lo
sguardo dell'uomo, le cose possano diventare immagini ed essere quindi afferrate come
cose. L'uomo però a sua volta non è leggibile come un principio irriducibile che sorga
ex nihilo, esso è piuttosto prodotto dalla Natura come parte di sé, "une partie privilégiée
où le tout se reflète."561
Si torna così a una forma di circolarità, che vede il soggetto e l'oggetto
indissolubilmente legati nel loro stesso apparire; e all'interno di tale circolarità l'uomo
incarna il nodo essenziale, il luogo in cui il dualismo sorge e può oltrepassarsi."Car la
conscinece est l'autre de la Nature, mais cette conscience est elle-même produite et
portée par la Nature."562 È nell'uomo quindi che questa correlazione essenziale prende
corpo, essendo esso stesso indissolubilmente coscienza e Natura, correlato ed elemento
della Natura. Con questa conclusione, nonostante le torsioni metafisiche, Dufrenne può
guardare nuovamente alla fenomenologia nell'inesausto tentativo di reperire all'interno
559
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 160.
Ivi, p. 162.
561
Ibidem.
562
Ibidem.
560
189
del corpo le radici del trascendentale. Il punto di passaggio, infatti, tra l'uomo come
coscienza e l'uomo come Natura è rappresentato dall'apertura percettiva, fondamento
instaurato in via esclusiva dall'uomo che dischiude il regno della presenza "où la
temporalité, reprise par une conscience temporalisante, devient clarté en ouvrant un
présent qui n'est plus ponctuel, en lequel l'homme est présent au monde et le monde
présent à l'homme."563 Ma la presenza dell'uomo al mondo è subordinata ancora al fatto
che l'uomo stesso continua ad essere Natura, in una forma di circolo sostanziale
debitore, da una parte, della filosofia di Spinoza e memore, dall'altra, della carne di
Merleau-Ponty. L'elemento di maggiore originalità inserito da Dufrenne non è, a questo
punto della riflessione, ancora del tutto articolato: la cerniera percettiva è già esplicitata
come piega all'interno della Natura che permette il sorgere contemporaneo e congiunto
di coscienza e oggetti -quindi della relazione intenzionale-, ma sarà solo più avanti che
di essa, con il concetto più ampio di sinestesia, sarà evidente la valenza di risposta non
ontologica a quelle domande qui ancora metafisiche.
L'uomo rappresenta dunque quel fondamento che è evento ed emergenza (delle
cose, del senso, della Natura stessa) tanto che Dufrenne arriva a ipotizzare di allargare
ad ogni uomo ciò che Kant attribuiva al solo genio: il fatto di essere una disposizione
innata dello spirito attraverso cui la natura dà la regola all'arte.564
Il rapporto tra l'uomo e la Natura si impronta allora a una dinamica di ispirazione
che mette in gioco, a sua volta, quella natura trascendente che nel soggetto e
nell'oggetto è formata da a priori che costituiscono per Dufrenne una forma di armonia
prestabilita tra uomo e mondo, il loro trait d'union essenziale. L'ispirazione è dunque la
figura che consente di cogliere quel movimento genealogico grazie a cui la dualità tra
spirito e mondo si conferma dualità tra oggettivo e soggettivo, cioè tra ontico e
trascendentale. Dualità che costruisce un unione che non è mai unità, reciprocità in una
presenza mai statica.565
563
Ibidem.
“De tout homme il faut dire ce que Kant a dit du génie, qu’il est lui-même nature: ‘Le génie est la
disposition innée de l’esprit par la quelle la nature donne ses règles à l’art’; aussi ‘ne peut il indiquer
scientifiquement comment il réalise so oeuvre; il ne sait pas lui-même d’où lui viennent les idées, et il ne
dépend pas de lui d’en concevoir à volonté.’” (Ibidem)
565
Il concetto di ispirazione mette in gioco uno dei primi riferimenti concreti a quello che sarà
l’interlocutore finale: il Merlau-Ponty de L’occhio e lo spirito. Proprio in quell’opera, infatti, compariva
l’elemento dell’ispirazione in relazione all’Essere, quello stesso Essere che Dufrenne sta cercando di
564
190
Cercare di privilegiare uno dei due termini significherebbe per Dufrenne cedere o
all'idealismo o al naturalismo, dai quali egli intende invece mantenere equa distanza.
Questa distanza è consentita precisamente dalla figura dell'ispirazione,566 grazie a cui si
annulla ogni possibile lettua meccanicistica in favore di una descrizione che valorizza
l'oscillazione e la sfumatura. È proprio l'idea della Natura così come l'abbiamo vista a
permettere questa impostazione. La Natura affonda nell'ontico, non è un sapere virtuale,
mentre il trascendentale, che pure è sempre parte di essa, è sempre incarnato. È l'uomo
che reca in sè il trascendentale e, essendo parte della Natura, rappresenta proprio la
funzione trascendentale della Natura. Dunque, e questo è forse un punto ambiguo
quanto interessante, la funzione trascendentale della Natura emerge "par procuration, et
non totalement, puisque le transcendantal vient s'incarner dans la nature de l'homme et
que cette nature est à la fois élément et produit de la Nature."567
È su questa caratteristica del trascendentale come incarnato che è allora bene
insistere, poichè è proprio l'incarnazione la condizione di possibilità del dualismo
uomo-mondo, della relazione intenzionale.568 L'uomo e il mondo, che sono soltanto suoi
prodotti, hanno la funzione essenziale di manifestare, con la loro presenza, la Natura
stessa che quindi a sua volta si mostra come il luogo della loro unione, come la capacità
produttiva immanente, non teologica, cui la loro unione dà luogo, come a priori di tutti
gli a priori materiali costitutivi.569 Ciò significa, ed è una delle conclusioni salienti del
caratterizzare. Certo, Merleau-Ponty, fedele al suo legame con la visibilità parlava di pittura, mentre con
Dufrenne si è già slittati nel contesto della parola, ma la dinamica cui si fa riferimento non è troppo
distnte: “Il pittore vive nella fascinazioni. Le sue azioni più proprie (…) gli sembrano emanare dalle cose
stesse, come il disegno delle costellazioni. Tra lui e il visibile, i ruoli inevitabilmente si invertono. Ecco
perché tanti pittori hanno detto che le cose li guardavano (…). Quel che si definisce ispirazione dovrebbe
venir preso alla lettera: c’è realmente inspirazione e espirazione dell’Essere, respirazione nell’Essere,
azione e passione così poco distinguibili che non si sa più chi vede e chi viene visto, chi dipinge e chi
viene dipinto. Diciamo che un uomo nasce nell’istante in cui ciò che in fondo al corpo materno era solo
un visibile virtuale si fa visibile per noi e, insieme, per se stesso. La visione del pittore è una nascita
prolungata.” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1964), tr. it. di A. Sordini, SE, Milano 1989, p.
26.)
566
Di questo concetto è stata tuttavia già condivisibilmente notata l’impossibile riduzione ad alcuna
fenomenologia. Come ha scritto Franzini, (op. cit. p. 380), esso porta Dufrenne nell’alveo di
un’improbabile e non sempre credibile ‘rinascita’ romantica e surrealista. Esempi del poeta ispirato così
come è concepito da Dufrenne si potrebbero trovare in Holderlin come in Eluard o Superville.
567
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 163.
568
Lo sbocco su di una filosofia della Natura, a partire dalla quale descrivere la coscienza, è per Dufrenne
senza alcun dubbio più proficuo che non ipotizzare una psicologia, o filosofia della coscienza, a partire da
cui desumere la Natura.
569
Cfr. E. Franzini, op. cit. p. 381.
191
percorso di Dufrenne, che la correlazione intenzionale soggetto-oggetto presuppone
"une corrélation ontologique qui subordonne l'homme comme partie de la Nature au
devenir de la Nature."570 E questo divenire si conferma allora come "l'infinito orizzonte
di oggetti non ancora ridotto a mera cosalità" che sintentizza Franzini, "materia che
l'uomo deve sfruttare e violentare nella produzione", fondo concreto, legato alla
corporeità dell'uomo e ad esso consustanziale.571
La Natura diventa mondo per l'uomo come il tempo diventa storia, "mais elle a
l'initiative de cette métamorphose en ce qu'elle suscite l'homme par qui elle
s'accomplit."572 Quello che la Natura indica, e che l'ontologia di Dufrenne mira a porre a
tema, è allora proprio questa componente di impensabile ed inesauribile potenza del
fondo: il fatto che l'essere non sia l'apparire, "ni le sens ni la lumière", ma sempre e solo
la realtà che potrebbe apparire, ma che apparirà sempre e solo con l'uomo e all'uomo, e
che infatti produce l'uomo proprio per apparire.
Certo l'impresa resta impossibile, quella metafisica rimane un'intuizione, la
verbalizzazione di tutto questo implica già la presenza dell'uomo poichè è impossibile
collocarsi nella contermporaneità del fondo buio che precede la coscienza, "dans la
ténèbre que nul regard ne traverse, dans le silence que nulle parole ne rompt."573 Il fatto
di parlarne non equivale alla possibilità di esperirlo, possibilità preclusa dal nostro
essere costantemente nella storia oltre che nel tempo, ma ciò non impedisce di afferrare
l'aspetto più importante del reale, che è quello di essere apparenza in cui qualcosa si
dissimula oltre che manifestarsi, in cui il possibile agisce costantemente richiedendo di
essere considerato. "Le monde peut offrir de multiples visages parce que tout est
possible à la puissance du fond."574
È questa potenza del fondo a rappresentare quello che Dufrenne chiama la
"dimensione poetica della Natura", dimensione su cui insiste e che esplora in varie
direzioni, interessato alla messa a fuoco dell'espressività del mondo come ciò che è
disponibile ad essere colto ma anche e soprattutto costantemente prodotto. Il poetico è
570
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 164.
E. Franzini, op. cit. p. 381.
572
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 164.
573
Ibidem.
574
Ivi, p. 165.
571
192
quindi considerato in senso ampio; certo, Dufrenne non disdegna riferimenti concreti a
poesie ed autori, secondo quel suo procede per esempi non sempre indispensabili che lo
caratterizza e forse addirittura diverte. Ma se anche egli parla di poesia, quello che gli
interessa -o che comunque più interessa noi in questa sede- è il portato teorico delle sue
scelte.
Poesia quindi è da intendere qui come essere poetico della natura, che certo suscita
lo stato poetico e sollecita il linguaggio poetico (che diventano sue figure), ma in essi
non esaurisce il suo senso teorico. Questo senso sarà ancor più chiaro alla fine di questa
parte di percorso, là dove il poetico si rivelerà leggibile in termini di categoria, anzi nei
termini ancora più decisivi di prima categoria del fondo originario.
Prima di afferrare questa conclusione, tuttavia, è bene capire in che senso Dufrenne
possa parlare di un poetico interno alla Natura e in che modo esso sia legato all'uomo.
Se dunque ci capiterà, seguendo l'autore, di guardare alla figura del poeta, teniamola
sempre presente, appunto, come figura; indice di dinamiche universali.
Il contesto poetico implica innanzitutto il riconoscimento e l'apertura di un contesto
discorsivo. Poetico, infatti, non è solo qualcosa di immaginifico né rappresentativo, ma
innanzitutto qualcosa al cui interno si gioca principalmente un'azione di parole. Azione
che, in senso poetico, appunto, rivelerà significative affinità con le conclusioni cui
siamo giunti nell'esaminare, nel capitolo precedente, il potere significante dell'oggetto
estetico. Là abbiamo messo a fuoco l'azione stilistica del linguaggio e le sue possibili
incarnazioni grazie a quegli oggetti peculiari che sono gli oggetti estetici. Qui vedremo
uno schema molto simile agire però al di qua, o al di sopra degli oggetti, nell'ottica più
matura di un lavoro che segue di dieci anni la Phénomenologie.
Abbiamo visto come la Natura "voglia" l'uomo, lo chiami affinchè con la sua
presenza di cosa tra le cose egli attivi il contesto intenzionale e l'essere possa apparire.
Fin qui abbiamo indicato nella percezione la soglia di apertura che dischiude nella
Natura la dicotomia soggetto-oggetto. Qui Dufrenne fa un passo ulteriore e connette alla
percezione il linguaggio quale potere che l'uomo possiede di convertire la scienza
ingenua della percezione in saggezza e sapere. È un modo, sempre molto figurativo in
verità e poco utile al rigore ontologico, di articolare meglio quel tipo di relazione che
193
egli sta indagando. È il linguaggio il luogo in cui le cose prendono forma e in cui "les
relations se dessinent entre elles pour composer la figure d'un cosmos."575 Di più, il
linguaggio diventa luogo in cui il trascendentale si esercita, in stretto legame con la
facoltà percettiva che, a sua volta, presuppone il potere di nominare. "Dès qu'il parle –
dès que l'homme perçoit – la Nature devient monde."576 È in questo senso che Dufrenne
può veder confluire l'attività di filosofo e poeta, sullo sfondo di una Natura magmatica e
tenebrosa che di volta in volta prende forma, come sotto un cono di luce, dandosi a
vedere e lasciandosi nominare.577 Quella Natura che abbiamo descritto inafferrabile e
invisibile, oggetto di quella che Dufrenne stesso riconosce come "un'intuizione
metafisica", si lascia tuttavia esprimere, nelle pieghe di un linguaggio non codificato ma
produttivo come quello poetico. Linguaggio che, infatti, come già l'oggetto estetico,
apre un mondo. E con questo mondo l'uomo può "co-naître, venir à un monde possible
qui s'ouvre jusqu'à se perdre en lui."578 Torna nuovamente quella scissione che
Dufrenne tiene ferma come molto produttiva tra un rapporto al mondo predicativo e
conoscitivo e una relazione intuitiva e sentimentale. L'aspetto di mondo, la
manifestazione della Natura che con il poetico è chiamata ad apparire è "ce visage d'un
monde possible qui se révèle à la lecture" che "si n'est pas conceptuellement identifiable
et définissable, est eprouvé vivement."579 Parlare di rapporto poetico con il fondo
significa allora parlare di quel potere del linguaggio che si manifesta nella sua
originarietà, che Dufrenne legge come la risposta dell'uomo al linguaggio della Natura
o, meglio ancora, ciò che porta ad espressione la Natura come un linguaggio. Ecco
perchè la Natura stessa si rivela poetica, nella poesia ma anche prima di essa, nella
575
Ivi, p. 167.
Ibidem.
577
Dufrenne interpreta in questo senso l’idea di un’ispirazione che parte dalla natura per investire il poeta
(e l’uomo) e crede di trovarne esempio rappresentativo ed efficace nei versi dell’VII Elegia a Duino di
Rilke che cita (tradotta in francese): “Mais parce qu’être ici est beaucoup, et parce que nous semblons /
nécessaires à toutes les choses d’ici, ces éphémères, qui / étrangement nous sollicitent (…) Du penchant
de la montagne le voyageur n’apporte pas / non plus dans la vallée une poignée de terre, pour tous
indicibile, mais / un mot acquis, pur, la jaune et la bleue / gentiane. Sommes nous peut-être ici pour dire:
maison / pont, fontane, porte, cruche, arbre fruiter, fenêtre, / tout au plus: colonne, tour…? Mais pour
dire, comprens-le, / ô pour dire tout ce que les choses elles-mêmes jamais / ne pensérent être dans leur
ntimité. N’est-ce pas une ruse cachée / de cette terre qui toujours se tait, lorsqu’elle presse les amants /
pour que dans leur sentiment claque chose, chacune, se transfigure? (…) Voici le temps des choses
dicibles, voici leur patrie.” (Ibidem)
578
M. Dufrenne, La poésie: où et pourquoi?, cit. p. 253.
579
Ibidem.
576
194
misura in cui essa esercita ed esprime il proprio poiein. Ed il primo frutto di tale poiein
è, come abbiamo già visto, l'uomo stesso in quanto sguardo nel quale essa potrà
rispoecchiarsi, in quanto voce che saprà nominarla.
La Natura diventa allora quel fondo che già Kant aveva intuito nell'idea di sublime,
che Dufrenne allarga in chiave metafisica fino a qualificare quella Natura di cui
possiamo presagire la potenza grazie al suo inarrestabile divenire, alla sua grandezza
selvaggia quanto alla sua creatività. In questo senso il sublime è addirittura precedente
al poetico. Ma non è qui il punto che a Dufrenne interessa di più.
Molto più importante che il suo immenso e inarrestabile fluire, è la direzione della
manifestazione della Natura: essa mira la coscienza, il suo stesso divenire è un venire
alla coscienza, che si riconferma cardine di un'indagine che, per quanto ontologica, è
nella relazione intenzionale che fissa la propria stella polare. Tra essere e apparire, tra
possibile e reale, la Natura si colloca in posizione di stallo, imponendo di considerare
entrambi i poli dei due dualismi, perchè di nessuno si può pensare che sia definitivo e
definitorio. Ecco quindi che l'autore deve tornare a considerare l'apertura
dell'immaginazione, quella stessa apertura che anche noi abbiamo già visto agire più
sopra, parlando della sensibilité généralisatrice. Alla coscienza, per entrare in relazione
con il mondo, non è sufficiente essere percettiva senza essere immaginante. Certo, i
correlati noematici della relazione intenzionale mutano (è la coscienza che può scegliere
l'atteggiamento da assumere), ma accade che il poetico – come l'oggetto estetico –
susciti un atteggiamento immaginativo nello stesso tempo in cui lo percepiamo. Anzi,
pur essendo innanzitutto alla nostra percezione che tali immagini, tali oggetti, si
propongono senza però esaurire in essa le proprie sollecitazioni.
Di più, la produttiva possibilità della Natura rivela un'eccedenza rispetto alla
percezione che si apre ben oltre l'immaginazione: è lo sbocco etico di questa filosofia
della Natura, su cui dovremo tornare, ma che fin d'ora si manifesta con tutta la sua
importanza. L'immaginario che completa la percezione non è solo fantasia, esso può
essere anche utopia: "l'irréel peut être saisi comme à réaliser, la poésie qui le déploie
195
peut être un appel à l'action dans le monde."580 E se il reale è anche quotidiano, esso non
è percepito che per essere agito, "et le champ de la présence est le lieu de la praxis."581
Punto di incontro e reazione di tutte queste componenti, l'immagine (la cosa, la
parola poetica) è allora il correlato di una coscienza sia percettiva, sia immaginante, che
di un individuo che sulla base di ciò si prepara ad agire: "elle est l'annonce faite à
l'homme d'une Nature naturante."582 Va da sé che non sempre essa si manifesta con il
suo potere poetico, essendo a volte oggetto preso di mira per conoscere o per essere
manipolato, ma la potenza dei possibili abita sempre, in possibilità appunto, ogni piega
manifesta dell'essere. Ma in quelle immagini che debordano la familiarità che si ha per
loro, in quelle cose che non esauriscono il loro senso perchè il loro stesso essere
significanti sfugge ogni codice, in tutto ciò la Natura può manifestarsi. "Ce monde aux
contours indécis, c'est la façon dont la Nature se suggère à nous."583 Ecco allora,
nuovamente, quella valorizzazione della sfumatura e dell'ombra che Dufrenne persegue
con decisione; valorizzazione contraria ad un approccio scientifico al reale e
consapevole, invece, della sua inesauribile e innafferrabile ricchezza.
Tale ricchezza ha un connotato ulteriore. Insistendo sul linguaggio poetico come
figura del linguaggio della Natura, Dufrenne riconosce come ogni volta tale linguaggio
sia parola parlata di un mondo singolare: quello del poeta, appunto. Ma tale figura è più
utile ad illuminare il versante soggettivo della ricchezza del reale; la soglia della sua
emergenza che è sempre legata al soggetto che la percepisce e nomina. Senza indulgere
ad alcun relativismo, ma riconoscendo ad ogni soggettività il potere di dischiudere un
mondo; che è fatto molto diverso dalla facoltà di accedere tutti allo stesso mondo. Ecco
in che senso Dufrenne sottolinea come il suo sia stato un tentativo di "comprendre les
mondes singuliers comme des possibles du monde."584 Infinite possibili delimitazioni di
un mondo illimitato. Proprio su questa infinita e indefinita diversità Dufrenne insiste,
poichè è esattamente nella proliferazione inarrestabile dei mondi singolari che si
580
Ivi, p. 255.
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 174.
582
Ibidem.
583
Ivi, p. 175.
584
Ivi, p. 176.
581
196
manifesta la potenza infinita della Natura. "En se révélant dans une image singulière la
Nature s'exprime comme l'inépuisable foyer des possibles, le grand silence de Pan."585
La valorizzazione della soggettività non mira allora in alcun modo ad una
soggettività trascendentale; al contrario, è esattamente la singolare dispersione degli
individui ad essere l'obiettivo teorico. L'idea kantiana suggeriva a Dufrenne "un monde
impersonnel et objectif comme la raison elle-même, la promesse ou le voeu d'une
tonalité intelligible enfin conquise par l'entendement."586 Al contrario, la lettura estetica
del mondo, e la teoria della Natura, mirano a mettere a fuoco il dinamismo tuttaltro che
intellegibile della realtà: "l'irradiation d'une qualité affective, l'expérience pressante et
précaire où l'homme découvre un instant le sens de son destin, lorsqu'il est tout intier
engagé dans cette épreuve."587
Dufrenne parla allora del poeta e dell'artista, ma come tramite per mettere a fuoco
una vicenda decisamente extra artistica. Poetico è, infatti, l'essere stesso della Natura
che riguarda l'uomo in generale molto prima e molto più di quegli uomini particolari
che sono i poeti e gli artisti. La poesia diventa infatti il luogo che rende vivo e
manifesto, che esprime, la possibilità – disponibile universalmente – di frequentare gli
aspetti pre-concettuali dell'intelletto, "à mi-chemin entre le régime diurne du logos et le
régime nocturne de l'imagination."588 Lungi dal limitare il poetico ad una pratica
artistica, infatti, Dufrenne lo intende innanzitutto come la possibilità di entrare in
comunicazione con il fondo della Natura, con il suo essere poetico, attraverso quel
mondo che ci è dato da sentire: una possibilità di conoscenza, pour chacun de nous.589
585
Ibidem.
M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, oggi in Esthétique et philosophie, cit. tome 1, p. 33.
587
Ibidem.
588
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 179.
589
Ivi, p. 180.
586
197
3.3 Natura poetica ed Estetica
Abbiamo visto come il potere poetico della Natura, nei suoi legami con la
coscienza abbia condotto ad una valorizzazione della soggettività che consapevolmente
mira ad affrancarsi dall'idea trascendentale. Resta ancora da esplorare il versante
tipicamente artistico di cui, come abbiamo già intravisto, Dufrenne si serve ampiamente
nella sua indagine sull'umano. Relativamente alla Natura così come l'abbiamo descritta,
infatti, l'arte rivela un ruolo privilegiato e speciale, che gli oggetti estetici incarnano con
estrema fecondità.
L'essere poetico, che è poi, e Dufrenne lo dice chiaramente, l'espressività590 è
quell'elemento comune alla Natura e agli oggetti estetici così come lo stato poetico, che
è poi l'atteggiamento estetico, è quello condiviso da creatore e spettatore dell'opera.591
Se è chiaro che ogni singola apertura di mondo è una delle infinite possibilità di
apparizione dell'essere, si capisce allora anche in che senso ogni oggetto estetico, ogni
opera d'arte, sia un'imitazione della Natura. Imitazione, tuttavia, in un senso molto
diverso da quello tradizionale poichè ciò che della Natura viene riprodotto non è certo
l'aspetto formale bensì la consistenza espressiva, il fatto di essere Natura Naturata che è
un volto della Natura Naturante. Ogni oggetto estetico è espressivo in questo senso
come la Natura, cristallizzazione possibile e sempre in fieri di una potenza di fondo
inesauribile. Se l'arte imita la Natura sarà allora nel suo essere Abgrund, qualcosa di più
e di più originario di ciò che nel mondo è già concreto: Natura naturante, dove la
590
Ibidem.
In questo ritorno alla Natura così radicato nel piano estetico e che parte da concrete opere d’arte
percepibili si riscontra un chiaro richiamo a Il visibile e l’invisibile di Merelau-Ponty dove allo stesso
modo si tentava un ritorno ad un’ontologia (se non ad una filosofia della Natura) che comprendesse la
consustanzialità di soggetto e oggetto. “Un ritorno verso un essere ‘selvaggio’, plesso di significati che
l’uomo sempre di nuovo trae alla luce, physis dove originariamente gli uomini erano indivisi e in cui
forse, dietro o sotto le scissure della nostra cultura acquisita continuano ad esserlo. Merleau-Ponty, poco
prima della sua morte, affermava che la Natura ‘è l’essere dietro di noi’, mondo originario cui siamo
carnalmente legati attraverso la nostra corporeità percipiente, fondo ontologico ‘che comprende tutte le
possibilità ulteriori dell’esperienza’, ‘terra originaria’, ‘preoggetto’, comune Grund dove, come voleva
Schelling, si incontrano il soggetto e l’oggetto.” (E. Franzini, op. cit., p. 378.)
