Dipartimento di Economia e Ingegneria Agrarie

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IMPATTO
DEGLI
ORGANISMI
TRANSGENICI
SULL'AGRICOLTURA
ITALIANA (il punto di vista economico)
di Claudio Malagoli
Dipartimento di Economia e Ingegneria Agrarie, Università di Bologna
1. – Premessa
In un momento in cui tanto si discute sull'adozione di Organismi Transgenici (OT)
per scopi alimentari ed in un momento in cui ancora non sono chiari i loro effetti sulla
salute umana e sull’ambiente, occorre fare chiarezza sugli impatti socio-economici di
questa innovazione tecnologica, al fine di verificare se questi nuovi alimenti sono in
sintonia con gli obiettivi di Politica Agraria nazionale e se sono in grado di rispondere
alle esigenze del consumatore. Solo operando in questo modo ogni nostra attività, senza
fretta, potrà essere adeguatamente sperimentata prima di essere applicata, solo in questo
modo saremo sicuri di introdurre innovazioni in sintonia con il principio di precauzione,
in grado di attuare uno sviluppo che sia realmente sostenibile, per la nostra società e per
le generazioni future.
I soggetti coinvolti da questa innovazione tecnologica possono essere
principalmente individuati negli agricoltori, nei consumatori e nel sistema agricolo
del nostro Paese.
2. – Gli attuali OT servono agli agricoltori del nostro Paese?
La gran parte degli agricoltori che opera sul territorio nazionale, purtroppo,
non ha nulla da guadagnare dall'introduzione degli attuali OT. Coltivare OT
significa mettersi in concorrenza con forme di agricoltura caratterizzate da aziende
agricole molto più ampie delle nostre, che hanno costi di produzione decisamente più
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bassi dei nostri; agricolture che non hanno limitazioni nell'uso di concimi e di
antiparassitari, che utilizzano manodopera a basso costo, che non adottano le nostre
tutele sociali, ecc.
Occorre poi considerare che nel nostro Paese l’agricoltura svolge importanti
funzioni che vanno al di là della semplice produzione di alimenti o di materie prime. Il
ruolo dell’agricoltura è di fondamentale importanza per il presidio e la manutenzione del
territorio, per la conservazione dell'assetto idrogeologico, per la conservazione e la tutela
del paesaggio (siepi, muri a secco, oliveti, agrumeti, piantate, ecc.), per la tutela della
flora e della fauna, per la conservazione della biodiversità, per la creazione di spazi ad
uso ricreazionale, per la conservazione degli aspetti culturali tradizionali del territorio
rurale e per la mitigazione degli effetti ambientali negativi prodotti da altre attività
produttive o di consumo. Pertanto, la nostra società ha bisogno della presenza
dell’agricoltore sul territorio e dovrà adottare politiche agrarie in grado di proteggere il
suo reddito, al fine di consentire la permanenza di questa attività anche in aree marginali
(di collina, di montagna), che non possono certo competere sulla base dei bassi costi di
produzione.
Purtroppo gli attuali OT non sono in grado di determinare un maggior reddito
al produttore. Infatti, l’agricoltore non è in grado di controllare il prezzo dei prodotti
offerti, per cui, se è vero che gli OT determineranno una diminuzione dei costi, è
altrettanto vero che nel lungo periodo si avrà una diminuzione dei prezzi dei prodotti
offerti, con annullamento dei profitti (dalla teoria economica si desume che nel lungo
periodo costo unitario medio, costo marginale e prezzo di mercato tendono
all’uguaglianza). E’ accaduto per il “Kiwi”, per talune cv. di melo e di pesco, ma gli
esempi potrebbero essere numerosi. Cosa ne sarà dell’agricoltura attuata in territori
marginali che già ora non sono in grado di fornire un pieno reddito all’agricoltore? La
risposta è semplice: con ogni probabilità questi territori saranno abbandonati, con
amplificazione dei problemi connessi all’esodo rurale delle famiglie contadine ed al
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dissesto idrogeologico.
