n. 69 settembre-dicembre - rivista segni e comprensione

RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXIII NUOVA SERIE - N. 69 –
SETTEMBRE- DICEMBRE 2009
Versione telematica
1
Pubblicazione promossa dal Dipartimento di Filosofia e Scienze
sociali dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di
Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma.
Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R.,
attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del
Salento e dello stesso Dipartimento.
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Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno
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Responsabile di Redazione: Daniela De Leo.
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ogni anno. Il costo di un fascicolo degli anni precedenti è doppio.
Questa rivista è sui siti:
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2
NOTE PER GLI AUTORI
I contributi vanno inviati alla Direzione di “Segni e comprensione” c/o
Dipartimento di Filosofia e scienze sociali – Via V. M. Stampacchia 73100
Lec-ce. Si può utilizzare l’e-mail: [email protected]. Il materiale
ricevuto non verrà restituito.
Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle
di 3.600 caratteri, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le
“Note” non si dovranno superare le 10 cartelle con le medesime
caratteristiche.
Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si
riserva il diritto di apportare eventuali modifiche, previa comunicazione e
approvazione dell’Autore.
3
INDICE
Saggi
7
Girolamo Cotroneo
LA FAMIGLIA TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ
28
Marina Pia Pellegrino
EDITH STEIN. LA COMUNITÀ DI DESTINO
41
Francesco Clemente
POLEMICA ED EREDITÀ PROBLEMATICA DELL’IDEALISMO TEDESCO
NELLA FILOSOFIA DI LUDWIG FEUERBACH
4
56
Giacomo Fronzi
TH. W. ADORNO. L’ESTETICA MUSICALE E LA FORZA DELLA CRITICA
Note
69
Palma Valentina di Nunno
BERGSON, L’ÉVOLUTION CRÉATRICE, E IL PROBLEMA RELIGIOSO
75
Santo Arcoleo
NEL CENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DE L’ÉVOLUTION
CRÉATRICE DI H. BERGSON.
IL COLLOQUIO AL “COLLÈGE DE FRANCE”
90
Maria Cristina Fornari
GUYAU E UNA MORALE SENZA OBBLIGAZIONE NÉ SANZIONE
94
Tommaso Speccher
ALCUNE RIFLESSIONI SU “LINGUAGGIO E PRINCIPIO DI ESCLUSIONE”
5
98
Recensioni
M. Recchi, C. Caputo, A. Camparsi, F. Rega
110
Pubblicazioni ricevute
Anche “Segni e comprensione” si adegua alla rivoluzione informatica
e mass-mediatica. Già da alcuni anni la rivista appare tanto nella versione
cartacea quanto in quella telematica. Anche le ultime vicende, non ancora
concluse, che travagliano l’università pubblica italiana, hanno suggerito al
Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento (che,
insieme al Centro di Ricerche fenomenologiche di Roma, promosse questa
rivista nel 1987) di ridurre l’attività editoriale realizzata con le antiche
metodologie. Così le tre riviste del Dipartimento, di cui due ultraventennali,
dal 2009 hanno una doppia veste: un numero sarà a stampa e avrà carattere
monotematico, e gli altri due numeri, di cui questo è il secondo, appaiono on
line sul sito http://dip-fil.unile.it. I testi che vi appaiono sono in formato “pdf”,
in modo che autori e lettori possano stampare i saggi o tutta la rivista come
se uscisse dalla consueta tipografia. Ciò avviene da tempo, come è noto, per
tanti periodici scientifici nazionali e internazionali.
Abbiamo già pensato al tema del numero monotematico del 2010.
Esso riprende e aggiorna un consuntivo, fatto vent’anni fa, su Fenomenologia
ed esistenzialismo in Italia. Fu il tema di un Convegno organizzato a
Tarquinia dalla Società Filosofica Italiana nel 1981, i cui atti furono curati da
Giovanni Invitto. Quello che “Segni e comprensione” chiede ai suoi Autori
antichi ed a quelli più recenti è di elaborare testi su quell’argomento e ad
inviarli alla rivista entro il 30 ottobre 2009 ([email protected]).
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LA FAMIGLIA TRA MODERNITÀ E POST-MODERNITÀ
di Girolamo Cotroneo
chi affronta l’indagine scientifica attorno alla famiglia si trova dinnanzi un
problema estremamente complesso per due ordini di motivi: innanzi tutto
perché gli studi sulla famiglia condotti con criteri scientifici hanno appena un
secolo di storia e poi perché a questo breve curriculum scientifico fa riscontro
una lunga tradizione di indagine meramente teorico speculativa e addirittura
religiosa.1
Il mio intervento muove, per così dire, dalle ultime parole di Cerroni,
osservando che nel corso dell’età moderna la famiglia è stata a lungo
riguardata soprattutto sul piano “politico”, come una fondamentale struttura
dello Stato, escludendo il suo momento etico, come dichiarava
esplicitamente «la plus forte tête que l’ancien règine ait vu paraître en
France», il fondatore del pensiero politico moderno, sarebbe a dire Jean
2
Bodin. Nella sua opera più famosa, Les six livres de la Republique,
inaugurando la sezione dedicata alla famiglia, scriveva: «In questa sede noi
intendiamo occuparci, lasciando ai filosofi e ai teologi la trattazione
dell’aspetto morale, solo dell’aspetto politico della questione; e quindi anche
di quel potere del marito sulla moglie ch’è fonte e origine di ogni umana
3
associazione».
Ritornerò sul tema del “potere del marito”. Prima però vorrei
proseguire il discorso sul rapporto tra “famiglia” e “Stato”, essendo la prima
per i filosofi politici dell’età moderna «la vera origine dello Stato», di cui
4
«costituisce parte fondamentale», secondo diceva ancora Bodin, per il quale
era «impossibile che uno Stato valga qualcosa se sono mal fondate le
SAGGI
Il titolo del mio intervento ritengo richieda un chiarimento preliminare:
in esso, infatti, vengono evocati due termini – modernità e post-modernità –
dal significato controverso, che qui assumo in maniera del tutto soggettiva,
per indicare due successivi momenti storici nel corso dei quali sono apparsi
due diversi modi di intendere la famiglia. Se, infatti, come vedremo, la
modernità – intendendo per questo periodo i secoli tra il XVI e il XIX – ha
costruito un’immagine, per così dire, positiva della famiglia, ne ha fissato
alcuni caratteri essenziali, senza dei quali essa non è data, il XX secolo, che
assumo come il secolo post-moderno, ha avviato un’opera di disgregazione
di quell’immagine, nella quale ha ritenuto di individuare la presenza di alcuni
fattori distruttivi della personalità dei suoi componenti. Vediamo. Ha scritto
Umberto Cerroni che
7
5
famiglie che ne costituiscono i pilastri»; e, a sostegno, aggiungeva che fu
«da quando, al declino dell’Impero Romano, l’autorità del padre cominciò a
rilassarsi, che anche l’antica virtù e lo splendore di quello Stato vennero
rapidamente a cadere, e in luogo della pietà e dei buoni costumi di un tempo
6
si verificò un’infinità di azioni viziose e malvage». Il medesimo argomento
troveremo qualche secolo dopo nelle pagine di Johann Gustav Droysen, il
quale scriveva che «la virtù nell’antica Roma ha avuto esattamente la stessa
durata della semplicità rigorosa della famiglia»; e, a sostegno, cosa forse più
7
importante, aggiungeva: «La stessa prova vale ancora ai nostri giorni».
Di là di tutto questo, ai fini del mio discorso, la cosa più importante è
adesso sentire quale idea di famiglia il pensiero politico moderno proponeva
o indicava. Prima però vorrei ricordare quanto sostenuto ancora da Umberto
Cerroni per il quale è impossibile «definire il concetto di famiglia prima di una
ricognizione circostanziata dell’istituto storico della famiglia», perché se
scompare la storicità del concetto di famiglia correlata alla storicità dell’istituto
familiare, scompare immantinente la storicità del moderno istituto familiare: al
tempo stesso la teoria costruita senza storia si assolutezza in teoria
refrattaria alla storicità, e la storia, privata di specifici parametri causali
ricavata dall’indagine di vari tipi istituzionali, sfuma in mero antecedente
8
filosofico dell’istituto moderno.