591
198
maiuscola ha molta importanza "perchè indica non solo l'esteriorità, ma l'anteriorità del
mondo in rapporto al soggetto; e significa anche l'energia dell'essere."592
La prima conseguenza teorica rilevante riguarda il tema del valore estetico
dell'oggetto (che è anche valore attribuibile alle cose del mondo in generale qualora
vengano afferrate secondo questa impostazione) e i modi in cui tale valore può essere
descritto. Non si può infatti in alcun modo giustificare più un'idea di valore formale.
Ogni singola opera d'arte, quindi ogni singolo oggetto, si rivela incarnazione di un
proprio specifico valore singolare. I valori estetici si trovano quindi moltiplicati
all'infinito, obbligando -e questo è senz'altro uno dei punti che Dufrenne stanno più a
cuore- ad abbandonare ogni ricerca di ordine formale per accettare invece di considerare
gli aspetti materiali, quelli sì davvero centrali, di "chaque essence singulière, donc
revenir au sens que propose chaque objet esthétique."593
Il valore estetico diventa allora qualcosa di molteplice, materiale e incarnato
riportandoci a riaggangiare il discorso sullo stile che più sopra avevamo lasciato in
sospeso contando di ritornarci. Il valore materiale riguarda infatti l'inseparabilità di
senso e segno nel contesto estetico, il loro sorgere simultaneo e autoproduttivo, ma
soprattutto l'inestricabile viluppo del senso in seno al sensibile. Nel manifestare la
potenza produttiva del senso, che artisticamente non si esaurisce mai in un segno
codificato, si apre come abbiamo visto il contatto con il fondo produttivo della Natura e
quello che viene espresso è dunque, in una qualità affettiva inesprimibile, la totalità
sintetica del mondo. L'estetico è allora un valore plurale e moltiplicato, afferabile
proprio in virtù di tale sua dispersione materiale.
Con questo approccio diventa insostenibile l'idea di concepire i valori estetici come
modelli esteriori all'oggetto per arrivare anzi all'estremo opposto e riconoscere gli
oggetti stessi come il loro valore estetico "en tant qu'il sont vraiment ce qu'ils prétendent
être"594. Il valore estetico sarà allora da identificare con l'oggetto medesimo, sarà ciò
che lo abita come suo principio e suo fine.
Questa concezione del valore investe a sua volta due aspetti.
592
M. Dufrenne, Inventaire des a priori, cit., p. 164.
M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 31.
594
Ivi, p. 32.
593
199
Il primo riguarda di nuovo il coté etico che abbiamo già visto fare capolino più
volte e sul quale Dufrenne finisce sempre con lo sboccare consentendo di afferrarlo
come uno dei suoi nodi teorici più personali. Se l'oggetto è il valore estetico, infatti,
creare oggetti significherà creare valori, con un notevole accrescimento dell'attenzione
da attribire all'impegno dell'individuo. "Créer le valeurs esthétiques, ce sera produire
des oeuvres nouvelles chargées d'un nouveau sens, initiatrices d'un nouveau style,
messagères d'un nouveau monde."595 Certo, questa lettura del valore può essere messa
in questione da chi neghi la possibilità che il valore sia creato; ma la posizione che
Dufrenne attribuisce alla dimensione del possibile all'interno della sua filosofia è uno
strumento efficace per rendere conto di questa "creazione del valore" che non è un
magico far apparire ma una dinamica di realizzazione sempre ben radicata nel reale.
Il secondo aspetto che questa lettura materiale del valore implica di considerare è,
di nuovo, il tema della soggettività (artistica) quale si è già prefigurato poco sopra.
Legato alla produzione di valore, letto in chiave profondamente sensibile e materiale, il
ruolo del soggetto richiede infatti di essere esplicitato, soprattutto in relazione alla
questione della verità.
Se si accetta, infatti, che ciò che si manifesta in un'opera sia quella particolare
espressione della Natura in rapporto a una singola soglia, si potrebbe essere tentati di
attribuire all'individuo un'attività di costituzione o di interpretazione del mondo. Ruoli
che Dufrenne rifiuta invece di riconoscere. La dinamica che nel suo pensiero resta
quella più esaustiva è la stessa che abbiamo già visto, improntata all'idea di ispirazione.
Con questa idea il meccanismo dello stile, come esistenza incarnata, presa di posizione
sul mondo, si arricchisce del connotato ontologico che il riferimento alla Natura
comporta. In questo modo soggetto e oggetto, uomo e mondo, si implicano a vicenda in
un contesto di scambi e mutazioni reciproci che esclude la costituzione degli oggetti da
parte di una coscienza come anche un'attività ermeneutica alla base del nostro rapporto
col mondo. Il contesto, nella dimensione materiale del valore, è molto più esistenziale
che ontologico, più estetico che artistico.
595
Ivi, p. 33.
200
L'ispirazione è allora la figura che dà conto di come il mondo, "eterno personaggio
in cerca di autore"596, solleciti la paziente operazione dell'artista, dell'uomo, per apparire
e venire alla presenza.
Si capisce bene allora, nell'afferrare ogni opera come foyer di possibili e di verità,
come possa risultare instabile ogni tentativo di mettere a fuoco una verità. Ogni mondo
che si rivela in un'opera (ma ormai possiamo capire, in una vita) è portatore di una sua
propria verità, una delle tante possibili in quella sorgente di reale che è il Mondo della
Natura. È il gioco stesso della Natura a produrre e prodursi in una serie infinite di
singolarità, aperte ciascuna dall'incarnazione percettiva che, lo abbiamo già visto,
diventa infatti non a caso condizione dell'individuazione. Ma queste singolarità "ne sont
pas libres et nommables: elles s'investissent dans les choses, et surtout dans les
individus", e in questo senso, davvero e senza nessun relativismo: "chaqun son monde,
chaqun sa verité." 597
Così, se la verità non è un gioco di specchi, se ogni apparire è un'espressione
dell'essere, la verità stessa – che non ha più nulla di logico – confluisce nel regno delle
possibilità. Ogni singolarità è uno e uno solo dei "visages possibles" del mondo, e la
verità stessa condivide lo spazio con l'immaginazione. "Le possible ici – l'imaginaire –
atteste la force silencieuse du reél, la puissance du monde."598 Il possibile proiettato da
una singolarità sarà una verità del reale, non la prima né la sola ma neppure per questo
meno vera.
Ecco allora il destino della soggettività: "être au monde, c'est faire partie du
monde"599 e farne parte significa partecipare alla sua verità, perchè il mondo non è ilmondo-senza-di-me più me, come scrive Dufrenne:
596
Ivi, p. 34.
Il riferimento esplicito da parte di Dufrenne è qui a Deleuze. Senza dubbio egli pensa alle singolarità
in termini di avvenimenti, ma per Dufrenne in quanto eventi esse in qualche modo riguardano gli
individui, senza però costituirli. “Le seul événement constituant, c’est celui qui constitue l’individu: la
naissance. Et si, à claque perception, la naissance se démultiplie en renaissance? Oui, mais il y a bien une
première naissance: l’individue est donné à lui-même une fois pour toutes, des événements ne cesseront
de le’affecter, mais il aura une manière propre d’être affecté: son temps propre de cicatrisation, son style
propre d’invention, comme son acuité propre de perception ou sa propre fantasmatique.” (M. Dufrenne,
Vers l’originaire…, cit., p. 93.)
598
M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 34.
599
Ibidem.
597
201
Le monde n'est pas monde sans moi plus moi, et je ne suis pas l'autre du monde;
j'existe à l'interieur de la corrélation dont je suis un des termes: il n'y a de
monde que pour moi, mais je ne suis pas le monde; ce qui semblait naître de
moi me donne naissance, l'idée kantienne revient à la nature, natura naturans;
j'en reste pourtant l'indispensable et formel témoin.600
Ed ogni testimone è un possibile testimone di un possibile. È questo ruolo di
possibile testimone quello che l'artista, "subjectivité par excellence"601 incarna in
maniera specifica. Creare, infatti, è una maniera "éminente" di portare a compimento il
destino del soggetto, è uno dei modi privilegiati con cui il mondo, la Natura, si lascia
cogliere. È infatti sempre il mondo stesso, "cette puissance du possible interieur au
reél", l'abbiamo visto, a prender voce ed esigere la parola.
Come si configura quindi il mondo quale correlato della nostra frequentazione?
Esso si conferma in quanto entità che non è nascosta da qualche parte, in attesa di essere
scoperta; "il est là, infini sans cesse annoncé dans le fini, chose en soi chatoyante dans
chaque apparence, savoir présent dans chaque songe." Ed ogni cosa che l'arte, o la vita,
fissa annuncia il mondo come componente possibile, riflessa dalla coscienza estetica, di
questo reale "dont la signification est inépuisable." 602
La dicotomia adombrata da questa prospettiva è quella che angustia la filosofia
occidentale sin da Platone e da Aristotele, quella che oppone l’uno e il molteplice, il
particolare e l’universale, e che implica il problema di come il loro rapporto debba
essere inteso. Il generale, la Natura, parla sì di un invisibile, ma, diversamente da quello
platonico classico, non si configura come immateriale e sovrasensibile, coglibile solo
dall’intelletto. Con l’autore francese si ha, infatti, una lettura del generale come sempre
e solo concreto, dato sempre e solo nel particolare. Inoltre, il potere di coglierlo non è
appannaggio solo delle facoltà intellettuali grazie all’astrazione logica, poiché esso si
presta ad essere catturato in qualche modo anche dalla percezione, che anzi ne permette
l’incarnazione. È così possibile ritornare allo stile che si conferma come questa modalità
principale, nell’arte e nella vita, di realizzazione e manifestazione di questa generalità,
preconcettuale ma concreta.
600
Ibidem.
Ibidem.
602
Ivi, p. 35.
601
202
È dunque nella stiftung della significazione, che avviene stilisticamente, che i due
estremi si riconciliano qui.603
Ogni uno, ogni opera d’arte, è quindi, un’onda con la sua schiuma di passato e la
sua cresta di avvenire, feconda di tutti i suoi concepibili effetti su qualsiasi spettatore
possibile e reale. È quanto si ritrova nella dialettica hegeliana mutuata e riconfigurata
nel fenomeno dell’espressione: “Un procedere che si crea da sé il suo corso e ritorna in
se stesso.”604 E proprio questo procedere espressivo dialettico, nell’intimità di ogni
espressione
ad
ogni
espressione,
implica
“effettivamente
la
congiunzione
dell’individuale e dell’universale”605. Tutto ciò ripropone e riconferma l’estraneità di
ogni interpretazione solipsistica e psicologistica dall’intero percorso. Il mondo non è un
nostro costrutto, né della nostra ragione né della nostra fantasia, e neppure dei nostri
sensi. Il mondo percepito cade, infatti, sotto il dominio della nostra praxis
intersoggettiva, alla quale si offre congiuntamente al proprio significato, all’apparire del
senso che esso avrà per noi606.
La manifestazione, per quanto affettiva e non concettuale, di senso e verità ha
quindi la particolarità fondamentale di essere sempre “engagé dans le sensibile”607 che a
sua volta, anziché essere qualcosa che vada annullato e oltrepassato, rivela tutta la sua
radiosa portata.
Ogni apertura singolare incarnata da un artista, e dall’uomo in senso lato, è allora
sempre un modo diverso, ma concreto e sensibile, affettivamente orientato, di entrare in
rapporto con il mondo, “de saisir et de fixer un nouvel aspect du réel.”608
603
Questa relazione concreta tra l’uno e il molteplice è già stata formalizzata da Merleau-Ponty quando
scrive: “Nella storia della pittura […] il predominio dell’uno sul molteplice non riassorbe la successione
in una eternità, ma viceversa esige la successione, ne ha bisogno nel tempo stesso che la fonda come
significazione.” (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 99.)
604
Ivi, p. 102.
605
Ivi, p. 103.
606
Si torna in questo modo alle considerazioni di apertura tratte da La fenomenologia della percezione:
“Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. […] Il problema consiste allora […]
nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del ‘reale’, nell’esplicitare la nostra idea del mondo come ciò
che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo davvero
un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. […] Noi siamo nella verità e la
nostra esperienza è ‘l’esperienza della verità’. Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che
la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità.” (M. Merleau-Ponty, La
fenomenologia della percezione, cit., pp. 25-26.)
607
M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 35.
608
Ivi, p. 36.
203
Eccoci dunque ricondotti al poetico come potere condiviso dall’artista e
dall’oggetto estetico, dall’uomo e dalla Natura. Con il Poetico Dufrenne intende render
conto dell’universalità dell’arte quanto fondarne l’oggettività, ad esso arriva ad
attribuire il fatto di essere “espressività di ogni espressione”609, condizione di possibilità
stessa di ogni apparizione del possibile. È così che arriva a rivendicare al poetico, come
potenza, il ruolo di categoria principale dell’estetica, “a priori des a priori
esthétiques”610 correlato della Natura che è a sua volta per lui l’a priori di ognuno degli
a priori che originariamente legano l’uomo al mondo.
Ogni categoria estetica, dal tragico al grottesco, sgorga sempre da quella categoria
fondamentale che è il poetico, inteso, come abbiamo visto, in senso molto più
ampiamente produttivo che letterario.
Il contesto poetico del mondo estetico si oppone per Dufrenne a quegli aspetti del
mondo che invece, ridotti a prosa semplice e piana, si presentano senza manifestare più
alcuna dinamica di espressività. L’universo della scienza è quella parte di mondo che,
benché utile e necessario ad una ovvia serie di competenze pratiche, non presenta per
Dufrenne alcun eco poetica. Non si tratta certo di dover scegliere tra poeti e scienziati,
né di voler escludere l’una o l’altra dimensione dalla propria analisi: si tratta
semplicemente di distinguere il poetico da ciò che poetico non è. Si tratta
semplicemente di mettere in evidenza, per differenza, come l’universo della scienza si
rivolga innanzitutto alla ragione, ben più che alla percezione e al sentimento; e come al
suo interno la percezione sia richiesta per registrare dati la cui interpretazione si rivolge
ad una prassi razionale e certo non a raccogliere un senso che faccia appello alla poesia.
“Mais en un sens plus précis le poétique est dans ce langage du monde une intonation
particulière. Il est la gloire de l’apparaître.”611 Su questa linea Dufrenne sceglie di
portare altri esempi che in qualche modo finiscono però per indebolire il suo
procedimento. Dire ad esempio che l’impressionismo sia più poetico del cubismo, sulla
base del fatto che rigore e austerità sono meno poetici di esuberanza e libertà, è forse
una concessione un po’ semplicistica a qualche forma di empirismo non del tutto
609
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 181.
Ibidem.
611
Ivi, p. 193.
610
204
indispensabile. Quello che più conta, allora, non è tanto la descrizione dei modi in cui il
Poetico come categoria può incarnarsi, quanto piuttosto la messa a punto del ruolo che
esso gioca con il quale, abbiamo visto, è il possibile a legarsi profondamente con
l’Essere molto più che il reale.
Come categoria estetica, infatti, il Poetico riguarda proprio quell’apparire
dell’essere che è propriamente umano e che, proprio in virtù di tale sua caratteristica,
non cessa di far oscillare l’ontologia di Dufrenne verso una complessa antropologia:
“mais si l’on veut spécifier le poétique comme catégorie esthétique, c’est l’humanité de
l’apparaître qu’il faut alors invoquer: le poétique réside à la fois dans la générosité et
dans la bienveillance du sensibile.”612
Si rende allora ancora più esplicito quello che si è già visto emergere con la
dimensione di profondeur dell’oggetto estetico. Il potere dell’arte, in cui il poetico si
mostra come categoria persino esistenziale oltre che ontologica, è proprio quello di
manifestare questa potenza del mondo non come se esso fosse sempre lì, “il vecchio
stanco mondo” direbbe Dino Formaggio, in attesa solo di essere rappresentato, ma il
mondo nel suo instancabile e inarrestabile sorgere: “non l’apparence mais
l’apparaître.”613
Con una fertile tensione tra Spinoza e Schelling, Dufrenne mette a fuoco, con la
sua Natura naturante, l’idea di un fondo che è ben più di un fondamento. Nel fondo si
rivela, infatti, una potenza genealogica che nessun fondamento statico614 potrebbe
manifestare. Il coglimento di questo fondo, che resta radicalmente impensabile, si rivela
disponibile a quella modalità di pensiero non riflessiva che il sentimento dischiude. “È
questa potenza del fondo che l’arte si sforzerà di ridire.”615 Il potere dei poeti, che è
quello dell’arte e quello dell’uomo in quanto poieta è infatti quello di imitare la poesia
della Natura per, scrive Dufrenne, ricondurci “a quanto c’è di elementare negli elementi,
che non richiede una psicoanalisi, Bachelard l’ha capito, ma una fenomenologia
612
Ivi, p. 194.
M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit. p. 145.
614
L’opposizione a quelle che Dufrenne addita come ontoteologie, incapaci di render conto proprio di
questo potere poetico/poetico dell’Essere, è esplicitata e approfondita da Dufrenne nel saggio Pour une
philosophie non théologique che egli aggiunge come prefazione alla seconda edizione de Le poétique.
615
M. Dufrenne, Inventare des a priori, cit. p. 71.
613
205
dell’apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento irresistibile dell’apparizione,
l’insistenza dell’essere.”616 Tutta la pratica artistica, e con essa la pratica umana in senso
ampio, sfuggendo ad ogni possibile sistematizzazione, è allora testimonianza incarnata
di questa risalita costante verso l’originario che Dufrenne terrà ferma fino alla sua
ultima opera in cui leggeremo: “Le arti, forse, vivono proprio del tentativo di
completare questo movimento di avvicinamento.”617 La Natura come fondo genealogico
è quindi la sorgente inesauribile di tutta l’infinità non categorizzabile di possibili che
costituiscono il nostro mondo. Sono grandi immagini quasi archetipiche618 disponibili
per essere colte e dette al modo dell’arte, la quale risponde al linguaggio della Natura
stessa. Linguaggio in cui la potenza espressiva rimane in funzione, non ancora appiattita
dalla prosa informativa della scienza e della tecnica. È infatti il linguaggio, e quello
dell’arte e della poesia in particolare, “lo strumento dello scambio dell’uomo con
l’uomo e dell’uomo con se stesso” ma soprattutto “dell’uomo con il mondo, attraverso
la mediazione del segno analoga a quella dell’a priori che, insieme soggettivo e
oggettivo, è come un termine medio tra l’uomo e il mondo.”619 L’arte, il linguaggio del
poeta, l’espressione creatrice che abita il fare artistico, è allora il luogo in cui è data la
possibilità dell’apparizione di questa Natura madre, originaria e vitale, “infinita potenza
di Gaia sempre gravida di vita.”620
È in questo senso che Dufrenne può indicare nella Natura il luogo dell’a priori
primigenio all’interno del quale, quindi, “Il poetico può rivendicare di essere l’a priori
degli a priori estetici”621, in cui si radica la categoria che esprime il fondo, l’origine di
tutte le categorie affettive manifestabili dall’arte.
L’arte è allora quel luogo in cui il fare dell’uomo si rivela e conferma come quella
pratica che, proprio attraverso l’uomo, rinvia ad un poiein originario nel quale egli si
radica ed iscrive. Come categoria originaria dell’estetico il poetico dice molto più di
quanto l’estetica richiederebbe: esso conduce in un ambito nel quale la filosofia
616
Ibidem.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 34.
618
Cfr. E. Franzini, op. cit., p. 378.
619
M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 71.
620
E. Franzini, op. cit., p. 379.
621
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 181.
617
206
dell’azione diventa centrale, rappresentando una soglia non trascurabile tra estetica ed
etica, che per questo autore è subito anche politica. Soglia che tutto il percorso di
Dufrenne ha sempre frequentato con interesse e costanza. Con l’arte intesa come poiein,
e con il contesto genealogico nel quale la Natura la inserisce, si rende esplicita, infatti,
una lettura del fare umano come creativo ed irriducibile a qualcosa come un’esatta
realizzazione di un programma precedentemente scritto.622 L’abbiamo già visto
considerando la verità con cui il soggetto è in relazione, verità che si è confermata
percettiva e in costruzione; lo rivediamo con ancora maggior forza a questo punto,
riconoscendo alla dimensione pratica dischiusa dall’estetica una potenziale apertura
politica. Questa apertura è una sorta di punto di riferimento costante per l’autore, anche
quando le sue indagini sembrano focalizzate su aree differenti.623 È l’azione in generale,
non solo quella artistica, ad essere irriducibile ad ogni forma di sistema testimoniando
invece, ogni volta, un potere di avvicinamento all’originario che è anche riscoperta del
proprio potenziale essere naturante, quindi creativo, quindi sempre potenzialmente
aperto all’utopia, “poiché si tratta sempre, per l’individuo come per il gruppo, di
ritrovare il naturante sotto il naturato, cioè sotto ciò che il sistema sociale snatura.”624
Ogni azione creatrice in senso artistico o non conformista in senso sociale è
potenza poetica che spinge verso l’originario.625 L’originario diventa allora anche il
corrispettivo di una sorta di immaginario che attiva il desiderio del nuovo, artistico e
622
Su questo piano si inserisce anche la caratterizzazione che, proprio attraverso poetico e poesia,
Dufrenne offre della filosofia. La poesia infatti, nel suo legame con la Natura, si mostra come
l’espressione di un’esperienza che sfugge ogni riferimento a un sistema, anzi che è essa stessa ogni volta
la sua propria rivelazione. “Et l’on comprend que la philosophie, lorsqu’elle renonce, non pas à la verité,
mais à l’idée d’une vérité dogmatique énonçable, et qu’elle identifie la vérité au mouvement de la
révélation plutôt qu’à son contenu, se tourne vers la poésie. Il faut en effet d’abord comprendre la poésie
à partir de la philosophie, même si la poésie n’est pas philosophique, même si le poète ne sait pas qu’il est
animé par un dessin comparable à celui du philosophe et qui prolonge la philosophie.” (M. Dufrenne, La
notion d’a priori, cit. p. 286)
623
Dufrenne esplicita questo aspetto ad esempio in Jalons quando riconosce a Sartre, con ammirazione, il
fatto di aver manifestato con chiarezza l’inseparabilità di una filosofia autentica da una politica.
624
M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 316.
625
Resta il fatto, per Dufrenne poco felice, che la vocazione del soggetto suo contemporaneo sembra
piuttosto quella di allontanarsi dai luoghi oscuri dell’origine, per affermarsi “en maitrisant l’objectivité
par le savoir et la technique. En sacrifiant l’imaginaire au bénéfice d’une réalité décantée et manipulable.
Regardez nos dirigeants: jamais l’imagination n’a été si loin du pouvoir. Jamais aussi une civilisation n’a
autant ressemblé à un termitière. Peut être la praxis exige-t-elle pour son contenu cette sinistre ascèse.
Mais pour ses motivations? Peut-être la praxis, et singulièrement la praxis politique, serait-elle plus
efficace, moins morne en tout cas, si elle était animée par le rêve, ou par l’espérance. C’est peut-être, dans
ce peuple de fourmis, ce qui privilégie ancore les savants: ils inventent, et pour inventer ils imaginent
encore.” (M. Dufrenne, L’imaginaire, cit., p. 131.)
207
politico. Gli uomini e le società si reinventano costantemente all’interno di pratiche mai
del tutto riconducibili a un modello; ogni arte (politica) è priva di sapere e saper fare
che possano regolarla, ma si basa soltanto su un’inesauribile potenza inventiva e, come
conclude L’inventaire des a priori:
Bisogna che intervenga l’immaginario per ‘rinaturare’ il reale restituendogli
l’aura di cui lo spoglia la rappresentazione; bisogna che il sentimento ci renda
sensibili all’Essere bruto come focolare dei possibili: bisogna infine che gli a
priori specifici del sentimento ci aprano alle qualità affettive attraverso le quali
questo Essere si lascia presentire. Una filosofia dell’azione si appella a una
filosofia della Natura.626
Parlando della pratica artistica Dufrenne parla allora anche, sempre, della pratica
politica. La loro analogia si basa proprio su quello che è stato chiamato “le risque de
l’inconnu”627 sul cui terreno le due pratiche si ricongiungono, proprio per il tentativo di
ridire quella potenza del fondo che abbiamo individuato. La figura dell’azione si
conferma allora quale segno sotto cui raccogliere l’arte e con essa la politica, attraverso
l’invenzione della vita e delle istituzioni: “la socialité a son fondement dans l’humanité,
et l’humanité dans la Nature. C’est l’expérience apriorique de ce fondement qui s’opère
dans la pratique utopique, quand le désir d’une société autre ranime l’expérience d’une
socialità originaire.”628 Etico, politico ed artistico attingono tutto il loro senso da questo
comune riferimento alla pratica, che a sua volta si richiama al naturante della Natura e a
tutto il virtuale629 e il possibile di cui essa è feconda.
