Il denaro "sterco del demonio" - Osservatorio Scientifico Spirituale

Lucio Russo
Il denaro è lo "sterco del demonio"?
Roma 25 Novembre 1998
Il denaro "sterco del demonio"
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La lettura de Il denaro "sterco del demonio" (1), di Massimo Fini, ci ha suggerito
alcune considerazioni che vogliamo qui riportare, in modo tutt'altro che sistematico,
nella speranza che siano di qualche utilità a chi, essendo dedito allo studio della
scienza dello spirito di Rudolf Steiner, intenda affrontare, o abbia già affrontato, le
opere relative alla cosiddetta "questione sociale" e, in particolare, all'economia.
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"La capacità del denaro - scrive Fini - di crescere come un tumore sul corpo che gli
ha dato vita sino a invaderlo completamente, soffocarlo e distruggerlo, deriva dalla
sua natura squisitamente tautologica, dalla sua attitudine ad autoalimentarsi, diventando così un fine, un fine ultimo, un fine che non ha altri fini al di fuori di se stesso."
(2).
Esso - scrive inoltre - non solo "da utile mezzo è diventato fine, da servo si è fatto
padrone" (3), ma, "giunto al culmine della sua potenza e della sua autoalimentazione
tautologica, gonfio e tronfio come la rana della favola, è pronto a esplodere al primo
colpo di spillo." (4).
Qui si presentano due problemi di diversa natura: il fatto che la quantità del denaro
o dei "valori nominali" attualmente in circolazione superi patologicamente quella dei
"valori reali" (dei beni e dei servizi concretamente disponibili), costituisce infatti un
problema economico; il fatto che il denaro si sia arbitrariamente trasformato da "mezzo" in "fine", costituisce invece un problema etico o spirituale.
Il primo dovrebbe quindi interessare anzitutto la scienza dell’economia, il secondo
la scienza dello spirito.
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Che il denaro rivesta un valore di "mezzo" o un valore di "fine" non dipende - come
sembra sostenere Fini - "dalla sua natura squisitamente tautologica" o "dalla sua attitudine ad autoalimentarsi", quanto piuttosto dal modo in cui l'uomo vi si rapporta o lo
usa. Solo l'uomo, infatti, può conferire al denaro un valore di "mezzo" o di "fine".
Non perché esso - si badi - non abbia un suo oggettivo valore, ma perché questo,
dall’uomo, può essere tanto rispettato quanto stravolto. Quale conseguenza di un inconscio processo di "proiezione", tale valore può essere infatti soggettivamente mortificato (sulla base di un atteggiamento tendenzialmente "depressivo" o "pauperistico"), esaltato (sulla base di un atteggiamento tendenzialmente "maniacale" o "consumistico") o distorto (sulla base di un atteggiamento tendenzialmente "pervertito" o
"feticistico", quale quello, ad esempio, dell'avaro).
In tutti e tre i casi - come si vede - si ha sempre un'alterazione della sana "relazione
oggettuale" col denaro. Superfluo ricordare che stiamo parlando del suo valore "spirituale" e non di quello "economico”.
Dire, ad esempio, - come fa Simmel - che "il denaro è la forma più pura dello struPag. 1 di 22
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mento" (5), significa dire un qualcosa che concerne appunto il suo valore spirituale
("categoriale") e non quello economico.
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E’ comunque significativo che quasi nessuno si riferisca esplicitamente
all’oggettivo valore spirituale del denaro. Per gli uni tale valore è infatti "spirituale",
ma non "oggettivo" (e quindi soggettivo); per gli altri è invece "oggettivo", ma non
"spirituale" (e quindi materiale).
Fini, ad esempio, prima ricorda che il denaro "ha un valore di scambio senza avere
un valore d'uso" ("Io - scrive - posso essere certamente disposto a scambiare la mia
mucca per denaro ma non cambierei mai tutti i beni del mondo con tutto il denaro del
mondo. Perché non saprei cosa farmene.") (6), e poi sottolinea la necessità di distinguere "il denaro, dalla moneta che è il suo supporto materiale" (7).
Allo stesso proposito, Simmel raccomanda invece di distinguere il "denarofunzione" dal "denaro-sostanza". "Da una parte - scrive infatti Gianfranco Poggi (autore di uno studio su La filosofia del denaro di Georg Simmel) - il denaro simbolizza
qualcosa di tanto astratto quanto un rapporto e questa è la funzione costitutiva del denaro che gli è esclusiva; d'altra parte il denaro si presenta come un oggetto e in quanto tale ha un aspetto sostanziale che lo rende comparabile con altri oggetti e particolarmente con quelli i cui valori economici il denaro stesso permette alla gente di valutare e di trasferire." (8).
In entrambi i casi, dunque, si fa esplicita menzione del "denaro-sostanza" e del "denaro-funzione", ma non si parla affatto del "denaro-valore". È pur vero, d'altronde,
che si può cogliere la realtà del "denaro-valore" soltanto ove questa non venga inconsciamente "identificata" con quella del "denaro-funzione" (come fanno i realisti metafisici) né con quella del "denaro-sostanza" (come fanno i realisti ingenui o dogmatici).
La realtà del "valore", infatti, è quella stessa dell’"idea" o del "concetto": quella, ossia, destinata fatalmente a sfuggire tanto al nominalismo, per così dire, hard di Fini
quanto a quello soft di Simmel ("certamente, in tempi moderni, - lamenta appunto
Hegel - a nessun concetto è andata così male come al concetto stesso, al concetto in
sé e per sé.") (9).
In effetti, per poter sperimentare l’essenza del denaro, al di là della sua manifestazione "esistenziale" nello spazio (quale sostanza) e nel tempo (quale funzione), sarebbe necessario sviluppare dei livelli di coscienza superiori a quello dell'intelletto. Solo
a tali livelli (detti, da Steiner, "immaginativo", "ispirativo" e "intuitivo") è possibile
infatti sperimentare, lucidamente, la realtà spirituale di quell'essenza che, in forma di
"valore", di "qualità" o di "concetto", risplende nelle "tenebre" della coscienza ordinaria (si tenga presente, al riguardo, che ogni essenza si dà come esperienza "noetica"
al pensare, come esperienza "estetica" al sentire, e come esperienza "etica" al volere).
Il denaro - afferma appunto Steiner - "è l'espressione, lo strumento, il mezzo di cui
si serve lo spirito per intervenire nell'organismo economico basato sulla divisione del
lavoro." (10).
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Il denaro - dice Simmel - "non ha tanto una funzione quanto è una funzione."(11).
Ma com'è possibile – c’è però da chiedersi - che si dia un'azione (o una funzione)
senza un soggetto che la esplichi? Non è forse il soggetto, in quanto è, l’unico a poter
avere una funzione?
Nel nostro caso, tale soggetto è costituito appunto dal "denaro-valore" o dal "denaro-idea". Ogni funzione, infatti, non può far altro che svolgere un ruolo di mediazione
tra il mondo superiore dell'idea, della qualità o del valore e quello inferiore della materia, della quantità o della sostanza.
Mentre la sostanza materiale, ad esempio, può avere un valore, il valore non può
avere una sostanza materiale (e proprio per questo l'intelletto, nell'incapacità di sperimentarne la "sostanza spirituale", lo giudica "astratto"). Anche il "denaro-funzione",
comunque, può avere un valore, ma non una sostanza materiale.
Alla stessa stregua del tempo, chiamato a mediare tra la realtà sovrasensibile dell'idea e quella sensibile dello spazio, il “denaro-funzione” è infatti deputato a mediare,
in forma sensibile-sovrasensibile, tra la realtà del "denaro-valore" e quella del "denaro-sostanza" (anziché dire che "il tempo è denaro", sarebbe perciò meglio dire che "il
denaro è tempo").
È dunque l'idea che, raggiando come un Sole, rende partecipi della sua luce tanto la
funzione che la sostanza. Quando una moneta, ad esempio, finisce di avere corso legale, il suo valore tramonta, sì, sull'orizzonte economico, ma risorge, presto o tardi,
magari su quello numismatico (uno stesso destino, del resto, hanno tutti quegli oggetti il cui valore, dopo essere diminuito di pari passo con il loro invecchiamento, torna
poi a vivere una seconda giovinezza sul piano del modernariato o dell'antiquariato).
Se le realtà illuminate, nel tempo e nello spazio, dal valore, sono mutevoli, immutabile è invece, in sé, quella del valore stesso (come immutabile, in sé, è quello spirito
umano che è chiamato a dare appunto un giusto valore tanto all'anima, alla vita e al
corpo quanto a tutto ciò che lo circonda).
Mentre Simmel è convinto dunque che "il primo tema di grande significato della vicenda storica del denaro" sia costituito - secondo quanto riferisce Poggi - dalla relazione del denaro come sostanza col denaro come funzione (12), noi siamo invece
convinti che tale “tema” sia più complesso, in quanto costituito dall’interazione non
di due, ma di tre fattori: quello spirituale o culturale, quello giuridico e quello economico.
