RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXIII NUOVA SERIE - N. 69 – SETTEMBRE- DICEMBRE 2009 Versione telematica 1 Pubblicazione promossa dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma. Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R., attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento e dello stesso Dipartimento. Direttore responsabile: Giovanni Invitto Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno (Lecce), Antonio Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano (Salerno), AntonioPonsetto (München), Mario Signore (Lecce). Responsabile di Redazione: Daniela De Leo. Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Maria Lucia Colì, Lucia De Pascalis, Alessandra Lezzi, Giorgio Rizzo. Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce – tel. 0832.294627; fax 0832.294626. E-mail: [email protected] Amministrazione, abbonamenti e pubblicità: Piero Manni s.r.l., Via Umberto I, 5173016 San Cesario di Lecce – Tel. 0832.205577 – 0832.200373. Iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. Abbonamento annuo: Italia € 15,00, Estero € 30,00, c/c postale 16805731 intestato a Piero Manni s.r.l., Lecce. L’abbonamento dà diritto al numero “cartaceo” pubblicato ogni anno. Il costo di un fascicolo degli anni precedenti è doppio. Questa rivista è sui siti: http://dipfil.unile.it/seo-start/page/home.rivista_online/ seo-stop/index.php? e: http://siba2.unile.it/ese alla pagina Publications. 2 NOTE PER GLI AUTORI I contributi vanno inviati alla Direzione di “Segni e comprensione” c/o Dipartimento di Filosofia e scienze sociali – Via V. M. Stampacchia 73100 Lec-ce. Si può utilizzare l’e-mail: [email protected]. Il materiale ricevuto non verrà restituito. Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle di 3.600 caratteri, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note” non si dovranno superare le 10 cartelle con le medesime caratteristiche. Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si riserva il diritto di apportare eventuali modifiche, previa comunicazione e approvazione dell’Autore. 3 INDICE Saggi 7 Girolamo Cotroneo LA FAMIGLIA TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ 28 Marina Pia Pellegrino EDITH STEIN. LA COMUNITÀ DI DESTINO 41 Francesco Clemente POLEMICA ED EREDITÀ PROBLEMATICA DELL’IDEALISMO TEDESCO NELLA FILOSOFIA DI LUDWIG FEUERBACH 4 56 Giacomo Fronzi TH. W. ADORNO. L’ESTETICA MUSICALE E LA FORZA DELLA CRITICA Note 69 Palma Valentina di Nunno BERGSON, L’ÉVOLUTION CRÉATRICE, E IL PROBLEMA RELIGIOSO 75 Santo Arcoleo NEL CENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DE L’ÉVOLUTION CRÉATRICE DI H. BERGSON. IL COLLOQUIO AL “COLLÈGE DE FRANCE” 90 Maria Cristina Fornari GUYAU E UNA MORALE SENZA OBBLIGAZIONE NÉ SANZIONE 94 Tommaso Speccher ALCUNE RIFLESSIONI SU “LINGUAGGIO E PRINCIPIO DI ESCLUSIONE” 5 98 Recensioni M. Recchi, C. Caputo, A. Camparsi, F. Rega 110 Pubblicazioni ricevute Anche “Segni e comprensione” si adegua alla rivoluzione informatica e mass-mediatica. Già da alcuni anni la rivista appare tanto nella versione cartacea quanto in quella telematica. Anche le ultime vicende, non ancora concluse, che travagliano l’università pubblica italiana, hanno suggerito al Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento (che, insieme al Centro di Ricerche fenomenologiche di Roma, promosse questa rivista nel 1987) di ridurre l’attività editoriale realizzata con le antiche metodologie. Così le tre riviste del Dipartimento, di cui due ultraventennali, dal 2009 hanno una doppia veste: un numero sarà a stampa e avrà carattere monotematico, e gli altri due numeri, di cui questo è il secondo, appaiono on line sul sito http://dip-fil.unile.it. I testi che vi appaiono sono in formato “pdf”, in modo che autori e lettori possano stampare i saggi o tutta la rivista come se uscisse dalla consueta tipografia. Ciò avviene da tempo, come è noto, per tanti periodici scientifici nazionali e internazionali. Abbiamo già pensato al tema del numero monotematico del 2010. Esso riprende e aggiorna un consuntivo, fatto vent’anni fa, su Fenomenologia ed esistenzialismo in Italia. Fu il tema di un Convegno organizzato a Tarquinia dalla Società Filosofica Italiana nel 1981, i cui atti furono curati da Giovanni Invitto. Quello che “Segni e comprensione” chiede ai suoi Autori antichi ed a quelli più recenti è di elaborare testi su quell’argomento e ad inviarli alla rivista entro il 30 ottobre 2009 ([email protected]). 6 LA FAMIGLIA TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ di Girolamo Cotroneo chi affronta l’indagine scientifica attorno alla famiglia si trova dinnanzi un problema estremamente complesso per due ordini di motivi: innanzi tutto perché gli studi sulla famiglia condotti con criteri scientifici hanno appena un secolo di storia e poi perché a questo breve curriculum scientifico fa riscontro una lunga tradizione di indagine meramente teorico speculativa e addirittura religiosa.1 Il mio intervento muove, per così dire, dalle ultime parole di Cerroni, osservando che nel corso dell’età moderna la famiglia è stata a lungo riguardata soprattutto sul piano “politico”, come una fondamentale struttura dello Stato, escludendo il suo momento etico, come dichiarava esplicitamente «la plus forte tête que l’ancien règine ait vu paraître en France», il fondatore del pensiero politico moderno, sarebbe a dire Jean 2 Bodin. Nella sua opera più famosa, Les six livres de la Republique, inaugurando la sezione dedicata alla famiglia, scriveva: «In questa sede noi intendiamo occuparci, lasciando ai filosofi e ai teologi la trattazione dell’aspetto morale, solo dell’aspetto politico della questione; e quindi anche di quel potere del marito sulla moglie ch’è fonte e origine di ogni umana 3 associazione». Ritornerò sul tema del “potere del marito”. Prima però vorrei proseguire il discorso sul rapporto tra “famiglia” e “Stato”, essendo la prima per i filosofi politici dell’età moderna «la vera origine dello Stato», di cui 4 «costituisce parte fondamentale», secondo diceva ancora Bodin, per il quale era «impossibile che uno Stato valga qualcosa se sono mal fondate le SAGGI Il titolo del mio intervento ritengo richieda un chiarimento preliminare: in esso, infatti, vengono evocati due termini – modernità e post-modernità – dal significato controverso, che qui assumo in maniera del tutto soggettiva, per indicare due successivi momenti storici nel corso dei quali sono apparsi due diversi modi di intendere la famiglia. Se, infatti, come vedremo, la modernità – intendendo per questo periodo i secoli tra il XVI e il XIX – ha costruito un’immagine, per così dire, positiva della famiglia, ne ha fissato alcuni caratteri essenziali, senza dei quali essa non è data, il XX secolo, che assumo come il secolo post-moderno, ha avviato un’opera di disgregazione di quell’immagine, nella quale ha ritenuto di individuare la presenza di alcuni fattori distruttivi della personalità dei suoi componenti. Vediamo. Ha scritto Umberto Cerroni che 7 5 famiglie che ne costituiscono i pilastri»; e, a sostegno, aggiungeva che fu «da quando, al declino dell’Impero Romano, l’autorità del padre cominciò a rilassarsi, che anche l’antica virtù e lo splendore di quello Stato vennero rapidamente a cadere, e in luogo della pietà e dei buoni costumi di un tempo 6 si verificò un’infinità di azioni viziose e malvage». Il medesimo argomento troveremo qualche secolo dopo nelle pagine di Johann Gustav Droysen, il quale scriveva che «la virtù nell’antica Roma ha avuto esattamente la stessa durata della semplicità rigorosa della famiglia»; e, a sostegno, cosa forse più 7 importante, aggiungeva: «La stessa prova vale ancora ai nostri giorni». Di là di tutto questo, ai fini del mio discorso, la cosa più importante è adesso sentire quale idea di famiglia il pensiero politico moderno proponeva o indicava. Prima però vorrei ricordare quanto sostenuto ancora da Umberto Cerroni per il quale è impossibile «definire il concetto di famiglia prima di una ricognizione circostanziata dell’istituto storico della famiglia», perché se scompare la storicità del concetto di famiglia correlata alla storicità dell’istituto familiare, scompare immantinente la storicità del moderno istituto familiare: al tempo stesso la teoria costruita senza storia si assolutezza in teoria refrattaria alla storicità, e la storia, privata di specifici parametri causali ricavata dall’indagine di vari tipi istituzionali, sfuma in mero antecedente 8 filosofico dell’istituto moderno. Persino quello - ha proseguito - che è considerato il fondamento della famiglia, l’amore, non si è mai svolto come relazione extratemporale, ma sempre come rapporto modellato in forme storiche specifiche tra un Ulisse e una Penelope, un Dante e una Beatrice, un Romeo e una Giulietta: e la letteratura e l’arte ne hanno sempre dato fedelmente le differenze.9 Devo subito precisare che quando parla di famiglia “moderna” Cerroni intende quella che qui indico come “contemporanea” o “postmoderna”. Ma a parte questo, pur non essendo certo mia intenzione esaminare “storicamente” il concetto di famiglia, la sua evoluzione almeno nei suoi momenti principali, non potrei però costruire questa mia nota senza riferirmi direttamente agli autori, ai filosofi soprattutto, che in tempi diversi, legati a particolari situazioni storiche, hanno indagato, appunto, more philosophico sull’istituto familiare. Per farlo muovo ancora da Bodin per il quale la famiglia era soltanto quella fondata sul matrimonio. Scriveva, infatti, che per “moglie” si deve intendere quella donna «che appartiene legittimamente al marito», non già la “concubina”, non essendo questa «sottoposta all’autorità del marito»; e aggiungeva che «anche se vi sia il consenso delle parti, ossia quel contratto pattuito verbalmente e di presenza che la legge chiama matrimonio, il marito non acquista potere sulla moglie 10 fino a che questa non si andata a convivere con lui». 8 L’idea che “famiglia” fosse soltanto quella fondata sul matrimonio – inteso però non già come sacramento, e privo persino di un elemento etico; un elemento che, alcuni secoli dopo Hegel avrebbe indicato come ciò che lo 11 rendeva indissolubile – ricompare nel secolo decimonono nelle pagine di uno dei più grandi pensatori europei, Immanuel Kant, il quale, dopo avere detto che dopo avere detto questo, dunque, sosteneva che da questo principio derivava «che il concubinato non è suscettibile di alcun contratto valevole in diritto, così come non lo è il mercato che si fa di una persona per un 12 momento di godimento (pactum fornicationis)». Accanto al filosofo di Königsberg, va ricordato colui che ha segnato una svolta decisiva nel dibattito sulla famiglia, il già ricordato Giorgio Guglielmo Federico Hegel, il quale scriveva che «il matrimonio si distingue dal concubinato, per il fatto che, in quest’ultimo, importa principalmente l’appagamento dell’istinto 13 naturale, mentre questo nel matrimonio è represso» Il significato ultimo di queste parole lo coglieremo più avanti Qui interessa rilevare soltanto la distanza che, sia pure con motivazioni assai diverse, già Bodin aveva posto tra matrimonio e concubinato. Ma proprio nel passaggio in cui il filosofo angioino separava queste due forme di convivenza, era apparsa una delle questioni più dibattute nell’età moderna intorno alla famiglia: l’autorità paterna. L’immagine di una famiglia fondata sull’autorità del padre – il pater familias della tradizione romana – che era, appunto, la famiglia “ben fondata”, conduceva Bodin alla conclusione che « la famiglia ben governata è la vera immagine dello Stato, [e] come l’autorità domestica somiglia al potere sovrano, così il governo giusto della casa è il 14 vero modello del governo dello Stato». Quanto queste parole discendessero dalle idee politiche di Bodin, al cui centro vi era l’idea della “sovranità” una e indivisibile, non è il caso di discutere in questa sede. Per quel che riguarda invece il problema dell’autorità paterna, merita di essere ricordato che il primo grande filosofo liberale, John Locke, scriveva che pur se il marito e la moglie avevano «un solo comune interesse», sarebbe a dire il bene della famiglia, «tuttavia, avendo intelligenze differenti, ed essendo perciò necessario che si dia, in qualche posto, la decisione ultima, cioè a dire il governo, è naturale ch’essa sia dalla parte dell’uomo in quanto più capace SAGGI l’acquisto di una moglie o di un marito non avviene [...] facto (con il congiungimento) senza contratto precedente, e nemmeno pacto (per un semplice contratto matrimoniale senza congiungimento ulteriore) ma soltanto lege, cioè come conseguenza giuridica derivante dall’obbligo di non formare un’unione sessuale altrimenti che per mezzo del possesso reciproco delle persone. 9 15 e più forte». Ma non a caso ho ricordato che Locke è il primo filosofo liberale; una qualifica, per così dire, rivelata, se si vuole, proprio dalla definizione di famiglia da lui fornita: La società coniugale è costituita da un contratto volontario fra uomo e donna, e sebbene essa consista principalmente in quella comunione e in quel diritto dell’uno sul corpo dell’altro, che è necessario al suo fine precipuo, ch’è la procreazione, tuttavia essa porta con se mutuo aiuto e assistenza, e anche una comunione di interessi, qual è necessaria non soltanto onde riunire la loro cura e affezione, ma anche alla loro comune prole, che ha diritto ad esser nutrita e mantenuta da loro, sino a che non diventi capace di 16 provvedere per sé. I concetti di “mutuo aiuto” e “assistenza”, anche se improntati a una visone soprattutto utilitaristica, introducono, o almeno sfiorano quello che sarà l’argomento decisivo, il fondamento etico del matrimonio proposto dalla “modernità”, che abbiamo già avuto occasione di incontrare nel pensiero di Hegel. Di là di questo, comunque, quanto detto da Locke sulla famiglia presenta aspetti certamente interessanti che vale la pena ascoltare. A quanto, infatti, ho ricordato a proposito della maggiore capacità di governo dell’uomo, aggiungeva che questo «non riguarda che le cose di loro comune interesse e proprietà»; e questo lascia la moglie nel pieno e libero possesso di ciò che per contratto è suo particolare diritto, e conferisce al marito non più potere sulla vita di lei ch’essa non abbia sulla vita di lui, dal momento che il potere del marito è così lontano da quello di un monarca assoluto, che la 17 moglie ha in molti casi la libertà di separarsi da lui. Questa attenuazione del ruolo egemone dell’uomo, la incontriamo ancora dove il filosofo inglese scriveva che la cultura tradizionale «sembra collocare il potere dei genitori sui figli interamente nel padre, come se la madre non vi avesse parte, mentre invece, se consultiamo la ragione e la rivelazione, vedremo ch’essa vi ha un titolo eguale»; e ricordava anche il 18 quarto comandamento: «Onora il padre e la madre». Non mi sembra neppure il caso di sottolineare la “novità” introdotta da Locke nella moderna visione della famiglia, che sembra preludere a quanto nel 1869 dirà John Stuart Mill nel celebre saggio dal titolo La schiavitù delle donne, il quale va ben al di là del discorso di Locke, e che – senza sconfinare nel “post-moderno”, nella dissoluzione del concetto moderno, “borghese”, se vogliamo così chiamarlo – del matrimonio e della famiglia – ne modifica soltanto, migliorandoli, alcuni aspetti Stuart Mill scriveva. Ma, si domanderà, come può esistere una società senza governo? In una famiglia, come in uno Stato, qualcuno deve esercitare l’autorità suprema. Chi deciderà quando i coniugi hanno opinioni diverse? Non posso 10 Indubbiamente le cose che debbono essere decise ogni giorno, e non possono aggiustarsi da sé gradualmente o attendere un compromesso, dovrebbero dipendere da un’unica volontà: una sola persona dovrebbe averle sotto esclusivo controllo. Ma non ne deriva che questa della essere sempre la stessa persona. Le cose si aggiustano naturalmente con una divisione di potere fra i due, dove ciascuno esercita nella propria sfera d’azione un assoluto controllo e qualsiasi cambiamento di sistema e di principio esige il consenso di entrambi.19 Con Stuart Mill, come dicevo, siamo in un momento già molto avanzato rispetto alla nostra precedente discussione. Tornando alla quale, non si può non sottolineare che l’importanza del discorso di Locke sta soprattutto nell’avere dato all’interno della famiglia, anticipando, per così dire, Stuart Mill, un ruolo anche alla donna, negatole dalla cultura precedente. Basta pensare ancora una volta a Bodin, il quale scriveva che « qualunque sia la varietà delle leggi e per quanti mutamenti esse abbiano subito, non vi è stata mai alcuna legge o consuetudine che abbia esentato la moglie dall’obbedienza al marito, e non solo dall’obbedienza, ma anche dalla reverenza che essa gli deve»; anche se aggiungeva, pur non essendoci al mondo niente «di più grande e di più necessario che l’obbedienza della moglie al marito, non per questo il marito deve, con il pretesto del suo potere, 20 rendere la moglie schiava». E a proposito dell’educazione dei figli scriveva che « il governo giusto del padre sui figli consiste nel retto uso di quel potere che la natura gli ha conferito sui figli propri o la legge su quelli adottivi; e, di riscontro, nell’amore, nell’obbedienza e nella reverenza dei figli verso il 21 padre», senza mai menzionare la madre. Locke, invece, dopo avere detto del potere dei genitori dei “genitori” sui figli, e delle ragioni che richiedevano quel potere, aggiungeva che da quelle ragioni non si poteva trarre alcun motivo per trasformare questa cura dovuta dai genitori ai figli in un “dominio arbitrario e assoluto” del padre, il cui potere non si estende più in là che inferire, mediante quella disciplina ch’egli ritiene più efficace, tanta forza e salute ai loro corpi, e tanto vigore e dirittura alla loro menti, quanto basti per SAGGI procedere in direzioni diverse, e tuttavia una decisione in un senso o nell’altro, deve essere presa. La risposta era, riguardo ai tempi, affatto controcorrente: «Non è vero», rispondeva, «che in qualsiasi associazione volontaria fra due persone, una debba essere il padrone assoluto: meno ancora, che sia la legge a determinare quale delle due lo sarà».. E cosi spiegava la sua visione del problema: 11 renderli atti ad esser utili il più possibile a se stessi e agli altri […]. Ma a questo potere anche la madre partecipa col padre.22 Fino a questo momento il discorso sulla famiglia ha avuto, in linea di massima, un carattere di natura giuridico-politica; e anche la questione dei doveri verso i figli sembra rientrare in questa visione. Non è un caso infatti che qui appare – lo abbiamo già visto in Locke – l’idea del matrimonio come “contratto”; un contratto che anzitutto consente ai contraenti di godere ognuno del corpo dell’altro, ma non ai fini del puro godimento, ma per un fine superiore, quello, appunto, di procreare. Una tesi sulla quale Kant aveva qualche riserva come indicano queste parole: Il rapporto sessuale è: o quello che obbedisce alla pura natura animale, o quello che si conforma alla legge. Questo secondo caso è il matrimonio, cioè l’unione di due persone di sesso diverso per il possesso reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la loro vita. Lo scopo di procreare e allevare figli può ben essere quello che s’è proposto la natura e a cui s’ispira l’inclinazione dei due sessi l’uno verso l’altro, ma l’uomo che si sposa non è obbligato a proporsi questo scopo per rendere questa unione legittima, perché altrimenti, cessata la procreazione il matrimonio nello stesso 23 tempo si scioglierebbe da sé. Ma la più profonda svolta nella visione della famiglia proposta dalla modernità, quella che sposta il problema dal piano politico giuridico a quello etico, la incontriamo nell’ultima delle opere sistematiche di Hegel, i Lineamenti di filosofia del diritto del 1821, già più volte citati, dove la “famiglia”, assieme alla “società civile” e allo “stato” costituisce uno dei tre momenti della forma più alta dello Spirito Oggettivo, l’”eticità”, appunto. Qui Hegel prendeva posizione contro l’immagine kantiana del matrimonio come “contratto”; e a questo proposito scriveva che «sotto il concetto del contratto non può quindi venire sussunto il matrimonio; questa sussunzione è esposta 24 nella sua – turpitudine, si deve dire – in Kant». Sempre nella stessa opera, ma in altra occasione, scriveva di ritenere affatto improprio considerare il matrimonio «soltanto come un rapporto sessuale»; e aggiungeva che è altrettanto rozzo, considerare il matrimonio semplicemente come un contratto civile: concezione che ancora si presenta pure in Kant, nella quale, dunque, si contratta l’arbitrio reciproco sopra gli individui, e il matrimonio è degradato a forma di uso reciproco, contrattuale.25 Che cosa intendesse Hegel per matrimonio lo incontriamo in un famoso paragrafo dell’opera di cui stiamo parlando, dove si legge: 12 Il duro linguaggio di Hegel non impedisce di vedere che, introducendo il concetto di “amore autocosciente” che supera l’iniziale attrazione dei sessi – cosa che vietava di poter considerare il matrimonio un contratto – Hegel faceva compiere al concetto di matrimonio, e quindi di famiglia, un vero e proprio salto di qualità giungendo a considerarlo, come del resto abbiamo avuto modo di vedere, un atto “religioso” e “indissolubile”. Questo però non gli impediva di sottolineare che il matrimonio si presenta pure come atto giuridico. A quanto abbiamo appena visto, infatti, aggiungeva che era da respingere quella concezione SAGGI Il matrimonio contiene, inteso come il rapporto etico immediato, in primo luogo il momento della vivezza naturale, e invero come rapporto sostanziale la vivezza nella sua totalità, cioè come realtà del genere e processo di esso. […] Ma nell’autocoscienza in secondo luogo l’unità dei sessi naturali, soltanto interiore o essente in sé e appunto perciò soltanto esteriore nella sua esistenza, viene trasformata in una unità spirituale, in amore autocosciente.26 che pone il matrimonio soltanto nell’amore; poiché l’amore, che è sentimento, consente l’accidentalità in ogni riguardo; forma che l’ethos non può avere. Il matrimonio quindi, è da determinare particolarmente così, che esso sia l’amore giuridicamente etico, pel quale il transitorio, il capriccioso e il semplicemente soggettivo del medesimo scompare da esso.27 Questa immagine del matrimonio come atto d’amore entrò rapidamente nella cultura dell’epoca. La ritroviamo, infatti, nel contesto di un discorso dedicato, appunto, alla famiglia, nella già ricordata Istorica di Johann Gustav Droysen, il quale, parlando delle “comunanze naturali”, la prima delle quali era, appunto, la famiglia, scriveva che queste ultime sono quelle in cui le forme di esistenza meramente creaturali, cui l’uomo secondo la sua parte corporea è rivolto, [vengono elevate per mezzo di un primo volere, dell’amore, del dovere, della fedeltà, nella sfera etica,] vengono tramutate in altrettante forme dell’esistenza etica.[…] Perché non solo l’esistenza creaturale dell’uomo, ma anche quella etica si radica nella famiglia; perché i suoi membri o hanno rinunciato alla personalità l’uno per l’altro (i genitori) oppure non vi sono ancora giunti, ma devono giungervi con lungo lavoro. […] In quest’ambito ciascun singolo membro ha la coscienza di sé nella coscienza dell’altro e degli altri, possiede sé pienamente solo nell’altro, in questa inesauribile reciprocità dell’amore, della fiducia, della fede, in questa ricchezza di interazioni e di movimento spirituale sta l’unità della famiglia, sta lo spirito della famiglia.28 Anche Hegel aveva detto che il punto partenza “oggettivo” del matrimonio è «il libero consenso delle persone, e proprio a costituire una 13 persona, a rinunziare alla loro personalità naturale e singola in quella 29 unità»; ma da questo non faceva discendere la “parità” tra i coniugi, essendo nella sua visione globale dell’eticità, diverso il loro ruolo nella società. Scriveva, infatti che, «la famiglia come persona di diritto di fronte ad 30 altre deve rappresentarla l’uomo come suo capo». Questo perché il ruolo storico, sociale se si preferisce, dell’uomo non si esaurisce nella famiglia, dal momento che non partecipa soltanto alla vita di questa, ma assume altri compiti e altre responsabilità: «L’uomo», scriveva Hegel, «ha la sua reale vita sostanziale nello stato, nella scienza e simili, e altrimenti nella lotta e nel lavoro con il mondo esterno e con se stesso»; al contrario, la donna «ha la sua destinazione sostanziale», ed è in essa che risiede la pietas familiare; quella pietas che in una delle più sublimi rappresentazioni della medesima, nell’Antigone sofoclea viene enunciata di preferenza come la legge della donna, e come la legge della sostanzialità soggettiva vivente nel sentimento, dell’interiorità che non attinge ancora la sua compiuta realizzazione, come la legge degli antichi dei, del regno sotterraneo, come legge eterna, della quale nessuno sa donde apparve, e rappresentata nell’opposizione contro la legge manifesta, la legge dello stato.31 Ritengo del tutto superfluo ricordare le ragioni per cui Hegel attribuiva ad Antigone – paradigma della donna come tale – il ruolo di custode della pietas familiare. Più vicino al mio discorso, invece, il fatto che in questo contesto appare anche la questione relativa all’educazione dei figli, che, nel modo in cui Hegel la poneva, “liquidava”, per così dire, l’antica figura dell’autorità paterna. Vale la pena leggere le sue parole: I figli hanno il diritto di venire nutriti e educati sulla base del comune patrimonio familiare. – I figli sono in sé liberi, e la loro vita è soltanto l’immediato esserci soltanto di questa libertà, essi appartengono perciò né ad altri né ai genitori come cose. La loro educazione ha la destinazione positiva, rispetto al rapporto di famiglia, che l’eticità venga in essi portata a sentimento immediato, ancor privo di opposizione, e che ivi, come in fondamento della vita etica, l’animo abbia vissuto la sua prima vita in amore fiducia e obbedienza, – ma poi ha la destinazione negativa rispetto al medesimo rapporto, di innalzare i figli dall’immediatezza naturale, nella quale essi originariamente si trovano, all’autonomia e alla libera personalità e con ciò alla capacità di uscire dall’unità naturale della famiglia.32 Hegel chiamava questo momento finale – che ricorda Locke, quando sosteneva che l’educazione paterna doveva dare “vigore e dirittura” ai figli, per “renderli atti” ad essere utili a loro stessi e agli altri – «scioglimento etico 14 A questo punto ritengo di potere avviare il discorso sull’immagine post-moderna della famiglia, che, si risolve in una pressoché totale negazione sia della famiglia borghese, che, nei suoi punti estremi, della famiglia in sé, considerata una struttura fondata soprattutto, se non soltanto, sui concetti di “autorità”, “patrimonio”, “procreazione”, che peraltro abbiamo visto comparire a vario titolo nel dibattito filosofico che abbiamo fin qui seguito. In maniera, per così dire, empirica, assumo come punto di partenza uno tra i testi più radicali tra quelli che cercano di liquidare il concetto di famiglia, quale abbiamo visto costituirsi tra il Cinquecento e l’Ottocento. Mi riferisco agli scritti di un personaggio di primo piano della rivoluzione russa, della prima donna nella storia ad assumere una carica governativa, Aleksandra Kollontaj, che è certamente la più nota protagonista della tentata rivoluzione culturale, della rivoluzione dei costumi, che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto seguire la rivoluzione bolscevica. Della sua produzione, dei suoi scritti di natura etica e politica, che certamente non si allontanano dal dettato marx-leninista, qui, ovviamente, interessano soltanto quelli relativi alla famiglia, che la Kollontaj collegava strettamente alla questione femminile, alla liberazione, anche sul piano sessuale, della donna: «Per diventare veramente libera», scriveva: la donna deve sbarazzarsi delle catene che l’attuale forma della famiglia, sorpassata e costrittiva, fa pesare su di lei. […] Le attuali forme della struttura familiare, stabilite dalla legge e dal costume, fanno sì che la donna soffra non solo come essere umano ma anche come sposa e madre. Nella maggior parte dei paesi civili, il codice civile pone la donna in una situazione di maggiore o minore dipendenza rispetto all’uomo e riconosce al marito non SAGGI 33 della famiglia»; un’espressione felice, che non richiede commento alcuno. Una breve, ultima considerazione la richiede invece quel riferimento al “patrimonio familiare”, che abbiamo già incontrato e che viene così confermato: «La famiglia ha come persona la sua esteriore realtà in una proprietà, nella quale essa ha l’esserci della sua personalità sostanziale sotto 34 la forma di un patrimonio». Il legame patrimonio-famiglia, sarà duramente contestato della post-modernità. Ma, parte questo, è qui che la famiglia “moderna”, borghese, se si preferisce, ha raggiunto la sua forma compiuta; una forma che troverà la sua epopea agli inizi del Novecento, precisamente nel 1901 nel capolavoro del giovane Thomas Mann, I Buddendbrook, che di quel concetto di famiglia segnalava la forza, ma anche la crisi e la malinconica decadenza. 15 solo il diritto di disporre dei beni della moglie, ma anche quello di dominarla moralmente e fisicamente. 35 Per spiegare le ragioni di tutto questo, la Kollontaj, adeguava, come prima ho detto, la sua visione a quella di Marx, al problema della proprietà dei mezzi di produzione, dalla quale dipendevano tutte le “sovrastrutture” etiche e politiche tra cui appunto la famiglia: «Da noi in Russia», scriveva, le donne della media borghesia […] hanno praticamente risolto da lungo tempo, a titolo individuale molti aspetti ingarbugliati della questione matrimoniale, passando audacemente sopra il matrimonio religioso tradizionale e sostituendo la forma consolidata della famiglia con un’unione facile da rompere, che meglio corrisponde ai bisogni dello strato intellettuale, mobile, della popolazione tuttavia, aggiungeva, le soluzioni individuali, soggettive, del problema non mutano affatto la questione e non abbelliscono in nulla il fosco quadro della vita familiare Se qualcosa può distruggere l’attuale forma di famiglia, non sono certo gli sforzi titanici di personalità più o meno forti, bensì le forze produttive, apparentemente inerti ma tuttavia potenti, che instancabilmente, passo passo, ricostruiscono la vita su basi nuove.36 16 Tralascio ovviamente gli innumerevoli passaggi aspri, duri, contro la 37 famiglia borghese, contro il legame nato, come abbiamo visto, nell’età 38 moderna, tra famiglia e proprietà, per ricordare la radicale conclusione cui la Kollontaj giungeva, che troviamo espressa in queste poche parole: «Così la borghesia avrà un bel gridare che i principi familiari sono immutabili e intangibili: la famiglia - la famiglia attuale, chiusa, autarchica e strettamente 39 individualistica – è condannata allo smembramento e alla morte». Dai testi della Kollontaj mi sembra risulti con chiarezza che l’inizio della visione post-moderna della famiglia si presenta come la conseguenza, anche nell’Europa Occidentale dove non la “rivoluzione” non aveva avuto luogo, del movimento politico-culturale ispirato al marxismo, che intendeva cancellare, o modificare radicalmente, le istituzioni “borghesi”, prima fra tutte la famiglia. Contro la quale, in maniera più penetrante perché filosoficamente meglio sostenuta rispetto alla scoperta aggressività della scrittrice russa, si dirigeva un famoso saggio, apparso per la prima volta nel 1936, di uno dei più noti pensatori del Novecento, sarebbe a dire Max Horkheimer, che assieme a Theodor Adorno e a Herbert Marcuse doveva costituire quelle triade di filosofi francofortesi che tanta fama e tanta importanza doveva assumere negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Max Horkheimer Fintantoché la struttura fondamentale della vita sociale e la cultura dell’epoca odierna, che riposa su di essa, non si trasformano radicalmente, la famiglia eserciterà la sua insostituibile funzione come produttrice di determinati tipi di carattere autoritario. […] Tutti i movimenti politici, morali religiosi conseguenti, che ebbero per scopo il rafforzamento e il rinnovamento di questa unità, hanno avuto ben chiara l’importanza fondamentale della famiglia come produttrice del carattere autoritario e si sono posti come compito il rafforzamento della famiglia con tutti i suoi presupposti, come la proibizione del rapporto extra-matrimoniale, la propaganda per la procreazione e l’educazione dei bambini, la relegazione della donna al focolare domestico. 