Nell’avvicinamento della pratica artistica a quella politica che la teoria della Natura
consente a Dufrenne si può inserire, al fine di illustrarne ancora meglio le funzioni, una
terza esperienza differente, sulla quale Dufrenne torna in modi e momenti diversi. Si
tratta dell’esperienza del gioco. Il gioco umano ha per Dufrenne un senso profondo,
nella misura in cui con esso l’uomo imita il gioco della Natura, “il devient surhomme en
626
Ivi, p. 316.
Maryvonne Saison, Le matérialisme poétique et la puissance du fond, cit., p. 237.
628
M. Dufrenne, L’inventaire des a priori, cit. p. 313.
629
Il virtuale si rivelerà categoria fondamentale all’interno dell’ultima opera di Dufrenne che, come
vedremo, rappresenta un densissimo punto d’approdo e di rilanciamento per quanto esplorato sin qui.
627
208
se laissant porter par la volontà de puissance qui le traverse, en mimant l’innocence et la
liberté de la vie.”630 È nel gioco che si può intravedere la figura che rende conto di quel
legame con l’irreale che per Dufrenne caratterizza la pratica artistica come quella
politica; legame creativo, innovativo e sempre rinnovantesi.
La Nature n’est pas le réel, lêtre reduit à sa plus simple expression par une
pensée laborieuse et désenchantée, elle est la mère des possibles, de l’irréel
comme du réel, de l’imaginaire comme des images par quoi elle se revèle. Ainsi
l’homme qui joue avec le possible se dispose-t-il à pressentir la Nature.631
L’esperienza del gioco è una forma di esperienza senza concetto dove il
simbolismo dinamico di possibile e reale si manifesta con tutta la sua potenza nelle
manifestazioni della fantasia e dell’immaginario.632
È proprio il ruolo dell’immaginario, allora, quello che aiuta meglio a cogliere tanto
la Natura simbolizzata nel gioco quanto il fatto che questo gioco sia, innanzitutto ma
non solo, una questione di pertinenza dell’arte. Di fronte immagini, colte come
apparizioni della Natura prima e più che prodotti della ragione, il giocatore, cioè colui
che non rifuta di lasciarsi giocare633, sa cogliere l’evento prima del fatto naturato; sa
rapportarsi ad esso senza cedere alla tentazione, che invece appartiene all’uomo di
scienza e all’uomo comune, di cercare di interpretarle come effetti o come segni
incatenati al mondo della realtà. Il gioco condivide e mostra quella forza dell’arte che
abbiamo già visto essere imitazione dell’aspetto naturante della Natura, indifferente alle
sue già naturate individuazioni. Nelle immagini dell’arte e del gioco634 la Natura si
rivela doppiamente, “comme force du possible, comme éclat de l’apparaître.”635
630
M. Dufrenne, Le jeu et l’imaginaire, cit. p. 148.
Ibidem.
632
Il riferimento neanche troppo implicito di queste righe di Dufrenne è a Nietzsche, utilizzato però in
forma forse più suggestiva che sostanziale. È il personaggio di Dioniso, con le caratteristiche di libertà
che lo definiscono, a rappresentare il punto di contatto. Azione e passione diventano forme di quella
duplicità della Natura su cui Dufrenne sta insistendo, e il gioco del culto è per lui esempio efficace di
questa ambivalenza che lega il giocatore alla sua origine, il giocatore che sa di essere giocato “et tant pis
s’il est pris au piège, s’il est dechiré par les Ménades!” (Ivi, p. 149.)
633
“Farsi giocare” in francese ha un senso simile al nostro “lasciarsi prendere in giro”, ma senza la
componente di inganno e malignità che l’espressione italiana in qualche modo conserva.
634
La conclusione cui Dufrenne mira nell’accostare arte e gioco va oltre il piano del nostro discorso,
arrivando ad investire un ambito esistenziale ed etico che egli ritrova nel contesto del lavoro. Se il gioco
rappresenta quell’attività libera con cui, come nell’arte, l’uomo può riavvicinarsi alla Natura nella sua
potenza, Dufrenne si chiede se noi siamo ancora capaci di giocare. Noi intesi come l’uomo
631
209
Sotto questo segno si raccoglie di nuovo il poetico, tanto come forma di vita che
appartiene all’uomo – esercitata nell’arte, nel gioco, nella politica – quanto come
categoria estetica che, affondando in quell’humus originario che è la Natura, è
condizione di possibilità di ogni altra categoria estetica.
3.4 Materialismo poetico e trascendentale
In questa visione mitica e quasi romantica della Natura, che non a caso ha attirato a
Dufrenne alcune critiche636, restano ben radicati alcuni degli elementi chiave
dell’itinerario di pensiero di Dufrenne. Due in particolare rappresentano punti essenziali
e di rilievo del suo percorso.
contemporaneo, che lui ipotizza sconfitto da quelle che sembrano le nostre vittorie, e dal culto del lavoro.
Nel lavoro che diventa un fine e non un mezzo, nell’alienazione del lavoro forzato (“et il ne l’est pas
qu’au bagne”), l’uomo richiude la porta dei sogni e di se stesso, prendendo le distanze dal potere del
fondo in cui, solo, egli potrebbe trovare la propria forza vitale. Le domande che chiudono la riflessione
sono dense di suggestioni, strettamente legate all’aspetto politico che abbiamo richiamato più sopra, che
vale la pena citare proprio perché caratterizzano l’uomo Dufrenne oltre che il filosofo: “Et sans doute
l’homme ne devient-il adulte qu’en se soumettant au principe de realité. Mais lui faut-il pour autant faire
son deuil de l’imaginaire et renoncer au jeu? Ne peut-on concevoir un travail qui serait jeu en même
temps? L’artiste et le philosophe ont-ils le monopole de ce travail? Mais que devrait être une société pour
que le travail de tous y soit jeu? Ne faudrait-il pas que la révolution y soit permanente? Et la révolution
elle-même, pour préserver le jeu, peut-elle, doit-elle être jeu?” (Ivi, p. 150)
635
Ivi, p. 149.
636
Lo stato poetico descritto da Dufrenne è stato indicato come ispirato da un’idea di poesia “che sembra
giustificata da una buona parte della poesia romantica” ma che è “difficile mantenere universalmente” (E.
Casey, Le poétique, in “Revue d’esthétique”, 1966, n. 4, p. 318). Franzini stesso, che di Dufrenne si è
occupato in Italia in modo specifico e quasi solitario, fa notare che: “Vi è nella Natura una dialettica che,
dopo Feuerbach e Marx, non è riducibile alla sua romantica ‘poeticità’ o agli impulsi desideranti del
surrealismo di Eluard. E vi sono nella poesia concetti, costruzioni, vera dialetticità con la filosofia che la
Natura, naturante o naturata, rischia di portare, come accade anche in Maritain, su un piano mistico,
confuso, inavvicinabile per il pensiero ed afferrabile da un sentimento che è in realtà vaga emozione
senza un oggetto preciso.” (op. cit., p. 382) Un’altra delle debolezze imputabili al pensiero dell’originario
di Dufrenne è stata sottolineata da M. Carbone che di Dufrenne scrive: “a ragione questi insiste
sull’impossibilità di riattingere l’originario allorché l’intende quale ‘originario assoluto’ situato ‘al di qua
della sua esplosione’ e quindi del pensiero e del linguaggio – un originario inevitabilmente posto a tergo
come immediato irrimediabilmente perduto – ma finisce così per connotare quell’esplosione quale
seconda anziché coessenziale all’originario stesso – l’originario non è tale se non esplodendo – e per
gettare perciò sul pensiero e sul linguaggio un’ipoteca non emendabile quanto al pensarlo e al parlarne.”
(M. Carbone, Il sensibile e l’eccedente, cit. p. 136.)
210
Il primo è quello che possiamo considerare una forma di materialismo, poetico e
trascendentale, e che rappresenta uno dei punti più fecondi dei contributi di Dufrenne.
Nella visione della Natura come natura naturante, infatti, e nel suo correlato
poetico, si radica da una parte l’affermazione di un materialismo, come ciò che rinvia
alla natura, e, dall’altra parte, il rifiuto assoluto di ogni forma di naturalismo. Proprio la
natura, che è sempre poetica perché sempre naturante, incarna questa esigenza basilare
nel percorso di Dufrenne.637 Tutta la fenomenologia di Dufrenne è infatti basata su un
assunto materialistico che si traduce in quella cui lui si riferisce sempre come ad una
filosofia della presenza, presenza intesa, come è stato ben sintetizzato, come il porsi hic
et nunc del reale prodigo e imprevedibile, dono che non implica donatore, che non
richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell’uomo che abita questa
potenza.638 L’invocazione della Natura, all’ombra della presenza, assume un insieme di
significati che Dufrenne riassume suggerendo che forse non è senza importanza che una
filosofia della Natura – “de l’étant qui s’exprime” – dalla quale scaturiscono sia
un’Estetica che un’Etica si opponga a una filosofia dell’Essere, “qui est une philosophie
du Neutre”. Con la filosofia della Natura quello che viene caratterizzato in modo
specifico e importante è il soggetto, il quale esiste come trascendentale, ma
profondamente radicato nel mondo: “comme réciproque du monde et capable de le
produire à la coscience, parce que en même temps il est au monde, parce que il y a un
fait de son être-là.”639 Dufrenne si mantiene così ben a distanza tanto dal naturalismo
quanto dall’empirismo:
Si le sujet est constitué, c’est par le trascendental: il n’est pas le résultat d’une
histoire, et l’histoire ne peut che faire apparaître ce transcendental. Autrement
dit, c’est le transcendental qui est un fait, un fait premier sur lequel se fonde
l’histoire des rapports de l’homme et du monde: par nature l’homme est accordé
au monde, il connaît quelque chose du monde, le monde qu’il révèle se révèle
comme ce qu’il connaît.640
637
Tanto che Maryvonne Saison è arrivata ad indicare proprio in questa teoria il nodo indispensabile per
la comprensione del pensiero di Dufrenne sia in direzione retrospettiva che nei confronti dei lavori
successivi al 1963.
638
E. Franzini, op. cit., p. 382.
639
M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 276.
640
Ibidem.
211
Il secondo risvolto di questa filosofia della Natura è il difficile concetto di a priori
applicato all’esperienza poetica. Questa idea rappresenta per Dufrenne il cardine di uno
dei suoi interessi principali, articolato nei due punti inseparabili del lato dell’oggetto e
di quello del soggetto. Nel primo il senso eccede sempre le sue differenti incarnazioni,
che sono solo alcune reali di tutte quelle possibili. Dal lato del soggetto, ugualmente, vi
è sempre, sul piano dell’espressività, un’eccedenza rispetto a qualsiasi discorso logico
che volesse metterla a punto. Al di là, o meglio al di qua, come ha fatto giustamente
presente Paul Ricouer,641 di questa separazione “Mikel cherchait à rejoindre ce lieu
d’émergence, source des deux faces de l’a priori, ce nexus primordial entre l’homme et
le monde, cette affinità qu’il célébrait sous le nom de Nature.”642 Su questo concetto di
a priori che Dufrenne rilegge in chiave poetica, materiale ed esistenziale, si potrebbe
insistere senza mai esaurirlo. Il contributo fondamentale, tuttavia, e l’impostazione che
lo rende efficace al nostro percorso, riguardano il proposito essenziale che anima
l’autore e che consiste nel deformalizzare quell’a priori che da Kant abita la filosofia
occidentale per riafferrarne invece il carattere non logico di struttura intramondana che
solo l’esperienza e la vita possono trasmettere. È quanto la dinamica della Natura
naturante come egli la rivisita mette in scena: l’assenza di una dipendenza dell’a priori
dall’esperienza ma anche, al contempo, il suo esser privo di ogni primato nei suoi
confronti.
Con il poetico quale a priori di ogni a priori estetico emerge un’opposizione
essenziale. Il carattere poetico della Natura naturante, infatti, oppone la posizione di
Dufrenne a ogni forma di strutturalismo e neopositivismo scientifico. A questa
opposizione era dedicato in particolare Pour l’homme che mira proprio alla messa in
discussione del materialismo scientifico e di ogni discorso strutturalista. Tale lavoro,
apparso senza grande successo nel 1968, segna proprio l’inizio di quella opposizione,
che Dufrenne ha poi coltivato per tutta la vita, nei confronti della natura proposta dallo
strutturalismo nella quale si dissolve, a parere di Dufrenne, la storia concreta e del
641
642
P. Ricouer, In memoriam Mikel Dufrenne, in “Revue d’esthétique”, 1996, n. 30, p.13.
Ibidem.
212
singolo individuo. Con Pour l’homme compare invece quella alternativa concezione del
materialismo su cui l’autore ha continuato ad insistere successivamente, secondo la
quale il terreno stesso della filosofia è da ricostruire sulla base di una centralità
dell’uomo come oggetto per eccellenza e solo oggetto che non può mai essere oggetto.
È l’uomo in quanto uomo che apre il mondo intero alla filosofia:
La philosophie n’exige pas que l’homme soit mis entre parnthèse, ou pacé au
service de quelque insane transcendante, et par exemple de la philosophie ellemême. Au contraire la philosophie ne garde son sens que si elle est le discours
d’un homme qui s’addresse à des hommes et leur parle du monde et de
l’homme.643
Ribadendo il ruolo e le possibilità della filosofia Dufrenne sta però soprattutto
ribadendo il ruolo e le possibilità dell’uomo; è proprio la soggettività “dans sa relation
au système”644 l’elemento che continua a rappresentare un problema per lui e che egli si
sente costantemente chiamato a rivedere e ricomprendere.
Senza scivolare neppure nel rischioso contraltare di sogiologismo o empirismo,
Dufrenne tiene fermo un costante obiettivo polemico: quel logocentrismo scientifico
che, dimentico del potere originario della parola poetica, pretende di identificare e
strutturare il reale secondo le proprie regole, all’interno di un universo chiuso che esso
stesso ha costruito. Il naturalismo del poeta è invece quella capacità di riaffondare nella
potenza del reale, per attingere innanzitutto e per lo più alla dimensione naturante della
Natura. Il privilegio che comunemente si accorda alla scienza deve restare immune da
una confusione letale: “il n’autorise pas la confusion du monde scientifique et de
l’univers, même si la science appelle univers le monde qu’elle élabore.”645 Per quanto la
scienza abbia presa sul reale, di esso controllerà sempre e solo una porzione definita, già
decontestualizzata e astratta dal fondo di potenza che invece la Natura apre, incarna e
rende possibile. Il reale dischiuso dalla scienza è contemporaneamente il più vicino e il
più lontano, il che non assicura affatto una reale conoscenza: “il est le monde de l’êtreau-monde, ce dans quoi on est – et la science aussi est au monde – et qui, précisément
643
M. Dufrenne, Pour l’homme, cit. p. 122-123.
Ivi, p. 123.
645
M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 244.
644
213
parce qu’on est dedans, est toujours au-dehors.”646 La rappresentazione del mondo come
universo della scienza è allora proprio una rappresentazione perché esso non si dona
affatto come tale. “Le monde scientifique représente un effort pour traduire le monde en
univers, et c’est sa dignità, mais il n’est ni l’un ni l’autre, car le monde est donné en
deça dans les mondes, et l’univers comme verité du monde est toujours au delà.”647
Contrapporre il poetico della Natura al logocentrismo della scienza, e farlo su base
estetica, conduce quindi a caratterizzare anche il rapporto percettivo con il reale in
termini che vanno sempre rivisti e di cui è necessario render conto. Infatti, quello cui la
percezione ha accesso è quella porzione possibile di reale, ma la percezione ne coglie
anche la plénitude, che tuttavia si prospetta solo in forma di sentimento, “c’est-à-dire en
intension plutôt qu’en estension.”648 E in questo senso la percezione avrà sempre
accesso a un mondo e mai a il mondo.
Questa caratterizzazione del rapporto con il mondo sotto l’egida del possibile si
ammanta di una forma di apparente ambiguità, ma quello che viene in evidenza e che
per Dufrenne rappresenta uno degli snodi più fecondi parte proprio da qui: da questo
soggetto inteso come partecipante a una potenza di fondo di cui egli è depositario
privilegiato. Con tutte le ombre e le sfumature che un reale inteso “solo” come possibile
può comportare, si sottolinea però come ha scritto bene Ricoeur che “l’homme fait jeu
égal avec le monde” e che i due opposti sono legati da una forma di legame paritario di
cui Dufrenne parla esplicitamente in termini di ‘affinità’. Concetto apparentemente
sfuocato, l’affinità è invece altamente funzionale alla descrizione di un rapporto che per
Dufrenne sfugge completamente ogni logica, ogni dialettica e ogni sistema. Il
trascendentale stesso si configura come un fatto, e un fatto principale, come abbiamo
già visto, “sur le quel se fonde l’histoire des rapports de l’homme et du monde.”649
In questa affinità si radica un rapporto a priori con il mondo che qualifica
contemporaneamente l’oggetto e il soggetto. L’a priori che Dufrenne vuole mettere a
fuoco è una forma relazionale implicata dalla nozione di intenzionalità. “La rélation
entre le sujet et l’objet que dénote cette notion”, infatti, non presuppone solo che il
646
Ibidem.
Ibidem.
648
Ibidem.
649
Ivi, p. 276.
647
214
soggetto si apra all’oggetto, “ou se transcende vers lui, mais ancore que quelque chose
de l’objet soit présent au sujet avant toute expérience, et qu’en rétour quelque chose du
sujet appartienne à la structure de l’objet antérieurement à tout projet du sujet.”650
Chiamato in causa proprio dalla teoria dell’intenzionalità, l’a priori serve ad indicare
quella forma di comunione e comunicazione tra l’uomo e il mondo in quanto soggetti e
oggetti incarnati, presenti, possibili e reali e non in quanto elementi teorici utili a
descrivere relazioni logiche. E se il mondo e il soggetto non sono estranei, come
abbiamo visto, alla dimensione del possibile e del poetico, non lo sarà neppure la
relazione dell’a priori che li lega. Se il possibile è potenza del reale, si ‘possibilizza’
anche l’a priori, che non sarà più struttura teorica indefinibile, ma variegata struttura
dell’esistente e dell’affettivo, “dans la mesure où il est constituant de certains objets ou
de certains mondes”, ma anche altrettanto nella misura in cui “il appartient au sujet et le
constitue comme transcendental.”651 La percezione del mondo, frammista di sentimento
e inerente un contesto precategoriale, dischiude quindi l’accesso a qualità materiali che
appartengono agli oggetti, in particolare estetici, costituendone la struttura espressiva.
Queste qualità sono a priori materiali, non formali come li avrebbe voluti Kant, che
ineriscono al sentimento e all’espressività dell’oggetto e che esprimono ‘dall’interno’ il
mondo affettivo del soggetto e dell’oggetto, radicandosi in essi come loro strutture
costitutive. La possibilità dell’esperienza esula allora da qualsiasi apparato logico di un
a priori puramente formale, per radicarsi invece in un a priori materiale (nel senso di
Husserl e Scheler) “che è insieme nel soggetto e nell’oggetto e che, in virtù di questa
duplicità, permette l’apertura dell’uomo al mondo e del mondo all’uomo come catena
infinita di possibilità.” 652
Così, ed è quello che a noi interessa maggiormente recepire e mettere in luce, a
costo di tralasciare altri aspetti non meno importanti ma qui meno essenziali della teoria
dufrenniana degli a priori, intenzionalità e a priori arrivano ad illuminarsi a vicenda
proprio sulla base della ineludibile e inesauribile storia di relazioni tra l’uomo e il
mondo.
650
M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 60.
M. Dufrenne, La notion d’a priori, cit. p. 245.
652
Cfr. E. Franzini, op. cit., p. 373.
651
215
L’intentionnalité signifie donc que l’homme et le monde sont de la même race:
la communication qu’elle con note se fonde sur une communauté. Elle a ainsi
un sens ontologique, mais sans autoriser pour autant une ontologie, car elle
n’implique pas nécessairement l’idée de l’Être comme d’une instance
transcendante, d’un sens dont l’objet et le sujet seraient les phénomènes; elle
suggère plutôt que le sujet et l’objet, parce qu’ils restent distincts au sein même
de leur rapport et pour pouvoir le contracter, ne peuvent être subordonnés à un
principe supérieur: la totalità qu’ils forment en vertu de leur affinità ne les
engendre pas, le dualisme ne peut être résorbé dans un monismo, dialectique ou
non. L’homme est au monde comme dans sa patrie, mais il n’y est pas comme
un objet parmi d’autres; de même que l’objet esthétique est à la fois en-soi et
pour-nous, le monde est pour lui et il est pour le monde: c’est parce qu’il est en
quelque sorte égal au monde qu’il est aussi dans la vérité.653
Questa unità apriorica e intenzionalmente precategoriale dell’uomo e del mondo, la
quale si lascia mettere a fuoco al livello di un sentimento percettivo e immaginativo, è
quel superamento del dualismo che Dufrenne ha sempre di mira. Superamento che
avviene dunque al livello del sentimento il quale si lascia suscitare e trasmettere, nella
sua unità, proprio dalla parola poetica o da quella pratica umana che ne raccoglie le
caratteristiche poietiche.654
In questo a priori definito sì in termini materiali ma, elemento ancor più
importante, in termini relazionali, si situa uno degli snodi più densi del percorso di
Dufrenne. La sua ricerca di fondamento dell’uomo, benché a tratti indecisa tra
un’ontologia molto lontana dalla fenomenologia e interessi di stampo prettamente
antropologico, ha in questo punto uno dei suoi fondamenti essenziali. Il fondamento
stesso, l’origine, l’essere stesso forse, ma lo vedremo di nuovo più avanti, non sono da
ricercare né nella apparente fissità del mondo degli oggetti né nell’Io del soggetto che li
esperisce, costituisce o quant’altro. Al contrario, e in questo risiede il senso ontologico
dell’intenzionalità e del rapporto di affinità apriorica che lega oggetto e soggetto, il
fondamento risiede propriamente nella relazione: “le fondement n’est ni le monde ni le
sujet, il est l’accord de l’homme et du monde.”655
653
M. Dufrenne, Intentionnalité et esthétique, cit., p. 61 (corsivo mio).
Si può allora capire perchè Levinas, commentando proprio questo materialismo trascendentale, sia
giunto a scrivere che “tout ce matérialisme transcendental n’est pas très matérialiste!” (E. Levinas, En
découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris p. 186.)
655
M. Dufrenne, Jalons, cit., p. 211.
654
216
Sulla base di quanto visto fin qui si tratta ora di capire quali sviluppi abbia avuto la
ricerca di Dufrenne e in quale direzione pieghi dunque la nostra. L’ambito di
riferimento sembra infatti caratterizzato secondo un’indagine di stampo ontologico ma
proprio su questo punto è necessario soffermarsi. È davvero un’interrogazione
dell’Essere quella che si è andata delineando? La proposta di Dufrenne, o il lato di essa
che ci interessa di più, sembra invece aprire in un’altra direzione. Direzione che
diventerà più chiara seguendo il suo ultimo lavoro, L’oeil et l’oreille. Molto più che a
una teoria dell’essere, infatti, l’indagine di Dufrenne si è orientata a una messa a fuoco
e messa in discussione del rapporto intenzionale tra l’uomo e il mondo perché se di un
essere si può parlare è per lui solo sulla base di questa relazione. L’ontologia di
Dufrenne raccoglie ed esaspera i caratteri antropologici ed esistenziali che già
l’ontologia di Merleau-Ponty aveva manifestato. L’obiettivo principale e condiviso
riguarda l’annullamento dell’alternativa tra soggetto e oggetto al fine di risalirne
all’indistinzione originaria che, benché sfugga sempre necessariamente a un suo
completo coglimento, rappresenta quella profondità inesauribile che sola può illuminare
il nostro rapporto con il mondo. Con Dufrenne questo obiettivo risulta potenziato, e
tutto il suo lavoro, in particolare nelle ultime opere, si concentra proprio sull’infinità
delle articolazioni di questo rapporto. “Du fond comme tel, nous ne pouvons rien dire
que sa métamorphose dans les figures avec lesquelles nous co-naissons.”656 Queste
figure che aprono il contatto con il fondo sono quelle dell’arte, la sola che può
manifestare l’originaria potenza poetica, ma più importante ancora è proprio che il
fondo come tale sia inafferrabile e che di esso si possa parlare solo in figura: proprio il
ricorso a figure, infatti, intese come immagini ma anche come metodologia filosofica,
costella tutto il procedere di Dufrenne. E persino l’Essere e l’ontologia che una parte
della sua meditazione sembra perseguire sembrano prestarsi in parte a questa lettura.