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Si dovrebbe convenire, del resto, che se è impossibile comprendere il "fenomenodenaro" prescindendo da quello economico, è altrettanto impossibile comprendere
quest'ultimo prescindendo da quello giuridico e da quello culturale: prescindendo, ossia, dall'organico insieme del fenomeno sociale.
Come capire il cuore ove venisse isolato dall'apparato circolatorio? E come capire
tale apparato, ove venisse a sua volta isolato da quello metabolico e da quello neurosensoriale: ove venisse isolato, cioè, dall'organico insieme del corpo umano?
Un esempio del genere - s'intende - non è per nulla casuale. Infatti, come l'attività
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metabolica è chiamata, nell'ambito dell'organismo individuale, ad assicurare l'attività
del ricambio (dell'insieme, cioè, di quelle trasformazioni chimiche che rendono possibile la conservazione, l'attività e il rinnovamento dei tessuti), così la vita economica
è chiamata, nell'ambito dell'organismo sociale, ad assicurare l'attività dello scambio.
Ed è appunto per assicurare al meglio lo svolgimento di tale attività che è sorta e si è
sviluppata l'idea del denaro.
Scrive infatti Simmel: "Se ogni traffico economico si basa sul fatto che io voglio
avere qualcosa che per il momento si trova in possesso di un altro e che questi mi cede se gli do in cambio qualcosa che possiedo e che egli vuole avere, è anche evidente
che in questo processo bilaterale l'elemento nominato per ultimo non si presenterà
sempre quando appare il primo. Infinite volte desidererò l'oggetto a che si trova in
possesso di A, mentre l'oggetto o la prestazione b, che cederei volentieri in cambio, è
del tutto priva di interesse per A; oppure i beni offerti reciprocamente sono oggetto
del desiderio di entrambe le parti, ma non è possibile raggiungere immediatamente un
accordo sulle quantità in cui reciprocamente si corrispondono. Perciò, per raggiungere il massimo grado di realizzazione dei nostri fini è di estremo valore che venga introdotto nella catena dei fini un elemento intermedio, in cui si possa convertire b in
ogni momento e che, a sua volta, possa nella stessa misura convertirsi in a, pressappoco come qualunque tipo di forza - quella dell'acqua che cade, del gas riscaldato,
della pala di un mulino spinta dal vento - se condotta ad una dinamo, può essere convertita in qualsiasi forma di forza. Il mezzo di scambio universalmente riconosciuto
diventa il punto di passaggio di ogni transazione onerosa bilaterale. Esso si rivela,
come negli esempi suddetti, un ampliamento dell'agire finalizzato, proprio perché è
un mezzo per ottenere in modo indiretto e mediante una pubblica istituzione oggetti
desiderati, ma irraggiungibili da ogni sforzo rivolto direttamente ad essi. Come i miei
pensieri devono assumere la forma della lingua compresa da tutti, per favorire, attraverso questa via indiretta, i miei scopi pratici, così le mie azioni o i miei averi devono
giungere alla forma del valore monetario per servire alla prosecuzione della mia volontà." (13).
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Secondo Simmel, il fenomeno economico fondamentale ("primordiale" direbbe Goethe) è rappresentato dallo "scambio" e non dalla "produzione". Egli giudica "economica", infatti, soltanto quell'azione che "comporta il confronto tra due cose (o due
condizioni o due attività) ciascuna delle quali possiede un valore in se stessa, ma in
circostanze in cui non è possibile possedere o fruire di entrambi i valori per un determinato soggetto, di modo che questi deve privarsi del possesso o della fruizione di un
oggetto, per assicurarsi il possesso o la fruizione dell'altro." (14). Pertanto - conclude
- "il fatto che una cosa valga qualcosa in termini puramente economici, significa che
per me essa vale qualcosa, cioè che io sono disposto a rinunciare a qualcosa per acquisirla." (15).
In effetti, anche Steiner riconosce che "il problema economico sorge per l'uomo non
appena egli abbia qualcosa da vendere o da comprare.".
Non appena vi sia "qualcosa da vendere o da comprare", sorge però, inevitabilmente, la questione del prezzo: cioè quella - come dice ancora Steiner - "in cui devono
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sfociare i più importanti problemi economici, poiché nel prezzo culminano tutte le
forze, tutti gli impulsi attivi nell'economia." (16).
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Ma come nasce il prezzo?
Abbiamo appena visto che - a detta di Simmel - si verifica uno scambio ogni volta
che, per acquisire una cosa che "vale", "sono disposto a rinunciare" a un'altra cosa
che "vale". Ma è proprio per questo che Steiner richiama l'attenzione sul fatto che gli
uomini non esercitano tanto uno scambio di beni quanto piuttosto di valori. "In qualsiasi punto ci troviamo posti nel processo economico, - dice infatti - e questo si estrinseca in una compra-vendita, abbiamo in sostanza uno scambio di valori. Non troviamo altro scambio che quello di valori. In fondo è un errore parlare di scambio di
beni.".
Ma nel momento stesso in cui si determina "uno scambio di valori", prende forma il
prezzo. Sempre Steiner spiega appunto: "Quel che risulta nel processo economico,
quando valore e valore cozzano l'uno contro l'altro per scambiarsi, è il prezzo. Si vedrà apparire il prezzo quando nel processo economico valore urta contro valore."
(17).
Eccoci dunque, di nuovo, alle prese col valore. Questa volta, però, non con quello
spirituale o ideale (incommensurabile), ma con quello economico (commensurabile).
Per poter capire come avvenga la manifestazione del valore sul piano economico, è
tuttavia necessario - sostiene Steiner - gettare lo sguardo in due diverse direzioni. Infatti, una fonte di tale valore (quella maggiormente riconosciuta) è rappresentata dal
lavoro umano applicato alla natura, l'altra (quella maggiormente disconosciuta) è
rappresentata dallo spirito umano applicato al lavoro. "Questi – dice appunto - sono
in sostanza i due poli del processo economico. Non vi sono altre vie attraverso le quali vengano generati valori economici. O la natura viene modificata dal lavoro umano,
o il lavoro viene modificato dallo spirito." (18).
Il valore, dunque, è sempre una manifestazione dello spirito: in un caso, dello spirito umano come volontà o forza; nell'altro, dello spirito umano come pensiero o forma.
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Se si può dire - come fa Steiner - che il prezzo sorge "quando nel processo economico valore urta contro valore", si può anche dire, allora, che il valore sorge quando
qualità urta contro qualità.
Il valore che nasce dal lavoro umano applicato alla natura appare infatti quando l'intrinseca qualità del bene naturale s'incontra o si scontra con quella del lavoro umano
(con la forza o l'abilità dell'homo faber). Per poter assumere forma "economica", lo
stesso ha però bisogno di essere poi immesso, quale merce, nel circùito degli scambi
("nel lavoro - precisa appunto Steiner - non si ha un valore economico diretto") (19).
Va tenuto presente, infatti, che la mera attività fisica (il fare ginnastica, ad esempio) o
la sola fatica spesa per trasformare un qualsiasi bene naturale (un ramo, ad esempio,
mutato, col temperino, in un bastone da passeggio) non sono sufficienti, di per sé, a
creare del valore "economico" (pur essendo sufficienti a crearne degli altri: magari
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salutistici, estetici o utilitari).
Il valore che sorge invece dallo spirito umano applicato al lavoro appare quando la
qualità del lavoro (dell'abilità o della forza dell'homo faber) s'incontra o si scontra
con quella dello spirito (dell'intelligenza o della sagacia dell'homo sapiens).
A tale proposito, Leopoldo Pirelli pare abbia detto una volta: "Efficienza vuol dire
far bene le cose, efficacia significa fare le cose giuste." (20). In ogni caso, se il primo
di questi due processi (quello della trasformazione del bene naturale da parte del lavoro umano) crea valore (valore che - secondo quanto abbiamo appena detto - diviene "economico" nel momento in cui il bene così trasformato viene inserito, quale
merce, nel "mercato"), il secondo (quello della trasformazione del lavoro umano da
parte dello spirito) crea invece plusvalore (ovvero, un valore che si “aggiunge” al
primo e lo incrementa).
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Steiner, ne I capisaldi dell'economia, denomina "vNL" il valore che scaturisce dalla
trasformazione della natura da parte del lavoro umano e denomina invece "vLS" quello che scaturisce dalla trasformazione del lavoro da parte dello spirito umano. Qui,
per semplificare, chiameremo il primo "vV" (valore-Volontà) e il secondo "vP" (valore-Pensiero).
Orbene, allorché nel processo economico, quale primo e più importante effetto della
trasformazione del lavoro da parte dello spirito, subentra la "divisione del lavoro", si
osserva che il "valore-Volontà" viene a trovarsi, per ciò stesso, "frazionato" o - come
dice Steiner - "smembrato".