Persino quello - ha proseguito - che è considerato il fondamento della
famiglia, l’amore, non si è mai svolto come relazione extratemporale, ma
sempre come rapporto modellato in forme storiche specifiche tra un Ulisse e
una Penelope, un Dante e una Beatrice, un Romeo e una Giulietta: e la
letteratura e l’arte ne hanno sempre dato fedelmente le differenze.9
Devo subito precisare che quando parla di famiglia “moderna”
Cerroni intende quella che qui indico come “contemporanea” o
“postmoderna”. Ma a parte questo, pur non essendo certo mia intenzione
esaminare “storicamente” il concetto di famiglia, la sua evoluzione almeno
nei suoi momenti principali, non potrei però costruire questa mia nota senza
riferirmi direttamente agli autori, ai filosofi soprattutto, che in tempi diversi,
legati a particolari situazioni storiche, hanno indagato, appunto, more
philosophico sull’istituto familiare. Per farlo muovo ancora da Bodin per il
quale la famiglia era soltanto quella fondata sul matrimonio. Scriveva, infatti,
che per “moglie” si deve intendere quella donna «che appartiene
legittimamente al marito», non già la “concubina”, non essendo questa
«sottoposta all’autorità del marito»; e aggiungeva che «anche se vi sia il
consenso delle parti, ossia quel contratto pattuito verbalmente e di presenza
che la legge chiama matrimonio, il marito non acquista potere sulla moglie
10
fino a che questa non si andata a convivere con lui».
8
L’idea che “famiglia” fosse soltanto quella fondata sul matrimonio –
inteso però non già come sacramento, e privo persino di un elemento etico;
un elemento che, alcuni secoli dopo Hegel avrebbe indicato come ciò che lo
11
rendeva indissolubile – ricompare nel secolo decimonono nelle pagine di
uno dei più grandi pensatori europei, Immanuel Kant, il quale, dopo avere
detto che
dopo avere detto questo, dunque, sosteneva che da questo principio
derivava «che il concubinato non è suscettibile di alcun contratto valevole in
diritto, così come non lo è il mercato che si fa di una persona per un
12
momento di godimento (pactum fornicationis)». Accanto al filosofo di
Königsberg, va ricordato colui che ha segnato una svolta decisiva nel
dibattito sulla famiglia, il già ricordato Giorgio Guglielmo Federico Hegel, il
quale scriveva che «il matrimonio si distingue dal concubinato, per il fatto
che, in quest’ultimo, importa principalmente l’appagamento dell’istinto
13
naturale, mentre questo nel matrimonio è represso»
Il significato ultimo di queste parole lo coglieremo più avanti Qui
interessa rilevare soltanto la distanza che, sia pure con motivazioni assai
diverse, già Bodin aveva posto tra matrimonio e concubinato. Ma proprio nel
passaggio in cui il filosofo angioino separava queste due forme di
convivenza, era apparsa una delle questioni più dibattute nell’età moderna
intorno alla famiglia: l’autorità paterna. L’immagine di una famiglia fondata
sull’autorità del padre – il pater familias della tradizione romana – che era,
appunto, la famiglia “ben fondata”, conduceva Bodin alla conclusione che « la
famiglia ben governata è la vera immagine dello Stato, [e] come l’autorità
domestica somiglia al potere sovrano, così il governo giusto della casa è il
14
vero modello del governo dello Stato».
Quanto queste parole
discendessero dalle idee politiche di Bodin, al cui centro vi era l’idea della
“sovranità” una e indivisibile, non è il caso di discutere in questa sede. Per
quel che riguarda invece il problema dell’autorità paterna, merita di essere
ricordato che il primo grande filosofo liberale, John Locke, scriveva che pur
se il marito e la moglie avevano «un solo comune interesse», sarebbe a dire
il bene della famiglia, «tuttavia, avendo intelligenze differenti, ed essendo
perciò necessario che si dia, in qualche posto, la decisione ultima, cioè a dire
il governo, è naturale ch’essa sia dalla parte dell’uomo in quanto più capace
SAGGI
l’acquisto di una moglie o di un marito non avviene [...] facto (con il
congiungimento) senza contratto precedente, e nemmeno pacto (per un
semplice contratto matrimoniale senza congiungimento ulteriore) ma soltanto
lege, cioè come conseguenza giuridica derivante dall’obbligo di non formare
un’unione sessuale altrimenti che per mezzo del possesso reciproco delle
persone.
9
15
e più forte». Ma non a caso ho ricordato che Locke è il primo filosofo
liberale; una qualifica, per così dire, rivelata, se si vuole, proprio dalla
definizione di famiglia da lui fornita:
La società coniugale è costituita da un contratto volontario fra uomo
e donna, e sebbene essa consista principalmente in quella comunione e in
quel diritto dell’uno sul corpo dell’altro, che è necessario al suo fine precipuo,
ch’è la procreazione, tuttavia essa porta con se mutuo aiuto e assistenza, e
anche una comunione di interessi, qual è necessaria non soltanto onde
riunire la loro cura e affezione, ma anche alla loro comune prole, che ha
diritto ad esser nutrita e mantenuta da loro, sino a che non diventi capace di
16
provvedere per sé.
I concetti di “mutuo aiuto” e “assistenza”, anche se improntati a una
visone soprattutto utilitaristica, introducono, o almeno sfiorano quello che
sarà l’argomento decisivo, il fondamento etico del matrimonio proposto dalla
“modernità”, che abbiamo già avuto occasione di incontrare nel pensiero di
Hegel. Di là di questo, comunque, quanto detto da Locke sulla famiglia
presenta aspetti certamente interessanti che vale la pena ascoltare. A
quanto, infatti, ho ricordato a proposito della maggiore capacità di governo
dell’uomo, aggiungeva che questo «non riguarda che le cose di loro comune
interesse e proprietà»; e questo lascia la moglie nel pieno e libero possesso
di ciò che per contratto è suo particolare diritto, e conferisce al marito non più
potere sulla vita di lei ch’essa non abbia sulla vita di lui, dal momento che il
potere del marito è così lontano da quello di un monarca assoluto, che la
17
moglie ha in molti casi la libertà di separarsi da lui.
Questa attenuazione del ruolo egemone dell’uomo, la incontriamo
ancora dove il filosofo inglese scriveva che la cultura tradizionale «sembra
collocare il potere dei genitori sui figli interamente nel padre, come se la
madre non vi avesse parte, mentre invece, se consultiamo la ragione e la
rivelazione, vedremo ch’essa vi ha un titolo eguale»; e ricordava anche il
18
quarto comandamento: «Onora il padre e la madre».
Non mi sembra neppure il caso di sottolineare la “novità” introdotta
da Locke nella moderna visione della famiglia, che sembra preludere a
quanto nel 1869 dirà John Stuart Mill nel celebre saggio dal titolo La schiavitù
delle donne, il quale va ben al di là del discorso di Locke, e che – senza
sconfinare nel “post-moderno”, nella dissoluzione del concetto moderno,
“borghese”, se vogliamo così chiamarlo – del matrimonio e della famiglia – ne
modifica soltanto, migliorandoli, alcuni aspetti Stuart Mill scriveva.
Ma, si domanderà, come può esistere una società senza governo?
In una famiglia, come in uno Stato, qualcuno deve esercitare l’autorità
suprema. Chi deciderà quando i coniugi hanno opinioni diverse? Non posso
10
Indubbiamente le cose che debbono essere decise ogni giorno, e non
possono aggiustarsi da sé gradualmente o attendere un compromesso,
dovrebbero dipendere da un’unica volontà: una sola persona dovrebbe
averle sotto esclusivo controllo. Ma non ne deriva che questa della essere
sempre la stessa persona. Le cose si aggiustano naturalmente con una
divisione di potere fra i due, dove ciascuno esercita nella propria sfera
d’azione un assoluto controllo e qualsiasi cambiamento di sistema e di
principio esige il consenso di entrambi.19
Con Stuart Mill, come dicevo, siamo in un momento già molto
avanzato rispetto alla nostra precedente discussione. Tornando alla quale,
non si può non sottolineare che l’importanza del discorso di Locke sta
soprattutto nell’avere dato all’interno della famiglia, anticipando, per così dire,
Stuart Mill, un ruolo anche alla donna, negatole dalla cultura precedente.