Che il percorso di Dufrenne sembri ontologico è quasi più una conseguenza formale,
animata dalla mira originaria che lo anima, che non un’istanza teorica. La
fenomenologia di Dufrenne diventa ontologia se e perché dalla percezione passa alla
vita intenzionale, sua base e fondamento: “Ainsi la phénoménologie est nécessairement
656
M. Dufrenne, Vers l’originaire…, cit. p. 98.
217
phénoménologie de la perception. Quand elle se fait phénoménologie de la
phénoménologie, quand elle s’interroge sur l’être de la vie intentionnelle à quoi elle se
découvre liée, elle devient ontologie.”657
Se c’è ricerca di fondamento ontologico allora, è nel senso di una ricerca molto più
orientata all’uomo che all’Essere, e il carattere poetico della Natura è proprio su questo
che in fondo insiste. “Le fondement, ce serait la Nature, non pas la Nature en-soi qui ne
porte pas le sens dont la science décide, mais la Nature dans son mouvement vers
l’homme, à la fois perçue et percevante, s’exprimant dans l’homme et par l’homme.”658
657
658
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 216.
Ivi, p. 217.
218
CAPITOLO 4:
L’OCCHIO E L’ORECCHIO
4.1 Il pittore e il soggetto sinestetico
L’opposizione, che abbiamo incontrato a più riprese, al pensiero riflessivo e al
naturalismo chiuso della scienza, con il suo logocentrismo che universalizza il mondo
senza poterne mettere a fuoco la componente poetica e potenziale, appartiene
fisiologicamente a tutta la tradizione fenomenologica, in Francia in particolare.
L’originarietà della vita percettiva configura tanto la descrizione dell’umano quanto una
riconsiderazione polemica, presente in Dufrenne quanto in Merleau-Ponty, della verità
scientifica e dell’atteggiamento che la consente. Recuperare il valore fungente
dell’operatività percettiva del corpo, accanto a quelli che sembrano sistemi incrollabili
di certezze scientifiche, significa ricollocare tutto l’umano su tale livello e riconoscere
quanto più problematico risulti quindi l’accesso alle strutture che lo regolano. Significa
inoltre configurare la verità, e le possibilità di accedervi, secondo uno schema specifico,
molto lontano dalla tradizione causalistica che, da Aristotele in poi, ha animato la
ricerca filosofica e scientifica occidentale.
Non è un caso, allora, che le due opere più mature e concluse di Dufrenne e di
Merleau-Ponty, L’occhio e l’orecchio e L’occhio e lo spirito, a cui il primo rappresenta
risposta puntuale, aprano considerando l’atteggiamento scientifico, “il pensiero allegro e
improvvisatore della scienza”659, e i meccanismi che esso attua, per opporvi due
proposte affini ma differenti, estremamente rappresentative dei pensieri dei due autori.
Vedremo, e sarà la conclusione del nostro lavoro, come sia proprio la figura della
sinestesia quella cui Dufrenne affida la propria risposta, nel tentativo di problematizzare
659
M. Merelau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 15.
219
il piano estetico e fungente del nostro rapporto intenzionale al mondo ma anche con
l’obiettivo e il risultato di assottigliare le valenze ontologiche di questi temi per
riconfigurarli in un piano innanzitutto antropologico ed esistenziale.
Con il suo ultimo lavoro, Dufrenne sembra raccogliere e radicalizzare una
esortazione presente nelle prime pagine del lavoro del suo maestro: “Bisogna ritrovare il
corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni,
che è un intreccio di visione e movimento.”660 Il corpo che Dufrenne ha di mira, in parte
erede della proposta merlaupontiana, è un fascio ancor più complesso: “L’oeil oui, mais
pourquoi pas l’oreille, aussi bien la main?”661 Un intreccio sì di visione e movimento
ma ancor più di visione, tattilità e ascolto, un corpo da cui non è estranea neppure la
dimensione verbale.
Commentando esplicitamente lo scritto di Merleau-Ponty, Dufrenne prima e più
ancora di affrontare le complesse questioni teoretiche che lo attraversano,662 si
concentra su quanto va in scena nel titolo. L’occhio e lo spirito, le due entità coordinate,
si rivelano ben presto trattate in modo molto differente all’interno del testo. Se il primo
ritorna costantemente pagina dopo pagina, il secondo è raramente nominato, “car
l’esprit n’est pas un organe comme l’oeil, ni une substance qu’un substantif peut
désigner.”663 Altrove Dufrenne dirà che se Merleau-Ponty non lo nomina anche nel testo
“non è per dimenticanza, bensì perché lo cerca dove esso non ha nome.”664 A suo modo,
è sullo spirito come ‘ordine umano’ che egli vuole insistere, su quella dicotomia tra
pensare e vedere che il testo pontiano e tutta la filosofia di entrambi i filosofi ha
esplorato sistematicamente. Lo spirito è allora il luogo della divisione tra soggetto e
oggetto, che ha luogo nel pensiero; divisione che la visione introduce ma non consuma
del tutto. E proprio su questo dualismo, e sulle sue condizioni di possibilità, indagherà il
660
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 17.
M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, Conferenza tenuta a un Colloque Merleau-Ponty, organizzato
dall’Università di New York a Stony Brook nel 1977, oggi in Esthetique et philosophie, cit. tome 3, p.
101.
662
Autoironico con disarmante serietà, Dufrenne introduce l’argomento così: “Un des derniers textes de
Merleau-Ponty, peut-être le plus beau, dont Sartre a écrit: “Il y a L’oeil et l’esprit qui dit tout, pourvu
qu’on sache le déchiffrer” (Temps modernes, n° Merleau-Ponty, p. 372). Le saurais-je? Plutôt que m’y
risquer, je voudrai principalement commenter le titre même.” (Ibidem.)
663
Ibidem.
664
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 45.
661
220
Dufrenne de L’occhio e l’orecchio, per cercare fin dal corpo stesso e dalle polivalenti
sensibilità che lo costituiscono, l’accesso al mondo precategoriale e preriflessivo.
Se L’occhio e lo spirito ci parla dunque dell’opposizione tra vedere e pensare, “ma
première interrogation porte sur le et. Que signifie cette conjonction?”665 Non un
rapporto dialettico, essendoci solo due termini; ma potrebbe trattarsi di un rapporto di
priorità, come tra causa ed effetto, o persino di un rapporto di complementarità, come
tra la forma e il contenuto? Dufrenne conosce l’opposizione seguita da Merleau-Ponty,
sa in che senso la visione preceda il pensiero. “L’homme voit avant de penser, et sans
doute vient-il à la pensée parce que la vision l’y provoque, ancore que Merleau-Ponty
ne suive pas cet avénement.”666 A questa prima notazione solo lievemente critica
Dufrenne ne aggiunge subito una seconda, che caratterizza la sua posizione lungo tutte
le teorie che abbiamo seguito fin qui. Il passaggio tra la vita irriflessa della visione e
quella del pensiero non ha in Merleau-Ponty alcuna caratterizzazione verbale, mentre
per Dufrenne il contesto del linguaggio resta sempre presente, come la definizione
poetica della Natura lasciava intendere. Questo riferimento al linguaggio, su cui egli
torna lungo i suoi lavoro come ne L’Occhio e l’orecchio, non è in realtà del tutto
articolato con rigorose motivazioni. Sembra più un’esigenza costantemente riproposta,
una consapevolezza ciclicamente mostrata, secondo quel rilancio di prospettive che
caratterizza – positivamente e negativamente – il percorso di questo filosofo.667 Resta
sempre presente, ed è comunque un altro debito nei confronti di Merleau-Ponty, il
linguaggio inteso nel suo senso originario, impegnato ad esprimere al di là delle
significazioni concrete, il nostro contatto muto con le cose, prima che esse siano dette. Il
linguaggio cui Dufrenne vuole dare spazio, tra l’occhio e lo spirito, è quel linguaggio
che la filosofia contemporanea gli ha insegnato essere mediazione.668 Se gli interessa il
linguaggio non è allora perché esso possa suscitare né chiarire il vedere, è piuttosto
665
M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit., p. 97.
Ibidem.
667
È stato già ragionevolmente notato che “Dufrenne è un filosofo, per così dire, sempre in presa diretta,
poco incline, se non addirittura ostile, a ogni forma di decostruzionismo, al quale preferisci sempre e
comunque il rilancio di prospettiva.” (C. Fontana, Prefazione all’edizione italiana de L’occhio e
l’orecchio, cit. p. 19.)
668
“Merleau-Ponty n’invoque pas cette médiation, et c’est là l’ojection principale que lui addresse
par exemple Lyotard.” (M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 98.)
666
221
perché proprio la dinamica linguistica, nelle suo componenti poetiche, gli sembra
comprensibile come un vedere e in questo ulteriormente utile a quella descrizione del
rapporto intenzionale al mondo che egli persegue: “Mais en revanche peut-être le parler
peut-il se comprendre lui-même comme un voir: l’homme parlant est au langage comme
il est au monde, il s’accorde à son épaisseur comme à la chair du sensibile, il le vit en
l’habitant.”669 A questa considerazione del linguaggio Dufrenne resta fedele, tanto che
essa viene riproposta in forma esplicita all’interno de L’occhio e l’orecchio come
strumento utile al chiarimento della relazione che corre tra i sensi e il sensibile, tra
l’uomo e il mondo. Lì Dufrenne instaura una circolarità descrittiva tra il rapporto
intenzionale e il rapporto linguistico tra mondo parlato e uomo parlante che usa in
questo modo:
Certo il linguaggio preesiste all’uomo, la lingua all’individuo; ma è anche
necessario che l’uomo, unico tra i viventi, sia capace di parlare, ed è la sua
parola che anima il linguaggio e ne rivendica la padronanza: egli fa uso del
linguaggio, ci gioca, istituisce dei giochi linguistici. Il suo divenire soggetto
accade nel linguaggio, ma non discende esclusivamente da esso; e il volto che il
mondo assume ai suoi occhi non è interamente determinato dalla lingua che egli
parla; la ligua orienta e sollecita la sua percezione, ma sembra che essa sia, a
sua volta, sollecitata dal percepito, come se le cose e gli eventi del mondo si
nominassero di fronte a lui affinché lui li possa nominare, in maniera tale che,
nella misura in cui la lingua preesiste all’individuo, essa non detenga questa
priorità come un suo peculiare potere, vale a dire in forza del suo essere
culturale, bensì in forza della natura stessa che chiama l’uomo al linguaggio per
riflettersi nella parola dell’uomo; questo però non significa attribuire alla natura
un potere assoluto né rimuovere il soggetto parlante rifiutandogli l’iniziativa
della sua parola. La relazione di uomo e mondo all’interno del linguaggio si
rivela piuttosto una sorta di simbiosi nella quale è impossibile attribuire a uno
dei termini un’anteriorità o una preminenza.670
Questa corrispondenza linguistica, di cui Dufrenne tratta come se non necessitasse
alcuna chiarificazione perché già implicita nella sua impostazione poetica come in
quelle strutture significanti che abbiamo visto incarnate nell’oggetto estetico, viene
inserita nello stesso contesto del rapporto intenzionale che egli sta cercando di chiarire e
che, a suo parere, Merleau-Ponty ha esaurito senza l’apertura definitiva a un piano che
669
670
Ibidem.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 54.
222
esulasse quello delimitato dalla visione. È il suo modo di riportare tutti gli elementi che
lo interessano, compreso quello linguistico ma ancor più quello percettivo, sotto il
segno di quel rapporto affettivo e a priorico al mondo che egli indaga come unitario e
principale. Ne L’occhio e lo spirito questa dimensione non è presente, ma se Dufrenne
ritiene utile inserirla non è per indicare una mancanza, quanto per suggerire un’ipotesi
di ampliamento. La medesima solidarietà tra uomo parlante e mondo parlato unisce,
“senza che si possa scoprire tra di loro un’ineguaglianza”671 i sensi (tutti i sensi, nelle
loro commistioni con la vista) che costituiscono (tutti insieme) il soggetto aprendolo al
mondo e il sensibile che in quanto carne è disponibile per i sensi.
De L’occhio e lo spirito, e più in generale della lezione pontiana, Dufrenne tiene
fermi diversi punti di riferimento, ma più che di binari teorici si tratta di interrogazioni
che ne animano il percorso: il “regime selvaggio” della visione rimane il fondo da
investigare, e il suo correlato – artistico e umano – oggetto della ricerca.
Dell’interrogazione della pittura operata da Merleau-Ponty Dufrenne raccoglie
volentieri l’idea che nella pittura abbia luogo l’esplosione dell’originario, “le
surgissement de l’apparaître”, e che questo éclatement produca un chiasma che a sua
volta va indagato. Nella filosofia di Dufrenne precipita tutto il vigore di questa
interrogazione con il senso e la consapevolezza che proprio l’apparire instauri una
distanza tra l’uomo e le cose, dualismo che simultaneamente viene realizzato, “mais
sans que leur séparation soit jamais radicale”. 672 Che la questione dell’origine sia
ineludibile è certezza che l’ha accompagnato per tutta la vita e che il confronto con
L’occhio e lo spirito non fa che riconfermare; ma la risposta di Merleau-Ponty rimane
ancorata a una forma di certezza ontologica che l’ultimo Dufrenne non può far sua.
La pittura presa di mira da Merleau-Ponty, nella sua adesione quasi totale alla
dimensione del visibile, “risveglia, porta alla sua estrema potenza un delirio che è la
visione stessa, perché vedere è avere a distanza, e la pittura estende questo bizzarro
possesso a tutti gli aspetti dell’Essere”673; essa apre su una trama dell’Essere “di cui i
messaggi sensoriali discreti sono solo le interpunzioni o le cesure, e che l’occhio abita
671
Ibidem.
M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 100.
673
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 23.
672
223
come l’uomo la sua casa.”674 È questa dimensione che invece Dufrenne ha di mira, ed è
il carattere sensoriale di questo messaggio che egli pone a tema poiché, ed è forse qui
uno dei suoi meriti maggiori, la simbolicità della pittura, dell’arte, ma anche
potenzialmente delle cose in generale, non è da cercare in un fondo ontologico
inaccessibile ma nella problematicità stessa nel nostro rapporto, intenzionale e
percettivo, con il mondo. Il soggetto de L’occhio e lo spirito è il pittore, “l’unico ad
avere diritto di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle”, di fronte al quale
perdono il loro potere “le parole d’ordine ‘conoscenza’ e ‘azione’”.675 Per Dufrenne, che
fedelmente persegue, al fine di descriverne una possibile assenza, l’opposizione alle
parole d’ordine di ‘conoscenza’ e ‘azione’, tale soggetto è meno specificamente
caratterizzato. Il soggetto, al di fuori di conoscenza e azione, è innanzitutto, “un oeil et
une oreille qui s’ouvrent, un creux dans le sensibile, où la coleur et le son se
recueillent.”676 Cambia pertanto in modo sostanziale il referente teorico che incarna il
soggetto che si ha di mira e che la definizione di esso come creux, letteralmente ansa,
conca, specifica in maniera estremamente significativa. “À chercher l’esprit comme être
separé, comme âme voltigeante, on ne le trouvera nulle part; mais à chercher l’âme
comme forme du corps, on la trouve.”677 Con L’Occhio e l’orecchio, Dufrenne
radicalizza la sua posizione: se l’arte è utile, lo è come strumento attraverso cui si rende
manifesta quella duplicità essenziale che è innanzitutto nel e dell’uomo in quanto corpo.
Se si vuole interrogare l’originario e le sue manifestazioni sensibili, sarà necessario
svuotarlo di contenuti ontologici perché è su un altro piano che si metterà a fuoco quello
che davvero gli importa. “Trouvez le corps individué, la machine sentante et désirante,
chair co-naturelle à la chair du monde, et vous aurez bientôt l’homme.”678
Si potrebbe addirittura ipotizzare, con sincero timore di eccedere in libertà
interpretativa, che il ruolo che Merleau-Ponty attribuisce alla pittura, e di conseguenza
al pittore, slitti in Dufrenne alla sinestesia, e di conseguenza al soggetto percipiente. Il
soggetto come creux in cui si condensa il sensibile, la sua costitutiva apertura al
possibile, all’immaginario e a quello che vedremo tra poco come virtuale, sembrano i
674
Ivi, p. 24.
Ivi, p. 16.
676
M. Dufrenne, Le jour se lève, in Esthétique et philosophie, cit. tome 3, p. 204.
677
Ivi, p. 205.
678
Ibidem.
675
224
luoghi in cui precipita quello che ne L’occhio e lo spirito era il potere della pittura:
“Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e invisibile: la pittura confonde
tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di
rassomiglianze efficaci, di significazioni mute.”679 Il soggetto della percezione
sinestesica è la proposta dufrenniana per illustrare questo soggetto che non è (ancora)
soggetto grammaticale né soggetto di diritto, il quale vive i paraggi dell’originario e sa
perdersi nell’oggetto “come nel grembo del naturante dal quale non sarebbe ancora
nato.”680 Che di esso Dufrenne arrivi a parlare come di un soggetto che “può anche
essere definito soggetto ontologico” ci spinge ancor più in là nella prospettiva che
abbiamo introdotto: l’accesso all’Essere, qualora esistesse, non è appannaggio di una
pratica artistica, ma diventa con Dufrenne accesso incarnato, vissuto, articolato
nell’infinita dispersione percettiva che è il corpo umano.
I soggetti sinestesici sono come i pittori che, ne L’occhio e lo spirito, hanno
sovente amato raffigurare se stessi nell’atto di dipingere, “aggiungendo a quel che allora
vedevano ciò che le cose vedevano di loro, come a testimoniare che esiste una visione
totale e assoluta, al di fuori della quale niente rimane, e che si richiude su loro stessi.”681
Il soggetto sinestesico sarebbe allora molto meno il pittore che si autoritrae che non il
pittore ritratto, colui che nel suo essere guardato dalle cose all’interno di una visione (e
non è più solo visione) totale si può afferrare solo in figura; colui del quale si può
parlare solo ex post.
È al livello del soggetto sinestesico che si rivela come la genesi del senso solo “à
ras de l’homme”682 possa attivarsi. Il livello originario della sinestesia, così come
Dufrenne lo intende, investe tanto l’attività percipiente del soggetto quanto il suo
apporto immaginativo; su questa duplicità, che benché radicata nel corpo sa
oltrepassarlo, si costruisce il senso del soggetto sinestesico e la sua stretta vicinanza con
il soggetto del pittore che aveva in mente Merleau-Ponty. Quello che Dufrenne ha di
mira, in un’ottica di ripensamento pontiano in grado di esplicitarne il portato universale,
679
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 28.
M. Dufrenne, L’occhio e lo spirito, cit. p. 135.
681
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 28.
682
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208.
680
225
è quella “base di natura disumana su cui l’uomo si colloca”683 e che rappresenta quel
Tutto indivisibile da cui ogni separazione successiva prende avvio. Per renderne conto
sarebbe opportuno mirare al pre-estetico, a quell’unità primordiale che precede la
dispersione percettiva, ma, e Dufrenne ne è più che consapevole: “è il sinestetico e non
il pre-estetico che il pensiero può cogliere.”684
Il soggetto sinestetico è dunque la figura del punto zero in cui la percezione
primordiale si apre e manifesta al quale le cose del mondo si presentano innanzitutto
abitate e vissute e per il quale esse rappresentano il centro da cui i sensi stessi si
irradiano. Nel soggetto sinestetico sembra rivivere con forza e significati precisi quel
pittore incarnato dal Cézanne di Merleau-Ponty: colui che ha sempre voluto “rimettere
l’intelligenza, le scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo che esse
sono destinate a comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienza
‘che ne sono scaturite’.”685 Il soggetto sinestetico è allora colui che vive ciò che il
Cézanne di Merleau-Ponty metteva in arte: la non scelta tra sensazione e pensiero,
l’adesione totale alle cose “dietro l’atmosfera” a un livello primordiale cui tutto il resto
è secondo. Il soggetto sinestetico è colui che vive ciò che nell’arte di Cézanne veniva
evocato, cioè l’ordine nascente delle cose che, da un fondo inarticolato, si coagulano
sotto i nostri occhi. Entrambe le figure pongono a tema le certezze dell’ambiente in cui
viviamo, quelle cose di cui siamo abituati a pensare come necessarie e incrollabili: in
loro si invera quella visione che “va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita.”686
Ecco allora che nel soggetto sinestetico si raccoglie e manifeste di nuovo il senso
espressivo della frequentazione del mondo. Il pittore di Merleau-Ponty “riprende e
converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita
separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”687;
il soggetto sinestetico abita questa vibrazione, è colui nel quale questa genesi stessa ha
realmente e originariamente luogo. Colui del quale la figura del pittore è neccessaria
683
M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 35.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 131.
685
M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 32.
686
Ivi, p. 35.
687
Ivi, p. 36.
684
226
incarnazione seconda, poiché in quanto sinestetico egli non può avere coscienza di
quanto accade. 688
4.2 Il mondo del tangibile
Si esplicita in questa dimensione l’ineludibile valore che con Dufrenne e la sua idea
di sinestesia si attribuisce alla sfera del tangibile. Toccare significa essere prossimi alle
cose, averle intorno, e da queste reciprocamente essere toccati. Il carattere reversibile
della visibilità assume con la dimensione tattile un’estensione in cui si manifesta,
fortificata, la carnalità del mondo e del suo senso. “Così il tangibile riveste i caratteri del
sensibile, sotto gli indici dei quali la carne si esperisce nella presenza.”689 Il tatto è quel
senso cui si presta tradizionalmente minor attenzione, ma che per Dufrenne incarna un
asse fondamentale del rapporto uomo-mondo. Di più, nella dimensione tattile – “dalla
quale, tra l’altro, avremmo potuto cominciare”690 – si raccoglie il senso fondamentale
del rapporto verticale che correla l’uomo e il mondo; rapporto fatto di ombre e
sfumature, di sopravanzamenti che annullano, o quanto meno indeboliscono, la rigidità
di ogni dualismo. Lo abbiamo già visto nel capitolo dedicato alla sensibilité
généralisatrice, ma lo ritroviamo in forma ancora più esplicita nell’ultima opera
dell’autore, a testimonianza di una instancabile forma di interrogazione del reale molto
coerente e decisa, la difesa della tattilità fa parte delle posizioni di Dufrenne lungo tutto
il suo percorso. Ma cosa motiva una tale insistenza?
È nel tatto, secondo Dufrenne, che si manifesta con maggior forza, la dinamica di
scambio e reazione che caratterizza il contatto dell’uomo e del mondo; mondo inteso
come fondo naturale e, nel senso che abbiamo già visto, poetico. Il primato del tatto
688
Cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e…, cit. p. 49. “La visione del pittore non è più uno sguardo su un di
fuori, relazione meramente fisico-ottica col mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione:
è piuttosto il pittore che nasce nelle cose come per concentrazione e venuta a sé del visibile e il quadro,
infine, può rapportarsi a una qualsiasi cosa empirica solo a condizione di essere anzitutto ‘autofigurativo’;
può essere spettacolo di qualche cosa solo essendo ‘spettacolo di niente’, perforando ‘la pelle delle cose’
per mostrare come le cose si fanno cose e il mondo mondo.”
689
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 117.
690
Ivi, p. 114.
227
deriva sì da considerazioni di carattere filogenetico (“per la filogenesi il tatto è
certamente il primo tra i sensi”691), ma rinvia anche a caratteristiche primarie della
frequentazione del mondo:
Essere al mondo significa essere a contatto, cosa tra le cose, toccante e insieme,
toccato. Il tatto è il culmine della prossimità e mi rende prossimo al mondo,
giacchè manifesta al meglio quella reversibilità secondo la quale la mia carne è
innestata sulla carne del mondo: io non tocco le cose se non nella misura in cui
esse mi toccano, ed esse hanno spesso l’iniziativa; mi capita di essere toccato
pur non volendolo, senza nemmeno sentirmi attivamente toccante. Le cose non
sono, dunque, tangibili, se non nella misura in cui lo sono io stesso. Siamo di
sicuro della stessa specie. È proprio da quel fondo di co-naturalità che io
emergo.