Infatti, nel momento in cui il bene naturale è trasformato dai lavori parziali di più
persone, il valore "vV" viene a suddividersi nei valori parziali "vV1", "vV2", “vV3",
ecc.. "Quel che esiste nella realtà - osserva appunto Steiner - deve in qualche modo
venir diviso, quando il valore vNL (il nostro "vV" - nda) passa alla divisione del lavoro". A questo punto, però, lo stesso Steiner si chiede: "Per che cosa deve venir diviso? Quale sarà il divisore? Che cosa suddivide questo processo?".
È proprio qui - risponde - che subentra l'altro valore: ossia, quello che egli chiama
"vLS" e che noi abbiamo chiamato invece "vP". Questo secondo valore - dice inoltre
- non solo subentra, ma lo fa in modo tale da costringerci a rappresentare la sua relazione col primo in forma di frazione: nella forma di una frazione che presenta, al numeratore, "vV" e, al denominatore, "vP" (21) (stiamo parlando – non dimentichiamolo - della divisione del lavoro quale effetto dell'attività dello spirito).
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Poiché questo, nello svolgimento del pensiero di Steiner, è un passaggio "decisivo",
proveremo a renderlo più chiaro servendoci di un esempio.
Immaginiamo, dunque, che l'individuo A, dopo aver costruito da solo l'attrezzo a,
voglia barattarlo con quello b, costruito dall'individuo B. Orbene, ove quest'ultimo
desideri fare la stessa cosa, si avrà uno scambio che lascerà entrambi soddisfatti.
Ma cosa accadrebbe – domandiamoci - se l'attrezzo a, anziché essere stato interamente realizzato dal solo individuo A, fosse stato costruito, in parte da A, in parte da
C e in parte ancora da D? E’chiaro che, in tal caso, l'individuo A, una volta scambiato
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l'attrezzo a con quello b, dovrebbe poi dividerlo in tre parti e distribuirle tra sé, C e D.
Una cosa del genere, tuttavia, non la si può ragionevolmente fare con un bene concreto. Quale senso avrebbe infatti uno scambio del genere se A si vedesse poi costretto a smontare l'attrezzo b per poterne trattenere un pezzo e dare gli altri due a C e D?
Ben si vede, in questo modo, come la differenza tra le due situazioni stia tutta nel
fatto che, nella seconda, è intervenuta, in modo più o meno verosimile, la divisione
del lavoro. È in primo luogo questa, dunque, a esigere la creazione di un "bene" o,
per meglio dire, di una "merce" che, svolgendo un ruolo di mediazione, si presti a essere suddivisa senza per questo venir meno alla propria funzione.
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Tale "merce" è il denaro.
Esso - osserva appunto Simmel - insieme alla "strumentalità", alla "trasportabilità",
alla "nascondibilità", all'"impersonalità", all'"astrattezza", alla "potenzialità" e alla
"dinamicità", gode pure di "una particolare divisibilità" (22).
Va tenuto presente, a questo proposito, che il primitivo scambio diretto dei beni (il
"baratto") non è stato immediatamente sostituito da quello indiretto del denaro, bensì
da quello (comunque già “indiretto”) di un qualche oggetto concreto cui veniva conferito e riconosciuto, dalla collettività, il privilegio di svolgere, seppure embrionalmente, quella funzione mediatrice ch’è appunto caratteristica delle moderne banconote (si può qui osservare, peraltro, come il valore, la funzione e la sostanza del denaro
costituiscano delle realtà gerarchicamente ordinate. Se è dall’evoluzione della superiore coscienza del valore che dipende infatti quella intermedia della funzione, è da
quest'ultima che dipende invece quella inferiore della sostanza o della moneta).
"Sia nel neolitico - ricorda per l’appunto Fini - che tra i cosiddetti "primitivi moderni" è esistita una forma di moneta: la moneta - merce. Praticamente, tutto ciò che aveva un apprezzamento collettivo e diffusione adeguata poteva essere moneta-merce:
conchiglie, ostriche, sale, perle, braccialetti, catenelle, certi tipi di pietre, zanne di
cinghiale e di elefante, denti di cane e di capidoglio, pesce essiccato, pelli. Alla categoria della moneta-merce appartengono anche la moneta-utensile e la monetabestiame (buoi, vacche, pecore)." (23).
In una fase successiva, tuttavia, a siffatti oggetti concreti ("pecunia" - si può leggere
in un qualsiasi Dizionario - deriva da pecus, pecoris che significa appunto "pecora" o
"bestiame") vengono preferiti i metalli preziosi (l'oro e l'argento). In seguito, però, allorché ci si rende conto - come dice Simmel - che i metalli preziosi, oltreché rari, sono difficili da raffinare e coniare, instabili nel loro valore e poco adatti, soprattutto, a
transazioni di piccolo valore economico (in tal caso, infatti, il valore proprio della sostanza rischia di superare quello nominale o funzionale), si passa dapprima ai metalli
non preziosi (al bronzo) e poi alla moneta cartacea o alla banconota.
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Il denaro, dunque, è il risultato di una graduale metamorfosi della merce. "Tutto il
denaro – dice appunto Steiner - si è un tempo trasformato da merce in denaro." (24).
In ogni caso, il "denaro-funzione" non solo ha sempre determinato, con la sua evoluzione, quella del "denaro-sostanza", ma ha preso sempre più il sopravvento sul sePag. 7 di 22
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condo (basti pensare, ad esempio, agli "assegni", alle "carte di credito" o a quanto già
oggi si dice circa l'avvento, più o meno prossimo, di una "cashless society").
Scrive in proposito Poggi: "La "sostanza tangibile" che serve da supporto al denaro
e che gli permette di rappresentare valori economici è praticamente scomparsa, proseguendo nella approssimazione asintotica verso "la completa eliminazione della base
materiale del denaro." (25).
Come, dunque, un qualsiasi prodotto naturale, non appena trasformato dal lavoro
umano e immesso nella circolazione economica diventa merce, così lo stesso lavoro
umano, non appena organizzato dallo spirito, diventa, tra le altre cose, denaro.
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A questo punto, possiamo modificare la nostra precedente frazione, mettendo al posto del numeratore "vV" (del valore-Volontà) la "merce" e al posto del denominatore
"vP" (del valore-Pensiero) il denaro (26).
Ebbene, tra le varie riflessioni che si possono fare osservando questa nuova frazione
(ovvero, questo particolare rapporto tra la merce e il denaro), merita in specie attenzione quella in grado di farci realizzare che quando il suo quoziente sarà superiore a
uno, la quantità delle merci disponibili sarà superiore a quella del denaro; che quando
sarà uguale a uno, la prima sarà uguale alla seconda; e che quando sarà inferiore a
uno, la seconda sarà superiore alla prima.
Un dato del genere - come si può ben capire - è in grado di costituire, da solo, un
chiaro indice del maggiore o minore stato di salute della vita economica: è ovvio, infatti, che si ha una insana vita economica tanto nel caso in cui, pur essendo presente il
denaro, siano assenti le merci da acquistare, quanto in quello in cui, pur essendo presenti le merci, sia assente il denaro per acquistarle. "Un sistema monetario sano - osserva infatti Krylienko - dovrebbe fornire alla comunità la moneta, che è una misura
del valore, uno strumento di scambio e, se necessario, un mezzo di tesaurizzazione.
Per adempiere queste funzioni il livello dei prezzi nel sistema deve essere stabile; in
altre parole il rapporto numerico tra il volume dei beni e servizi scambiati in una comunità e il volume della moneta mediante la quale questi vengono scambiati dovrebbe essere costante." (27).
Allo stesso proposito, Steiner fa altresì osservare come con i consueti concetti di
domanda e di offerta non si abbracci ancora tutta la complessità del fenomeno.
Si dovrebbe considerare - dice infatti - non solo che "offerta di merci è domanda di
denaro e offerta di denaro è domanda di merci." (28), ma anche che la relazione tra
questi due fattori varia in funzione della posizione che si occupa nella vita economica. L'offerta, ad esempio, se rappresenta, per il consumatore, "un'offerta in denaro",
rappresenta invece, per il produttore, "una domanda di merci" e, per il commerciante,
un "qualcosa che sta propriamente in mezzo fra il denaro e la merce." (29).
Ciò vuol dire, dunque, che quando il quoziente della nostra frazione è inferiore a
uno (quando, ossia, la quantità del denaro o dei valori nominali è superiore a quella
delle merci o dei valori reali), si ha, dal punto di vista del consumatore, un eccesso di
offerta di denaro; da quello del produttore, un eccesso di domanda di merci e, da
quello del commerciante, un'alterazione del rapporto fisiologico tra il primo e le seconde.
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Va chiarito, in ogni caso, che il nostro insistere su tale particolare aspetto della patologia economica dipende unicamente dal fatto che Fini - come abbiamo visto all'inizio - è proprio su questo che pone, non a torto, l’accento.