Basta pensare ancora una volta a Bodin, il quale scriveva che « qualunque
sia la varietà delle leggi e per quanti mutamenti esse abbiano subito, non vi è
stata mai alcuna legge o consuetudine che abbia esentato la moglie
dall’obbedienza al marito, e non solo dall’obbedienza, ma anche dalla
reverenza che essa gli deve»; anche se aggiungeva, pur non essendoci al
mondo niente «di più grande e di più necessario che l’obbedienza della
moglie al marito, non per questo il marito deve, con il pretesto del suo potere,
20
rendere la moglie schiava». E a proposito dell’educazione dei figli scriveva
che « il governo giusto del padre sui figli consiste nel retto uso di quel potere
che la natura gli ha conferito sui figli propri o la legge su quelli adottivi; e, di
riscontro, nell’amore, nell’obbedienza e nella reverenza dei figli verso il
21
padre», senza mai menzionare la madre. Locke, invece, dopo avere detto
del potere dei genitori dei “genitori” sui figli, e delle ragioni che richiedevano
quel potere, aggiungeva che da quelle ragioni non si poteva trarre alcun
motivo
per trasformare questa cura dovuta dai genitori ai figli in un “dominio
arbitrario e assoluto” del padre, il cui potere non si estende più in là che
inferire, mediante quella disciplina ch’egli ritiene più efficace, tanta forza e
salute ai loro corpi, e tanto vigore e dirittura alla loro menti, quanto basti per
SAGGI
procedere in direzioni diverse, e tuttavia una decisione in un senso o
nell’altro, deve essere presa.
La risposta era, riguardo ai tempi, affatto controcorrente: «Non è
vero», rispondeva, «che in qualsiasi associazione volontaria fra due persone,
una debba essere il padrone assoluto: meno ancora, che sia la legge a
determinare quale delle due lo sarà».. E cosi spiegava la sua visione del
problema:
11
renderli atti ad esser utili il più possibile a se stessi e agli altri […]. Ma a
questo potere anche la madre partecipa col padre.22
Fino a questo momento il discorso sulla famiglia ha avuto, in linea di
massima, un carattere di natura giuridico-politica; e anche la questione dei
doveri verso i figli sembra rientrare in questa visione. Non è un caso infatti
che qui appare – lo abbiamo già visto in Locke – l’idea del matrimonio come
“contratto”; un contratto che anzitutto consente ai contraenti di godere
ognuno del corpo dell’altro, ma non ai fini del puro godimento, ma per un fine
superiore, quello, appunto, di procreare. Una tesi sulla quale Kant aveva
qualche riserva come indicano queste parole:
Il rapporto sessuale è: o quello che obbedisce alla pura natura animale, o
quello che si conforma alla legge. Questo secondo caso è il matrimonio, cioè l’unione
di due persone di sesso diverso per il possesso reciproco delle loro facoltà sessuali
durante tutta la loro vita. Lo scopo di procreare e allevare figli può ben essere quello
che s’è proposto la natura e a cui s’ispira l’inclinazione dei due sessi l’uno verso l’altro,
ma l’uomo che si sposa non è obbligato a proporsi questo scopo per rendere questa
unione legittima, perché altrimenti, cessata la procreazione il matrimonio nello stesso
23
tempo si scioglierebbe da sé.
Ma la più profonda svolta nella visione della famiglia proposta dalla
modernità, quella che sposta il problema dal piano politico giuridico a quello
etico, la incontriamo nell’ultima delle opere sistematiche di Hegel, i
Lineamenti di filosofia del diritto del 1821, già più volte citati, dove la
“famiglia”, assieme alla “società civile” e allo “stato” costituisce uno dei tre
momenti della forma più alta dello Spirito Oggettivo, l’”eticità”, appunto. Qui
Hegel prendeva posizione contro l’immagine kantiana del matrimonio come
“contratto”; e a questo proposito scriveva che «sotto il concetto del contratto
non può quindi venire sussunto il matrimonio; questa sussunzione è esposta
24
nella sua – turpitudine, si deve dire – in Kant». Sempre nella stessa opera,
ma in altra occasione, scriveva di ritenere affatto improprio considerare il
matrimonio «soltanto come un rapporto sessuale»; e aggiungeva che
è altrettanto rozzo, considerare il matrimonio semplicemente come un
contratto civile: concezione che ancora si presenta pure in Kant, nella quale,
dunque, si contratta l’arbitrio reciproco sopra gli individui, e il matrimonio è
degradato a forma di uso reciproco, contrattuale.25
Che cosa intendesse Hegel per matrimonio lo incontriamo in un
famoso paragrafo dell’opera di cui stiamo parlando, dove si legge:
12
Il duro linguaggio di Hegel non impedisce di vedere che,
introducendo il concetto di “amore autocosciente” che supera l’iniziale
attrazione dei sessi – cosa che vietava di poter considerare il matrimonio un
contratto – Hegel faceva compiere al concetto di matrimonio, e quindi di
famiglia, un vero e proprio salto di qualità giungendo a considerarlo, come
del resto abbiamo avuto modo di vedere, un atto “religioso” e “indissolubile”.
Questo però non gli impediva di sottolineare che il matrimonio si presenta
pure come atto giuridico. A quanto abbiamo appena visto, infatti, aggiungeva
che era da respingere quella concezione
SAGGI
Il matrimonio contiene, inteso come il rapporto etico immediato, in primo
luogo il momento della vivezza naturale, e invero come rapporto sostanziale
la vivezza nella sua totalità, cioè come realtà del genere e processo di esso.
[…] Ma nell’autocoscienza in secondo luogo l’unità dei sessi naturali, soltanto
interiore o essente in sé e appunto perciò soltanto esteriore nella sua
esistenza, viene trasformata in una unità spirituale, in amore autocosciente.26
che pone il matrimonio soltanto nell’amore; poiché l’amore, che è sentimento,
consente l’accidentalità in ogni riguardo; forma che l’ethos non può avere. Il
matrimonio quindi, è da determinare particolarmente così, che esso sia
l’amore giuridicamente etico, pel quale il transitorio, il capriccioso e il
semplicemente soggettivo del medesimo scompare da esso.27
Questa immagine del matrimonio come atto d’amore entrò
rapidamente nella cultura dell’epoca. La ritroviamo, infatti, nel contesto di un
discorso dedicato, appunto, alla famiglia, nella già ricordata Istorica di
Johann Gustav Droysen, il quale, parlando delle “comunanze naturali”, la
prima delle quali era, appunto, la famiglia, scriveva che queste ultime
sono quelle in cui le forme di esistenza meramente creaturali, cui l’uomo
secondo la sua parte corporea è rivolto, [vengono elevate per mezzo di un
primo volere, dell’amore, del dovere, della fedeltà, nella sfera etica,] vengono
tramutate in altrettante forme dell’esistenza etica.[…] Perché non solo
l’esistenza creaturale dell’uomo, ma anche quella etica si radica nella
famiglia; perché i suoi membri o hanno rinunciato alla personalità l’uno per
l’altro (i genitori) oppure non vi sono ancora giunti, ma devono giungervi con
lungo lavoro. […] In quest’ambito ciascun singolo membro ha la coscienza di
sé nella coscienza dell’altro e degli altri, possiede sé pienamente solo
nell’altro, in questa inesauribile reciprocità dell’amore, della fiducia, della
fede, in questa ricchezza di interazioni e di movimento spirituale sta l’unità
della famiglia, sta lo spirito della famiglia.28
Anche Hegel aveva detto che il punto partenza “oggettivo” del
matrimonio è «il libero consenso delle persone, e proprio a costituire una
13
persona, a rinunziare alla loro personalità naturale e singola in quella
29
unità»; ma da questo non faceva discendere la “parità” tra i coniugi,
essendo nella sua visione globale dell’eticità, diverso il loro ruolo nella
società. Scriveva, infatti che, «la famiglia come persona di diritto di fronte ad
30
altre deve rappresentarla l’uomo come suo capo». Questo perché il ruolo
storico, sociale se si preferisce, dell’uomo non si esaurisce nella famiglia, dal
momento che non partecipa soltanto alla vita di questa, ma assume altri
compiti e altre responsabilità: «L’uomo», scriveva Hegel, «ha la sua reale vita
sostanziale nello stato, nella scienza e simili, e altrimenti nella lotta e nel
lavoro con il mondo esterno e con se stesso»; al contrario, la donna «ha la
sua destinazione sostanziale», ed è in essa che risiede la pietas familiare;
quella pietas che
in una delle più sublimi rappresentazioni della medesima, nell’Antigone
sofoclea viene enunciata di preferenza come la legge della donna, e come la