E ancora, certo l’ontogenesi stessa riconferma tale primato (“il bambino non è forse
quel tocca-tutto che deve essere costantemente sorvegliato?”692), ma di nuovo non è su
questo piano che a Dufrenne interessa insistere. Il tatto del bambino incarna in maniera
empirica ed esplicita la potenzialità estrema di questo senso: potenzialità che investe il
possedere l’esterno prima e più che il conoscerlo. Nella ricerca di seno da parte del
neonato vi è più la richiesta di un oggetto confortante accanto al nutrimento del latte che
non la semplice soddisfazione di un bisogno specifico. Egli cerca “meno un oggetto da
conoscere che un oggetto da possedere per esserne posseduto, per ritrovare l’estasi.”693
È proprio questo che interessa a Dufrenne, aldilà delle implicazioni infantili: la
caratteristica di estasi e possesso che può riguardare un senso. Il fatto che il senso della
tattilità possa rappresentare anche, accanto ad un organo di esplorazione del mondo
esterno, la soglia di un’interiorizzazione che ingloba l’esterno per esserne a sua volta
inglobato in una dinamica di riconoscimento del mondo ma anche si se stessi. È nel
tatto che si dà la massima possibilità percettiva dell’esperienza di sé. È toccando le cose
che non sono me che posso, mentre ne esperisco le caratteristiche di ruvidità e
consistenza, fare esperienza anche di me: “un me toccante, distinto e insieme solidale
con il me toccato, con il quale si identifica, senza con ciò che si possa dire quale sia
691
Ibidem
Ibidem.
693
Ivi, p. 115.
692
228
l’oggetto per l’altro nella misura in cui il toccare è tanto passione quanto azione, in
maniera tale che l’autoposizione e l’autoaffezione, in questo caso coincidano.”694
Al tatto appartiene quella che Dufrenne chiama una “familiarità congenita”,
descritta in termini di azione spesso inconsapevole svolta dal corpo tutto intero; il tatto
non ha neppure un organo specializzato, investe tutta la superficie dell’organismo, “ed è
appunto quando si evoca tale funzione che è possibile parlare di un corpo senz’organi o
di un corpo tutto organo, tutto aperto al sensibile.”695
Torna nuovamente un parallelismo, che sottolinea una differente posizione, con le
indagini de L’occhio e lo spirito di Merleau-Ponty. Lì, come del resto altrove e sovente
nell’opera del filosofo, la reversibilità e il rapporto attivo-passivo di un senso con le
cose riguardava principalmente la visibilità. È nel mondo della visibilità che egli colloca
in maniera importante sia la reversibilità che il potere delle cose di esercitare un certo
senso su di noi. I pittori che ricorda Merleau-Ponty sono coloro che spesso hanno detto
di sentirsi “guardati dalle cose”696. Ancora, è nel dominio della visibilità che si giocano
alcune delle massime contraddizioni del “tentativo” e del “fallimento” cartesiano.
L’esempio pontiano, che la trattazione del tatto di Dufrenne richiama alla memoria
anche se forse senza rimando esplicito e voluto, è quello dello specchio. Davanti allo
specchio il filosofo avverte tutta la potenza dell’enigma della visione, con la sua
ubiquità e il suo simbolismo. Il cartesiano, al contrario, “non si vede nello specchio,
vede un manichino, un ‘fuori’ e ha tutte le ragioni di pensare che gli altri lo vedano allo
stesso modo, ma questo manichino non è carne, né per lui né per gli altri.”697 Lo
specchio, invece, emblema dello sguardo pre-umano del pittore, è la figura dell’essere
vedente-visibile, perché “esiste una riflessività del sensibile che esso traduce e
raddoppia.”698 Lo specchio di Merleau-Ponty condivide con il tatto di Dufrenne una
forma di magia, esso infatti “è lo strumento di una magia universale che trasforma le
cose in spettacoli e gli spettacoli in cose, me stesso nell’altro e l’altro in me stesso.”699
694
Ivi, p. 114.
Ivi, p. 115.
696
“E André Marchant, dopo Klee: ‘Più volte in una foresta ho sentito che non ero io a guardare la
foresta. Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano…Io ero là, in
ascolto.” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e…, cit. p. 26.)
697
Ivi, p. 30.
698
Ibidem.
699
Ibidem.
695
229
Più difficile ma non impossibile sarebbe però per un cartesiano opporsi alla “magia” del
tatto. Il contrasto però è il medesimo, quello che oppone colui che coglie il rapporto col
reale, sia esso visivo, tattile o sinestetico, come un rapporto problematico e sempre in
fieri a colui che, come ad esempio Cartesio, rifiuta per principio ogni promiscuità tra
visibile e vedente, toccabile e toccante. La concezione carnale che Merleau-Ponty ha
della visibilità e Dufrenne persegue nella tattilità è proprio l’opposto di quel giudizio
che, facendo di ogni dualismo i propri rigidi binari, interpreta con meccanicità il
rapporto del corpo al mondo secondo una schema di riflessi interpretati come effetti
prevedibili e fisiologicamente descrivibili.
È probabilmente ovvio ma bene specificare che né Dufrenne né Merlau-Ponty
immaginano di negare gli aspetti fisici e fisiologici della percezione. Quello che
entrambi questionano, e che per Dufrenne diventa cardine ancora più importante, è la
riduzione di ogni descrizione a questo piano meccanico ed effettuale, tutto concentrato
sugli effetti e totalmente ignaro delle implicazioni umane e metafisiche che il rapporto
uomo-mondo esige. La percezione, per entrambi gli autori, è esperienza molto più densa
e ambigua di quanto il meccanicismo consenta di presupporre e proprio in questa
ambiguità si radicano le caratteristiche dell’umano e del suo senso. In questa ottica,
quello che si dispiega di fronte ai nostri occhi, o per meglio dire intorno ai nostri sensi,
non è mai puramente un oggetto, ma un fondo, e come tale pluridimensionale, verticale,
orizzontale ma anche obliquo, qualcosa che si può indagare seconde le rigide coordinate
di spazio e tempo ma anche, e con non minore efficacia, secondo le prospettive
aconcettuali che di tali coordinate conoscono il punto zero.
Su questa lettura del mondo come fondo prima che come oggetto si concentra,
come abbiamo già visto a più riprese, il percorso filosofico di Dufrenne. Quello che non
abbiamo ancora visto, e che solo ne L’occhio e l’orecchio viene esplicitato in modo
importante, è il distanziamento dell’autore da una lettura di questo fondo in termini
ontologici come vedremo emergere nelle pagine che seguono.
Il mondo come fondo è il mondo del soggetto sinestetico e dell’artista, riappropiato
al di là del suo essere puro Gegen-stand e riconfigurato a partire dal punto zero -di
tempo e di spazio- che solo l’individuo è. Dufrenne parla di mondo del tangibile, per
descrivere con forza le caratteristiche inglobanti di cui è passibile il fondo. Certo, per il
230
vedente che può tenere le cose a distanza questo mondo può rimanere spesso nascosto
sotto il visibile. Ma il tangibile “fa mondo” non meno del visibile, pur rappresentando
questa un’esperienza limite che solo una condizione di cecità consente di comprendere
davvero. Il mondo del tangibile è anzi ancora più simbolico di quella coestensione che
implica carnalmente l’uomo e il mondo. Se la visibilità di principio ha il contraltare di
una notte nera e l’udibilità fa sì che il silenzio appartenga in qualche modo al rumore,
invocare una tangibilità generalizzata di principio induce a riconoscervi l’assenza di
lacune: “Non c’è lacuna nel tessuto del tangibile equivalente al silenzio o alla notte.
Non c’è nulla che sia di diritto intoccabile.”700
Di questa immersione totale nel fondo del mondo il soggetto è protagonista
assoluto e della originaria apertura su questo fondo unico detentore. Di questa sua
caratteristica di originaria apertura creativa l’artista mostra la figura più densa come ha
ben mostrato Merleau-Ponty dedicando alcune delle sue pagine più memorabili proprio
alla descrizione del pittore come “più umano tra gli umani” il cui emblema è uno
“sguardo pre-umano”. Dufrenne conosce il ruolo dell’arte in questa risalita verso
l’originario, ne riconosce il senso e rispetta il ruolo. Non a caso tutto L’occhio e
l’orecchio è un dialogo aperto con le forme d’arte più varie, chiamate in causa a dire il
vero anche quando non sembra essercene ragione assoluta. E anche parlando del tatto
l’autore sceglie di metterlo in relazione con una forma d’arte; ma non lo fa scomodando
la scultura e il piacere tattile, quasi sempre istituzionalmente negato, cui essa a volte ci
chiama. La scelta di Dufrenne è più originale, e significativa. L’arte legata al tatto è
quella pratica che fu arte ai tempi di Ovidio, in un epoca in cui essa (l’arte) “non si era
ancora gelosamente definita per ottenere uno statuto privilegiato.”701 L’autore si sta
riferendo all’erotismo, “un’arte propriamente popolare che non è, grazie a Dio, riservata
a specialisti o a geni, che ciascuno reinventa per proprio conto con esiti più o meno
felici.”702 L’arte erotica è quella forma d’arte che “ha come materia prima la carne”,
intesa in senso propriamente pontiano: “carne di un corpo che è tutto zona erogena,
700
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 116.
Ivi, p. 117.
702
Da distinguere naturalmente dalla pornografia, che al contrario è “sistema di ricette precostituite.”
(Ibidem)
701
231
carne che si esperisce illimitandosi nel dono che offre e insieme che riceve.”703 Intesa
come arte quella dell’erotismo implica e mette in scena in maniera evidente la
spersonalizzazione di cui è passabile il corpo umano, una forma di “reversibilità per
antonomasia”704 che ne investe il corpo nella sua interezza e un sopravanzamento di
attività e passività i cui contorni si disperdono: “infatti la mano o la bocca che si fanno
strumenti della carezza, ispirate (quando quest’ultima non sia il gesto indifferente di una
tecnica professionale) da ciò che le si dona e che le suscita, non si appartengono più, la
loro attività diviene passività e la passione dell’uno suscita quella dell’altro.”705 In
questa dinamica in cui la reversibilità raggiunge il suo apice si intravede, nella
descrizione di Dufrenne, la struttura che caratterizza le interazioni carnali del nostro
corpo con il mondo, fatte di reciprocità, attività che è anche passività e conseguente
riavvicinamento all’originario, “mentre la pelle è ciò che vi è di più profondo, giacché
nutre l’esperienza del fondo nel quale il soggetto si perde.”706 Nel momento in cui il
sensibile giunge a questo suo culmine tangibile esso assurge al livello di sensuale,
“merita di chiamarsi sensuale.”707
Con questa analisi del tangibile relativamente a sensualità ed erotismo Dufrenne sta
dicendo qualcosa di molto più importante che non un semplice riferimento alla sfera
erotica dell’esistenza. Innanzitutto, richiamando il carattere di Arte di questa
dimensione egli prende posizione contro la considerazione dell’arte (pittorica, scultorea
ecc.) come unica depositaria della possibilità dell’uomo di avvicinarsi all’originario.
Richiamado l’erotismo come Arte egli sottolinea la dimensione artistica che sottende la
vita di ogni uomo, a prescindere dal suo essere un artista; egli ribadisce il ruolo della
corporeità, innanzitutto e soprattutto, nel fungere da soglia principale per l’originario,
soglia comune e disponibile per ogni individuo. Il contesto erotico è, inoltre, un
contesto caratterizzato da una strutturale apertura intersoggettiva; apertura che la
reversibilità del tatto che vi viene esercitata manifesta con estrema puntualità. Certo, la
considerazione artistica dell’erotismo rientra nella riabilitazione del tatto in un contesto
artistico, nella consapevolezza che le arti tradizionali non sembrano riservare grande
703
Ibidem.
Ibidem.
705
Ibidem.
706
Ivi, p. 118.
707
Ibidem.
704
232
spazio al tatto. Ma quello che più interessa a Dufrenne non è una retrograda
classificazione delle arti in base al senso con cui comunicano, bensì il reperimento del
nucleo originario del corpo all’interno della sfera corporea medesima. In altre parole,
con la riabilitazione del tatto l’autore mira a una considerazione globale della
sensibilità, nei cinque sensi in cui si articola: cinque sensi che un’accezione sensuale del
sensibile chiama in causa con una potenza che nessuna considerazione artistica o
pittorica potrebbe fare.
È in una dimensione memore del portato tattile dell’esperienza, nella
consapevolezza del corpo come luogo zero di scambi che si vogliono intersoggettivi e
reciproci, che si può intravedere quel corpo che interessa a Dufrenne: un corpo che non
è lo strumento dei cinque sensi, ma loro depositario.708 Questo permette di considerare
ogni cosa, tutto il mondo, con lo spazio e il tempo che lo scandiscono, proprio a partire
da questo sempre diverso punto-zero corporeo che mai vive il mondo secondo il suo
involucro interiore ma sempre vi è inglobato. “Dopotutto”, come diceva Merlau-Ponty,
“il mondo è intorno a me, non di fronte a me.”709 E proprio su questa immersione del
soggetto nel mondo Dufrenne insiste, indicandovi la condizione principale della
possibilità di cogliere il fondo originario come qualcosa di sempre vissuto
immediatamente, prima e oltre che percepito.
L’occhio e l’orecchio allora, come risposta decisa e decisiva, evocata da un corpo
che è sì abitato dallo spirito, ma è innanzitutto e per lo più corpo, e come tale vissuto e
indagato. Ecco allora che l’arte erotica diventa importante proprio in quanto arte,
indebolendo quel primato snobistico che attribuisce all’arte un potere che sembra
lontano dall’uomo che vive. È il tatto il senso che dischiude l’accesso all’esperienza
corporea e intercorporea, e solo attraverso il tatto è dato prefigurare quell’insieme
organico e organicamente connesso al mondo che è il corpo. Riconoscere al tatto un
dominio artistico, e nel senso poco artistico dell’erotismo, significa allora riconoscergli
un ruolo fondamentale, cardine, in quell’esperienza di mondo che si vuole totale,
donatrice di senso e lontana da una concezione scientifica del corpo del quale invece si
riconosce, ed esalta, al contrario il carattere dinamico e genealogico.
708
709
Come del resto già scriveva Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito, cit. p. 42.
Ibidem.
233
La considerazione artistica dell’erotismo ci chiarisce, tra l’altro, un’ulteriore
posizione dell’autore: quella che riguarda la pratica dell’arte. A questa Dufrenne sembra
rimproverare una frammentazione incontrollata e sottomessa a pressioni di tipo più
sociale che culturale. Scrive: “il concetto di arte si frantuma sotto la pressione del
moltiplicarsi delle pratiche e dell’interferenza dei generi”, come a dire che la
differenziazione pratica finisce col discostare il fare artistico, come chi lo compie, dal
suo più autentico senso, finendo, proprio in virtù di questa specializzazione col rendere
l’arte qualcosa di “gelosamente definito per ottenere uno statuto privilegiato.” Se l’arte
erotica “non è, grazie a Dio, riservata a specialisti o a geni” 710, proprio in quel grazie a
Dio si rivela il senso di oppressione e vuoto che una pratica artistica avulsa dalla
corporeità e dall’umanità finisce con l’incarnare.
Se l’arte è più che un dato e un prodotto dell’uomo, ma rappresenta operativamente
quello che il corpo fa nella sua frequentazione del mondo, si spiega perché non sia tanto
secondario per Dufrenne concedere all’erotismo lo statuto di arte. Così facendo, è
possibile continuare ad occuparsi di arte, sia essa pittura, scultura o anche performance,
con la consapevolezza che si tratta sempre e in maniera molto rilevante di uno schema
umano, importante in quanto umano prima e più che in quanto artistico.
Con l’apertura all’erotismo in quanto arte Dufrenne ha quindi esplicitato in un
certo senso la propria posizione rispetto all’arte medesima, esortandoci a seguirlo là
dove l’arte è gesto, progetto e dinamica vissuta a scapito di quelli che, per quanto seri,
non sono altro che oggetti, prodotti e cristallizzazioni di quella progettualità originaria e
genealogica che il corpo è.
Solo a questa condizione, e non in virtù di qualche magica caratteristica intrinseca,
l’arte merita l’ernorme considerazione che le indagini di Dufrenne, come di MerlauPonty e altri, le hanno concesso.
710
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 117.
234
4.3 Un soggetto immaginario
Abbiamo visto come, per seguire Dufrenne nelle sue analisi sulla sinestesia
mantenendole vicine all’arte, sia necessario riafferrare l’arte stessa come pratica
genealogica e produttiva, diagramma corporeo, prima di identificarla con gli oggetti che
essa produce. Questo consente di comprendere in che senso l’arte sia importante,
proprio come figura altamente simbolica di tale pratica corporea, così come in che senso
il corpo possa agire quale punto zero di una produzione di senso che da esso poi si
separa.
Molte delle considerazioni del Dufrenne de L’occhio e l’orecchio, lo abbiamo
detto, sono una risposta puntuale al Merleau-Ponty de L’occhio e lo spirito. E proprio a
questa risposta il primo sembra affidare i punti di maggiore distacco, con il risultato di
rimarcare la propria autonomia filosofica proprio a partire da domande comuni.
Intimamente legata a quanto detto fin qui è una pagina pontiana, che merita di
essere letta con attenzione:
Qui il corpo non è più strumento della vista e del tatto, ma loro depositario. I
nostri organi non sono affatto strumenti, semmai sono i nostri strumenti ad
essere degli organi aggiunti. Lo spazio non è più quello di cui ci parla la
Dioptrique, un reticolo di relazioni fra gli oggetti, come lo vedrebbe un
testimone della mia visione o un geometra che la ricostruisse sorvolandola, ma è
uno spazio considerato a partire da me come punto o grado zero della spazialità.
E non lo vedo secondo il suo involucro esteriore, lo vivo dall’interno, vi sono
inglobato. Dopotutto il mondo è intorno a me, non di fronte a me. La luce viene
riscoperta come azione a distanza, e non più ridotta all’azione di contatto, ossia
concepita come potrebbe essere da coloro che non vedono. La visione riacquista
il suo fondamentale potere di manifestare, di mostrare più che se stessa. E
poiché ci dicono che un po’ di inchiostro basta per farci vedere foreste e
tempeste, bisogna che la visione abbia il suo immaginario. La sua trascendenza
non è più delegata a uno spirito lettore che decifra gli impatti della luce-cosa sul
cervello, e che potrebbe esercitare questa funzione anche se non avesse mai
abitato un corpo. Non si tratta più di parlare dello spazio e della luce, bensì di
far parlare lo spazio e la luce esistenti. Interrogazione senza fine, poiché la
visione, a cui essa è rivolta, è anch’essa interrogazione. Tutte le ricerche che
credevamo concluse si riaprono. Che cosa sono la profondità, la luce, τι το ον?
Che cosa sono, non per uno spirito che si isoli dal corpo, ma per quello spirito
che come disse Cartesio, è diffuso per tutto il corpo? E che cosa sono, infine,
non solamente per lo spirito, ma per se stesse, dal momento che ci attraversano,
ci inglobano?
235
È questa filosofia ancora tutta da fare, che anima il pittore, non quando egli
esprime le sue opinioni sul mondo, ma nell’istante in cui la sua visione si fa
gesto, quando dirà Cézanne, egli “pensa in pittura”.711
È questa filosofia ‘ancora tutta da fare’ che anima Dufrenne che proprio
raccogliendo e rilanciando questi interrogativi sviluppa la propria sinestesia. In
particolare, quell’immaginario che qui si suggerisce appartenere alla visione diventa con
Dufrenne una struttura cardine della sinestesia che, a sua volta, si rivela una
commistione di percezione e immaginazione. La sinestesia diventa il luogo in cui
figurare la correlazione tra tutti gli elementi che, proprio a partire dal corpo, articolano
la realtà; proprio questa correlazione è quella che permette di afferrare l’unità della
carne “prima della sua differenziazione e di avvicinarci all’idea dell’originario al di qua
della sua esplosione.”712 Questa differenziazione accentua in Dufrenne il proprio
carattere estetico; se con Merleau-Ponty lo spirito ha in tutto questo un ruolo
importante, Dufrenne preferisce assestarsi là dove, come abbiamo appena letto nella
citazione, lo spirito è diffuso in tutto il corpo.
Questo significa ribadire l’assenza di elementi concettuali e di pensiero da questa
sfera per concentrarsi invece sul luogo in cui essi stessi emergono: quello strato
originario, che sarà chiamato carne, in cui il sentire emerge. Si ripresenta su questo
piano l’opposizione programmatica alle impostazioni della scienza:
Nel corpo-oggetto, vale a dire nell’organismo differenziato, è la carne che
bisognerebbe ritrovare ma la scienza non lo consente. Quest’ultima affronta sì il
problema del molteplice, studia la solidarietà tra gli organi, le procedure che
regolano l’equilibrio del tutto e che assicurano il suo funzionamento, infatti è
attraverso questo funzionamento che il tutto si esperisce. La scienza ha pensato
l’organismo come macchina, mentre oggi lo pensa come sistema, ma ciò non
significa ancora pensare la carne, tanto meno quando si studia questo sistema
come sotto-sistema inscritto in un sistema più ampio, l’essere al mondo del
soggetto incarnato.713
711
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. pp. 42-43.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 121.
713
Ivi, p. 131.
712
236
Proprio contro questa sistematizzazione del corpo prende allora posizione il
pensiero di Dufrenne. Continuando il parallelismo tra il pittore di Merleau-Ponty e il
soggetto sinestetico potremmo dire che a questo soggetto ne L’occhio e l’orecchio è
dato di “far parlare lo spazio e la luce esistenti”, di agire il proprio pensiero prima che
esso sia tale. Così come nell’erotismo accade ciò che l’arte poi ripresenta: un’adesione
immediata all’altro da sé, che è fusione orgasmica, tattile e aconcettuale. Persino il
corpo dell’altro ci indica una totalità sinestetica e sinergica che, al pari di un’opera
d’arte, è coinvolto nella sua totalità da ciascuna delle sue posture.714
Ma c’è di più. Se il pittore cui si riferisce Merleau-Ponty è colui la cui visione si fa
gesto e che, dicendola con Cézanne, “pensa in pittura” anche nel corpo sinestetico c’è
un’importante riferimento al contesto del pensare, al contesto riflessivo e allo scarto che
esso introduce nella frequentazione del mondo. In fondo è proprio sull’esistenza di
questo piano concettuale e sul ribadirne la non esclusività che, abbiamo già visto, con
queste riflessioni si torna ampiamente. L’originario assoluto non è coglibile, come già
detto, “nulla ci può venire in aiuto a proposito di un originario assoluto, sciolto da ogni
pensiero, poiché per poterlo pensare, avremmo bisogno di un non-pensiero o di un prepensiero”715, tuttavia è proprio nel corpo e nella sua commistione sinestetica al mondo
che tale pensiero stesso si genera. In una circolarità importante, che la scienza ignora
completamente, il pensiero ha origine in una profonda corporeità che proprio nel
momento in cui lo origina si ritrova definitivamente allontanata dalla propria origine.
“Infatti, è dell’essere e non dell’esperire – del vissuto e non del vivere – che si può
sondare lo spessore e intuire il fondo.”716 L’apertura produttiva di pensiero all’interno
del corpo, pensiero che solo a posteriori sarà tale e diventerà verbalizzabile, condivide
con il pittore una forma di creatività o, meglio, immaginazione che ne rappresenta la
risorsa caratteristica. Questo significa cogliere e ribadire nella percezione, e in generale
nell’adesione sentimentale, precategoriale, aconcettuale al mondo da parte del corpo, la
soglia a partire da cui tutto il resto si articola e concettualizza. Ma Dufrenne va oltre. La
sua posizione sembra raccogliere e superare i due binari, che cita, di Straus e MerleauPonty. La psicologia del primo, nel sottolineare l’irriducibilità del biologico al fisico,
714
Ibidem.
Ivi, p. 125.
716
Ivi, p. 129.
715
237
“descrive la relazione vitale del vivente al proprio ambiente, l’Einfulung animale,
l’animalità primigenia dell’Einfulung”; mentre la fenomenologia del secondo si spinge
verso la costituzione di un’ontologia, “guardando all’essere bruto che si rivela come
carne, il naturante in cui si originano al contempo il mondo e l’essere al mondo.”717 La
cosa che sembra maggiormente stargli a cuore è l’asse delle sovrapposizioni (MerleauPonty li chiamava sopravanzamenti) che costituiscono l’umano; asse che egli vuole
situare e rafforzare principalmente all’interno dell’umano anche quando essi implicano
aperture verso il mondo esterno.