Da rilevare che la contrazione dei prezzi determina anche una diminuzione del
reddito reale dell’agricoltore, in quanto i prezzi dei prodotti non agricoli che egli
acquista sul mercato rimangono, nella migliore delle ipotesi, costanti (se il prezzo del
grano diminuisce, occorrono più quintali di grano per acquistare un’automobile, un
televisore, un abito, ecc.). Ecco allora che l’agricoltore si sentirà “più povero”, in quanto
sarà costretto a produrre di più (anche attraverso un maggior sfruttamento delle risorse
naturali) per poter mantenere il precedente livello di benessere.
Qualcuno potrebbe affermare che il precedente scenario economico è in contrasto
con quello che è accaduto in alcuni Paesi, nei quali, a testimonianza del gradimento
degli agricoltori, si è avuto un forte incremento delle superfici destinate alla coltivazione
di piante transgeniche. A tal riguardo occorre osservare che l’incremento delle superfici
si avuto solo nei Paesi in cui si è in presenza di un’unica filiera di distribuzione per il
medesimo prodotto, sia esso transgenico o non transgenico. In presenza di un’unica
filiera con prezzi flettenti dei prodotti, così come si è verificato per la soia e per il mais
transgenici, è ovvio che se l’agricoltore vuole conservare un certo margine di redditività
dall’attività di coltivazione, sarà “costretto”, anche suo malgrado, a seminare le cultivar
caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle transgeniche).
Il minor reddito per il produttore è anche conseguenza del fatto che gli OT
sono sostanzialmente disattivanti nei confronti dei fattori della produzione apportati
direttamente dall'imprenditore (manodopera soprattutto) e richiedono, nello stesso
tempo, un maggior apporto di fattori esterni di origine industriale (sementi che costano
di più e fattori produttivi in grado di far produrre le stesse sementi), che l’agricoltore è
costretto ad acquistare sul mercato. Questa situazione è particolarmente dannosa per le
aziende agricole di modeste dimensioni come quelle italiane (superfici medie inferiori ai
10 ettari), nelle quali il lavoro manuale rappresenta una componente importante del
reddito derivante dall’attività agricola.
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Secondo alcuni sostenitori degli OT l’aumento del reddito dell'agricoltore
potrebbe derivare da una differenziazione dell'offerta verso produzioni caratterizzate
da un maggior valore aggiunto (alimenti con più proteine, più vitamine, meno calorie,
partenocarpia, piante che producono principi attivi farmaceutici, ecc.). Tali opportunità
di guadagno si potranno verificare, però, solo se il mercato del prodotto sarà "libero",
poiché nel caso, molto più realistico, in cui la produzione fosse attuata "su contratto", i
maggiori guadagni sarebbero quasi esclusivamente a favore di colui che detiene il
brevetto della pianta transgenica, che “appalterà” la coltivazione e pagherà l’agricoltore
sulla base delle operazioni colturali necessarie per portare a termine il ciclo produttivo.
Ad un primo giudizio si può affermare che gli attuali OT costituiscono il primo
passo verso una completa automazione del processo produttivo agricolo (“precision
farming”, quasi impossibile da attuare sul territorio italiano) e vanno verso una
omologazione ed una standardizzazione della produzione alimentare. Un processo
produttivo che sarà controllato dai satelliti, che non avrà bisogno dell’agricoltore e che
determinerà un aumento del reddito da capitale a scapito del reddito destinato alla
remunerazione degli altri fattori produttivi (terra e lavoro). E' in questo contesto che si
creano i presupposti per il passaggio del controllo del territorio rurale
dall'agricoltore (non più in grado di ottenere un reddito dall’impiego dei suoi fattori
della produzione) ad individui estranei all'attività agricola, che con i propri capitali, o
con i capitali di terzi, saranno in grado di subentrare non soltanto nella coltivazione ma
anche nella proprietà delle aziende agricole.
Per lo "sviluppo sostenibile" della nostra agricoltura occorrerà poi rivedere le
norme relative alla brevettabilità dei prodotti transgenici, in quanto non è possibile
accettare che colui che ha inserito un gene in una pianta acquisisca il “monopolio di
fatto” su quella pianta, impedendone così la libera coltivazione. Tale affermazione è
supportata dalla considerazione che, nel momento in cui la pianta transgenica sarà
considerata uguale a quella “non transgenica” (ovvero si originerà un’unica filiera
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distributiva), anche gli agricoltori che in un primo momento non erano intenzionati a
coltivarla saranno obbligati a farlo, in quanto saranno costretti ad operare in un mercato
in cui il prezzo di quel prodotto sarà commisurato al costo di produzione (più basso)
della pianta transgenica. Pertanto, se essi vorranno mantenere un certo margine di
redditività, dovranno riconvertire le produzioni convenzionali verso quelle transgeniche.