40 Come si vede, vengono qui ricordati in maniera fortemente critica alcuni degli aspetti fondamentali della famiglia – il rifiuto del concubinato, la procreazione come fine, il ruolo della donna – centrali nel dibattito sviluppatosi nell’età moderna; una critica la cui ragione di fondo era, appunto, il carattere autoritario che quella struttura familiare, a suo parere, presentava. Non soltanto: alla famiglia infatti, attraverso l’educazione dei figli, era affidato il compito di perpetuare lo status della società borghese. Horkheimer scriveva: Tra i rapporti che hanno un influsso decisivo sul carattere spirituale della maggior parte degli individui, tanto attraverso meccanismi coscienti quanto inconsci, la famiglia ha un’importanza particolare. Ciò che accade in essa forma il bambino fin dalla più tenera età e svolge un ruolo decisivo nello sviluppo delle sue capacità. […] La famiglia, in quanto è una delle più importanti forze educative, provvede alla riproduzione dei caratteri, come esige la vita sociale e fornisce loro in gran parte l’indispensabile attitudine al comportamento autoritario di tipo specifico da cui dipende in larga misura la sussistenza dell’ordinamento borghese. Questa funzione della famiglia [era] particolarmente sottolineata al tempo della Riforma e dell’assolutismo.41 Questo ruolo della famiglia non sarebbe stato modificato dall’evoluzione politica della società occidentale, pur avendo essa camminato nella direzione di una sempre maggiore libertà. A mutare sarebbero stati, infatti, i metodi adoperati per raggiungere quel fine, diventati nel tempo persino più subdoli: «Nella storia dell’evoluzione della famiglia», scriveva Horkheimer SAGGI inseriva il tema della famiglia nel contesto di un discorso critico nei confronti dell’”autorità”, da lui considerata la struttura portante della società borghese moderna. Scriveva: 17 dal periodo assolutistico a quello liberale emerge sempre più un nuovo fattore nell’educazione all’autorità. Non si esige più immediatamente l’ubbidienza, ma, al contrario, si richiede l’uso della ragione. Basta che si consideri spassionatamente il 42 mondo per convincersi che il singolo deve adattarsi e subordinarsi. Non entro nel merito dell’argomento, se davvero l’età moderna ha adoperato – anche se soltanto in questo caso – in maniera perversa le tecniche di persuasione elaborate e poste in essere dalla cultura liberale. Più opportuno mi sembra ritornare sulla questione del ruolo della famiglia per perpetuare il dominio borghese della società. A questo proposito Horkheimer sosteneva che mentre nella primavera della borghesia, si verificava tra la famiglia e la società uno scambio fruttuoso, per cui l’autorità del padre era fondata sul suo ruolo nella società e la società era rinnovata grazie all’educazione patriarcale all’autorità, la famiglia, che certamente non è divenuta superflua, ora diventa un problema di pura tecnica di governo.43 Prima di indicare le ragioni che inducevano Horkheimer a formulare queste conclusioni, mi sembra opportuno rilevare che – a differenza ad esempio di Aleksandra Kollontaj e di un sociologo italiano di cui dirò dopo – il filosofo francofortese non riteneva “superata”, “finita” la famiglia come tale, ritenendo esaurita la sua funzione, o missione, storica. Riteneva invece che, esaurita la fase liberal-borghese della storia europea, poteva nascere un modo diverso di intendere la famiglia, un modo idoneo alla nuova società che – sotto la spinta della cultura marxista “ripensata” dai filosofi occidentali – stava per sorgere: «Lo sforzo di progredire», scriveva, e di produrre una società, oggi possibile, senza povertà e ingiustizia, domina allora i rapporti in luogo della motivazione individualistica. Dai mali della realtà, che opprime l’esistenza sotto il segno dell’autorità borghese, può sorgere una nuova comunità di genitori e figli che certamente non è chiusa in modo borghese in contrasto con altre famiglie dello stesso tipo.44 Horkheimer, quindi, vedeva spuntare, o comunque prossima a spuntare, l’alba di un nuovo giorno; di un giorno in cui si sarebbe preso finalmente atto che il momento di coesione della famiglia imposto, attraverso i mezzi che sappiamo, dalla da lui odiatissima società borghese, era ormai prossimo alla fine. E lo dichiarava con forza: La totalità dei rapporti dell’epoca attuale era un universale rafforzato e consolidato da un elemento particolare in esso esistente: l’autorità, e questo processo aveva luogo, per l’essenziale, nell’individuale e nel concreto: la famiglia. Essa formava la “cellula riproduttiva” della cultura 18 SAGGI borghese, ed era in essa vitale così come l’autorità. Questa totalità dialettica di universalità, particolarità e individualità appare ora un complesso di forze reciprocamente contrapposte. Il momento distruttivo della cultura ha ora più 45 forza che quello di coesione. Questo momento, la polemica verso la struttura autoritaria della famiglia, a dire di Horkheimer veniva da molto lontano, veniva dalle contraddizioni interne alla società borghese: «Per quanto importate sia la forza che il matrimonio ha rappresentato durante la sua storia millenaria nello sviluppo umano», scriveva, «e per quanto lungo e rilevante sia il futuro che può essergli riservato ancora in una forma più alta di società, sono comunque diventate chiare le contraddizioni in esso contenute tra la vita che si sviluppa e le condizioni date». Di questo erano prova già nell’età del Rinascimento, due leggende che hanno trovato entrambe un’espressione immortale in opere d’arte: Romeo e Giulietta e Don Giovanni. Tutte e due esaltano la ribellione dell’elemento erotico contro l’autorità della famiglia: Don Giovanni contro l’angusta morale della fedeltà e dell’esclusività; Romeo e Giulietta in nome di questa morale. […] Queste figure della leggenda esprimono l’abisso tra la pretesa del singolo alla felicità e la pretesa autoritaria della famiglia.46 Non è difficile comprendere che il diffondersi di queste idee, che rientravano nella grande svolta culturale verificatasi nella seconda metà del Novecento, in particolare negli anni Sessanta e Settanta, contribuiva certamente a rendere meno rigidi i legami familiari, concedendo maggiori spazi e maggiore autonomia ai suoi componenti. A questo proposito merita di venire ricordato che anche nell’ambito della cultura marxista, diciamo, “ortodossa”, l’idea che, nonostante tutto, la società capitalistica aveva modificato, allentandolo fortemente, il vincolo esistente tra i membri della famiglia, era certamente molto diffusa e partiva dallo stesso dettato di Marx.. Umberto Cerroni scriveva infatti che non casualmente la moderna legislazione familiare dei paesi capitalistici sviluppati presenta alcune tendenze tipiche: riduzione dell’ambito e della portata delle potestà familiari (abolizione della potestà maritale, limitazione pubblica della patria potestà), facilitazione dei processi di abilitazione giuridica dei minori (emancipazione legale e giudiziale, capacità di agire per rapporti di lavoro ecc.), parificazione tendenziale dei coniugi, alleggerimento dei vincoli familiari.47 Ma se qui, nell’ambito del marxismo che prima ho definito ortodosso, 48 tutto questo aveva una valenza affatto positiva, tutt’altro significato venne dato a questi fenomeni che disgregavano la precedente visione della 19 famiglia, presso un certo tipo di radicalismo culturale e politico che riteneva necessario, indispensabile anzi, proseguire lungo quell’allentamento dei legami familiari indicato dal marxismo come positivo, anche se prodotto dalla società capitalistica e borghese, fino a giungere a una vera e propria aggressione dell’istituto familiare, considerato il vaso di ogni nequizia, il luogo in cui si manifesterebbe la parte peggiore dell’uomo. Leggiamo queste parole scritte nel 1977 da un sociologo che in quegli anni godeva di una certa notorietà, Roberto Guiducci: Nella famiglia […] sono coagulate le radici delle istituzioni autoritarie, della repressione, del conformismo dei comportamenti, della legittimazione del dominio, della carismaticità dei capi e dei gruppi dirigenti, della paura inconscia al mutamento, della divisione del lavoro, del lavoro coercitivo, della proprietà privata e del potere che, spesso, si è creduto di poter trattare come variabili indipendenti o come fatti di origine strettamente economica. A questa luce la famiglia appare l’epicentro dei problemi più complessi e degli impedimenti più gravi alla liberazione degli uomini dai vincoli che li alienano e li tengono soggetti […] Dunque, l’istituto familiare […] è un nucleo che tende alla conservazione della proprietà privata, del potere, degli strati, delle classi e persino della discriminazione razziale e della prostituzione.49 Sottolineare la volgarità intellettuale di queste parole mi sembra del tutto inutile. E proprio per questo – avendo assunto il libro di Guiducci come conclusione del mio discorso – mi corre l’obbligo di segnalare che la letteratura post-moderna sulla famiglia, sui suoi limiti e i suoi difetti, riconosciuti anche dai suoi più strenui difensori, non raggiunge mai momenti di così basso profilo. Comunque sia, Guiducci riteneva di poter fondare questi suoi concetti su alcune considerazioni a suo parere “inconfutabili”, la prima delle quali era che « la famiglia non è un fatto universale, perché sono esistite ed esistono civiltà senza legami di questo tipo», e la seconda che «dove la famiglia esiste, essa è quasi sempre indipendente dal problema di 50 un profondo e positivo legame erotico-affettivo fra uomo e donna». Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo punto che scardinava, o tentava di scardinare, l’idea della famiglia come “comunanza naturale”, secondo la già ricordata definizione di Johann Gustav Droysen, negandone il carattere originario, apparso nel pensiero occidentale dell’età moderna, di attrazione tra sessi, trascesa dall’amore e dai doveri verso i figli. A dire di Guiducci, invece, per la cultura dell’età moderna, «il matrimonio è un affare sociale», perché il gruppo ha l’interesse ad allargare le proprie alleanze e i vincoli di solidarietà. Tutto congiura per il matrimonio e, in particolare, per la monogamia, non come rapporto bilaterale sessuale-erotico-affettivo, ma 20 e concludeva che tutto ciò è stato opera di una sorta di “astuzia della società”, la quale ha imposto «i suoi interessi sostanziali sotto l’apparenza della protezione alla coppia affettivo-erotica. La coscienza sociale (in gran 52 parte funzionale al potere) ha lavorato sfruttando l’inconscio della coppia». Credo di avere avuto occasione di dire che di solito i testi relativi alla famiglia prodotti dalla “post-modernità”, se riescono spesso a indicare alcuni aspetti della famiglia “moderna”, il cui ripensamento – alla luce delle nuove condizioni storiche e sociali – appare senz’altro necessario, non riescono a indicare, anche se la loro critica sembrerebbe andare proprio in questa direzione, con che cosa sostituirla. Abbiamo, ad esempio, visto Aleksandra Kollontaj – che affrontava il problema della famiglia muovendo dalla 53 liberazione della donna e dall’esaltazione del “sesso alato” – limitarsi a ritenere superata, morta, perché inadatta alla grande rivoluzione politica seguita alla nascita del primo regime comunista della storia, la “vecchia” famiglia borghese, fondata su tutt’altri ideali. Da parte sua, Roberto Guiducci muoveva anch’esso dalla liberalizzazione, per così dire, della sessualità, come indicano queste sue parole: Un rapporto sessuale ed erotico, sempre impegnato, ma libero, avrebbe ben altra dimensione di quelli attuali: renderebbe gli incontri adatti alle varie e mutevoli situazioni dell’esistenza; consentirebbe di affrontare innovazioni; eviterebbe le cristallizzazioni egoistiche e particolaristiche; diminuirebbe i fenomeni dell’invecchiamento psichico e mentale precoci; creerebbe un rapporto “inter pares” anziché “inter parentes” all’interno della coppia; sarebbe in continua e dinamica tensione e apertura verso la società, ecc.54 Siamo di fronte alla proposta di una pura e semplice cancellazione della famiglia, sostituita da liberi rapporti tra uomini e donne, la cui “pratica” non richiederebbe legittimazione giuridica alcuna. Detto questo, però, Guiducci non poteva sottrarsi al problema del destino dei figli, che così risolveva: Una società, in cui si instaurassero rapporti di questo tipo, sarebbe costretta a occuparsi subito di una educazione collettiva dei giovani, figli propri o altrui, e i giovani anticiperebbero possibili forme di autoeducazione […] Un’educazione sociale dei figli non solo liberebbe la coppia dall’ossessione di essere la responsabile privata delle nuove generazioni pubbliche, ma libererebbe anche i figli dall’essere oggetti privati della famiglia.55 SAGGI come regola sociale finalizzata al lavoro, alla solidità delle istituzioni e alla procreazione quantitativa;51 21 Siamo qui di fronte a un incredibile salto all’indietro; siamo infatti ritornati al quinto libro della Repubblica di Platone, dove veniva proposto, a completamento del discorso sulla comunione delle donne dei “difensori”, che i figli fossero affidati «alle cure di un apposito comitato, formato di uomini o donne, o di uomini donne insieme, dal momento che i pubblici uffici sono 56 comuni agli uni ad alle altre». Non intendo certo assumere la tesi di Popper 57 sul totalitarismo di Platone, ma che questo progetto sia perfettamente coerente con una visione totalitaria della società e dello Stato, non mi sembra revocabile in dubbio. E se questa soltanto fosse la visione della famiglia proposta dalla cultura post-moderna – ma, come ho detto, non lo è – dovremmo rimpiangere quella proposta dalla modernità, che la storia, al di là del dibattito culturale, più o meno silenziosamente, ha modificato, scardinandone talora la struttura fondamentale, creando nuove forme di convivenza, quali ad esempio le “coppie di fatto”, sulla cui configurazione giuridica è a tutt’oggi in corso un dibattito Ma dire di questa rivoluzione silenziosa, e delle conseguenze che potrebbe avere sulla famiglia sia in una prospettiva e etica che giuridica, non era tra i propositi del mio intervento, che vorrei però concludere ricordando il recente volume di un filosofo francese di buona fama, Luc Ferry, al quale – in contrapposizione al celebre: «Vi odio, famiglie! Dimore chiuse, porte 58 sprangate, geloso possesso della felicità», di André Gide – ha dato per titolo Famiglie vi amo!; e in esso si leggono queste parole, con le quali ritengo di poter considerare concluso il mio discorso: A prescindere dalla apparenze ingannevoli, la verità emersa dagli studi dei nostri migliori storici delle mentalità è che l’unico rapporto sociale che, da due secoli, si sia approfondito, intensificato e arricchito è quello che unisce le generazioni in seno alla famiglia. Spesso decomposta, situata fuori dl matrimonio o ricomposta, ma senza dubbio meno ipocrita, più autentica e più densa di affettività di quanto non sia mai successo nella storia: ecco il paradosso della famiglia moderna. È in essa, e forse in essa sola, che sussistono e si approfondiscono forme di solidarietà che il resto della società non considera, dominata com’è dagli imperativi della competizione e della concorrenza. È di fronte ai nostri cari, a coloro che amiamo e, senza dubbio per estensione, di fronte agli altri esseri umani, che siamo pronti spontaneamente a “uscire da noi stessi”, a ritrovare significato e trascendenza, in una società che continua a 59 proporci l’opposto. 22 1 U. CERRONI, La libertà dei moderni, De Donato, Bari 1968, p.256. M.MOREAU-REIBEL, Jean Bodin et le droit public comparé dans ses rapports avec la philosophie de l’histoire, Parigi 1933, p.271. 3 J. BODIN, I sei libri dello Stato , vol. I, a cura di M. Isnardi Parente, Utet, Torino 1964, p.186. 4 ID., I sei libri dello Stato, cit., p. 172. 5 Alcuni secoli dopo, uno dei più grandi storici tedeschi dell’Ottocento, Johann Gustav Droysen, avrebbe scritto: «La famiglia è la base di ogni eticità, di ogni pietà e disciplina. Là dove la famiglia è sana è sano anche lo Stato e la religione e tutto ciò che per gli uomini è salutare». Istorica, Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia (1857), a cura di S. Caianello, Guida, Napoli 1994, p. 424. 6 U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., p. 213. 7 J. G. DROYSEN, Istorica, cit., p. 424. 8 U. CERRONI, La libertà dei moderni, cit., p .257. 9 Ivi., p. 261. 10 U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., pp. 186-187. 11 «L’elemento etico del matrimonio consiste nella coscienza di questa unità di fine sostanziale, quindi nell’amore, nella fiducia e nella comunione dell’intera esistenza individuale, - nella quale disposizione d’animo e realtà, l’impulso naturale viene abbassato alla modalità di un momento naturale (il quale […] nel suo appagamento è destinato a estinguersi), il vincolo spirituale nel suo diritto pone sé in rilievo come il sostanziale, quindi come ciò che è elevato sopra l’accidentalità delle passioni e del temporaneo libito particolare, come ciò che è in sé indissolubile». Ritroveremo questa immagine della famiglia come amore, della quale Hegel diceva ancora che nello “spirito etico“ che la ispira «costituisce ciò in cui risiede il carattere religioso del matrimonio e della famiglia, la pietà». Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 142 e 142-143. 12 La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, rivista da N. Merker, Laterza 1999, pp. 98-99 e 97. 13 Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, Laterza, Bari 1954, p. 347. 14 U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., pp.172-173., 15 J. LOCKE, Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1948, p. 297. 16 Ivi, pp. 294-295. 17 Ivi, p.297. 18 Ivi, p.274. 19 La schiavitù delle donne, tr. di. M. Baccianini e M. Saule, Sugarco, Milano 1992, pp. 75-76 e 77. 20 U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., I, p. 200. 21 Ivi, I, p. 205. 22 J. LOCKE , Due trattati sul governo, cit., pp.278 e 282. 23 La metafisica dei costumi, cit., pp.95-96. 24 Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p. 141. 25 Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, cit., p.246. 26 Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p.141. 27 Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, cit., 346. 28 J. G. DROYSEN, Istorica, cit., pp. 422 e 423. SAGGI 2 23 29 Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p. 141. Ivi, p. 147. Ivi, p. 145. La figura di Antigone, quale simbolo della famiglia, o, meglio della “pietà” familiare trova largo spazio nella prima grande opera sistematica di Hegel, la Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, voll.2, Firenze 1960, II, pp. 22-36. 32 Ivi, pp. 148 e 149. 33 «Lo scioglimento etico della famiglia della famiglia consiste nel fatto che i figli educati alla personalità libera, nella maggiore età vengono riconosciuti esser come persone di diritto e come capaci vuoi di avere propria libera proprietà, vuoi di fondar proprie famiglie, – i figli come capi, e le figlie come mogli, – una famiglia […] di fronte alla quale la loro prima famiglia retrocede come soltanto primo fondamento e punto di partenza». Ivi, p. 150. Da parte sua Droysen scriveva che è già nella “natura” della famiglia «che essa porti sempre di nuovo al di là di se stessa, che i figli e i nipoti fondino a loro volta famiglie allo stesso modo, e che gli ambiti si vadano sempre più distaccando l’uno dall’altro; ma in ogni ambito nuovamente fondato si ripete lo stesso decorso profondamente significativo, ogni ambito reso più ricco dall’eredità e dalla benedizione della casa paterna, ciascuno con lo stesso nuovo compito di fondare un piccolo mondo etico [in sé concluso] di dedizione, abnegazione e lealtà». J. G. DROYSEN , Istorica, cit., p. 423. 34 Ivi, p.146. Ha osservato Umberto Cerroni che Hegel pur non avendo «riconosciuto il tessuto storico e sociale dell’istituto familiare», pur avendolo voluto «costruire come una razionalizzazione puramente speculativa», non ha potuto non «sanzionare la stretta correlazione fra famiglia e proprietà privata», storicizzando di fatto la famiglia. La libertà dei moderni, cit., p. 276. 35 A.KOLLONTAJ, La fine del matrimonio monogamico, in Amore, matrimonio, famiglia e comunismo, intr. J. Lussu, il Papiro editrice, Sesto San Giovanni (Mi) 1993, pp. 19-20. 36 Ivi, p.22. 37 «Per rafforzare la solidità della famiglia, per sollevare più in alto il prestigio delle virtù familiari, il terzo stato ha fatto tutto ciò che da esso dipendeva. Ha fatto intervenire la religione, che predica l’indissolubilità del sacramento del matrimonio; la legge, che punisce l’adulterio della moglie; la morale che esalta il carattere “sacro del focolare domestico”. Quando la borghesia ebbe conquistato una posizione sociale egemone, quando tutti i fili della produzione mondiale furono riuniti nella sue mani, la sua morale, le sue regole di condotta e i suoi codici civile, che avevano il fine preciso di proteggere i suoi interessi di classe, divennero a poco a poco la legge obbligatoria anche per gli altri strati della popolazione». Ivi, pp. 23-24 38 «La proprietà e la famiglia sono legate troppo strettamente: se uno di questi pilastri del mondo borghese è stato scosso, la solidità dell’altro diviene incerta. Per questo la borghesia ha difeso sempre così accuratamente le proprie basi familiari; per questo essa ha difeso e continua a difendere con tale alacrità le forme vetuste dell’odierna struttura familiare». Ivi, p. 24. E in altra occasione: «Ma, pur difendendo i diritti di due “cuori innamorati” ad unirsi, anche a dispetto delle tradizioni familiari, pur irridendo all’”amore platonico” e all’ascetismo, e proclamando l’amore base del matrimonio, la morale borghese mantiene sempre l’amore in un ambito strettamente limitato. L’amore non è legittimo che in vista del matrimonio. Al di fuori del matrimonio legale, l’amore è immorale. Va da sé che questo ideale era dettato da considerazioni meramente economiche: la volontà di impedire la dispersione del capitale tra i figli naturali. Tutta la 30 31 24 SAGGI morale della borghesia era fondata su questa volontà: assicurare la concentrazione del capitale». Largo all’Eros alato! Lettera alla gioventù lavoratrice, in Amore, matrimonio, famiglia e comunismo, pp.72-73. 39 Ivi, p.39. 40 M. HORKHEIMER, Studi sull’autorità e la famiglia, con la collaborazione di Eric Fromm, Herbert Marcuse e altri, intr. F. Ferrarotti, Utet, Torino 1974, pp. 58-59. Altro motivo di polemica nei confronti della famiglia “borghese” era il ruolo che il patrimonio aveva nella sua struttura. Scriveva infatti: «L’unità immediata di forza naturale e di pretesa al rispetto nella famiglia borghese, non è l’unico fattore costitutivo della struttura d’autorità che caratterizza questa società; vi agisce un’altra proprietà del padre che appare pur essa naturale: egli è il signore della casa, perché guadagna il denaro o comunque lo possiede. […] Il fatto che normalmente nella famiglia borghese l’uomo possiede il denaro […] e ne stabilisce l’impiego, fa sì che moglie, figli e figlie siano ”suoi” anche nell’età moderna, dà ampiamente la loro vita nelle sue mani, li costringe a sottomettersi alla direzione e al comando» E poco oltre: «L’idealizzazione dell’autorità paterna, come se essa procedesse da un decreto divino, dalla natura delle cose o dalla ragione si dimostra, ad un esame più approfondito, come trasfigurazione di una istituzione economicamente condizionata». Ivi, pp. 53 e 68. 41 Ivi, p. 47. 42 Ivi, pp. 48-49. 43 Ivi, p. 72. 44 Ivi, p. 69. 45 Ivi, p. 72. 46 Ivi, pp. 70-71. Aggiungeva però che «nelle eccezioni si conferma […] la regola. In generale l’autorità domina l’umanità borghese anche nell’amore e determina il suo destino. Nel rispetto per la dote, la posizione e forza lavorativa dei contraenti il matrimonio, nella speculazione sull’utile e il rispetto che provengono dai figli, nel rispetto per l’opinione dell’ambiente e, soprattutto, nella dipendenza interiore da concetti abitudini e convenzioni radicate, in questo empirismo dell’uomo dell’epoca moderna, inculcato dall’educazione e divenuto una seconda natura, ci sono fortissimi stimoli ad accettare la forma della famiglia e a perpetuarla nella propria esistenza». Ivi, p. 71. 47 U. CERRONI, La libertà dei moderni, cit., p. 268. 48 Qui Cerroni citava il seguente testo di Marx: «Dunque, per quanto terribile e repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico, cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che si assegna alle donne, agli adolescenti, ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione socialmente organizzati di là della sfera domestica». La libertà dei moderni, cit., p.269. - Queste parole di Marx, inserite nel discorso contro lo sfruttamento del lavoro minorile, erano immediatamente precedute da alcune considerazioni certamente interessanti per la comprensione dell’evoluzione dell’organizzazione familiare dopo le rivoluzioni industriali. Scriveva, infatti, che «ogni regolamentazione del cosiddetto lavoro domestico si presenta subito come intervento diretto contro la patria potestas, cioè, traducendo in linguaggio moderno, contro l’autorità dei genitori: passo di fonte al quale il delicato parlamento inglese ha per lungo affettato reverenziale timore. Tuttavia la forza dei fatti ha costretto finalmente a riconoscere che la grande industria, 25 dissolvendo il fondamento economico della vecchia famiglia e del lavoro familiare che ad esso corrispondeva, dissolve anche i vecchi rapporti familiari». Tuttavia, proseguiva, «non è stato l’abuso di autorità paterna a creare lo sfruttamento diretto o indiretto di forze-lavoro immature da parte del capitale; ma è stato viceversa il modo capitalistico dello sfruttamento a far diventare abuso l’autorità dei genitori, eliminando il fondamento economico che le corrispondeva». Il Capitale, libro I, tomi 2, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980, II, pp. 535-536. 49 R. GUIDUCCI, La disuguaglianza fra gli uomini, Rizzoli, Milano 1977, pp. 23 e 33. A puro titolo di curiosità vorrei ricordare che, dimostrando ben altra sensibilità, Johann Gustav Droysen scriveva che si può senz’altro «parlare di una storia della famiglia; essa abbraccia le più grandi questioni storico-culturali dacché vi sono incluse le condizioni della donna, la forma primitiva del lavoro, i rapporti matrimoniali, l’educazione, nei loro momenti essenziali». Istorica, cit., p. 425. 50 Ivi, pp. 24-25. 51 R. GUIDUCCI , La disuguaglianza fra gli uomini, cit., p. 26. 52 Ivi, p. 37. 53 «L’istinto di riproduzione allo stato puro, che sorge facilmente ma passa con rapidità, quest’attrazione sessuale senza radici spirituali e morale, questo “eros senza ali”, assorbe molte meno energie individuali che non l’esigente Eros alato, l’amore che è intessuto di una sottile trama di svariatissime emozioni d’ordine spirituale e morale. L’Eros senz’ali non procura notti insonni, non fiacca la volontà, non confonde l’attività dell’intelletto». Largo all’Eros alato!, cit., p. 61. Mi sembra opportuno ricordare che la Kollontaj scriveva che negli anni della Rivoluzione non poteva essere consumato altro che l’”Eros senz’ali”, essendo le menti occupate a costruire la nuova società, raggiunta la quale soltanto poteva finalmente ricomparire l’”Eros alato”. «Ora che in Russia», scriveva, «il movimento rivoluzionario ha vinto e si è consolidato, ora che l’uomo non è più interamente assorbito dall’atmosfera del combattimento rivoluzionario, il tenero Eros alato relegato provvisoriamente fra gli accessori, ricomincia a far valere i suoi diritti». Ivi, p. 62. 54 R. GUIDUCCI , La disuguaglianza fra gli uomini, cit., p. 46. 55 Ivi, pp.46-47. 56 PLATONE, Opere politiche, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1953, Repubblica, 460b, p. 328. 57 K. R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, voll. 2, a cura di D. Antiseri, I, Platone totalitario, Armando Armando, Roma 1973. 58 «Familles! Je vous hais! Foyers clos, portes refermées, possessions jalouses du bonheur». Les Nourritures terrestres, Gallimard, Paris 1967, p. 78. 59 Famiglie, vi amo! Politica e vita privata nell’era della globalizzazione, tr. C. Spinoglio, Garzanti, Milano 2008, pp. 62-63. Ritengo opportuno segnalare che uno dei più celebri filosofi politici statunitensi del Novecento, John Rawls, reinterpretando il “principio di fraternità” – assieme alla “libertà” e all’”uguaglianza”, uno dei tre motivi ispiratori della Rivoluzione Francese – scriveva che esso corrisponde «all’idea di non desiderare maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene», come richiesto dal “principio di differenza”, che costituisce uno dei momenti essenziali della dottrina di Rawls. E aggiungeva che «la famiglia, in termini ideali, ma spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in cui il principio di massimizzare la somma dei vantaggi è rifiutato. In generale», concludeva, «i membri di una famiglia non 26 SAGGI desiderano avere dei vantaggi, a meno che ciò non promuova gli interessi dei membri restanti.». Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, tr. U. Santini, Feltrinelli, Milano 1982, p.101. 27 EDITH STEIN. LA COMUNITÀ DI DESTINO di Marina Pia Pellegrino In memoria di mia mamma. 1. Il saggio “Die ontische Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik“ Le analisi di Edith Stein sulla comunità di destino, che vogliamo qui prendere in considerazione, sono contenute in un saggio, apparso nel volume VI delle Edith Steins Werke, mai pubblicato dall’autrice: Die ontische 1 Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik . La sorte di questo testo, come di tutto il materiale inedito della Stein, ritrovato tra le macerie di un convento a Herkenbosch in Olanda, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, e portato in salvo fortunosamente, non permette una classificazione inequivocabilmente certa, né per quanto riguarda la data di composizione né per il titolo. La ricostruzione, in generale, dei manoscritti dell’autrice ha presentato complicazioni anche per il fatto che alcuni dei suoi lavori furono da lei ripresi e rielaborati nel tempo; alcuni manoscritti, di cui l’autrice non aveva previsto la pubblicazione, rappresentano studi iniziali, successivamente approfonditi e confluiti in un altro testo, come il caso per esempio di Potenza e Atto, primo nucleo della sua opera maggiore Essere finito e Essere eterno, che ha tuttavia 2 un’autonomia tale da costituire un’opera a sé . Similmente per il saggio in questione, che contenutisticamente presenta una formulazione dottrinale matura tanto da indurre a pensare che la sua stesura risalga perlomeno agli anni ’30, tempo in cui la Stein era ormai entrata a far parte della chiesa cattolica e si stava confrontando col suo patrimonio filosofico-teologico, si è potuto stabilire, attraverso esami sul materiale d’archivio, che la sua 3 redazione sarebbe precedente e da collocarsi tra il 1920 e il 1922 . Sebbene la lettura di questo saggio rimanga inalterata riguardo ai contenuti qualunque ne sia la datazione e l’analisi dell’autrice vada apprezzata, anche in questo caso, tenendo presente il suo pensiero complessivo, si sposta tuttavia l’angolo visuale da cui ci si pone, considerando come punto di partenza quegli anni friburghesi, dopo la laurea del 1916, che vedono dapprima la 28 SAGGI collaborazione della Stein con Husserl, poi il suo successivo distacco e parallelamente anche il progressivo interesse per questioni di natura religiosa. Come aggancio per una collocazione in questo percorso, teniamo presente la conclusione della tesi di laurea della Stein sul problema dell’Einfühlung, in cui la filosofa si chiede, puramente in quanto fenomenologa, se sia possibile un’entropatia senza supporto delle espressioni corporee dell’altro, in rapporto cioè a persone puramente spirituali: «Ma come stanno adesso le cose in rapporto alle persone puramente spirituali, la cui rappresentazione non implica di per sé alcuna contraddizione? È forse impossibile pensare che tra loro non vi sia qualche relazione? Ci sono stati degli uomini che, in un improvviso cambiamento della loro persona, hanno creduto di esperire l’influsso della grazia divina; altri che nelle loro azioni si sentivano guidati da uno spirito protettore. […] Chi deciderà se qui si tratti di un’esperienza genuina oppure di quella oscurità sulle proprie motivazioni, che abbiamo trovata nel considerare le Idole der Selbsterkenntnis? Ma, forse, in quest’ambito non è già data, con le immagini illusorie di un’esperienza del genere, anche la possibilità eidetica di una vera esperienza? In ogni modo mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia 4 il miglior mezzo per la risposta a questo problema» . Alcune lettere all’amico e fenomenologo Roman Ingarden testimoniano che la Stein ha effettivamente portato avanti questa ricerca, sia sotto il profilo teoretico, come si desume dalla lettera del 30.8.1921 in cui ella informa l’amico che sta lavorando a una trattazione di filosofia della religione (secondo le ricerche è appunto il saggio 5 che ci interessa) , sia con una riflessione personale che l’avvicina sempre di 6 più “ad un Cristianesimo assolutamente positivo” . Pertanto il lavoro della Stein qui in esame, benchè sia uno dei testi dell’autrice forse meno visitati, occupa a nostro avviso un posto rilevante, non solo nella sua produzione fenomenologica, ma come annuncio di un completamento della sua ricerca sul piano ontologico-metafisico, piano non contemplato nel termine husserliano di “ontologie regionali”. Abbiamo scelto il tema della comunità di destino, come nucleo pregnante del saggio, poiché proprio nello stesso arco temporale la Stein sviluppa in altri testi la sua indagine sulla vita associata, che culmina nella 7 comunità , ma ancor più perché l’autrice, per giungervi, attraversa tutto il terreno che riguarda il problema della libertà personale, che ci sembra esemplare punto d’innesto proprio tra il piano fenomenologico e quello ontologico-metafisico. Le riflessioni steiniane in questione fanno emergere anche la capacità della fenomenologa di muoversi in ambiti diversi, sapendoli tenere contemporaneamente sempre distinti. Ciò costituisce una prima messa in forma di quella sua posizione particolare sul rapporto filosofiateologia, che rivestirà un ruolo centrale in Essere finito e Essere eterno: 29 anche là dove la filosofia incontra questioni a cui non può rispondere con i propri mezzi e accetta di venire integrata dalla dottrina di fede, non per questo la si deve ritenere teologia. Il suo compito è di riconoscere sé e altro da sé: essa rimane lo spazio intangibile del riconoscimento. a) L’essere umano tra natura e grazia. La complessità strutturale dell’essere umano viene colta qui in funzione della possibilità del passaggio al regno della grazia. Due sono le sfere, denominate “regni”, in cui la vita umana può svilupparsi: il regno della natura e quello della grazia. Il motivo per cui si parla di “regni” lo si comprende in modo particolare quando l’autrice sottolinea che il passaggio dall’uno all’altro non può avvenire se non attraverso un atto libero del soggetto, così che tra il regno della natura e quello della grazia emerge manifestamente quello della libertà. La Stein avverte che a questo proposito, però, non si può parlare di un regno in senso stretto: «Parlare di un regno della libertà è perciò realmente impossibile, in quanto questo regno non ha dimensioni, esso è ridotto ad un punto. La persona, presa unicamente come soggetto libero, non è capace di compiere alcun movimento dell’anima, tutta la sua vita interiore si svolge in un regno che ha un’estensione e l’anima ha 8 bisogno di legarsi ad un tale regno per potersi dispiegare in esso.» Un regno comporta dunque “estensione”, che permette l’espandersi della vita dell’anima e il suo riempimento con dei contenuti, ma anche un dominio esercitato da un signore: nel caso del regno della grazia, si tratta di una signoria d’amore, che non desidera il possesso dell’anima, ma donarle la sua pienezza; per il regno della natura, in alcuni casi sembra che possa esercitarvi un dominio un tipo d’uomo di cui abbiamo una raffigurazione anche in personaggi letterari, come il Faust di Goethe o come Prospero della “Tempesta” di Shakespeare, che apparentemente dominano la natura e sembrano essere massimamente liberi, in realtà sono succubi di una potenza estranea, quella del maligno, che vuole impossessarsi delle anime. Un’autentica signoria a favore del regno naturale, analoga in qualche modo a quella divina, può essere esercitata dall’essere umano redento, il quale, unico essere che possa passare dalla natura alla grazia con una scelta responsabile, è capace di partecipare, anzi è chiamato a farlo, l’azione liberante della salvezza alle altre creature naturali: «L’anima dell’animale cupamente rinchiusa in se stessa e tuttavia eternamente inquieta di uscire da sé desidera una sicurezza che solo la Grazia può darle. Ma non può capire che cosa gli manchi, né l’impulso cupo è capace di diventare in esso un desiderio finalizzato e un atto liberante. La salvezza gli deve venire totalmente dall’esterno. Può giungere solo da un essere che trovi da sé un accesso alla sua anima e che, da parte sua, abbia con esso un certo legame 30 SAGGI di comprensione. L’uomo è chiamato ad essere il redentore di tutte le creature. Può esserlo nella misura in cui egli stesso è salvato. Il santo comprende il linguaggio degli animali, egli sa farsi capire da essi e fratello 9 lupo si sottomette a lui obbedendo» . L’essere umano, per quanto onticamente faccia anche parte della natura, deve ergersi su di essa, passare da ciò che è esteriore, corporeopsichico, al nucleo più interno della sua anima, a ciò che di più spirituale c’è in lui, se vuole trovare il “luogo” in cui stare presso di sé. La fenomenologia dei due “regni” fa emergere livelli diversi di profondità della struttura antropologica, con le loro diverse gradazioni di luminosità per la coscienza del soggetto e, di conseguenza, diverse configurazioni possibili dell’anima e del grado di libertà raggiunto dall’io. Nella vita propriamente naturale-spontanea, il soggetto è indotto a reagire alle impressioni che mettono in movimento l’anima dall’esterno, perciò le sue prese di posizione sono passive, non libere: manca la regia (Inszenierung) di un ultimo centro interiore. A questa vita se ne contrappone una essenzialmente diversa: quella in cui l’anima non è più messa immediatamente in moto dalle impressioni, ma è “guidata dall’alto”, riceve ancora le impressioni dal mondo, ma le coglie da quel centro profondo per mezzo del quale è ancorata al regno della grazia. Vi è, poi, un altro tipo di vita naturale, non caratterizzata da un meccanismo inconsapevole, ma regolata dalla luce della ragione. E’ chiaro che tra questa forma e la precedente vi è una differenza sostanziale: qui siamo già in una vita spirituale. «Se il discorso riguardava le reazioni naturali, non deve per questo limitarsi all’oscura vita psichica, bensì deve riguardare allo stesso tempo qualcosa che si trova anche nella vita spirituale. Tra le impressioni e le reazioni esistono rapporti che noi designiamo come legge della ragione. […] Finché la vita spirituale si svolge nella forma della motivazione, cioè nella forma della risposta razionale alle impressioni, il soggetto spirituale sottostà senz’altro alle leggi della ragione, allo stesso modo in cui, ovviamente, tutti gli eventi naturali obbediscono alle leggi naturali. Riguardo a quest’ordine naturale possiamo parlare di un secondo regno della natura o, in maniera più pregnante, di un regno della ragione naturale. […] Il regno della ragione non è una sfera spirituale che fluisce da un centro personale che lo qualifica in maniera particolare. Solo in tali sfere 10 l’anima può essere realmente al sicuro ed essere penetrata dalla libertà.» È proprio in questo tipo di vita che è possibile nient’altro che una giustizia retributiva, la quale non conduce al regno della grazia, né ad un’autentica comunità di destino. Lo spirito della luce, lo Spirito Santo, infatti trasforma, abitando il suo nucleo, le reazioni naturali-psichiche dell’anima: «Si danno reazioni che attraverso di Lui vengono eliminate anche dove 31 abbiano origine dalla ragione naturale: odio, desiderio di vendetta, e altre simili. Si danno anche atti spirituali e stati dell’anima che sono le forme specifiche della sua vita attuale: amore, misericordia, perdono, beatitudine, pace. Essi si presentano anche là dove, secondo la ragione naturale, non ve ne sarebbe alcun motivo. Per questo la pace di Dio è al di sopra di tutte le ragioni, ed è per questo che, per tutti coloro che ne vivono fuori, il regno di 11 Dio deve essere una follia» Anche il “regno” della ragione naturale non è in definitiva un autentico regno, poichè non ha uno spirito personale che ne costituisca il centro. La Stein sottolinea come la parola spirito qui significhi da un lato una persona spirituale, dall’altro una sfera spirituale, e come i rapporti che si possono stabilire tra le due si basino sul fatto che, da una parte, ogni sfera spirituale scaturisce da una persona ed in essa ha il suo centro e che, dall’altra, una persona può essere al sicuro in una sfera spirituale che non scaturisca da lei stessa. Il regno della grazia è la sfera spirituale che emana da Dio. Dunque la vita psichica guidata dalla conoscenza sembra elevarsi al di sopra di quella animale, ma è questa una luce che non deve essere sopravvalutata; quanto più la psiche rimane natura, tanto più risulta vuota e chiusa a ciò che può animarla e illuminarla in profondità. Anche le operazioni dell’intelletto, come il soggetto libero preso di per sé, sono vuote e devono i loro contenuti a sfere che sono da esso indipendenti, perciò pure nel caso della vita naturale guidata dalla ragione la psiche risulta indifesa. Riguardo l’entrata del soggetto in un regno spirituale e il suo dedicarsi allo spirito che ne è il signore, esiste l’estrema possibilità di darsi allo spirito del male e, in questo caso, come si è detto, l’anima cade in una schiavitù peggiore di quella dello stadio naturale, poiché le sue reazioni non sono neanche più naturali: se è naturale amare ciò che è amabile e odiare ciò che è detestabile, odiare ciò che merita amore non è più naturale ma diabolico. b) Fenomenologia e ontologia della libertà. Un’analisi degli atti liberi la Stein la conduce nella sua seconda pubblicazione, un lavoro di capillare indagine fenomenologica riguardante il 12 problema della causalità nella psiche , elaborato nel 1918 e pubblicato nel 1922 nello Jahrbuch di Husserl: nella sfera del volere e dell’agire troviamo gli 13 atti liberi “nei quali l’io non solo vive, ma è padrone dei propri atti” . Tali atti possono sorgere da un proposito e devono essere avviati da un fiat, un’ ”ora!”, che interiormente mi dico al presentarsi del momento favorevole. Senza ripercorrere la complessa analisi condotta dall’autrice, questo passaggio ci sembra importante al fine di chiarire meglio ciò che è sotteso a quel modo d’essere “come un punto” proprio della libertà, prima evidenziato. 