È vero, infatti, che la quantità dei valori nominali circolanti ha oggi travalicato in
misura impropria quella dei valori reali che dovrebbe, per statuto, rappresentare e alla
quale, perciò, dovrebbe sempre, più o meno, corrispondere.
Dice appunto Fini: "Il giorno che il colossale volume del denaro in circolazione, o
una parte consistente di esso, si presenterà all'incasso per essere convertito in beni,
servizi e lavoro che non rappresenta più da tempo, forse da sempre, il sistema crollerà." (30).
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Sperando di rendere più chiara la differenza tra l'uso "fisiologico" e quello "patologico" del denaro, faremo di nuovo ricorso a un facile esempio.
Immaginiamo dunque che Tizio, avendo lavorato per un certo tempo alle dipendenze di Caio, sia riuscito, non senza sacrificio, a racimolare un certo "gruzzolo" (ad "accumulare", cioè, grazie al "risparmio", una determinata "quantità" di denaro o un determinato "capitale") e che decida perciò, investendolo, di intraprendere una qualche
nuova e autonoma attività. Per fare una cosa del genere, Tizio dovrà però impiegare
una parte del suo capitale (cosiddetta "costante") per l'acquisto degli opportuni "mezzi di produzione" e un'altra (cosiddetta "variabile") per pagare i propri eventuali dipendenti. È soprattutto in queste due parti, infatti, che si divide quel capitale "produttivo" che crea lavoro, beni e servizi (o, in una parola, "valori reali"). Non dimentichiamo però che Tizio, dall'investimento "produttivo" del proprio capitale, spera anche di ricavare un legittimo vantaggio o profitto ("non esiste un punto del processo
economico - nota a questo proposito Steiner - in cui non si debba parlare di profitto,
di vantaggio. E tale vantaggio non è solo qualcosa di astratto; ad esso tendono gli
immediati appetiti economici dell'uomo e devono tendervi. Che si tratti di compratore
o venditore, l'aspirazione economica mira al profitto, al proprio vantaggio ed è questa
aspirazione che provoca tutto il processo economico, che costituisce la sua forza. È
l'equivalente della massa nel processo del lavoro in fisica.") (31). Ebbene, immaginiamo ancora che il nostro, grazie a una serie di fortunate circostanze, riesca, in un
tempo relativamente breve, a raddoppiare il proprio capitale e venga perciò a trovarsi
nell'imbarazzo di doverne decidere la destinazione: di dover decidere, ossia, se investirlo in un'altra impresa, se tesaurizzarlo o se impiegarlo in qualche attività speculativa.
Si tratta, ovviamente, di tre strade diverse. Prendendo la prima, il capitale si dirigerà
infatti, in modo diretto e socialmente fertile, verso il lavoro (vuoi per trasformare,
mediante questo, i beni naturali; vuoi per trasformare il lavoro stesso); prendendo la
seconda, saltando il lavoro, si dirigerà invece in modo diretto e socialmente sterile
verso i cosiddetti "beni-rifugio" (verso la proprietà fondiaria o immobiliare, ad esempio, oppure verso le pietre preziose, l'oro o le opere d'arte); prendendo la terza, saltando sia il lavoro che i beni, si dirigerà infine, in modo diretto e socialmente dannoso, verso sé stesso.
Si ha "la vittoria della speculazione - osserva a quest'ultimo proposito Villella Pag. 9 di 22
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quando si hanno appunto "enormi masse finanziarie che si riversano sulle valute a più
alto tasso d'interesse." (32).
Per quanto sia di certo inverosimile che il capitale accumulato da Tizio possa consentire operazioni del genere, resta pur sempre il fatto che gli sarebbe sufficiente, per
incrementarlo, acquistare oggi un certo numero di azioni al costo x e rivenderle domani al costo x + y.
"Si rifletta sul fatto - dice appunto Villella - che senza aver prodotto niente di utile,
una quantità di moneta mille diventa milleduecento per aver cambiato la dizione di un
conto da marchi in dollari o per aver comprato ieri una certa quantità d'oro e averla
rivenduta oggi. Certo queste operazioni comportano un rischio ma si consideri invece
quanti sforzi occorrano in inventiva, spirito organizzativo, senso commerciale, capacità esecutiva per aumentare le vendite di una qualsiasi industria del dieci per cento!"
(33).
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Scrive Steiner: "Si dice che il denaro debba poter avere piccole dimensioni, ma per la
sua rarità anche in piccolo formato un valore elevato. Ora questo è il sistema migliore
per tesaurizzare il denaro; (già lo aveva osservato Licurgo che introdusse un tipo di denaro più voluminoso come rimedio contro l'arricchimento illecito). Questa qualità è
precisamente quella che rende il denaro più atto a essere conservato con facilità e che
quindi costituisce un relativo stimolo alla tesaurizzazione; se i pezzi da 100 lire fossero
infatti grandi come una tavola, sarebbe certo più difficile tesaurizzarli; l'arricchirsi sarebbe meno agevole che non sia oggi, e darebbe più nell'occhio." (34) (tra le diverse
proprietà del denaro elencate da Simmel, come non ricordare, al riguardo, quella della
"nascondibilità"?).
L'uso "improprio" del denaro s'inizia dunque con la "tesaurizzazione" e raggiunge il
suo acme con la "speculazione". Sia chiaro, comunque, che questa è una valutazione
"economica" e non "moralistica". Un siffatto uso del denaro, infatti, in tanto viene
giudicato "improprio" in quanto si dimostra oggettivamente "non-economico" o "antieconomico". Si rifletta: se l'"anima" dell'economia è rappresentata - come abbiamo
visto - dalla circolazione e dallo scambio, tanto la tesaurizzazione che la speculazione, nella misura in cui mortificano o annullano tali processi, non mortificano o annullano allora l'"anima" dell'economia? Mediante la tesaurizzazione, il denaro, in quanto
“paralizzato” nel suo movimento, si trasforma infatti in una realtà "immobile" e "intransitiva"; mediante la speculazione, in quanto “invertito” nel suo movimento, si vede invece costretto, alla stessa stregua della "libido" freudiana, a regredire dal livello
"oggettuale" dell’investimento produttivo o "fecondatorio" a quello "narcisistico"
dell’investimento improduttivo od "onanistico". In quanto "autoinvestito", il denaro
comincia infatti - come dice Fini - ad "autoalimentarsi" in modo ossessivo e insaziabile e a estraniarsi così, sempre più, dalla sana vita economica e sociale.
C'è comunque da osservare che se è vero - come afferma Steiner - che "l'aspirazione
economica mira al profitto" o al "proprio vantaggio", è anche vero, però, che tale interesse "particulare" potrebbe essere in larga misura ridimensionato e armonizzato
con quello generale, ove la guida del processo economico fosse affidata a delle libere
associazioni di produttori, di commercianti e di consumatori: a delle associazioni,
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cioè, in cui fosse dato modo ai vari e molteplici interessi "particulari" di incontrarsi o
scontrarsi tra loro, e di potersi così liberamente contemperare.
"Non appena il sistema associativo s'inserisca nel processo economico - dice appunto Steiner - l'interesse personale diretto verrà messo da parte e si attiverà invece la visione generale del processo stesso; nella formazione del giudizio economico sarà presente anche l'interesse degli altri. Senza di ciò un vero giudizio economico non può
formarsi; sicché dai processi economici veniamo spinti alla reciprocità tra uomo e
uomo e a ciò che si sviluppa in seguito da tale reciprocità, vale a dire all'obiettivo
senso della comunità che opera nelle associazioni." (35).
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Se il denaro ha dunque un corpo, un'anima e uno spirito, perché non domandarsi allora quale sia lo spirito che ne "anima" la funzione socialmente negativa, e quale
quello che ne "anima" la funzione socialmente positiva?
È evidente che il denaro in tanto riesce a costituirsi come un fine in quanto viene
meno al compito di servire, quale mezzo, lo spirito umano o l'Io. Ciò vuol dire dunque
che il denaro, quando non è “animato” dallo spirito dell'uomo, è “animato” allora da
uno spirito che, perseguendo dei fini "in-umani" o "dis-umani", ne stravolge interamente la funzione economica e sociale.
Chi conosce la scienza dello spirito di Rudolf Steiner, non tarderà a ravvisare, in
questo spirito, una "entità arimanica": ovvero, un demone "senz'anima" che mira a ridurre ogni qualità alla quantità. Il denaro - dice appunto Fini - "è un essere senza
qualità. Tranne una. La sua qualità è la quantità." (36).
Ma quale valore veicolerebbe il denaro se, anziché essere gestito inconsciamente da
Arimane, fosse utilizzato consapevolmente dall'uomo?
