1 - Osservatorio Balcani e Caucaso

«… si non est civis non est homo…»
Remigio DE’ GIROLAMI, Tractatus de bono communi (1302)
GIOVANNI PUNZO
Balcani: cittadinanza etnica ed esclusione
Tra le numerose difficoltà in cui si dibattono attualmente i nuovi paesi balcanici, benchè da un
lato si possa affermare con relativa tranquillità che l’emergenza più acuta sia superata e che in
generale migliorino – sia pure con lentezza a volte esasperante – le prospettive politiche ed
economiche complessive, dall’altro uno dei maggiori problemi è tuttavia sempre costituito dai
rifugiati e dai profughi in tutte le accezioni di questi termini1 e dalle situazioni complesse e
instabili – talvolta drammatiche – che ne derivano. Soprattutto in assenza di un consolidato
quadro politico di ‘cooperazione’ transnazionale tra questi nuovi Stati e constatando che – a
causa delle vicende politiche e belliche della fine del secolo scorso – un necessario processo di
rinnovata integrazione è ancora agli inizii, emerge quindi una realtà politico-istituzionale
estremamente frammentaria, complessa e fragile, almeno se confrontata con la parte
settentrionale e occidentale dell’Europa.
Il fenomeno in sé non è affatto nuovo in quest’area geopolitica per vari ordini di ragioni:
diverse sono in questo momento le cause principali, benchè sostanzialmente tutte riconducibili
– come in passato – alla diffusa presenza di ‘minoranze’ ancora di una certa consistenza
all’interno di una comunità a sua volta più o meno omogenea, inserita in uno ‘Stato debole’
strutturalmente; in altre parole la persistenza delle cosiddette ‘macchie di leopardo’, che
caratterizzavano anche in passato le rappresentazioni cartografiche, collocate all’interno di
complessi statali nella sostanza instabili, a dispetto delle parvenze di ‘omogeneizzazione
autoritaria’ che li hanno caratterizzati in passato. La principale conseguenza attuale nei
processi di costituzione dei nuovi Stati sembra diventare quindi l’assimilazione forzata (la
stessa che implicava in passato anche la conversione religiosa), l’esclusione, che talvolta può
prendere la forma dell’espulsione più o meno esplicita, il rifiuto del rientro nel luogo di
origine o residenza abituale dei profughi o semplicemente la cancellazione amministrativa di
numerose persone dai registri dello stato civile: una «pulizia etnica» silenziosa ed erosiva in un
contesto ben diverso dalle drammatiche giornate di Srebrenica o Vukovar, ma non per questo
meno pericolosa, proprio perché passata facilmente sotto silenzio. Per questi motivi la
1
Benchè la differenza sia abbastanza nota, è necessaria una schematica precisazione: i rifugiati hanno attraversato
una frontiera (border crossing, come è richiamato nella Convenzione di Ginevra) per trovare riparo da una
persecuzione o da un grave stato di difficoltà o pericolo; i profughi interni (o gli sfollati) sono invece coloro i quali
hanno abbandonato la loro zona di origine o la residenza abituale, ma non per questo si trovano in un paese
straniero: per questa categoria si utilizza l’espressione Internally Displaced Persons (IDP’s). Nel caso dei Balcani,
benchè non vi sia stata una vera e profonda revisione globale delle frontiere, quanto piuttosto la nascita di nuovi
Stati entro confini già esistenti prima del decennio e che forse per questo hanno dimostrato scarsa rispondenza alla
reale presenza di minoranze, tale comparsa ha tuttavia mutato le condizioni di fondo. Nel caso dei profughi di etnia
serba riparati dal Kosovo in Serbia è ovvio ad es. che il futuro status della provincia potrebbe influire sulla
condizione degli stessi, sebbene si trovino all’interno di uno Stato etnicamente affine e benchè non sempre accettati.
V. UNHCR, I rifugiati nel mondo. Cinquant’anni di azione umanitaria, Roma, UNHCR 2000.
-1-
presenza di profughi e rifugiati sparsi un po’ dovunque nella penisola e in Europa diventa oggi
non solo effetto generale della sommatoria di queste diverse politiche nazionali contingenti,
ma piuttosto ‘caratteristica strutturale’ riemergente della storia dei Balcani, già interpretata del
resto come susseguirsi secolare di «flussi incrociati di profughi»2 da una parte all’altra della
penisola, dove però non si è mai costituito sinora uno Stato totalmente e rigidamente
monoetnico, basato cioè sull’alternativa tra ‘assimilazione' o ‘esclusione’ totale e questo
nonostante tale tendenza si sia manifestata più volte, senza però produrre una costruzione
stabile e duratura.
Solo dopo l’implosione della Jugoslavia storica il riassetto politico e istituzionale generale si è
indirizzato esclusivamente verso la formazione di Stati monoetnici, mai esistiti in passato se
non nei termini a volte leggendari rappresentati dalla mitopoiesi degli stessi. La tendenza
attuale di molti Stati di recente comparsa a basare più o meno apertamente il fondamento della
cittadinanza su basi etniche conferma questa tendenza ‘storica’ nella sostanziale ‘antistoricità’
della stessa rappresentazione del modello statale forte e monoetnico. Disgraziatamente in
questo modo si conferma però anche il paradossale ‘successo’ dei tanti sanguinosi processi di
pulizia etnica, operazioni che – soprattutto dopo il 1992-93 e fino al 1999 – divennero appunto
lo strumento principale di queste ‘rifondazioni statuali’: «L’obiettivo politico di costruzione
dello Stato nazionale coincide[va] con quello etnico di espulsione e distruzione di chi è
considerato nemico, diverso malgrado decenni di convivenza, matrimoni misti, cultura e lingua
condivise»3.
La cosiddetta «pulizia etnica» è in realtà un fenomeno articolato e complesso, nonostante tutto
ancora presente e diffuso in varie forme e manifestazioni non sempre riconoscibili, e che
implica diverse fasi di sviluppo collegate tra loro, ma che solo recentemente è stato riportato
all’attenzione generale (soprattutto dopo il ‘decennio balcanico’), da un’inquietante ricerca
dedicata a questo fenomeno che lo definisce appunto «lato oscuro della democrazia»4.
L’origine della pulizia etnica si può manifestare in forme diverse: può trattarsi di una
costruzione artificiale, oppure può essere colta dalle forze interessate che ne sfruttano di volta
in volta fermenti e tensioni spontanee originate da estese trasformazioni sociali o economiche;
può trarre vantaggio da un particolare contesto internazionale o può radicarsi nella tradizione e
nella storia patria, o – più correttamente – nella semplice manipolazione di queste per altri fini.
È possibile, allora, identificare quali siano gli Stati e le società maggiormente propensi a
2
Marco DOGO, Storie balcaniche. Popoli e stati nella transizione alla modernità, Gorizia, LEG 1999, p. 44. Un'altra
rappresentazione della storia dei Balcani come migrazioni è proposta in un certo senso anche da Cvijic, quando
parla dei «movimenti metanastatici» (Jovan CVIJIC, La péninsule balcanique. Géographie humaine, Paris, 1918). Per
altri importanti riferimenti sugli esodi di popolazione si rimanda a M. BUTTINO (a cura), In fuga. Guerre, carestie e
migrazioni forzate nel mondo contemporaneo, Napoli, L’ancora del Mediterraneo 2001 M. CATTARUZZA-M. DOGO-R.
PUPO (a cura), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Napoli, ESI 2000. Non è affatto
casuale quindi che uno dei punti nodali della ‘questione balcanica’ sia il controverso (e spesso strumentale) dibattito
sui ‘diritti etnici’ ad occupare un certo territorio rivendicando di essere stati ‘i primi’: in realtà spesso, allo stato
attuale delle ricerche, è impossibile stabilirlo.
3
Marcello FLORES, Tutta la violenza di un secolo, Milano, Feltrinelli 2005, p. 39. Sullo stessa linea interpretativa, a
proposito dei Balcani considerando maggiormente il livello di integrazione piuttosto che quello di disgregazione, v.
anche Gabriele RANZATO, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, in Gabriele RANZATO (a cura), Guerre
fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri 1994, p. XVIII.
4
Michael MANN, Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica, Milano, Bocconi-EGEA 2005
(trad. it. di The Dark Side of Democracy: Explaining Ethnic Cleasing, Cambridge, Cambridge University Press
2005).