32 SAGGI L’ “ora!” del “fiat”, che appare come punto di sospensione fra ciò che è passato e ciò che non è ancora e sembra concentrare l’inarrestabile flusso di coscienza in un istantaneo presente, è carico di potenzialità che la Stein approfondirà sempre più. Inoltre il “fiat” come spinta interna, si nutre della forza vitale determinata, sia sensibile che spirituale, propria di un soggetto, rinviando così immediatamente all’unicità della persona. Lasciarsi riempire dalla sfera spirituale divina e votarsi al suo Signore significa per l’anima essere difesa da tutto ciò che può insidiarla, essere perciò recintata e liberata. È bene soffermarci su ciò che la Stein evidenzia nel significato del termine liberato con cui si caratterizza l’habitus del soggetto che è ancorato all’alto, l’habitus interiore dei figli di Dio: «Il meccanismo della vita naturale dell’anima non raggiunge quel centro che è il luogo della libertà e dell’origine dell’attività. L’anima guidata è tesa con questo centro verso l’alto, qui ne riceve le direttive e, obbedendo, si lascia muovere da esse. L’attività è sospesa al suo punto d’origine; della libertà, nel 14 luogo della libertà non vien fatto alcun uso.» . L’autrice si chiede se il rinunciare alla libertà e abbandonarsi non sia esso stesso un atto libero: per poter essere liberati bisogna essere già liberi? L’essere liberato, per un soggetto che vive imbrigliato nel regno della natura, comporta necessariamente un atto di libera collaborazione, altrimenti non può esservi passaggio ad un regno diverso da quello naturale. D’altra parte solo un essere in cui abitano già il bene e il male può cadere in tentazione, o consentire alla grazia. Ciò viene illuminato attraverso l’esempio di Cristo, al quale il tentatore viene dal di fuori: Cristo non cade in tentazione e non deve difendersi da essa, ma comprendendola e dandone risposta adeguata, la svela e mostra come l’uomo debba comportarsi per vincerla. C’è solo una tentazione a cui l’uomo integro e l’angelo possono cedere, di fronte alla quale, quindi, la libertà in quanto tale è esposta: quella di consistere in se stesso; essa è l’unica che è rivolta contro Dio e nient’altro e da cui il male stesso scaturisce. Se si fosse riempiti solo da Dio non si potrebbe cadere in tentazione, come vediamo per Cristo, viceversa se vi fosse in noi soltanto il male non potremmo resistergli. Nel caso di Cristo la libertà è rivolta del tutto al bene e a favore delle creature, come l’autrice metterà in luce nella figura del Mediatore universale. La Stein si concentra su un’analisi fenomenologica che svolge il prezioso compito di portare alla luce delle dinamiche interiori, di districarle, riconoscendo allo stesso tempo che la loro ragione ultima rimane misteriosa e comporta il passaggio ad una rivelazione altra: «La discesa della Grazia nell’anima umana è un atto libero dell’amore divino, e non vi sono limiti alla sua estensione.Quali strade scelga per operare, perché cerchi di entrare in un’anima e da un’altra si lasci cercare, se, come e perché operi anche 33 laddove i nostri occhi non scorgono alcun effetto, sono tutte domande che sfuggono alla comprensione razionale. A noi è dato solo un riconoscimento delle possibilità in linea di principio e, sul fondamento di esse, una 15 comprensione dei fatti a noi accessibili.» Nell’ambito dei vissuti, uno in particolare ha un carattere rivelatore: 16 l’angoscia “di cui è piena ogni anima insicura” . Si tratta di un’angoscia metafisica, che non è legata a qualcosa, non è angoscia per qualcosa, ma in essa viene sentita la peccaminosità dell’anima. «Infatti, non appena l’anima avverte veramente l’angoscia e la peccaminosità, non può più liberarsene […]. Rimane allora fermamente legata a sé […]. L’essere legata all’indietro, che non contrasta con l’allontanamento da se stesso, è una caratteristica 17 primaria dell’angoscia.» Il carattere metafisico dell’angoscia sarà ancora messo in luce in alcune pagine densissime di Potenza e Atto, in riferimento alla possibilità di peccare mortalmente, stato che si avvicina a quello della dannazione: si è angosciati per la minaccia di annientamento che si avverte nel cuore del proprio essere. In questo testo tutta la riflessione sul peccato è trattata dal punto di vista ontologico-metafisico, poiché decidere contro Dio, essere assoluto, significa decidersi per il non essere, e si ribadisce, perciò, che le decisioni sono “vette nella vita della persona”. Approfondendo poi anche questo non-essere, la Stein riconosce che esso non può equivalere a un niente, così come non lo è il modo d’essere dei demoni e dei dannati; non può provenire dal nulla, bensì da un atto originario di negazione da parte di 18 un essente. Quanto più l’anima si svuota di sé, tanto più si apre il varco perché entri la grazia per cui veramente può realizzarsi l’atto propriamente libero: l’abbandono (Selbsthingabe), attraverso il quale la persona raccoglie tutto il suo essere in un punto, dopo essere giunta, libera dal meccanismo psicofisico, nel nucleo dell’anima e da qui aver preso in mano tutta se stessa per darsi. «L’abbandono è l’atto più libero della libertà. Colui che, totalmente incurante di sé – della propria libertà e individualità – si consegna alla Grazia, penetra in essa, completamente libero e totalmente se stesso. Si delinea così l’impossibilità di trovare la strada finchè lo sguardo è fisso su di sé. L’angoscia può spingere il peccatore tra le braccia della Grazia. L’angoscia spinge da dietro. Ma se egli si volge completamente alla Grazia, perderà 19 l’angoscia perché la Grazia lo libera dal peccato e dall’angoscia.» Per quanto riguarda questa fenomenologia della libertà, che apre parimenti alla conoscenza di livelli diversi di consistenza d’essere, la Stein si pone anche dal lato della grazia e della sua libertà. Può la grazia operare senza il concorso della libertà umana? L’autrice risponde negativamente, ma vuole andare a fondo di questa risposta perché essa implica, da un lato, ammettere un limite per la libertà di Dio e, dall’altro, ammettere la possibilità 34 SAGGI di una resistenza assoluta alla grazia e quindi di un’esclusione dalla salvezza. Se quest’ultima in linea di principio non si può negare, come si è visto anche dalla possibilità estrema di darsi al male e alle reazioni che ne scaturiscono, di fatto può diventare infinitamente improbabile se si guardano gli effetti che la grazia è in grado di produrre nell’anima. Pertanto, se la libertà umana non può essere distrutta nemmeno da Dio, può essere da Lui attirata, non avendo limiti l’amore di Dio e la portata del suo libero agire. Questo amore viene colto nell’atto di fede, alla cui delucidazione la Stein dedica l’ultimo paragrafo del saggio. Da un lato l’essere afferrati da Dio è qualcosa a cui non ci si può sottrarre, dall’altro per passare al vero e proprio atto di fede bisogna tenersi alla mano che ci afferra. Solo così trovo in quella “potenza incomparabile” che mi sta dinnanzi, il Dio infinitamente buono che mi 20 sostiene . Dunque se Dio si arresta, per dir così, di fronte alla libertà di quell’essere che Egli stesso ha creato libero, tuttavia la sua Presenza è ineludibile e ciò è reso manifesto anche dall’insopprimibilità dell’angoscia, anche quando l’io cerchi di sfuggirle gettandosi nella vita periferica. La fede nella sconfinatezza della grazia giustifica poi anche la speranza nell’universalità della salvezza. Tutto ciò introduce al problema della mediazione, in cui si scoprono all’opera le due libertà, quella umana e quella divina ed, altresì, che la possibilità della mediazione implica che la salvezza sia questione comune a tutti gli uomini. 35 2. La Schicksalsgemeinschaft. Un mediatore può condurre un altro alla grazia senza un’attività diretta, per il semplice fatto che da lui emana la luce divina, di cui è riempito, e attira altri sulla stessa via. Ma quando il mediatore collabora attivamente alla salvezza di un altro, si rende evidente un duplice limite di questa attività: non si può costringere nessuno a salvarsi, né pretendere che la grazia lo faccia. Tuttavia questo limite s’incontra per l’appunto con un amore infinito e, giusta l’affermazione della Stein, il fatto che la libertà divina si sottometta, per dir così, alla preghiera di uno per la salvezza di un altro, è la “realtà più 21 stupenda della vita religiosa”, anche se eccedente ogni comprensione. Anche a questo proposito un’ulteriore chiarificazione va ricercata nelle pieghe del complessivo pensiero della Stein: il rispetto della libertà altrui non è limite formale, ma è la sostanza intrinseca della relazione di entropatia, che proviene dal riconoscimento dell’alterità come reale alter ego, tale perciò da produrre non solo una relazione legalisticamente intesa, ma il nucleo su cui può sorgere una comunità di persone che reciprocamente si riconoscono nel 22 loro essere . La responsabilità per la salvezza propria e altrui e la libertà vanno di pari passo: «È singolare come proprio ciò che isola totalmente l’uomo e lo pone totalmente su se stesso – e questo fa la libertà – lo lega, allo stesso tempo, indissolubilmente a tutti gli altri e fonda una vera comunità unita dal medesimo destino (Schicksalsgemeinschaft). Egli è responsabile della propria salvezza perché essa non è raggiungibile senza la sua collaborazione […] . E allo stesso tempo egli è responsabile della salvezza di 23 tutti gli altri e tutti gli altri della sua» . Questa reciproca responsabilità è appunto nel più alto grado formatrice di comunità e su di essa si fonda la Chiesa, che si costituisce per null’altro che per questo stare dinnanzi a Dio uno per tutti e tutti per uno. Cristo è l’unico sostituto di tutti davanti a Dio perché la pienezza dell’amore di Dio si è incarnata in Lui ed è, quindi, vero capo della comunità, la Chiesa. Accanto a questa sostituzione universale e sulla base di essa hanno senso i legami di patrocinio spirituale per il prossimo ed anche la possibilità di stare dinnanzi a Dio al posto di un altro, prendendo su di sé, la sofferenza per la punizione che questi si è meritato per una colpa. La Stein si rifà qui a questioni la cui trattazione ha svolto nella 24 sua indagine sullo stato, elaborata negli stessi anni di questo saggio : si tratta in particolare dell’esame di colpa/pena il cui nesso richiama quello peccato/punizione. Anche in questo scritto l’autrice si era resa ben conto dell’intersezione di ambiti diversi, giuridico-etico-religioso, e della necessità di mantenerli rigorosamente distinti. Ella aveva trovato ispirazione nella sfera 25 del diritto puro, indicata per la prima volta da Adolf Reinach , in cui appare evidente che ci sono stati-di-cose riguardanti il diritto, che sono indipendenti dall’arbitrio e dal fatto di essere riconosciuti dal diritto positivo. Nel diritto puro entrano quei momenti essenziali che Husserl aveva ben evidenziato come momenti costitutivi. Bisogna sempre partire dagli atti liberi attraverso i quali si introducono nel mondo stati-di-cose negativi, o ingiusti e allora si ha una colpa che richiede una punizione, o stati-di-cose positivi per cui si ha un merito che richiede una ricompensa. Ma mentre la pena di per sé non è adatta alla sostituzione, lo è la sofferenza, nei confronti della quale è possibile un atto libero, cioè assumersela. In questa assunzione volontaria è possibile che al colpevole si sostituisca un altro. Sulla base del fatto che solo alla figura del giudice compete la punizione, anche per la sostituzione la sua autorizzazione sarebbe necessaria; questo non si trova nel diritto positivo, ma se il giudice è Dio, unico Signore del mondo, a cui spetta di mantenere l’ordine attraverso l’equilibrio tra colpa-pena, merito-ricompensa, Egli può a suo gradimento accettare la sostituzione e solo a Lui si può rivolgere la preghiera che la accetti. La Stein sottolinea che in questo caso emerge come i rapporti giuridici puri si riempiano di senso religioso; dall’ontologia si apre la strada per considerazioni metafisiche, le quali incontrano la teologia e il dato rivelato e l’autrice percorre tutti questi ambiti. Al tempo stesso non va dimenticato ciò che nell’opera sullo stato ella parimenti sottolinea, che anche 36 SAGGI il rimando della punizione nel suo senso proprio a Dio, come supremo giudice, non la relega in un ambito soltanto etico. Stein ribadisce con forza la diversità delle sfere rispettive del diritto puro, del diritto positivo, della morale e insieme ne coglie l’intersezione nella persona come soggetto capace di atti 26 liberi . Come si può chiedere nella preghiera di assumersi la sofferenza per la colpa di un altro, così si possono offrire i meriti, insiti nelle opere buone compiute, e chiedere che venga data ad un altro la ricompensa per questi dovuta. Questo non vuol dire, però, che ci si possa richiamare ai propri meriti dinnanzi a Dio, sia perché non si può mai essere certi di averne qualcuno, sia 27 perché non si possono fare affari (Geschäfte machen) con Dio . Che si rivolga la propria supplica per un altro, questo è gradito a Dio, perciò non solo il santo può essere intermediario o sostituto dinnanzi al Signore, ma anche il peccatore, che ha il diritto di pregare per un altro e chiedere per lui la grazia: «Prima di tutto perché il Signore non è solo giusto, ma anche misericordioso. E poi perché non ci può essere opera più gradita a Dio che 28 una preghiera devota.» Nessuno si deve sentire escluso dalla misericordia divina e dalla corresponsabilità per l’estensione della grazia ad ogni altro; per di più la responsabilità vale anche per altre forme di vita. Per quanto riguarda il mondo animale, l’essere umano liberato è capace, come si è detto, di comprendere l’inquietudine cupa dell’animale perché si è sollevato sul mondo della natura, anche se la responsabilità per la redenzione del mondo animale è assolutamente diversa dalla corresponsabilità per gli altri essere umani. Per ciò che riguarda le creature inanimate, non toccate da alcun tipo di angoscia metafisica, nemmeno quella inconsapevole e oscura dell’animale, è in gioco una qualche responsabilità dell’uomo? In queste creature è posto un senso originario, la loro forma, che si manifesta nel loro dispiegamento nello spazio, ma poiché esse non si muovono come gli esseri animati, non essendo formate a partire dall’interno, non sono capaci di sentire, non possono evitare le aggressioni esterne e non sono capaci di conservarsi, ma devono essere conservate. «Il dominio della natura fondato sulla conoscenza fa sì che l’uomo conservi le creature nel senso ontologico inscritto in loro. La tecnica moderna, nella misura in cui vede il proprio compito nel sottomettere la natura all’uomo e nel metterla al servizio dei suoi desideri naturali, senza preoccuparsi del pensiero creatore e in contrasto stridente con esso, rappresenta una caduta radicale dal servizio originariamente ad essa prescritto. L’uomo è responsabile di tutto ciò che, nella natura, non è come dovrebbe essere; l’allontanamento della natura dal progetto del creatore è a lui imputabile. Ricordiamo ancora che, secondo la sua struttura, l’uomo è 29 capace di portare una simile responsabilità.» 37 Abbandono e preghiera ci sono apparsi come atti fondamentali da parte del soggetto per l’incontro della libertà umana con la grazia divina. Ma c’è qualcosa di più originario ancora dell’atto, libero per eccellenza, dell’abbandono di sè? Se l’abbandono richiede la fatica di un cammino, l’attraversamento della propria interiorità e la progressiva presa di coscienza delle sue pieghe anche più interne per potersi “prendere in mano” e consegnarsi, c’è un punto che prelude al cammino, che si pone tra attività e passività del soggetto? Proprio in Psicologia e scienze dello spirito, la Stein parla di un Erlebnis, lo “stato di riposo in Dio”, un abbandono di maggior passività, si potrebbe dire, consistente in una semplice recettività: «Esiste uno stato di riposo in Dio, di totale rilassamento di ogni attività spirituale, in cui non si fanno piani, non si prendono decisioni e non solo non si agisce, ma si rimette ogni cosa futura alla volontà divina e ci si “abbandona” completamente al “destino”. Si riceve questo stato dopo che un vissuto, che ha superato le mie forze, ha completamente consumato la forza vitale spirituale e ha privato la persona di ogni attività. Il riposo in Dio, rispetto al venir meno dell’attività per la mancanza di forza vitale, è qualcosa di completamente nuovo e particolare. Il venir meno era caratterizzato da un silenzio di morte, al suo posto si presenta ora un senso di sicurezza, della liberazione da ogni preoccupazione e da ogni responsabilità e impegno ad agire. […] Questo flusso vivente appare come l’afflusso di un’attività e di una forza che non è mia e che diventa attiva in me senza alcuna mia richiesta personale. L’unico presupposto per una tale rinascita spirituale è una particolare capacità ricettiva come quella che si fonda sulla struttura della 30 persona che si è liberata dal meccanismo psichico.» L’esempio che la Stein adopera per illuminare questo afflusso, si rifà alla relazione interpersonale: il rapporto con persone che hanno un’intensa vitalità può esercitare un’azione vitale su chi è stanco e non presuppone alcuna attività da parte del soggetto. Siamo risospinti alle questioni centrali del saggio preso in considerazione: la ricettività del soggetto richiede una struttura ontica non solo corporeopsichica, ma anche psichico-spirituale e un io che in sé è relazione. Vogliamo mettere in evidenza, a conclusione della nostra lettura del saggio della Stein, come saltino subito agli occhi quei termini, ad esempio quello di angoscia, che ci rinviano ad altri autori; se un confronto può 31 senz’altro essere fatto e accompagnare la lettura , tuttavia il significato proprio dell’analisi steiniana rimane immutato: ella si muove autonomamente, in aderenza a ciò che vuole esaminare, così come si manifesta, ben sapendo che anche altri hanno trattato le stesse questioni, ma che è l’appello intrinseco alla cosa stessa che sollecita anzitutto la risposta di un pensatore e che proprio per questo il suo cammino non si compie mai in solitudine. 38 SAGGI 1 E. STEIN, Die ontische Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik in Welt und Person. Beitrag zum christlichen Wahrheitsstreben, Werke VI, Editions Nauwelaerts - Verlag Herder, Louvain-Freiburg 1962; tr. it. di M. D’Ambra, La struttura ontica della persona e la problematica della sua conoscenza in : E. STEIN, Natura Persona Mistica – Per una ricerca cristiana della verità, a cura di A. Ales Bello, ed. Città Nuova, Roma 1997. 2 E. STEIN, Potenz und Akt – Studien zu einer Philosophie des Seins, Werke XVIII, Verlag Herder, Freiburg 1998, tr.it. Potenza e atto – Studi per una filosofia dell’essere di A. Caputo, a cura di Hans Rainer Sepp, prefaz. di A. Ales Bello, ed. Città Nuova, Roma 2003. 3 Si confronti la ricostruzione particolare di questo saggio di Edith Stein, il cui titolo originale sarebbe “Natur, Freiheit und Gnade”, nello studio di Claudia Mariele Wulf: “Rekonstruktion und Neudatierung einiger früher Werke Edith Steins” in: Beckmann Beate / Gerl-Falkovitz, Hanna-Barbara (Hg.): Edith Stein. Themen, Bezüge, Dokumente. Orbis phänomenologicus, Perspektiven 1,Verlag Königshausen § Neumann, Würzburg 2003, S. 249-267. 4 Cfr. E. STEIN, Zum Problem der Einfühlung, Buchdruckerei des Waisenhauses, Halle 1917, S. 131-132; tr. it. Il problema dell’empatia, di E. e E. Costantini, prefaz. di A. Ales Bello, Studium, Roma 1998², pp. 229-230. 5 E. STEIN, Briefe an Roman Ingarden 1917-1938, Werke XIV, Verlag Herder, Freiburg 1991, Br. 76 , S.139 ff., tr. it. Lettere a Roman Ingarden 1917-1931 di E. ed E. Costantini, revisione di Anna Maria Pezzella, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, p.183 ss. 6 E. STEIN, Ebd., Br. 53, 10.10.1918, S.106 ff., tr. it. p. 132 ss. Come testimonianza del cammino che portò la Stein ad occuparsi sempre più di questioni religiose e del Cristianesimo in particolare, sono preziose anche quelle lettere in cui ella parla del lascito di Adolf Reinach che, dopo la sua la morte, avvenuta nella prima guerra mondiale, ha avuto l’incarico di riordinare. Non solo appare assai significativa, proprio sotto il profilo religioso, la ripercussione nell’animo della Stein della tragica morte dell’amico, ma anche il riferimento ad alcuni dei suoi ultimi scritti riguardanti questioni di filosofia della religione, (si confronti Br. 27, 12.2.1918, S. 70 ff., p.78 ss. nella tr. it. citata). 7 Cfr. E. STEIN, Individuum und Gemeinschaft in Beiträge zur philosophischen Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», V, Halle 1922; ristampa Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1970²; tr. it. Individuo e comunità in Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, di A. Maria Pezzella, Città Nuova, Roma 1999². 8 Cfr. E. STEIN, Die ontische Struktur der Person…cit. , S. 140; tr. it. cit., p.55. 9 Ivi,, S. 169; tr. it., p. 84. 10 Ivi , S. 148-149; tr. it., pp. 64-65. 11 Ivi, S. 151-152; tr.it., p. 67. 12 Si tratta dei già citati Beiträge… 13 Ivi, S. 46; tr.it., p. 84. 14 E. STEIN, Die ontische…, S. 138 ; tr. it., p. 53. 15 Ivi, S. 159; tr. it., p.75. 16 Ivi, S. 155; p.70. 39 17 Ivi, S. 155; p. 71. E. STEIN , Potenz und Akt cit., S. 139 ff. ; p. 212 ss. ID., Die ontische… cit, S. 156; p. 72. 20 Ivi, si confronti S. 192; pp. 108-109 21 Ivi, S.161; p.77. 22 Si confronti a questo proposito, L. AVITABILE, Il ruolo della comunità nella vita sociale, politica e religiosa in: A. ALES BELLO – A. MARIA PEZZELLA, Edith Stein. Comunità e mondo della vita. Società Diritto Religione. Lateran University Press, Città del Vaticano, 2008. 23 E. STEIN, Die ontische…, S. 162-163; tr. it., p.78. 24 Si confronti a questo proposito la lettera di Edith Stein a Roman Ingarden già citata, tr. it. p. 184. E. STEIN, Eine Untersuchung über den Staat in Jahrbuch fürPhilosophie und phänomenologische Forschung, vol. VII, Halle 1925. E’ stato ripubblicato insieme al saggio Beiträge… cit. dall’editore M. Niemeyer, Tübingen 1970; tr. it. Una ricerca sullo Stato di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1999². 25 A. REINACH, Die apriorischen Grundlagendes bürgerlichen Rechts in Gesammelten Schriften, Halle, 1921, tr.it. I fondamenti a priori del diritto civile, di Daniela Falcioni, Giuffrè Editore, Milano, 1990. 26 Si confronti Eine Untersuchung über den Staat cit., S. 102 ff. ; tr.it. p. 142 ss. 27 Cfr. E. STEIN, Die ontische…S. 167-168; tr. it. p. 83. 28 Ibidem. 29 Ivi, S. 171; tr.it. p.86-87. 30 Cfr. Beiträge… cit. S. 76; tr. it. pp.115-116. 31 Si ricorda che nello stesso vol. delle Opere della Stein in cui è stato pubblicato il presente saggio, appare anche lo studio più importante dell’autrice su Heidegger: E. STEIN, Martin Heideggers Existentialphilosophie in Welt und Person. Beitrag zum christlichen Wahrheitsstreben, Werke VI, Editions Nauwelaerts-Verlag Herder, Louvain-Freiburg 1962, S. 69-135; tr. it. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger di A. Maria Pezzella in La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1993, pp. 153-226. 18 19 40 L’approccio allo studio della filosofia di Feuerbach suggerisce di accettare il dato di fatto, a testimonianza della sua natura articolata e per nulla riducibile a formule precostituite, che essa è intimamente animata da un’evoluzione concettuale, strutturata di fasi differenti, ognuna con una sua peculiarità, pertanto esigenti chiavi di lettura specifiche al fine di delucidarne le questioni salienti. Appare, a tal fine, doveroso estendere la valenza di questa considerazione introduttiva anche per quanto concerne il confronto che Feuerbach stesso ha instaurato con l’idealismo tedesco del XIX secolo, cercando di contribuire a dissolvere un’immagine storiografica, fin troppo abusata, di netta cesura polemica fra Feuerbach e le massime sintesi teoriche di questa filosofia, conseguenza ovvia di certe vulgate ermeneutiche, eccessivamente dimentiche della gradualità dei passaggi, delle trasformazioni concettuali, anche e soprattutto tipiche di quei filosofi vittime, loro malgrado, per diversi motivi e a prescindere dai loro stessi intendimenti, di facili ed esiziali etichettature. Da qui la forte esigenza, innanzitutto, di ripercorrere la linea evolutiva del pensiero di Feurbach in merito ai suoi giudizi espressi su Hegel e su Fichte, constatando l’iniziale ammirazione per l’idealismo, seguita da una critica centrata soprattutto su Hegel, culminante in una personale elaborazione categoriale del “Gattung”, fino all’ultima fase in cui si evince con una certa chiarezza la radicalizzazione della critica all’idealismo nei termini di un’accentuata enfatizzazione materialistica. L’esclusione di una trattazione specifica della critica feurbachiana a Schelling trova la sua giustificazione nei contorni piuttosto definiti di tale critica, pertanto, non appare suscettibile di successivi chiarimenti bensì di una succinta ricostruzione. La critica a Schelling prende corpo intorno al 1830, in particolare, è la prospettiva della filosofia positiva a costituire il bersaglio polemico di Feuerbach, che contesta la possibilità di conciliare cristianesimo, filosofia e scienza. La radicalizzazione di questa polemica inizia intorno al 1838, in occasione della pubblicazione del Boyle, all’epoca della collaborazione con Ruge e Echtermeyer e assume una certa articolazione argomentativa nel X capitolo de L’Essenza del Cristianesimo, in cui Schelling è accostato a Bohme, essendo considerato l’artefice di una bislacca teoria teocosmogonica, in cui da Dio, puro spirito e luminosa autocoscienza, si SAGGI POLEMICA ED EREDITÀ PROBLEMATICA DELL’IDEALISMO TEDESCO NELLA FILOSOFIA DI LUDWIG FEUERBACH di Francesco Clemente 41 deduce la natura, che è al contrario, confusa, oscura, priva di ordine, giustificando tale derivazione con l’assunzione l’esistenza di un elemento impuro in Dio stesso. L’esplicito riferimento è quello concernente le schellinghiane Ricerche sull’essenza della libertà. In secondo luogo, all’interno di questa ricostruzione far emergere il più possibile quali aspetti della filosofia di Feurbach sono stati espressamente finalizzati al confronto e alle polemiche con Hegel e con Fichte. Il difficile punto di partenza è: Che cosa intende Feuerbach per idealismo? Per avere un quadro dell’evoluzione di giudizio che Feuerbach ha compiuto dell’idealismo tedesco è opportuno considerare in prima battuta il De Communitate, Infinitate, Unitate atque rationis, lo scritto del 1828 con cui il filosofo consegue il diploma in filosofia all’università di Erlagen. L’interesse dell’opera consiste nella polemica con la filosofia critica poiché “l’impulso alla conoscenza infinita dimostra la necessità e la possibilità di conoscere l’assoluto contro la filosofia critica, così come la forza di gravità dimostra la sua esistenza attraverso la propria capacità 1 astrattiva”. Più specificatamente la polemica con il criticismo è incardinata sul rifiuto dell’ipotesi di stabilire la limitatezza della ragione, poiché non si può percepire un limite che non sia pensabile, per cui “la dissertazione conclude affermando che l’impossibilità della ragione possa essere intesa in qualche 2 modo come limitata”. In questa cornice teorica spicca il giudizio sulla filosofia fichtiana. Fichte è additato come filosofo di profonda originalità, l’artefice di un’autentica impronta idealistica in ambito speculativo, il “Messia della 3 ragione speculativa”, il “Genio idealistico” , promotore di soluzioni reali per il 4 superamento della “contrapposizione fra soggetto e oggetto” , riuscendo a svecchiare l’immagine stessa della speculazione attraverso l’idea del pensiero in termini di fungenza e attività. Al contrario l’osservazione per cui “l’Ascheri e il Cesa hanno fatto notare come la prospettiva della dissertazione, con la condanna del finito e del sensibile, sia stata successivamente rovesciata nella concezione antropologica a tinte 5 naturalistiche degli anni maturi” , sembra suggerire l’ipotesi che i giudizi di Feuerbach sull’idealismo risentano di un’evoluzione, che costituisce di fatto un indicatore dei mutamenti concettuali all’interno della stessa filosofia feuerbachiana. L’incidenza dell’apparato concettuale hegeliano sulla filosofia genetico - critica, anche nelle sue fasi intermedie di sviluppo, è tangibile nel momento in cui è sufficiente riferirsi alla nota categoria del “Gattung” di matrice hegeliana. La formulazione feurbachiana della categoria di “genere” matura grazie agli apporti della Fenomenologia dello Spirito, della Scienza della Logica, e dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, assumendo probabilmente una dignità razionale neanche rinvenibile in Hegel stesso. Tuttavia in tale ripresa emerge il ruolo influente dell’ermeneutica 42 SAGGI religiosa di Strass, che avrebbe consentito a Feuerbach di conferire a questa categoria una curvatura spiccatamente antropologica: “L’interpretazione cristologia di Strass aveva infatti ripreso tale termine hegeliano, interpretando die Idee der Gattung come sinonimo di Menscheit, prosegue lo sforzo di ‘realizzare’ l’hegelismo, di tradurre cioè in chiave antropologica la filosofia 6 hegeliana.” L’enfatizzazione della categoria del “Gattung” non è il mero residuo concettuale della lezione appresa da un allievo da un suo maestro, perché essa è funzionale all’instaurazione della strategia di della riappropriazione di quell’umanità andata smarrita nei fumi alienanti della religione. Il “Gattung” è lo scrigno categoriale che custodisce in sé quell’essenza infinita, ma di natura umana, che l’aberrazione proiettiva ha relegato oltre l’umano. Esso è “quell’al di qua” che costituisce il tesoro perduto dell’uomo. A dimostrazione della rilevanza di tale categoria, non è casuale che anche gli ultimi approdi della Feuerbach-forschung abbiano riaffermato la portata filosofica della critica feurbachiana alla filosofia hegeliana in termini rielaborativi, poiché il riconoscimento che la “filosofia di Hegel è costruita in modo sbagliato” anticiperebbe una più matura “visione antropologica e materialistica” e che pertanto, le stesse celebri ricerche feuerbachiane sul 7 fenomeno religioso anticiperebbero la “riforma della filosofia” . La rottura che Feuerbach ha compiuto con la filosofia hegeliana è espressamente sancita per la prima volta, nello scritto del 1839 intitolato Per la critica della filosofia hegeliana, in un processo di accentuazione della dimensione empirica a svantaggio di quella astrattamente speculativa. Si avverte, così, l’esigenza di ricordare all’uomo fedele alla speculazione astratta, eccessivamente incline ad avallare la pretesa tutta teoreticistica di aggirare i vincoli della realtà. È questo lo spirito che anima lo scritto Per la critica della filosofia hegeliana, non trascurando la specificità della prospettiva hegeliana, nella sua aperta divaricazione con quella schellinghiana. La filosofia speculativa tedesca, così distante dalla saggezza salomonica, è inequivocabilmente identificata con l’idealismo di Hegel, che, a sua volta, si oppone all’orientalismo di Schelling, secondo uno schema di contrapposizione concettuale riassumibile nella dicotomia fra filosofia dell’identità e filosofia della differenza: “La filosofia speculativa tedesca costituisce la diretta antitesi dell’antica saggezza salomonica. Mentre quest’ultima non vede nulla di nuovo sotto il sole,quella vede soltanto del nuovo; mentre l’uomo