Per avere una risposta a questa domanda, basta ascoltare quanto dice qui Simmel:
"Alla complessità e crescita abnorme della vita moderna contribuisce soprattutto la
nostra divisione del lavoro che allo stadio dello scambio in natura non si poté evidentemente sviluppare oltre i suoi insufficienti inizi. Come era possibile misurare i reciproci valori dei singoli prodotti se non esisteva un termine di misura comune a tutte le
più diverse cose e qualità? Come poteva aver luogo lo scambio senza incontrare ostacoli e difficoltà, se non c'era un mezzo che livellasse ogni differenza, in cui si potesse
convertire ogni prodotto e che potesse a sua volta convertirsi in ogni prodotto? Rendendo possibile la divisione della produzione, il denaro lega immancabilmente gli
uomini gli uni agli altri, perché ognuno adesso lavora per l'altro, e solo il lavoro di
tutti crea l'unità economica complessiva che integra la prestazione parziale dell'individuo." (37).
Per il fatto di rendere "possibile la divisione della produzione" e di permettere così
agli uomini di "lavorare gli uni per gli altri", il denaro, ove fosse davvero nelle mani
degli uomini, sarebbe quindi il mezzo o lo strumento (economico) della socialità o
della fraternità (del "Sé spirituale"). È proprio per questo, in fondo, che Arimane si
sforza di monopolizzarne l'uso e di porlo così al servizio, anziché della socialità o
della fraternità, dell'egoismo (ossia, della coscienza corporea, spaziale o – se si vuole
– “borghese” dell'Io).
Insomma, per dirla negli stessi termini del titolo del libro di Fini, in tanto il denaro è
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lo "sterco del demonio", in quanto il demonio stesso restituisce in forma di fine quel
che anche lui non può assumere che in forma di mezzo.
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Simmel coltiva però l'illusione che una simile "malattia" del denaro possa andare
incontro a una sorta di "guarigione spontanea". Nulla impedisce - dice infatti - che
"l'economia monetaria, come tutte le grandi forze della storia, possa essere paragonata al mitico giavellotto in grado di guarire da solo le stesse ferite che infligge." (38).
Se Simmel confida dunque nel "miracolo", Fini invece, convinto com'è che il denaro nasca già malato, e che gli uomini - come dice testualmente - ne "potrebbero benissimo fare a meno" (39), non si pone affatto il problema di una sua terapia e si limita a rimarcare il fatto che, con la crescita del volume o della quantità del denaro circolante, cresca pure la malattia di cui lo ritiene portatore.
Dunque, se gli uni (quelli convinti del carattere "congenito" di tale malattia) non
possono far altro, nella speranza di evitare la catastrofe, che invocare una pronta e
pietosa eliminazione del denaro (una sorta di "eutanasia"), gli altri (quelli convinti del
carattere "acquisito" della stessa), si sentono invece chiamati a indicare un rimedio atto a "guarirla": un rimedio atto a evitare, cioè, che il volume dei valori nominali circolanti superi, in modo abnorme, quello dei valori reali esistenti.
Abbiamo detto "in modo abnorme" perché, qualsiasi sia il rimedio capace di eliminare dal circuito economico i valori nominali eccedenti, si dovrà comunque provvedere a far salva quella quota-parte degli stessi che, in forma di "capitale", è sempre
necessaria per intraprendere nuove iniziative.
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L'alterazione del fisiologico rapporto tra la quantità dei valori nominali e quella dei
valori reali è senza dubbio dovuta a molteplici fattori. Tra questi, uno dei più importanti è rappresentato dal "credito". Dal momento che "oltre il novanta per cento della
moneta di un paese industrializzato progredito - sostiene ad esempio Krylienko - è
creato nella forma di prestiti bancari allo Stato o ai settori industriale e commerciale"
(40), si verifica allora che "mentre le banche creano "moneta", tale creazione non
monetizza l'interesse che viene addebitato, cioè non fornisce per esso copertura monetaria [… ] Vi è, a farla breve, uno squilibrio permanente tra la quantità di moneta
dovuta alle banche e la quantità di moneta in circolazione con cui effettuare il rimborso" (41). Per rimediare a tale anomalia, Krylienko vorrebbe perciò che "la responsabilità di creare ed emettere la moneta delle comunità, che dovrebbe essere un pubblico servizio senza scopo di lucro" non venisse "lasciata nelle mani delle banche, un'industria privata organizzata allo scopo di fare profitti.". L'attività delle banche - dice infatti - dovrebbe essere confinata "al finanziamento dell'industria e del commercio non con moneta creata da loro, ma con denaro effettivamente in loro possesso"
(42): ovvero, con "il loro capitale netto o i loro depositi vincolati" (43).
L'attuale sistema economico, però, prevede sia un credito alla produzione sia un
credito al consumo. E ciò significa che se, col primo, (fermi restando i rilievi di Krylienko) il denaro viene prestato oggi, nella fiducia che si trasformerà domani in beni
concreti, col secondo, viceversa, vengono prestati oggi beni concreti, nella fiducia
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cia che si trasformeranno domani in denaro (come avviene, ad esempio, con le vendite rateali). Il credito al consumo si basa quindi sul denaro virtuale. Ove, ad esempio,
per acquistare un frigorifero si firmi una cambiale che scade dopo un'anno dalla data
d'acquisto, per ciò stesso si mette in circolazione un denaro che attualmente non c'è,
ma che si ha fiducia che ci sarà. Colui che ha scambiato il frigorifero con la cambiale
può cominciare infatti, girandola, a farla circolare al pari del denaro reale. È dunque
così che, alla quantità dei valori nominali creati dall'Istituto di emissione, si viene ad
aggiungere, di fatto, una sempre crescente quantità di valori virtuali, "emessi", per
così dire, da tutti i creditori ("La tecnologia sposata ai nuovi prodotti finanziari - osserva in proposito Bencivenga - ha decuplicato la quantità potenziale di denaro in circolazione. Secondo uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea,
i nuovi strumenti di finanza virtuale (swap, Future, option call, option put, forward,
cap, floor, swaption, per citare solo i più noti fra i circa duemila esistenti) hanno creato una bolla finanziaria di oltre 40.000 miliardi di dollari (al cambio di 1700, circa 68
milioni di miliardi di lire)"; e in base a questo dato (del 1995), così conclude: "L'informatica, creando moneta virtuale, è diventata di fatto una banca di emissione che
favorisce le speculazioni finanziarie") (44).
Questo problema, per quanto importante, rientra comunque in un altro: ovvero, in
quello di un denaro il cui valore nominale si vorrebbe, per un verso, stabile e duraturo
nel tempo e, per l’altro, costantemente "coperto" da valori reali che, nel tempo, sono
invece destinati a deperire.
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Scrive al riguardo Fini: "Il denaro, checché ne pensasse ingenuamente Ezra Pound,
è deperibile." (45). Deperisce "più o meno lentamente - spiega infatti - a causa dell'inflazione, che è un fenomeno costante che lo accompagna dalla nascita, o della svalutazione." (46).
Fini considera dunque inutile l'istituzione di una scadenza del valore economico
della moneta (quale quella proposta appunto da Pound) poichè, a farlo “deperire”,
provvederebbe già l’”inflazione”.
Occorrerebbe distinguere, tuttavia, il problema del "valore economico" della moneta
da quello della sua "quantità". Dire, ad esempio, - come fa Krylienko - che "il rapporto numerico tra il volume dei beni e servizi scambiati in una comunità e il volume
della moneta mediante la quale questi vengono scambiati dovrebbe essere costante",
significa porre un problema di "quantità". Lo stesso, ossia, posto da Fini, allorchè richiama l’attenzione sul fatto che il denaro, essendo cresciuto come un "tumore" e divenuto ormai "gonfio e tronfio come la rana della favola", pronta "a esplodere al primo colpo di spillo", farà crollare il "sistema" nel momento stesso in cui il suo "colossale volume" ("o una parte consistente di esso") verrà presentato "all'incasso per essere convertito in beni, servizi e lavoro".
La “quantità” e il “valore economico” della moneta sono di certo due fattori strettamente correlati (un aumento della prima può produrre una diminuzione del secondo, e viceversa), ma proprio per questo non si dovrebbe mai mancare di distinguerli.
L'inflazione, per tornare a noi, è in grado infatti di diminuire il "valore economico"
della moneta, ma non di diminuirne la "quantità".
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Chi propone una scadenza della moneta ha dunque in vista, oltre al problema del
suo valore economico, anche quello della sua quantità.
Ma a quale livello dovrebbe intervenire tale scadenza?
Non a quello, ovviamente, del "denaro-sostanza": per far scadere una qualsiasi moneta basta infatti distruggerla materialmente.
Allora, al livello del "denaro-valore"? No. Il denaro, infatti, quale valore (o idea)
può trasformarsi (nelle sue manifestazioni), ma non distruggersi (nella sua essenza).