legge della sostanzialità soggettiva vivente nel sentimento, dell’interiorità che
non attinge ancora la sua compiuta realizzazione, come la legge degli antichi
dei, del regno sotterraneo, come legge eterna, della quale nessuno sa donde
apparve, e rappresentata nell’opposizione contro la legge manifesta, la legge
dello stato.31
Ritengo del tutto superfluo ricordare le ragioni per cui Hegel
attribuiva ad Antigone – paradigma della donna come tale – il ruolo di
custode della pietas familiare. Più vicino al mio discorso, invece, il fatto che in
questo contesto appare anche la questione relativa all’educazione dei figli,
che, nel modo in cui Hegel la poneva, “liquidava”, per così dire, l’antica figura
dell’autorità paterna. Vale la pena leggere le sue parole:
I figli hanno il diritto di venire nutriti e educati sulla base del comune
patrimonio familiare. – I figli sono in sé liberi, e la loro vita è soltanto
l’immediato esserci soltanto di questa libertà, essi appartengono perciò né ad
altri né ai genitori come cose. La loro educazione ha la destinazione positiva,
rispetto al rapporto di famiglia, che l’eticità venga in essi portata a sentimento
immediato, ancor privo di opposizione, e che ivi, come in fondamento della
vita etica, l’animo abbia vissuto la sua prima vita in amore fiducia e
obbedienza, – ma poi ha la destinazione negativa rispetto al medesimo
rapporto, di innalzare i figli dall’immediatezza naturale, nella quale essi
originariamente si trovano, all’autonomia e alla libera personalità e con ciò
alla capacità di uscire dall’unità naturale della famiglia.32
Hegel chiamava questo momento finale – che ricorda Locke, quando
sosteneva che l’educazione paterna doveva dare “vigore e dirittura” ai figli,
per “renderli atti” ad essere utili a loro stessi e agli altri – «scioglimento etico
14
A questo punto ritengo di potere avviare il discorso sull’immagine
post-moderna della famiglia, che, si risolve in una pressoché totale
negazione sia della famiglia borghese, che, nei suoi punti estremi, della
famiglia in sé, considerata una struttura fondata soprattutto, se non soltanto,
sui concetti di “autorità”, “patrimonio”, “procreazione”, che peraltro abbiamo
visto comparire a vario titolo nel dibattito filosofico che abbiamo fin qui
seguito.
In maniera, per così dire, empirica, assumo come punto di partenza
uno tra i testi più radicali tra quelli che cercano di liquidare il concetto di
famiglia, quale abbiamo visto costituirsi tra il Cinquecento e l’Ottocento. Mi
riferisco agli scritti di un personaggio di primo piano della rivoluzione russa,
della prima donna nella storia ad assumere una carica governativa,
Aleksandra Kollontaj, che è certamente la più nota protagonista della tentata
rivoluzione culturale, della rivoluzione dei costumi, che, nelle sue intenzioni,
avrebbe dovuto seguire la rivoluzione bolscevica. Della sua produzione, dei
suoi scritti di natura etica e politica, che certamente non si allontanano dal
dettato marx-leninista, qui, ovviamente, interessano soltanto quelli relativi alla
famiglia, che la Kollontaj collegava strettamente alla questione femminile, alla
liberazione, anche sul piano sessuale, della donna: «Per diventare
veramente libera», scriveva:
la donna deve sbarazzarsi delle catene che l’attuale forma della famiglia,
sorpassata e costrittiva, fa pesare su di lei. […] Le attuali forme della
struttura familiare, stabilite dalla legge e dal costume, fanno sì che la donna
soffra non solo come essere umano ma anche come sposa e madre. Nella
maggior parte dei paesi civili, il codice civile pone la donna in una situazione
di maggiore o minore dipendenza rispetto all’uomo e riconosce al marito non
SAGGI
33
della famiglia»; un’espressione felice, che non richiede commento alcuno.
Una breve, ultima considerazione la richiede invece quel riferimento al
“patrimonio familiare”, che abbiamo già incontrato e che viene così
confermato: «La famiglia ha come persona la sua esteriore realtà in una
proprietà, nella quale essa ha l’esserci della sua personalità sostanziale sotto
34
la forma di un patrimonio». Il legame patrimonio-famiglia, sarà duramente
contestato della post-modernità. Ma, parte questo, è qui che la famiglia
“moderna”, borghese, se si preferisce, ha raggiunto la sua forma compiuta;
una forma che troverà la sua epopea agli inizi del Novecento, precisamente
nel 1901 nel capolavoro del giovane Thomas Mann, I Buddendbrook, che di
quel concetto di famiglia segnalava la forza, ma anche la crisi e la
malinconica decadenza.
15
solo il diritto di disporre dei beni della moglie, ma anche quello di dominarla
moralmente e fisicamente. 35
Per spiegare le ragioni di tutto questo, la Kollontaj, adeguava, come
prima ho detto, la sua visione a quella di Marx, al problema della proprietà
dei mezzi di produzione, dalla quale dipendevano tutte le “sovrastrutture”
etiche e politiche tra cui appunto la famiglia: «Da noi in Russia», scriveva,
le donne della media borghesia […] hanno praticamente risolto da lungo
tempo, a titolo individuale molti aspetti ingarbugliati della questione
matrimoniale, passando audacemente sopra il matrimonio religioso
tradizionale e sostituendo la forma consolidata della famiglia con un’unione
facile da rompere, che meglio corrisponde ai bisogni dello strato intellettuale,
mobile, della popolazione
tuttavia, aggiungeva,
le soluzioni individuali, soggettive, del problema non mutano affatto la
questione e non abbelliscono in nulla il fosco quadro della vita familiare Se
qualcosa può distruggere l’attuale forma di famiglia, non sono certo gli sforzi
titanici di personalità più o meno forti, bensì le forze produttive,
apparentemente inerti ma tuttavia potenti, che instancabilmente, passo
passo, ricostruiscono la vita su basi nuove.36
16
Tralascio ovviamente gli innumerevoli passaggi aspri, duri, contro la
37
famiglia borghese, contro il legame nato, come abbiamo visto, nell’età
38
moderna, tra famiglia e proprietà, per ricordare la radicale conclusione cui
la Kollontaj giungeva, che troviamo espressa in queste poche parole: «Così
la borghesia avrà un bel gridare che i principi familiari sono immutabili e
intangibili: la famiglia - la famiglia attuale, chiusa, autarchica e strettamente
39
individualistica – è condannata allo smembramento e alla morte».
Dai testi della Kollontaj mi sembra risulti con chiarezza che l’inizio
della visione post-moderna della famiglia si presenta come la conseguenza,
anche nell’Europa Occidentale dove non la “rivoluzione” non aveva avuto
luogo, del movimento politico-culturale ispirato al marxismo, che intendeva
cancellare, o modificare radicalmente, le istituzioni “borghesi”, prima fra tutte
la famiglia. Contro la quale, in maniera più penetrante perché filosoficamente
meglio sostenuta rispetto alla scoperta aggressività della scrittrice russa, si
dirigeva un famoso saggio, apparso per la prima volta nel 1936, di uno dei
più noti pensatori del Novecento, sarebbe a dire Max Horkheimer, che
assieme a Theodor Adorno e a Herbert Marcuse doveva costituire quelle
triade di filosofi francofortesi che tanta fama e tanta importanza doveva
assumere negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Max Horkheimer
Fintantoché la struttura fondamentale della vita sociale e la cultura
dell’epoca odierna, che riposa su di essa, non si trasformano radicalmente,
la famiglia eserciterà la sua insostituibile funzione come produttrice di
determinati tipi di carattere autoritario. […] Tutti i movimenti politici, morali
religiosi conseguenti, che ebbero per scopo il rafforzamento e il
rinnovamento di questa unità, hanno avuto ben chiara l’importanza
fondamentale della famiglia come produttrice del carattere autoritario e si
sono posti come compito il rafforzamento della famiglia con tutti i suoi
presupposti, come la proibizione del rapporto extra-matrimoniale, la
propaganda per la procreazione e l’educazione dei bambini, la relegazione
della donna al focolare domestico. 40
Come si vede, vengono qui ricordati in maniera fortemente critica
alcuni degli aspetti fondamentali della famiglia – il rifiuto del concubinato, la
procreazione come fine, il ruolo della donna – centrali nel dibattito
sviluppatosi nell’età moderna; una critica la cui ragione di fondo era, appunto,
il carattere autoritario che quella struttura familiare, a suo parere, presentava.