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trovare o a costruire queste occasioni, quali tra questi siano insomma maggiormente ‘portati’
alla violenza etnica fino alla conclusione genocida?
Una domanda simile è già stata posta in passato e – fortunatamente solo per breve tempo – si è
parlato ad esempio del carattere ‘innato’, tendente all’obbedienza assoluta del popolo tedesco
come fattore determinante del livello di violenza irrazionale espressa in alcune vicende della II
Guerra mondiale5.
Analogamente, sullo stesso piano, nel corso del ‘decennio balcanico’, si è fatto ampiamente
ricorso al concetto di ‘odio atavico’ per giustificare una violenza etnica a cui non si volevano
dare spiegazioni razionali e alla quale non si cercava nemmeno di porre termine in modo
rapido e coerente, bensì attribuendo semplicemente al ‘carattere innato’ di serbi e croati, di
bosniaci e albanesi del Kosovo, la radice di un comportamento che al tempo stesso spaventava
ed era rimosso. Il concetto di ‘odio atavico’ sostituiva in questa esemplificazione causale
molto diffusa la ‘naturale tendenza’ alla violenza e all’obbedienza assoluta, già considerate
responsabili del comportamento del popolo tedesco, per cui – nello stesso modo, applicata a
questa situazione particolare – tale semplice spiegazione in astratto risulta altrettanto
inaccettabile. Per comprendere appieno un fenomeno come quello della «pulizia etnica» con
particolare riferimento al ‘decennio balcanico’, fenomeno alla base dell’attuale esclusione nei
confronti di singoli diversi o di minoranze, non è solamente necessario ripercorrere alcuni nodi
storici, ma inevitabile, come del resto prendere in considerazione una molteplicità di fattori
che non si esaurisce affatto nei presunti ‘caratteri innati’, bensì su elementi strutturali e diffusi
meccanismi sociali attivi nei grandi processi di trasformazione, in altre parole – mutuando
l’espressione dal linguaggio medico – ricorrendo a una vera e propria ‘eziopatogenesi
multifattoriale’
Cio che preme soprattutto sottolineare all’interno di questo lavoro è che un processo di
«pulizia etnica» non è affatto un ‘fenomeno spontaneo’ o una semplice ‘crisi di adattamento’ a
nuove condizioni alla cui origine si trova il ‘carattere innato’ di una popolazione, ma nasce
piuttosto da fattori e circostanze precise in particolari fasi critiche di sviluppo di una società
organizzata e seguendo un’evoluzione per gradi successivi, a volte condotta in modo
strumentale e per altri fini. In altre parole la «pulizia etnica» può evidenziarsi anche nelle fasi
costitutive di un processo di formazione statuale che, richiedendo proprio per questi motivi alla
propria base una solida impostazione di società multiculturale e multietnica, diventano
particolarmente critiche e delicate creando ulteriori difficoltà a questo necessario sviluppo.
La «pulizia etnica» può quindi perpetuarsi nel tempo assumendo modalità selettive e di
esclusione/inclusione. Per questi motivi, all’interno di queste fasi sono da considerare con
estrema attenzione (e preoccupazione) il concetto di ‘etnia’ nella sua pratica politica e il suo
riverbero su quello di ‘cittadinanza’, intesa come legame secolarizzato dell’individuo con il
suo Stato di appartenenza: un legame dal quale dipendono tutti gli aspetti collegati che vanno
5
Solo studi recenti hanno invece messo a fuoco le particolari condizioni e gli aspetti concreti di alcune situazioni
specifiche, uscendo da questo rozzo stereotipo che – più che inaccettabile concettualmente – era anche insostenibile
oggettivamente. L’ovvio riferimento è agli studi dello stesso Mann ma anche a C. BROWNING, Uomini comuni. La
polizia tedesca e ‘soluzione finale’ in Polonia, Torino, Einaudi 1995 (trad. it. di Ordinary Men: Reserve Police
Battalion 101 and the Final Solution in Poland, New York, Harper Collins 1993); D. GOLDHAGEN, I volonterosi
carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, Mondadori 2001, London, Little Brown 1996 (trad. it.
di Hitler’s Willing Excutioners: Ordinary Germans and the Holocaust) e J. GROSS, I carnefici della porta accanto.
1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Milano, Mondadori 2002 (trad. it. di Neighbors:
the Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Princeton, Princeton University Press 2001).
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dai giusti diritti ai doveri più elementari, dalle aspettative sociali alle pretese economiche, dalle
modalità di appartenenza e ai criteri di differenziazione, fino alle strategie di ‘inclusione’ o di
‘esclusione’ degli stessi cittadini dal ‘loro’ Stato.
Assumendo infine come elemento di valutazione della ricomposizione dei conflitti ‘passati’
nell’area balcanica il grado di cooperazione politica ed economica tra i nuovi Stati, la
‘questione della cittadinanza’, analizzata nelle sue implicazioni etno-nazionali, si rivela ancora
un segnale indicatore poco rassicurante nei processi di normalizzazione6. Una situazione
generale sulla quale, a dispetto dell’impegno profuso – anche in termini economici e finanziari
non trascurabile –, sembra che l’azione politica dell’Unione Europea, pure se unica portatrice
di un’ampia soluzione condivisibile da tutti, non sia stata sufficientemente incisiva.
Nel quadro di quella che in modo eufemistico è descritta come la forma ‘post-moderna’ di
riorganizzazione degli assetti geopolitici ed economici dei Balcani dopo l’89, un’analisi dei
concetti di ‘identità’ e di ‘cittadinanza’ diventa cruciale, tentando possibilmente di limitare un
uso sfrenato del concetto di ‘identità’ trasformatosi ormai nella panacea ermeneutica della
spiegazione della complessità del reale anche nel nostro mondo occidentale.
Parafrasando con amara ironia un noto aforisma («I Balcani producono più storia di quanta ne
possano consumare»7), resta purtroppo vero che la penisola balcanica continua oggi a generare
più profughi e rifugiati di quanti ne possa – e ne debba – trattare con maggior umanità e
rispetto.
1. L’Europa orientale e balcanica tra le due Guerre mondiali
Benchè ormai di tratti di un’osservazione banalizzata, per comprendere anche questa
situazione specifica è indispensabile fare i consueti passi indietro e tornare ai nodi storici
costituiti dalle due Guerre mondiali e più esattamente al breve periodo di pace intercorso tra i
due conflitti. In un certo senso i problemi emersi allora hanno anticipato quel legame globale
tra i diversi fenomeni ‘interni’ e il ‘disordine collettivo’ che caratterizza gli attuali processi di
mondializzazione e globalizzazione in atto. Ricorrendo nuovamente in questo caso a un’altra
metafora abusata si potrebbe dire di trovarsi di fronte a terre riemerse dopo il ritiro delle acque
che presentano tuttora una configurazione già vista. La trasformazione radicale dell’Europa
centro-orientale dopo il 1989 ha riportato infatti alla luce – soprattutto nell’ambito dei rapporti
tra gli individui e lo Stato, oltrechè nei rapporti tra gli Stati stessi – i numerosi problemi
strutturali già manifestatisi allora, affrontati in momenti e sedi diverse, ma non per questo
6
Questo sembra essere il quadro descritto da Anna Maria GENTILI-Mario ZAMPONI (a cura), Stato, democrazia e
legittimità. Le transizioni politiche in Africa, America Latina, Balcani, Medio Oriente, Roma, Carocci 2005. In
particolare all’interno v. Stefano BIANCHINI, “Stato debole” e instabilità nell’Europa sudorientale: le radici storiche
di un fenomeno moderno, p. 17-40; Damir GRUBISA, Il ruolo predominante della nazione-Stato e la cooperazione
regionale nell’Europa sudorientale, p. 41-49; Francesco PRIVITERA, Lo smembramento della Jugoslavia e
l’integrazione europea, p. 133-151; Luisa CHIODI, Legittimità e consenso, crisi dello Stato e transizioni politiche.
Promuovere la società civile nell’Albania postcomunista, p. 203-217.