I punti che articolano questo principale interesse di Dufrenne sono due. Il primo
riguarda il concetto del virtuale, dell’immaginazione immanente al percepito che apre il
percepito stesso a qualcosa che esula il rapporto con il corpo. Il secondo fa parte delle
conclusioni non solo del suo lavoro ma di tutta la sua vita ed è il punto relativo al
carattere non ontologico dei sopravanzamenti che costituiscono i rapporti stratificati tra
il corpo umano e tutte le altre dimensioni che lo riguardano. Dopo aver dedicato lunghe
indagini, di cui abbiamo visto l’orizzonte ontologico, al concetto di Natura, Dufrenne si
assesta infatti su una posizione che di esso tiene ferme le caratteristiche e l’importanza,
spostandone tuttavia il livello d’azione completamente all’interno dell’umano e
precisamente del suo corpo.
Se non è un oggetto ciò di cui egli è in cerca, ma il fondo, L’occhio e l’orecchio
sembra compiere quello che il suo autore aveva già indicato come progetto di ricerca
nelle sue pagine dedicate a Merleau-Ponty: il pensare l’accordo dell’uomo e del mondo
attraverso una filosofia capace di congiungere filosofia della Coscienza e filosofia della
Natura.718 La filosofia della Natura si rivela anzi un’impresa impossibile da conseguire
proprio perché il mondo è mondo solo nella sua relazione dialettica all’uomo.
Vediamo ora come egli tratta il tema del virtuale, che è ancora tema percettivo e
discorso sull’immaginazione; tema artistico ma soprattutto umano. La definizione di
virtuale rappresenta per Dufrenne la condizione imprescindibile perché sia possibile
parlare di immaginazione nel contesto della percezione. “L’immaginazione”, infatti, “è
717
718
Ivi, p. 130.
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 221.
238
strettamente legata a questa percezione nella misura in cui si definisca l’immaginario
mediante il virtuale.”719 Quell’immaginazione che abbiamo già visto nel capitolo
dedicato alla sensibilté généralisatrice torna nell’ultimo lavoro di Dufrenne con un
ruolo e una forza ancora più espliciti. Nella sua lettura, infatti, una percezione “limitata
al solo registo sensoriale”720 è condannata a una forma di insicurezza. Attraverso
l’intervento dell’immaginazione, di un’immaginazione che abbiamo già visto è “meno
potere di associare che potere di aprirsi e di comunicare, di lasciare che il sentito
riecheggi nel senziente”721, la percezione stessa si ritrova potenziata e arricchita. Senza
concedere all’immaginazione un anarchico potere associativo, Dufrenne la legge in
stretta relazione con il mondo percepito, “essa restituisce all’oggetto presente la sua
pienezza, si direbbe anche la sua aura, nel momento in cui consacra il reale come
surreale.”722 Cosa significa allora questo reale consacrato come surreale? Esso mostra
quella caratteristica del reale su cui insiste tutta l’opera di Dufrenne, coerentemente con
la tradizione da cui discende: un reale cui non è mai del tutto estranea la dimensione del
“come se”, dell’analogia e della modificazione. Tale idea è strettamente connessa alla
sfera della percezione intesa come sinestesia, nella quale con Dufrenne si vuole mettere
in luce e ribadire l’impossibilità di immobilizzare i dati e farne astrazioni poiché è
sempre necessario, come già scriveva Bergson che Dufrenne certamente conosce,
riconoscerne il movimento, un certo ritmo, la ‘durata’. È in questo senso che Dufrenne
può attribuire all’oggetto la capacità di permetterci di esperire “l’affinità di quel diverso
che lo costituisce come oggetto determinato.”723
Prendendo le distanze da quella corrente di pensiero che, ad esempio con Sartre,
vedevano percezione e immaginazione come due atteggiamenti irriducibili della
coscienza, che si escludono a vicenda, Dufrenne preferisce portare avanti l’idea
opposta: quella che di percezione e immaginazione riconosce l’interazione in una forma
di rapporto con il mondo che dialetticamente unisce tutte le modalità della coscienza
sotto il segno del corpo. È nella presenza del soggetto che l’oggetto può espandersi fino
a riguardare aspetti non del tutto piani e semplici. “Una simile espansione dell’oggetto
719
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 133.
Ibidem.
721
Ivi, p. 134.
722
Ivi, p. 133.
723
Ibidem.
720
239
richiede la pienezza della mia presenza; io mi lascio fare dall’oggetto, lascio che il mio
corpo si affidi a esso come sinergico, come tutto-organo, ricco della sua cultura, carne
che comunica con la carne dell’oggetto, con l’oggetto come carne.”724 Ed è proprio
attraverso l’appello dei sensi che avviene l’appello all’immaginazione, in un gioco di
sopravanzamenti dell’attività umana che difficilmente si prestano ad una analisi
definitiva. È in questo senso che Dufrenne può specificare quanto lontana sia questa
immaginazione “aderente al percepito” dalla fantasia, che è invece “la madre dei
fantasmi e dei sogni, potere d’errare e di deviare”725. Il problema che ruota intorno al
ruolo dell’immaginario nel percepito non riguarda la capacità, per quanto meravigliosa,
di creare fantasie e irrealtà. Al contrario, con questo tema Dufrenne si assesta con
coerenza in quella prospettiva fenomenologica per la quale, come ha già puntualizzato
Dino Formaggio, “l’oggetto, non può, non può più, consistere in una solida esistenza in
sé posta ed affermata (oltre che costituita) da uno spirito che è ogni spirito e da un Io
che è ogni io.”726 In quest’ottica si rivela una forma di relatività degli oggetti rispetto ai
molteplici io che con essi si relazionano, “l’oggetto non è mai solo, l’io non è mai tutto
con se stesso. Tutto entra in sistemi a più variabili relazioni.”727 L’intervento
dell’immaginazione non è appannaggio esclusivo della percezione quando essa incontri
oggetti estetici, al contrario, esso non cessa di essere presente per Dufrenne a tutti i
livelli del commercio estetico con il mondo. Tuttavia, è quasi ovvio, di fronte a quegli
oggetti il cui senso è costitutivamente in fieri tale ruolo si presenta con maggior
pienezza. Che vi sia un’immaginazione al lavoro durante la lettura di un’opera poetica è
cosa esplicitata, almeno da Bachelard in poi.728 Nella prospettiva che da lui deriva la
lettura dell’opera avviene secondo una forma di époché, come sospensione del reale e
724
Ibidem.
Ibidem.
726
D. Formaggio, Appunti sull’oggetto immaginario, in "Fenomenologia e scienze dell' uomo", n. 1,
1985, p. 5.
727
Ivi, p. 6.
728
E infatti è proprio a Bachelard il riferimento di Dufrenne in queste pagine. “È comprensibile che
questa immaginazione aderente alla percezione sia del tutto differente dalla fantasia, la madre dei fantami
e dei sogni, questo potere d’errare, di deviare, di delirare secondo associazioni arbitrarie. Per corroborare
questa differenza si potrebbe ricorrere all’opposizione, sottolineata da Bachelard, tra sogno [rêve] e
fantasticheria [rêverie], cogito notturno e cogito diurno; il lettore bachelardiano di poesie si abbandona
alla fantasticheria senza sprofondare nel sonno, quando sono le parole a sognare, quando, invece di
abbandonarsi agli azzardi di costellazioni psicologiche, si lascia ispirare dalla poesia stessa. Oggi si parla
volentieri di iconicità; è in generale, dell’iconicità del linguaggio che si tratta e, più precisamente,
dell’opera scritta, romanzo o poesia.” (M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. pp. 133-134.)
725
240
apertura all’immaginario. La posizione di Dufrenne però, mira ad un allargamento della
possibilità di questa prospettiva non solo ad opere che non siano letterarie ma anche agli
oggetti in generale, investendo pertanto un tipo di relazione al mondo più ampio rispetto
a quello voluto dal contesto artistico. Per Dufrenne, infatti, non è soltanto all’opera
letteraria, ma anche all’oggetto, sia esso plastico o musicale, che si deve attribuire
l’iconicità e, “più in generale, quando la percezione è sinestesia, all’oggetto percepito,
gravido di virtuale, grazie a cui si manifesta pienamente nella totalità dei suoi
aspetti.”729 Se le parole, in poesia, possono sognare, anche le cose del mondo possono
farlo. E la condizione di possibilità di questo sognare non è nelle cose ma nel soggetto,
che deve essere “veramente in contatto con quelle cose.”730 Questo contatto profondo
non riguarda ovviamente nulla di mistico; si tratta della conseguenza coerente di quella
dinamica poetica che abbiamo visto può animare il rapporto tra soggetto e oggetto.
L’immaginario come virtuale, infatti, non è qualcosa che il soggetto aggiunge
all’oggetto per così dire dal di fuori, esso “è chiamato in causa dal reale che lo abita.”731
Ancora una volta il soggetto sinestetico condivide una posizione con il pittore di
Merleau-Ponty, che non aggiunge nulla di surrettizio dall’esterno ma si limita in un
certo senso a raccogliere ciò che le cose volevano dire. Il rapporto col mondo si
arricchisce, con l’apertura all’immaginario, di una descrizione efficace dei molteplici
piani che lo caratterizzano, perfettamente in sintonia con quell’opposizione agli schemi
rigidi della scienza da cui siamo partiti in questo capitolo.
Il rapporto con i fenomeni è allora un rapporto ondeggiante, e non per questo meno
fecondo, del quale è bene riconoscere la ricchezza a scapito della chiarezza definitiva.
Ogni io percettivo correlato ad un oggetto dà vita ad un agglomerato ogni volta diverso.
Questi agglomerati, nelle parole efficaci di Formaggio, “costituiscono centri egologici e
oggettuali momentanei”, di volta in volta instabili e mutevoli nel tempo, sempre in via
di trasformazione. In tutto questo ondeggiare fenomenico, dove il puro fenomeno
trionfa senza più un sopra, un sotto, o altro che non sia il puro fenomenico,
l’apparizione dell’adirivieni dinamico delle apparizioni, si deve dire che entra
costitutivamente in base a permanenze più o meno fisse (ma mai del tutto stabili, una
729
Ivi, p. 134.
Ibidem.
731
Ibidem.
730
241
volta per sempre), di diritto il sensibile, l’estetico, l’immaginazione, l’immaginario, in
tutto o in parte per legame con altre parti, sempre di nuovo.732
In questa connessione, variamente articolata e sempre sfumata, alla moltitudine
degli io qualcuno potrebbe leggere un’inclinazione insostenibile verso psicologismo e
soggettivismo. Al contrario, Dufrenne è ben lontano dall’attribuire al soggetto capacità
demiurgiche o da varie propensioni allo psicologismo della teoria associazionista. Il suo
è un soggetto che è sì immerso nella molteplicità dei soggetti, ma che in tale
molteplicità vive con la forza dell’adesione a un fondo originario. In questo senso il
soggetto sinestetico è un soggetto ontologico, “esso tende a ritornare nei paraggi
dell’originario, a perdersi nell’oggetto come nel grembo del naturante dal quale non
sarebbe ancora nato”.733 Il soggetto può essere ontologico oltre che sinestetico proprio
perché il fondamento è radicato in lui. Ma, e questo è certo uno dei nodi fondamentali,
questo radicamento del fondamento non riguarda il soggetto in quanto soggetto, ma in
quanto correlato del mondo. Di più: il fondamento stesso “n’est ni le monde ni le sujet,
il est l’accord de l’homme et du monde. Non un terme, mais une relation.”734 E solo
all’interno di questa relazione i termini possono esitere, mentre di essi non si trova
traccia a cercarli isolatamente. In questa relazione ogni volta diversa si comprende
perché sia tanto importante l’apertura immaginativa: “la forza di trasformazione
fenomenica e di relazione reciproca nella costituzione temporanea dei centri egologici
od oggettuali – o di entrambi insieme, come per lo più avviene – appartiene
all’immenso regno dell’immaginario.”735 Da questo ruolo sempre nuovo e rinnovato
della relazione soggetto-oggetto e sulla sua costante mutevolezza si potrebbe desumere
una forma di arbitrarietà che tenderebbe ad indebolire l’apparato generale
psicologizzando l’immaginazione. Non è questo che interessa a Dufrenne che risponde:
“Non è secondo me, né tanto meno secondo il parere generale, che quella tal sonorità
possiede quel tal colore, ma solo secondo Kandinsky.”736 A questo punto
l’immaginazione potrebbe essere solo foriera di errori e astrusi psicologismi privati;
oppure ogni individuo è portatore di una personale e individuale esperienza sinestetica,
732
Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 135.
734
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 211.
735
D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6.
736
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 135.
733
242
che si impone a lui e solo a lui rivelandogli un certo mondo che egli può a sua volta
rivelare ad altri. “E se fossimo noi, tanto peggio per noi, ad essere ciechi a quel
mondo?”737
È in queste pagine che Dufrenne esplicita una delle sue conclusioni più importanti,
nella quale si articola e chiarisce la sua posizione rispetto al ruolo del soggetto in questa
poetica, sfumata e sfrangiata realtà che lui ha di mira. Tale soggetto non si annulla in
nessun disperato annichilimento, né si dissolve in una intersoggettività incapace di
raccoglierne il contributo. Al contrario, “il riferimento all’individuo non è vincolato allo
psicologismo se questo individuo si rende capace di vivere un’esperienza ontologica che
non inclina più al relativismo.”738 Se è nell’individuo, nella sua relazione al mondo, che
si innesta lo scambio carnale originario e originale, si può accettare che tale scambio
riguardi tutti i soggetti nella loro dispersione individuale e investa il mondo non solo al
livello del reale, ma anche al livello, altamente significativo, del possibile. “Il fatto che
certi aspetti del mondo si rivelino solo ad alcuni soggetti ciò non impedisce che siano
dei possibili del mondo; all’intersoggettività non si richiede di fornire la propria
garanzia di credibilità se non per un pensiero impersonale del mondo.”739 Ogni oggetto
nasce nella relazione con il soggetto aprendosi al senso e a tutti i sensi che questo
soggetto mette in campo. Ogni oggetto si apre al senso come “una potenzialità naturale
suscettibile di infinite saturazioni di significati (sia pure dentro a gamme delimitate),”740
ma tale senso si costituisce ogni volta in base alle variazioni del contesto di soggetti, o
centri egologici, che vi interagiscono. “Nuota nell’intersoggettività ed anzitutto nella
intercorporeità naturale e sensibile.”741 Ogni oggetto diventa tale all’interno di una
comunità e pertanto il suo senso si sviluppa nelle prassi operative e conoscitive di
società storiche “in pieno travaglio elaborativo di culture.”742 Relativismo storico o
soggettivismo? Tuttaltro. Proprio nella descrizione sinestetica dell’emergenza di un
senso sempre diverso legato a una soggettività, a sua volta legata a una comunità
storicamente determinata, si radica un presupposto universale di grande portata. Quel
737
Ibidem.
Ibidem.
739
Ibidem.
740
D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 7.
741
Ibidem.
742
Ibidem.
738
243
presupposto di cui Dufrenne è in cerca fin dalle prime pagine delle sue ricerche e che
mira a reperire il fondamento dell’umano e del suo senso in una prospettiva consapevole
della carnalità e della temporalità che costituiscono il soggetto. Dufrenne si schiera con
forza, come dichiara di aver imparato da Merleau-Ponty, su una posizione di netto
rifiuto di tutte “les tentations du système et même des majuscules” per mirare invece a
sorprendere la genesi del senso “à ras de l’homme, au lieu de la déployer dan un ciel
métaphysique.” 743 L’infinito dell’Essere si stende allora per Dufrenne solo a partire da
quella concrezione spazialmente incarnata e temporalmente vissuta che è un soggetto
sinestetico nell’apertura della sua sensibilità; e solo a partire dalla sua apertura
immaginativa, costitutivamente presente nel suo corpo, ogni possibile entra a far parte,
di diritto, del reale che si deve esaminare.
Ecco in che senso l’arte torna utile, e Dufrenne continua a rivolgersi ad essa anche
se forse non con il rigore che altre parti del suo percorso hanno manifestato. È
nell’operazione creativa che si manifesta con massima forza questa dinamica
genealogica, espressiva, che caratterizza il rapporto percettivo al mondo. È l’arte il
luogo in cui si riversa al suo grado più evidente la progettualità infinita
dell’immaginario.
In questo senso la storia dell’immaginario e dei suoi oggetti più puri, le opere
d’arte, appartiene alla storia della libertà, o, meglio, della infinita liberazione
dell’uomo. Ed è per questo che l’immaginario, con tutti i suoi segni e con tutti i
suoi simboli, ha sempre a che fare con l’infinito.744
4.4 Il virtuale: un’ontologia impossibile
La sinestesia e l’immaginario che la abita, dunque, si qualificano quali modi attivi
d’essere, svelatori di possibilità di senso infinite all’interno del mondo. Tale svelamento
accade a un livello originario di adesione al mondo che, lo abbiamo già visto, non può
mai essere oggetto di conoscenza specifica proprio perché della conoscenza è esso
743
744
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208.
D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 7.
244
stesso condizione principale. Ecco perché la pratica delle arti, così come gli oggetti
estetici, mantengono la loro costante utilità nel riferimento: è in questo ambito che
l’unità del sensibile, se non avvicinata, è almeno suggerita. È in quest’ambito che
l’oggetto può essere colto nel suo atto di nascita, che è produzione espressiva di sensi
senza la cristallizzazione congelata dei significati. L’oggetto estetico, così come il
mondo a un livello sinestetico, è un oggetto in nascita e rinascita continua,
costantemente in movimento per essere illuminato ogni volta da una realtà egologica
differente cui non si chiede di produrre certezze sempre valide. Dino Formaggio
distingue con efficacia questo duplice ruolo del senso con gli aggettivi plurisituazionale
e unisituazionale.745 Il significato univoco e plurisituazionale è quello della scienza, che
deve servire per valere allo stesso modo in situazioni differenti. Al contrario, nella
pulviscolare differenziazione corporea ogni oggetto, e in particolare quello estetico,
modifica il proprio senso in base all’agglomerato corporeo con cui entra in contatto
dando ogni volta luogo a differenti formazioni. Sempre valide, ma sempre caduche. In
questo modo “si verifica ad ogni istante la nascita seconda di un diverso senso (…)
Diverso innanzitutto perché di segno opposto: monovalente tendenzialmente, univoco e
plurisituazionale il primo, plurivalente tendenzialmente, plurivoco e unisituazionale, il
secondo, che appartiene all’immaginario.”746
L’immaginario, che stiamo per comprendere nel suo senso di virtuale, per
Dufrenne appartiene costitutivamente alla relazione tra l’oggetto e il soggetto; anzi è
proprio ad un soggetto che ci si deve riferire innanzitutto quando si parla di
immaginario e virtuale. Infatti, “il tratto che conferisce lo statuto di virtuale a quel
presentito che si associa e, al limite, si identifica al sentito, orienta l’attenzione verso il
soggetto.”747 Se il percepito passa sempre, ovviamente, attraverso la mediazione
fondamentale di un corpo percipiente, “è proprio per un soggetto e mediante un
soggetto che c’è dell’impercepito intrecciato al percepito.”748 Anzi, la presenza del
soggetto si rivela molto più determinante che non quella dell’oggetto; la sinestesia
745
Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 8.
Ibidem. Il saggio di Formaggio cui si sta facendo riferimento non è commento specifico a Dufrenne né
utilizza il linguaggio filosofico di quest’ultimo ed è qui usato per la sua efficacia strumentale e descrittiva
degli stessi problemi di Dufrenne.
747
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p 195.
748
Ibidem.
746
245
rivela una relazione dinamica che avviene all’interno del sensibile “senza doversi
affidare all’identità di un oggetto che sia principio dell’associazione.”749 La virtualità
della sinestesia che Dufrenne vuole mostrare riguarda la possibilità originaria e
genealogica di raggiungere, attraverso la percezione, stimoli che non riguardano
informazioni da raccogliere ma sollecitazioni non del tutto categorizzabili che da certi
oggetti ci vengono. La virtualità riguarda allora una stratificazione di senso che non
riguarda la sollecitazione contemporanea e congiunta di occhio e orecchio: non è uno
spettacolo danzato e musicato ciò che si sta indagando. Al contrario, è quel ben più
difficilmente determinabile insieme che riguarda, ad esempio, “la musica del quadro”:
non un oggetto determinato offerto a determinati sensi, ma un oggetto indeterminabile
capace di creare una forma di confusione sensoriale. Di fronte a certi oggetti, come
anche a determinate situazioni, non è in ciò che vediamo né in ciò che sentiamo che si
racchiude il senso che ci raggiunge. Tale senso viene da un più inafferrabile insieme,
che riguarda tutti i sensi, nella loro indivisibilità, nonché – come abbiamo già visto più
volte nei capitoli precedenti – un’azione originaria descrivibile in termini di sentimento.
Dove si colloca dunque questo virtuale? Dufrenne avanza l’ipotesi della memoria,
chiedendosi se esso non riguardi qualche cosa che si sa per lo meno per averla già
percepita e quindi custodita nella memoria. Quest’ultima non basta però a Dufrenne,
poiché con essa si rimanda principalmente a una dimensione di sapere e conoscenza.
Se di memoria, relativamente al virtuale, si può parlare, è molto più in termini di
familiarità con le cose del mondo.750 Ecco allora che il virtuale inizia a caratterizzarsi in
maniera più ampia rispetto sia all’immaginazione sia alla memoria, arrivando a coprire
un’area più estesa che le comprende entrambe senza esaurirsi al contributo di nessuna
delle due.
Il virtuale non è un sapere cieco del corpo, “cieco quanto un riflesso condizionato
innestato sul corpo-oggetto, la presenza che gli va riconosciuta è quella di un
immaginario immanente al percepito.”751
Ecco allora che si delinea un'altra posizione che definisce la meditazione di
Dufrenne, non senza un’analogia e una differenza sostanziali nei confronti del suo
749
Ibidem.
Cfr. Ibidem.
751
Ibidem.
750
246
riferimento teorico Merleau-Ponty. Quello che per quest’ultimo era visibile o invisibile
per Dufrenne non è percepito o impercepito. La cesura fondamentale per lui è piuttosto
tra immaginato e non immaginato, intendendo questo secondo termine nel senso forte di
non dato in immagini, non dato in figura, non dato in presenza. Eppure non assente, ma
dato in altro modo. Questa insistenza sul ruolo dell’immagine ci dice evidentemente
molto, soprattutto tenendo fermo il fatto, su cui torneremo ancora tra poco, che il potere
e l’importanza del virtuale per Dufrenne risiedono proprio in questo suo non essere
ancora immagine.752
Questa dicotomia investe con conseguenze importanti il modo di concepire il reale
ed il vero. Il virtuale, infatti, non appartiene al regno dell’irreale, esso non è “l’altro
rispetto al reale”753 poiché, al contrario, è profondamente radicato nella realtà della
relazione tra soggetto e oggetto. Ne consegue un’idea di verità e realtà estremamente
aperta e flessibile, che abbiamo già visto comparire a più riprese a partire dalle
considerazioni sull’oggetto estetico fino a quelle sulla Natura poetica. Non è tuttavia
senza importanza che su tale insieme di riflessioni si trovi ad insistere l’autore nella sua
ultima opera. Il reale che egli ha di mira non è un mondo pieno e positivo, ma una realtà
stratificata e variamente articolata in cui ogni oggetto si mostra e rivela su un piano
sensibile, ma anche precategoriale, preriflessivo e extralogico.
Delineando l’immaginario come virtuale Dufrenne mantiene una forte coerenza
con queste idee. Il suo immaginario come virtuale presenta due caratteristiche molto
dense: esso non è necessariamente immaginato né necessariamente soggettivo. Questo
significa riconoscere la possibilità di afferrarlo a prescindere dalla sua concretizzazione
752
Con questa sua elaborazione finale del tema dell’immaginazione Dufrenne prende definitivamente le
distanze da Sartre: “Tutto ciò implica che ci guardiamo da una teoria dell’immaginazione come quella
che ha formulato in maniera così brillante Sartre: l’immaginazione ‘grande funzione della coscienza’ il
cui potere di derealizzazione, di volgere deliberatamente le spalle la reale, testimonia la libertà del per-sé,
almeno fino a che la coscienza non si lasci prendere nella sua stessa trappola, ceda alla vertigine,
sprofondi nel delirio; essa può divenire, infatti, tanto la manifestazone di una fntasmatica ossessiva
quanto la manifestazione di un potere atipico di invenzione e creazione. Non si tratta di rifiutare senza
appello questa dottrina dell’immaginazione, possiamo anzi augurare buona fortuna alle diverse scienze
del sogno che la sviluppano. Essa non è senza conseguenze per una filosofia del soggetto; ponendo
l’accento su una fantasmatica privata, si fornisce alla nozione di individuo un appiglio non indifferente.
L’io dell’io penso si manifesta nella sua particolarità nel caso in cui l’io penso si pieghi verso l’io deliro.
E non è possibile negare al soggetto il fatto che il potere di affermarsi si rivela, talvolta, come potere di
nientificazione e quello stesso potere come potere di immaginare. Ciò nonostante quest’idea
dell’immaginazione non può essere d’aiuto per una teorizzazione del virtuale.” (Ivi, p. 196.)