Ecco che “di fatto” si potrebbe creare un monopolio per il mercato della semente di
quella pianta.
A proposito di brevetto occorre considerare anche la diminuzione di potere
contrattuale dell'agricoltore, in relazione alle opportunità economiche che si prospettano
per colui che è "proprietario" della semente transgenica. In particolare, il detentore del
brevetto:
- potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni
chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in
merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto;
- potrebbe andare oltre e richiedere il pagamento di una royalty anche per ogni
chilogrammo di prodotto ottenuto da quella semente e immesso sul mercato;
- egli potrebbe non accontentarsi ancora e potrebbe riservarsi la proprietà della
produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un
rapporto contrattuale con l’agricoltore. In questo caso egli diverrebbe
monopolista di quel prodotto sul mercato, con tutte le conseguenze del caso.
E' ovvio che nelle precedenti situazioni l'agricoltore diverrebbe esclusivamente un
prestatore di manodopera, con conseguente perdita delle prerogative imprenditoriali.
3. - Gli attuali OT servono ai consumatori?
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Prima di affrontare le problematiche relative all’accettabilità del cibo transgenico
(CT) da parte del consumatore, dobbiamo chiederci: abbiamo bisogno di questi nuovi
alimenti? La risposta è negativa! Per tre motivi principalmente:
- nell’Unione Europea ci sono problemi di eccedenze produttive. Gli agricoltori
sono pagati per non coltivare i terreni (set-aside), per gran parte dei prodotti
sono applicate quote di produzione che non devono essere superate e molto
spesso si è costretti a ritirare, a stoccare o a distruggere parte delle produzioni
in eccesso (pomodori, burro, riso, latte, zucchero, ecc.) al fine di non far
crollare i prezzi di mercato;
- la domanda di prodotti alimentari è sempre più orientata verso cibi
caratterizzati da un elevato standard qualitativo, intendendo con questo termine
tipicità e naturalezza dei prodotti, assenza di residui di
antiparassitari e
assenza di manipolazioni genetiche;
- siamo in presenza di rischi alimentari, in quanto la comunità scientifica non ha
ancora chiarito gli effetti degli OT sulla salute umana, sulla salute degli altri
animali e sull’ambiente.
In termini generali possiamo affermare che il consumatore, di fronte ad una certa
dose di rischio per la sua salute e per l’ambiente, potrebbe essere favorevole ai CT nel
caso in cui essi consentissero di ottenere alcuni benefici.
Da un punto di vista strettamente economico, il consumatore tende sempre più a
risparmiare nelle operazioni di acquisto dei singoli beni, al fine di aumentare i consumi
totali. Pertanto, non vi è alcun dubbio sul fatto che egli potrebbe rivolgere l’attenzione
verso i CT se essi avessero le stesse caratteristiche qualitative di quelli
convenzionali ed avessero un prezzo di acquisto inferiore. In primo luogo occorre
evidenziare che l’equivalenza qualitativa tra l’alimento transgenico e quello
convenzionale è tutta da dimostrare, in quanto il CT contiene sia il transgene o i
transgeni, sia la proteina o le proteine espressione del transgene. Non v'è dubbio che, a
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parità di qualità, nel caso in cui si verificasse una reale contrazione dei prezzi dei beni
alimentari, si potrebbe determinare un incremento di benessere per la società, in
relazione alla possibilità di consentire alle popolazioni più povere di poter acquistare una
maggior quantità di beni necessari a soddisfare il loro fabbisogno alimentare e alla
possibilità da parte dei consumatori dei Paesi ricchi di risparmiare nell'acquisto di
alimenti, per poi destinare la restante parte del loro reddito ad altri consumi di livello
superiore. Da rilevare, però, che, di fronte a pareri scientifici discordanti, il consumatore
pagherà meno questi alimenti, ma gli rimarrà comunque l'incertezza sulle loro reali
capacità salutistiche e nutrizionali. Tale incertezza determina una diminuzione del grado
di soddisfacimento dei bisogni, in quanto l'eventuale minor prezzo di acquisto dei CT,
potrebbe essere visto come un vantaggio virtuale, non reale, caratterizzato da un livello
di utilità inferiore a quello che il consumatore avrebbe ottenuto dal consumo di cibi dei
quali conosce le reali proprietà organolettiche e nutrizionali (costa meno, ma
probabilmente vale anche meno!!). Non si spiegherebbe altrimenti il forte aumento del
consumo di prodotti biologici e dei prodotti tipici che si è verificato negli ultimi anni.