dell’oriente perde di vista, per l’unità, la differenza, l’uomo dell’Occidente dimentica, per la differenza, l’unità; mentre il primo spinge la sua indifferenza per l’eterna uniformità sino all’apatia della stupidità, il secondo esalta la sua sensibilità per l’alterità e la diversità sino all’ardore febbrile della imaginatio luxurians. E quando io dico: la filosofia speculativa tedesca, intendo, in specie […] quella hegeliana; 43 perché la filosofia di Schelling fu, a voler essere precisi, una pianta esotica la vecchia identità orientale su suolo germanico -per cui la propensione della scuola schellinghiana per l’Oriente è un tratto carattersistico essenziale di essa, mentre al contrario la propensione per l’Occidente e la svalutazione dell’Oriente è un segno distintivo specifico della scuola hegeliana. Di contro all’orientalismo della filosofia dell’identità l’elemento caratteristico di Hegel è 8 quello della differenza.” Nell’illustrazione del metodo hegeliano Feuerbach osserva che esso è solo pretenziosamente orientato a riprodurre il corso naturale,ma in realtà l’elemento fondamentale è la circolarità, che ne rappresenta la cifra, nonché il motivo di superiorità rispetto alla filosofia di Fichte: “Per sistema si intende un cerchio chiuso in se stesso, ciò che non continua, in linea retta, sino all’infinito, ma , alla fine, torna al suo inizio. La filosofia hegeliana è anche, di fatto, il sistema più compiuto che ci sia mai stato. Hegel ha fatto davvero ciò che Fichte voleva ma non riuscì a fare, perché Fichte conclude soltanto con 9 un dover-essere, e non con una fina identica all’inizio.” L’elemento caratteristico della logica filosofica di Hegel è argomentato in stretta relazione con la tradizione filosofica moderna, individuando come comun denominatore, la rottura, il divorzio dalla dimensione della sensibilità: “Alla filosofia hegeliana può quindi essere rivolta la stressa critica che investe tutta la filosofia moderna, a partire da Cartesio e da Spinoza: di aver operato una insanabile rottura con l’intuizione sensibile di 10 aver immediatamente presupposto la filosofia.” Nell'ambito di queste considerazioni Feurbach non accetta la replica che farebbe valere il carattere fondamentalmente propedeutico della Fenomenologia dello Spirito sulla Scienza della logica, perché se è vero che la Logica ha la Fenomenologia dietro di sé, è anche vero che la realtà effettuale, che rappresenta il contrario dell’essere logico gode di una sua ineliminabile indipendenza. Piuttosto, è proprio la Fenomenologia a essere vagliata criticamente, soprattutto nelle parti che accamperebbero la legittimità di spiegare, in chiave schiettamente dialettico-idealistica, il passaggio dalla certezza sensibile alla percezione, all’intelletto e così via, ovvero di tutto quel pacchetto di argomentazioni hegeliane che pone al centro dell’indagine il superamento progressivo dello stadio della conoscenza sensibile, e che si risolve nell’esito finale di includere l’oggetto nel soggetto. Secondo Feurbach le argomentazioni hegeliane in tal senso, non rivelando neanche una certa originalità dimostrativa, non riuscirebbero a dimostrare quell’universalità che si pretenderebbe di aver raggiunto. Il nucleo della polemica è il tentativo hegeliano di mostrare che nel momento fenomenologico della coscienza sensibile il particolare, che si mostra come verità, in realtà è autocontraddittorio perché per comprendere il particolare bisogna passare 44 SAGGI all’universale. Secondo Hegel, infatti, la certezza sensibile crede che sia vero il “qui” spazialmente determinato e l’ “ora” temporalmente specificato. Ma, in realtà, il ‘qui’ indicato come verità dalla certezza sensibile è tale solo presupponendo un “qui” universale che non è più particolare. Dicendo: il “qui” è l’albero che vedo si pensa di affermare una verità; ma un altro vede una casa più lontana è afferma che il “qui” non è l’albero bensì la casa. Il capitolo vorrebbe dimostrare che l’essere sensibile e individuale è invece universale: “Per la coscienza sensibile il primo capitolo della Fenomenologia non è quindi altro che l’argomento fritto e rifritto di Stilpone di Megera, -che qui però è rivolto nella direzione opposta -;non è altro che un gioco di parole che il pensiero-già ben certo di essere la verità-vuole imporre alla coscienza 11 naturale.” L’obiettivo della critica feurbachiana è il ruolo giocato dall’universalità del linguaggio nell’argomentazione hegeliana. Non è un caso che la trattazione fenomenologia sia incardinata sul riconoscimento dell’indicibilità dell’individuale e sul fatto che l’universale espresso dal linguaggio, è, in ultima analisi, la verità della certezza sensibile: “Il primo capitolo ha come contenuto: La certezza sensibile, o il questo e l’opinione. Esso indica il grado della coscienza in cui questa considera come l’essere vero e reale e l’essere sensibile e individuale, che però più tardi, con un cammino sotterraneo, si dimostra come un essere universale. ‘Il questo è un albero’; ma io vado oltre e dico: ‘il questo è una casa’. La prima verità si è dileguata. ‘L’ora è notte’; ma non dura a lungo, ed eccomi a dire ‘L’ora è giorno’. La prima pretesa verità è ora diventata ‘stantia’. L'ora si dimostra dunque come un ora universale, come un molteplice sensibile (negativo). E lo stesso accade con il qui. Anche il qui non dilegua, ma è costantemente nel dileguare della casa, dell’albero, ecc. e gli è indifferente di essere casa o albero. Di nuovo, il ‘questo’ si mostra dunque come semplicità mediata o come universalità. L’individuale che noi opiniamo nella certezza sensibile, non può quindi nemmeno essere espresso da noi. ‘Il più verace è il linguaggio: in esso confutiamo immediatamente perfino la nostra opinione; e poiché l’universale è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio esprime solo questo, così è 12 escluso che si possa dire quell’essere sensibile che noi opiniamo”. Feuerbach rigetta quest' argomentazione evidenziando che il ‘qui’ e l’‘ora’ della certezza sensibile non possono mai essere universali, ma sono sempre di valenza singolare. Secondo la critica che egli conduce, Hegel confuterebbe non il ‘qui’ oggetto della conoscenza sensibile, bensì il ‘qui’ logico. In questo senso per Feurbach la fenomenologia si scopre essere, in definitiva, logica fenomenologia: “Il qui fenomenologico non si differenzia in nulla da un altro qui che io fisso; esso si mostra quindi anche come un qui universale, perché di fatto è già un universale; ma il qui reale è distinto, e 45 proprio in un modo reale, da un altro qui: è un qui esclusivo. ‘Per es. il qui è l’albero. Io mi volto, e questa verità è dileguata’. Si sarà dileguata nella Fenomenologia, dove voltarsi costa soltanto una parolina; ma nella realtà, nella quale io devo fare una conversione al mio corpo pesante, il qui, anche se dietro le mie spalle, mi si mostra come un’esistenza assai reale. L’albero limita le mie spalle; mi'impedisce di essere nel luogo che esso già occupa. Hegel confuta non il qui che è oggetto della coscienza sensibile, e che noi consideriamo oggetto differenziandolo dal puro pensare, ma il qui logico, lo ora logico […]. La fenomenologia non è altro che la logica fenomenologia. Solo da questa prospettiva si può scusare il capitolo sulla certezza 13 sensibile.” Nel rifiuto del ragionamento hegeliano gioca con una certa evidenza un certo ruolo lo scarto, la differenza sussistente fra la realtà sensibilmente avvertibile e l’astrattezza abilmente azionata nella dimensione linguistica. Feuerbach mantiene saldo lo iato incolmabile fra la dimensione del pensiero e quella dell’essere, ricalcata su quella esistente fra il piano logico e quello ontologico. D’altronde è già nelle prime battute dello scritto che si evince in forma stringata un giudizio complessivo sul pensiero di Hegel, identificato come filosofia dell’”idea presupposta”, laddove l’unica filosofia che parte senza presupposti è quella capace di mettere in discussione se stessa. In questo senso è evidente la sintonia fra Hegel e le filosofie moderne che hanno presupposto come “verità la loro filosofia”. Emerge, così, abbastanza nettamente la configurazione del rapporto fra la filosofia hegeliana e la filosofia genetico-critica. La prospettiva genetico-critica non si risolve in esiti dimostrativi, né in approdi concettuali inamovibilmente dogmatici, bensì nell’intenzione di distinguere nettamente fra ambito soggettivo e ambito oggettivo. Ne consegue che la filosofia genetico-critica sta a quella dell’assoluto come la concezione puramente naturalistica della natura sta a quella puramente teologica della stessa: “Filosofia genetico-critica non è quella che dimostra o comprende dogmaticamente un oggetto dato attraverso la rappresentazione-per gli oggetti meramente reali, dati immediatamente, cioè attraverso la natura, è perfettamente valido ciò che Hegel dice - ma quella che ricava l’origine di esso, che pone in discussione se l’oggetto sia reale o soltanto una rappresentazione, o in generale un fenomeno psicologico, quella che, insomma,distingue nel modo più rigoroso tra il soggettivo e l’oggettivo […] per chiarire con un paragone il rapporto che c’è tra lei e la filosofia assoluta […]. Si può dire che essa sta alla seconda come la concezione puramente fisica o naturalistica sta alla concezione 14 teologica della natura.” Alla “mistica razionale”, come è in via definitiva etichettata la filosofia hegeliana, alla teo-filosofia, Feurbach oppone la filosofia concepita 46 SAGGI espressamente come scienza della natura. La natura, pertanto, si studia nella sua naturalità, rifuggendo le fantasticherie della filosofia speculativa: “La filosofia è la scienza della realtà nella sua verità e totalità; ma la sostanza della realtà è la natura (nel senso più universale del termine). I segreti più reconditi sono contenuti nelle più semplici cose naturali, quelle che calpesta il filosofo speculativo che brama fantasticamente un aldilà. L’unica fonte di 15 salvezza è il ritorno alla natura.” Anche nei Frammenti per il mio curriculum filosofico campeggia in maniera rilevante la critica ad Hegel. Nel frammento intitolato Lezioni di logica e metafisica tenute ad Erlagen (sit venia verbo!) (1829-1831-1832), Feurbach concepisce la logica come metafisica in quanto risultato necessario della stessa storia della filosofia, ribadendo il suo rifiuto della definizione hegeliana come filosofia assoluta, ultima e suprema: “Signori! Voglio parlarvi di logica, ma non nel modo con cui essa viene comunemente insegnata, benché, per completezza, debba esporvi anche questa, sia pure da un punto di vista storico; voglio parlarvi della teoria del pensare come teoria della conoscenza, come metafisica […] come Hegel l’ha intesa e l’ha esposta, […] ma insieme non ne parlo come Hegel dandole il significato di filosofia assoluta, ultima e suprema, ma soltanto nel significato di organo della 16 filosofia.” Nel frammento intitolato Dubbio del 1827-1828, Feuerbach affronta Uno dei problemi eterni della filosofia: il tipo di relazione che intercorre fra pensiero ed essere, fra logica e natura all’interno della costruzione teorica hegeliana. Negando la possibilità di un passaggio fra pensiero ed essere, Feuerbach evidenzia che la logica, per se stessa, si rivela autoreferenziale e tautologica, di conseguenza non è diretta a una conoscenza diversa da quella che ha di se stessa, non può dunque conoscere o far conoscere la natura: “Che rapporto c’è tra pensiero ed essere, tra logica e natura? È fondato il passaggio dal primo al secondo termine? Dov’è la necessità, dov’è il principio di questo passaggio […] la logica da se stessa, non sa altro che se stessa, il pensare[…]. Se non ci fosse una natura, la logica, vergine 17 immacolata, non sarebbe in grado di generarne una, mai e poi mai.” Una riflessione, quest’ultima, che si riallaccia all’Essenza del cristianesimo dove si evince una critica che riteniamo di un certo rilievo, anche storiografico, per quella che costituisce una rivalutazione di riflesso, se non proprio occasionale, di Kant, al cui trascendentalismo Feuerbach non aveva risparmiato riserve. Nel contesto argomentativo del XX capitolo dell’opera, in cui si affronta il tema dell’esistenza di Dio, con l’intenzione di farne emergere le contraddizioni, Feurbach nota che lo scopo ultimo di dimostrare Dio è quello di esteriorizzare l’interiorità dell’uomo. Dio diviene sensibile. Limitatamente a questa circostanza Feuerbach dimostra di 47 rivalutare Kant su Hegel, compiendo un’eccezione anche verso se stesso, verso le sue stesse riserve intellettuali verso il trascendentalismo kantiano, poiché dimostra di condividerne la soluzione dell’indeducibilità dell’esistenza di Dio dalla sua mera pensabilità logica, secondo quanto lo stesso Kant si è premurato di argomentare nei celebri passi di cui si compone la dialettica trascendentale, quelli appunto incardinati sulla trattazione della reale portata gnoseologica da riconoscere alla teologia razionale, così pregna della tradizionale prova ontologica anselmiana, che tenta la legittimazione del passaggio dalla sfera logica a quella ontologica: “Com’è noto, Kant, nella sua critica delle prove sull’esistenza di Dio, ha affermato che l’esistenza di Dio non si può provare con la ragione. Kant perciò non meritava il biasimo che ricevette da Hegel. Kant, invece, ha completamente ragione: da un concetto io non posso dedurre l’esistenza […]. La ragione non può fare a meno di un 18 suo oggetto dei sensi.” La fecondità del tema del “Gattung” in Feurbach deve essere notata non solo nell’originale e personale riformulazione della categoria di “Genere”, bensì nelle implicazioni non sempre lineari, e quindi problematiche, che esso stesso pone. Nell’assunzione che la riduzione della filosofia di Feuerbach risponde, in via definitiva, all’esigenza di cogliere i fondamenti reali dell’uomo, le fondamenta del suo essere sensibile e concreto, non si può certo negare che il tema della “soggettività”, in quest’ottica di privilegiamento della categoria di “genere”, si complessifichi, per cui si apre un duplice problema: “1) Si mostra che il discorso dell’essenza del genere dell’uomo presuppone l’accettazione della presenza della comunità nella realtà. Quindi Feurbach insiste sul fatto che […]” l’universale spetti al singolo ‘come unità di pensiero, che ha luogo nella rappresentazione, ma non esiste nella realtà o che vi partecipa’. 2) D’altro canto è concesso di aver chiarito che Feuerbach in alcun modo vi rinuncia a parlare di universalità, rapporti reali, […] a parlare 19 della sensibilità.” In altre parole ne L’Essenza del cristianesimo emergerebbe una dialettica problematica fra ‘genere’ e ‘singolo’, fra ‘universale’ e ‘particolare’, schiudendo un’aporia piuttosto difficile, che in termini classici si annuncia come il ‘problema dell’individuazione’. Se e solo se il ‘Gattung’ costituisce l’essenza dell’uomo, ovvero l’universale in cui però i singoli trovano un solido radicamento ontologico, rimane il fatto che fra la dimensione originaria e quella secondaria sussiste sempre una distanza, un solco differenziale. Non è un caso, né tanto meno secondario il fatto che tale differenza emerga nella circostanza della riflessione sui limiti umani, che non devono essere riferiti all’uomo universale, ma sempre e comunque al singolo uomo: “Ogni limitazione della ragione o dell’essenza dell’uomo in generale si basa su un inganno, su un errore. Certamente, l’individuo umano può, e addirittura deve 48 SAGGI sentire e conoscere se stesso come limitato - e in ciò consiste la sua differenza dall’animale. Può, però, prendere coscienza dei suoi limiti, della sua finitezza, soltanto perché la perfezione, l’infinità del genere gli è oggetto, indipendentemente dal fatto che sia oggetto del sentimento, o della coscienza morale, o della coscienza pensante. Se, tuttavia, fa dei suoi limiti i limiti del genere umano, ciò è dovuto all’inganno di sentirsi una cosa sola con il genere - un inganno che è intimamente connesso con l’indolenza, la pigrizia, la vanità e l’egoismo dell’individuo. Infatti, un limite che conosco come limite esclusivamente mio, mi umilia, mi fa vergogna e mi rende inquieto. Perciò per liberarmi da questo senso di vergogna, da questa inquietudine, trasformo i limiti della mia individualità in limiti dell’essenza 20 umana stessa.” Mentre ne L’Essenza del Cristianesimo il problema rimarrebbe aperto, nei Principi della filosofia dell’avvenire, troverebbe una chiara soluzione poiché con “‘genere’ Feuerbach intende non qualcosa di astratto ma una concreta realizzazione dell’essere-uomo negli individui […]. ‘Gattung’ non è un concetto diventato illusione o un’astrazione della realtà, ma la 21 concreta realtà dell’universale.” Nonostante questa precisazione, tuttavia è difficile non notare che l’universalità del genere umano rimane distante dalle sue individuali e singole realizzazioni, quasi un’ipostasi che mostra tutta la sua divaricazione con gli uomini concreti. Proprio il recupero della concretezza segna il confronto con l’idealismo di Fichte. In Spiritualismo e 22 materialismo Feuerbach radicalizza , com’è noto, la critica all’idealismo, rivolgendo la polemica non solo verso Hegel ma anche e soprattutto verso Fichte. Certamente Feuerbach dimostra che non gli sfugge l’ impostazione teorica dell’idealismo, per cui non vi è un aprioristico rifiuto della ragion d’essere del soggetto, assumendo così dell’ idealismo l’istanza di partire dal soggetto, dall’io, dato che l’essenza del mondo dipende evidentemente solo dalla mia soggettività; piuttosto egli contesta la pretesa dell’attività nullificante dell’io che tenderebbe a neutralizzare dell’esteriorità. Alla pretesa di inghiottire astrattamente nell’io il “tu” oggettuale, Feuerbach oppone una concezione correlativa del polo soggettivo e di quello oggettivo, nella ferma convinzione che l’io che toglie l’esistenza delle cose sensibili, non ha esso stesso alcuna esistenza, è un io soltanto pensato e non reale. L’io reale è soltanto quello a cui si contrappone un tu, un oggetto. Nell’ottica idealistica non esisterebbe nessun tu, come non esiste nessun oggetto in generale. Al trascendentalismo idealistico e alla sua arzigogolata operazione soggettivistica di dissoluzione dell’oggetto si oppone la fedeltà alla realtà esterna, all’umana, ineliminabile dipendenza da essa, rifiutandone l’assunzione di fondo circa la modalità dell’indagine della realtà esterna, del mondo, che nell’ottica idealistica si risolverebbe ad una mera faccenda di 49 ordine teorico. Tuttavia il mondo e tutti gli enti che lo compongono, prima di configurarsi come oggetto del conoscere, quindi della speculazione teoretica, costituiscono un oggetto del volere, cioè rientra originariamente nella sfera pratica. Alla visione freddamente teoreticistica del mondo se ne oppone una passionalmente volontaristica, nel suo slancio appropriativi dell’oggetto. Per sostenere questa tesi Feuerbach insiste sul potere del desiderio, sul potere di spinta appropriativa verso gli oggetti del mondo, rivelativi della fungenza della volontà, ma anche della costitutiva dipendenza del soggetto dagli oggetti esterni: “Il difetto fondamentale dell’idealismo è appunto questo, che esso si pone e risolve la questione della oggettività e della soggettività. Della realtà o dell’irrealtà del mondo solo da un punto di vista teorico, laddove invece il mondo originariamente, da principio, è oggetto dell’intelletto solo perché è oggetto del volere, della volontà di essere e di avere […]. Comunque, la potenza del desiderio con cui mi approprio dell’oggetto, e lo consumo, non è forse insieme un’espressione del potere che esso esercita sopra di me, della mia dipendenza da lui? Non è forse un’espressione del fatto che esso mi è indispensabile ed essenziale, che io vivo e sussisto soltanto mercé sua […], in un rapporto non esclusivamente negativo, ma anche positivo, non solo di 23 dominio, ma anche di soggezione e di doverosa riconoscenza.” Tutto ciò costituisce la necessaria premessa a tutta la costruzione fichtiana di marca intellettualistica di derivazione, deduzione, dell’oggetto dal soggetto: “Io sono e penso, anzi sento solo in quanto ‘soggetto-oggetto’, ma non nel senso identico - o analitico, per usare l’espressione kantiana - di Fichte, per cui, il pensante e il pensato sono una cosa sola con l’oggetto, bensì nel senso per cui l’uomo, o la donna, è un concetto sintetico, difatti io non posso sentirmi e pensarmi come uomo o come donna senza oltrepassare me stesso, senza collegare al sentimento o al concetto di me 24 stesso il concetto di un altro essere diverso, ma insieme analogo a me.” Già nell’ottica ermeneutica di Schmidt è stato evidenziata il fatto che la potenzialità filosofica di Feuerbach risiede in primo luogo nello sviluppo in chiave anti-idealistica dell’astrattismo gnoseologico, che ha affettato la filosofia occidentale, dalla modernità fino ad Hegel. Il rifiuto della deducibilità del mondo dalla dimensione tautologica dell’Io (Io=Io), nel ribadire l’impossibilità di una soggettività chiusa in se stessa, si articola in via definitiva in una gnoseologia definibile come “esistenzialismo della corporeità”, in cui si sostanzia “una triplicità di elementi che sono soggettività, 25 corpo e mondo che formano un’unità concreta” . La contrapposizione a Fichte trova nutrimento nella divergenza che Feurbach dimostra di avere circa la considerazione assai differente della vera, autentica natura da riconoscere all’io. In tal senso, assume rilevanza l’insieme di riflessioni feurbachiane espresse nel recensire uno scritto del fichtiano J.F. Reiff, 50 SAGGI sostanziatesi nel rigetto “di ogni posizione trascendentalista mettendo con 26 chiarezza l’accento sulla corporeità dell’io” . Alla posizione di Reiff Feurbach oppone l’ineludibile apporto della dimensione empirica nel rinvenimento dell’oggetto di conoscenza,giungendo a scorgere nel sodalizio fra riflessione ed esperienza il terreno da cui emerge lo spirito: “Reiff poneva la differenza essenziale tra la filosofia e le scienze nell’essere la filosofia - a differenza delle seconde - priva di presupposti e di un oggetto determinato. A questo Feurbach opponeva che l’oggetto sensibile come oggetto di scienza non è precostituito, ma è trovato nell’empiria; quindi non è un prius per le scienze, è un posterius. D’altro canto merito della filosofia moderna è di aver riunificato ‘l’attività empirica’ con ‘l’attività pensante’ […]. In questa fusione di empiriafilosofia, sensi-pensiero, l’empiria e i sensi appaiono come ciò da cui deve scaturire poi il pensiero, lo ‘spirito’. È quindi dai sensi, dalla corporeità che 27 nasce lo spirito.” Alla divergenza di vedute sulla vera natura dell’io si aggiungono le riserve all’indirizzo delle specifiche soluzioni argomentative fichtiane volte a fornire una spiegazione esauriente della ricettività, della passività dell’io, dello stesso molteplice sensibile, della natura stessa, in definitiva a tutto quel pacchetto di questioni attinenti al processo di deduzione che Fichte concepisce per delucidare la derivazione dell’io empirico dall’Io assoluto, nella fase in cui è il non-io ad agire sull’io. Sotto accusa è la nota considerazione fichtiana secondo cui la stessa passività dell’io è, in realtà, un aspetto particolare della stessa attività, nel senso che nella passività l’io non è soggiacente a qualcosa che patisce, ma il patire stesso rientra nell’essere attivo dell’io, per cui Feurbach sostiene, di contro, che la passività dell’io rivela l’attività dell’oggetto. Facendo valere la forza propria dell’oggetto sul soggetto, enfatizzandone il potere vincolante sull’io, Feuerbach dimostra non solo di approdare ad una sorta di realismo gnoseologico, ma appare suggerire una prospettiva più ampia in cui l’io corporeo è il canale diretto e privilegiato ai fini dell’instaurazione del rapporto con la dimensione mondana, nei termini della maturazione di “una sorta di concezione ‘esistenziale’ del corpo, che trascende ogni significato puramente conoscitivo per porsi come illimitata 28 apertura al mondo da parte della soggettività.” La riconfigurazione concettuale feurbachiana operata sull’io, così distante dal conferimento di un’assolutezza che gli consentirebbe uno svincolo totale dall’umiliazione dei limiti impostigli dal mondo, bensì, al contrario, concepita in termini di uno strutturale radicamento corporeo, nella consapevolezza della non esauribilità della questione dell’io in termini teoricamente gnoseologistici, quindi della necessità di un’integrazione della dimensione umana dei bisogni e dei desideri, conosce come esito finale 51 anche un serio ripensamento dei tradizionali rapporti circa il riconoscimento della priorità da stabilirsi fra processo razionale ed eruttività istintuale, per cui si ribalta tale consolidata gerarchia, anteponendo l’originarietà dell’istinto sullo stesso processo e sulla stessa attività razionale: “Forse che la luce non è anch’essa un oggetto di desiderio e di piacere per l’occhio, e quel che è toccabile non è un oggetto di piacere e di desiderio per il tatto? E la mano è forse per noi soltanto ‘l’invitante compagna di dolci galanterie’ nei confronti dell’altro sesso? Non accarezziamo con piacere animali, cani, gatti, cavalli e persino oggetti inanimati esterni a noi? Il bambino non vuole forse ciò che vede? Per lui l’oggetto dell’occhio idealistico 29 non è insieme anche oggetto della cupidigia realistica o materialistica?” Emerge con una certa evidenza che le critiche dell’ultimo Feuerbach alla filosofia fichtiana sono dichiaratamente funzionali ad un recupero della dignità esistenziale dell’esteriorità, cioè della realtà, dell’oggettività-mondo, unitamente e conseguentemente ad una riconosciuta centralità filosofica del ruolo gnoseologico, e non solo, riconosciuto alla corporeità, ma anche alla sensibilità in generale, quale canale principale di accesso al mondo, rivalutando così tutta la sfera dei bisogni e dei desideri dell’uomo singolarmente e concretamente inteso. La portata di quest' approdo feurbachiano la si comprende appieno se si considera l’osservazione effettuata in sede critica, secondo la quale proprio “la ricezione della filosofia della sensibilità di Feuerbach” da parte del giovane Marx abbia contribuito alla elaborazione di una visione politica sui “Sistemi dei bisogni” combinata con un “processo di assimilazione della 30 filsofia di Hegel”. Diversamente nel confronto con Hegel, al di là della tesaurizzazione della categoria del “Gattung”, si può riconoscere la cifra polemica di Feuerbach nella valutazione che ne ha fatto Pareyson nei suoi celebri Studi sull’esistenzialismo, in cui, in ultima analisi, il filosofo della risoluzione della teologia in antropologia è accomunato a Kierkegaard, riconoscendogli il merito di aver espresso una filosofia per un verso emergente dallo sfaldamento dell’hegelismo, per un altro verso sviluppo e implicazione dello stesso idealismo assoluto: “Kierkegaard e Feuerbach hanno dunque svolto dall’hegelismo due possibilità tipiche in esso implicite: il finito di fronte all’infinito e il finito come infinito; l’uomo davanti a Dio e l’uomo-Dio; la soggettività della verità e l’umanizzazione di Dio; il teismo e l’ateismo, il 31 teandrismo e l’umanismo.” In conclusione, senza la tentazione della non rivedibilità ermeneutica, il confronto feuerbachiano con le filosofie di Hegel e di Fichte traccia due direzioni di pensiero, che, differenziandosi, in realtà si completano, strutturando così una linea concettuale coerente e organica. Da 52 SAGGI un lato, infatti, la ripresa della categoria hegeliana del “Gattung”, come si è cercato di evidenziare, sfocia nel riconoscimento cioè del riconoscimento dell’infinitudine del genere umano, che si complica nel quadro della concepibilità dei rapporti fra l’Uomo e gli uomini, fra Universale e particolare, tema su cui Leonardo Casini ha ribadito le sue perplessità circa l’esito reale della filosofia feurbachiana nel suo sforzo di conferire al “gattung” una 32 “concreta realizzazione” . Dall’altro, la polemica sviluppata all’indirizzo di Fichte sviluppa potentemente l’esigenza del recupero della concretezza umana dentro la cornice di una visione sensistica e corporea, testualmente tangibile nell’evoluzione della sua filosofia, che appare suggerire la tacita concezione di una sorta di umanesimo della finitudine, una vera e propria ≪negazione di un entusiastico antropocentrismo, che svincola l’uomo dalla natura e dalle 33 vicissitudini della storia del mondo≫ , ma che, al contrario, considera le limitazioni e i patimenti a cui è costitutivamente esposto. 53 1 L. CASINI, Storia e umanesimo in Feuerbach, Il Mulino, Bologna 1974, p. 374. Ivi, p. 38. J. MADER, Fichte Feuerbach Marx, Leib dialog Gesellschaft, Verlag Herrder, Wien 1968, p. 93. 4 L. CASINI, op. cit., p. 40. 5 Iibidem. 6 U. PERONE, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Torino 1972, p. 147. 2 3 7 J. GRANDT, Ludwig Feuerbach und Die Welt des Glaubens, Verlag Westfalisches Dampfboot 2006, p. 25. L. FEUERBACH, Zur Kritik der Hegelschen philosophie, Gesammelte Werke, Akademie Verlag-Berlin-1970, vol. 9, 1839-1846, pp.16-17, trad. it. Per la critica della filosofia hegeliana, in Opere, a cura di Claudio Cesa, Laterza, Bari 1965, p. 109. 9 L. FEUERBACH, Zur Kritik der hegelschen philosophie, Gesammelte Werke, cit., vol. 9, p. 25, trad. italiana, Per la critica della filosofia hegeliana, in Opere, cit.,p. 177. 10 Ivi, p. 42, e trad. p. 134. 11 Ivi, p. 44 e trad, p. 136. 12 Ivi, pp.42-43 e trad. p. 135. 13 Ivi, p.44 e trad. p. 137. 14 Ivi, 52-53 e trad. p. 145. 15 Ivi, p. 61 e trad. p. 154. 16 Ivi v..10, p. 158 e trad. p. 351. 17 Ivi, pp.155-156 e trad. p. 348. 18 Ivi, vol. 5, pp. 341-342 e trad. p. 249. 19 M. BYKOVA, Subjektivitat und Gattung, “Internationale Feuerbachforschung”, Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 122. 20 Ibidem. 21 L. FEUERBACH, Das Wesen des Christentum, cit., v..5, pp.37-38; trad. it. cit, pp. 69-70. 22 M. BYKOVA, op. cit., p. 124. 23 In un’ottica che si apre al ripensamento del materialismo di Feurbach riteniamo importante non dare per scontato questo aspetto, considerato che proprio in Spiritualismo e materialismo è degna di nota la ricezione feurbachiana del pensiero di Molescott nelle motivazioni al rifiuto dell’esito ultimo dell’idealismo, cioè la soggettivizzazione dell’oggettivo, della definitiva spiritualizzazione dell’oggetto: “Quando Feuerbach nei suoi scritti più maturi affrontò Molescott e la sua teoria dell’alimentazione,lo fece nello spazio di una critica all’idealismo […]. La riduzione dell’oggetto - sia in virtù dell’idealismo o della Religione - a mera manifestazione fenomenica […], risulta nella prospettiva di Feuerbach falsa ed è duramente attaccata in conformità dei suoi scritti di cultura scientifica sul nutrimento.” J. HYMERS, Verteidigung von Feuerbach Molescott-Rezeption:Feurbachs offene dialektik, “Internazionale Feuerbach Forschung”; Ludwig Feuerbach (1804-1872), Wax Mann, Münster 2006, p. 134. 24 L. FEUERBACH, Spiritualismus und Materialismus, Gesammelte Werke, cit.,v. 4; trad. it. Spiritualismo e materialismo, a cura di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 186187. 25 Ivi, p. 172 e trad. p. 184. 26 C. SCHMIDT, Il Materialismo antropologico di Ludwig Feuerbach, De Donato editore, Bari 1973, pp. 129-130. 27 L. CASINI, La riscoperta del corpo, cit., p. 154. 28 Ibidem. 29 L. FEUERBACH, Spiritualismus und Materialismus, cit., v.4, p. 173 e trad. p. 186. 30 J. KANDA, Die Feuerbach-Rezeption des jungen Marx im Licht der Junghegelialismus-Forschung, in “Internationale Feuerbachforschung”, Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 115. 31 L. PAREYSON, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni editore, Firenze 1950, p. 72. 8 54 32 L. CASINI, Die Globalisierung: Eine verwirklichung ode rein dementi des feuerbachschen universalen Humanismus, “Internationale Feuerbachforschung”, Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 230. 33 L. M. ARROYO, War Feuerbach ein “Verkenner des Bosen”? “Internationale Feuerbachforschung”, Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 65. 