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Claudio
Vettraino
15 marzo 2010
Se è vero che il cinema riflette il momento storico in cui si
trova immerso, il cinema di Antonioni riflette il disagio intimo
dell’uomo alle prese con la spietata contingenza, riverberando
sulla società le sue paure e le sue crisi.
Ed è in questa prospettiva, che I Vinti rappresentano, dopo l’esordio di
Cronaca di un amore, un altro brillante esempio di “neorealismo interiore”.
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L’intreccio narrativo trae spunto da articoli di cronaca nera, ripercorrendo
con crudo realismo, tre storie criminali, i cui protagonisti fanno parte di
quella generazione definita allora “perduta”, assuefatta alla violenza
quotidiana (al bullismo diremmo oggi), vittima indifesa dell’orrore della
guerra e delle ansie di un’incerta ricostruzione, come ricorda Turi Vasile,
uno dei produttori della pellicola e sceneggiatore assieme a Susi Cecchi
d’Amico e Diego Fabbri:
“Il film era diviso in tre episodi. Ma nel quadro di quella che allora venne
chiamata la gioventù perduta, cioè la gioventù smarrita dalla guerra e
soprattutto alla ricerca della propria identità. Un tema questo che faceva
perno sul grande flusso dell’esistenzialismo francese, ma che in realtà ha
origini lontane. Infatti Antonioni era molto colto per quanto riguarda
l’esistenzialismo francese, rifacendosi soprattutto a Kierkegaard, da cui
nasceva questa nevrosi d’angoscia che fu il tema dominante di tutta la
cultura europea degli ultimi duecento anni. Kierkegaard, su cui esistono
equivoci dovuti ai suoi traduttori tedeschi, nasce assolutamente cattolico.
Abbiamo dunque con lui l’imporsi di un esistenzialismo cristiano ante
litteram. Antonioni prese le storie dalla cronaca di tutti i giorni.”
Il film raccoglie dunque tre eventi presi in prestito dalle pagine dei giornali
dell’epoca, sintetizzandoli negli episodi francese, italiano e inglese. Seppur
diversi e ambientati in un contesto europeo estremamente poliedrico e
sfaccettato, non ancora pienamente omologato al dominio dell’industria
culturale americana, Antonioni riesce tuttavia a tracciarne un destino
comune, rappresentando non solo la nascita sociologica dei giovani come
categoria autonoma e in parte avulsa dal decalogo ideale e valoriale
tradizionale del resto della comunità, agenti inconsapevoli di quella
moratoria psico-sociale di cui parlò per la prima volta il prof. Erik Erikson,
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ma certifica indiscutibilmente (come Arancia meccanica di Kubrick
vent’anni dopo) la centralità dell’uso indiscriminato della violenza e del
culto indotto della morte, come unici e disperati tentativi di entrar dentro
le cose, prender possesso “autoritario” dei processi storici in atto, la cieca
furia distruttiva del fare per essere protagonisti della propria esistenza, da
cui si sentono, giorno dopo giorno, esclusi.
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In questo senso, l’episodio francese ed inglese sono esempi paradigmatici
di un disastro sociale che è di per sé un disastro psicologico ed
antropologico.
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Il primo narra – con spietata lucidità – la messa in opera di un omicidio
perpetuato da un gruppo di amici ai danni di uno loro compagno per futili
motivi di denaro. Il secondo, l’orrore indicibile e senza tempo, di un delitto
preordinato a scopo di fama, atto solo a farsi pubblicità e uscir fuori dal
proprio stato di minorità e silenzio umano ed artistico, a cui una società
massificata e distratta non presta ascolto.
“L’episodio inglese che secondo me dei tre è il migliore. Oltre ad essere il
presentimento di quella vocazione anglosassone di Antonioni, che sfocerà
poi in Blow up, punta il dito sulla frantumazione dell’identità, la gratuità
dei gesti, la loro ambiguità, il loro non-sense”, aggiunge Turi Vasile.
Frantumazione psicologica connessa alla dilagante offerta culturale e alla
dilatazione indefinita di possibilità concretamente irrealizzabili,
rappresentano le tipiche espressioni dell’imporsi storico della gioventù
come fase separata e “privilegiata”:
“Accanto agli aspetti storici e sociali legati alla elevata differenziazione
sociale tipica delle società capitalistiche avanzate […], vi sono altri aspetti
più direttamente connessi al sistema culturale complessivo che
contribuiscono a spiegare l’emergere di identità generazionali portatrici di
valori e simboli autonomi.