A conclusione di queste considerazioni relative all’ipotesi che il consumatore
possa ottenere dei benefici dalla riduzione dei prezzi dei prodotti alimentari transgenici,
occorre rilevare che nella realtà i fatti dimostrano il contrario, ovvero che l’introduzione
di alimenti transgenici non ha portato ad una riduzione dei prezzi dei rispettivi prodotti,
ma ha determinato un aumento dei prezzi dei corrispondenti prodotti “non transgenici”.
Tale effetto, sotto molti punti di vista paradossale, è dovuto al fatto che nei Paesi
industrializzati, dove lo scetticismo nei confronti di questi alimenti è maggiore, sono
state create due filiere per il medesimo prodotto: una per quello transgenico, e una per
quello non transgenico. Questa suddivisione, effettuata al fine di consentire al
consumatore di operare una scelta di acquisto consapevole, comporta dei costi di
distribuzione (di segregazione, di conservazione, di lavorazione, di etichettatura, di
analisi, ecc.), che riducono sensibilmente i vantaggi economici (ancora tutti da
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dimostrare) ottenibili durante la fase di produzione agricola. E’ ovvio che l’aumento del
prezzo andrà a ripercuotersi sul consumatore, il quale già ora è costretto a spendere di
più per la sola ragione che qualcuno ha voluto introdurre questi nuovi alimenti, senza
affrontare preventivamente le problematiche economiche e sociali ad essi connesse
(secondo informazioni assunte presso operatori del settore, per avere soia certificata
“GMO free” occorre pagare una maggiorazione del 15% circa).
In questo contesto, in cui i prezzi delle materie prime transgeniche non sono
sostanzialmente inferiori a quelli dell'omologo prodotto convenzionale, non si capisce
perché mai il consumatore dovrebbe sostituire un alimento tradizionale, che da sempre
fa parte della sua alimentazione e che ha dato dimostrazione nel tempo di essere sicuro,
con un alimento che presenta, anche solo potenzialmente, dei rischi per la sua salute,
per quella delle generazioni future e per l'ambiente.
Il consumatore potrebbe essere disposto a correre qualche rischio nel
consumo di CT se, a parità di prezzo di acquisto rispetto a quelli convenzionali, essi
manifestassero migliori caratteristiche qualitative (nutrizionali, di modalità di
consumo, di reperibilità ecc.). Economicamente parlando si tratta di una situazione che
difficilmente potrà verificarsi, in quanto se il nuovo alimento avrà caratteristiche
qualitative superiori a quello convenzionale, difficilmente in un medesimo mercato potrà
avere lo stesso prezzo; sicuramente avrà un prezzo superiore, che terrà conto
dell’elemento differenziale. A proposito di miglioramento qualitativo, occorre rilevare
che per il momento la ricerca ha lavorato solo ed esclusivamente alla creazione di piante
semplici da ottenere (pochi geni specifici) e in grado di massimizzare i profitti delle
imprese che detengono il brevetto su questi vegetali (piante resistenti ai diserbanti, agli
attacchi di insetti, che non marciscono, ecc.). Il consumatore finora non ha ottenuto
alcun vantaggio da questi prodotti, in quanto ai fini nutrizionali essi non
comportano nessun beneficio rispetto a quelli non modificati.