Non soltanto: alla famiglia infatti, attraverso l’educazione dei figli, era affidato
il compito di perpetuare lo status della società borghese. Horkheimer
scriveva:
Tra i rapporti che hanno un influsso decisivo sul carattere spirituale della
maggior parte degli individui, tanto attraverso meccanismi coscienti quanto
inconsci, la famiglia ha un’importanza particolare. Ciò che accade in essa
forma il bambino fin dalla più tenera età e svolge un ruolo decisivo nello
sviluppo delle sue capacità. […] La famiglia, in quanto è una delle più
importanti forze educative, provvede alla riproduzione dei caratteri, come
esige la vita sociale e fornisce loro in gran parte l’indispensabile attitudine al
comportamento autoritario di tipo specifico da cui dipende in larga misura la
sussistenza dell’ordinamento borghese. Questa funzione della famiglia [era]
particolarmente sottolineata al tempo della Riforma e dell’assolutismo.41
Questo ruolo della famiglia non sarebbe stato modificato
dall’evoluzione politica della società occidentale, pur avendo essa camminato
nella direzione di una sempre maggiore libertà. A mutare sarebbero stati,
infatti, i metodi adoperati per raggiungere quel fine, diventati nel tempo
persino più subdoli: «Nella storia dell’evoluzione della famiglia», scriveva
Horkheimer
SAGGI
inseriva il tema della famiglia nel contesto di un discorso critico nei confronti
dell’”autorità”, da lui considerata la struttura portante della società borghese
moderna. Scriveva:
17
dal periodo assolutistico a quello liberale emerge sempre più un nuovo fattore
nell’educazione all’autorità. Non si esige più immediatamente l’ubbidienza, ma, al
contrario, si richiede l’uso della ragione. Basta che si consideri spassionatamente il
42
mondo per convincersi che il singolo deve adattarsi e subordinarsi.
Non entro nel merito dell’argomento, se davvero l’età moderna ha
adoperato – anche se soltanto in questo caso – in maniera perversa le
tecniche di persuasione elaborate e poste in essere dalla cultura liberale. Più
opportuno mi sembra ritornare sulla questione del ruolo della famiglia per
perpetuare il dominio borghese della società. A questo proposito Horkheimer
sosteneva che
mentre nella primavera della borghesia, si verificava tra la famiglia e la
società uno scambio fruttuoso, per cui l’autorità del padre era fondata sul suo
ruolo nella società e la società era rinnovata grazie all’educazione patriarcale
all’autorità, la famiglia, che certamente non è divenuta superflua, ora diventa
un problema di pura tecnica di governo.43
Prima di indicare le ragioni che inducevano Horkheimer a formulare
queste conclusioni, mi sembra opportuno rilevare che – a differenza ad
esempio di Aleksandra Kollontaj e di un sociologo italiano di cui dirò dopo –
il filosofo francofortese non riteneva “superata”, “finita” la famiglia come tale,
ritenendo esaurita la sua funzione, o missione, storica. Riteneva invece che,
esaurita la fase liberal-borghese della storia europea, poteva nascere un
modo diverso di intendere la famiglia, un modo idoneo alla nuova società che
– sotto la spinta della cultura marxista “ripensata” dai filosofi occidentali –
stava per sorgere: «Lo sforzo di progredire», scriveva,
e di produrre una società, oggi possibile, senza povertà e ingiustizia, domina
allora i rapporti in luogo della motivazione individualistica. Dai mali della
realtà, che opprime l’esistenza sotto il segno dell’autorità borghese, può
sorgere una nuova comunità di genitori e figli che certamente non è chiusa in
modo borghese in contrasto con altre famiglie dello stesso tipo.44
Horkheimer, quindi, vedeva spuntare, o comunque prossima a
spuntare, l’alba di un nuovo giorno; di un giorno in cui si sarebbe preso
finalmente atto che il momento di coesione della famiglia imposto, attraverso
i mezzi che sappiamo, dalla da lui odiatissima società borghese, era ormai
prossimo alla fine. E lo dichiarava con forza:
La totalità dei rapporti dell’epoca attuale era un universale rafforzato
e consolidato da un elemento particolare in esso esistente: l’autorità, e
questo processo aveva luogo, per l’essenziale, nell’individuale e nel
concreto: la famiglia. Essa formava la “cellula riproduttiva” della cultura
18
SAGGI
borghese, ed era in essa vitale così come l’autorità. Questa totalità dialettica
di universalità, particolarità e individualità appare ora un complesso di forze
reciprocamente contrapposte. Il momento distruttivo della cultura ha ora più
45
forza che quello di coesione.
Questo momento, la polemica verso la struttura autoritaria della
famiglia, a dire di Horkheimer veniva da molto lontano, veniva dalle
contraddizioni interne alla società borghese: «Per quanto importate sia la
forza che il matrimonio ha rappresentato durante la sua storia millenaria nello
sviluppo umano», scriveva, «e per quanto lungo e rilevante sia il futuro che
può essergli riservato ancora in una forma più alta di società, sono
comunque diventate chiare le contraddizioni in esso contenute tra la vita che
si sviluppa e le condizioni date». Di questo erano prova già nell’età del
Rinascimento,
due leggende che hanno trovato entrambe un’espressione immortale in
opere d’arte: Romeo e Giulietta e Don Giovanni. Tutte e due esaltano la
ribellione dell’elemento erotico contro l’autorità della famiglia: Don Giovanni
contro l’angusta morale della fedeltà e dell’esclusività; Romeo e Giulietta in
nome di questa morale. […] Queste figure della leggenda esprimono l’abisso
tra la pretesa del singolo alla felicità e la pretesa autoritaria della famiglia.46
Non è difficile comprendere che il diffondersi di queste idee, che
rientravano nella grande svolta culturale verificatasi nella seconda metà del
Novecento, in particolare negli anni Sessanta e Settanta, contribuiva
certamente a rendere meno rigidi i legami familiari, concedendo maggiori
spazi e maggiore autonomia ai suoi componenti. A questo proposito merita di
venire ricordato che anche nell’ambito della cultura marxista, diciamo,
“ortodossa”, l’idea che, nonostante tutto, la società capitalistica aveva
modificato, allentandolo fortemente, il vincolo esistente tra i membri della
famiglia, era certamente molto diffusa e partiva dallo stesso dettato di Marx..