55 TH. W. ADORNO. L’ESTETICA MUSICALE E LA FORZA DELLA CRITICA di Giacomo Fronzi Nonostante Theodor W. Adorno sia autore oramai divenuto “classico”, riferimento ineludibile per ricerche di natura filosofica, sociologica o estetica, e nonostante ci si potrebbe considerare quasi assuefatti alla sua originale “teoresi di rottura”, affrontare i testi adorniani suscita, ancora oggi, fascino, disorientamento ed estremo interesse. Adorno, nella sua multiforme attitudine critica, si è soffermato su molti e diversi aspetti della società tardo-capitalistica, producendo analisi imprescindibili: dalle diagnosi sulla crisi della società borghese e sulle degenerazioni della società capitalistica post-industriale all’analisi delle perverse connessioni tra sviluppo economico sempre più pervasivo e produzioni culturali, dalla teorizzazione (con Max Horkheimer) dell’“industria culturale” alle pregnanti e controverse indagini di natura estetologica e musicologica. Ma, a fronte di questa estrema diversificazione interna, la riflessione adorniana nasce, innanzitutto, come riflessione musicologica. Nel 1922, quando venne costituito a Francofore sul Meno l’“Istitut für Sozialforschung”, al suo interno mentre Max Horkheimer ed Herbert Marcuse si occupavano di Filosofia, Henryk Grossmann di Economia e Leo Löwenthal di Letteratura, Adorno si interessava di Musica. Possiamo, dunque, sostenere che la riflessione adorniana ha da sempre e da subito investito temi e questioni relative alla musica e ai suoi intrecci con la storia e con la società. Fin dall’inizio si rese manifesta la carica innovativa e dirompente dell’approccio teorico di Adorno. Fu «enorme l’impatto di un’analisi della musica che si fondava sui materiali e impostava la critica in una prospettiva sociale e filosofica, del tutto inedita […], anche per la netta prevalenza tra i 1 critici dell’eredità del pensiero crociano» . Le tesi di Adorno scossero il panorama teorico italiano alla fine degli anni Cinquanta, esattamente nel 1958, anno di pubblicazione dell’edizione italiana di Philosophie der Neue Musik. Da quel momento anche i nostri musicologi e filosofi della musica non poterono più fare a meno di confrontarsi con le ricerche adorniane, manifestando ora piena sintonia ora profonda idiosincrasia. Negli ultimi cinquant’anni si sono susseguiti innumerevoli studi sull’estetica adorniana e, più in particolare, sulla sua filosofia della musica, tracciando una lunga tradizione critico-interpretativa, i cui risultati, però, non sempre hanno colto fino in fondo lo spirito che animava quella filosofia. Ma cosa ne è rimasto di quello spirito? La peculiare e controversa carica critica 56 SAGGI che ha contraddistinto l’opera di Adorno è da considerarsi come un oggetto d’antiquariato intellettuale o da essa possiamo ancora tentare di raccogliere preziose indicazioni teorico-pratiche? Quel che è certa è la straordinaria distanza, di natura storicopolitico-sociale più che cronologica, che ci separa dagli ruggenti e convulsi decenni in cui è vissuto Adorno, decenni che, per quel che concerne l’arte e, più in particolare, la musica, hanno visto una costante e ferma volontà di realizzare opere fortemente connotate da un punto di vista ideologico, tentando di recidere qualsiasi legame, reale, presunto o semplicemente ipotetico, con «la natura dell’uomo o del mondo in cui l’uomo è condannato a 2 vivere» . Enrico Fubini rileva come la musica degli anni Cinquanta vivesse di questa grande e nobile utopia, condivisa da molte ideologie del tempo passato, e che proclamava l’insensatezza della musica come «ideale supremo» al quale ispirarsi. E’ in questo Zeitgeist che si muove Adorno, nel tentativo di sostenere e attribuire un senso, per un verso storico e per altro verso sovrastorico, a questi movimenti tellurici della musica occidentale. Ma essendo noi così lontani da quello spirito e da quei profondi scontri ideologici, possiamo ipotizzare un’estetica musicale post-adorniana? Tanto Fubini quanto Cappelletto convengono sul fatto che Adorno può, a ragione, essere considerato l’ultimo filosofo della musica e la sua può essere considerata l’ultima forte teoria della musica. Sebbene ad Adorno sia stato spesso rimproverato da parte dei musicologi di essere eccessivamente “filosofo” e, da parte dei filosofi, di essere troppo “tecnico” nelle sue analisi (come non ripensare alla frase di Friedrich Schlegel che Adorno avrebbe voluto inserire in epigrafe alla sua Teoria estetica, secondo la quale in ciò che viene chiamato filosofia dell’arte manca sempre una della due: o la filosofia o l’arte), egli è riuscito ad elaborare un pensiero che, come nessun altro dopo di lui, è giunto alle soglie del suo obiettivo più intimo, vale a dire alla «sintesi tra i due “campi visivi”», sintesi che nessuno è riuscito a replicare, il che significa che quel che incuteva timore e perplessità, «“preoccupante” e 3 “singolare”, oggi risulta perduto» . La potenza critica e teorica dell’impianto adorniano ha lasciato il posto ad una neutra attività di descrizione, molto più attenta ad evitare valutazioni e giudizi che possano smascherare, con la forza del concetto e del pensiero, la banalità e l’equivalenza della maggior parte dei prodotti della musica d’arte. Il vero problema, dunque, è che il nostro momento storico non è più un campo di forze all’interno del quale gruppi di artisti o singoli artisti si fronteggiano con irriducibile vigore creativo, bensì un campo di battaglia deserto, «in cui non solo non c’è più un pensiero forte ma non c’è più 4 neppure una realtà forte» , ragion per cui non è storicamente possibile formulare «una teoria estetica capace di fornire un’interpretazione univoca 57 5 della realtà» . È, pertanto, la stessa realtà, presentandosi così differenziata ma, al contempo, così indifferente ad impedire il sorgere di una filosofia della musica forte, che riesca, come ci è riuscita quella adorniana, ad interpretare e valutare la realtà musicale di oggi. Se, per un verso, questo depotenziamento generale del pensiero ha prodotto una riduzione delle derive estremistiche e totalitarie, è anche vero che la rinuncia ad un pensiero forte, nel campo estetico, «può portare, come in effetti avviene, alla rinuncia a distinguere tra valore e disvalore estetico, favorendo una forma di giustificazione e accettazione dello stato di fatto, dell’esistente in quanto 6 esistente» . È evidente il grado di inefficacia e di dannosità proprie di un atteggiamento di questo genere, autenticamente irresponsabile e votato alla reiterazione della neutralizzazione delle differenze, delle qualità e, da un punto di vista strettamente filosofico, del contenuto di verità delle opere d’arte, ma anche alla graduale cancellazione del passato. Il paradigma contemporaneo è centrato sul mito del “nuovo”, di un novum senza radici e senza passato. Nel migliore dei casi esso non è che un «cumulo di detriti su cui si può liberamente operare un saccheggio, come gli sciacalli dopo le 7 alluvioni o i terremoti» . I compositori di oggi sono davvero «più lucidi, più 8 aperti e più liberi come ci piace credere?» oppure rivisitano il passato mancando di realizzarne il messaggio, sopprimendo le tensioni storiche e le differenze? Tanto la critica quanto l’arte odierne – sebbene le eccezioni non siano poche ed irrilevanti – sembrano orientate, più che dal desiderio di incidere sul progressivo miglioramento dello status quo, dalla passiva accettazione dell’emergere caotico ed incontrollato di realtà spesso inconsistenti. «In un mondo del ‘tutto è possibile’, ‘nulla è vietato’, in un mondo in cui tende a scomparire il confine tra la libertà come scelta e la libertà come indifferenza alla scelta, la filosofia della musica non trova un 9 terreno propizio al suo sviluppo» . Ed ecco che quella di Adorno finisce per rappresentare «l’estrema frontiera, il canto del cigno per la filosofia della 10 musica» , in un presente in cui si sente la mancanza di un pensiero critico forte, capace di intrecciare, nell’analisi della realtà musicale, il movimento storico con quello socio-antropologico, individuandone e chiarendone tanto gli elementi positivi quanto quelli negativi, producendo, in definitiva, delle distinzioni e delle differenze. Detto ciò, si pone il problema, di natura metodologico-procedurale, circa i parametri ed i criteri che un pensiero critico dovrebbe utilizzare e mettere in campo per poter produrre delle valutazioni. Restando all’interno dell’orizzonte adorniano, ci pare di una certa utilità richiamare l’attenzione su una particolare ed enigmatica categoria, del tutto centrale nell’estetica musicale di Adorno, quella di «materiale musicale». Tale nozione, alla quale 58 SAGGI ci si è riferiti molto di frequente ma senza mai analizzarne fino in fondo la portata e le implicazioni, può giustamente essere considerata come uno dei possibili strumenti di valutazione, dal momento che essa, nella prospettiva adorniana, è strettamente connessa con il processo di Aufklärung in musica. Il materiale musicale è una funzione del progresso e un compositore potrà dirsi progressista soltanto quando riuscirà a cogliere il materiale al livello più avanzato della sua dialettica storica. La nozione di “materiale”, dicevamo, è particolarmente enigmatica, tanto sfuggente quanto sempre presente nella produzione adorniana, fin dagli anni Trenta. Tale concetto si offre, proprio in virtù di questa sua costante presenza, ad essere utilizzato come fil rouge dell’estetica musicale del Francofortese, anzi, sarebbe il «concetto cardine» di un’estetica musicale che va ricondotta, secondo la Zurletti, «a una visione più articolata e meno 11 schierata della musica» e che, tra i vari risultati positivi, consentirebbe di individuare al suo interno «una mai sospettata matrice “strutturalista”», nonché «una soggiacente teoria della comunicazione musicale che Adorno 12 ha lasciato non tematizzata» . Un concetto dal «carattere inafferrabile», quello di “materiale musicale”, e la cui mancata definizione, da parte di Adorno, «ha il peso di una scelta teoretica: il materiale non può e non deve essere definito positivamente perché è non-concreto, entità astratta, dispositivo 13 condizionante situato al cuore dell’esperienza musicale» . La nebulosità della nozione di cui stiamo parlando, in via preliminare, può essere ricondotta in qualche modo all’oscurità dello stile della scrittura di Adorno, uno stile che 14 rivela una vera e propria «valenza estetica» dell’argomentare , il che solleva il problema dei criteri di riferimento da applicare al pensiero adorniano. L’oscillazione di questi criteri di riferimento si verifica tra due poli, tra «due 15 piattaforme metalinguistiche» : modo tecnico-scientifico e modo poeticoletterario. Dall’utilizzo di queste due modalità di senso, che si alternano, si sovrappongono, si sostengono reciprocamente, avvalendosi delle rispettive connotazioni tecniche e stilistiche, scaturisce un andamento del discorso che oscilla tra rigore analitico e «pirotecnica verbale», tra fluire lineare e spostamento violento ed improvviso del peso dell’argomentazione. Ma, continua la Zurletti, c’è «un’altra possibilità, quella che si verifica quando Adorno fa in modo da spostare il peso del discorso da una piattaforma metalinguistica all’altra in modo che tale spostamento risulti praticamente 16 impercettibile al lettore» . Spesso si ha la sensazione di essere respinti da questo particolare intrico di stile, forma letteraria e organizzazione linguistica, un intrico respingente che rinvia, però, ad una più accurata e attenta analisi, dal momento che, adornianamente, quel che è è più di quel che è. Nei testi 59 adorniani, l’estenuante ricerca della più giusta forma linguistica ed espressiva da adottare finisce per «oscurare il suo pensiero più di quanto non riescano a 17 chiarirlo e a comunicarlo» . Il riferimento al problema stilistico in Adorno, comunque, non va considerato sic et simpliciter come una quasi doverosa premessa alla trattazione successiva, bensì come un ulteriore elemento a sostegno della tesi per la quale il concetto di “materiale musicale” non viene definito una volta per tutte da Adorno. Il sapiente gioco tra piattaforme linguistiche che il filosofo di Francoforte mette in scena spesso produce una disarticolazione tra premesse e conclusioni, laddove le prime e le seconde le si trovano su piani differenti se non addirittura in opere differenti. Ciò accade anche per la nozione di materiale musicale, il che implica una difficile e problematica ricostruzione, analisi ed interpretazione delle pagine adorniane, rispetto alle quali bisognerebbe porsi come un «ascoltatore responsabile», considerando che «ogni volta che elementi apparentemente estranei, che non stanno in una relazione reciproca, configurazioni fraseologiche a prima vista inesplicabili, se ascoltate attentamente si rivelano invariabilmente come parte di uno stesso contesto di senso, di una «costellazione» che può estendersi 18 su un’intera opera o addirittura attraverso più opere» . Ma cerchiamo di entrare nello specifico delle questioni teoriche che il concetto di materiale musicale richiama. Innanzitutto: cosa dobbiamo intendere per materiale musicale? Esso «non deve essere concepito come l’insieme delle opzioni tecnico-formali che si offrono al di fuori del tempo. Esso deve essere inserito al contrario in un sistema di coordinate dove è funzione del progresso della storia musicale, e del rapporto di questa con la 19 «struttura» e le dinamiche primarie del sociale» . Emerge immediatamente il carattere storico e sociale di tale nozione. Rifondando il rapporto tra «possibilità di decisione» del compositore e «stato del materiale», Adorno concepisce l’azione compositiva non come una risposta automatica e meccanica alle esigenze che esprime un’epoca. La libertà di tale azione, ricorda l’Autrice, non poggia sull’idea del compositore come colui che agisce su di un terreno privilegiato, lontano dalla cruda e lacerata realtà, in una dimensione quasi incantata. La libertà del compositore è circoscritta al suo modus operandi, per così dire, alla sua sensibilità, alla sua poetica, alla tecnica (sebbene anch’essa sia storicamente determinata), ma ha, purtuttavia, una delimitazione: se, ad esempio, per Krenek l’opera deve rispondere prioritariamente alle esigenze espressive individuali, per Adorno il compositore deve comprendere cosa va fatto, in relazione a quel dato momento storico-sociale. Compositore progressista sarà, allora, colui che riuscirà a cogliere ogni volta il materiale al livello più avanzato della sua dialettica storica. «La libertà del compositore, secondo la rivelazione di 60 SAGGI questa nuova concezione di materiale musicale, si fermerebbe dove 20 comincia la libertà dell’opera» . Il materiale musicale, dunque, è un’istanza esterna e che agisce sull’opera in maniera condizionante, ma dall’esterno. Esso è imposto al soggetto «in quanto “storia sedimentata”, “spirito sedimentato”». A questo punto, però, va richiamato il rapporto che intercorre tra materiale e tradizione, dal momento che il materiale non è che «l’insieme di tutte le “Stoffe” e “Techniken” testimoniate dalla tradizione, più tutte quelle che la futura pratica 21 compositiva sia suscettibile di testimoniare» . Da queste affermazioni emerge un altro aspetto del materiale: la sua fondamentale apertura; apertura che è creatività ma anche finalità. Esso, se colto al massimo grado della sua dialettica storica, traduce in musica la storia sedimentata e lo spirito sedimentato; questo significa che il materiale, essendo un’istanza anonima e astratta, si contrappone, in qualche modo, all’individuale e concreta opera d’arte nella quale, ciononostante, esso si manifesta. Riferirsi all’individualità e concretezza dell’opera significa fare riferimento al concetto di «forma», altra nozione cardine dell’estetica adorniana. Detto in estrema sintesi, «il termine forma indica il condensato della razionalità propria dell’arte, l’organizzazione di ogni singolo elemento dell’opera, in modo che esso «parli» coerentemente col tutto ma resti 22 individuato» . La forma rappresenta, dunque, la coerenza interna dell’opera d’arte, essa funziona come un «magnete» che attrae elementi empirici dalla realtà, riorganizzandoli coerentemente, «li estrania al contesto della loro esistenza extraestetica e solo così essi possono diventare padroni 23 dell’essenza extraestetica» . Ciò vuol dire che la forma per un verso garantisce coerenza all’opera e, per altro verso, separa l’oggetto dal «puramente esistente», compiendo il passaggio dall’oggetto empirico all’oggetto estetico. Questo meccanismo, per il quale l’oggetto artistico viene separato dall’esistente e si determina, anche attraverso il processo di costruzione, come contenuto, «non ha niente a che vedere con un dispositivo astratto e anonimo come il materiale, la cui distinzione dall’attualità dell’opera 24 è ben puntualizzata da Adorno» . L’analisi del concetto di materiale musicale ha indotto la Zurletti ad individuarne quattro qualità: arbitrarietà, carattere sociale, carattere storico, carattere di costrizione. Tale partizione, passa attraverso un’antinomia presente in Teoria estetica, per la quale il materiale è un «patrimonio passivo» che giunge agli artisti sotto la pressione della tradizione e, contemporaneamente, fonte di una «costrizione attiva» sugli stessi artisti per indurli ad una «standardizzazione del comportamento 25 espressivo» . La soluzione dell’antinomia, già accennata in precedenza, è l’idea adorniana di una sorta di libertà espressiva condizionata dal materiale, 26 che «detta e garantisce le condizioni del senso musicale» . Ma 61 ripercorriamo i quattro caratteri che possono consentire di meglio definire la sfuggente nozione di materiale musicale. Arbitrarietà. Il carattere di arbitrarietà, dal quale discendono le altre tre qualità, è legato alla natura selettiva del materiale. Esso funziona come un dispositivo, per nulla necessario ma, al contrario, arbitrario, che seleziona dei suoni e delle combinazioni sonore tra l’infinita massa possibile, obbligando il compositore (ma anche l’ascoltatore) a riferirsi ad esse e ad esse soltanto. Il materiale funziona, per certi aspetti, come una lingua: «essa suddivide il continuum dell’esperienza in modo arbitrario e irripetibile, e 27 obbliga i parlanti a servirsi del repertorio che risulta da tale selezione» . L’analogia con i meccanismi della lingua, da ricondurre principalmente alla teoria del linguaggio di Hjelmslév, è particolarmente efficace, tanto per il fatto di fare emergere il «carattere linguistico della musica» quanto per via della percezione di oggettività che la lingua, mediante la convenzionalità delle sue strutture, manifesta, oggettività assimilabile alla presunta naturalità del sistema tonale in musica. Tale presunta naturalità viene fortemente criticata e rifiutata da Adorno, per il quale «il materiale «filtrato attraverso il sistema temperato», cioè il materiale della tonalità, è […] possibile allo stesso titolo di altri […] è, senza alcun dubbio, prodotto della cultura, «artificio» di una certa società, nomos universalmente riconosciuto opposto a ogni possibile 28 tentazione di riconoscervi una physis» . Si tratta, indubbiamente, di un problema spinoso. Il grande pubblico, l’orecchio “comune” continua ad essere più reattivo nei confronti di una melodia dispiegata o, come direbbe Adorno, di un «poderoso crescendo dinamico» piuttosto che verso gli sperimentalismi armonici, formali, timbrici e sonori delle avanguardie e delle neoavanguardie. L’ascoltatore che segue con attenzione il flusso musicale, giunto ad un accordo dissonante, si dispone nell’attesa della sua risoluzione. La musica atonale e dodecafonica tradisce questa aspettativa. L’accordo dissonante, ormai del tutto emancipato, non sussiste più come anticipazione di un accordo consonante, bensì acquista valore, senso e contenuto di per sé; «le dissonanze, nate come espressione di tensione, di contraddizione e di dolore, si sono sedimentate diventando “materiale”. Non sono cioè più mezzi dell’espressione soggettiva, ma in questo non rinnegano affatto la loro 29 origine, e divengono caratteri della protesta oggettiva» . L’effetto che questo nuovo tipo di musica aveva sugli ascoltatori era legato al fatto che «le dissonanze che li spaventa[va]no parla[va]no della loro condizione personale, 30 e unicamente per questo [riuscivano] loro insopportabili» o perché «il nuovo rivela[va] violentemente, con l’inganno della loro civiltà, l’incapacità alla 31 verità, che non [era] solo la loro incapacità individuale» . Se non si tratta di 62 Carattere sociale. La grande capacità «camaleontica» del sistema tonale ha fatto sì che esso potesse radicarsi nella cultura dei popoli in contesti ed epoche differenti, dimostrando di riuscire ad adattarsi alle «esigenze comunicative di società diverse». Questo significa che però, essendo una costruzione del tutto arbitraria, il materiale dipende da «una sorta di contratto sociale, stabilendo quindi che soltanto il consenso 36 generalizzato dei musicisti garantisce la sua concreta validità» . Il materiale, come il sistema tonale e come i codici linguistici, nasce per circolare nella società, viene ripreso, elaborato, modificato, si evolve e riesce a mantenersi in vita proprio in virtù di questi adattamenti costanti. Esso è mediazione sotto un duplice aspetto: è termine intermedio tra «immediatezza sociale» e SAGGI una questione di “naturalità” del sistema tonale e “innaturalità” di quello atonale, è possibile educare l’orecchio a certa musica (non più) 32 contemporanea? . Forse la rottura che si è creata tra ascoltatori e musica contemporanea ha motivazioni, oltre che “pedagogiche”, specificamente percettive. Ci riferiamo al meccanismo che la psicologia ha definito “automatismo percettivo”. Il punto è che la musica che “piace”, grazie all’aderenza a criteri quali la simmetria, l’ordine, la consonanza, l’armonia, risponde effettivamente proprio a quelle esigenze percettive dell’uomo individuate, e scientificamente ormai acquisite, dalla Gestalttheorie. Alla luce di ciò andrebbe rivista la posizione di Adorno il quale, per rispondere alla critica di intellettualismo frequentemente mossa alla nuova musica, afferma che coloro i quali muovono tale “rimprovero” ragionano «come se l’idioma tonale degli ultimi trecentocinquant’anni fosse “natura”, e come se fosse 33 contro natura il superare ciò che ha ristagnato col tempo» . Sulla stessa linea si pone anche Arnold Schönberg, affermando che «la tonalità si è rivelata non un postulato di condizioni naturali […] Poiché la tonalità non è una condizione imposta da natura, è privo di senso insistere nel conservarla 34 in base ad una legge naturale» . Anton Webern, dal canto suo, si preoccupava di sottolineare la comune ascendenza della tonalità e dell’atonalità: durante delle lezioni tenute a Vienna nel 1932 sosteneva la “nuova causa”, rilevando come «quanto adesso viene denigrato ci è stato dato dalla natura allo stesso modo di ciò che si è praticato fino ad oggi». Webern risolve, dunque, la questione riconducendo a “natura” tanto la tonalità quanto l’atonalità. Dal punto di vista di Adorno, invece, «la tonalità è il codice che la società occidentale si è data per esprimere musica durante quattro secoli: dunque semplicemente un dispositivo convenzionale, un codice 35 completamente arbitrario» , esattamente come quelli linguistici. Dunque, il materiale non è naturale, ma sociale e storico. 63 «opera d’arte», ma lo è anche tra «individuo compositore» e «società», garantendo un flusso di comunicazione tra i due soggetti. Il materiale musicale è un dispositivo che è comune a tutti i membri della comunità e che esercita una funzione di «universale della comunicazione». Tale funzione è legata a doppio filo alla straordinaria capacità camaleontica a cui abbiamo fatto riferimento, ad una particolare «duttilità» del sistema tonale che gli ha consentito di resistere nel tempo, rinnovandosi e “imponendosi” come una «seconda natura». Ma, e arriviamo ad un altro punto centrale, il sistema tonale è l’unico «dispositivo capace di esprimere le classi di tutto ciò che viene prodotto al 37 livello della composizione individuale» . Quindi l’abbattimento ed il superamento del sistema tonale non è che «lo smantellamento dell’unico 38 dispositivo che rendeva possibile la comunicazione musicale» , un dispositivo arbitrario, astratto, sociale, sovraindividuale e, quindi, storico. Carattere storico. Dichiarare la storicità del materiale ha diverse conseguenze. Innanzitutto significa sottrarre, seppure a breve termine, il materiale alla possibilità di essere modificato da parte del singolo individuo, il quale si trova a doversi confrontare con esso, senza averlo potuto scegliere. Ciò vuol dire, inoltre, che «rivendicare il carattere storico del materiale in quanto dispositivo comunicativo significa […] sottrarre tale dispositivo alla 39 volontà esclusiva dei compositori» . La loro libertà creativa è primariamente e preliminarmente circoscritta dal materiale, rispetto al quale essa si potrà esercitare. Eppure considerare il materiale così astratto e sovraindividuale da non poter essere in alcun modo scalfito dall’azione individuale sarebbe sbagliato. Come spesso accade nelle argomentazioni adorniane, anche il concetto di materiale presenta delle connotazioni che, dialetticamente, possono rovesciarsi nel loro contrario. Nel caso in questione, il materiale è allo stesso tempo «inalterabile» e «continuamente alterato», per un verso «l’individuo non può fare niente per modificare gli equilibri interni del materiale» ma, per altro verso, «è anche vero che il germe dei cambiamenti che investono il materiale nel suo complesso deve essere ricercato, in ultima 40 analisi, in un’iniziativa individuale, un atto sovversivo di parole in musica» . Iniziative di questo genere si sommano e si sedimentano nel tempo, in maniera lenta ma costante e continua. I tentativi “sovversivi” posso avere effetti trasformanti solo nel tempo, nelle interazioni con altri tentativi, e soltanto dopo un lungo processo di questa natura le modifiche potranno essere assorbite nel codice e si avrà, conseguentemente, una innovazione strutturale. Il materiale, dunque, è soggetto all’innovazione e al cambiamento, coerentemente con una visione, come quella adorniana, fedele al «presupposto di un telos interno che regola l’evoluzione musicale e che 64 Carattere di costrizione. Anche in relazione alla quarta ed ultima qualità del materiale musicale, emerge l’analogia tra questa nozione cardine dell’estetica musicale adorniana e la strutturazione dei codici linguistici. L’aspetto costrittivo viene esercitato dal materiale sui compositori e sugli ascoltatori così come lo esercitano i codici linguistici sui parlanti. Il compositore, così come il parlante, «si conforma spontaneamente al sistema di relazioni stabilito dal codice [nel nostro caso, dal materiale] per verificare la compatibilità di ciò che vuole esprimere con le categorie espressive 44 riconosciute dalla comunità» . Il materiale, dunque, proprio come i codici linguistici, esercita una doppia pressione, una più evidente ed un’altra meno evidente. La prima è quella alla quale abbiamo appena fatto riferimento; la seconda, invece, è «una costrizione più profonda che riguarda la facoltà 45 stessa di percepire la possibilità dell’espressione» , ed è legata alla funzione selettiva del materiale. Il compositore si trova ad esprimere gli aspetti della realtà che sono stati, preliminarmente e preventivamente, selezionati dal materiale: «esso fornisce e impone alla composizione sia la serie di elementi minimi atti a connettersi in strutture comunicative che i modelli per strutturare SAGGI 41 rende irreversibile il progresso musicale» . E proprio in virtù di questa visione teleologica e progressiva della musica, il materiale si presta, per le proprie caratteristiche, a funzionare come parametro di valutazione, come «gradiente dell’evoluzione». La Neue Musik rappresentava, in ordine cronologico, l’ultimo stadio di sviluppo della musica, uno sviluppo segnato da una sempre maggiore razionalizzazione dei mezzi musicali e orientato verso la neutralizzazione del sistema tonale. La Nuova Musica aveva come obiettivo l’opera d’arte integrale, momento finale di un processo di razionalizzazione di tutte le dimensioni legate alla prassi compositiva e che non è difficile leggere come la specificazione in musica del generale, radicale ed universale processo di Aufklärung distintivo del cammino dell’Occidente. Razionalizzazione, in musica, va intesa come «la rottura delle frontiere che limitavano l’espressività musicale soltanto alle configurazioni tonali, e l’allargamento del materiale a elementi che prima restavano esterni al 42 codice» , offrendo così alla musica, come ebbe a dire Anton Webern, «un mare di suoni mai uditi». È questa la chiave di volta per comprendere la funzione ed il senso che Adorno attribuisce al Progresso musicale e alla dialettica storica del materiale che, in ultima analisi, sembra terminare nel suo rovesciamento: il materiale, sostiene Zurletti, una volta reso dalla Nuova Musica totalmente razionalizzato «sembra fruire di una posizione metastorica: qualunque combinazione si voglia istituire fra i suoni, da questo momento in poi, è valida come qualunque altra visto che sono tutti 43 fisicamente possibili» . 65 46 tali elementi in sequenze sensate» . Eppure il materiale musicale, inteso come un «codice-competenza» non è consultabile come un manuale, non è un libro sacro nel quale poter scorrere norme e regole alle quali attenersi. E, 47 viceversa, percepito come «il sentimento della possibilità dell’opera» , è qualcosa che si subisce: «la struttura e il funzionamento del materiale 48 musicale non sono interamente esplicitabili in concetti» , il che spiegherebbe in parte il motivo per il quale Adorno non tematizza esplicitamente e chiaramente il concetto di materiale. L’interesse suscitato dall’analisi della nozione di materiale musicale in Adorno che Sara Zurletti ha prodotto, va, comunque, riconvertito in una generale attenzione che andrebbe nuovamente rivolta all’estetica musicale adorniana, la cui densità e ricchezza di prospettive rimangono indiscutibili. L’aver voluto ricondurre l’estetica musicale di Adorno ad un unico concetto, tuttavia, può nascondere qualche rischio che, nel caso specifico della produzione adorniana, è sempre presente e nel quale l’Autrice abilmente e rigorosamente non cade. Il pensiero adorniano si può ben definire un terreno instabile e pericoloso, all’interno del quale ogni aspetto va messo in relazione e in rapporto sia con il tutto sia con altre singole parti. Alla sua dialettica interna dovrebbe seguire una sorta di dialettica metodologico-interpretativa che possa tenere conto del reticolo, tanto affascinante quanto, talvolta, inestricabile, che Adorno riesce a tessere. Conseguentemente, il concetto di materiale musicale non deve essere considerato isolatamente, bensì bisognerebbe far dialogare con esso numerosi altri concetti, ugualmente centrali nell’estetica adorniana, nonché inserire il tutto nel quadro teoricocritico del Francofortese. Per il momento ci si è voluti limitare a proporre la lettura e l’analisi che ha condotto Sara Zurletti in merito al materiale musicale in Adorno, volendo, allo stesso tempo, proporre, senza percorrerla in questa sede, una direzione opposta, orientata non verso la restituzione dell’estetica adorniana ad una sua interpretazione meno schierata, bensì orientata, viceversa, verso il recupero della carica critica che una filosofia della musica oggi può tentare di ricostituire. Se ad Adorno è stato rimproverato un sostanziale “rinvio della prassi”, si potrebbe tentare di considerare il nostro come il “tempo della prassi”, riattualizzando tesi che, evidentemente, scaturivano da un particolarissimo intreccio di eventi storici, politici, sociali e culturali del tutto irripetibili. Ciò non toglie che, a differenza di quanto sembra accadere, la riflessione musicologica e quella dell’estetica musicale possano recuperare un intentio critica che si è andata via via affievolendosi nel tempo, unico strumento per poter restituire alla musica un’autentica funzione sociale. 66 E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 111. 2 Ivi, pp. 111-12. 3 Ivi, p. 112. 4 Ivi, p. 113. 5 E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, Edizioni ETS, Pisa 2007, p. 108. 6 S. CAPPELLETTO, L’ultima filosofia (della musica), cit., p. 6. 7 E. Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 111. 8 Ivi, pp. 111-12. 9 Ivi, p. 112. 10 Ivi, p. 113. 11 A. FINKIELKRAUT, L’ingratitudine. Conversazione sul nostro tempo con Antoine Robitaille, trad. it. di R. Bentsik, Excelsior 1881, Milano 2007; questa citazione è tratta dalla quarta di copertina. 12 E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, p. 114. 13 Ibidem. 14 S. ZURLETTI, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, il Mulino, Bologna 2006, p. xi. 15 Ivi, pp. x-xi. 16 Ivi, p. 16. 17 Ivi, p. 4. 18 Ivi, p. 8. 19 Ivi, p. 9. 20 S. PETRUCCIANI, Adorno, ovvero del pensare aperto, Introduzione a Th.W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, trad. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2006, pp. ix-x. 21 S. ZURLETTi, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno,, pp. 14-5; corsivo dell’autrice. 22 Ivi, p. 18. 23 Ivi, p. 19. 24 Ivi, p. 22, corsivo dell’autrice. 25 P. PELLEGRINO, Teoria critica e teoria estetica in Th.W. Adorno, Argo editrice, Lecce 20042, p. 116. 26 TH.W. ADORNO, Teoria estetica, trad. it. a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975, p. 202. 27 S. ZURLETTI, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, cit., pp. 32-3. 28 Ivi, p. 33. 29 Ivi, p. 39. 30 Ivi, p. 41. 31 Ivi, p. 43. 32 TH.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, trad. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1959, p. 89. 33 Ivi, p. 14. 34 Ivi, p. 109. 35 Arnold Schönberg era convinto che il tempo e l’educazione (sebbene considerasse “la conoscenza teorica non la condizione più essenziale”) avrebbero modellato l’orecchio all’ascolto e alla comprensione della musica dissonante e dodecafonica. Nel 1926 scriveva: «L’orecchio dell’ascoltatore deve venire educato SAGGI 1 67 ancora per lungo tempo, prima che i suoni dissonanti gli appaiano ovvi e i procedimenti basati su essi gli diventino comprensibili» (A. Schönberg, Partito preso o convinzione?, in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, Einaudi, Torino 1966, p. 406). Cosa egli intendesse per “lungo tempo” non ci è dato di saperlo, quel che è certo è che Schönberg aveva colto il problema della difficile ricezione della nuova musica da parte del pubblico. 36 TH.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, cit., p. 17. 37 A. SCHÖNBERG, Partito preso o convinzione?, cit., p. 424. 38 S. Zurletti, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, cit., p. 44. 39 Ivi, p. 46. 40 Ivi, p. 49. 41 Ibidem. 42 Ivi, p. 52. 43 Ivi, p. 53. 44 Ivi, p. 55. 45 Ivi, p. 56. 46 Ivi, p. 58. Sul rapporto tra materiale musicale e Aufklärung in musica cfr. S. ZURLETTI, Il concetto di “materiale musicale” in Adorno: Aufklärung in musica, in Theodor W. Adorno. Musica, filosofia, letteratura, cit., pp. 15-30. 47 Ivi, p. 59. 48 Ivi, p. 60. 49 Ivi, p. 61. 50 Ivi, p. 62; corsivo dell’autrice. 