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I CT aumenteranno le incertezze nutrizionali dei consumatori. Tale
affermazione è supportata dal fatto che essi esteriormente sono identici a quelli
convenzionali, per cui potrebbe accadere che al consumatore siano venduti come
alimenti non transgenici, alimenti transgenici (a causa di errori nella distribuzione o,
nella peggiore delle ipotesi, illecitamente). Trattasi di un aspetto molto importante legato
alla sicurezza alimentare, in quanto, nel caso di cibi che contengono più vitamine,
sappiamo che è dannoso per la salute umana sia una carenza di vitamine, sia un eccesso
delle stesse, per questo motivo il consumo di "cibi arricchiti" deve essere attuato solo
da persone che manifestano carenze vitaminiche. Pertanto questi prodotti “arricchiti”
dovranno essere segregati da quelli convenzionali e venduti sotto stretto controllo.
Il consumatore potrebbe accettare i CT nel caso in cui essi aumentassero la
variabilità degli alimenti presenti sul mercato, al fine di avere a disposizione una
maggior scelta di cibi e, quindi, una maggior variabilità nutrizionale. A questo
proposito occorre rilevare che, al contrario, l’introduzione di OT determinerà con ogni
probabilità una riduzione della variabilità genetica e, conseguentemente, una perdita in
termini di variabilità nutrizionale. Tale situazione sarà determinata dal fatto che le poche
piante trasformate (da un punto di vista economico ai costitutori non conviene ampliare
la gamma delle piante “brevettate” di una stessa specie, in quanto costerebbe molto
ottenerle e sarebbero tra loro concorrenti sullo stesso mercato), in relazione
all’automazione del processo produttivo che metteranno in atto, saranno utilizzate su
vasta scala dagli agricoltori. In questa situazione, anche le piante migliori da un punto di
vista di talune caratteristiche qualitative (cultivar locali, cultivar con sapori particolari o
con contenuti nutrizionali particolari ecc.) potrebbero essere sostituite da quelle
transgeniche. La perdita di variabilità qualitativa determinerà poi una modificazione ed
una omologazione dei gusti del consumatore, che non sarà più in grado di distinguere i
sapori tradizionali (i relativi alimenti saranno più rari e con ogni probabilità con un
prezzo superiore), dai sapori tecnologici (alimenti maggiormente diffusi e con prezzi,
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forse, inferiori). Del resto, la globalizzazione dei mercati svolge in questo senso un ruolo
trainante, in quanto i sapori sono legati ai luoghi di produzione con le relative cultivar
locali e rappresentano un forte limite alla globalizzazione delle aree di produzione.
Il consumatore potrebbe correre qualche rischio e consumare CT nel caso in
cui essi fossero prodotti con un minor impatto ambientale e fossero in grado di
aumentare la sicurezza ambientale. In particolare, la coltivazione di OT resistenti alle
più svariate patologie potrebbe sicuramente contribuire alla diminuzione degli effetti
negativi prodotti dall'agricoltura convenzionale. Trattasi di un elemento di estrema
importanza, poiché questi effetti sono per lo più di tipo diffuso, difficilmente
controllabili con progetti puntuali sul territorio (filtri, depuratori ecc.). Anche in questo
caso, però, ci si scontra con la complessità del “sistema naturale”, in quanto specifiche
ricerche hanno verificato che, col tempo, gli insetti, ma ancor di più i patogeni vegetali
(malattie crittogamiche), maturano una naturale resistenza genetica, per cui si creano
generazioni di insetti resistenti alla tossina (sembra, nel caso della piralide, ogni 4-5
anni), mentre le piante infestanti possono acquisire, mediante impollinazione incrociata,
il gene di resistenza all’erbicida, vanificando così, di fatto, gli sforzi operati per rendere
resistenti al diserbante soltanto le piante coltivate (secondo taluni autori, nei Paesi che
per primi hanno introdotto OT esistono già piante infestanti resistenti al diserbante).
Da queste semplici considerazioni, basate su fatti reali, risulta evidente che la
trasformazione genetica non è in grado di risolvere il problema, in quanto dopo pochi
anni esso si ripresenta nella medesima condizione, se non addirittura in termini
peggiori, in quanto l’insetto o la pianta da controllare sarà caratterizzata da una
maggior variabilità genetica e, quindi, sarà ancor più difficile da contenere (di tale
eventualità non saranno certo entusiasti i coltivatori biologici, che si troveranno a
dover contrastare senza mezzi chimici di sintesi, insetti e malattie fungine con
patrimoni genetici diversi e, quindi, caratterizzati da una maggior virulenza).