Tale scadenza può dunque intervenire solo al livello del "denaro-funzione". Quest'ultimo, però, oltre al suo aspetto dinamico, ne presenta uno giuridico. È il "valore
legale" della moneta, infatti, a farsi garante del suo "valore economico".
Coloro che propongono di istituire una scadenza del denaro, altro non chiedono,
quindi, che d'intervenire sul piano giuridico (o del "denaro-funzione"), affinché sia
periodicamente data l’opportunità, alla quantità dei valori nominali circolanti, di rimettersi in sincronia con quella dei valori reali (ove paragonassimo la quantità dei valori reali all'"ora solare media" e quella dei valori nominali all’ora segnata dal nostro
orologio, non si tratterebbe dunque che di sincronizzare, come di tanto in tantofacciamo, la seconda con la prima).
Si dovrebbe riconoscere, d’altronde, che la "malattia" che affligge il valore economico del "denaro-sostanza", rendendolo appunto "deperibile" e "instabile", è cosa ben
diversa dalla "morte" del "denaro-funzione". Solo questa è in grado infatti di azzerare, in un sol colpo, tanto il "valore economico” della moneta quanto la sua "quantità"
(c'è comunque da osservare che Fini, tutto ciò, pare saperlo assai bene. Nonostante la
deperibilità assicurata dall'inflazione, egli auspica infatti, in forma più o meno esplicita, una definitiva "abolizione" del denaro. Resta da chiedersi, tuttavia, per quale ragione una simile idea gli sembri meno "ingenua" di quella della scadenza avanzata da
Pound).
In tutti i modi, quanto detto può bastare a capire il perché Steiner, pur riconoscendo,
con Fini, che il denaro è già deperibile, riconosca pure, con Pound, l'esigenza di una
sua periodica scadenza.
Ove poi si consideri che, alla quantità delle monete ufficiali (nominali), viene di fatto ad aggiungersi - secondo quanto abbiamo visto parlando del credito - quella, non
meno cospicua, delle monete "ufficiose" o "virtuali", ben si comprende come il deperimento "strisciante", "vivace" o "galoppante" del valore economico della moneta, determinato dall'inflazione, non sia affatto sufficiente a risolvere la questione.
Si potrebbe anzi dire, da questo punto di vista, che l'inflazione in tanto esercita aposteriori un'azione logorante sul valore della moneta, in quanto non vi è alcun altro
processo che eserciti a-priori, un'analoga azione sulla sua quantità.
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Se Fini non si preoccupa di studiare in qual modo possa venire esercitato un fisiologico controllo della quantità dei valori nominali circolanti (così da poterla eventualmente diminuire o aumentare in modo conforme all'andamento della quantità dei valori reali) è anche perché il denaro - a suo dire - è un autentico "nulla" (il sottotitolo
del suo lavoro è infatti: Storia di un'affascinante scommessa sul nulla).
"Il denaro, - dice ad esempio - che va distinto dalla moneta in cui si incarna, così
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come lo Spirito nell'ostia consacrata, anche se insieme formano un corpo mistico, è
un concetto, un'idea, una logica, un'astrazione, che però, come ognuno di noi sperimenta nella pratica quotidiana, ha un sua inevitabile concretezza. Alfred Sohn-Rethel,
con efficace ossimoro, lo ha definito "un'astrazione reale"." (47).
"Nella pratica quotidiana" dell'economia si sperimenta – è vero - la "concretezza"
del "denaro-sostanza", ma si sperimenta pure (e forse maggiormente), la "forza" del
"denaro-valore": di quel denaro, cioè, che, mutandosi – come dice Fini - da "mezzo"
in "fine", acquisisce il potere di farsi, da "servo", "padrone".
Appunto per questo, però, potremmo chiederci: se si prescinde da quella "legale",
conferitagli, quale "mezzo", dal diritto, di quale altra "forza" può servirsi un'astrazione "reale" per assurgere arbitrariamente a "fine"?
"In quanto promessa e credito basati sulla fiducia - dice Fini - il denaro si lega al
tempo, a quel tempo particolare che è il futuro. La fiducia nel denaro è fiducia nel futuro. Il denaro è, attraverso la fiducia, il trait d'union fra presente e futuro. E qui sta il
nocciolo duro dell'intera questione-denaro. È questo aggancio col futuro che dà al denaro la sua forza, la sua devastante capacità di attrazione e di azione. Perché l'uomo,
soprattutto l'uomo moderno, è un essere che si progetta, si proietta, coltiva illusioni.
Per contro, da questo legame col futuro, dal suo essere futuro, il denaro deriva anche
l'inafferrabilità, l'indefinibilità, il carattere sfuggente, la natura metafisica. Perché il
futuro è solo una rappresentazione della mente: è un tempo inesistente." (48).
Sarebbe dunque l'"aggancio col futuro" a dare "al denaro la sua forza". Già, ma se il
futuro non è – come sostiene - che una "rappresentazione della mente", e quindi un
"tempo inesistente", come fa allora questa forza, non solo a esistere, ma a possedere
addirittura una "devastante capacità di attrazione e di azione"?
Qui, delle due, l'una: o il "denaro-valore" e il futuro, proprio in quanto "astrazioni
reali", sono idee reali, e la loro forza è allora quella stessa delle idee o dello spirito
("sia pure il denaro - dice infatti Steiner - una pessima cosa, in una prospettiva etica o
religiosa, in senso economico esso è lo spirito che opera nell'organismo economico,
null'altro.") (49); o gli stessi (ci si passi il gioco di parole) sono invece delle "astrazioni astratte", e la loro forza è allora quella dell'illusione.
In quest’ultimo caso, rimarrebbe comunque da spiegare donde tragga la sua forza
una "illusione reale" (ciò che vorrebbero spiegarsi i medici, ad esempio, allorché si
trovano alle prese con i sorprendenti effetti terapeutici dei cosiddetti "placebo").
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È singolare che Fini, nell'intento di descrivere la nascita del denaro (avvenuta - a
quanto pare - in Lidia, tra la fine dell'VIII e l'inizio del VII secolo a.C.), ricorra proprio alle seguenti parole: "E finalmente lo spirito del denaro decise di scendere sulla
Terra, di incarnarsi e di palesarsi agli uomini, che ancora ignoravano la sua esistenza
anche se la presentivano." (50).
Egli sicuramente non sospetta di aver colto, così dicendo, una verità. Osservata dal
punto di vista della scienza dello spirito, la nascita del denaro avviene infatti nello
stesso periodo in cui si verifica, nell'uomo, il passaggio dall'anima "senziente" (mitologica) a quella "razionale" (filosofica).
"Insieme al denaro - ricorda appunto Fini - nacque il suo fratello gemello, il mercaPag. 15 di 22
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to. E contemporaneamente fecero la loro apparizione la filosofia, la scienza, l'economia, la polis, la democrazia, la personalità, il lavoro individuale, la povertà individuale e la solitudine dell'uomo." (51).
Il denaro, insomma, sorge insieme a quella coscienza dell’Io che, per giungere a una
prima maturazione, dovrà però attendere la nascita dell'anima "cosciente" (la metà
circa del XV secolo). Infatti, - rammenta ancora Fini - "per arrivare alla banconota,
emessa da un istituto di credito autorizzato dallo Stato, con valore legale su tutto il
territorio nazionale, bisognerà aspettare il 1694 e la Banca d'Inghilterra." (52). Del resto, bisognerà aspettare ancora la "rivoluzione industriale" per poter davvero parlare
di "economia monetaria" e di "imprenditoria". "Se fra il XVII e il XVIII secolo - lo
stesso osserva appunto - l'economia si pone al centro della vita dell'uomo, sottomettendola alle sue esigenze, nel XIX è il denaro che si mette al centro dell'economia, finendo in breve tempo per assoggettarla." (53).
È così dunque che si passa - per dirla con Sombart - "dalla ricchezza basata sul potere al potere basato sulla ricchezza." (54). In effetti, se l'avvento dell'anima "razionale" segna il trapasso dal potere teocratico (fondato sullo spirito) a quello nomocratico
(fondato sul diritto), quello dell'anima "cosciente" (almeno nella sua prima fase di
evoluzione) segna invece il trapasso dal potere nomocratico a quello plutocratico
(fondato appunto sulla ricchezza e sul denaro).
È quindi l'evoluzione dell'anima (le cui fasi possono essere osservate, sul piano ontogenetico, durante lo svolgimento di quella che Jung chiama la "prima metà della vita") a determinare ogni cambiamento del rapporto dell'uomo col mondo e, per ciò
stesso, col tempo e con lo spazio.