Umberto Cerroni scriveva infatti che
non casualmente la moderna legislazione familiare dei paesi capitalistici
sviluppati presenta alcune tendenze tipiche: riduzione dell’ambito e della
portata delle potestà familiari (abolizione della potestà maritale, limitazione
pubblica della patria potestà), facilitazione dei processi di abilitazione
giuridica dei minori (emancipazione legale e giudiziale, capacità di agire per
rapporti di lavoro ecc.), parificazione tendenziale dei coniugi, alleggerimento
dei vincoli familiari.47
Ma se qui, nell’ambito del marxismo che prima ho definito ortodosso,
48
tutto questo aveva una valenza affatto positiva, tutt’altro significato venne
dato a questi fenomeni che disgregavano la precedente visione della
19
famiglia, presso un certo tipo di radicalismo culturale e politico che riteneva
necessario, indispensabile anzi, proseguire lungo quell’allentamento dei
legami familiari indicato dal marxismo come positivo, anche se prodotto dalla
società capitalistica e borghese, fino a giungere a una vera e propria
aggressione dell’istituto familiare, considerato il vaso di ogni nequizia, il luogo
in cui si manifesterebbe la parte peggiore dell’uomo. Leggiamo queste parole
scritte nel 1977 da un sociologo che in quegli anni godeva di una certa
notorietà, Roberto Guiducci:
Nella famiglia […] sono coagulate le radici delle istituzioni autoritarie, della
repressione, del conformismo dei comportamenti, della legittimazione del
dominio, della carismaticità dei capi e dei gruppi dirigenti, della paura
inconscia al mutamento, della divisione del lavoro, del lavoro coercitivo, della
proprietà privata e del potere che, spesso, si è creduto di poter trattare come
variabili indipendenti o come fatti di origine strettamente economica. A
questa luce la famiglia appare l’epicentro dei problemi più complessi e degli
impedimenti più gravi alla liberazione degli uomini dai vincoli che li alienano e
li tengono soggetti […] Dunque, l’istituto familiare […] è un nucleo che tende
alla conservazione della proprietà privata, del potere, degli strati, delle classi
e persino della discriminazione razziale e della prostituzione.49
Sottolineare la volgarità intellettuale di queste parole mi sembra del
tutto inutile. E proprio per questo – avendo assunto il libro di Guiducci come
conclusione del mio discorso – mi corre l’obbligo di segnalare che la
letteratura post-moderna sulla famiglia, sui suoi limiti e i suoi difetti,
riconosciuti anche dai suoi più strenui difensori, non raggiunge mai momenti
di così basso profilo. Comunque sia, Guiducci riteneva di poter fondare
questi suoi concetti su alcune considerazioni a suo parere “inconfutabili”, la
prima delle quali era che « la famiglia non è un fatto universale, perché sono
esistite ed esistono civiltà senza legami di questo tipo», e la seconda che
«dove la famiglia esiste, essa è quasi sempre indipendente dal problema di
50
un profondo e positivo legame erotico-affettivo fra uomo e donna».
Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo punto che scardinava, o
tentava di scardinare, l’idea della famiglia come “comunanza naturale”,
secondo la già ricordata definizione di Johann Gustav Droysen, negandone il
carattere originario, apparso nel pensiero occidentale dell’età moderna, di
attrazione tra sessi, trascesa dall’amore e dai doveri verso i figli. A dire di
Guiducci, invece, per la cultura dell’età moderna, «il matrimonio è un affare
sociale», perché
il gruppo ha l’interesse ad allargare le proprie alleanze e i vincoli di
solidarietà. Tutto congiura per il matrimonio e, in particolare, per la
monogamia, non come rapporto bilaterale sessuale-erotico-affettivo, ma
20
e concludeva che tutto ciò è stato opera di una sorta di “astuzia della
società”, la quale ha imposto «i suoi interessi sostanziali sotto l’apparenza
della protezione alla coppia affettivo-erotica. La coscienza sociale (in gran
52
parte funzionale al potere) ha lavorato sfruttando l’inconscio della coppia».
Credo di avere avuto occasione di dire che di solito i testi relativi alla
famiglia prodotti dalla “post-modernità”, se riescono spesso a indicare alcuni
aspetti della famiglia “moderna”, il cui ripensamento – alla luce delle nuove
condizioni storiche e sociali – appare senz’altro necessario, non riescono a
indicare, anche se la loro critica sembrerebbe andare proprio in questa
direzione, con che cosa sostituirla. Abbiamo, ad esempio, visto Aleksandra
Kollontaj – che affrontava il problema della famiglia muovendo dalla
53
liberazione della donna e dall’esaltazione del “sesso alato” – limitarsi a
ritenere superata, morta, perché inadatta alla grande rivoluzione politica
seguita alla nascita del primo regime comunista della storia, la “vecchia”
famiglia borghese, fondata su tutt’altri ideali. Da parte sua, Roberto Guiducci
muoveva anch’esso dalla liberalizzazione, per così dire, della sessualità,
come indicano queste sue parole:
Un rapporto sessuale ed erotico, sempre impegnato, ma libero, avrebbe ben
altra dimensione di quelli attuali: renderebbe gli incontri adatti alle varie e
mutevoli situazioni dell’esistenza; consentirebbe di affrontare innovazioni;
eviterebbe le cristallizzazioni egoistiche e particolaristiche; diminuirebbe i
fenomeni dell’invecchiamento psichico e mentale precoci; creerebbe un
rapporto “inter pares” anziché “inter parentes” all’interno della coppia;
sarebbe in continua e dinamica tensione e apertura verso la società, ecc.54
Siamo di fronte alla proposta di una pura e semplice cancellazione
della famiglia, sostituita da liberi rapporti tra uomini e donne, la cui “pratica”
non richiederebbe legittimazione giuridica alcuna. Detto questo, però,
Guiducci non poteva sottrarsi al problema del destino dei figli, che così
risolveva:
Una società, in cui si instaurassero rapporti di questo tipo, sarebbe costretta
a occuparsi subito di una educazione collettiva dei giovani, figli propri o altrui,
e i giovani anticiperebbero possibili forme di autoeducazione […]
Un’educazione sociale dei figli non solo liberebbe la coppia dall’ossessione
di essere la responsabile privata delle nuove generazioni pubbliche, ma
libererebbe anche i figli dall’essere oggetti privati della famiglia.55
SAGGI
come regola sociale finalizzata al lavoro, alla solidità delle istituzioni e alla
procreazione quantitativa;51
21
Siamo qui di fronte a un incredibile salto all’indietro; siamo infatti
ritornati al quinto libro della Repubblica di Platone, dove veniva proposto, a
completamento del discorso sulla comunione delle donne dei “difensori”, che
i figli fossero affidati «alle cure di un apposito comitato, formato di uomini o
donne, o di uomini donne insieme, dal momento che i pubblici uffici sono
56
comuni agli uni ad alle altre». Non intendo certo assumere la tesi di Popper
57
sul totalitarismo di Platone, ma che questo progetto sia perfettamente
coerente con una visione totalitaria della società e dello Stato, non mi sembra
revocabile in dubbio. E se questa soltanto fosse la visione della famiglia
proposta dalla cultura post-moderna – ma, come ho detto, non lo è –
dovremmo rimpiangere quella proposta dalla modernità, che la storia, al di là
del dibattito culturale, più o meno silenziosamente, ha modificato,
scardinandone talora la struttura fondamentale, creando nuove forme di
convivenza, quali ad esempio le “coppie di fatto”, sulla cui configurazione
giuridica è a tutt’oggi in corso un dibattito
Ma dire di questa rivoluzione silenziosa, e delle conseguenze che
potrebbe avere sulla famiglia sia in una prospettiva e etica che giuridica, non
era tra i propositi del mio intervento, che vorrei però concludere ricordando il
recente volume di un filosofo francese di buona fama, Luc Ferry, al quale – in
contrapposizione al celebre: «Vi odio, famiglie! Dimore chiuse, porte
58
sprangate, geloso possesso della felicità», di André Gide – ha dato per
titolo Famiglie vi amo!; e in esso si leggono queste parole, con le quali
ritengo di poter considerare concluso il mio discorso:
A prescindere dalla apparenze ingannevoli, la verità emersa dagli studi dei
nostri migliori storici delle mentalità è che l’unico rapporto sociale che, da due secoli, si
sia approfondito, intensificato e arricchito è quello che unisce le generazioni in seno
alla famiglia. Spesso decomposta, situata fuori dl matrimonio o ricomposta, ma senza
dubbio meno ipocrita, più autentica e più densa di affettività di quanto non sia mai
successo nella storia: ecco il paradosso della famiglia moderna. È in essa, e forse in
essa sola, che sussistono e si approfondiscono forme di solidarietà che il resto della
società non considera, dominata com’è dagli imperativi della competizione e della
concorrenza. È di fronte ai nostri cari, a coloro che amiamo e, senza dubbio per
estensione, di fronte agli altri esseri umani, che siamo pronti spontaneamente a “uscire
da noi stessi”, a ritrovare significato e trascendenza, in una società che continua a
59
proporci l’opposto.
22
1
U. CERRONI, La libertà dei moderni, De Donato, Bari 1968, p.256.
M.MOREAU-REIBEL, Jean Bodin et le droit public comparé dans ses rapports avec la
philosophie de l’histoire, Parigi 1933, p.271.
3
J. BODIN, I sei libri dello Stato , vol. I, a cura di M. Isnardi Parente, Utet, Torino 1964,
p.186.
4
ID., I sei libri dello Stato, cit., p. 172.