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Da un punto di vista ambientale il problema di maggior rilievo è
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all’inquinamento genetico. Questi OT, infatti, hanno geni costituitivi che si esprimono
in ogni parte della pianta, anche nel polline (sembra sia già disponibile una tecnologia
che consentirebbe di eliminare questo problema, inserendo i transgeni nei cloroplasti,
ma non è ancora applicata), che, ovviamente, si disperde nell’ambiente mediante il vento
e gli insetti. Il polline di OT, quindi, può fecondare piante parentali non transgeniche,
che darebbero così origine a semi che contengono il transgene. Ovviamente in un’annata
successiva, anche nel caso in cui decidessimo di non coltivare queste piante, il transgene
potrebbe passare dalle piante parentali selvatiche a quelle coltivate e via di seguito. Così
il transgene potrebbe autonomamente replicarsi senza l’ausilio dell’uomo.
4. – Gli attuali OT servono all’economia agricola del nostro Paese?
Anche il nostro sistema Paese non otterrà grandi vantaggi dagli attuali OT. In
particolare:
- è impensabile che la nostra agricoltura possa competere sul mercato mondiale
sulla base dei bassi costi di produzione. Essa potrà competere solo sulla base di
produzioni di eccellenza, produzioni in grado di rispondere ad una pressante
domanda di qualità, di sicurezza alimentare e di tracciabilità;
- questi OT aumenteranno la dipendenza del nostro Paese nei confronti delle
forniture provenienti dall’estero, in quanto l’auspicata contrazione dei prezzi del
CT determinerà un ulteriore abbandono dell’attività agricola dalle aree marginali,
che non sono in grado di competere con il prodotto della globalizzazione. Ma il
prodotto proveniente dall’estero risponde ad una domanda di qualità, di sicurezza
alimentare e di tracciabilità? E’ stato ottenuto nel rispetto delle regole produttive
vigenti nel nostro Paese? Nel processo produttivo sono state rispettate le
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normative ambientali presenti nel nostro Paese? E le regole sociali in tema di
sicurezza del lavoro, di tutela del lavoro minorile, ecc. sono state rispettate? Una
considerazione è necessaria: è inutile imporre regole e normative sicuramente
necessarie per il benessere del nostro Paese, se poi è lecito importare prodotti da
Paesi che queste regole non le rispettano;
- questi OT, così come sono stati progettati ed attuati, favoriranno la
delocalizzazione produttiva nei Paesi caratterizzati da bassi costi di produzione,
da scarse limitazioni di carattere ambientale e da limitate tutele sociali. Quando
verrà meno il legame tra qualità del prodotto-qualità del territorio in cui è stato
ottenuto, è impensabile che la produzione di questo stesso prodotto possa essere
mantenuta nel nostro Paese;
-
questi OT, se è vero che aumenteranno le importazioni di prodotti agricoli,
determineranno una diminuzione del numero di occupati in agricoltura, con
aggravamento dei problemi di presidio del territorio e di tutela dell’assetto
idrogeologico;
- determineranno un abbandono dei territori marginali, dove maggiori sono i
costi di produzione, per cui occorrerà prevedere un aumento delle spese necessarie
per le operazioni di manutenzione e conservazione del territorio;
- determineranno un danno di immagine per l’agro-alimentare nazionale, da
sempre rinomato per le produzioni di eccellenza che immette sul mercato;
- questi OT potrebbero determinare una diminuzione di qualità dei nostri
prodotti tipici. In particolare, al momento attuale non sono state fatte apposite
analisi e sperimentazioni in grado di verificare la qualità dei prodotti ottenuti dalla
trasformazione di materie prime transgeniche (latte, carne, formaggi, ecc.).
Trattasi di un problema che riguarda soprattutto le produzioni tipiche, che nel loro
disciplinare di produzione prevedono esplicitamente di non utilizzare materiale
transgenico (come potranno mettersi al riparo dall’inquinamento genetico?
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Dovranno adeguarsi o potranno continuare a garantire un prodotto esente da OT?