7
La frase risale all’umorista britannico H.H. Munro, conosciuto come Saki; in seguito ebbe ampia diffusione nel
mondo anglosassone e fu attribuita addirittura a W. Churchill. In realtà la versione originale era: «The people of
Crete unfortunately make more history than they can consume locally» e per di più in un contesto diverso. Saki, che
aveva visitato effettivamente sia l’isola greca he la Macedonia ottomana ai primi del Novecento, fece pronunciare la
storica frase a un personaggio immaginario di nome Arlington Stringham, il cui comportamento – soprattutto
verbale – condusse la moglie al suicidio (Keith BROWN, The Past in Question. Modern Macedonia and the
Uncertanies of Nation, Princeton, Princeton University Press 2003, p. xi).
-4-
risolti completamente e nemmeno in parte attenuati.
Nonostante i vari tentativi di riforme interne dalla fine del XIX secolo in poi – il cui fallimento
aveva però rafforzato le cause dello stesso conflitto –, dopo la I Guerra mondiale scomparvero
dall’area dell’Europa centro-orientale tre grandi imperi multietnici: l’impero austro-ungarico,
l’impero russo e l’impero ottomano. Apparentemente quindi i principali ostacoli verso la
realizzazione di nuovi ordinamenti statuali basati sul principio di nazionalità potevano dirsi
rimossi. Si sarebbero potute dunque realizzare le aspirazioni espresse da Tomas Masaryk ed
Edvard Benes (ma anche dallo stesso jugoslavismo) che, dopo la lotta vittoriosa contro «le
potenze della monarchia medioevale e teocratica, dell’assolutismo indemocratico e
anazionale», auspicavano invece il sorgere di «stati costituzionali, democratici e repubblicani»,
che riconoscessero «il diritto di tutti i popoli, non solo dei grandi ma anche dei piccoli,
all’indipendenza statale».
Al di là del loro valore di affermazioni di principio forse piuttosto enfatiche – soprattutto oggi,
considerate con una scettica mentalità contemporanea –, queste idee erano comunque
assolutamente in linea con quanto si sosteneva sull’altra sponda dell’Atlantico: anzi è da
ricordare a questo proposito che il presidente americano Wilson, nella sua personale
prospettiva, pur ritenuta da molti utopistica, articolava molto meglio il concetto di riassetto
politico post-bellico riassumendolo mirabilmente nei famosi «14 punti»8, risultato anche di una
specifica visione costituzionale dei diritti delle minoranze tipicamente nordamericana, non
fondata quindi sulla tutela internazionale, ma piuttosto sul sistema giudiziario interno come
perno costituzionale.
In breve però conciliare le esigenze del riassetto territoriale e delle minoranze di popolazione
con la definizione di nuovi confini, nel tentativo di inglobarle in Stati etnicamente omogenei,
si rivelò «l’incubo dei diplomatici europei»9. Da una parte esisteva infatti una scarsissima
conoscenza delle intricate questioni territoriali ed etniche, che nemmeno un’intensa e
prolungata attività di sopralluoghi e missioni in loco riuscì a chiarire, ma dall’altra si era anche
costituito un intreccio di accordi segreti nel contenuto e spregiudicati nelle finalità –
preliminari o contemporanei alla condotta politica della guerra –, che condussero
inevitabilmente al fallimento generale. Non solo esistono molte testimonianze dirette del clima
particolare di quel periodo10, ma numerosi studi hanno sottolineato la generale sottovalutazione
del problema etnico in sé, se non addirittura la sua mancata comprensione11. Eppure un altro
aspetto non secondario fu la propaganda dell’età della ‘massificazione della politica’ che fu un
ulteriore tratto caratteristico della storia successiva alla I Guerra Mondiale12 e l’argomentazione
8
Si trattava di un programma generale per il riassetto politico dell’Europa, esposto in un discorso pronunciato
dinanzi al Congresso degli Stati Uniti l’8 gennaio 1918. In particolare, ai punti X e XI, si sosteneva: «Ai popoli
dell’Austria-Ungheria […] dovrà essere accordata la più ampia possibilità di uno sviluppo autonomo» e «… le
relazioni tra i diversi stati balcanici dovranno essere fissate amichevolmente, tenendo conto delle somiglianze e
delle differenze di nazionalità che la storia ha creato».
9
Edgar HÖSCH, Storia dei paesi balcanici. Dalle origini ai giorni nostri, Torino, Einaudi 2005, p. 194 (trad. it. di
Geschichte der Balkanländer. Von der Frühzeit bis zur Gegenwart, München, Beck Verlag 2002). V. anche Guido
FRANZINETTI, I Balcani: 1878-2001, Roma, Carocci 2001.
10
Il riferimento è all’ampia memorialistica storico-diplomatica risalente al periodo tra le due guerre incentrata su
queste vicende.
11
Claudio RISÈ, La Guerra Postmoderna. Elementi di polemologia, Gorizia, Tecnoscuola 1996, p. 52-60.
12
In realtà sarebbe da approfondire il legame tra la forma e i contenuti della propaganda di guerra nel momento
della massificazione della guerra e quella successiva in tempo di pace, per scoprire semmai che «la politica è la
continuazione della guerra con altri mezzi», e non il contrario e che il confine in questo caso è molto sfumato.
-5-
storico-nazionalistica al suo servizio, che secondo lo storico Henry Pirenne «non doveva più
agire su pochi diplomatici: doveva convincere della giustizia della loro causa quelle masse di
cittadini che votano e che combattono». Pertanto, sommando alla sottovalutazione dei
professionisti della politica internazionale le spinte di massa – probabilmente, proprio in
quanto tali considerate ‘non accettabili’, ritenute demagogighe o peggio –, il risultato finale
della mancata comprensione di una trasformazione contradditoria fu quello sotto gli occhi di
tutti.
In realtà, pur tenendo in debito conto questa interpretazione, mancarono in seguito
completamente due punti di riferimento stabili: il sistema internazionale come ‘strumento
regolatore’ esterno, ossia la mancanza di efficaci meccanismi attuativi e di controllo
sovranazionali che si fondassero a loro volta su strutture statuali solide, sia i sistemi
costituzionali interni per la ‘tutela delle minoranze’.
In questo quadro complesso, di una difficoltà così estesa fino ad allora sconosciuta alla
diplomazia e alle cancellerie europee, l’applicazione sostanziale dei «14 punti» si rivelò
praticamente impossibile e non solo per la loro mera apparenza utopistica, pur riconosciuta da
molti contemporanei, ma anche perché, solo da un punto di vista territoriale, si trattava in
pratica quasi di mezzo continente e cioè di tutta l’Europa orientale dal Baltico ai Balcani fino
al Mar Nero e all’Adriatico. Un’estensione enorme – occorre ricordare – a cavallo di frontiere
non solo territoriali o di singoli Stati, solcata per di più dalle ‘grandi linee’ della geopolitica: i
confini interni dell’Eurasia e delle grandi religioni, dove il cuneo musulmano penetra a lambire
la linea di demarcazione tra cattolici e ortodossi13.
L’aspetto economico e commerciale, che prevedeva la creazione di una sorta di area di libero
scambio, divenne terreno di scontro di egoismi nazionali e in conclusione risultò ingovernabile
mentre mancarono anche le necessarie condizioni di sviluppo. In tal modo si consolidarono
pertanto le premesse delle crisi economiche che periodicamente devastarono i fragili Stati di
nuova costituzione e l’obiettivo di fondo prefissato, cioè il raggiungimento di un certo livello
di stabilità politica interna legata a una sorta di autosufficienza economica, adeguata alla
nascita dei nuovi Stati e fondamentale per il loro sviluppo, non fu mai colto.
Soprattutto fallì anche il tentativo di regolare nel suo complesso questo nuovo sistema
internazionale – che non comprendeva quindi solamente questi nuovi Stati – attraverso la
Società delle Nazioni, materializzazione dell’ultimo dei «14 punti», che non fu in grado di
assicurare la garanzia di equilibrio richiesta.
L’ultima risorsa a cui ricorsero i paesi balcanici divenne quindi la ‘svolta autoritaria nel quadro
dell’emergenza’, ovvero la «dittatura per la salvezza della patria» e l’anti-parlamentarismo, in
misure e tempi diversi per singolo paese, ma che si protrassero praticamente fino alle soglie
del secondo conflitto mondiale, in uno Stato di anarchia interna semi-permanente sul quale si
innestarono le più forti ‘politiche di potenza’ di Stati invece autenticamente dittatoriali come la
Germania e l’Italia o, più semplicemente, le normali ‘politiche di influenza’ di Stati
democratici come Francia e Inghilterra.