5
Alcuni secoli dopo, uno dei più grandi storici tedeschi dell’Ottocento, Johann Gustav
Droysen, avrebbe scritto: «La famiglia è la base di ogni eticità, di ogni pietà e
disciplina. Là dove la famiglia è sana è sano anche lo Stato e la religione e tutto ciò
che per gli uomini è salutare». Istorica, Lezioni di enciclopedia e metodologia della
storia (1857), a cura di S. Caianello, Guida, Napoli 1994, p. 424.
6
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., p. 213.
7
J. G. DROYSEN, Istorica, cit., p. 424.
8
U. CERRONI, La libertà dei moderni, cit., p .257.
9
Ivi., p. 261.
10
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., pp. 186-187.
11
«L’elemento etico del matrimonio consiste nella coscienza di questa unità di fine
sostanziale, quindi nell’amore, nella fiducia e nella comunione dell’intera esistenza
individuale, - nella quale disposizione d’animo e realtà, l’impulso naturale viene
abbassato alla modalità di un momento naturale (il quale […] nel suo appagamento è
destinato a estinguersi), il vincolo spirituale nel suo diritto pone sé in rilievo come il
sostanziale, quindi come ciò che è elevato sopra l’accidentalità delle passioni e del
temporaneo libito particolare, come ciò che è in sé indissolubile». Ritroveremo questa
immagine della famiglia come amore, della quale Hegel diceva ancora che nello
“spirito etico“ che la ispira «costituisce ciò in cui risiede il carattere religioso del
matrimonio e della famiglia, la pietà». Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G.
Marini, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 142 e 142-143.
12
La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, rivista da N. Merker, Laterza 1999, pp.
98-99 e 97.
13
Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, Laterza, Bari 1954,
p. 347.
14
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., pp.172-173.,
15
J. LOCKE, Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1948, p. 297.
16
Ivi, pp. 294-295.
17
Ivi, p.297.
18
Ivi, p.274.
19
La schiavitù delle donne, tr. di. M. Baccianini e M. Saule, Sugarco, Milano 1992, pp.
75-76 e 77.
20
U. CERRONI, I sei libri dello Stato, cit., I, p. 200.
21
Ivi, I, p. 205.
22
J. LOCKE , Due trattati sul governo, cit., pp.278 e 282.
23
La metafisica dei costumi, cit., pp.95-96.
24
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p. 141.
25
Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, cit., p.246.
26
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p.141.
27
Lineamenti di filosofia del diritto, tr. Messineo, a cura di A. Plebe, cit., 346.
28
J. G. DROYSEN, Istorica, cit., pp. 422 e 423.
SAGGI
2
23
29
Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, cit., p. 141.
Ivi, p. 147.
Ivi, p. 145. La figura di Antigone, quale simbolo della famiglia, o, meglio della “pietà”
familiare trova largo spazio nella prima grande opera sistematica di Hegel, la
Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, voll.2, Firenze 1960, II, pp. 22-36.
32
Ivi, pp. 148 e 149.
33
«Lo scioglimento etico della famiglia della famiglia consiste nel fatto che i figli educati
alla personalità libera, nella maggiore età vengono riconosciuti esser come persone di
diritto e come capaci vuoi di avere propria libera proprietà, vuoi di fondar proprie
famiglie, – i figli come capi, e le figlie come mogli, – una famiglia […] di fronte alla
quale la loro prima famiglia retrocede come soltanto primo fondamento e punto di
partenza». Ivi, p. 150. Da parte sua Droysen scriveva che è già nella “natura” della
famiglia «che essa porti sempre di nuovo al di là di se stessa, che i figli e i nipoti
fondino a loro volta famiglie allo stesso modo, e che gli ambiti si vadano sempre più
distaccando l’uno dall’altro; ma in ogni ambito nuovamente fondato si ripete lo stesso
decorso profondamente significativo, ogni ambito reso più ricco dall’eredità e dalla
benedizione della casa paterna, ciascuno con lo stesso nuovo compito di fondare un
piccolo mondo etico [in sé concluso] di dedizione, abnegazione e lealtà». J. G.
DROYSEN , Istorica, cit., p. 423.
34
Ivi, p.146. Ha osservato Umberto Cerroni che Hegel pur non avendo «riconosciuto il
tessuto storico e sociale dell’istituto familiare», pur avendolo voluto «costruire come
una razionalizzazione puramente speculativa», non ha potuto non «sanzionare la
stretta correlazione fra famiglia e proprietà privata», storicizzando di fatto la famiglia.
La libertà dei moderni, cit., p. 276.
35
A.KOLLONTAJ, La fine del matrimonio monogamico, in Amore, matrimonio, famiglia e
comunismo, intr. J. Lussu, il Papiro editrice, Sesto San Giovanni (Mi) 1993, pp. 19-20.
36
Ivi, p.22.
37
«Per rafforzare la solidità della famiglia, per sollevare più in alto il prestigio delle virtù
familiari, il terzo stato ha fatto tutto ciò che da esso dipendeva. Ha fatto intervenire la
religione, che predica l’indissolubilità del sacramento del matrimonio; la legge, che
punisce l’adulterio della moglie; la morale che esalta il carattere “sacro del focolare
domestico”. Quando la borghesia ebbe conquistato una posizione sociale egemone,
quando tutti i fili della produzione mondiale furono riuniti nella sue mani, la sua morale,
le sue regole di condotta e i suoi codici civile, che avevano il fine preciso di proteggere
i suoi interessi di classe, divennero a poco a poco la legge obbligatoria anche per gli
altri strati della popolazione». Ivi, pp. 23-24
38
«La proprietà e la famiglia sono legate troppo strettamente: se uno di questi pilastri
del mondo borghese è stato scosso, la solidità dell’altro diviene incerta. Per questo la
borghesia ha difeso sempre così accuratamente le proprie basi familiari; per questo
essa ha difeso e continua a difendere con tale alacrità le forme vetuste dell’odierna
struttura familiare». Ivi, p. 24. E in altra occasione: «Ma, pur difendendo i diritti di due
“cuori innamorati” ad unirsi, anche a dispetto delle tradizioni familiari, pur irridendo
all’”amore platonico” e all’ascetismo, e proclamando l’amore base del matrimonio, la
morale borghese mantiene sempre l’amore in un ambito strettamente limitato. L’amore
non è legittimo che in vista del matrimonio. Al di fuori del matrimonio legale, l’amore è
immorale. Va da sé che questo ideale era dettato da considerazioni meramente
economiche: la volontà di impedire la dispersione del capitale tra i figli naturali. Tutta la
30
31
24
SAGGI
morale della borghesia era fondata su questa volontà: assicurare la concentrazione del
capitale». Largo all’Eros alato! Lettera alla gioventù lavoratrice, in Amore, matrimonio,
famiglia e comunismo, pp.72-73.
39
Ivi, p.39.
40
M. HORKHEIMER, Studi sull’autorità e la famiglia, con la collaborazione di Eric Fromm,
Herbert Marcuse e altri, intr. F. Ferrarotti, Utet, Torino 1974, pp. 58-59. Altro motivo di
polemica nei confronti della famiglia “borghese” era il ruolo che il patrimonio aveva
nella sua struttura. Scriveva infatti: «L’unità immediata di forza naturale e di pretesa al
rispetto nella famiglia borghese, non è l’unico fattore costitutivo della struttura d’autorità
che caratterizza questa società; vi agisce un’altra proprietà del padre che appare pur
essa naturale: egli è il signore della casa, perché guadagna il denaro o comunque lo
possiede. […] Il fatto che normalmente nella famiglia borghese l’uomo possiede il
denaro […] e ne stabilisce l’impiego, fa sì che moglie, figli e figlie siano ”suoi” anche
nell’età moderna, dà ampiamente la loro vita nelle sue mani, li costringe a sottomettersi
alla direzione e al comando» E poco oltre: «L’idealizzazione dell’autorità paterna, come
se essa procedesse da un decreto divino, dalla natura delle cose o dalla ragione si
dimostra, ad un esame più approfondito, come trasfigurazione di una istituzione
economicamente condizionata». Ivi, pp. 53 e 68.
41
Ivi, p. 47.
42
Ivi, pp. 48-49.
43
Ivi, p. 72.
44
Ivi, p. 69.
45
Ivi, p. 72.