753
Ivi. p. 196.
247
in immagini e a prescindere dalla soggettività che lo produce. “Ciò che è presentito
all’ombra del sentito, lo chiamiamo immaginario, vale a dire non sentito, non dato in
carne e ossa, leibhaft come dice Husserl, ma nemmeno necessariamente dato ‘in
immagine’ né necessariamente immaginato.”754 Ecco perché sarebbe meglio dire
immaginabile, riconducendo anche questo aspetto sotto il segno del possibile, del
poetico e del genealogico. Immaginario virtuale nel senso di Dufrenne non è il risultato
dell’operazione di immaginazione, non è la figura del sogno o il prodotto dell’arte; esso
è una possibilità sempre aperta, che si sposta sempre un po’ più in là ogni volta che
un’immagine immaginata prende corpo. L’immaginario condivide quindi l’orizzonte
dell’invisibile di Merleau-Ponty, e persino la dinamica che sembra descriverlo meglio
potrebbe venire proprio da quest’ultimo; ci riferiamo a quell’idea di dialettica senza
sintesi, che non vuole aprire né allo scetticismo, né al relativismo né a uno sterile
ineffabile. Il virtuale di Dufrenne sembra calare nel rapporto percettivo, sinestetico,
proprio l’impossibilità di fermarsi mai definitivamente di fronte a un nuovo positivo,
una nuova posizione. “Come nella vita, così nel pensiero e nella storia noi conosciamo
solo superamenti concreti, parziali, oberati di sopravvivenze, gravati di deficienze; non
c’è superamento onnicomprensivo.”755 L’apertura possibile è quella della “carne
inesauribile”756 dell’oggetto che si rivela, di nuovo, il fuoco dell’attenzione dell’autore.
È proprio attraverso la nozione di virtuale, e all’oggetto che essa implica, suscettibile di
investimenti immaginifici sempre differenti, che l’oggetto stesso è più fortemente
coglibile come carne. “Il virtuale invita a cogliere l’oggetto come carne.”757
La seconda caratteristica che abbiamo visto appartenere all’immaginario come
virtuale era il non essere necessariamente soggettivo. Cosa significa? L’immaginario
come virtuale è una nozione che Dufrenne vuole concepire senza appellarsi
all’immaginazione intesa come facoltà di un soggetto. Esso designa “una virus o una vis
dell’oggetto: non più ciò che è in potere di un soggetto, come ciò che egli custodisce
nella memoria e che può evocare o come ciò che egli può inventare, bensì ciò che è in
754
Ivi, p. 198.
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit. p. 115.
756
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p 198.
757
Ibidem.
755
248
qualche modo in potere dell’oggetto senza manifestarsi immediatamente.”758 Di nuovo
torna il rimando a questa dimensione di invisibile tanto pontiana; con Dufrenne tuttavia,
di essa si accentua il carattere di potenzialità intrinseca e di trasformazione genealogia
costante. Non vi è nessuna idea di disvelamento di lati nascosti che si tratta di scoprire,
al contrario, vi è l’idea sempre più marcata della possibilità.
Così è del possibile di cui è gravido il reale, quando il possibile non significhi la
contingenza dell’evento come il ‘può darsi che’, ma quando si annuncia come
possibile di – di chi può dire ‘io posso’, o di chi senza dire nulla, diviene ciò che
non è e che, tuttavia, è in qualche modo se promette di esserlo, come il germe
promette di essere frutto, costituendo ciò che Bloch chiama ‘possibilità reale’.759
Nel quadro del possibile vanno allora a confluire impercepito e invisibile, dei quali
si sottolinea la presenza infinita e inesauribile a livello potenziale. Questa blochiana
‘possibilità reale’ diventa per Dufrenne quella dell’impercepito “che non appare, ma che
è un possibile dell’apparire e che annuncia mediante ciò la pienezza del reale.”760 È
questo l’invisibile che ha per Dufrenne peso e importanza; un invisibile che niente ha a
che fare con il non visto, con ciò che il giudizio può dedurre quando si concentra sulla
percezione e ne trae conseguenze logiche. Un invisibile dunque che aderisce al visibile
come sua potenzialità infinita che la figura della sinestesia, come percezione di rapporti
verticali, indica con precisione. “Il visibile dice questo invisibile come l’oro dell’acino
dice lo zucchero che contiene, come la trasparenza del cristallo dice il suo tintinnio.”761
Dino Formaggio, che qui Dufrenne cita,762 scriveva del parlare dell’oggetto; è questo
parlare che si esplicita come espressione, che a sua volta diventa virtuale soglia di un
758
Ivi, p. 199.
Ibidem.
760
Ibidem.
761
Ibidem.
762
“L’oggetto parla, come la canoa evocata da Dino Formaggio, la cui linea ‘esce dagli uomini che
cavalcano i tronchi sui fiumi, avanza, si pulisce, si perfeziona dentro allo stesso lavorare le canoe, fino a
che emerge limpidissima; la sua funzionalità d’uso si fa perfetta, taglia l’acqua in maniera impareggiabile,
ma al tempo stesso ‘dice’ tutto questo, dice delle misure, dei movimenti, del peso del corpo umano, dice
delle sue potenze e insieme dice l’agilità dei propri movimenti nella corrente, dice la velocità, si solleva in
simbolo di una certa unità di vita, raccoglie in sé una precisa unità temporale di prassi umana, si fa
memoria e immaginazione viventi, tanto che può essere amata come un corpo ricco di segni’.” (Ibidem.)
759
249
mondo, che a sua volta è “ancora un virtuale molto vicino a schiudersi, per conferire
all’oggetto la pienezza del suo significato.”763
Ecco in che senso l’immaginario virtuale di Dufrenne non è necessariamente
soggettivo. Esso appartiene altrettanto all’oggetto, abita il reale, “è in esso come
sovrabbondanza d’essere, sovrabbondanza di senso”764 e ad esso si deve la possibilità di
abitare poeticamente il mondo senza restarvi ancorati nella chiusura delle dicotomie
cartesiane. Con questo si arriva a chiarire ulteriormente la valenza dell’a priori
dufrenniano: “assegnato al tempo stesso all’oggetto, nel quale designa un potenziale, e
al soggetto nel quale designa una possibilità”.765 È questa ambivalenza dell’a priori a
farne uno specifico del virtuale, un cardine fondamentale delle conclusioni di Dufrenne.
Con questa descrizione del virtuale, infatti, e della sinestesia, in quanto percezione in
cui esso si manifesta, si mette a fuoco quel luogo intermedio tra soggetto e oggetto. La
loro verità è nella loro relazione; la loro carnalità è nella densità dei reciproci rapporti.
La separazione degli a priori dell’oggetto e del soggetto può avvenire solo a un livello
razionale, che fondamentalmente non li riguarda. Tra essi esiste una relazione
partecipativa, una profonda “comunanza”.
Di conseguenza, il discorso sul virtuale torna a chiudersi su quello
dell’intenzionalità, che abbiamo già visto emergere come relazione originaria,
“irrelativo” da cui procedono sia l’oggetto che il soggetto. L’immaginazione come
virtuale, infatti, qualifica una modalità di relazione tra il soggetto e l’oggetto che è
“capacità di apertura a quanto non è immediatamente percepibile”, riconfermandosi in
quanto “modo di quell’intenzionalità che marca il soggetto come essere al mondo.”766
Definito in questi termini che ne ribadiscono l’apertura, la comunicatività, la
disponibilità e la responsabilità nei confronti del mondo, il soggetto si rivela anche
“incerto, intrappolato e perduto” ma per questo sempre liberabile. Tale liberazione passa
proprio attraverso l’immaginario la cui storia, incarnata dai suoi oggetti più
rappresentativi che sono le opere d’arte, è proprio la storia dell’infinita liberazione
dell’uomo. Certo l’apertura dell’immaginazione è sempre singolare, essa appartiene
763
Ivi, p. 200.
Ibidem.
765
Ivi, p. 201.
766
Ibidem.
764
250
precisamente ad un soggetto e da esso dipende. Ma il suo contenuto, ciò che inerisce
alla sua virtualità, appartiene al mondo: “un mondo singolare perché subordinato a una
disponibilità singolare, diciamo il mondo di un soggetto, ma questo mondo è un
possibile del mondo, non è il mondo privato nel quale si inabissa una coscienza
intorpidita o delirante.”767 È questo un altro dei punti salienti cui approda Dufrenne;
punto che lo situa con coerenza all’interno di un quadro filosofico che tiene fermo il
valore dell’intersoggettività e dell’apertura comunicativa. L’immaginazione che lavora
nella percezione, questo aspetto virtuale del nostro rapporto con il mondo che non è mai
pura raccolta di dati, si dimostra transoggettiva nel senso che fonda il soggetto stesso
come correlato di un mondo. Non siamo lontani da quanto abbiamo indagato seguendo
Dufrenne nella sua descrizione del mondo dell’oggetto estetico; ora però se ne
comprende maggiormente la valenza, inserendone la struttura nel rapporto tutto umano
tra soggetto e oggetto.
Questa ricerca di fondazione del soggetto stesso è molto distante da una sua
psicologizzazione. Al contrario, l’apertura virtuale insiste nuovamente sulla carnalità di
tale soggetto, del quale si vuole evidenziare il carattere di naturato, nato dalla Natura,
piuttosto che di naturante. Scrive Dufrenne, con molta determinazione: “Rifiutiamo il
trionfalismo del trascendentale, l’identificazione di costituente e di naturante, ma
nemmeno accettiamo il trionfalismo di un sapere che ridurrebbe il soggetto all’essere
determinato di un oggetto.”768 La caratterizzazione dell’immaginario come virtuale ha
quindi l’ulteriore merito di evitare un’eccessiva inclinazione allo psiclogismo
assestando piuttosto l’intera riflessione nell’ambito di un’indagine carnale.
Il virtuale non è dunque un sinonimo di immaginario, esso è, lo ripetiamo,
l’immaginabile, qualcosa che esercita la propria potenza proprio perché non è ancora
immaginato, “vale a dire, realizzato in immagini.”769
Relativamente all’oggetto estetico, e artistico in particolare, questo virtuale assume
dunque una valenza importante ed esemplare. È di fronte ad oggetti così poco
determinabili che la possibilità di creazione di senso e di immagini si moltiplica e che
l’immaginario si presenta al suo massimo grado di potenzialità.
767
Ivi, p. 202.
Ibidem.
769
Ibidem.
768
251
Relativamente alla percezione, ancora, il virtuale riconferma la necessità di
riconoscere l’impossibilità di inscrivere ogni cosa in un registro determinato, “visto che
è a cavallo di molti registri: transsensibile perhcè multisensibile, oseremmo dire, ma
anche multisensibile perché presensibile.”770 Certo il virtuale restituisce al percepito il
suo spessore, ma con molta più pregnanza esso restituisce al percepito il suo carattere
primigenio; ne ribadisce il potere genealogico, l’appartenenza a un regno che non è
quello del non sentito (né dell’invisibile) ma del “sentito prima della differenziazione
sensibile.”771 Tutto questo rimanda, nuovamente, al problema del senso che si riconosce
di nuovo, e con maggior forza, come un elemento dinamico, la cui origine assoluta resta
sfuggente e del quale tuttavia si deve dire chiaramente che essa è sempre all’opera.
Nell’afferramento virtuale delle possibilità della sinestesia, il soggetto può avere
una certa esperienza di un ritorno nei paraggi dell’originario.
Non si esperisce più come naturate, del tutto individualizzato, differente, ritrova
semmai, per un momento, l’intimità prenatale (che la riflessione può esplicitare
teorizzandone l’a priori) con l’altro, con l’oggetto che non è nemmeno
definitivamente naturato, che non è ancora oggettivato, l’oggetto come carne,
ancora indifferenziato.
Ecco quindi a cosa approda la riflessione di Dufrenne: a un’ontologia della carne,
chiamata proprio dalla fenomenologia del virtuale. Ma, e questo è senza dubbio il punto
finale che, nella sua ambiguità mantiene ferma la sua importanza, un’ontologia di
questo tipo sarà sempre “un’ontologia impossibile”772. Conclude infatti l’autore, con
righe dense che meritano di essere citate completamente:
Ontologia impossibile, tuttavia. L’idea di un’omogeneità del sensibile sfugge
alla nostra presa, l’unità del plurale non è afferrabile. Il virtuale può certo
invitare a parlare di uno stato primigenio del sensibile, ma questo non può
essere provato. O ancora, l’affinità del diverso che ispira le sinestesie non si
compie nell’unità di quel diverso. Questo è infatti il paradosso del presentito:
non è ancora sentito, ma è sensibile, e in quanto tale non specificato.773
770
Ivi, p. 203.
Ibidem.
772
Ivi, p. 204.
773
Ibidem.
771
252
Si esplicita allora in maniera evidente la relazione che il virtuale consente di
mettere in luce a livello ontologico. Dire che l’ontologia sia impossibile sposta il fuoco
su una dimensione di carattere metafisico eppure antropologico: carattere antropologico
perfettamente in linea con quello sfondo esistenziale che animava già l’ontologia di
Merleau-Ponty e che con Dufrenne si radicalizza. L’Essere non può essere oggetto di
indagine, il fondo resta confuso e come tale sfuggente; tuttavia, proprio la relazione
intenzionale, caratterizzata in senso sinestetico e virtuale, può mettere in luce
l’orignarietà di tale fondo e il suo carattere relazionale. Se di essere si può parlare, è
sempre alla luce della presenza del mondo e in virtù di un contesto percettivo; sapendo
che l’essere in quanto tale precederà sempre sia l’oggetto che lo presenta che l’uomo
che vi si avvicina, eppure potrà compiersi sempre e solo nella relazione tra i due. È qui
che Dufrenne forse compie quanto aveva dichiarato di voler fare nel suo scritto su
Merleau-Ponty: non legare l’afferramento del fondo ad una ontologia sempre sfuggente,
ma congiungere l’idea della Natura all’idea di fondamento, come a priori di ogni a
priori, “et de surprendre la naissance du dualisme et les métamorphose de l’homme et
du monde à la racine meme du monisme.”774
Nel corpo la distinzione tra il soggetto e l’oggetto è “irrémédiablement brouillée” e
quello che li lega, sia esso chiasma merleaupontiano o rapporto sinestetico dufrenniano
sfugge ad ogni definitiva sistematizzazione; al contrario vi si manifesta con chiarezza
l’azione costante di elementi precategoriali e originari.
Il soggetto sinestetico, quindi, e l’immaginario virtuale che lo abita, interagiscono
ancora con il pittore pontiano: essi sono i protagonisti dell’avvenuto chiasma, coloro i
quali aprono mondi di sensi e ne abitano la labilità e la trasformazione. Al contrario del
pittore di Merleau-Ponty, tuttavia, il soggetto sinestetico si spoglia di ogni valenza
ontologica. L’Essere mostra nel soggetto sinestetico la sua radice ineludibilmente
antropologica, forse poco fenomenologica in questo, ma profondamente poetica. Anche
il compito della filosofia ne viene quindi influenzato: con Dufrenne si fa evidente il
rifiuto di quelle che egli chiama filosofie “dell’assenza”, come quelle di Derrida o
Blanchot. L’estetica di Dufrenne si riafferma come portatrice, o come è stato scritto,
774
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 218.
253
“oggi l’unica portatrice, di una filosofia della presenza, presenza intesa come il porsi hic
et nunc del reale prodigo ed imprevedibile, dono che non implica donatore, che non
richiede alcun gesto creatore esterno se non quello dell’uomo che abita questa
potenza.”775 Il virtuale che abita la sinestesia ci ricolloca pertanto sul piano della Natura
molto più che dell’essere, caratterizzandola come possibilità; possibilità che solo il
rapporto reciproco, dinamico e genealogico tra un oggetto e un soggetto può attivare.
“Si vuole con ciò riaffermare, attraverso l’estetica, un’ontologia non come teoria
dell’essere, ma come esplicitazione del significato fenomenologico dell’esperienza, da
ricercare e disgelare nell’incontro preriflessivo fra l’io e il mondo, fra l’uomo e la sua
‘terra’”.776
Si capisce dunque, infine, quanto pregnante sia all’interno del percorso dufrenniano
la conclusione della sua meditazione sulla sinestesia. Con questo tema egli si riconferma
come ultima voce francese concentrata sull’estetica fenomenologica e di questa
posizione segna, al contempo, un deciso passo di distacco. L’ontologia cui approda,
infatti, nel suo essere impossibile, si assesta su una prospettiva che nulla condivide
dell’ontologia husserliana orientata alle regioni degli oggetti e dell’essere traminte cui
risalie al significato dell’esperienza. Al contrario, l’introduzione della sinestesia di
Dufrenne, e con l’idea che la base dell’ontologia sia proprio il rapporto intenzionale,
l’ambiguità e la verticalità del rapporto uomo mondo si spostano proprio sul punto di
contatto tra essi. Il nodo ontologico, quella figura chiasmatica che dopo Merleau-Ponty
consentiva di porre a tema l’ambigua ricchezza relazionale del corpo, si spoglia con
Dufrenne proprio del suo portato ontologico. La forza di quest’ultimo, infatti, viene
raccolta e potenziata da una lettura antropologica del chiasma, cioè della sinestesia e
della sua ambigua virtualità; antropologia che non si vuole né ingenua né psicologica,
ma comunque nemmeno ontologica.
La sinestesia incarna allora, riportandoci alle considerazioni con cui abiamo aperto
questo lavoro, la forza del mostrare; la potenzialità espressiva, stilistica e poetica del
corpo umano in cui si raccoglie e manifesta tanto il sensibile quanto l’immaginazione.
775
776
E. Franzini, La verità del corpo, art. cit., p. 28.
Ibidem.
254
Con il soggetto sinestetico si mette a fuoco un soggetto il cui rapporto con la verità non
sarà mai nichilistico, e però neppure mai causalistico né definitivo; un rapporto con la
verità che l’arte, senza poterla mai davvero produrre fino in fondo, può tuttavia
felicemente mostrare come dinamica simbolica e relazionistica, espressiva e
genealogica, infine virtuale e sinestetica.
255
CONCLUSIONI
“Le jour se lève. Ce n’est pas le lendemain qui chante, c’est l’aujourd’hui: le
vierge, le vivace et le bel aujourd’hui. (…) Pour moi qui ne suis pas dans une situationlimite, il convient que j’ouvre l’oeil: le jour m’y invite, pour sourgir de ma nuit. (…)
Quoiqu’il en soit, nous sommes sans prise sur le jour: il a l’initiative quand il se
lève.”777
A questo giorno che si leva, senza che noi possiamo impedirgli di rischiarare il
mondo intorno a noi e aprirlo alla nostra frequentazione ed esperienza; a questa forza
spontanea che ci mette in condizione di aprire i nostri sensi e rendere possibile ogni
evento della presenza; a questo soggetto chiamato a testimoniare dell’apparire delle
cose come alle interazioni tra esso e il mondo dischiuso dai suoi sensi, è stato dedicato
lo sforzo di Dufrenne e di questo lavoro da lui ispirato.
Il problema alla base dell’indagine era in fondo piuttosto semplice: non siamo in
contatto con un mondo che possiamo trattare come un puro e asettico fatto, non
abbiamo a che fare (solo) con oggetti che basta analizzare per comprendere o conoscere
per usare. Tutta l’estetica di Dufrenne si basa proprio sullo sforzo di descrivere quella
forma di adesione al mondo che dalla pratica e dalla conoscenza prescinde, senza
tuttavia essere fusione informe e sterile.
Eccoci allora alla prima conclusione da esplicitare, che riguarda il modo in cui
possiamo ridescrivere il soggetto umano nella sua dinamica relazionale con il mondo.
777
M. Dufrenne, Le jour se lève, cit. p. 203.
256
Dufrenne sottolineava come il suo sia stato un tentativo di "comprendre les mondes
singuliers comme des possibles du monde."778 Infinite possibili delimitazioni di un
mondo illimitato. Senza indulgere ad alcun relativismo, ma riconoscendo ad ogni
soggettività il potere di dischiudere un mondo; che è fatto molto diverso dalla facoltà di
accedere tutti allo stesso mondo. Proprio su questa infinita e indefinita diversità
abbiamo insistito con Dufrenne, poichè è esattamente nella proliferazione inarrestabile
dei mondi singolari che si manifesta la potenza infinita della Natura. "En se révélant
dans une image singulière la Nature s'exprime comme l'inépuisable foyer des possibles,
le grand silence de Pan."779
La valorizzazione della soggettività non mira allora in alcun modo ad una
soggettività trascendentale; al contrario, è esattamente la singolare dispersione degli
individui ad essere l'obiettivo teorico. L'idea kantiana suggeriva a Dufrenne "un monde
impersonnel et objectif comme la raison elle-même, la promesse ou le voeu d'une
tonalité intelligible enfin conquise par l'entendement."780 Al contrario, la lettura estetica
del mondo, e la teoria della Natura, mirano a mettere a fuoco il dinamismo tuttaltro che
intellegibile della realtà: "l'irradiation d'une qualité affective, l'expérience pressante et
précaire où l'homme découvre un instant le sens de son destin, lorsqu'il est tout intier
engagé dans cette épreuve."781
Dufrenne ci ha portati a parlare del poeta e dell'artista, ma come tramite per mettere
a fuoco una vicenda decisamente extra artistica. Poetico è, infatti, l'essere stesso della
Natura che riguarda l'uomo in generale molto prima e molto più di quegli uomini
particolari che sono i poeti e gli artisti. La poesia diventa infatti il luogo che rende vivo
e manifesto, che esprime, la possibilità – disponibile universalmente – di frequentare gli
aspetti pre-concettuali dell'intelletto, "à mi-chemin entre le régime diurne du logos et le
régime nocturne de l'imagination."782 Lungi dal limitare il poetico ad una pratica
artistica, infatti, Dufrenne lo intende innanzitutto come la possibilità di entrare in
778
Ivi, p. 176.
Ibidem.
780
M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 33.
781
Ibidem.
782
M. Dufrenne, Le poétique, cit. p. 179.
779
257
comunicazione con il fondo della Natura, con il suo essere poetico, attraverso quel
mondo che ci è dato da sentire: una possibilità di conoscenza, pour chacun de nous.783
Tutto ciò spinge a riproporre e riconfermare l’estraneità di ogni interpretazione
solipsistica e psicologistica dall’intero percorso. Il mondo non è un nostro costrutto, né
della nostra ragione né della nostra fantasia, ma neppure dei nostri sensi. Il mondo
percepito cade, infatti, sotto il dominio della nostra praxis intersoggettiva, alla quale si
offre congiuntamente al proprio significato, all’apparire del senso che esso avrà per
noi784.
La manifestazione, per quanto affettiva e non concettuale, di senso e verità, ha
quindi la particolarità fondamentale di essere sempre “engagée dans le sensibile”785 che
a sua volta, anziché essere qualcosa che vada annullato e oltrepassato, rivela tutta la sua
radiosa portata.
Ogni apertura singolare incarnata da un artista, e dall’uomo in senso lato, è allora
sempre un modo diverso, ma concreto e sensibile, affettivamente orientato, di entrare in
rapporto con il mondo, “de saisir et de fixer un nouvel aspect du réel.”786
Il soggetto della percezione sinestesica è la proposta dufrenniana per illustrare
questo soggetto che non è (ancora) soggetto grammaticale né soggetto di diritto, il quale
vive i paraggi dell’originario e sa perdersi nell’oggetto “come nel grembo del naturante
dal quale non sarebbe ancora nato.”787 Che di esso siamo arrivati a parlare come di un
soggetto che “può anche essere definito soggetto ontologico” ci ha spinto ancor più in là
nella prospettiva che abbiamo introdotto: l’accesso all’Essere, qualora esistesse, non è
appannaggio di una pratica artistica, ma diventa con Dufrenne accesso incarnato,
vissuto, articolato nell’infinita dispersione percettiva che è il corpo umano.
783
Ivi, p. 180.
Si torna in questo modo alle considerazioni di apertura tratte da La fenomenologia della percezione:
“Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. […] Il problema consiste allora […]
nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del ‘reale’, nell’esplicitare la nostra idea del mondo come ciò
che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo davvero
un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. […] Noi siamo nella verità e la
nostra esperienza è ‘l’esperienza della verità’. Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che
la percezione è non presunta vera, ma definita per noi come accesso alla verità.” (M. Merleau-Ponty, La
fenomenologia della percezione, cit., pp. 25-26.)
785
M. Dufrenne, Les valeurs esthétiques, cit., p. 35.
786
Ivi, p. 36.