In sintesi si può affermare quindi che le cause più ampie dell’instabilità politica balcanica
furono sia ‘interne’ che ‘esterne’, ma riconducibili comunque a due grandi gruppi di fattori: a)
la disomogeneità interna e la debolezza economica che condussero a crisi strutturali dei singoli
Stati e b) gli influssi esterni destabilizzanti originati dalla diffusa pratica di accordi bilaterali
13
Terry MARTIN, The Origins of Soviet Ethnic Cleansing, «The Journal of Modern History», n. 70, 1998, p. 817.
-6-
negoziati da ristrette elites al potere in un quadro politico-internazionale a sua volta instabile,
privo cioè di una struttura non tanto di governance, ma nemmeno di ricomposizione dei
conflitti.
Prima della scomparsa degli imperi multinazionali i sudditi di etnia diversa all’interno di
queste grandi compagini statali erano circa sessanta milioni, mentre – alla fine della guerra –
gli europei governati da un’etnia diversa erano diventati circa venticinque milioni14.
Soprattutto nell’Europa orientale le nazionalità ‘subordinate’ erano diventate dalla metà a circa
un quarto della popolazione nel suo complesso: in tal modo si era notevolmente affermato il
principio dell’identificazione tra Stato ed etnia/nazione, ma la situazione preesistente si era
frammentata ulteriormente. Si trattava in ogni caso di una cifra ancora rilevante ma che, al di
là del semplice dato numerico, rappresentava comunque delle significative diversità,
soprattutto nelle condizioni delle singole minoranze.
In totale gli Stati invitati a sottoscrivere speciali trattati sulla tutela delle minoranze, o ad
impegnarsi comunque in tal senso davanti alla Società delle Nazioni, furono ben quattordici:
Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Austria, Ungheria, Romania,
Jugoslavia, Albania, Grecia, Turchia e Iraq; un elenco dal quale si desumono facilmente
l’estensione del problema e la sua dimensione, ma anche il livello di diversità intrinseca dei
singoli problemi ‘nazionali’.
La guerra aveva visto forti flussi di rifugiati, che gli accordi di pace aumentarono. Nel 1926 i
profughi europei erano quasi 10 milioni, tra cui 1,5 milioni scambiati tra Grecia e Turchia, 280.000
scambiati tra Grecia e Bulgaria, 2 milioni di polacchi, 2 milioni di russi e ucraini, quasi un milione di
tedeschi, quasi 250.000 ungheresi e 200.000 estoni, lettoni o lituani. Sono cifre sconvolgenti. […] In
Europa orientale, le nazionalità subordinate erano state ridotte dalla metà a un quarto della
popolazione. La cittadinanza ora si identificava sostanzialmente con l’etnia e gli appartenenti a
minoranze rischiavano di diventare cittadini di seconda classe15.
Mentre lo Stato-nazione organico si affermò – o si rafforzò ulteriormente – nell’Europa
occidentale e del nord-est (Spagna, Francia, Germania, Italia e in parte in Polonia),
nell’Europa orientale e balcanica le dinamiche politiche del dopo-guerra crearono tre tipi
principali di soggetti con connotazione ‘etnica’, ma non per questo ‘nazionale’: a) le
minoranze nazionali: ovvero gruppi di popolazione che costituivano una minoranza nello Stato
in cui si trovavano; b) gli Stati in via di nazionalizzazione: Stati all’interno dei quali la
maggioranza nazionale tentava di riflettere solo se stessa all’interno della nuova
organizzazione creando una cittadinanza di seconda classe; c) gli Stati-patria esteri: ovvero un
punto di riferimento esterno per le minoranze nazionali al quale rivolgersi per richiedere
sostegno e protezione16.
14
MANN, cit., p. 82.
Ivi, p. 82.
16
R. BRUBAKER, Nationalism Reframed: Nationhood and the National Question in the New Europe, Cambridge,
Cambridge University Press 1996. Già Hannah Arendt aveva messo in evidenza nelle Origini del totalitarismo
(1951), soprattutto a partire dalla fine della I Guerra mondiale, che l’adozione del modello dello stato-nazione da
parte di élite politiche di società multietniche portò alla creazione di due categorie di vittime, le ‘minoranze
nazionali’ e i ‘senza stato’. I primi erano persone con un’identificazione nazionale diversa da quella su cui lo stato
in cui vivevano fondava la propria identità politica, ma omogenea a quella di uno stato estero. Questa circostanza
differenziava gli appartenenti a una ‘minoranza nazionale’ dai ‘senza stato’, che invece erano privi di un loro stato
di riferimento, ed erano condannati a rimanere delle eccezioni rispetto all’equazione dell’ideologia nazionalista: una
nazione=uno stato.
15
-7-
A questi soggetti se ne potrebbe aggiungere un quarto, benchè in realtà di natura molto più
complessa e sfuggente alle classiche categorie etniche, costituito dagli ebrei e dagli zingari
che, sparsi in tutta l’area, rappresentavano a loro volta una nazione-patria, ovvero, pur
costituendo gruppi minoritari, non potevano però ancora contare sui consueti legami di
solidarietà e protezione indiretta tra una minoranza e uno Stato-nazione altrove costituito. In
considerazione del sentimento anti-semita e dell’aperto razzismo nei confronti degli zingari
presenti in Europa orientale17 tra le due guerre, ma soprattutto nella prospettiva del successivo
genocidio perpetrato, tali gruppi costituiscono un caso a sé stante, che conferma però
l’esistenza di un diffuso sentimento di ostilità latente nei confronti del diverso e dello
‘straniero’, in altre parole verso un cittadino ‘non riconosciuto’ come tale e quindi di seconda
categoria.
Il nesso che interessa sottolineare è quello che lega lo sviluppo dello Stato moderno,
promotore di ‘politiche di popolazione’ e di divisione delle stesse in segmenti pre-definiti
(soprattutto in rapporto alla fedeltà nei confronti dello Stato stesso), alle repressioni che furono
messe in atto in seguito nei confronti di tali categorie – costruite e reificate dalla stessa azione
statale18 – in ‘contesti emergenziali’, soprattutto durante una guerra, ma anche in previsione di
questa o immediatamente dopo un conflitto. Una situazione ora descritta in termini astratti, ma
che ci porta a definire un quadro per quanto sfuocato assai simile a quello contemporaneo.
Di fronte a questo difficile quadro complessivo, all’interno del quale si mescolavano la
presenza di attori ineguali, la necessità di un ‘nuovo ordine internazionale’ stabile e quella del
‘consolidamento istituzionale’ degli Stati, le opzioni possibili per regolare i problemi delle
minoranze furono in pratica quattro:
a) la revisione delle frontiere per inglobare o cedere aree sulle quali insistevano minoranze,
che però – come detto sopra – si rivelò praticamente impossibile;
b) l’emigrazione e lo scambio di popolazioni, di cui si tratterà più avanti;
c) l’eliminazione delle minoranze, di cui si manifestarono numerosi tentativi attraverso
l’assimilazione forzata o l’espulsione;
d) altri tentativi di modifiche costituzionali per permettere un’effettiva tutela delle minoranze,
ma da coordinare con il nuovo ordine internazionale19.
1.1 Tutela internazionale e scambi di popolazione
La soluzione della vigilanza internazionale, che in termini contemporanei si potrebbe giudicare
17
Un elemento da più parti sottolineato, per chiarire alcuni aspetti sulle origini dell’antisemitismo che gravava
pesantemente sull’Europa orientale, era la diffusione di testi di propaganda apertamente razzista, come ad esempio I
Protocolli dei Savi di Sion, notoriamente un ‘falso’ prodotto dalla polizia zarista nei primi anni del secolo. Anche
HÖSCH (cit., p. 198) e H. SETON WATSON, Eastern Europe between the Wars 1918-1941, Boulder, Weastview Press
1986, sottolineano la particolare virulenza dell’antisemitismo interbellico non solo nei Balcani ma in tutta l’Europa
orientale.
18
Oltre alla già citata interpretazione di H. Arendt, Aristide ZOLBERG, The Formation of New States as a RefugeeGenerating Process, «Annals of the American Academy of Political and Social Science», n. 467, 1983 ha colto
invece l’aspetto ‘religioso’ del fenomeno richiamandosi alla cacciata dalla Spagna degli ebrei alla fine del XV
secolo: estendendolo ad altri casi connessi ad eventi legati alle vicende della Riforma e della Controriforma
(espulsioni dei protestanti dai Paesi bassi spagnoli, degli Ugonotti dalla Francia o dei Valdesi dal Ducato di Savoia),
a fattore comune resta comunque l’espulsione del diverso, attraverso le fasi successive dell’identificazione del
potenziale nemico, dell’assimilazione forzata (per abiura) o dell’espulsione.