68 Il ricorrere del centenario della pubblicazione de L’évolution créatrice nel 2007 ha fornito l’occasione di celebrare un “année Bergson”. Dopo un lungo silenzio, la cui fine è stata certamente annunciata dal breve saggio di Deleuze del ’66 dedicato al bergsonismo, lo studio del pensiero del filosofo francese – che, nonostante sia difficile oggi farsene una chiara idea, tanto spazio occupava nella filosofia francese dell’inizio del secolo scorso ha riconquistato l’interesse che gli spetta. Nel contesto di questo rinnovato fermento, si colloca il libro Bergson, L’évolution créatrice e il problema religioso, curato da Giovanni Invitto ed edito dalla casa editrice milanese Mimesis (2700, pp. 13). Il volume raccoglie i contributi del Convegno internazionale su L’évolution créatrice e il problema religioso, svoltosi a Lecce, presso l’Università del Salento, il 5 maggio 2007, e organizzato dal Centre internationale de la philosophie française contemporaine de l’École Normale Supérieure e dall’Association des amis de Bergson, entrambi presieduti da Frédéric Worms. Tali contributi rendono esplicita nel loro insieme la complessità dell’itinerario filosofico-religioso di Bergson, che dalle problematiche de L’évolution créatrice conduce a quelle de Les deux sources de la morale et de la religion, ridando voce, sotto nuovi punti di vista, al dibattito sul presunto irrazionalismo bergsoniano, su monismo e panteismo, sul posto da attribuire nel suo pensiero alla presenza di un Dio personale e, di conseguenza e non in ultimo, sul rapporto in cui pensare metafisica e scienza. Nel primo intervento Santo Arcoleo si concentra sui Quaderni E. Cotton, redatti dall’allievo di Bergson, da cui gli stessi prendono il nome, al liceo di Clérmont-Ferrand. In possesso della versione dattiloscritta di questi corsi inediti, Arcoleo mette in luce la presenza di alcuni temi che troveranno una definitiva trattazione nelle opere della maturità del filosofo: il dialogo con la psicologia sperimentale, la critica al materialismo, il problema della libertà e quello di Dio. L’intervento successivo, firmato da Marisa Forcina, è incentrato sul rapporto Bergson-Péguy dal punto di vista delle tematiche politiche. Dopo aver fornito una bibliografia essenziale sull’argomento, l’accento è posto sul carattere «veramente innovativo in politica» di questo binomio. In primo luogo, si sottolinea l’eco bergsoniana del concetto di società aperta nella progetto peguyano di città armoniosa, di cui il nuovo concetto di cittadinanza è «ri-descrizione e rappresentazione». In seconda battuta, si mettono in NOTE BERGSON, L’ÉVOLUTION CRÉATRICE, E IL PROBLEMA RELIGIOSO di Palma Valentina di Nunno 69 evidenza gli echi bergsoniani nell’opera De la cité socialiste, da cercare innanzitutto nel linguaggio e nel carattere antististematico, e anche, a livello di contenuti, nel porre a fondamento della democrazia l’«importanza della differenza di qualità, intensità e durata che si manifestano nelle comunità umane». La parziale apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede è per Jean-Robert Armogathe – autore del terzo intervento riportato dal volume – l’occasione di approfondire la messa all’Indice, nel 1914, di tre opere di Bergson: l’Essai sur les données immédiates de la conscience, Matière et mémoire e L’évolution créatrice. L’8 marzo del 1913 – questo emerge dal dossier infine a disposizione dei ricercatori – il domenicano padre Edouard Hugon denuncia le tre opere suddette al suo confratello padre Esser, segretario della Congregazione dell’Indice. Seguendo le tracce di questo affascinante affaire – affascinante non solo per lo storico e lo studioso di filosofia – attraverso lettere, articoli ed interviste, se ne ricostruisce il contesto politico e dottrinale, sullo sfondo di uno scenario che ha per protagonisti tra gli altri Mgr Albert Farges e il giovane Maritain. Frédéric Worms propone un approfondimento che parte da due definizioni di Dio presenti nell’opera bergsoniana («Dieu, ainsi défini, n’a rien de tout fait, il est vie incessante, action, liberté», L’évolution créatrice, 1907, PUF, Paris 2007, p.249; «Cette nature de “Dieu”, le philosophe aurait vite fait de la définir s’il voulait mettre le mysticisme en formule. Dieu est amour, et il est objet d’amour; tout l’apport du mysticisme est là», Les deux sources de la morale et de la religion,1932, PUF, Paris 2007, p.267). Tali definizioni hanno in comune il fatto di mettere a dialogo, in modo opposto, filosofia e mistica; non solo: in entrambi i casi la definizione viene proposta come se fosse già stata data in precedenza nel testo, e come se l’esperienza di Dio (filosofica in un caso, mistica nell’altro) avesse preceduto la definizione e il problema stesso. In breve, «tout se passe comme si le rôle de la définition était dans les deux cas […] médiateur», come se la definizione si situasse a metà strada tra l’esperienza di Dio e la posizione del problema. Worms osserva che è proprio questo movimento dall’esperienza al problema a servire da metodo per le opere di Bergson da cui le due definizioni sono tratte. Un’ultima considerazione completa i presupposti interpretativi dell’autore: c’è qualcosa ne Les deux sources de la morale et de la religion che, contrariamente a quanto accade ne L’évolution créatrice, precede fondamentalmente l’esperienza positiva di Dio. Per l’uomo, prima del Dio dei mistici e di quello della religione dinamica e aperta – Dio di cui, a diverso titolo, si fa esperienza – viene il Dio, o piuttosto, gli dèi del “pantheon” della religione statica e chiusa, gli dèi della superstizione e della città, della paura 70 NOTE e della guerra. L’approfondimento di Worms, alla ricerca del significato di Dio nella filosofia di Bergson, segue esattamente questo percorso: si apre con l’analisi del doppio movimento dell’esperienza e del problema ne L’évolution créatrice e si conclude mettendo a tema il nuovo ostacolo, appena evocato, che il tema incontra ne Les deux sources de la morale et de la religion. Il contributo di Giulia Belgioioso è dedicato al Bergson di H. Gouhier; non sono i richiami a Bergson da parte di Gouhier che si mettono a tema – numerosi e sufficientemente indagati – ma, in un’ottica più specifica, il ruolo che Bergson ricopre nell’Histoire philosophique du sentiment religieux en France, progettato da Gouhier nel 1926 come versante filosofico del progetto che Bremond stava conducendo sul terreno letterario. Ciò a partire da un testo, pubblicato postumo nel 2005, dal titolo Henri Gouhier se souvient… ou comment on devient historien des idées, che comprende cinque entretiens, fra cui uno dedicato a Bergson et Gilson. Dopo aver messo in evidenza il carattere profondamente bergsoniano del metodo d’indagine di Gouhier – alla ricerca dell’intuizione originaria del bergsonismo – si chiarisce come Gouhier individui tale intuizione nella nozione di creazione. Quest’ultima, offerta a Bergson dalla tradizione giudaico-cristiana e affrancata dal suo significato religioso per essere trapiantata nella tradizione greco-latina diventa l’asse portante della sua riflessione filosofica. Così si esprime Belgioioso: «In questa trasposizione, il concetto di creazione smette di essere una teoria religiosa, e diventa la teoria filosofica che spiega il “pensiero” di Bergson». Inoltre si mostra come «Gouhier reinterpreti gli scritti bergsoniani a partire da questa scoperta dell’intuizione originaria che è loro sottesa», già riconoscendo la nozione di creazione nella teoria della doppia causalità (fisica e psicologica) esposta nell’Essai. In seguito, il discorso si concentra su altri due testi per guadagnare ulteriori conferme a questa interpretazione:l’Entretien avec Henri Gouhier. Histoire personelle de la philosophie. A quoi pensent les philosophes, intervista rilasciata da Gouhier a Jacques Message e Etienne Tassin, e il libretto che contiene i Trois essais sur Etienne Gilson: Bergson, la philosophie chretienne, l’art, pubblicati a cura di Gouhier e di Belgioioso presso la casa editrice Vrin. Rimandando allo studio di M. Barthélemy-Madaule per un esaustivo e insuperato confronto tra il pensiero di Bergson e quello di Teilhard de Chardin, Franco Meschini dedica il suo intervento alla ricostruzione di un momento preciso della vita e della formazione del giovane Teilhard, vale a dire quello in cui quest’ultimo, ad Hastings, per la prima volta prende in mano L’évolution créatrice. L’intervento si articola sulla lettura parallela di una pagina de La pensée et le mouvant e una del Contre Saint-Beuve di Proust, indagando le ricchezze e i pericoli del biografismo. Nell’ottica di un’ermeneutica che metta in dialogo l’interprete e il vissuto filosofico che si 71 cela dietro le opere di un autore, il contributo di Meschini individua nel concetto di intuizione la nozione chiave – per quanto non esplicitamente tematizzata in Teilhard – che più di ogni altra lo avvicina Bergson. L’intervento di Giovanni Invitto, dedicato al rapporto Merleau-PontyBergson, indaga questo confronto filosofico attraverso l’analisi di due scritti merleaupontyani: l’Éloge de la Philosophie del 1953 e Bergson se faisant del 1959. L’autore introduce l’analisi con alcune premesse. Innanzitutto è opportuno chiarire che dal punto di vista metodologico – come è manifesto nel caso della lettura merleaupontyana di Husserl e Descartes – non è con lo sguardo di uno storico della filosofia che Merleau-Ponty legge Bergson, ma, piuttosto, con l’intenzione di condividere uno spazio «intermediario, ove il filosofo del quale si parla e colui che parla sono presenti insieme». In secondo luogo, si chiarisce «la posizione di Merleau-Ponty nei confronti della religione in generale e del cristianesimo in particolare e, quindi, della filosofia che nei secoli si è richiamata al messaggio cristiano» nei termini di un fondamentale e dichiarato presupposto: «i temi cristiani sono “des fermentes, non des reliques”». Chiariti questi presupposti, l’approfondimento ruota intorno ai due scritti citati, nei quali Merleau-Ponty mostra interesse e ammirazione in particolare per la riflessione sull’intuizione e la percezione, dimensioni di una coscienza che, alquanto problematicamente, apre alle novità del discorso teologico bergsoniano. Invitto fa notare, tra l’altro, che Merleau-Ponty non riscontri in Bergson alcuna significativa svolta teoretica determinata dalla conversione al Cristianesimo: come per Simone Weil – con cui Bergson condivide l’origine ebraica e le motivazioni di una mancata conversione – è innanzitutto alla verità che bisogna essere fedeli. Tuttavia, come Maritain, anche Merleau-Ponty riconosce un Bergson “reale” e uno “latente” altrettanto degno di considerazione. Il Convegno si chiude, con un approfondimento di Leo Lestigni sul misticismo e Les deux sources de la morale et de la religion, quasi a voler indicare la necessità imprescindibile di allargare l’orizzonte di riflessione sul tema religioso in Bergson anche a quest’opera. L’intervento prende in considerazione il rapporto tra sapere teologico e sapere filosofico, ritenendo un pregiudizio interpretativo il rifiuto bergsoniano, per ciò che concerne Les deux sources de la morale et de la religion, di un confronto con la teologia. L’ipotesi piuttosto è che, nel contesto di un ascolto attento alla teologia rivelata, Bergson mantenga ad ogni passo la consapevolezza di dover salvaguardare l’autonomia della filosofia, la quale, quand’anche si occupi di religione, deve rimanere entro i suoi limiti speculativi. 72 Nota bibliografica Dal 2007 è in corso di pubblicazione la prima edizione critica dell’intera opera di Bergson diretta da Frédéric Worms per i tipi di Presses Universitaires de France nella collana Quadrige. Nel 2007 sono apparsi: Essai sur les données immédiates de la conscience, Le rire e L’évolution créatrice. Nel 2008 Matière et mémoire e Les deux sources de la morale et de la religion. Previsti per il 2009 Durée et simultanéité, La pensée et le mouvant e gli Écrits philosophiques; per il 2011 l’Énergie spirituelle e Cours et correspondances. PAOLO GODANI, Bergson e la filosofia, Pisa, ETS, 2009. OLIVIER PERRU, Science et itinéraire de vie: la pensée de Bergson, Paris, Kimé, 2009. BRIGITTE SITBON-PEILLON, Religion, métaphysique et sociologie chez Bergson: une expérience intégrale, Paris, Presses Universitaires de France, 2009. RENAUD BARBARAS, Introduction à une phénoménologie de la vie, Paris, Vrin, 2008. Bergson en bataille, a cura di ÉLIE DURING «Critique», t. LXIV, 732, 2008. ARNAUD FRANÇOIS, Bergson, Schopenhauer, Nietzsche. Volonté et réalité, Paris, Presses Universitaires de France, 2008. Dio, la vita, il nulla. L’evoluzione creatrice di Henri Bergson a cento anni dalla pubblicazione. Atti del Colloquio internazionale Bari, 4 maggio 2007, a cura di GIUSI STRUMMIELO, Bari, Edizioni di Pagina, 2008. JEAN-LUC GIRIBONE, Le rire étrange: Bergson avec Freud, Paris, Éditions du Sandre, 2008. La politesse et autres essais, con una prefazione di FREDERIC WORMS, Paris, Payot & Rivages, 2008. Bergson, centenaire de L’évolution créatrice, a cura di BRIGITTE SITBONPEILLON, «Archives de philosophie», t. LXXI, n 2, 2008. MATTEO PERRINI, Filosofia e coscienza: Socrate, Seneca, Agostino, Erasmo, Thomas More, Bergson, Brescia,Morcelliana, 2008. Lectures de Bergson, a cura di JEAN-LOUIS VIEILLARD-BARON, «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», CXCVIII, 2, 2008. Bachelard et Bergson : continuité et discontinuità. Atti del colloquio tenuto all’Université Lyon III- Bergson et la religion. Nouvelles perspectives sur Les deux sources de la morale et de la religion, a cura di GHISLAIN WATERLOT, Paris, Presses Universitaires de France, 2008. Annales bergsoniennes , a cura di FREDERIC WORMS: t. III, Bergson et la science, Paris, Presses Universitaires de France, 2007; t. IV, L’évolution créatrice 1907-2007: épistémologie et métaphysique, Paris, Presses Universitaires de France, 2008. NOTE In occasione del centenario della pubblicazione de L’évolution créatrice sono stati numerosi i convegni e le pubblicazioni: si fornisce quindi una breve rassegna bibliografica in merito. 73 Jean Moulin dal 28 al 30 settembre 2006, a cura di FREDERIC WORMS e JEAN-JACQUES WUNENBURGER, Paris, Presses Universitaires de France, 2008. FRANÇOIS AZOUVI, La gloire de Bergson. Essai sur le magistère philosophique, Paris, Gallimard, 2007 ARNAUD FRANÇOIS, Y a-t-il une théorie de la pulsion chez Bergson ? Pulsion et actualisation , in La pulsion, a cura di JEAN-CHRISTOPHE GODDARD, Paris, Vrin, 2007, pp. 183-211. PAUL-ANTOINE MIQUEL, Bergson ou l’imagination métaphysique, Paris, Kimé, 2007. BRIGITTE SITBON-PEILLON, L’Ambivalence de Bergson: entre judaïsme et christianisme , in «La célibataire. Revue de psychanalyse», XV, 2007, pp. 114-128 BRIGITTE SITBON-PEILLON, Bergson et Durkheim: entre philosophie et sociologie. Ruptures et unité , in «Klesis», 2007, www.klesis-revue.org. Bergson, la vie et l’action, a cura di JEAN-LOUIS VIEILLARD-BARON, Paris, Les Éditions du Félin, 2007. Centenaire de la parution de "L'évolution créatrice" de Henri Bergson: colloque du vendredi 21 septembre 2007, organisé par l' Institut de France, Académie des sciences morales et politiques, Paris, Palais de l'Institut, 2007. Si segnala la recente traduzione italiana de L’énergie spirituelle di GIUSEPPE BIANCO, Milano, Saggi, 2008. Si segnalano inoltre disponibili su Internet (in data 23 luglio 2009): HISASHI FUJITA, Finalisme et vitalisme : Bergson et le problème de la téléologie (testo e video conferenza), intervento nell’ambito degli «Ateliers eurojaponais sur L’évolution créatrice de Bergson» (Toulouse, le 20 avril 2007) http://www.europhilosophie.eu/recherche/IMG/pdf/Fugita.pdf L’évolution créatrice de Bergson cent ans après (1907-2007): Épistémologie et Métaphysique, (registrazione audio), Congrès international de clôture de l’année Bergson, 23 et 24 novembre 2007, http://www.paris4philo.org/article-14402667.html 74 Una “sintesi” sul colloquio internazionale svoltosi a Parigi a conclusione dell’anno bergsoniano - così è stato definito il 2007, anno del centenario della pubblicazione de L’évolution créatrice - ci spinge a richiamare l’attenzione su alcuni temi dibattuti nella più attesa fra le numerose manifestazioni che, svoltesi in varie parti del mondo, hanno trovato nella grande assiste del Collège de France, l’istituzione nella quale Bergson 1 ha esercitato la quasi totalità della sua attività accademica. , il loro momento più intenso e significativo. Considerando sia le polemiche che gli apprezzamenti che questo testo di Bergson ha suscitato nella cultura del primo ‘900, un numeroso gruppo di interpreti e di studiosi del suo pensiero ha ritenuto opportuno riproporre la trattazione di alcuni nodi essenziali sul significato e sugli sviluppi del ruolo di quest’opera emblematica che illumina non solo il percorso della ricerca del filosofo ma l’ intera attività filosofico-scientifica della prima metà 2 del XX secolo. Anche se nella maggior parte dei suoi contemporanei ha suscitato un certo entusiasmo, L’évolution créatrice, non esente da critiche e da 3 condanne” , ha contribuito a rinnovare l’interesse per la scienza, e in generale per il “conoscere”, all’interno e contro una “diffusa tradizione evoluzionistica” che da cinquant’anni dominava la cultura e la società europea, promuovendo un ininterrotto dibattito sul significato e sul ruolo della scienza. All’origine del positivismo, le opere di Darwin - l’Evoluzione della specie, l’’Evoluzione dell’uomo - avevano indirizzato la cultura scientificofilosofica europea alla ricerca di nuove vie del sapere, sviluppando e rinnovando la metodologia e la ricerca scientifica, indispensabili per estendere i confini della scienza, nonostante lo scontro assai duro con una dogmatica religiosa che vedeva nel creazionismo l’unica dottrina valida a spiegare le origini delle specie e dell’uomo. L’opera di Darwin aveva contribuito a rendere di maggiore attualità i temi capaci di giustificare i fondamenti di una dottrina dell’evoluzione, già enunciata – nelle sue linee generali - da A. Comte, che nella matematica e nella fisica aveva trovato i modelli necessari per la conoscenza oggettiva. 4 La filosofia di Bergson non era nata all’improvviso, come una meteora imprevedibile: era il risultato di una formazione particolarmente NOTE NEL CENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DE L’EVOLUTION CREATRICE DI H. BERGSON IL COLLOQUIO AL “COLLÈGE DE FRANCE” di Santo Arcoleo 75 efficace, radicata nella tradizione della filosofia francese che Egli, in un articolo del 1915, presentava come sapere caratterizzato da una profonda adesione alla realtà comune nella quale gli uomini vivono ed operano. “Che [la filosofia] si sia sempre costretta a parlare la lingua di tutti non è stato il privilegio di una specie di casta filosofica; essa è rimasta sottoposta al controllo di tutti e non ha mai rotto con il senso comune. Praticata da uomini che furono psicologi, biologi, fisici, matematici, si è costantemente tenuta in contatto sia con la scienza che con la vita. Il suo contatto permanente con la vita, con la scienza, con il senso comune, l’ha fecondata costantemente e nello stesso tempo le ha impedito di giocherellare con se stessa, di ricomporre artificialmente le cose servendosi delle astrazioni”. Bergson diventa l’interprete del realismo della filosofia francese e, secondo A. Fagot-Largeault, primo relatore alle assise bergsoniane del Collège de France, cerca di caratterizzare il proprio pensiero con la medesima precisione che contraddistingue la scienza positiva; in lui il modello scientifico coincide con la sua attitudine più personale con cui misura la sua dottrina filosofica, che caratterizza la scienza positiva come la vera scienza, la quale “constata i fatti, li studia e li collega fra loro per mezzo delle leggi”. A. Fagot–Largeault si sofferma sulla “attitudine di rispetto”, tipica dell’uomo Bergson che è lo sforzo costante di mettersi al corrente con i lavori scientifici e con i risultati ottenuti dagli scienziati, opposto all’atteggiamento di Cournot, che sosteneva che bisognava sottoporre alla speculazione filosofica i dati offerti dalle scienze. “Se pretendiamo di andare oltre la scienza, nella stessa direzione nella quale la scienza si incammina, dovremo accontentarci di possibilità, o tutt’al più di probabilità; a noi dovrà essere sufficiente il plausibile. Ma il plausibile non ci basterà. Noi vogliamo la certezza- la certezza per la filosofia come anche per la scienza. Ed è questo il motivo per il quale non esitiamo a tracciare una linea di demarcazione netta tra la scienza e la filosofia”, enunciava Bergson. A. Fagot-Largeault ha evidenziato il valore ed il significato della metodologia bergsoniana, della dottrina della 5 “intuizione”, che ha prodotto la grande rivoluzione culturale del 1889 - che “insieme alla scienza” ricerca la “certezza”, proprio come fa la scienza. La relatrice si è soffermata anche sul modo con cui Bergson ha messo in pratica il suo rapporto con la scienza, in particolare con la scienza psichica, della quale, a conclusione dell’opera Les deux sources de la morale et de la religion, ha ricordato che sia pure presente fin dalle sue prime opere, essa resta una terra incognita la cui esplorazione, in quelle opere, è solo all’inizio. 6 La successiva relazione di J. Gayon , proseguendo nell’ analisi del problema della scienza, ha illustrato i momenti fondamentali della dottrina della evoluzione. 76 NOTE Secondo lui la dizione “filosofia della scienza” poco s’addice al pensiero di Bergson il quale se, per un verso, vuole evitare ogni tipo di sovrapposizione della scienza alla filosofia, per l’altro rivendica a quest’ultima una concretezza che, intesa come “metafisica positiva”, diventa il fondamento di una conoscenza positiva. “Apertamente spiritualista, questa metafisica positiva ha rivolto la propria attenzione agli aspetti della realtà in cui il problema dell’interpretazione della materia e dello spirito è oscuro: la sensazione (Données immédiates de la conscience), la patologia della memoria (Matière et mémoire), e, punto culminante di questo programma di ricerca- l’evoluzione biologica (L’évolution créatrice). Bergson affermerà successivamente di aver ”fatto scendere lo spirito il più vicino possibile alla materia” e questo spiega il suo privilegio per le scienze biologiche. Queste forniscono le prove empiriche dell’esistenza di un certo grado di “indeterminazione”, di “contingenza”, di “capacità di scelta” presenti nei fenomeni e negli esseri lontani dal livello di organizzazione dello psichismo umano. Dall’evoluzione biologica Bergson ricava il materiale empirico, necessario per offrire la più ampia estensione alle sue tesi indeterministe e alla sua visione dello spirito. Dagli aspetti della patologia della memoria emergono indizi che rendono “interessante” un elemento di grande rilevanza: la incredibile forza dell’azione delle forze occultiste - dottrine all’epoca diffuse e popolari - accanto al riproporsi dell’”indeterminismo“, sul quale si andavano concentrando gli interessi degli scienziati dell’epoca, soprattutto dei biologi evoluzionisti. Gayon presenta un ampio panorama nel quale mette in evidenza il ruolo di quanti hanno considerato con attenzione il ruolo dell’Evolution créatrice considerata come momento originario della “teoria sintetica dell’evoluzione”; fra essi i genetisti Julien Huxley, Theodosius Dobzhansky, Sewall Wright, che hanno fatto di quest’opera lo strumento di un dialogo ininterrotto e di un confronto continuo con il proprio credo filosofico evoluzionistico; contro si è schierato Ronald Fisher, che ha giudicato negativamente la concezione bergsoniana dell’indeterminismo,mentre gli zoologi, i botanici, i paleontologi sono stati estremamente critici o indifferenti. Si può ipotizzare, allora, la lettura di quest’opera bergsoniana come precorritrice dell’epistemologia evoluzionista? 7 E’ il tema sul quale si è soffermato Dong-Hyun-Son , muovendo dall’ipotesi di una presupposta complementarietà fra filosofia “trascendentale”, di marca germanica, e filosofia “empiristica”, propria dei paesi anglofoni, a cui aggiunge una terza via “sintetica”, ove la ragione è detta “trascendentale” non in quanto principio sovrannaturale, ma perché si presenta come lo sforzo di non perdere il legame reale con l’esperienza del mondo; non si tratta dunque di una esperienza psicologica personale, ma 77 piuttosto di“ una esperienza biologica di evoluzione ben più estesa”, quella dell’homo sapiens. Il nuovo corso di una “epistemologia evoluzionista”, che negli anni ’70 ha cominciato a svilupparsi con D. Campbell, ha coinvolto i paesi di lingua e cultura tedesca e quelli di lingua e cultura inglese, secondo il relatore è cominciato con Bergson ed i fondamenti dell’epistemologia evoluzionistica che caratterizzano la filosofia bergsoniana, si possono riassumere in poche tesi.: le attività cognitive dipendono dal corpo;l’evoluzione della vita è un processo dello sviluppo cognitivo; le diverse forme di conoscenza derivano dalla evoluzione biologica, e perciò sono relative ed incompiute. Se ne può dedurre che la percezione sensibile ed il pensiero razionale abbiano avuto la medesima origine e che le forme del ragionamento logico nascano dalla relazione spaziale delle cose. 8 F. Azouvi , ha invece trattato del magistero bergsoniano e del successo de “l’élan vital”,sviluppato in un percorso che comprende tre momenti:la determinazione del concetto di élan vital, il suo ruolo nell’insegnamento, i suoi limiti, nel periodo che precede la pubblicazione dell’Evolution créatrice, che ne determinerà la notorietà ed il favore del pubblico. L’analisi del concetto di élan vital procede a “cerchi concentrici”, che abbracciano gli ambienti universitari dei filosofi e dei biologi e, successivamente, suscitano una attenta analisi nel mondo cattolico, che non si esprime in modo omogeneo ma evidenzia grandi differenze di valutazione: esso è accolto favorevolmente nella destra cattolica nazionalista, con l’eccezione della destra maurrassiana. Nella prima il bergsonismo dell’ élan vital confluisce nel niccianesimo della volontà di potenza e seduce un pubblico desideroso di fondare una morale ed una politica dello sforzo, antidemocratica e talora antirepubblicana ; in questo l’ambito l’interesse è rivolto alle figure emblematiche delle tradizione intellettuale e politica del momento. I cattolici tomisti hanno considerato l’élan vital come una fantapolitica, assai pericolosa perché offre la possibilità di fare a meno di Dio e spinge tutto in un “mobilismo” disastroso: si tratta delle tesi grazie alle quali essi, con i maurrassiani, otterranno la condanna di Bergson e la messa all’indice delle sue opere. La ricezione de l’élan vital fra le avanguardie estetiche è stata invece molto più felice: il futurismo, il cubismo e alcuni circoli letterari ne hanno messo in luce l’apologia della vita, proponendo anche di metterla al centro delle composizioni poetiche. Un ultimo aspetto ha messo in luce la ricezione de l’élan vital all’interno dell’ estremismo anarchico- sindacalista della sinistra. Circa l’influenza delle fonti della biologia che hanno alimentato le 9 ricerche bergsoniane , A. François ha individuato tre momenti, a cominciare dal problema del meccanicismo e del vitalismo, il primo rappresentato da 78 NOTE Haeckel e da Spencer, quest’ultimo considerato come suo avversario nella Evolution créatrice. Il relatore ha richiamato le esperienze di Roux e di Bütschli, ricordando che quelle di quest’ultimo , dedicate a sottolineare la somiglianza tra la struttura del protoplasma e quella di alcuni muschi alveolari, avevano suscitato la condanna di Bergson di quella varietà di meccanicismo , il “ neovitalismo”, criticato in ragione della sua teleologia. Il rigore meccanicista era generalmente considerato come un criterio che consentiva di apprezzare il valore e la pertinenza di una teoria della ereditarietà (problema ereditato come uno dei principali obiettivi del primo capitolo de l’évolution créatrice). Nella polemica di Haeckel contro Weismann , relativa alla trasmissione dei caratteri acquisiti , contrapponendo la vecchia dottrina della “preformazione” e quella della “epigenesi”, la soluzione di Haeckel era ritenuta l’unica sola in grado di rendere conto dell’evoluzione, escludendone principi teleologici inutili. Bergson si schiera a favore di Weismann, ma non aderisce al neo-darwinismo, al quale rimprovera di non essere in grado di spiegare le cause delle “Variazioni”, e mostra invece una certa simpatia per i neo-lamarckiani, gli unici in grado di ricorrere ad un principio interno alla evoluzione - nella versione americana datane da Cope, opposta alla versione francese di Delage o di Le Dantec - entrambi citati da Bergson, il quale fa riferimento anche all’ortogenesi di Eimer, che secondo lui obbedisce ad un principio esterno; conclude affermando che l’evoluzione procede secondo una direzione ben definita. Un aspetto importante della discussione bergsoniana, relativa alla dottrina della ereditarietà, riguarda la trattazione del mutazionismo, base per la teoria genetica. Bergson lo include nella stessa obiezione che aveva rivolto al neo- darwinismo, convinto di mettere in luce i tratti profondamente innovatori di una dottrina, di cui conosceva bene i primi sviluppi e cita,oltre ai lavori del De Vries, ricopritore delle leggi di Mendel, quelli di Batson,Wilson, Morgan. Sono aspetti che occorre riconsiderare per comprendere a fondo la teoria dell’evoluzione di e in Bergson, necessari anche per chiarire l’annoso problema della individualità, che - sottolinea il relatore - è l’unico problema biologico che ricompare nel terzo capitolo de l’Evolution créatrice, consacrato alla fisica e, 10 infine, alla metafisica. Gli anni della fine del XIX secolo hanno visto la sostituzione di una concezione associazionista e polizoica dell’essere vivente ,ispirata alla teoria cellulare, alla quale Bergson dedica un grande spazio, riproponendo però la teoria dissociazionista. A questa sostituzione che si collega una delle più profonde ispirazioni del bergsonismo e della stessa Evolution créatrice. Cosa rimane di quest’opera? Essa ha contribuito – ma in che modo a chiarire fino in fondo la filosofia di Bergson? A questi interrogativi ha 79 11 cercato di rispondere Armand de Ricqlès sostenendo che il filosofo dell’évolution créatrice si presenta come un evoluzionista autentico, che considera tutti gli esseri viventi derivati da un ceppo originario comune, la cui origine risale a l’élan vital, il quale, contro ogni forma di finalismo o di vitalismo della tradizione, non è di natura meccanica, ma si situa in una prospettiva metafisica ed astratta. Bergson fa una scelta che lo spinge ad uscire dalla scienza positivista ed è per questo che la sua teoria dell’evoluzione propone elementi attuali ancora oggi - insieme ad altri ormai superati - quali un antropocentrismo esplicito e filosoficamente rivendicato. Perciò oggi siamo condotti, sfidando l’anacronismo, a chiederci, in un contesto materialistico, in quale misura l’élan vital potrebbe prefigurare o se fosse in grado di superare le concezioni moderne della evoluzione biologica, soluzione che non è del tutto sterile ma che porta pochi frutti. Bergson ha approvato ed accettato le indagini di Weismann, ma non è riuscito a cogliere né il significato “innovativo” delle leggi di Mendel né a far propri gli elementi innovativi della teoria della “ereditarietà”: il motivo va ricercato nella permanenza del lamarckismo nella biologia francese. Può sembrare più strana la sua comprensione del significato evolutivo generale dei dati citologici del suo tempo, che riguardano la meiosi e la fecondazione profonda e resta da approfondire come, dopo la pubblicazione di quest’opera, il pensiero di Bergson si sia evoluto grazie al progressivo intensificarsi delle sue conoscenze biologiche degli anni venti e trenta. L’Evolution créatrice è un indice della svolta che caratterizza la cultura francese grazie allo sviluppo della filosofia e della biologia operato dalla “crisi del Trasformismo”, una crisi che durerà quattro decenni e le cui conseguenze sono state durature, soprattutto per la biologia naturalista ed evoluzionista. Se ci si chiede se esistono delle analogie fra selezione ed evoluzione in Bergson e Darwin, non si può che rispondere che quella più famosa si trova nel primo capitolo dell’Evolution créatrice: “la vita è invenzione come l’attività cosciente”. Grazie ad essa e attraverso di essa, l’“intuizione” non è più una semplice “ visione diretta” della durata vissuta, ma diventa “simpatia con la vita” e con lo stesso universo della materia. Si tratta di una analogia che funziona in un significato “comprensivo”, del tutto opposto a quello “esplicativo” con il quale Darwin aveva avanzato l’ipotesi della selezione naturale, fondandola e comparandola con la selezione 12 13 artificiale. P. A. Miquel , che approfondisce questo tema, ritiene che più che a Darwin Bergson si oppone al neo-darwinismo: in una delle sue tesi fondamentali sostiene che l’ereditarietà si trasmette grazie alla diffusione dell’energia genetica - così la chiama, collegandosi alla ereditarietà ed alla continuità del “plasma germinativo”, la nota tesi di Weismann. È possibile tuttavia trovare un punto in cui convergono le tesi di Darwin e quelle di 80 NOTE Bergson: per il primo la selezione naturale ha senso solo se riferita alla differenza dei caratteri, per Bergson l’evoluzione procede per dissociazione, biforcazioni e divergenze successive, mai per aggregazione. Abbiamo ascoltato degli interventi che hanno esposto interessanti considerazioni sul clima e le contrapposizioni scientifiche operanti nell’epoca 14 di Bergson: in questa direzione H. J. Han ha messo l’accento sull’euristica del vitalismo, indispensabile per chiarire il concetto di élan vital. Secondo l’oratore è indispensabile un confronto fra la teoria bergsoniana e quella di P. J. Barthez. sulla dottrina del vitalismo, verso il quale Bergson ha adottato una doppia euristica, una negativa e modesta, l’altra positiva ed audace. La prima presenta i limiti della biologia come è intesa dal meccanicismo, dal riduzionismo fisico-chimico, e più ampiamente dallo scientismo e dall’intellettualismo ottimista, mentre la seconda enuncia delle ipotesi - i concetti occulti - ad esempio il principio vitale di Barthez e l’élan vital di Bergson,- nel tentativo di definire le nuove caratteristiche vitali. Ci si può riferire ai Nouveaux éléments de la science de l’homme, l’opera in cui Barthez adopera il principio vitale come causa sperimentale dei fenomeni vitali, ove per “causa sperimentale”, nella fisiologia, si intende la causa ancora sconosciuta. L’euristica bartheziana ammette l’esistenza di un principio ipotetico ed unificante: in questo senso si nota une somiglianza assai stretta tra il suo principio vitale e l’élan vital de Bergson. Ma sulla possibilità di conoscere questo principio occulto le due dottrine divergono: Barthez resta scettico, Bergson ritiene di non potere rigettare a priori i metodi che servono a comprendere la materialità della vita, anche se poi ne richiama la priorità dell’aspetto soggettivo nei confronti dell’aspetto oggettivo. L’élan vital, attributo essenziale della vita, non è che la durata reale; in questo modo Bergson invita a riflettere ,per comprendere il significato della vita, su di un elemento psicologico: il tempo vissuto che di fatto è soggettivo. Non spetta dunque alla scienza interrogarsi su l’élan vital, perché solo la metafisica è in grado di conoscerlo, grazie alla intuizione. Possiamo comprende allora come sia importante l’esame del significato e del ruolo delle percezioni , il che ci introduce al grande capitolo 15 sul ruolo della psicologia. A questo s’interessa A. Berthoz ,sia pure giustificando la propria incompetenza di un “non filosofo”; ma un fisiologo della percezione e dell’azione, alla ricerca di una filosofia dell’azione, non può che essere completamente d’accordo con le tesi di Bergson che radica la percezione, la coscienza e le numerose facoltà del cervello dell’uomo nel movimento e nell’azione, l’aspetto grazie al quale il saggio di Bergson è certamente attuale; per coglierne però più profondamente i motivi occorre esaminare la svolta del XX secolo che ha messo in forse le tesi formaliste , 81 dominanti nel secolo precedente, che riposavano essenzialmente sul linguaggio e la logica teorica. Bergson denuncia la creazione, originata da tutti i formalismi, di una ostacolo frapposto tra il vissuto del soggetto ed il flusso continuo degli eventi del mondo, causa del “progressus”, del procedere e dell’avanzare nelle cose, del vissuto nelle sue molteplici manifestazioni, compresa anche l’ipotesi che la percezione sia una azione simulata, secondo la recente dimostrazione dei neuroni-specchio. Il contributo fondamentale di Bergson è consistito nel reintegrare la tesi “del corpo in atto” nel pensiero, secondo la quale si pensa con il proprio corpo, con i propri movimenti, con i propri gesti. Già Poincaré e Einstein avevano affermato che i fondamenti della geometria si trovano nell’azione. La tesi di Bergson mostra una interessante consonanza con l’opera famosa Penser avec les mains del letterato-filosofo Denis de Rougemont, una opera filosofica ma anche applicabile alla vita, nell’arco 16 delle sue manifestazioni della realtà del XX secolo. Fra il “continuo”, che egli esalta, e la “frammentazione”, di cui sono responsabili il linguaggio ed i vari formalismi, a partire da Matière et mémoire Bergson aveva cercato di trovare un compromesso, simile a quello fra materialismo e idealismo, per cercare di eliminare ogni forma di dualismo che avrebbe potuto danneggiare il suo pensiero. Così aveva pensato di conciliare teorie opposte sull’attività del cervello, come oggi ce le propongono le neuroscienze, solidali nella tesi secondo la quale si può considerare il cervello come una serie in coppia di oscillatori. Ne risulta che il problema del tempo del movimento,del tempo discreto o del tempo continuo, è mal posto, poiché il tempo, la durata, sono in qualche modo iscritti nella frequenza degli oscillatori. Lo spazio stesso può essere creato da interazioni degli oscillatori, come afferma il recente modello di Burgess. Non si possono dunque separare lo spazio ed il tempo nella dinamica del processo cognitivo, anzi occorre tener presente ,ad esempio,che il gesto è nello stesso tempo una traiettoria et un cammino che viene vissuto lungo il suo svolgersi. Bergson insiste anche nel ritenere che le scelte di vita sono più “comode” per alcune specie , nello stesso spirito con cui Poincaré affermava che era maggiormente “comoda” la geometria euclidea. L’evoluzione ha consentito di scoprire mezzi di semplificazione nell’immensa complessità dei meccanismi biologici e delle funzioni del corpo e del cervello, ma a Bergson sembra che sfugga una delle ragioni più importanti di questa semplificazione: la necessità di “fare” in fretta. Nelle opere di Bergson si trovano certamente importanti intuizioni: così, dal fatto che il cervello utilizza molti referenti spaziali. Egli deduce il ruolo della inibizione,l’importanza della nozione di affordance, le molte forme di memoria, per cui riconoscere un oggetto significa giocarselo, ossia 82 NOTE immaginare quello che se ne può fare. E ci spinge ad andare oltre quando considera che il vissuto del soggetto consiste nella durata: è il fine che perseguono oggi le scienze cognitive, senza risolvere il problema. E sono indubbiamente interessanti le comparazioni che si possono cogliere fra le teorie bergsoniane del ridere ed i dati moderni della Neurologia e delle Neuroscienze sulle basi neuronali della risata. Come si collega la dottrina della “invenzione” alla teoria 17 dell’”intuizione”? È questo l’interrogativo che si è proposto H. Hude , che sottolinea come nella filosofia intera di Bergson - non solo nelle Opere, ma anche nei Corsi - il problema dell’invenzione è strettamente connesso con quello della “intuizione” perché l’immediatezza con cui ci salta agli occhi è più il frutto dell’invenzione che dell’intuizione., la quale è una forma di vita intellettuale, non di routine ed è coestensiva alla vita dello spirito intuitivo. Se con l’intuizione cogliamo la durata, con l’invenzione possiamo comprendere intuitivamente cosa sia l’invenzione in sé, e la conoscenza in quanto intuizione è il risultato di due invenzioni e dell’invenzione della loro stessa unione. Bergson segue un processo già proposto da Descartes e da Kant.:l’intuizione è un metodo che presuppone i risultati dell’analisi trascendentale, proprio perché l’immediato non si dà in maniera capricciosa, ma lo si inventa metodicamente; l’intuizione è un elemento in questo metodo d’invenzione. L’invenzione bergsoniana consiste nell’intuizione della durata, resa possibile dalla distinzione fra simbolo spaziale della durata( il tempo per Bergson) e la durata in sé. L’intuizione della durata rende possibile inventare una sintesi universale, non a-priori né a posteriori, ma di organizzazione vivente, nella quale s’inscrivono i meccanismi dell’invenzione: un circuito mentale che va da uno “ schema dinamico” alle immagini L’intuizione, momento cognitivo fondamentale , nasce nella emozione ed ha come oggetto la totalità, pluralità di durata all’interno del tempo universale, sullo sfondo dell’eternità della vita. Il colloquio al Collège de France si è concluso con la relazione di A. 18 Prochiantz , che ha esposto i criteri con cui procedere sulla possibilità e la validità di una lettura bergsoniana da parte di un biologo. Secondo lui, grazie alla nozione di durata Bergson ha sperimentato la possibilità di mettere insieme sviluppo ed evoluzione, che assegnano un ruolo più importante all’intervento della storia caratterizza le strutture biologiche. “Ovunque ci sia una forma di vita,esiste, aperta qualche parte, un registro in cui il tempo s’inscrive”. Il relatore si richiama alla sua esperienza personale sottolineando che è sorprendente la soddisfazione che dà ,ad un biologo materialista, la lettura della Evoluzione creatrice; inoltre, almeno secondo lui, è necessaria per correggere quell’etichetta di “filosofo spiritualista”, di cui spesso si è abusato per comunicare il lato peggiore di Bergson. 