Un primo elemento sottolineato da autori anche molto diversi è collegabile
alla caratteristica generale di “surplus simbolico” presente nelle nostre
società, ossia […] ad un’eccedenza culturale che aumenta i mondi
possibili, a livello dell’immaginazione e l’esperienza culturale a cui non
corrispondono modelli di azione concretamente realizzabili. Questa
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situazione di dilatazione delle possibilità può generare effetti perversi
legati a aspettative crescenti che non possono essere soddisfatte. Può
anche creare effetti di sradicamento e di frammentazione del sé, e
manifestarsi in forme di coscienza sociale vaganti, socialmente
disancorate, senza dimora.”
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Appare evidente che entrambe le vittime non solo altro che capri espiatori
di un’umanità che ha smarrito i punti di vista tradizionali a cui attaccarsi
con fiducia e speranza, ritrovandosi improvvisamente in un buco nero, in
una sorta di giungla da cui è impossibile sfuggire senza combattere con i
pericoli e le insidie ad essa connessi.
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Ed è “naturale” che dove decada il diritto, dove vengano sospese
arbitrariamente le garanzie costituzionali e le sicurezze sociali, subentri la
lotta di tutti contro tutti. Il più forte, cioè chi si adatta meglio e in fretta
alla nuova configurazione vince, sperando di evolversi. Chi non può o non
arriva in tempo soccombe, estinguendosi lentamente, senza lasciare
traccia.
Al di là della loro essenza socio-antropologica, l’episodio francese e inglese
sembrano apparentemente estranei se non addirittura in netta
opposizione al episodio italiano, sia per quanto riguarda il vespaio
sollevato e la controversa lavorazione, che per le forti pressioni subite da
Antonioni nello smussarne gli spigoli critici, senza svilirne la carica
distruttiva e spaesante, mantenendo intatta l’organicità di una narrazione
diretta e quanto mai audace per l’epoca, rappresenta a tutti gli effetti un
film nel film, come ricorda Turi Vasile:
“Per quanto riguarda l’episodio italiano, Antonioni si trovò a che fare con
una società piuttosto incerta e soprattutto politicizzata. E’ questo il guaio
della cinematografia europea. Ernesto Galli della Loggia ha affermato
acutamente che la differenza tra il cinema europeo e quello americano è
che il cinema europeo è ideologizzato, o comunista o fascista, mentre
invece il film americano narra favole che hanno come perno la
narrazione.”
Nell’episodio italiano originale, presentato fuori concorso al festival di
Venezia, l’8 Settembre 1953, Claudio Valmauro (interpretato da Franco
Interlenghi), giovane neofascista – in dissidio con il suo partito – fa saltare
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in aria una fabbrica di armi per richiamare l’attenzione sull’evanescenza e
la presunta contiguità del regime democratico appena instaurato con
traffici ed interessi tutt’altro che democratici, denunciandone l’ipocrisia e il
cinico sfruttamento di ideali conquistati con il sangue e il sudore
attraverso la guerra di liberazione.
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Un gesto disperato che riassume tutta la drammaticità di una tensione
sociale e politica incapace a placarsi nelle arene parlamentari, sfogando
tutta la sua rabbia nello scontro impari contro i simboli stessi di una
corruzione che si pensava morta per sempre.
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Viceversa il copione muta (senza però snaturare del tutto la narrazione)
nella versione “definitiva” inserita nel film, in cui Claudio, partecipando ad
un traffico illegale di sigarette, fugge dalla polizia sul Ponte Marconi in
costruzione, uccidendo un operaio della vicina fabbrica d’armi che gli
ostacola la fuga.
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Ma al di là delle profonde variazioni sul tema, che potrebbero alterare – se
non addirittura annichilire – la carica polemica dell’episodio, il finale non
cambia. All’interno di un’amara sensazione di impotenza mista
all’ineluttabile destino di una sconfitta, la morte di Claudio, attribuita
sembrerebbe ai traumi riportati nell’attentato (o nella versione “ufficiale”
alla caduta rovinosa dal ponte nella fuga) chiude la sua tragica e precaria
esistenza.
Una gestazione a conti fatti complessa, di cui Turi Vasile ci offre la sua
preziosa testimonianza:
“Fu fatto un cambiamento. Ma contrariamente a quello che si dice, fu
accettato da Antonioni. Noi produttori eravamo disposti ad andare fino in
fondo. Noi avevamo fondato una società di produzione libera. Cattolica
certo. Ma cattolica nel senso della libertà assoluta di espressione e
soprattutto di favorire quei fermenti interni di una gioventù che usciva
dall’esperienza terribile della guerra. Antonioni si dimostrò più morbido di
noi, salvo poi a lamentarsene dopo. Dunque non è vero che i produttori
fossero acquiescenti nei confronti della censura, ma ebbero la
collaborazione di Antonioni. Dirò anzi che fu Antonioni in persona ha fare
dei cambiamenti sconcertanti. Perché all’ora si trattava di un terrorismo
diciamo così politico, idealistico, che giustificava certe cose, anche
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l’esaltazione di una barbarie, di un crimine anche qui perfetto.