19
R. HAYDEN, Imagined Communities and Real Victims: Self-Determination and Ethnic Cleansing in Yugoslavia,
«American Ethnologist», vol. 23, 1996.
-8-
con il senno di poi come il più praticabile e auspicabile, nell’ambito delle trattative di
Versailles fu più volte riconosciuta già come tale e sottolineata, come del resto appare
abbastanza nettamente dai trattati per la tutela delle minoranze che furono promossi nel quadro
dell’attività della Società delle Nazioni20.
A parte la fragilità strutturale dell’organizzazione internazionale tra le due guerre, carenza che
emerse nettamente più tardi di fronte al problema dell’esecuzione delle deliberazioni, il
problema delle minoranze era in ogni caso ben noto e fu formata una Commissione ad hoc per
la stesura di un trattato per la loro tutela. L’internazionalizzazione del problema, che si
concretizzava nella proposta di adozione di tale trattato, costituiva un notevole passo in avanti
sul piano degli strumenti giuridici da porre in essere, e non solo quindi su quello delle semplici
affermazioni di principio. Tutti i trattati erano più o meno simili, in quanto «contenevano una
dichiarazione generale, dei principi di base e norme precise sulle garanzie di cittadinanza
volte a prevenire discriminazioni nei confronti delle minoranze»21.
Il principio della tutela ‘esterna’ non poteva nemmeno definirsi in sé del tutto nuovo in quanto
per secoli, proprio in tutta l’area balcanica, si era sviluppato il sistema del millet – che offriva
delle minime garanzie in materia di trattamento delle minoranze da un punto di vista religioso
– e quello della potenza protettrice. Ma principalmente, nel nuovo assetto proposto a Ginevra –
e si trattava probabilmente dell’aspetto più innovativo –, erano indicati ‘strumenti coattivi’ per
l’applicazione della tutela ed erano inoltre previsti i casi nei quali la minoranza si potesse
rivolgere direttamente alla Società delle Nazioni in caso di violazione dei propri diritti. Le
eventuali controversie sarebbero state successivamente discusse in sede di Corte permanente di
giustizia internazionale, nuovo organo della Società delle Nazioni, le cui deliberazioni erano
vincolanti. Sebbene le norme variassero da Stato a Stato, e la loro reale efficacia fosse
discutibile, l’impostazione del problema risultava abbastanza corretta e comunque ‘moderna’.
Anche in questo caso però le difficoltà di ordine politico generale non consentirono la piena
realizzazione dei progetti principalmente perché «i vincitori esausti esitarono a conferire uno
status troppo importante alle minoranze, a indebolire i governi e a fornire ai difensori delle
minoranze mezzi per contestare il nuovo ordine»22. In altre parole, pur riconoscendo il passo
avanti fatto per la tutela delle minoranze, il compromesso ottenuto risultò alla fine troppo
debole alla prova dei fatti.
20
Dubbi sulla solidità del nuovo assetto balcanico furono espressi abbastanza presto. In un dibattito alla Società
delle Nazioni, Smuts fece alcune osservazioni: «The animosieties and rivalries among the indipendent Balkan states
in the past, which kept that pot boiling, and occasionaly boiling over, will serve to remind us that there is the risk of
a similar state of affairs on a much large scale in the new Europe, covered as it will be whit small indipendent
States. In the past the Empire kept the peace among the rival nationalities; the League will have to keep the peace
among the new States formed from these nationalities. This will impose a task of constant and vigilant supervision
on it».
21
Erik GOLDSTEIN, Gli accordi di pace dopo la Grande guerra (1919-1925), Bologna, Mulino 2005, p. 54 (trad. it. di
The First Word War Peace Settlements (1919-1925), London, Longman 2002); il corsivo è mio.
22
C. FINK, The Minorities Question at the Paris Peace Conference. The Polish Minorities Treaty, June 28, 1919, in
M. BOEMECKE-G.D. FELDMAN-E. GLASER (eds), The Treaty of Versailles. A Reassesment after 75 Years, Cambridge,
Cambridge University Press 1998, p. 274. V. anche U. CORSINI-D. ZAFFI (a cura), Le minoranze tra le due guerre,
Bologna, Mulino 1994.
-9-
Restava quindi la seconda soluzione tra quelle indicate alla fine del precedente paragrafo e
cioè quella dell’esodo volontario o del trasferimento forzato di popolazioni da uno Stato
all’altro. L’episodio più noto e controverso dopo la I Guerra mondiale fu lo scambio di
popolazioni tra Grecia e Turchia, successivamente sanzionato con il trattato di Losanna nel
1923 e sul quale è necessario soffermarsi in maniera abbastanza dettagliata.
Alla conclusione del conflitto sul fronte occidentale la Grecia, godendo dell’appoggio delle
potenze vincitrici e nel quadro di una politica di spiccato carattere imperialista, intendeva
espandere la propria egemonia nel Mediterraneo orientale fino a lambire lo Stretto dei
Dardanelli e quindi l’accesso al Mar Nero. Questa politica di potenza, denominata «Grande
Idea», mirava poco realisticamente al modello dell’impero bizantino e, nel momento del crollo
dell’impero ottomano, trovò una circostanza favorevole al suo avvio. L’unica fase favorevole
fu però quella iniziale e, nonostante lo sbarco a Smirne – dove si trovava una consistente
minoranza greca non solo presente nella città – nel maggio 1919, dopo un’insurrezione
nazionalista turca e una durissima battaglia campale nell’agosto 1921, le sorti si capovolsero e
un milione e centomila greci dovette abbandonare la Turchia, pressato e incalzato dalle truppe
turche. Contemporaneamente almeno cinquecentomila musulmani furono costretti ad
abbandonare la Grecia. Questi fatti non solo segnarono la sconfitta greca – determinandone
tutta la futura politica estera praticamente sino al secondo dopoguerra – ma una vera e propria
rinascita turca, dopo che Mustafà Kemal, imponendo il trattato di Losanna nel 1923, arrestò
ulteriori smembramenti territoriali mediante un assetto politico stabile in Asia minore.
Dal punto di vista della ‘tutela delle minoranze’ il precedente fu comunque terribile in quanto
le espulsioni dei musulmani dalla Grecia e dei greci dalla Turchia costituirono praticamente
anche un deliberato atto di rappresaglia contro una minoranza etnica a seguito di una sconfitta
militare subita in una campagna voluta per ampliare il proprio territorio. Questo valore di
precedente è stato colto da István Bibó, intellettuale e politico ungherese, che nel 1946
scriveva che il metodo dello scambio delle popolazioni «è stato sperimentato la prima volta
nelle relazioni greco-turche e, sebbene si sia svolto in maniera alquanto disordinata,
tumultuosa e poco umanitaria, i suoi risultati sono stati sorprendenti e invitanti: il secolare
contrasto tra turchi e greci, che prometteva di durare altri secoli, si è dissolto nel giro di dieci
anni»23. Tuttavia in seguito riconosceva, non senza una certa magnanimità, che lo spostamento
di popolazione poteva diventare un’arma a doppio taglio, usata da ogni aggressore che volesse
conquistare un territorio ‘liberandolo’ da una popolazione estranea, e doveva essere soggetto a
regole ben precise e internazionalmente riconosciute: «… lo scambio di popolazione va preso
in considerazione quando su un determinato territorio non si possa fisicamente seguire il
confine etnico, e a causa del contrasto tra le parti non si possano mantenere le condizioni
storicamente affermatesi, vale a dire lo status quo». Inoltre, lo spostamento «può avvenire solo
su basi di reciprocità, e con una risoluzione della comunità delle nazioni e sotto il suo
controllo; e, una volta così avvenuto, è irreversibile»24. Le considerazioni di Bibó, scritte nel
secondo dopoguerra, traevano spunto da quanto accaduto a seguito delle modifiche territoriali
tra Germania e Polonia e dall’annessione della Slesia al nuovo Stato polacco dopo il 1945, che
aveva praticamente espulso tutta la popolazione di etnia tedesca.