83 Quest’ultimo, attraverso l’ analisi dell’evoluzionismo che continuava il dibattito tra Claude Bernard e i fisiologi meccanicisti, ha saputo individuare ciò che appartiene all’ essenza dell’essere vivente. L’oratore non esclude che, strada facendo, la separazione fra intelligenza ed istinto - esprit de géométrie ed esprit de finesse-, come fondamento del conoscere, faccia lo scherzo ai biologi di ricollocarli fra i meccanicisti. Ma quella che si può considerare la parte “nobile” della vita,ossia l’istinto, l’intuizione, l’esprit de finesse andrebbe a finire nella “ borsa” filosofica? Non si può certamente accettare e tutto questo spinge ad interrogarsi su una filosofia della conoscenza adatta all’essere vivente. Il mattino del giorno successivo (24 novembre) il Congresso è stato dedicato al momento propositivo ed alla discussione, in ben quattro “ateliers”. Di essi, il primo ha preso in esame le fonti e la ricezione dell’Evolution créatrice nella storia della filosofia (coordinato da F. Worms), il secondo ha seguito il percorso bergsoniano da l’Evolution créatrice a Les deux sources de la morale et de la religione (ordinato da J.L.Vieillard- Baron), il terzo ha approfondito il tema della metafisica: Le statut du negatif de l’Evolution créatrice (coordinatrice Fl. Cayemaex), mentre il quarto ha indagato il problema della materia ne l’Evolution créatrice. Gli “ ateliers” si sono svolti all’ENS, ove,nello stesso pomeriggio, sono state pronunciate le conferenze 19 plenarie, affidate a Pete A. Y. Gunter , Bergson‘s New Concept of Analysis, cui è seguita l’esposizione: Bergson et l’idée de loi scientifique, pronunziata 20 21 da J. L. Vieillard-Baron , mentre J. Mullarkey ha illustrato il tema: Breaking 22 the Circe: Elan Vital as Performative Metaphysics. Roi Tchoe ha offerto una interessante analisi, che analizza. Une interprétation metaphysique de Bergson: l’âme du Phèdre de Platon et la durée bergsonienne, mentre A. 23 Bouaniche ha trattato il tema: De la surprise devant le temps à la surprise 24 devant la création. Fl. Caemayeux ha svolto una originale relazione sul tema: Positivité et indétermination: la question du négatif dans la philosophie de Bergson. Ha concluso il colloquio Fr. Worms con l’analisi di “Ce qui est vital dans l’Evolution créatrice”. Riteniamo che questa nostra semplice enunciazione delle tesi e delle problematiche presentate nei due giorni del congresso sia sufficiente a giustificare l’interesse suscitato dagli interventi e a formulare la richiesta che al più resto vengano pubblicati gli atti. All’interno della linea storiografica, perseguita in questi ultimi venti anni da Frédéric Worms - anima della ripresa degli studi bergsoniani e della riedizione delle sue opere,alla luce di un assoluto rigore filologico e filosofico - scorgiamo un nuovo “destino”, capace di restituirci un pensatore tanto amato quanto “inconsiderato”, grazie ad una più puntuale conoscenza e ad una valutazione più oggettiva, anche alla luce del non sempre lineare 84 NOTE svolgimento della filosofia francese del secolo XX. Ripubblicare tutte le opere di Bergson, dare alle stampe i suoi corsi al Collège de France, scegliere fra la sua corrispondenza anche quelle lettere da Lui destinate all’incenerimento significa ripristinare tempi, luoghi, sensazioni, senza i quali è impossibile cogliere il clima in cui è maturata la filosofia bergsoniana. Nella seconda metà del XIX secolo si era organizzato un insieme di conoscenze che avevano trovato nella scienza il modello ideale alimentare una vera, definitiva,liberazione dell’uomo. Il rinnovamento radicale del pensiero scientifico è stato avviato grazie alle ricerche intraprese da nuovi indirizzi per la matematica, alimentati dalla scoperta delle geometrie non-euclidee e dai risultati innovatori sulle ipotesi sulla natura dell’universo. L’antropologia, che si apriva ai contributi della psicologia, ormai scienza autonoma dalla filosofia, della psichiatria, che trovava nelle prospettive sperimentate da Charcot le motivazioni per innovazioni radicali della disciplina, i primi orientamenti della ricerca psicoanalitica di Freud, che , diventati dominanti nella prima metà del secolo XX, daranno dei contributi fondamentali anche alle scienze umane,spalancavano orizzonti insospettati negli anni precedenti. Le scienze hanno vissuto dunque un eccezionale momento di rinnovamento, presupposto per una dinamica riflessione filosofica sull’uomo e sulle sue attività conoscitive. Per un caso, tanto felice quanto non comune, Bergson è il primo filosofo dell’età moderna nel quale il sapere filosofico e quello delle scienze sperimentali sono coltivati con grande intelligenza. Nella filosofia della natura di Bergson, che influenza in maniere radicale la scienza nel passaggio dal XIX al XX secolo, influiscono anche diverse componenti: dalla tradizione ebraica, che si ispira alla Bibbia, alla cultura filosofica greca, medievale, moderna e contemporanea, nella quale é presente l’influenza della tradizione della medicina, quella della scienza del Positivismo, che Bergson riprende, corregge ed integra con gli appassionanti studi con cui approfondisce i problemi della biologia, da quella vegetale- la più difficile- a quella animale ed umana. Ci sembra però che non si debba dimenticare l’influenza dell’insegnamento di F. Ravaisson, il maestro che lo ha avviato a questo genere di studi e il ruolo significativo che hanno avuto le sue opera, dal De 25 l’habitude al Testament philosophique - ultima opera pubblicata postuma Ravaisson precorre ed anticipa molti aspetti del pensiero bergsoniano, insistendo sul pensiero antico-da Platone al neo-platonismo- su quello moderno- da Descartes a Pascal- su quello contemporaneo, con particolare attenzione alla biologia ed alle figure di Claude Bernard e William James. La “nota di generosità e di amore”- con la quale Bergson commemorerà il 85 maestro e la sua “ filosofia eroica”- sono i chiari aspetti di una eredità spirituale destinata a rafforzarsi nel proseguo degli anni della vita del filosofo. 1 Le manifestazioni, coordinate dalla Società des amis de Bergson e dal Centre international d’ètude de la philosophie française contemporaine, hanno preso il via il 9 marzo 2007 con l’apertura dell’ “anno Bergson “ all’ENS ( Ecole Normale Superiore), cui é seguita une giornata di studio( 15 marzo) alla Fondation Singer- Polignac. Il 1921 marzo si sono aperti a Toulouse gli “Ateliers internationaux sur l’Evolution créatrice de Bergson. Nature et subjectivité”, mentre il 4-5 maggio successivi nelle università di Bari e di Lecce oggetto del dibattito è stato il tema: L’évolution créatrice e il problema religioso, G. Invitto, organizzatore dell’incontro di Lecce, ha curato il volume degli atti del colloquio svoltosi a Lecce: Bergson: L’évolution creatrice e il problema religioso, Mimesis, Milano 2007). Il 4- 5 luglio a Mayence un incontro è stato dedicato a :Bergson et l’Allemagne: la question de la philosophie de la vie, mentre a Londra (Institut Français) il 19 settembre si è discusso su : Bergson Today .Nello stesso mese, 1 19, l’Institut de France ha commemorato il “Centenarie de la parution de l’Evolution créatrice de Henri Bergson”. Un congruo numero di incontri si sono svolti ,successivamente,nei mesi di ottobre e novembre: il 4-5 ottobre à Poitiers il tema verteva su: Sujet et totalité, mentre dal 15-20 ottobre le università giapponesi di Tokio, Kyoto ,Fukuoka, hanno approfondito il tema :Disséminations de l’Evolution créatrice. Histoire(s) de la réception. A Seul, il 22-23 ottobre si è trattato di Réception et actualité de Bergson en Corée: monisme ou dualisme? mentre il 30 ottobre l’università di Lille ha organizzato un incontro di studio: En quoi l’évolution est-elle créatrice?, seguito , il giorno successivo, da un dibattito su La création. Nel mese di novembre, il 10, a Barwick il tema prescelto è stato: Creative Evolution, One Hundred Years. On.Biology, Ecology, Complexity, ed il 15-16 l’università di Buenos Aires ha proposto di discutere :¿ Inactualidad del Bergsonismo?. Il convegno promosso dal Collège de France, dall’ENS e dalla Société des amis de Bergson, si è svolto nei giorni 23-24 novembre ed è stato dedicato a L’Evolution créatrice de Bergson cent ans après. Epistémologie et Métaphysique. A questo evento abbiamo dedicato questo articolo. Le celebrazioni si sono concluse con il colloquio del 12-14 dicembre a S. Paulo del Brasile con l’argomento: ”Le statut du négatif et la nouvelle ontologie dans la philosophie de la durée .Bergson et sa postérité”. 2 Ci sembra opportuno ricordare il rinnovamento che F. Worms ed i suoi collaboratori hanno impresso alla pubblicazione critica dell’intera opera bergsoniana, già accessibile “en poche”, nella collezione “Quadrige- Grands teste”. Il nuovo piano editoriale si sviluppa in tre tappe: 2007, 2009, 2011, e riguarda tutte le opere pubblicate da Bergson, completate da note esplicative e dalle eventuali varianti del testo, cui s’aggiunge una tavola analitica dell’opera, una sequenza di indici, unitamente ad una “lettura” e ad una bibliografia ragionata. Alla edizione delle opere seguirà quella della 86 NOTE corrispondenza e dei corsi tenuti al Collège de France. Sono già stati pubblicati anche i primi quattro tomi degli Annales Bergsonniennes (a cura di F. Worms) e, per le edizioni PUF, i volumi: Essai sur les données immédiates de la con science ( 1889) - a cura di A. Botaniche -; Le rire (1900) -, a cura di G. Sibertin- Blanche; L’évolution créatrice, a cura di A. François. La rinascita di Bergson nella cultura contemporanea non è imputabile al caso: il dibattere oggi sul significato della psicologia - e della psicoanalisi -, della filosofia della scienza e della stessa metafisica trova nel pensatore francese un vigore ed una attualità non scalfiti dal tempo e mette in crisi un vecchio pregiudizio secondo il quale la filosofia di Bergson sarebbe obsoleta ed in più la conclusione di una stagione della filosofia anteriore alla prima guerra mondiale, incapace di aprire nuove prospettive che possano far progredire le esigenze teoretiche del pensiero contemporaneo. Il dibattito sul bergsonismo è stato lungo e doloroso, liquidato da Sartre con l’epigrafe “il bergsonismo rappresenta una grande corrente del pensiero d’ante-guerra” (L’imagination, p.112). Riteniamo di poter dire, con F. Worms, che è grazie all’impegno per i problemi comuni e alle soluzioni di interesse generale che Bergson merita di essere riletto non solo per se stesso ma in rapporto ai vari Jaurès, Brunschvicg, Alain, Nietzsche, Husserl, Freud, James, Russel, Whithead e molti altri, di cui conosciamo il valore e l’importanza. 3 Cfr., fra gli altri, J .R. ARMOGATHE, La mise à l’index de l’Evolution créatrice, in (a cura di G. Invitto), Bergson . L’Evolution créatrice e il problema religioso, cit., pp. 41-50. 4 Ci riferiamo alla relazione La philosophie et la science, selon Bergson, pronunciata come discorso di apertura al congresso su Bergson da Anne Fagot-Largeault , professore di filosofia delle scienze biologiche e mediche al Collège de France. 5 Così l’ha considerata il presidente poeta Senghor sostenendo la tesi che il ritorno alla intuizione in Europa significava per lui una reintegrazione nella dimensione dell’uomo. 6 É docente all’università Paris I-Panthéon Sorbonne. 7 Docente all’università di Seul. 8 Direttore di ricerche al CSNS, egli ha pubblicato di recente uno dei più bei saggi critici su Bergson di questi ultimi anni, La gloire de Bergson. Essai sur le magistère philosophique, Gallimard, Paris 2007. 9 A. François, segretario della associazione Amis de Bergson ha curato la edizione critica de L’évolution créatrice ed è autore di studi dedicati a Schopenhauer, Nietzsche e Bergson. 10 Il capitolo III de L’évolution créatrice è, senza dubbio, uno dei più interessanti dell’intera opera; di esso vogliamo richiamare questa pagina. “A prima vista può sembrare prudente lasciare considerare i fatti alla scienza positiva. La fisica e la chimica si occuperanno della materia bruta, le scienze biologiche e psicologiche studieranno le manifestazioni della vita. Il compito del filosofo è dunque chiaramente delimitato. Questi riceve, dalle mani dello scienziato, i fatti e le leggi, e, sia che cerchi di superarle per comprenderne le cause profonde, sia che ritenga impossibile andare più lontano e provi questo con l’analisi stessa della conoscenza scientifica, in entrambi i casi mantiene, per i fatti e le relazioni che la scienza gli trasmette, il rispetto che si deve alla cosa che è stata giudicata. A questa conoscenza sovrapporrà una critica della facoltà di conoscere, ed anche, quando è necessario, una metafisica: per quanto concerne la conoscenza stessa, nella sua materialità, egli la considera come un problema di scienza, non di filosofia” (E. BERGSON, L’évolution créatrice,- édition 87 critique par Fr. Worms, PUF, Paris 2007, p.195 - Traduzione del brano in italiano a cura di S.Arcoleo) 11 Professore al Collège de France, dove insegna biologia storica e Evoluzionismo 12 Del Centro di ricerche e di Storia delle Idee (Università di Nizza) e del Centro Cavailles, dell’ENS di Parigi, studioso della filosofia francese contemporanea ha pubblicato,fra le altre, le seguenti opere: Bergson ou l’imagination métaphysique, Kimé, Paris 2007 e “From an immanentist to an emergentist approach to Evolution: Between Bergson and Darwin,”SubStance, Wisconsin Un. Pr., 114, vol. 36,3 , 2007, pp. 42- 56. 13 Questo studioso ha pubblicato un pregevole articolo: Bergson et Darwin, nel volume: Bergson la durée et la nature, coordinato da J. L. Viellard- Baron, pubblicato da PUFDébats, Paris 2004, pp. 119- 135. L’edizione-all’apparenza un volumetto di dimensioni modeste- ha anticipato molte teorie che sono state esposte, con maggiore ricchezza di particolari, nel colloquio presso il Collège de France. Presenta i contributi rilevanti di J.L.Vieillard- Baron,A. Panero, J.F.Marquet, M. Le Moine,P.A. Miquel, P. Montebello, F.Worms 14 Hee-Jan Han è professore al Collège de France e al Centre Cavaillès, dell’ENS di Parigi. 15 Alain Berthoz, professore al collège de France, direttore del laboratorio di Fisiologia della Percezione e dell’azione. Fra le sue opere ricordiamo: A. BERTHOZ et J.L. PETIT, Phénoménologie et Physiologie de l’action, O. Jacob, Paris 2006; A. Berthoz, Le sens du mouvement, Jacob, Paris 2007. 16 Cfr. G. VALBÉRT, Un précurseur de l’engagement. Entretien avec Denis de Rougemont, Magazine littéraire, 161, 1980, pp. 54-56. 17 Henri Hude, maître de conférences, è un apprezzato studioso di Bergson, sul quale ha pubblicato ben due tomi, Bergson I, 1989, Bergson II, 1990 (premiate dalla Académie française) e del quale ha curato quattro volumi dei Cours al Collège de France. 18 Alain Prochiantz, del CNR, dell’ENS, e del Collège de France. 19 P.A.Y.Gunter è professore a Denton-Texas al dipartimento di Filosofia e studi religiosi. E’ autore di una importante bibliografia su Bergson- Henri Bergson:A Bibliography, 2 ed. 1986- e di una monografia dedicata a Bergson and the Modern Thought, 1989 20 Professore all’università di Poitiers. 21 Lettore di filosofia all’università di Dundee-Scozia, UK. Studioso di Bergson ha pubblicato, fra gli altri, gli studi: Bergson and Religion, in History of the Philosophy of Religion,vol.5, edited by Graham Oppy and Nick Trakakis, Acumen Press 2007; The very Life of Things: Reversing Thought and Thinking Objects in Bergsonian Metaphysics- Introduction to Henri Bergson, Introduction to Metaphysics, edited by J. Mullarkey, Palgrave-Macmillan, 2007. 22 Roi Tchoe è professore di filosofia all’università di Kyung Hee, di Seul Corea del sud.. Ha tradotto in coreano Il Saggio sui dati immediati della coscienza di Bergson ed ha dedicato molti studi alla tradizione filosofica ed alle dottrine di Bergson. Ricordiamo il suo “Bergson et Bachelard:la durée et l’instant”, in “Le monde de la philosophie ancienne”, 1995 e “ Bergson et Heidegger”,in “ Heidegger et les Philosophies, 1999. 23 De l’Université de Lille. 88 24 NOTE Chercheur de l’Université de Liège. Ha pubblicato un saggio molto ben documentato e di singolare importanza.:Sartre, Merleau–Ponty, Bergson. Les phénoménologies existentialistes et leur héritage bergsonien, Olms Verlag 2005. 25 F. Ravaisson, Testament philosophique, presenté par Claire Marin, Allia, Paris 2008. 89 GUYAU E UNA MORALE SENZA OBBLIGAZIONE NÉ SANZIONE di Maria Cristina Fornari Una bella occasione, la ristampa dell’Abbozzo di una morale senza obbligazione né sanzione di Jean-Marie Guyau a cura di Ferruccio Andolfi (Diabasis 2009: già Paravia 1999), per ripensare un autore oggi non noto ai moltissimi ma in grado di esprimere, in più modi e per più aspetti, la temperie culturale di un secolo fervido che cercava di conciliare la filosofia e l’etica con i progressi evidenti e pregnanti della scienza. Nato a Laval, in Normandia, nel 1854 (morto a Mentone poco più che trentenne), educato agli studi classici dal patrigno Alfred Fouillée, collaboratore alla Revue des deux mondes e alla Revue Philosophique, autore di numerosi saggi di etica e di estetica che gli valsero pubblici riconoscimenti (nel 1874 la sua memoria su L’histoire et la critique de la morale utilitaire ottenne il consenso dell’Accadémie des Sciences Morales et Politiques), Guyau ebbe fama di scrittore, poeta e filosofo. In particolare, la sua appartenenza al secolo di Darwin e ancor più agli anni che vedevano l’affermarsi dell’evoluzionismo spenceriano e delle teorie utilitaristiche, lo spinsero a cimentarsi con gli autori più rappresentativi del panorama morale antico e contemporaneo – dagli Stoici ed Epicuro a Bentham e Stuart Mill – per tentare, lui stesso, vie nuove e meno scontate alla vita etica, nell’ambito di quella scienza positiva della morale chiamata a sostituire, in un’Europa ormai decristianizzata, i dogmi della teologia e le innaturali imposizioni del dovere. Ma di fronte ai “miti progressivi della sua epoca” – comprese le “religioni del cuore” di stampo comtiano, fino alle etiche naturalistiche paladine del primato fisiologico dell’altruismo, che Nietzsche leggerà quali eredi mascherate della teleologia romantica – la prospettiva di Guayu consisterà «nello sfumare i confini tra il territorio dell’etica e quello dell’estetica, interpretando l’agire morale, nel suo aspetto più elevato, come luogo della libera creazione individuale di “ipotesi metafisiche”, capaci di orientare la condotta ma non imponibili a tutti a parte di qualche autorità sociale» (p. 8). L’anomia a cui Guyau approda – ancor più fortemente ribadita in un’opera successiva, L’irreligion de l’avenir. Étude sociologique, Félix Alcan, Paris 1887 – rappresenta la risposta più matura di un pensatore che crede fortemente nell’esito libero e spontaneo di una vita votata all’intelligenza e al proprio felice potenziamento. Il pensiero di Guyau, che Andolfi ci aiuta a ripercorrere nel suo saggio introduttivo (La ragionevole ossessione di Jean-Marie Guyau, pp. 7- 90 NOTE 37), muove dall’accostamento della prospettiva sociologica, tipica del positivismo comtiano, con le teorie evoluzioniste di quello inglese, incentrandosi soprattutto sugli aspetti sociali dell’etica e dell’estetica. Una certa tensione etica di stampo kantiano si concilia infatti in Guyau con le ferree leggi dell’evoluzione, derivandone una morale che trovi nei fatti naturali, e non in un apriori trascendente o in astratte speculazioni filosofiche, la sua piena giustificazione. Nessuna ipotesi metafisica può legittimare i principi morali: né l’ottimismo, con l’illusorio rifugio nella Provvidenza e nell’immortalità dell’anima o con l’indicazione di principi eudemonistici quali il piacere o la felicità; né il pessimismo, con le sue conseguenze nichilistiche; né l’indifferenza della natura, ipotesi allettante ma insoddisfacente. Il principio della moralità va chiesto alla vita stessa, e non ad una legge che la preceda o la sottometta: la guida principale di tutti i valori umani (etici, artistici, religiosi) non può che essere l’impulso vitale, unica base possibile per una morale libera dai pregiudizi e dalle pressioni esterne. La vita incarna una forza naturale di carattere espansivo, fecondo e generoso; come la fiamma, essa non può conservarsi se non comunicandosi. Orientata dunque verso gli altri per naturale prodigalità, è essa stessa fonte di moralità e dà a se stessa il nome di dovere. Guyau può così attuare la sua rivoluzione copernicana, l’inversione dell’imperativo categorico kantiano: devo perché posso, non esiste obbligazione né sanzione capace di eguagliare o sostituire questa potente forza impulsiva. Di conseguenza, l’etica non deve essere un insieme di prescrizioni e di divieti, ma deve semplicemente limitarsi a riconoscere e favorire la naturale tendenza dell’uomo verso la socializzazione, in un progresso morale naturale in cui le ingiunzioni di imperativi categorici e di dogmi religiosi non avranno più ragione di esistere. «Una morale positiva e scientifica [...] non può dare all’individuo che questo comandamento: sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, sii un individuo ricco il più possibile in energia intensiva ed estensiva; perciò, sii l’essere più sociale e più socievole», laddove Nietzsche dirà invece, significativamente: «Sviluppa tutte le tue forze – ma ciò vuol dire: 26 sviluppa l’anarchia! Perisci!» . Nietzsche conosceva la Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction (Félix Alcan, Paris 1885) per averla acquistata presso il libraio Lorentz di Lipsia, e non presso la libreria Visconti di Nizza, come ci informa erroneamente Fouillée (al Goethe-und-Schiller Archiv di Weimar si conserva 27 la ricevuta d’acquisto del 7 novembre 1884 ). Il suo interesse per quest’opera è testimoniato dalle numerose glosse a margine apposte al volume – oggi perduto – fortunatamente riportate da Fouillée già nel 1909 e che del libro di Andolfi costituiscono un’appendice fondamentale (dobbiamo all’edizione Paravia del 1999 la loro prima pubblicazione in traduzione 91 italiana). L’altra opera che Nietzsche conosceva, L’irreligion de l’avenir, non è affatto andata perduta ma è conservata tra i suoi volumi personali presso l’Anna-Amalia-Bibliothek di Weimar (coll. C 268), anch’essa con numerose glosse a margine. Come spesso accade con autori che egli considera, per vicinanza o per opposizione, suoi interlocutori, Nietzsche intreccia con Guyau un dialogo virtuale. Se Guyau sembra legittimare la socialità à la Fouillée, il vitalismo altruista à la Spencer, e si inserisce dunque nel filone che Nietzsche stigmatizza come “culto malcelato dell’ideale cristiano” (si veda ad esempio il 28 frammento 10[170] dell’autunno 1887) , tuttavia non poteva non interessare al filosofo tedesco l’idea-chiave della vita come movimento espansivo, come dépense, al di là di ogni finalismo prefissato e di ogni consapevole teleologia. Le glosse riportate da Andolfi, e che costituiscono, se analizzate alla luce della filosofia nietzscheana, uno studio nello studio, mostrano diversi segni di consenso (“moi”, “gut”, “ja”) coi quali Nietzsche riconosce a Guyau delle felici intuizioni. Ad esempio, la critica al finalismo troppo angusto della morale utilitaria, che Nietzsche condivideva fermamente: «Gli utilitaristi o gli edonisti si sono troppo compiaciuti a considerare la prima specie di piacere [legato ad una forma particolare di attività; ma] non si agisce sempre con lo scopo di perseguire un piacere particolare, determinato ed esterno all’azione stessa; talvolta si agisce per il piacere di agire, si vive per vivere, si pensa per pensare. C’è in noi della forza accumulata che chiede di essere spesa; quando il dispendio è impedito da qualche ostacolo, questa forza diventa desiderio o avversione: quando il desiderio è soddisfatto, c’è piacere; quando è contrariato c’è pena; ma non ne risulta che l’attività accumulata si manifesti unicamente in vista di un piacere, con un piacere per motivo; la vita si manifesta e si esercita perché è la vita. Il piacere accompagna in tutti gli esseri la ricerca della vita, molto più di quanto non la provochi; bisogna innanzitutto vivere, poi godere» (Nietzsche sottolinea e scrive “gut” a margine 29 del suo testo) . Ma se Guyau legge quest’impeto vitale ancora come “mantenersi in vita”, come «tendenza dell’essere a perseverare nell’essere», che costituisce per lui il «fondo di ogni desiderio» – non si tratta di un puro dominio dell’attività in tutte le sue forme, non è affatto energia vitale che vuole scaricarsi, ma ancora “brama di vita” –, Nietzsche ne prenderà le distanze, ribadendo il suo concetto di vita: «Io non insegno che il fatto che ogni essere vuole persistere nel suo essere sia il fondo di ogni desiderio: lo è invece la volontà di potenza» (glossa a margine del suo testo; sottolineature 30 di Nietzsche) . «Qui si nasconde l’errore», commenta ancora Nietzsche all’affermazione di Guyau che «l’essere ha sempre bisogno di accumulare un surplus di forza, anche per avere il necessario; il risparmio è la legge stessa 31 della natura» : per il Nietzsche che stava riflettendo, all’opposto, sulla natura 92 NOTE persino “assurdamente prodiga” della vita come volontà di potenza, l’incontro 32 con Guyau non poteva che essere stimolante . Oggi l’interesse per questo “Nietzsche francese” – come qualcuno, 33 con non troppa precisione, ha voluto definirlo – è pressoché scemato , complici forse l’ingombrante presenza di Nietzsche o la massiccia influenza di Bergson, al quale non furono estranee le considerazioni sul tempo sviluppate da Guayu in La Genèse de l’idée de temps (1890, postumo). Per alcuni pioniere e precursore di Durkheim, “sociologo interdisciplinare”, storico 34 della filosofia del quale non si sono ancora indagate a fondo le influenze , la sua riscoperta potrebbe essere senz’altro “assai preziosa per la riflessione morale contemporanea” (p. 7): la ristampa dell’Esquisse da parte di Andolfi riaccende l’appetito nei confronti di questo pensatore tipicamente ottocentesco, ma al quale non si possono negare rigore metodologico e una certa originalità teoretica. 1 Frammento postumo 6[159] autunno 1880, KSA 9, 237. Le date non devono stupire: era infatti consuetudine che i volumi uscissero a fine anno con la data dell’anno successivo. 3 «NB. Forme più celate del culto DELL’IDEALE MORALE CRISTIANO. Il concetto effeminato e vile di “UOMO” alla Comte, possibilmente addirittura oggetto di culto… È sempre di nuovo il culto della morale cristiana sotto un nuovo nome… I liberi pensatori, per esempio Guyau […]. E poi addirittura tutto l’ideale socialista: nient’altro che un balordo fraintendimento dell’ideale morale cristiano» (KSA 12, 558). 4 Ed. Andolfi p. 217. 5 Ed. Andolfi p. 218. 6 Ed. Andolfi p. 218. 7 Se ne vedano alcuni interessanti aspetti in F. ANDOLFI, Nietzsche e Guyau. Consensi, dissonanze, silenzi, “La società degli individui”, n. 15, 2002/3, pp. 37-48. Su Nietzsche e Guyau anche D. PÉCAUD, Ce brave Guyau, “Nietzsche-Studien”, n. 25, 1996, pp. 239-54. 8 Felice eccezione in Italia gli studi di Annamaria Contini. 9 Cfr. H. HALBLITZEL, Jean-Marie Guyau: penseur interdisciplinaire et sociologue, “Corpus”, 46, 2004, pp. 17-23. 2 93 ALCUNE RIFLESSIONI SU “LINGUAGGIO E PRINCIPIO DI ESCLUSIONE” di Tommaso Speccher Con l’articolo di Ernst Nolte Un passato che non vuole passare, pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 6 giugno 1986 si suole dare inizio allo Historikerstreit (“disputa degli storici”): in quella intervista Nolte lanciò una provocazione destinata a sollevare un ampio dibattito non solo in terra tedesca e non solo in ambito storiografico. Egli rifletteva in quella occasione su come «con “passato che non vuol passare” si può intendere soltanto il passato nazionalsocialista dei tedeschi o della Germania. Il tema implica la tesi che ogni passato di solito passa e che in questo non passare c’è qualcosa di affatto eccezionale». La centralità di quella riflessione per il dibattito attorno alla Shoah non sta solamente nell’avere aperto alle tesi propagandistiche e sensazionaliste di un certo revisionismo storico quanto piuttosto nell’avere prodotto due risultati significativi. Quell’intervento permise innanzitutto la ri-abilitazione (a trent’anni di distanza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e soprattutto grazie alle interpretazioni di Kocka e Habermas) di un necessario “filo di continuità” all’interno del pensiero conservatore e medio-borghese della Germania. Oltre a questo elemento di carattere sociale e politico si nascondeva però un ulteriore e annoso problema, riguardante il concetto di “unicità” dell’esperienza nazista. Il nesso portante del ragionamento di Nolte era il tentativo di aprire all’idea di una “pensabilità allargata” dell’esperienza nazionalsocialista, al di là dell’aspetto dell’unicità razziale ed etnica della Shoah e in vista di una “normalizzazione” di quell’esperienza all’interno del “ciclo ideologico del Novecento”. La riflessione nolteiana giungeva in realtà a emancipare definitivamente - anche a livello “nazionale” (non a caso lo Historikerstreit coinvolse ampiamente l’opinione pubblica) - un dibattito ormai cinquantennale, iniziato in maniera manifesta in quel piccolo saggio del 1933 del filosofo Emmanuel Lévinas dal titolo Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo e sviluppatosi poi attraverso la Schuldfrage di Jasper del 1946 fino alle riflessioni contenute nella Dialettica negativa di Adorno o alle teorie di Lyotard sul rapporto tra “Auschwitz e il post-moderno”. Leggere quei due interventi limite sulla scia di una sorta di continuità non significa forzare il discorso filosofico all’interno di scuole storiche: significa decidere di andare a fondo alla radicalità e al significato per la contemporaneità dell’esperienza della Shoah. 