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In fondo il tema dominante de I vinti è la ricerca del delitto perfetto. In un
certo senso, del delitto senza movente.
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Mentre invece l’episodio italiano è aggravato dalla concezione politica del
delitto. Solo che a distanza di anni, riguardando le cose che vanno lontane,
sviluppando quella che nei vecchi viene chiamata la presbiopia della
memoria, per cui le cose più lontane sono più nitide di quelle accadute
recentemente, devo dire che non fu una cosa producente il risvolto
dell’episodio italiano. Anche perché era sproporzionato quello che
facevano gli eroi maledetti sulla base di una dottrina, di una passione
politica, invece affidato ai dei contrabbandieri di sigarette. Detto questo
però, già presupponeva quale sarebbe stato il cammino di Antonioni, verso
una ricerca che prescindeva dai contenuti. Ma che era una ricerca anche
formale, che rivoluzionò anche il modo delle riprese. Ci furono delle
seguenze lunghe che però avevano la possibilità di mostrare i vari piani
senza soluzione di continuità, con la partecipazione della natura, che lui
voleva stravolgere.
Tanto è vero che qualche volta addirittura la dipingeva. Per me, I vinti
rappresentano una tappa importante della cinematografia. E soprattutto
l’episodio inglese, che a parer mio giudico un piccolo master piece, un
capolavoro della cinematografia, la partenza di quella che poi sarà Blow
up, in cui ad esempio Antonioni riesce a fotografare l’invisibile, mettendo
in scena una partita a tennis senza la palla. Quello è veramente il massimo
della possibilità di fotografare ciò che non si vede.”
Se è giusto però sottolineare che la coerenza estetica e la forza critica del
film, si basano esclusivamente sulla necessaria organicità di tutti e tre gli
episodi che lo compongono, è altrettanto necessario ricordare che
l’episodio italiano segna, in maniera inequivocabile, il primo tentativo
concreto di riflettere sulla cronica debolezza etico-politica della
ricostruzione, mettendo in evidenza il contrasto stridente tra la fiducia
collettiva nella ripresa post bellica (troppo spesso ingenua e fideistica) e
l’implosione nichilistica ed improvvisa delle granitiche certezze (anch’esse
retoriche) che avevano forgiato il ventennio fascista e accompagnato
l’uscita della società italiana dalla disfatta della guerra.
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Si fronteggiano e si misurano due precise solitudini, che solo il cinema di
Antonioni è riuscito ad esaminare ma mai a dominare e gestire del tutto.
Quella di un paese da ridefinire nella sua più intima essenza, facendo
dialogare le necessità vitali del popolo e gli interessi burocraticoamministrativi della classe politica e quella per certi aspetti più subdola ed
incivile, di una gioventù annichilita dal pesante giudizio della storia e dalle
non meno opprimenti responsabilità di un futuro incerto e indefinibile.
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I vinti dunque non è solo il film che intreccia sapientemente cronaca ed
indagine sociologica, documentarismo e realismo, ma l’opera più
direttamente politica, di appartenenza diretta e attiva ad un’utopia
condivisa, di Michelangelo Antonioni.
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Il quale civetta senza abdicare mai all’abuso retorico e moralistico della
censura dell’epoca, dove la denuncia “esistenzialistica” della
frantumazione dell’identità giovanile (e dunque di un’intera comunità)
connessa all’assurda gratuità criminale del gesto, caratterizzano
l’insostenibilità dell’evanescenza quotidiana, di una generazione in
disperata ricerca di un baricentro qualsiasi su cui elaborare la propria
esistenza.
Titolo: I vinti
Lingua originale: francese, italiano, inglese
Paese: Italia, Francia
Anno: 1953
Durata: 110′
Genere: Drammatico
Regista: Michelangelo Antonioni
Soggetto: Michelangelo Antonioni, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico,
Turi Vasile
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Diego Fabbri, Suso Cecchi
D’Amico, Turi Vasile, Giorgio Bassani, Roger Nimier
Attori principali: Jean-Pierre Mocky, Etchika Choureau, Jacques Sempey,
Henri Poirier, Albert Michel, Franco Interlenghi, Anna Maria Ferrero,
Eduardo Ciannelli, Evi Maltagliati, Patrick Barr, Fay Compton, Peter
Reynolds, David Farrar
Fotografia: Enzo Serafin
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Montaggio: Eraldo Da Roma
Musiche: Giovanni Fusco
Scenografia: Gianni Polidori, Roland Berthon
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