23
István BIBÓ, Miseria dei piccoli stati dell’Europa orientale, Bologna, Mulino 1994, p. 96 (ed. or. 1946), il corsivo
è mio.
24
IDEM, p. 97.
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2. Dall’etnia alla cittadinanza europea
2.1 L’etnia e la cittadinanza
Stabilire un concetto univoco di «etnia» non è impresa facile. Per meglio dire, se da un lato
risulta abbastanza semplice descrivere in astratto le caratteristiche ipotetiche di una ‘comunità’
da un punto di vista meramente teorico25, dall’altro ci si trova di fronte a varie raffigurazioni –
controverse e confliggenti –, soprattutto quando ci imbatte nel concetto di ‘identità’, categoria
esplicativa per altro ormai abusata. Occorre precisare preliminarmente che anche l’identità
‘etnica’ è comunque identità ‘sociale’26, ma che l’individuazione del suo ‘peso effettivo’ è
tutt’altro che irrilevante nello studio delle ulteriori dinamiche messe in atto: stabilire in altre
parole quali ne siano concretamente dimensione e ruolo all’interno di processi sociali più
ampi, ma tenendo presente anche che l’identità ‘collettiva’ necessita non solo di un
riconoscimento interno – cioè, il senso di appartenenza –, ma anche di un riconoscimento
esterno mediante il conferimento della qualifica di ‘alleato’, ‘neutrale’ o ‘nemico’ da parte di
altre comunità sulla base di analoghe elaborazioni concettuali. In assenza, secondo la maggior
parte degli studiosi, di un solido fondamento ontologico, l’identità si sposta sul piano della
conflittualità27. Determinante diventa quindi il terreno di scontro, ovvero l’oggetto del
contendere che, nel caso del ‘governo’ di un paese o del ‘controllo’ di una parte del territorio,
si trasforma in un fattore scatenante. Il problema vero diventa quindi stabilire la natura del
legame etnico in sé, per scoprire quale ruolo giochi in determinate situazioni e quando siano da
attribuirgli gravi responsabilità.
Il decennio balcanico, oltre a «indebolire drasticamente qualsiasi ragionevole ottimismo sul
futuro delle relazioni internazionali»28, ha imposto delle profonde riflessioni sia sul concetto di
guerra etnica, sia sulla conseguente «pulizia» che ne era diventata lo scopo principale, e
indirettamente ha prodotto una quantità rilevante di studi e ricerche. Tra le più significative si
colloca quella di Michael Mann, soprattutto per lo sforzo di comparazione tra epoche,
localizzazioni geografiche e casi diversi e l’abbondante documentazione presentata: tesi
principale di questo autore è che «La pulizia omicida è moderna: è il lato oscuro della
democrazia»29.
Dopo aver elencato brevemente i focolai tuttora esistenti in varie parti del globo, Mann illustra
e articola dettagliatamente le prime sottotesi relative: «1a. la pulizia etnica omicida è un
rischio connaturato all’era della democrazia perché in condizioni di multietnicità il governo
ideale del popolo cominciò a intrecciare il demos con l’ethnos dominante, generando concetti
organici di nazione e Stato che incoraggiano l’eliminazione delle minoranze» e tali concetti si
inaspriscono ulteriormente assumendo connotazione di classe. Tralasciando la sottotesi 1b –
25
Secondo una diffusa definizione una popolazione costituisce un’etnia quando condivide un certo numero di
elementi culturali significativi: riti religiosi, mitologie, memoria collettiva, lingua. (Anthony D. SMITH, Le origini
etniche delle nazioni, Bologna, Mulino 1992, p. 65: «È questo senso della storia e la percezione dell’unicità e
dell’individualità culturale a differenziare le popolazioni le une dalle altre e a conferire a una data popolazione una
definita identità, sia ai suoi stessi occhi, sia a quelli degli outsiders»).
26
Vittorio COTESTA, Sociologia dei confitti etnici, Milano, Angeli 1999.
27
È quanto sostiene ad esempio Ugo FABIETTI, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma,
Nuova Italia Scientifica 1995.
28
F. TUCCARI, Scenari delle relazioni internazionali, in A. D’ORSI (a cura), Guerre globali. Capire i conflitti del XXI
secolo, Roma, Carocci 2003, p. 40.
29
MANN, cit., p. 2, il corsivo è dell’autore.
- 11 -
riferita a determinate situazioni coloniali – la sottotesi 1c si riferisce invece ai processi di
democratizzazione, all’interno dei quali esistono maggiori possibilità, rispetto i regimi
‘stabilmente autoritari’, che si manifestino pulizie etniche30. Le ultime due sottotesi sostengono
che le ‘democrazie stabilizzate’ non coloniali hanno minori possibilità in quanto dispongono di
meccanismi per la tutela delle minoranze e che, comunque, l’attuazione di un processo di
pulizia etnica non connota uno Stato come democratico.
Secondo Anthony D. Smith31 il processo storico che ha portato alla formazione delle moderne
nazioni europee ha avuto origine, in momenti diversi e con diverse modalità, dalla
convergenza di tre ‘rivoluzioni’: a) il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, che si è attuato
con i collegamenti tra i centri economici e le singole elites urbane e regionali; b) la crescita e
lo sviluppo del ‘controllo amministrativo’ statale, per fissare condizioni legislative e fiscali
omogenee attraverso la creazione di una struttura burocratica (e conseguentemente di un ‘ceto’
addetto) per controllare il territorio; c) un processo di ‘integrazione culturale’ comune
all’interno del quale la fondazione di scuole, accademie e musei, o il disegno di un grande
progetto di educazione nazionale sostituisse la ‘salvezza ultraterrena’ con una invece ‘terrena’,
gestita dal sovrano che surrogava in tal modo l’organizzazione religiosa. Naturalmente questi
fenomeni si manifestarono con discontinuità sia nel tempo che nello spazio e, a seconda di
altre variabili, il processo di formazione assunse una connotazione più o meno marcatamente
etnica.
Almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento l’idea che la «cittadinanza» – intesa come
secolarizzato legame giuridico e politico fra l’individuo e lo Stato – si estendesse in maniera
‘automatica’ alla popolazione di un territorio sul quale uno Stato avesse la propria sovranità
non si impose nei Balcani, o comunque se non con riserve e resistenze molto radicate. Del
resto è anche da ricordare come la regione fosse divisa tra più imperi e quante differenze
esistessero all’epoca. Occorrerà attendere almeno il periodo successivo alla I Guerra mondiale
per assistere alle prime manifestazioni delle conseguenze di queste trasformazioni, benchè i
pochi esiti positivi siano stati vanificati dal conflitto.
Nella scomparsa Repubblica Federale di Jugoslavia la cittadinanza si articolava su tre distinti
‘livelli’, che implicavano a loro volta tre status diversi: esistevano infatti la «cittadinanza
jugoslava», la «cittadinanza della repubblica» e una «residenza permanente».
La «cittadinanza jugoslava» era concessa ai nati da genitori jugoslavi e costituiva l’accesso
allo status di cittadino jugoslavo, principio estensivo e fondante della cittadinanza. Accanto a
questa esisteva la cittadinanza di una «repubblica», iscritta in appositi Registri dei cittadini,
conservati dalle singole repubbliche dalle quali era formata la ex-Jugoslavia (Slovenia,
Croazia, Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Macedonia). Tale tipo di cittadinanza, non
producendo di fatto specifici effetti, non era nemmeno nota alla stragrande maggioranza della
popolazione, né esplicitata in uno specifico documento a sè. Una parte dei dati relativi a questo
status era nota però solo alle autorità amministrative (e/o di polizia) e conteneva un implicito
valore di censimento etnico. Lo strumento organizzativo principale restava pertanto la
30
Mann, a sostegno della sottotesi, cita A. CHUA, World On Fire: How Exporting Free Market Democracy Breeds
Ethnics Hatred and Global Instability, New York, Anchor Books 2004. Per quanto riguarda le difficoltà del
processo di transizione democratico o di profonde trasformazioni istituzionali come fattori di conflitti interni (anche
a carattere etnico) v. R. RAGIONIERI, Guerra civile e guerra etnica, in F. CERUTTI-D. BELLITI (a cura), La guerra, le
guerre, Trieste, Asterios 2003.
31
SMITH, cit.