"Fino al XVI secolo, più o meno, - scrive appunto Fini - la stragrande maggioranza
degli uomini aveva vissuto nel presente. Le civiltà classiche, sia greca che romana, le
antiche civiltà mediorientali e orientali, ma anche quella medievale e feudale, erano
sostanzialmente astoriche. Il tempo era quello ciclico della natura, della terra, delle
stagioni, che sempre si ripete, immutabile, in una sorta di niciano eterno ritorno dell'eguale. Se in alcune civiltà, sotto la spinta della predicazione ebraica e poi cristiana,
si pensava al futuro, era un futuro metafisico, religioso, posto al di là e al di fuori del
tempo storico e quindi delle vicende umane. Intorno al XVII secolo la percezione del
tempo comincia a cambiare. Accanto e poi, in un crescendo, al posto del quieto presente fa irruzione il dinamico futuro inteso non più come un al di là metafisico e religioso ma come un al di qua concreto, alla portata dell'uomo e in funzione del quale si
deve vivere." (55).
Lo stesso si dice pertanto convinto che la chiave del problema del rapporto dell'uomo col denaro stia tutta in quello del rapporto dell'uomo col tempo (in una intervista
rilasciata in occasione della pubblicazione del suo lavoro, alla domanda: "Ma dove
sta il punto di rottura fra l'equilibrio preindustriale e gli squilibri odierni?", Fini risponde infatti: "Sta nel concetto del tempo.") (56).
Egli non si chiede, tuttavia, perché la percezione del tempo cominci a cambiare proprio intorno al XVII secolo e si limita quindi a constatare, con evidente rammarico,
che, da quella data in poi, la percezione del tempo quale futuro comincia a prendere
un sempre più netto e pernicioso sopravvento su quella anteriore del tempo quale presente.
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Questa sua nostalgia della percezione del tempo quale presente, non è però, a ben
vedere, che una nostalgia del passato e, per ciò stesso, il sintomo di una disposizione
interiore attratta più dall'idea dell'essere che non da quella del divenire. Cos'altro rappresenta, infatti, il suo rigetto del futuro, se non appunto il rigetto del divenire e della
modernità?
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Sia chiaro, comunque, che, con ciò, non intendiamo affatto negare l'inquietante carattere patologico assunto dall’attuale sviluppo della modernità. Anzi, è proprio perché condividiamo, al riguardo, tutte le preoccupazioni di Fini, che ci sentiamo in dovere di rilevare i limiti della sua diagnosi e la totale improponibilità della terapia che
sembra suggerire ("solo il baratto potrà salvarci", è questo il titolo, tutt'altro che casuale, che corona l'intervista di cui abbiamo parlato).
Nel suo lavoro, ad esempio, non vi è alcuna traccia dei pur essenziali rapporti che
vincolano, da un lato, l'intelletto alla quantità e al passato e, dall'altro, la volontà al
valore e al futuro.
"L'economia monetaria - nota al riguardo Simmel - comporta la necessità di continue operazioni matematiche nei rapporti quotidiani. La vita di molti uomini è piena di
questo definire, soppesare, calcolare, ridurre valori qualitativi a valori quantitativi.
Ciò contribuisce sicuramente all'essenza intellettuale e calcolatrice dell'evo moderno
a fronte del carattere più impulsivo, totalizzante e sentimentale di epoche del passato." (57).
In effetti, il "definire, soppesare, calcolare e ridurre valori qualitativi a valori quantitativi" è precipua funzione del pensare intellettuale. Non a torto - dice appunto Hegel
- "si equiparò questo pensare al calcolare, e viceversa il calcolare a questo pensare."
(58).
C'è anche da notare, però, che oggetto di una simile attività può essere solamente il
passato: ovvero, ciò che già esiste, in quanto ormai creato o divenuto. Non è così per
la volontà. Oggetto di questa, in forma di meta o di scopo, è infatti il futuro: ovvero,
ciò che ancora non esiste, e che, proprio per questo è chiamata a creare o a far divenire.
Per ovvie ragioni, non ci è possibile, in questa sede, sviluppare esaurientemente un
tale ordine di pensieri. Speriamo, perciò, che queste poche riflessioni bastino a realizzare che quella "irruzione del futuro" nella vita degli uomini - di cui parla Fini - altro
non è che l'"irruzione della volontà". Difatti, se quello in cui Cartesio oppone la res
cogitans alla res extensa, rappresenta il momento in cui nasce il vero e proprio "intelletto" e, con esso, una prima e astratta autocoscienza (poiché fondata sul cogitare, e
non pure sul velle), quello in cui fa "irruzione" la volontà è rappresentato invece soprattutto da Schopenhauer o da Eduard von Hartmann sul piano filosofico, e da Freud
su quello scientifico. Per l’intelletto, tuttavia, questo secondo evento (che coincide all'incirca con quello della "rivoluzione industriale") costituisce una sorta di "prova" o
di "sfida".
"Ove era l'Es, ivi regnerà l'io", dice infatti Freud. L'Io, però, se vuole davvero regnare sull'Es, non può più "cullarsi sugli allori" dell'intelletto (cioè, sul calcolare o sul
soppesare), ma deve imparare a sviluppare dei superiori gradi di coscienza: ovvero,
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dei gradi di coscienza che, diversamente da quello dell'intelletto, abbiano in sé una tale forza di vita da consentire al pensiero di farsi incontro alla volontà senza dover temere, per questo, di essere sopraffatto o spinto a regredire ("se fossi fuoco - pare abbia detto in proposito uno Yoghi - il fuoco non mi brucerebbe"). Come l'occhio, d'altronde, per quanto mirabilmente organizzato, non è in grado di assolvere la funzione
dell'orecchio, così l'intelletto, per quanto abbia reso e renda preziosi servigi alla conoscenza della realtà inorganica (di quella sola realtà – vale a dire - che può essere realmente compresa sul piano quantitativo), non è in grado di misurarsi efficacemente
con la realtà vivente e qualitativa: vivente appunto, nel caso specifico, come il "denaro-funzione" e qualitativa come il "denaro-valore".
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Ne La filosofia della libertà, Steiner cita il seguente passo di Herbert Spencer: "Se,
camminando attraverso i campi in un giorno di settembre, udiamo un fruscìo a qualche passo davanti a noi, e sulla sponda del fossato, da cui ci è sembrato che il fruscìo
provenisse, vediamo che l'erba si muove, noi probabilmente marciamo diritti su quel
punto, per vedere che cosa produceva il fruscìo e l'agitarsi dell'erba. Al nostro avvicinarsi, una pernice si alza a volo dal fosso, e la nostra curiosità è allora appagata: noi
abbiamo quella che chiamiamo una spiegazione dei fenomeni." (59). Ebbene, all'interpretazione di Spencer di un siffatto evento conoscitivo (basata su di una presunta
associazione mnemonica dei dati forniti dall'abituale esperienza sensibile), Steiner
oppone questa riflessione: "Quando io sento un fruscìo, cerco anzitutto il concetto per
questa osservazione. Soltanto questo concetto mi apre la strada al di là del fruscìo.
Chi non pensi oltre, sente solo il fruscìo e se ne sta contento. Attraverso il mio riflettere, mi riesce però chiaro che debbo considerare il fruscìo come effetto. Dunque soltanto quando ho congiunto il concetto di effetto con la percezione del fruscìo, sono
spinto ad oltrepassare la singola osservazione e a cercare una causa. Il concetto di effetto chiama quello di causa, ed io mi metto a cercare l'oggetto-causa, che scopro sotto l'aspetto della pernice. Ma questi concetti di causa ed effetto io non posso mai ottenerli dalla semplice osservazione per quanto estesa a numerosissimi casi. L'osservazione suscita il pensare, e questo soltanto mi indica la via per collegare la singola esperienza con un'altra." (60).
La relazione che spiega il fenomeno non è dunque - dice Steiner - una relazione tra i
due immediati dati sensibili (il fruscìo e la pernice), quanto piuttosto una relazione tra
i due concetti (di "effetto" e di "causa") in cui gli stessi, grazie al pensare, si sono risolti. In altre parole, per passare dalla percezione del fruscìo a quella della pernice, io
debbo anzitutto attraversare la soglia che divide la sfera percettiva da quella pensante
e tradurre la percezione del fruscìo nel concetto di “effetto”; poi, trattenendomi nella
sfera del pensare, lasciare che il concetto di “effetto” si unisca al concetto di “causa”;
e infine, riattraversando in senso inverso la soglia, tradurre il concetto di “causa” nella percezione della pernice.
Ebbene, un siffatto processo non presenta forse una singolare analogia con quello
che ci perrmette, in virtù del denaro, di scambiare un oggetto con un altro?
Se vendo, ad esempio, la mia auto per acquistarne una nuova, non ho appunto bisogno di tradurre dapprima l’auto vecchia in denaro, di unire poi al denaro così ricavato
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Roma 25 Novembre 1998
quello necessario a raggiungere il prezzo della nuova, e di ritradurre infine tale somma nell'oggetto del mio desiderio?
In effetti, come il pensare, sul piano conoscitivo, mette in rapporto tra loro gli oggetti (i dati percettivi), soltanto dopo averli risolti in concetti, così il denaro, sul piano
economico, mette in rapporto tra loro le merci, soltanto dopo averle risolte in prezzi.