94 NOTE Non c’è difatto riflessione filosofica, storica o di storia sociale che possa prescindere, rapportandosi alla storia europea recente, da un riferimento a quella esperienza: la radicalità dell’oggetto di memoria Shoah continua tutt’oggi a determinare prospettive, teorie, politiche di chiunque intenda relazionarsi con le esperienze del secolo passato. Se è vero quello che dice G. Agamben di come «il Saggio sull’hitlerismo di Lévinas, con la sua diagnosi senza indulgenze, può offrire l’occasione per prendere coscienza della nostra imbarazzante prossimità con il nazismo, non certo in nome del revisionismo ma, anzi, per affrontare una volta per tutte questa prossimità» allora sembra porsi come necessario proseguire su di una messa in luce comprensiva di quella medesima prossimità, liberando i discorsi attorno al non dicibile attraverso cui sembra definirsi la riflessione sull’Olocausto. I quattro studi contenuti in La lingua malata. Linguaggio e violenza nella filosofia contemporanea, (Bologna, Clueb, 2007) di Federico Dal Bo, risentono della necessità di confrontarsi con una contemporaneità filosofica impegnata nell’approfondimento di quelle riflessioni, nel tentativo di affinare nuovi strumenti e prospettive. Il Novecento sembra avere tracciato una fenditura di ampia portata non solo per quella che è stata la incidenza effettiva dell’esperienza dell’Olocausto ma per avere messo a nudo meccanismi che vanno oltre l’insieme di quella esperienza. Il nazismo ha posto lo spirito europeo dinanzi alla radicalità di questioni che non sembrano essere risolvibili e che richiedono lo spostamento di strategie prospettiche. L’interrogazione heideggeriana friburghese del 1934-35 riguardante il rapporto tra situazione fattizia e compito storico nel rapporto fra il nazionale o proprio (das Nationelle o das Eigene) e l’estraneo (das Fremde), come del resto le analisi freudiane de L’uomo Mosé non sono semplici indagini attorno ad aspetti di cultura ontologica o di carattere psicoanalitico ma definiscono paradigmi essenziali dentro cui riversa costantemente la condizione del soggetto europeo contemporaneo. Il problema di “una vocazione storica” (a quanto pare sempre al di là dal venire) “di trasformare il già dato, il nazionale, in un dato-in-compito”, problema ontologico di cui parla Heidegger a Friburgo, ripropone problematicamente la propria centralità nel gioco perverso e coevo della riflessione freudiana sul nazismo ripresa da Dal Bo ovvero di quella «visione di una lingua dell’inferno, di un accanito necrofilo e di un distruttore che hanno prodotto il male fingendo di ricercare un progetto, un’impresa politica, una rivoluzione». La psicoanalisi come l’ontologia rappresentano la possibilità di ricucire lo squarcio di senso da cui sembra essere costitutito il magma nazionalsocialista. Non c’è una unicità di quella esperienza bensì una pluralità di rimandi a nessi riguardanti la modernità e i 95 suoi assi portanti come il rapporto tra natura e cultura, biologia e filosofia, metafisica e storia. Attraverso questo gioco di specchi, La lingua malata di Dal Bo si produce in un contributo eclettico e innovativo del come può essere pensata la fenditura rappresentata da quel male radicale. Il nazismo come fatto storico racchiude una serie di nodi di ordine psicologico e linguistico che sembrano essere prefigurati dal clima culturale dentro cui verrà a definirsi. Nel secondo studio del suo testo, La teoria freudiana dell’aggressività: nazionalsocialismo e uso demagogico della lingua, Dal Bo riflette con abbondanza di riferimenti, sulla considerazione freudiana del rapporto tra natura e cultura e attorno alla radicalità semantico-politica di quella essenziale tensione in rapporto al fenomeno nazionalsocialista. Quando Dal Bo sottolinea «come ricorda di passaggio lo stesso Freud, il nazismo è uno oscuro grido di rivolta dell’inconscio dell’umanità contro le istanze morali rappresentate dall’intera Bildung europea» non sta semplicemente riprendendo il filo dell’interpretazione psicoanalitica della figura di Hitler dunque del sistema-nazismo come “incesto” bensì cerca di individuarne aspetti costitutivi in relazione alla contemporaneità novecentesca. La nascita e il ruolo stesso della psicoanalisi, come la crisi generale presente in altri ambiti scientifici, rimandano secondo Dal Bo, a delle costanti della storia sociale e simbolica europea di inizio Novecento: una di queste è l’accessibilità ad una comprensione generale del presente storico a cui anche il nazismo sembra anelare e che coincide con la possibilità di realizzare pienamente una trasformazione positiva del dato “naturale” in quello “culturale”. A questo livello Dal Bo determina la centralità critica del linguaggio che è capace di «intessere nuovamente questo legame che permetta all’uomo perlomeno di elaborare una strategia di uscita dal muto mondo della natura» ma che al tempo stesso è esposto al rischio di “potersi porre al di fuori di ciò che chiamiamo morale, buono e giusto”. Non è un caso che il ruolo performativo del linguaggio torni dirompente nella riflessione attorno al dibattito tra “diritto positivo” e “rivoluzione” con cui si confronta Dal Bo nel quarto capitolo de La lingua malata dedicato a Benjamin e Sorel: «la lingua è, ancora, lo strumento privilegiato per questa ricerca: dalla determinazione dell’essenza del linguaggio dipende la direzione del processo rivoluzionario. Coloro che tra i teorici della rivoluzione hanno compreso il ruolo decisivo del linguaggio, senza degradarlo a propaganda oppure a semplice instrumentum regni, hanno dovuto affrontare la questione decisiva se la violenza sia essenzialmente estranea alla lingua, alla riflessione e alla teoria – ovvero, se la lingua sia essenzialmente e interamente al servizio di ciò che chiamiamo morale, buono e giusto». Dietro questa riflessione sul linguaggio si nasconde quella del rapporto tra la “positività” ed il “significato” 96 NOTE della storia politica moderna, già espressa sull’asse Benjamin-SchmittDerrida: in gioco non sono tanto le categorie del politico quanto il compito di una filosofia della storia nel collocare il ruolo del linguaggio come impegno politico, sociale, educativo. Nelle pagine dedicate ai lapsus heideggeriani, così come nella riflessione sulla comunanza tra i pensieri greco-latino ed ebraico attorno all’origine di un vocabolo come barbar, Dal Bo si muove sull’ impervio crinale di chi cerca di “salvare” il linguaggio proprio nel momento in cui esso sembra esporsi ad una caduta verso il basso, ad una degradazione. Ma perché lavorare sul linguaggio, perché “salvare il linguaggio”? Perché pensare che il linguaggio «riesca a riprendersi, a sfuggire alla violenza e, al pari della Parola divina, che possa tornare a cadere lieve come rugiada»? Verrebbe da chiedersi se, ancora una volta, non sia la riflessione di Hannah Arendt a sgombrare il campo dall’equivoco di una gradualità presente nel rapporto tra il linguaggio e i totalitarismi, tra il linguaggio e la violenza. La violenza forse non porta misura, come forse non la portano i “linguaggi dell’esclusione”: «quello che ora penso è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” il pensiero, perché il pensiero cerca di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale». 97 La Democrazia nell’età moderna, a cura di C. Vasale e P. Armellini, Soveria Mannelli, Rubbettino 2008, pp. 566. Questo corposo testo raccoglie i frutti di una vasta ricerca, che, promossa di concerto dagli atenei romani “Sapienza” e Lumsa, ha coinvolto le università di Tor Vergata, di Palermo, di Firenze, di Bologna, di Forlì, di Camerino, e del Molise. Diviso in quattro parti, esso ospita i contributi di vari studiosi, tra cui vi sono docenti di Filosofia politica, Storia delle dottrine politiche, Scienza politica, Storia del pensiero politico moderno e contemporaneo, Storia dei movimenti e dei partiti politici. E tali contributi, come altrettanti sguardi mossi da prospettive diverse, benché talora tesi ai medesimi oggetti, grazie all’abilità dei curatori confluiscono in un’immagine compiuta, ampia e articolata. Si delinea così un’analisi multidisciplinare del fenomeno democratico, che, affermatosi appieno solo a partire dall’Ottocento, affonda però le sue radici fin nell’epoca del Rinascimento. Infatti, la prima parte, dedicata ai «presupposti» della democrazia, torna agli albori della modernità. Lorella Cedroni esamina la teoria del governo misto, elogiato da Machiavelli e Althusius, criticato da Bodin e Vico, quindi «riabilitato» da Locke e Hamilton. E Alberto Lo Presti descrive l’utopismo rinascimentale, nelle concezioni della storia esposte da Bodin e Le Roy, ove il futuro appare come «degenerazione», e nella «visione irenica» della “Civitas Christiana”. Poi, Paolo Armellini delinea «le forme» del giusnaturalismo moderno, collegando la teoria contrattuale dello Stato al federalismo di Althusius, e il nascente diritto internazionale, alla «teoria della sovranità» di Grozio, rielaborata presto in senso laico-razionalistico da Pufendorf, e costituzionalistico da Locke. Infine, Gabriella Cotta rileva nel volontarismo antropologico (Scoto, Ockam, Lutero), e nella sua labile “soluzione” al «problema del male», le fonti filosofiche del contrattualismo, per poi individuare le tappe salienti del «lungo itinerario» teoretico, che conduce sino alla «democrazia dei moderni». Nella seconda parte, dedicata alla presenza di ideali democratici nei fenomeni rivoluzionari, Mario Tesini scorge, nella rivoluzione inglese, i tratti “progressisti” e i richiami alla consuetudine, ricavati dai dibattiti di Putney come dai diversi repubblicanesimi di Harrington e di Milton. Parimenti, Giovanni Dessì li scorge in quella americana, ove i valori religiosi-politici della “Nuova Inghilterra” ispirano sia la Dichiarazione d’Indipendenza, con la «democrazia “semplice”» di Paine e Jefferson, sia le discussioni sulla ratifica della Costituzione, col federalismo di Hamilton, Jay e Madison. Poi, Marcello Musté ci porta nella Francia dell’89, per confrontare i concetti di libertà e di uguaglianza propri dell’abate Sieyès, di Marat, di Robespierre, e degli 98 RECENSIONI “enrages”. Infine, Alberto Lo Presti, circa i rapporti tra democrazia e libertà economica nella rivoluzione industriale, si sofferma sulla filosofia utilitarista di Hume, ispirante una scienza politica attenta ai ruoli delle fazioni e dei partiti nelle diverse forme di governo, sul «moderatismo democratico» di Burke, che richiede un fondamento costituzionale per le libertà civili, nonché sui legami tra morale e politica teorizzati da Shaftesbury, Mandeville e Smith. La terza parte, presenta le principali dottrine filosofico-politiche sorte tra il XVI e il XIX secolo. Lorella Cedroni rinviene, nella Seconda Scolastica (Vitoria, Suarez, Molina, Mariana, Bellarmino), una visione “egualitaria” del “diritto delle genti”, che informa il moderno diritto internazionale. Poi, Paolo Pastori penetra nello svolgimento illuministico dell’idea democratica: colta sia la centralità di Montesquieu, che “media” tra la prospettiva “etnica” di Boulainvilliers e le suggestioni egualitario-universalistiche dei giacobini, sia le peculiarità dell’«altro illuminismo», elaborato da Hume, egli si sofferma sull’individuo di Rousseau, diviso tra incerti “ritorni alle origini” e l’arduo “progresso” di una società civile retta dalla virtù, nonché sulle pregiudiziali filo-assolutistiche di Voltaire, fonti di realistiche svalutazioni della democrazia (riprese nell’Encyclopèdie), sui dubbi dell’ultimo Diderot, tra repubblica e “monarchia limitata”, sull’ambiguo sistema democratico dell’Abbé de Mably, nato dagli antagonismi ma perfezionato dalla concordia, e sul costituzionalismo federalista dei patrioti americani. Invece, Rocco Pezzimenti analizza i concetti di storia e politica in Vico, Montesquieu e Cuoco, come Maria Cristina Laurenti analizza quelli di idealismo e democrazia in Fichte, Hegel e Schelling, mentre Paolo Armellini, confrontando dottrine democratiche e liberali, esamina lo “Stato di diritto” kantiano, la “libertà dei moderni” di Constant, il «garantismo dottrinario» di Guizot, e le concezioni della libertà e della differenza formulate, rispettivamente, da Tocqueville e John Stuart Mill. Nella quarta e ultima parte, dedicata agli sviluppi ottocenteschi, Salvo Mastellone colloca Mazzini tra i padri della democrazia europea, mentre Eugenio Guccione, tramite la “Matrona selvaggia” di Gioacchino Ventura, l’«approdo ideologico» di Gioberti e le aperture costituzionali di Rosmini, indica nel neoguelfismo italiano un liberalismo aperto alle istanze sociali propugnate da Lamennais. Poi, Vincenzo Scaloni raffronta il socialismo francese, quello inglese e quello del “Marx giovane”, mentre Claudia Giurintano cerca le origini della democrazia d’ispirazione cristiana in Francia, colte nella scuola di Buchez, e Rosanna Marsala ricostruisce i princìpi teorici dell’ala democratica del Risorgimento italiano, colti nel federalismo repubblicano di Cattaneo, nel «socialismo atipico» di Ferrari, e nella «democrazia sostanziale» di Pisacane. Infine, Maria Pia Paternò riflette sui problemi della cittadinanza femminile nel mondo occidentale, 99 tratteggiando le origini giusnaturalistiche della idea di eguaglianza, le tesi “pre-giacobine” della pedagogia rousseauiana, nonché la figura della donna in Kant, Fichte ed Hegel, per mostrare come i mutamenti semantici subiti dalle nozioni di “natura” e “cultura”, transitino da un ambito liberaldemocratico (Olympe de Gouge, Mary Wollstonecraft, John Stuart Mill, Harriet Taylor) a uno socialista (Fourier, Marx, Engels, Bebel), e confluiscano poi nel concetto di «disuguaglianza di genere» coniato dalle contemporanee “filosofie femministe”. Nel complesso, dunque, l’opera può leggersi come una storia del concetto di democrazia, o meglio, di “Stato democratico”. Tale storia, infatti, parte dalla fine del Medioevo, perché solo allora, come nota Claudio Vasale nella sua preziosa Introduzione, «si prepara l’incontro delle grandi tradizioni politiche dell’antichità, quella democratica ellenica e quella repubblicana romana». A partire da quel momento, in cui le categorie filosofiche giusnaturalistiche e contrattualistiche, pur con le loro reciproche differenze, alimentarono la riscoperta rinascimentale del “governo misto”, inizia il lungo cammino verso la democrazia odierna, sia poi quella costituzionalisticoliberale, o quella giacobino-radicale. Tale cammino, attraversa la guerra contadina seguita allo scisma luterano, la guerra civile puritana nell’Inghilterra seicentesca, la rivoluzione americana e quella francese, i moti nazionalisti e socialisti scaturiti dall’idealismo tedesco, sino alle problematiche dell’accesso femminile ai diritti di cittadinanza, ancora irrisolte. Emerge così il tratto essenziale della prassi democratica, dato sia da una specifica forma di governo, o modalità d’esercizio del potere, sia più in generale dalla titolarità di quest’ultimo, che si trasmette in virtù di una legittimazione ascendente, “dal basso in alto”. Tale prassi implica un consenso diffuso, maggioritario, ma dotato pure di concrete capacità “costituenti”, per realizzare un’organizzazione della convivenza ove l’oggettivazione della funzione “giuridica”, dello “jus dicere”, non si affidi alla “discrezionalità” della società pre-politica, né al mero “diritto del più forte”. Implica dunque, forse più di ogni altra forma di governo, una tangibile traduzione istituzionale, perché non può garantirsi l’effettivo controllo popolare su chi esercita il potere, senza garantire l’effettività di tale esercizio – al riguardo, si può osservare, con Paolo Armellini, come il concetto di sovranità riceva da Locke, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, un ruolo non inferiore a quello ricevuto da Hobbes, pur con le debite differenze. Del resto, se la democrazia, sorta nella dimensione classica (politeista) della polis ateniese, si è poi riprodotta nella realtà politica (monoteista) del XX secolo, è grazie alla validità del suo principio di fondo: la meno peggiore tra le forme governative, per gli uomini, è quella da loro stessi 100 Marco Recchi. RECENSIONI legittimata, selezionando i governanti e controllandone l’operato. Infatti, il “governo degli uomini” può tendere al “governo delle leggi”, e allontanarsi dal “governo sugli uomini”, solo se si mantiene “governo sotto le leggi”, ossia se queste ultime sono approvate e applicate, se non da tutti gli uomini, almeno da tutti i cittadini. Tuttavia, nella trasposizione storica della sovranità, dallo Stato, quale “persona collettiva”, al popolo, quale totalità dei “cittadini”, aumenta la necessità di formalizzare i criteri di attribuzione della cittadinanza. E tale iato, tra i componenti della comunità e i detentori dei diritti politici, costituisce una «perdurante incompletezza» (Vasale). Il rischio, serio, è che la democrazia, necessitando di regolamentazioni formali, vincolanti con normative procedurali la partecipazione popolare alla vita istituzionale, divenga meramente formalistica, sì da rescindere i legami ai valori “sostanziali”, e tradire così la stessa prassi consensuale. Certo, esso pare scongiurabile, o almeno affrontabile, tutelando il vero fondamento della “sovranità popolare”, dato dai diritti fondamentali, preesistenti, dell’individuo. Eppure, Maria Pia Paternò ci mostra come il sistema democratico, nella sua evoluzione storica, abbia a lungo conciliato i nuovi postulati individualistici, al tradizionale modello familiare patriarcale, ove la diversità (tra i sessi) è una fonte di disparità (sociale, politica, economica). Da ultimo, allora, forse il lettore potrà pure dubitare, tra il serio e il faceto, che davvero si tratti solo d’un “rischio”, nella misura in cui l’importanza spettante alle “regole del gioco”, per non esaurire il “gioco” nelle sue “regole”, richiede che l’individuo, in quanto tale, si erga a fonte di “valori”, ma che al contempo “valga”, o si valorizzi, principalmente in quanto “giocatore”. L’opera ci accompagna così ad approfondire un filone vitale del pensiero politico, ricostruendone la travagliata “gestazione”, teorica e pratica, per comprenderne i più recenti sviluppi, sì da offrire un valido contributo alla formazione, individuale e collettiva, di una coscienza civica democratica. 101 B. Groys, Post scriptum comunista, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2008, pp. 95. Uscito in Germania nel 2006 e ora tradotto in italiano da Silvia Rodeschini, questo saggio di Boris Groys, docente di Filosofia, Estetica e Teoria dei media alla Hochschule für Gestaltund di Karlsruhe, entra nel dibattito sulla fine del socialismo reale con una prospettiva diversa e fuori dal coro, senza toni da fine della storia o delle ideologie. Nessuna analisi di tipo politologico o economico si trova in queste pagine bensì un tentativo di colmare un vuoto di pensiero e un ripensamento di tante certezze velocemente abbandonate fin quasi a vergognarsene. La prospettiva filosofico-linguistica di questo tentativo appare quantomeno inusuale in un periodo, come quello attuale, di collasso generale delle idee della sinistra e di un autoscioglimento di fatto delle sue strutture politiche e organizzative. Con ‘comunismo’ egli intende «un progetto che vuole subordinare l’economia alla politica, per fare agire quest’ultima in modo libero e sovrano. L’economia funziona attraverso il medium del denaro. La politica attraverso le parole […]. La rivoluzione comunista è il passaggio di una società dal medium del denaro a quello del linguaggio. Essa costituisce una linguistic turn a livello della prassi sociale» (p. 24). Nel capitalismo conta il denaro, il successo sul mercato delle idee e delle parole, conta la merce e contano i segni-merce. «Con ciò il linguaggio viene messo fuori gioco» (ibid.), e con esso l’uomo. Soltanto quando il linguaggio viene liberato dalla sua mercificazione, dal suo essere funzionale alla produzione, e torna al suo valore d’uso, antropogenico, solo «allora l’uomo diviene un essere che esiste nel linguaggio e per mezzo del linguaggio. L’uomo ottiene così la possibilità di argomentare, protestare, sollevarsi contro decisioni fatali» (p. 25). Il comunismo – dice Groys – riconduce l’uomo a questa condizione, alla «verbalizzazione della società» (p. 29) che comincia con Platone: il filosofo è «colui che pensa il tutto della società». A differenza delle scienze e delle arti, la filosofia è «un uso del linguaggio che prende di mira il tutto della lingua» (p. 29), mostrando che «il lógos è paradosso» e che nessun discorso può evitare di essere contraddittorio (cfr. p. 32). Lo è il discorso di Platone quando «sostiene che i filosofi, cioè coloro che per definizione non sono saggi ma che cercano la verità, devono governare lo Stato» (p. 33). A e non-A sono pensati contemporaneamente e contemporaneamente ritenuti veri. «Il paradosso è l’icona del linguaggio, poiché apre la prospettiva sul tutto del linguaggio, […] è l’icona del lógos nel suo complesso», dice Groys (p. 37). Sul paradosso vive anche il capitalismo che riesce a mettere a 102 RECENSIONI profitto sia A che non-A: «Se i lavoratori ricevono più salario, possono comprare di più, e il profitto cresce. Se i lavoratori percepiscono meno salario, si può risparmiare sulla manodopera – e i profitti continuano a crescere. Se c’è la pace, i profitti crescono grazie alla stabilità. Se c’è la guerra, crescono grazie alla nuova domanda» (p. 41). Ma qui il paradosso, che si esprime come conflitto economico, può essere «risolto entro il medium del denaro», contrariamente al paradosso innescato dal linguaggio (p. 65). Il potere sovietico, appropriandosi della contraddizione che pensa simultaneamente gli opposti, è il «tentativo di instaurare un governo dei filosofi», come teorizzato da Platone (p. 44). Il paradosso arriva al potere. Secondo Groys, nel modo di pensare contraddittorio del materialismo dialettico il rimprovero di unilateralità gioca lo stesso ruolo di quello di contraddittorietà interna nella logica formale. Una tesi classificata come unilaterale, e di conseguenza adialettica, veniva respinta e il suo sostenitore squalificato (e non solo sul piano teorico, come è ben tristemente noto); e una posizione era considerata deviante «non per ciò che i suoi rappresentanti sostenevano ma per il fatto che essi si rifiutavano di accettare come affermazione vera anche il contrario di ciò che essi avevano sostenuto» (cfr. pp. 48-49). Essi negavano la contraddittorietà del tutto, che è la caratteristica della vita. A differenza delle macchine che di fronte a un paradosso si inceppano, l’uomo può vivere nel paradosso e per mezzo di esso (cfr. p. 49). Il punto più alto della «verbalizzazione» del corpo dottrinario del potere sovietico, ovvero del governare attraverso il linguaggio, viene individuato da Groys nel famoso intervento di Stalin per negare la tesi del carattere sovrastrutturale e classista della lingua sostenuta da Nickolaj Ja. Marr. Secondo Stalin, come è noto, la lingua è comune all’intero popolo, anteriore all’uso di classe che se ne fa; essa è connessa non solo con l’attività produttiva, come le macchine e gli altri strumenti di lavoro, ma anche con tutte le altre attività umane, ivi comprese quelle considerate sovrastrutturali. In questa presa di posizione staliniana – dice Groys - «viene riflessa con qualche ritardo la linguistic turn rivoluzionaria, che il partito comunista sovietico aveva già portato a termine molto tempo prima» (p. 56). «Non disturba affatto Stalin che con ciò il linguaggio ottenga una definizione in sé contraddittoria e paradossale» (p. 60). Viene così confermato che la realtà vivente è una totalità in sé contraddittoria e paradossale che va vissuta come tale, agendo, in altri termini, in nodo contraddittorio. Ciò porta a dire Groys che l’evento della pacifica abolizione del comunismo su iniziativa e sotto la guida dei suoi dirigenti viene sovente volgarizzato come disfatta nell’ambito della Guerra Fredda, o come risultato della lotta per la libertà dei popoli soggiogati. Si 103 tratta di spiegazioni inesatte, che non tengono conto della specifica natura del potere sovietico (cfr. p. 88). I dirigenti comunisti russi, ma anche quelli cinesi, hanno dato seguito a quello che era il loro compito, basato sulla convinzione «di dare forma alla storia in modo dialettico e non di sopportarla passivamente. I marxisti hanno sempre creduto che il capitalismo rappresentasse la migliore macchina per l’accelerazione economica. Marx lo ha sempre sottolineato e ha usato questo argomento contro il “comunismo utopico”. Già dalle giornate della Rivoluzione d’Ottobre era all’ordine del giorno la proposta di imbrigliare il capitalismo, di strumentalizzarlo e di metterlo al lavoro nel contesto di un ordine socialista e sotto il controllo del Partito comunista per promuovere la vittoria del comunismo» (p. 89). Dopo la fase della statalizzazione, la «ri-privatizzazione ha conferito definitivamente all’evento del comunismo la sua forma storica. Così il comunismo non è di fatto più un’utopia – la sua incarnazione storica è compiuta», dice Groys (p. 93), che immediatamente aggiunge (ed è qui condensata la proposta provocatoria del libro): «Compiuta significa qui conclusa e pronta per una ripetizione [cors. ns.]. Di sicuro tale ripetizione non può costituire un ritorno al comunismo sovietico, che è un fenomeno storicamente unico e definitivamente concluso. Ma sono molto probabili e, in realtà, inevitabili ulteriori tentativi di fondare un governo [Herrschaft] per mezzo del linguaggio, cioè affermare un governo dei filosofi. Il linguaggio è più universale e democratico del denaro. Su questa base è più efficace come medium, […] è il medium dell’uguaglianza. […] Evidentemente l’uguaglianza del linguaggio si rompe e si distrugge, se a tutti i parlanti viene chiesto di argomentare correttamente sul piano logico formale. Il compito della filosofia consiste proprio nel liberare gli uomini dall’oppressione del linguaggio logicamente e formalmente corretto. […] La filosofia è un’istituzione che offre agli uomini la chance di vivere in contraddizione con se stessi, senza doverla tenere nascosta. Perciò non si può completamente reprimere la speranza che questa istituzione si espanda a tutta la società» (pp. 93-94). Si tratta, ci pare di poter dire, di un ritorno della politica come luogo della costruzione o della progettazione sociale e della decisione, che oggi avvengono altrove, nell’economia che ha ridotto la politica a un teatrino dove ha luogo la “rappresentazione democratica” di interessi che operano dietro la scena e lontano dagli schermi. Ma – insistendo sulla centralità del linguaggio posta da Groys e probabilmente spostandone un poco la pertinenza - si tratta anche di focalizzare la capacità formativa, di scrittura e ri-scrittura del mondo, del linguaggio stesso, prima ancora della sua capacità comunicativa. Gli esseri umani, specificamente dotati di linguaggio e in quanto tali animali progettuali, si distinguono dagli altri animali per la loro capacità di sfuggire al condizionamento della storia che stanno effettivamente vivendo. 104 Cosimo Caputo RECENSIONI Attraverso il sogno, l’abbandono della mente al gioco delle libere associazioni, che Peirce chiamava play of musement (gioco del fantasticare), essi sono in grado di prefigurare scenari alternativi, di collegare storie o esperienze che andrebbero tenute logicamente distinte per amalgamarle in un nuovo progetto, così come sono in grado di ricostruzioni alternative o in conflitto fra loro di una certa situazione. La logica del linguaggio si manifesta così come “logica poetica” (Vico). L. GHISLERI, L’unità nella dualità. L’ontologia della rivelazione di K.W.F. Solger, Mimesis, Milano 2007, pp. 140. Esce per la collana Essere e Liberà della casa editrice Mimesis l’ultima monografia italiana dedicata a Karl Wilhelm Ferdinand Solger (1780/1819). Dopo le ricerche in ambito italiano, da parte di Marco Ravera, Valeria Pinto, Giovanna Pinna e Markus Ophälders, Luca Ghisleri aggiunge un importante contributo dedicato ad un autore ingiustamente poco conosciuto, ma ricco di spunti e scorci interpretativi. Lo fa prendendo in esame tre opere significative di Solger quali Erwin, Dialoghi filosofici su essere, non essere e conoscere e il manifesto solgeriano, Sul vero significato e sulla destinazione della filosofia, specialmente nel nostro tempo. Inoltre, l’opera di Ghisleri può, a nostro avviso, essere letta anche come un’utile guida introduttiva al pensiero di Solger, poiché l’autore, accanto alla propria lettura interpretativa, imbastisce un fitto intreccio di citazioni e relativi commenti, soprattutto concentrati nelle note a piè pagina. La tensione tra l’idealistica necessità della creazione e la libera incarnazione di impronta luterana, che sfocia nella doppia negazione dell’‘attimo della fede’, è il filo conduttore che accompagna Ghisleri attraverso la disamina della filosofia solgeriana. Detto ciò, con il presente lavoro, incentrato sul concetto focale di ‘rivelazione’ (Offenbarung), l’autore non ha voluto indagare semplicemente alcune parti della filosofia solgeriana bensì ripercorrere l’intero arco speculativo, attraverso il quale Solger espone la propria filosofia della rivelazione, dispiegantesi nelle tre forme spirituali per eccellenza: la filosofia, la religione e l’arte. Il tutto seguendo la scia 105 dell’interpretazione di Valeria Pinto e Marco Ravera, che in Italia hanno letto Solger con particolare attenzione al versante speculativo piuttosto che a quello estetico. L’originale nota interpretativa fornita da Ghisleri è di carattere filosofico-teologico, poiché attenta a ricercare le ragioni che fanno di Solger un autore che, sebbene ancora intriso di elementi idealistici, presenta il suo lato più distintivo attraverso la libertà dell’incarnazione redentiva, concepita da un punto di vista luterano. L’opera è suddivisa in due parti, la prima intitolata La rivelazione tra arte e religione e la seconda La rivelazione tra religione e filosofia, così da sottolineare sia la centralità della rivelazione sia la preminente importanza della religione rispetto all’arte e alla filosofia, tema problematico e mai risolto definitivamente dallo stesso Solger. A tal proposito, Ghisleri propone nelle pagine iniziali della seconda parte un’interessante chiave di lettura che indica come il rapporto solgeriano tra religione, arte e filosofia costituisca «un unico plesso originario, avente come oggetto la rivelazione divina considerata da opposte prospettive» (p. 66). In sintesi, alla religione spetta la rivelazione del divino mentre, per quanto riguarda arte e filosofia, Ghisleri considera uno sguardo interpretativo che giochi sulla relazione esterno/interno; ovvero l’arte è la modalità attraverso cui il divino si rende percepibile esternamente come oggetto estetico e la filosofia è l’autocoscienza interna che riflette il fatto rivelativo. Passando ad una breve ricognizione del lavoro, è menzionabile l’attenzione posta dall’autore nei confronti dell’originalità del piano estetico solgeriano, ravvisabile nella presa di distanza dalla filosofia dell’arte schellinghiana criticata, nei dialoghi dell’Erwin, per aver confinato i modelli ideali ad un’esistenza iperuranica senza vita né sensibilità. Al contrario, lo sforzo di Solger è di dimostrare come la forza rivelativa dell’idea richieda la necessaria entrata nell’esistenza da parte di quest’ultima che si fenomenizza come predicato reale. Da qui deriva il fondamentale richiamo di Ghisleri alla “molteplice unità” dell’unica idea che, entrando nell’esistenza, si rifrange nelle quattro idee, ossia Bellezza, Bontà, Beatitudine, Verità per giungere alla tesi solgeriana che definisce il bello come un’unità idealistico-plotiniana tra finito e infinito, che mantiene contemporaneamente l’opposizione di matrice paolinoluterana. Ghisleri può, in seguito, soffermarsi sul ‘salto’, sull’esperienza di rottura dell’‘istante di grazia’, attraverso cui si disvela il bello per proseguire con la presentazione del concetto di fantasia e con l’accezione tragica riservata all’arte, luogo di salvezza, che ricadendo nella corruzione del finito torna nella condizione del peccato. Senza dimenticare di evidenziare la portata rivelativa della fantasia, che permette all’opera d’arte di ricreare le cose comuni da una prospettiva essenziale, Ghisleri passa velocemente in rassegna gli altri elementi essenziali dell’estetica solgeriana quali la 106 RECENSIONI contemplazione, il Witz e l’entusiasmo per concentrarsi soprattutto sull’interpretazione teologica dell’ironia, che permette di leggere l’attimo dell’ispirazione artistica come coglimento della trasfigurazione divina. Tali osservazioni permettono all’autore di passare alla seconda parte del lavoro, dedicata al rapporto che la rivelazione istaura tra religione e filosofia con la finalità di consolidare la tesi, secondo la quale, il rapporto tra finito e assoluto, mai risolventesi in una sintesi di sapore hegeliano, illustra la filosofia di Solger come un intreccio tra due punti di vista distinti e in tensione tra loro. Il primo, di carattere gnoseologico, è ravvisabile nell’istanza idealistica di Dio che si rivela per conoscersi; il secondo, di carattere ontologico, è la visione luterana del Dio che annulla il proprio essere per redimere l’uomo dal peccato. La riflessione fin qui maturata consente a Ghisleri di indirizzare la parte rimanente del lavoro verso una conclusione che, chiarendo il significato del titolo, darà spazio alla tarda riflessione solgeriana dedicata alla vera mistica e alla relativa concezione «puntuale del nesso di identità e differenza tra Dio e la sua rivelazione nell’autocoscienza umana» (p. 133), ovvero l’unità dell’assoluto nella dualità del finito. Ciò è giustamente introdotto da un’attenta analisi dei Dialoghi filosofici su essere, non essere e conoscere che, dopo un’introduzione storiografica inerente l’incerta data di composizione, mostra l’originalità della speculazione solgeriana, contraria sia alla filosofia dell’identità schellinghiana sia all’infinita espansione dell’Io del “primo” Fichte. Da quest’ultimo eredita l’autolimitazione dell’assoluto mentre da Schelling la priorità dell’essere rispetto all’Io per fondare, secondo la definizione di Ghisleri, un “monismo dialettico e dinamico” (p. 95) mai statico ma perpetuamente ripetuto nella puntualità dell’attimo della rivelazione, che si conosce attraverso la riflessione filosofica. Il rapporto tra filosofia e religione è il tema che interessa il commento allo scritto programmatico Sul vero significato e sulla destinazione della filosofia, specialmente nel nostro tempo, analizzato da tre differenti angolature. Dal punto di vista gnoseologico, Ghisleri evidenzia la tensione circolare e insieme dialogica tra la percezione immediata del «fatto assoluto» della fede e la mediazione della coscienza filosofica, che pensando l’assoluto sostanzia se stessa. Il secondo punto di vista, di carattere ontologico, presenta la rivelazione della «eterna legge del mondo» (p. 115), incarnata da Cristo, che Solger non considera storicamente, ma speculativamente come «modello eterno di struttura della realtà, […], rivelazione continua dell’universale nel particolare, che mantiene la differenza tra immanenza e trascendenza» (p. 116). La differenza dialettica è il perno attorno al quale Ghisleri presenta il terzo motivo di lettura del saggio solgeriano, nel quale sono sinteticamente messe a confronto natura ed etica. Entrambe sono lette 107 alla luce della rivelazione e riunite dall’autocoscienza umana in cui si rivela la verità della natura dove l’agire umano diviene compiuta immagine oggettiva del bene. Concludiamo ribadendo come la sproporzione ontologica e la trascendenza divina, conosciuta attraverso una rivelazione istantanea ed eternamente ripetuta, spiegano il messaggio dell’unità nella dualità divenendo i punti focali di questo lavoro che apporta un ulteriore sviluppo agli studi italiani dedicati a Karl Wilhelm Ferdinand Solger. Andrea Camparsi C. PADOVANI, Paflasmós. Il battito del Mar Egeo. Viaggio nell’anima della Grecia, Diabasis, Reggio Emilia 2008, pp. 160. 108 Paflasmós. Il battito del Mar Egeo è l’ultimo lavoro di Cesare Padovani. Il titolo, chiaramente onomatopeico, riproduce il rumore del mare, quel mare che racconta la Grecia e la “grecità”, intesa più che altro come una condizione intima e personale. Il libro è una raccolta di umori, sensazioni, emozioni che raccontano di viaggi per le isole della Grecia, la terra “del domani, la terra dell’attesa che qualcosa possa accadere”, come scrive lo stesso Padovani, e la culla del mito che è “un dire povero perché privo di retorica”, comunque sempre attuale. Perché l’uomo si evolve, costruisce grattacieli, butta giù muri, monta la fiera della scienza, ma, al di là di tutto, il suo alfabeto intimo è fatto di poche lettere, sempre le stesse nei secoli. Così il mito diventa patrimonio dal quale attingere insegnamenti e in cui riconoscersi e ritrovarsi. Qualcosa che sopravvive tutt’oggi anche se con alcune varianti. Questo è, dunque, il racconto di “spostamenti” fisici che, come bussola, si avvalgono del mito, della cultura classica, dei filosofi; è la storia di un uomo, Padovani, che si accetta per quello che è, per “ il mio tutto” come egli stesso dice, “che è anche il mio bastone, la mia mancanza di equilibrio”. Ma “tutto scorre” - diceva Eraclito - e allora il viaggio, da sintesi di ciò che siamo, diventa esperienza catartica che volge lo sguardo verso l’Altro da sé. RECENSIONI Ecco che il viaggio in Grecia, “che colma il vuoto dell’esistenza”, diventa un’anànke, una necessità di crescita, di maturazione, un percorso obbligato costellato di volti, visioni e presenze: Aristotele, Parmenide, Eraclito. Tuttavia i riferimenti culturali non sono pedanti, il lettore si siede accanto allo scrittore e guarda, diventa testimone del suo vissuto e lo condivide anche. Ogni luogo evoca una storia, una leggenda, un intrigo, una tragedia. Padovani, ad un certo punto, scorge l’antica acropoli di Kòrintos, dove la Medea di Euripide giunge per seguire il suo Giasone: Medea, simbolo dell’amore disperato e tradito, che sceglie di morire con i figli e, al “perché lo fai” di Giasone, risponde: “Così tu non potrai più ridere di me”. Un itinerario di conoscenze, letture, incontri oltre le coordinate geografiche, forse l’esperienza della presa di coscienza di una vita, con i suoi dolori e l’orgoglio delle sue scoperte. La traduzione in parole di tutto ciò è possibile perché è la maturità che lo concede, difatti si tratta di un’avventura solida, supportata com’è dalla conoscenza, ma non per questo priva di voli. Una serie di riflessioni su Atene “che non è più quella di una volta”, sul silenzio, sull’abitudine e, a tal proposito, Padovani cita di nuovo Eraclito per dire che “l’abitudine è la peggiore calamità per l’uomo ma pure la sua genialità”. Quindi una ricerca interiore, una ricerca della propria “grecità”, come Itaca per Kavàfis, cosi la Grecia tutta per Padovani è la terra del ritorno, di un ritorno a sé, più pieno. 109 Federica Rega PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA “SEGNI E COMPRENSIONE” Volumi: M. CASELLA, Gli ambasciatori d’Italia presso la Santa Sede dal 1929 al 1943, Congelo, Galatina 2009, pp. 648; C. 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