- 12 -
cosiddetta «residenza permanente», ancorata ad un luogo effettivo, che consentiva l’accesso
dei diritti previsti, diventando lo strumento principale dei diritti di cittadinanza e che di fatto
coordinava gli altri livelli e contribuiva all’integrazione sociale complessiva.
È facilmente intuibile come, anche al di fuori dei casi di persecuzione etnica più eclatanti e già
sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale, la comparsa di nuovi Stati abbia creato
non poche difficoltà, soprattutto per l’ampiezza dello spettro di situazioni venutosi a creare. In
altre parole un «cittadino» della ex-Jugoslavia è ora diventato ora cittadino di un altro Stato,
ma – a seconda del luogo in cui si trova e nonostante possa trovarsi all’interno di un exterritiorio federale – è soggetto a trattamenti diversi che non sempre ne riconoscono uno status
adeguato alla situazione32. Da queste osservazioni emerge un quadro generale frammentario e
apparentemente confuso nei dettagli, sebbene – avvicinandosi alla realtà storica, soprattutto in
questo inizio di secolo, come era accaduto più di ottanta anni fa alla conclusione del primo
conflitto mondiale – i contorni comincino invece a delinearsi con precisione all’interno dei
vari processi di nation-building facendo emergere le caratteristiche più o meno autoritarie di
stati nuovamente ‘deboli’ nel loro assetto interno che manifestano ancora processi di «pulizia
etnica» più o meno evidenti.
La constatazione di questa situazione non è affatto nuova in sé in quanto, già nel 1990,
commentando la situazione europea dopo la ‘caduta del muro’, Ralf Dahrendorf scriveva:
Molti di quelli che si appellano all’autodeterminazione, mirano a comunità politiche che siano
omogenee […] L’omogeneità culturale è spesso il nucleo duro della rivendicazione. Ora non c’è
nulla di sbagliato in sé nell’omogeneità culturale – o forse sì? […] «Da soggetti tutti uguali non
nasce alcuno Stato», diceva Aristotele. Non può essere che da soggetti tutti culturalmente uguali sia
impossibile che nasca uno Stato liberale?33
mentre, dopo qualche pagina, riferendosi alla Slovenia – repubblica uscita pressochè indenne
dalla dissoluzione jugoslava – annotava invece criticamente: «I cosiddetti liberali in Slovenia
promuovono esplicitamente l’emancipazione della “persona nazionale” e non della persona
reale, dell’individuo»34. D’altra parte però, di fronte alle vicende della disgrazione dello Stato
jugoslavo – soprattutto oggi a più di tre lustri di distanza dall’avvio di quel processo – è diffile
non notare che le repubbliche ‘etnicamente omogenee’ – come nel recente caso del
Montenegro – si sono staccate in maniera meno ‘traumatica’, ma non hanno potuto evitare in
seguito di affrontare in qualche modo la questione delle minoranze. Anche la Macedonia
32
UNHCR, Asylum Levels and Trends in Industrialized Countries, 2005. Overview of Asylum Applications Lodged in
Europe and non-European Industrialized Countries in 2005, 17 marzo 2006; Profile of Internal Displacement:
Bosnia and Herzegovina. Compilation of the information available in the Global IDP. Database of the Norwegian
Refugee Council (as of 24 March, 2005); UNHCR-Executive Comittee of the High Commisioner’s Programme,
Protracted Refugee Situations (EC/54/SC/CRP.14).
33
Ralf DAHRENDORF, Cittadini maturi alla ricerca di un punto fermo, in R. DAHRENDORF, La società riaperta. Dal
crollo del muro alla guerra in Iraq, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 40-41 (il brano da cui è tratta la citazione è stato
scritto nel 1990).
34
DAHRENDORF, cit., p. 45. Inoltre, sulle successive svolte autoritarie che sono state condotte anche nella piccola
repubblica, v. Slovenia. Amnesty International’s Briefing to the UN Committee on Economic, Social and Cultural
Rights, 35th Session, November 2005, che riassume la spinosa questione dei «cancellati», ovvero di cittadini della
ex-Jugoslavia colà residenti che sono stati di fatto esclusi a loro insaputa dal nuovo Stato. Sarebbe interessante un
approfondimento sulle modalità di accettazione della tutela delle minoranze nei paesi baltici. Dahrendorf si limita a
segnalare l’insorgere del problema anche in quell’area, ma in realtà, proprio perché dopo il primo conflitto
mondiale, si trattò di un gruppo di paesi che sostanzialmente accettarono le indicazioni della Società delle Nazioni,
attualmente la situazione sembra meno drammatica che nei Balcani.
- 13 -
infatti, benchè uscita pressochè indenne dal processo di dissoluzione, si è trovata in seguito a
fronteggiare una crisi interna provocata dalla minoranza albanese a sua volta coinvolta (più o
meno volontariamente) dalle vicende del Kosovo confinante. Eppure, in questo caso, resta
però difficile riconoscere da parte dell’etnia ‘maggioritaria’ macedone una esplicita volontà di
pulizia etnica, in termini almeno paragonabili a quelli che hanno spinto verso i massacri della
Croazia, della Bosnia e del Kosovo.
2.2 La cittadinanza ‘multiculturale’ e la prospettiva europea
Dal secondo dopoguerra ad oggi il concetto – ma anche le caratteristiche funzionali – della
cittadinanza nei paesi dell’Europa occidentale hanno subito profonde trasformazioni e non a
caso quindi la cittadinanza nel suo complesso è stata al centro di molte ricerche teoriche a
partire da Thomas H. Marshall35 negli anni cinquanta a quelle più recenti Will Kymlika36.
Marshall sosteneva che i ‘diritti connessi alla cittadinanza’ avrebbero favorito l’integrazione
delle classi sociali più svantaggiate; molto più che le differenze materiali, era proprio
l’esclusione ‘culturale’ ciò che rischiava di rendere pressoché impossibile la partecipazione
alla vita pubblica. Per questo Marshall faceva dell’espansione della cittadinanza, mediante
l’inclusione nel suo novero dei diritti sociali relativi al welfare policies, uno dei punti
qualificanti della sua analisi. Proprio alla luce di queste osservazioni di Marshall si delinea ora
il pensiero più recente di W. Kymlika: i fatti hanno dato ragione a Marshall, secondo questo
autore, ma – nonostante l’integrazione ‘materiale’ abbia avuto successo – permangono delle
‘sacche residuali’, dei gruppi che non condividono la ‘comune cultura materiale’ per una
molteplicità di ragioni (immigrati, minoranze etniche o religiose).
L’apporto fondamentale all’analisi della cittadinanza che dobbiamo a Will Kymlicka, è
l’introduzione del concetto di ‘cultura’ – con tutti i suoi riverberi positivi sul concetto parallelo
di cultura etnica – e l’individuazione della valenza positiva del mantenimento delle radici
culturali dei singoli, nell’ambito del meccanismo d’inclusione sociale. Secondo questo assunto
la libertà di scelta dell’individuo diviene effettiva solo attraverso la partecipazione al proprio
retaggio culturale, tappa base funzionale alla condivisione della civiltà materiale, fattore
unificante della società nella sua interezza. Una comunità culturale è costituita da un gruppo di
individui identificato dalla condivisione di particolari norme, credenze e valori, quindi è dotata
di un suo proprio carattere fondante. L’importanza dell’essere membro di una comunità è però
data dal fatto che essa esiste in quanto tale, e non tanto dalla qualità del proprio carattere
distintivo. È a questo livello che entra in gioco la ‘cittadinanza multiculturale’. Il
riconoscimento della cultura diviene un supporto identitario per il singolo, un riferimento
fondamentale nel compimento di scelte autonome, ed è in considerazione di ciò che le
istituzioni sono chiamate a tutelare le minoranze culturali (o etniche): non per il contenuto
della loro cultura, ma perché rappresentano specifici luoghi della realizzazione dell’autonomia
personale, bene cruciale nella moderna società.
L’importanza di tutta la questione della cittadinanza nei nuovi paesi balcanici va ora
35
Thomas H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET 1976 (ed. or. 1950); è stato definito da
Daherendorf «un maestro».
36
Will KYMLIKA, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Mulino 1999 (ed. or. 1995). Altri autori che hanno
toccato l’argomento della cittadinanza a partire dalle riflessioni di Marshall sono stati Anthony GIDDENS, La
costituzione della società, Milano, Comunità 1990 (ed. or. 1984) e David HELD, Modelli di democrazia, Bologna,
Mulino 1989 (ed. or. 1987).