Saranno in grado di mantenere gli impegni presi con il consumatore? Potranno
convivere “Prosciutto di Parma” e “Parmigiano Reggiano” con filiere di
produzione transgeniche? E se il prodotto trasformato contiene il transgene e
dovrà essere etichettato come tale, siamo sicuri che il consumatore
continuerà ad acquistarlo?);
- da rilevare, infine, che il brevetto di una pianta potrebbe consentire ai Paesi che
ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai
mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente
sono penalizzate dagli elevati costi di commercializzazione (conservazione e
trasporto), evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste
coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Trattasi di
uno scenario molto pericoloso per il nostro Paese, in quanto l'introduzione di
"nuove coltivazioni esotiche", succedanee delle nostre produzioni, è attualmente
ostacolata dagli elevati costi di condizionamento e di trasporto. In definitiva, una
volta ottenuto il brevetto di un determinato prodotto agricolo, è molto più
semplice e meno costoso attuarne direttamente la produzione su contratto in
prossimità dei mercati di collocamento.
5. – Alcune considerazioni di sintesi
In un futuro ormai prossimo, le nostre produzioni dovranno confrontarsi con
quelle provenienti da Paesi caratterizzati da costi di produzione decisamente inferiori, da
Paesi che non hanno limitazioni nell’utilizzazione di determinati prodotti chimici, siano
essi concimi e/o antiparassitari, da Paesi nei quali il lavoro minorile non è tutelato o è,
addirittura, incentivato e/o sfruttato, da Paesi che non saranno in grado di garantire il
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materiale genetico da cui deriva la produzione e l’elenco potrebbe continuare ancora.
Ecco allora che nei prossimi anni i problemi per l’agricoltura nazionale deriveranno con
ogni probabilità anche dalla globalizzazione dei mercati e dalla conseguente
realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove
con ogni probabilità l’imperativo sarà produrre di più (non importa con quale tecnica
e/o con quale materiale genetico) ai più bassi costi possibili.
In un contesto come quello delineato occorre chiedersi: ma i bassi costi e la
globalizzazione dei mercati si conciliano con la qualità della produzione da tutti
auspicata? Si adattano alla necessità di assicurare un reddito anche agli agricoltori delle
aree “svantaggiate” da un punto di vista dei costi di produzione? Si conciliano con lo
sviluppo sostenibile del territorio? Riescono a preservare l’identità culturale, economica,
sociale e professionale di un territorio?
E’ a queste domande che occorre fornire una risposta, al fine di verificare se nel
lungo periodo gli OT e il conseguente processo di globalizzazione dei mercati
rappresenti per l’agricoltura del nostro Paese un’opportunità o, al contrario, una strada
pericolosa, che potrebbe determinare effetti dannosi per il benessere della nostra società
e per quello delle generazioni future.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche di
prima generazione sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione
affrettata. In particolare, come per le altre innovazioni tecnologiche, la loro applicazione
può essere buona, mediocre o, addirittura, cattiva. Per il momento, le moderne
biotecnologie hanno riguardato solo ed esclusivamente applicazioni finalizzate
all'automazione del processo produttivo agricolo. In particolare, l’adozione di questa
tecnologia è avvenuta senza prima verificare se vi possano essere delle controindicazioni
sia da un punto di vista degli effetti biologici che essa può determinare (sulla salute
umana, sugli ecosistemi, sulla biodiversità, ecc.), sia da un punto di vista degli effetti
economici che la sua applicazione può avere su sistemi produttivi agricoli sensibili come
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quelli presenti nel nostro Paese.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche
sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. Certamente la
nostra agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha bisogno
dell'attuale biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe avere
possibilità applicative decisamente migliori.
Occorrerà poi valutare attentamente se questi "nuovi alimenti" rispondono ad una
reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell'attuale momento in cui quest'ultimo
tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale, la naturalezza dei prodotti
alimentari (il forte aumento del consumo di produzioni biologiche ne è una conferma), si
può affermare che il loro sviluppo è sicuramente controtendenza. Una controtendenza
che andrà valutata attentamente, al fine di non impiegare risorse e capacità umane nello
sviluppo di produzioni delle quali, forse, non abbiamo una reale necessità.
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