787
M. Dufrenne, L’occhio e lo spirito, cit. p. 135.
784
258
Il soggetto di cui siamo andati in cerca con Dufrenne precede quindi ogni soggetto
grammaticale o di diritto, ogni soggetto empirico e anche trascendentale: è il soggetto
puro, nel suo essere innanzitutto un creux all’interno del sensibile, in cui suoni e colori
precipitano. E in questo soggetto, tutto corporeo, attraverso gli organi che lo
compongono nella loro indifferenziata interazione, si raccoglie un particolare e unico
visage du monde. L’uomo, lo spirito, si rivelano lì dove i sensi aderiscono al mondo
rendendolo oggetto per un soggetto: “Trouvez le corps individué, la machine sentante et
désirante, chair co-naturelle à la chair du monde, et vous aurez bientôt l’homme.”788
Nella sua adesione sinestetica alla realtà, con il coté virtuale e eternamente aperto
alla possibilità che tale originarietà implica, l’uomo diventa quel punto zero a partire da
cui tutte le coordinate del mondo si dispiegano. È da questo medesimo punto zero,
profondamente corporeo, che si apre il passaggio all’universo del pensiero. La
vocazione del soggetto avviene proprio in questo passaggio: “Car lorsque l’homme
invente la pensée, c’est parce que il la veut si différente, si incorruptible, si autonome
qu’il se refuse à lui assigner une source ou un lieu; mais si prêt qu’il soit à la
dépersonnaliser, il doit bien l’attribuer à un je et ce je c’est bien l’individu.”789
Individuo che Dufrenne descrive come un essere fragile, investito dal mondo da ogni
lato, ma in grado di affermarsi e rompere il cordone ombelicale proclamando il mondo
esterno e preparandosi a dominarlo. Ma tutto ciò è solo quella situazione, che pure
siamo condannati ad abitare, che segue la distinzione di soggetto e oggetto, il momento
in cui la cerniera è definitivamente aperta.
Del soggetto si può parlare in senso ontologico oltre che sinestetico proprio perché
il fondamento è radicato in lui. Ma, e questo è certo uno dei nodi fondamentali, questo
radicamento del fondamento non riguarda solo il soggetto in quanto tale, nella sua
autonomia, ma in quanto correlato del mondo. Di più: il fondamento stesso, quel
fondamento cui tutta la meditazione dufrenniana mirava, “n’est ni le monde ni le sujet,
il est l’accord de l’homme et du monde. Non un terme, mais une relation.”790 E solo
all’interno di questa relazione i termini possono esitere, mentre di essi non si trova
traccia a cercarli isolatamente. In questa relazione ogni volta diversa si comprende
788
M. Dufrenne, Le jour se lève, cit., p. 205.
Ibidem.
790
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 211.
789
259
perché sia tanto importante l’apertura immaginativa: “la forza di trasformazione
fenomenica e di relazione reciproca nella costituzione temporanea dei centri egologici
od oggettuali – o di entrambi insieme, come per lo più avviene – appartiene
all’immenso regno dell’immaginario.”791 Da questo ruolo sempre nuovo e rinnovato
della relazione soggetto-oggetto e sulla sua costante mutevolezza si potrebbe desumere
una forma di arbitrarietà che tenderebbe ad indebolire l’apparato generale
psicologizzando l’immaginazione. Tale rischio è però annullato nel momento in cui
dell’apertura immaginativa e virtuale si colga non il lato che pertiene al soggetto e alla
sua privata individualità, bensì il carattere poetico, produttivo ed espressivo che
riguarda sempre la relazione del soggetto al mondo che è sfumata e sfrangiata realtà.
Tale soggetto non si annulla in nessun disperato annichilimento, né si dissolve in una
intersoggettività incapace di raccoglierne il contributo. Al contrario, “il riferimento
all’individuo non è vincolato allo psicologismo se questo individuo si rende capace di
vivere un’esperienza ontologica che non inclina più al relativismo.”792 Se è
nell’individuo, nella sua relazione al mondo, che si innesta lo scambio carnale
originario e originale, si può accettare che tale scambio riguardi tutti i soggetti nella loro
dispersione individuale e investa il mondo non solo al livello del reale, ma anche al
livello, altamente significativo, del possibile.
L’infinito dell’Essere si stende per Dufrenne solo a partire da quella concrezione
spazialmente incarnata e temporalmente vissuta che è un soggetto sinestetico
nell’apertura della sua sensibilità; e solo a partire dalla sua apertura immaginativa,
costitutivamente presente nel suo corpo, ogni possibile entra a far parte, di diritto, del
reale che si deve esaminare. Tutto questo consente, come da intenzione dell’autore, di
sorprendere la genesi del senso “à ras de l’homme, au lieu de la déployer dan un ciel
métaphysique.”793
Tutto questo conduce con decisione verso la seconda conclusione saliente, relativa
a una domanda che abbiamo visto riproporsi a più riprese nel nostro percorso: la
791
D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 6.
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. . p. 130.
793
M. Dufrenne, Jalons, cit. p. 208.
792
260
questione della verità che questo rapporto carnale e sinestetico al mondo implica e di
come essa vada intesa.
Abbiamo visto come ne L’occhio e l’orecchio, coerentemente con tutto il percorso
dufrenniano, sia presente una forte istanza oppositiva al pensiero riflessivo, al
naturalismo chiuso della scienza e a quello che Merleau-Ponty chiamava il pensiero
allegro e improvvisatore della scienza. Recuperare il valore fungente dell’operatività
percettiva del corpo, accanto a quelli che sembrano sistemi incrollabili di certezze
scientifiche, significa ricollocare tutto l’umano su tale livello e riconoscere quanto più
problematico risulti quindi l’accesso alle strutture che lo regolano. Significa inoltre
configurare la verità, e le possibilità di accedervi, secondo uno schema specifico, molto
lontano dalla tradizione causalistica che, da Aristotele in poi, ha animato la ricerca
filosofica e scientifica occidentale.
Del reale con cui abbiamo a che fare Dufrenne, attraverso la sinestesia e
l’intervento dell’immaginazione che in essa si esercita, arriva a cogliere la potenza
surreale. Cosa significa allora questo reale consacrato come surreale? Esso mostra
quella caratteristica del reale su cui insiste tutta l’opera di Dufrenne, coerentemente con
la tradizione da cui discende: un reale cui non è mai del tutto estranea la dimensione del
“come se”, dell’analogia e della modificazione. Tale idea è strettamente connessa alla
sfera della percezione intesa come sinestesia, nella quale con Dufrenne si vuole mettere
in luce e ribadire l’impossibilità di immobilizzare i dati e farne astrazioni poiché è
sempre necessario, come già scriveva Bergson che Dufrenne certamente conosce,
riconoscerne il movimento, un certo ritmo, la ‘durata’. È in questo senso che Dufrenne
può attribuire all’oggetto la capacità di permetterci di esperire “l’affinità di quel diverso
che lo costituisce come oggetto determinato.”794 L’oggetto non è, non è più, una solida
esistenza in sé posta e affermata (oltre che costituita), come scriveva Formaggio795, da
uno spirito che ogni spirito e da un Io che è ogni Io; in una forma di relatività per nulla
negativa in cui, anzi, il rapporto con il vero è sempre più denso perché cangiante. Il
rapporto con i fenomeni è allora un rapporto ondeggiante, e non per questo meno
fecondo, del quale è bene riconoscere la ricchezza a scapito della chiarezza definitiva.
794
795
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 133.
Cfr. D. Formaggio, Appunti…, cit. p. 5.
261
Profondamente fedele, almeno in questo, agli intenti fondamentali della
fenomenologia, Dufrenne ci conduce alla ricerca del senso del mondo senza voler tenere
conto delle cause ma rimanendo profondamente ancorati alla nostra presenza al mondo.
La verità cui la sinestesia e il virtuale introducono è un flusso continuo e comunicativo
tra il mondo e la mia presenza a lui, fondata su un’intenzionalità come voleva Husserl
ma che, diversamente, diventa fondamento assoluto, originario se non addirittura
ontologico. La sinestesia è allora, ogni volta, percezione in cui si realizza di una verità,
mostrando come ogni interazione percettiva con il mondo sia già essa stessa filosofia796
in quel senso in cui è stato maestro Merleau-Ponty: “la filosofia non è il
rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la realizzazione di una
verità”797 e, “la vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo”798. Attraverso
l’apertura sinestetica si mostra dunque come siamo sempre in contatto con una verità799
che non somiglia alle cose, che non si riscontra necessariamente in un modello
eternamente replicabile, che non ha strumenti di espressione e tecniche predestinati e
privilegiati, e che, nondimeno, è verità perché al di là di essa non vi è niente800: “è il
relativo che diviene irrelativo”. Nella sfera dischiusa dal soggetto sinestetico non è
possibile nominare nessuna distinzione cartesiana fra organico e psichico, esteriorità e
interiorità, o ancora res cogitans e res extensa; esso è il luogo in cui questi livelli vivono
796
È questa interazione percettiva, ineludibilmente corporea, che funge da legame tra le cose e la
coscienza, uno dei principali obiettivi teorici che Dufrenne eredita dal percorso merleaupontiano. Tale
percorso era esplicito fin dalla prima opera La struttura del comportamento nel cui passo finale ci sembra
risuonare con forza la spinta e la direzione raccolta e seguita dal nostro autore: “La ‘chose’ naturelle,
l’organisme, le comportement d’autrui et le mien n’existent que par leur sens, mais le sens que jaillit en
eux n’est pas ancore un object kantien, la vie intentionnelle qui les constitue n’est pas encore une
représentation, la ‘compréhension’ qui y donne accès n’est pas ancore une intellection.” (M. MerleauPonty, La structure du comportement, cit., p. 241.)
797
M. Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., p. 30, corsivo mio.
798
Ibidem. Le stesse pagine riportano inoltre: “L’incompiutezza della fenomenologia e il suo modo di
procedere incoativo non sono il segno di un fallimento, ma erano inevitabili perché la fenomenologia ha il
compito di rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione. Se la fenomenologia è stata un
movimento ancor prima di essere una dottrina o un sistema, ciò non è un caso né un’impostura. Essa è
laboriosa come l’opera di Balzac, quella di Proust, quella di Valéry o di Cézanne – per lo stesso genere di
attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del
mondo e della storia allo stato nascente.” (Ivi, p. 31.)
799
Risulta così evidente la pregnanza del concetto di verità che impariamo dai greci: alétheia è,
letteralmente, il disvelamento che, come tale, è soggetto alla reiterazione eterna.
800
“Ma l’opera d’arte non è un che di arbitrario, o, secondo l’espressione comune, finzione. La pittura
moderna, come in generale il pensiero moderno, ci costringe ad ammettere una verità che non somigli alle
cose, che sia senza modello esterno, senza strumenti d’espressione predestinati, e che nondimeno sia
verità. (M. Merleau-Ponty, Il linguaggio indiretto…, cit., p. 84.)
262
ancora sovrapposti, avviluppati in un senso vitale il cui portato poetico e produttivo si
manifesta in nuce e sempre in fieri. L’iconicità non è categoria estetica che riguardi solo
l’opera d’arte, essa si estende “quando la percezione è sinestesica, all’oggetto percepito,
gravido di virtuale, grazie a cui si manifesta pienamente nella totalità dei suoi
aspetti.”801
La percezione sinestetica mostra come l’oggetto possa essere colto nel suo atto di
nascita, che è produzione espressiva di sensi senza la cristallizzazione congelata dei
significati. L’oggetto estetico, così come il mondo a un livello sinestetico, è un oggetto
in
nascita
e
rinascita
continua,
plurivalente
tendenzialmente,
plurivoco
e
unisituazionale; costantemente in movimento per essere illuminato ogni volta da una
realtà egologica differente cui non si chiede di produrre certezze sempre valide. La
virtualità della sinestesia che Dufrenne vuole mostrare riguarda la possibilità originaria
e genealogica di raggiungere, a partire dal corpo e attraverso la percezione, stimoli che
non riguardano informazioni da raccogliere ma sollecitazioni non del tutto
categorizzabili.
La filosofia di Dufrenne, in questo autenticamente fenomenologica, non si pone
come fittizia costruzione di un ordine ideale e di verità, perché la verità cui essa tende
non si risolve nella dialetticità del pensiero, ma si pone come costituzione dinamica di
una tensione sempre aperta ad un più vasto sistema di relazioni. Pertanto, la verità non è
un essere dato, ma un senso cui si tende, in una dinamica di progetto e azione
continuamente rinnovati. Il rapporto tra verità e mondo si rinnova dunque
ininterrottamente; ogni soggetto apre un mondo nuovo, secondo quelle forze che negli
gli oggetti estetici si manifestano perspicuamente. Nella presenza del corpo, dei corpi, si
attua ogni volta il cominciamento della verità del mondo: verità intersoggettiva,
intercorporea e comunicativa, mai solipsistica né dogmatica.
Attraverso quest’ultimo punto si giunge ad un’ulteriore notazione di rilievo: il
legame simbolico, espressivo e genealogico che nella sinestesia si manifesta non passa
innanzitutto per oggetti le cui caratteristiche avvierebbero tale processo. Al contrario,
come abbiamo visto, la relazione dinamica che avviene nel sensibile avviene in quanto
801
M. Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, cit. p. 134.
263
legame e relazione, per un soggetto e mediante un soggetto, “senza doversi affidare
all’identità di un oggetto che sia principio dell’associazione.”802 Nessun primato
dunque, né al lato soggettivo né a quello oggettivo, bensì l’afferramento dell’ambiguità
della loro relazione nella sua ricchezza e nei suoi adombramenti chiasmatici. Di nuovo,
il fondamento è la relazione; la percezione e lo stile si sovrappongono, per restituire del
mondo una descrizione espressiva e poetica.
Il tema dell’immaginazione interessa qui in particolar modo nella misura in cui la
maggior parte delle dottrine che lo hanno affrontato sembrano averlo fatto sotto l’egida
di un appiattimento di immaginario e irreale. Tale appiattimento conduce a una forma di
opposizione tra reale e immaginario basata sull’idea che il reale sia già sempre
determinato, o se non altro determinabile, e renda sempre possibile l’esclusione
dell’irreale immaginario dal quadro percepito. L’immaginario definito come irreale va
rapidamente a corrispondere all’illusorio, incarnando così il nemico principale di ogni
forma di razionalismo. Tuttavia, è proprio tale corrispondenza affrettatamente articolata
tra immaginario e irreale quello che Dufrenne mette in discussione. Perché la
percezione non sia, infatti, solo registrazione passiva di dati ma, più proficuamente, atto
dello spirito, è necessario che l’immaginazione sia sempre presente in essa. “Que la
perception soit fausse d’abord, cela signifie sans doute la servitude d’une pensée
soumise à l’empire du corps, mais aussi la liberté du jugement; le faux, c’est aussi
l’invisible qui n’apparait jamais, que l’art seul peut fixer, et dont l’introduction dans le
plein du monde témoigne pour l’esprit – un esprit qui se révèle et s’éprouve au détour
de l’erreur.”
Ne consegue l’importanza del ruolo dell’immaginazione all’interno della relazione
e la necessità di sottolineare l’azione, all’interno del reale, del possibile e del virtuale.
Ad essi non si guarda in cerca di una poco proficua indagine sull’irreale, al contrario:
attraverso la descrizione del soggetto sinestetico e la conseguente lettura della verità, si
può cogliere perché tanto importante sia riconoscere la presenza e l’azione di un
immaginario immanente al percepito. Al di là di visibile e invisibile siamo portati a
ritrovare un’opposizione ancora più originaria e originale: quella tra immaginato e non
immaginato, intesi nel senso forte di dati o non dati in immagini, in figura.
802
Ivi, p. 195.
264
L’immaginario è ciò grazie a cui al reale si guarda con la consapevolezza delle infinite
possibilità di cui esso è intessuto; possibilità che solo la scintilla innescata dall’apertura
percettiva nella sua originarietà sinestesica può rendere reali. L’immaginario è quella
fessura grazie a cui il rapporto percettivo si conferma carne inesauribile; esso è da
intendere come una virus o una vis dell’oggetto nella sua relazione con il soggetto che
lo percepisce e non, semplicemente, come un potere esclusivo del soggetto. In questa
possibilità di apertura che è a priori nell’oggetto e nel soggetto si designa proprio il
loro potenziale poetico ed espressivo, e, di nuovo, il fatto che la loro verità sia nella loro
relazione.
L’ultima conclusione cui quanto detto fin qui ci conduce è, infine, quella che
riguarda il lato propriamente artistico di quanto esplicitato. Ma se all’arte si guarda non
sarà in nessun modo con l’obiettivo di aggiungere nulla a qualsivoglia teoria estetica in
senso di teoria dell’arte. L’esito teorico del discorso sviluppato fin qui ha il pregio di
utilizzare l’ambito artistico come regione d’esperienza significativa in cui veder
esercitare quella vitalità che pertiene però all’uomo in generale.
In questa direzione la meditazione di Dufrenne ha fornito due contributi importanti
strettamente intrecciati l’uno all’altro: il primo relativo alla rivalutazione da lui operata
della sensibilità in generale contro la tradizionale predilezione per la vista; il secondo
relativamente alla differenza non ontologizzabile che appartiene all’arte e che
riconferma, insieme a tutta la realtà che può sempre essere estetica, polo attivo di una
relazione fondativa e genealogica in cui, se di Essere si può parlare, è sempre alla luce
della presenza del mondo e in virtù di un contesto percettivo; sapendo che l’essere in
quanto tale precederà sempre sia l’oggetto che lo presenta che l’uomo che vi si avvicina,
eppure potrà compiersi sempre e solo nella relazione tra i due. “Per quanto si estenda
oggi il dominio dell’arte, vi appaiono sempre delle opere. Ma non confiscano l’apparire:
con esse, i esse, sorge il senso. Nello stesso momento in cui si rivelano, rivelano
qualcosa. Accendono la luce, ma sono esse stesse luce: mostrandosi, mostrano.”803
Quel distanziamento dell’autore da una lettura del fondamento in termini
ontologici, reso esplicito in particolare ne L’occhio e l’orecchio, ha come correlato
803
M. Dufrenne, Arte e natura, in M. Dufrenne-D. Formaggio, Trattato di estetica, cit. p. 40.
265
teorico una proposta di lettura del mondo come qualcosa di cui riappropiarsi al di là del
suo essere puro Gegen-stand, da riconfiguare a partire da quel punto zero che
l’individuo è. In questo senso gli oggetti estetici rivelano la propria efficacia nel
descrivere tale relazione proprio per il loro essere forme, cose, di fronte ai nostri sensi;
ma forme e cose che tali sensi riattivano costantemente spingendoli al limite stesso delle
loro possibilità, là dove il non figurato, il non percepito e l’invisibile prendono corpo.
“L’oeil oui, mais pour quoi pas l’oreille, aussi bien la main?”804 La corporeità tutta
intera è protagonista della felice ambiguità intenzionale che le opere d’arte sanno
incarnare con validità. È il passaggio dal sensibile al sensuale, a quella dimensione della
realtà cui il corpo tutto tende con forza in un’interazione carnale con il mondo, fatta di
reciprocità, attività che è anche passività e conseguente riavvicinamento all’originario.
L’esperienza del mondo che ne consegue è naturalmente quanto di più lontano da una
concezione scientifica del rapporto con il corpo del quale invece si riconosce ed esalta il
carattere dinamico e genealogico. All’arte non si guarda pertanto alla ricerca di dati e
prodotti dell’uomo da analizzare ma in quanto ambito in cui da una parte si rappresenta
operativamente ciò che il corpo fa nella sua frequentazione del mondo e, dall’altra, si
ripresenta ogni volta da capo l’originarietà fungente, precategoriale e sentimentale di
questa frequentazione. In ogni forma d’arte si libera il sensibile e, almeno fin dove è
possibile farne esperienza, si può forse presentire la sua unità. Il pre-estetico sarà
sempre al di fuori della nostra portata, ma il sinestetico, almeno in figura, può essere
presentito.
In questa sfumata partecipazione al sinestetico, che la percezione estetica sa
figurare, emerge con forza come la forma cui la percezione aderisce non sia leggibile
solo in termini di forma di qualcosa ma al contempo Forma tout court, precategoriale e
inserita in una dinamica di processi fungenti. In questo senso l’oggetto estetico (e
potenzialmente il mondo intero, è sempre bene ripetere) si presenta decisamente come
polo intorno a cui freme una genesi estetica, densa di contenuti simbolici in costante
trasformazione. Di nuovo, è al processo, nel suo essere percettivo, fondativo e
genealogico, che si guarda; non agli oggetti, per loro supposte caratteristiche
intrinseche.
804
M. Dufrenne, “L’oeil et l’esprit”, cit. p. 101.
266
Se l’oggetto estetico esibisce ed esplicita l’adesione umana all’originario esso ci
conduce però a ricomprendere gli schemi della percezione e allargarli all’inverosimile.
È la potenza del fondo che l’arte si sforza sempre di ridire, come scrive Dufrenne
ne L’inventaire; “i poeti imitano la poesia della Natura, ci riconducono a quanto c’è di
elementare negli elementi, che non richiede una psicanalisi, Bachelard l’ha capito, ma
una fenomenologia dell’apparire; essi infatti fanno apparire, nel movimento stesso
dell’apparizione, l’insistenza dell’essere.”805
Ci è sembrato utile, in questa direzione, accostare il soggetto sinestetico
dufrenniano al soggetto del pittore di cui parla Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito,
con cui L’occhio e l’orecchio dialoga in modo esplicito fin dal titolo. Il soggetto
sinestetico è emerso in quanto figura del punto zero in cui la percezione primordiale si
apre e manifesta, al quale le cose del mondo si presentano innanzitutto abitate e vissute
e per il quale esse rappresentano il centro da cui i sensi stessi si irradiano. Nel soggetto
sinestetico sembra rivivere con forza e significati precisi quel pittore incarnato dal
Cézanne di Merleau-Ponty: colui che ha sempre voluto “rimettere l’intelligenza, le
scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo che esse sono destinate a
comprendere, e confrontare con la natura, come egli afferma, le scienza ‘che ne sono
scaturite’.”806 Il soggetto sinestetico è allora colui che vive ciò che il Cézanne di
Merleau-Ponty metteva in arte: la non scelta tra sensazione e pensiero, l’adesione totale
alle cose “dietro l’atmosfera” a un livello primordiale cui tutto il resto è secondo. Il
soggetto sinestetico è colui in cui si vive ciò che nell’arte di Cézanne veniva evocato,
cioè l’ordine nascente delle cose che, da un fondo inarticolato, si coagulano sotto i
nostri occhi. Entrambe le figure pongono a tema le certezze dell’ambiente in cui
viviamo, quelle cose di cui siamo abituati a pensare come necessarie e incrollabili: in
loro si invera quella visione che “va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita.”807
Ecco allora che nel soggetto sinestetico si raccoglie e manifesta di nuovo il senso
espressivo della frequentazione del mondo. Il pittore di Merleau-Ponty “riprende e
converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui resta rinchiuso nella vita
805
M. Dufrenne, L’inventaire…, cit. p. 71.
M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit. p. 32.
807
Ivi, p. 35.
806
267
separata da ogni coscienza: la vibrazione delle apparenze che è la genesi delle cose”808;
il soggetto sinestetico abita questa vibrazione, è colui nel quale questa genesi stessa ha
realmente e originariamente luogo.
Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, il ruolo decisivo della sinestesia: crocevia
chiasmatico che sfugge ogni definizione ontologica per riafferrare, invece, la Natura e la
Coscienza come poli inseparabili dell’originarietà fondamentale. Nel soggetto
sinestetico dufrenniano si offre in figura il movimento poetico della Natura verso
l’uomo, insieme alla loro espressiva relazione reciproca.
Alla preoccupazione per l’Essere Dufrenne propone di sostituire la cura (souci) per
gli enti, la preoccupazione di rendere giustizia agli oggetti lasciandoli essere e lasciando
che nella relazione con loro si eserciti con tutta la sua forza la nostra adesione
sinestesica, mai visibile ma se non altro vivibile come partecipazione immaginativa,
attiva e creativa. Nei confronti della verità, dell’arte e del mondo tutto intero perché
interamente passibile di estetizzazione.
Le jour s’est levé. Plus tard, midi le juste. Mais déjà la lumière rend justice à ce
qu’elle dévoile. Elle lasse être ce qui est, elle le conduit seulement à la gloire de
l’apparaître. Et sans doute, l’homme aussi est lumière; c’est dans la lumière de son
regard que le monde apparaît. Est il possible qu’il rend justice, lui aussi, que son
regard ne soit pas celui du maître, qui ne jouit que d’asservir, mais celui de l’ami, qui
en appelle à l’anarchie?809
808
809
Ivi, p. 36.
M. Dufrenne, Le jour se lève, cit. p. 207.
268
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