- 14 -
sottolineata alla luce della relazione tra cittadino e Stato nazionale che inevitabilmente si
riflette sullo stesso status di cittadinanza. Il processo di globalizzazione ha infatti aperto un
divario fra l’idea di appartenenza a una comunità politica nazionale (che si manifesta ed è
regolata sul piano giuridico attraverso la «cittadinanza») e lo sviluppo di una legislazione
internazionale che sottopone individui e strutture governative (e non) a nuovi sistemi di
regolazione. Nel caso dell’Europa orientale ci si trova ora di fronte in particolare al processo
politico di integrazione europea e si potrebbe dire che la questione delle minoranze sia un
indicatore importante dell’andamento di questo processo e dei suoi effettivi progressi. In
sostanza nuovi diritti e nuovi doveri vengono riconosciuti da leggi internazionali che,
trascurando il singolo Stato e qualora possano contare su un effettivo potere coercitivo,
conducono a conseguenze la cui applicazione è garantita. In altre parole diventa possibile il
ricorso, con esiti positivi, a una giurisdizione sovranazionale. In particolare, di fronte a un
processo di integrazione europea all’interno del quale – come sostiene Habermas37 – il perno
dei diritti è ‘identitario’, le singole situazioni balcaniche in materia diventano estremamente
contraddittorie e questo perché il baricentro dei diritti non sembra più essere ‘ancorato’ allo
Stato-nazione come in passato38, bensì all’Unione europea. Considerando pertanto le
‘disavventure’ del passato balcanico come conseguenze della mancanza di un’adeguata cornice
di controllo transnazionale sull’applicazione dei diritti delle minoranze, è evidente quale
diventi il compito dell’Unione per garantirne in futuro i diritti.
In questo quadro il ruolo dell’Unione europea per la stabilizzazione dei Balcani e per risolvere
le più gravi situazioni di conflitto è semplicemente determinante. In primo luogo si tratta di
allontanare la pericolosa ‘tentazione’ degli scambi di popolazione come avvenuto nel primo
dopoguerra, respingendo il c.d. ‘principio di Losanna’ e non trasferendo la popolazione di
etnia serba dal Kosovo in altre zone e, per compensazione, altri albanesi dalla Serbia in
Kosovo39. In secondo luogo di mantenere attivo ed efficace il sistema di controllo sui diritti
delle minoranze, garantendo anche dei meccanismi coattivi per il rispetto delle decisioni.
Riferendosi all’Europa dopo la Prima guerra mondiale il politico ceco Tomas Masaryk aveva
definito il continente come «un grande laboratorio politico sopra un cimitero». Questa
immagine è ora più che mai attuale per i Balcani, auspicando però che l’era degli esperimenti
si concluda al più presto. All’attuale complessità della situazione politica, economica e sociale
di una parte molto estesa di un continente si sta tentando di dare una risposta, ma riemergono
dei pericoli che hanno origini remote, benchè non del tutto sconosciute. Dietro l’impostazione
dei numerosi processi di nation-building in corso, suggeriti e sostenuti dalle varie
organizzazioni internazionali o condotti da zelanti ONG impegnate in numerosi progetti, è
ancora difficile individuare un’efficace coordinamento e ancora meno una visione unitaria.
Nel caso dell’indipendenza della provincia del Kosovo – un territorio che per la Serbia
continua a mantenere un valore quasi ‘sacro’ e che comunque, al di là dell’immaginario
simbolico-politico, vede ancora la presenza di una consistente minoranza serba, oggetto di
«contropulizia» etnica – si sono confrontate due posizioni: l’indipendenza ‘subito’ o con
gradualità. Nel primo caso le conseguenze peggiori dovrebbe subirle la minoranza serba, nel
37
Jürgen HABERMAS, Cittadinanza e identità nazionale, «Micromega», 5, 1991.
Pietro COSTA, Cittadinanza, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 148: «Il baricentro dei diritti non sembra più coincidere
(come avveniva nell’Otto-Novecento) con lo Stato nazione».
39
European Stability Iniziative (ESI), The Lausanne Principle. Multiethnicity, Territory and the Future of Kosovo’s
Serbs, Berlin-Pristina 2004.
38
- 15 -
secondo si eviterebbe uno spostamento forzoso di popolazione e si consoliderebbero le
strutture per garantirle la sopravvivenza. È forse azzardato trarne delle conclusioni, ma si
riscopre un’antica dissonanza dietro tutta la questione della tutela delle minoranze, quasi
un’eco dell’irrealizzata politica wilsoniana del primo dopoguerra.
Nel sistema costituzionale nord-americano il problema delle minoranze etniche può definirsi
un percorso lungo, cominciato a metà del XIX secolo con il caso Dredd Scott v. Sandford
(1857) non proprio felicemente e proseguito con alterne vicende fino agli scontri per i diritti
civili degli anni sessanta dello scorso secolo40, mantenendo però una forte prevalenza sul piano
della tutela dei diritti individuali e non ‘collettivi’ di un gruppo. Impossibile quindi all’interno
di questo modello rintracciare la presenza di un gruppo che rivendichi in maniera conflittuale,
oltre alla propria identità, diritti ‘esclusivi’ su un determinato territorio o la regolazione di una
simile situazione. Quando gli Stati Uniti, dopo il Primo conflitto mondiale, si affacciarono
sulla scena europea con l’intento di contribuire a ridefinirne l’assetto, essi rappresentavano il
punto culminante della politica di assimilazione degli immigrati in quanto, nei decenni
prcedenti, avevano toccato i valori massimi degli afflussi. Si trattava di numerosi e diversi
gruppi ‘etnici’ che non contestavano affatto però l’autorità dello Stato che li ospitava e «gli
americani tendevano (e tendono ancora oggi) a concepire i diritti delle minoranze in termini
individuali, non collettivi»41. Poiché tali diritti sono protetti dalla Costituzione, il solo diritto
all’autodeterminazione dei popoli avrebbe innescato un processo fondativo politicocostituzionale garantista in sé e quindi senza la necessità di ulteriori correttivi. Oggi, quando si
osserva che la maggior parte degli operatori del diritto attivi in Kosovo (UNIMIK o altre
organizzazioni internazionali) è di formazione legata al common law, implicitamente si
sottolinea anche questa diversa concezione42. La concezione dei diritti individuali affonda in
realtà le proprie radici nella diverse modalità dei processi costituzionali avvenuti alla fine del
XVIII secolo negli Stati Uniti e in Francia. La fiducia nel ‘legislatore’ ispirata da Rousseau
conduce in Francia a un conflitto tra legge e ‘diritti’, mentre sull’altra sponda dell’Atlantico si
sviluppa «l’idea di una libertà tanto fiduciosa nelle capacità creative dei soggetti quanto
diffidente delle iniziative e delle prerogative del potere politico»43.
Come aveva osservato molti anni fa Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo (1951) dalla
rivoluzione americana e dalla rivoluzione francese abbiamo ereditato al tempo stesso un’idea
più ampia dei ‘diritti dell’uomo’ e uno stretto legame tra diritti umani e identità nazionali. Un
legame che oggi viene negato a molti: «Lasciato il loro paese d’origine erano senza casa;
lasciato il loro stato, erano senza stato; privati dei diritti umani, erano senza diritti… ».
La bibliografia sulle minoranze e sulla «pulizia etnica», sulle loro condizioni e il loro trattamento –
riferita alla ex-Jugoslavia in particolare o ai Balcani in generale – è semplicemente sterminata. Oltre a
quella indicata nel testo, senza pretesa di essere esaustivi, sono segnalati alcuni contributi.
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implantation of settlers, Preliminary report prepared for the United Nations Commission on Human
Rights, Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, 1993.
40
Per una storia delle vicende giudiziarie e soprattutto del ruolo della Corte suprema, come perno dello stesso, v.
Carlo CASONATO, Minoranze etniche e rappresentanza politica: i modelli statunitense e canadese, Trento, 1998.
41
MANN, cit., p. 81.
42
Fabio MINI, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale, Torino,
Einaudi 2003; Marco MAYER, Intervento umanitario e missioni di pace. Una guida non retorica, Roma, Carocci
2005; Michael IGNATIEFF, Impero light: dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale, Roma, Carocci 2003.
43
COSTA, cit., p. 53.
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