Una simile e imprevista relazione tra il pensare e il denaro (come "funzione") evoca,
tuttavia, un insolito e inquietante interrogativo: se nell'odierna vita economica - secondo quanto abbiamo osservato - circola una enorme quantità di "denaro virtuale"
(di denaro, per così dire, naturalmente "scoperto"), non sarà allora che, nell'odierna
vita culturale, circola una enorme quantità di "pensiero virtuale" (di pensiero, cioè,
spiritualmente "scoperto")?
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Abbiamo già visto che il denaro - a detta di Fini - non ha "qualità", bensì soltanto
"quantità". Eppure, parlando del credito, abbiamo individuato e menzionato un denaro di prestito: una "qualità" di denaro, cioè, che Steiner invita appunto a differenziare
dalla qualità del denaro di acquisto e da quella del denaro di donazione. E’ da sottolineare, tuttavia, che tali distinzioni qualitative potrebbero positivamente operare soltanto all'interno di una vita economica che prevedesse, per i valori nominali, un consumo analogo a quello cui vanno naturalmente soggetti i valori reali. Insomma, per
poter introdurre nella vita del denaro un fertile elemento qualitativo, bisognerebbe infrangere quel "tabù" che ancora impedisce al denaro stesso di consumarsi e morire.
Se "adoperiamo il denaro - osserva appunto Steiner - come un equivalente nel puro
scambio, di fronte agli oggetti deperibili abbiamo in verità un concorrente illegittimo,
un concorrente proprio sleale, perché nelle circostanze abituali il denaro sembra non
deperire (e dico espressamente: "sembra" non deperire) [… ] Se oggi mi compero un
chilo di carne per una certa somma di denaro, e tra due settimane, per acquistare la
stessa quantità di carne, devo impiegare una somma maggiore, la causa per cui la seconda volta devo sborsare di più non risiede nella carne, ma nel denaro. Dipende unicamente dal denaro; e se il denaro porta ancora scritta la stessa cifra, esso in realtà
comincia a mentire, poiché il suo valore è scemato. Se in cambio di un chilo di carne
devo sborsare più denaro, è chiaro che questo è diminuito di valore." (61).
Come abbiamo già accennato, l'inflazione non è dunque - come dice Krylienko che un “sintomo" del "disordine monetario e non è inevitabile né tanto meno necessaria." (62). Con essa, in effetti, viene a manifestarsi, in modo patologico (rendendo
cioè incerto e instabile il valore economico della moneta), quel naturale e insopprimibile "istinto di morte" (Freud) che non è stato finora concesso, al denaro, di appagare
in modo fisiologico. “Nel denaro deperibile - dice infatti Steiner - abbiamo la corrente
parallela alle merci, ai beni, ai valori deperibili; cioè ai valori reali." (63).
Il problema di una scadenza periodica del denaro coinvolge però, direttamente,
quello del tempo. In un contesto economico in cui fosse operante la proposta avanzata da Steiner, circolerebbero infatti, in rapporto appunto al tempo, tre diverse qualità
di denaro: una "giovane", una "adulta" e una "vecchia". Dal momento, tuttavia, che la
qualità rappresenta un valore (ideale), e che la funzione dipende dal valore (ideale),
alla diversificazione delle qualità conseguirebbe, necessariamente, una diversificaPag. 19 di 22
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zione delle funzioni. Il denaro "giovane” si orienterebbe infatti, spontaneamente, verso il risparmio o il prestito; quello "adulto" verso il consumo o l'acquisto; quello
"vecchio" verso la donazione.
Non potendoci qui soffermare su questo aspetto, ci limiteremo, per concludere, a
sottolineare il fatto che proprio oggi, vale a dire nell'epoca del "mercato mondiale" o
della cosiddetta "globalizzazione", un’istituzione del genere potrebbe risultare quanto
mai provvida e necessaria.
Immaginiamo infatti - dice Steiner (e - si badi - siamo nel 1922) - "che in un territorio economico confinante con un altro, avvenga, senza intervenire con la ragione, che
il denaro si sbizzarrisca follemente e sorgano delle difficoltà riguardo al prezzo di una
merce necessaria. Finché un'economia nazionale si svolge in mezzo ad altre economie nazionali, e non vengono fatte delle rappresaglie, basta semplicemente importare
l'articolo in questione, basta accrescere l'importazione. In tal modo si corre ai ripari.
Ma in un'economia mondiale non si possono correggere le cose, perché non si può
importare merce dalla Luna." (64).
Ebbene, quel che d'ora in avanti non si presterà più a essere corretto dall'esterno,
dovrà essere corretto, per forza di cose, dall'interno. Per poter fare una cosa del genere - avverte però Steiner - si dovrà prima riconoscere "che non bisogna procedere con
arbitrio, e neppure abbandonarsi ciecamente al caos generale che oggi regna sopra
ogni cosa, e che trascina ogni valore nella confusione con lo Stato economico che si
occupa di tutto, facendo un solo fascio del denaro di prestito, del denaro d'acquisto e
del denaro di donazione, mentre nella realtà essi si distinguono l'uno dall'altro. Se non
si abbandonano le cose all'arbitrio, ma si porta in esse la ragione, bisognerà che tra il
denaro d'acquisto, di prestito e di donazione, e il rinnovamento del denaro intervenga
l'azione cosciente delle necessarie associazioni." (65).
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Note:
1)
2)
3)
4)
5)
M.Fini: Il denaro "sterco del demonio" - Marsilio, Venezia, 1998;
Ibid., p.265;
Ibid., p.12;
Ibid., p.276;
Cit. in G.Poggi: Denaro e modernità - La "filosofia del denaro" di Georg Simmel
- Il Mulino, Bologna 1998, p.143;
6) M.Fini: Op. cit., p.17;
7) Ibid., p.19;
8) G.Poggi: Op. cit., p.162;
9) G.W.F.Hegel: Estetica - Einaudi, Torino 1967, p.107;
10) R.Steiner: I capisaldi dell'economia - Antroposofica, Milano 1982, p.57;
11) G.Poggi: Op. cit., p.153;
12) Ibid., p.162;
13) G.Simmel: Il denaro nella cultura moderna - Armando, Roma 1998, pp.47-48;
14) G.Poggi: Op. cit., p.104;
15) Ibid., p.105;
16) R.Steiner: Op. cit., p.23;
17) Ibid., p.33;
18) Ibid., p.32;
19) Ibid., p.135;
20) Cit. in A.Mazzuca: I potenti del denaro - Edipem, Milano 1983, p.14;
21) R.Steiner: Op. cit., p.61;
22) G.Poggi: Op. cit., p.149;
23) M.Fini: Op. cit., p.54;
24) R.Steiner: Op. cit., p.138;
25) G.Poggi: Op. cit., p.165;
26) R.Steiner: Op. cit., p.62;
27) A.Krylienko: La moneta e il bene comune - Solfanelli, Chieti 1988, p.21;
28) R.Steiner: Op. cit., p.109;
29) Ibid., p.111;
30) M.Fini: Op. cit., p.276;
31) R.Steiner: Op. cit., p.139;
32) A.Villella: Metafisica della moneta - Basaia, Roma 1984, p.9;
33) Ibid., p.10;
34) R.Steiner: Op. cit., pp.165-166;
35) Ibid., pp.146-147;
36) M.Fini: Op. cit., p.31;
37) G.Simmel: Op. cit., pp.76-77;
38) Ibid., p.94;
39) M.Fini: Op. cit., p.18;
40) A.Krylienko: Op. cit., p.22;
41) Ibid., pp.24 e 25;
42) Ibid., p.26;
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43) Ibid., p.27;
44) R. Bencivenga: Il Fattore D - La storia del denaro dalle origini ai nostri giorni Sperling & Kupfer - Milano 1998 pp. 314-315;
45) M.Fini: Op. cit., p.21;
46) Ibid., p.22;
47) Ibid., pp.12-13;
48) Ibid., p.21;
49) R.Steiner: Op. cit., p.57;
50) M.Fini: Op. cit., p.76;
51) Ibid., pp.76-77;
52) Ibid., p.123;
53) Ibid., p.189;
54) Cit. in Ibid., p.113;
55) Ibid., p.146;
56) Cfr. Il Giornale, 11 Settembre 1998;
57) G.Simmel: Op. cit., pp.89-90;
58) G.W.F.Hegel: Scienza della logica - Laterza, Roma-Bari 1974, vol. I, p.34;
59) R.Steiner: La filosofia della libertà - Antroposofica, Milano, 1966, p.49;
60) Ibid., pp.49-50;
61) R.Steiner: I capisaldi..., pp.169-170;
62) A.Krylienko: Op. cit., p.21;
63) R.Steiner: I capisaldi..., p.195;
64) Ibid., p.172;
65) Ibid., p.175.
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