46
Ivi, pp. 70-71. Aggiungeva però che «nelle eccezioni si conferma […] la regola. In
generale l’autorità domina l’umanità borghese anche nell’amore e determina il suo
destino. Nel rispetto per la dote, la posizione e forza lavorativa dei contraenti il
matrimonio, nella speculazione sull’utile e il rispetto che provengono dai figli, nel
rispetto per l’opinione dell’ambiente e, soprattutto, nella dipendenza interiore da
concetti abitudini e convenzioni radicate, in questo empirismo dell’uomo dell’epoca
moderna, inculcato dall’educazione e divenuto una seconda natura, ci sono fortissimi
stimoli ad accettare la forma della famiglia e a perpetuarla nella propria esistenza». Ivi,
p. 71.
47
U. CERRONI, La libertà dei moderni, cit., p. 268.
48
Qui Cerroni citava il seguente testo di Marx: «Dunque, per quanto terribile e
repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico,
cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma
superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che si
assegna alle donne, agli adolescenti, ai bambini d’ambo i sessi nei processi di
produzione socialmente organizzati di là della sfera domestica». La libertà dei moderni,
cit., p.269. - Queste parole di Marx, inserite nel discorso contro lo sfruttamento del
lavoro minorile, erano immediatamente precedute da alcune considerazioni certamente
interessanti per la comprensione dell’evoluzione dell’organizzazione familiare dopo le
rivoluzioni industriali. Scriveva, infatti, che «ogni regolamentazione del cosiddetto
lavoro domestico si presenta subito come intervento diretto contro la patria potestas,
cioè, traducendo in linguaggio moderno, contro l’autorità dei genitori: passo di fonte al
quale il delicato parlamento inglese ha per lungo affettato reverenziale timore. Tuttavia
la forza dei fatti ha costretto finalmente a riconoscere che la grande industria,
25
dissolvendo il fondamento economico della vecchia famiglia e del lavoro familiare che
ad esso corrispondeva, dissolve anche i vecchi rapporti familiari». Tuttavia,
proseguiva, «non è stato l’abuso di autorità paterna a creare lo sfruttamento diretto o
indiretto di forze-lavoro immature da parte del capitale; ma è stato viceversa il modo
capitalistico dello sfruttamento a far diventare abuso l’autorità dei genitori, eliminando il
fondamento economico che le corrispondeva». Il Capitale, libro I, tomi 2, a cura di D.
Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980, II, pp. 535-536.
49
R. GUIDUCCI, La disuguaglianza fra gli uomini, Rizzoli, Milano 1977, pp. 23 e 33. A
puro titolo di curiosità vorrei ricordare che, dimostrando ben altra sensibilità, Johann
Gustav Droysen scriveva che si può senz’altro «parlare di una storia della famiglia;
essa abbraccia le più grandi questioni storico-culturali dacché vi sono incluse le
condizioni della donna, la forma primitiva del lavoro, i rapporti matrimoniali,
l’educazione, nei loro momenti essenziali». Istorica, cit., p. 425.
50
Ivi, pp. 24-25.
51
R. GUIDUCCI , La disuguaglianza fra gli uomini, cit., p. 26.
52
Ivi, p. 37.
53
«L’istinto di riproduzione allo stato puro, che sorge facilmente ma passa con rapidità,
quest’attrazione sessuale senza radici spirituali e morale, questo “eros senza ali”,
assorbe molte meno energie individuali che non l’esigente Eros alato, l’amore che è
intessuto di una sottile trama di svariatissime emozioni d’ordine spirituale e morale.
L’Eros senz’ali non procura notti insonni, non fiacca la volontà, non confonde l’attività
dell’intelletto». Largo all’Eros alato!, cit., p. 61. Mi sembra opportuno ricordare che la
Kollontaj scriveva che negli anni della Rivoluzione non poteva essere consumato altro
che l’”Eros senz’ali”, essendo le menti occupate a costruire la nuova società, raggiunta
la quale soltanto poteva finalmente ricomparire l’”Eros alato”. «Ora che in Russia»,
scriveva, «il movimento rivoluzionario ha vinto e si è consolidato, ora che l’uomo non è
più interamente assorbito dall’atmosfera del combattimento rivoluzionario, il tenero
Eros alato relegato provvisoriamente fra gli accessori, ricomincia a far valere i suoi
diritti». Ivi, p. 62.
54
R. GUIDUCCI , La disuguaglianza fra gli uomini, cit., p. 46.
55
Ivi, pp.46-47.
56
PLATONE, Opere politiche, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1953, Repubblica, 460b,
p. 328.
57
K. R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, voll. 2, a cura di D. Antiseri, I,
Platone totalitario, Armando Armando, Roma 1973.
58
«Familles! Je vous hais! Foyers clos, portes refermées, possessions jalouses du
bonheur». Les Nourritures terrestres, Gallimard, Paris 1967, p. 78.
59
Famiglie, vi amo! Politica e vita privata nell’era della globalizzazione, tr. C. Spinoglio,
Garzanti, Milano 2008, pp. 62-63. Ritengo opportuno segnalare che uno dei più celebri
filosofi politici statunitensi del Novecento, John Rawls, reinterpretando il “principio di
fraternità” – assieme alla “libertà” e all’”uguaglianza”, uno dei tre motivi ispiratori della
Rivoluzione Francese – scriveva che esso corrisponde «all’idea di non desiderare
maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno
bene», come richiesto dal “principio di differenza”, che costituisce uno dei momenti
essenziali della dottrina di Rawls. E aggiungeva che «la famiglia, in termini ideali, ma
spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in cui il principio di massimizzare la somma
dei vantaggi è rifiutato. In generale», concludeva, «i membri di una famiglia non
26
SAGGI
desiderano avere dei vantaggi, a meno che ciò non promuova gli interessi dei membri
restanti.». Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, tr. U. Santini, Feltrinelli,
Milano 1982, p.101.
27
EDITH STEIN. LA COMUNITÀ DI DESTINO
di Marina Pia Pellegrino
In memoria di mia mamma.
1. Il saggio “Die ontische Struktur der Person und ihre
erkenntnistheoretische Problematik“
Le analisi di Edith Stein sulla comunità di destino, che vogliamo qui
prendere in considerazione, sono contenute in un saggio, apparso nel
volume VI delle Edith Steins Werke, mai pubblicato dall’autrice: Die ontische
1
Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik . La sorte di
questo testo, come di tutto il materiale inedito della Stein, ritrovato tra le
macerie di un convento a Herkenbosch in Olanda, dopo i bombardamenti
della seconda guerra mondiale, e portato in salvo fortunosamente, non
permette una classificazione inequivocabilmente certa, né per quanto
riguarda la data di composizione né per il titolo. La ricostruzione, in generale,
dei manoscritti dell’autrice ha presentato complicazioni anche per il fatto che
alcuni dei suoi lavori furono da lei ripresi e rielaborati nel tempo; alcuni
manoscritti, di cui l’autrice non aveva previsto la pubblicazione,
rappresentano studi iniziali, successivamente approfonditi e confluiti in un
altro testo, come il caso per esempio di Potenza e Atto, primo nucleo della
sua opera maggiore Essere finito e Essere eterno, che ha tuttavia
2
un’autonomia tale da costituire un’opera a sé . Similmente per il saggio in
questione, che contenutisticamente presenta una formulazione dottrinale
matura tanto da indurre a pensare che la sua stesura risalga perlomeno agli
anni ’30, tempo in cui la Stein era ormai entrata a far parte della chiesa
cattolica e si stava confrontando col suo patrimonio filosofico-teologico, si è
potuto stabilire, attraverso esami sul materiale d’archivio, che la sua
3
redazione sarebbe precedente e da collocarsi tra il 1920 e il 1922 . Sebbene
la lettura di questo saggio rimanga inalterata riguardo ai contenuti qualunque
ne sia la datazione e l’analisi dell’autrice vada apprezzata, anche in questo
caso, tenendo presente il suo pensiero complessivo, si sposta tuttavia
l’angolo visuale da cui ci si pone, considerando come punto di partenza
quegli anni friburghesi, dopo la laurea del 1916, che vedono dapprima la
28
SAGGI
collaborazione della Stein con Husserl, poi il suo successivo distacco e
parallelamente anche il progressivo interesse per questioni di natura
religiosa. Come aggancio per una collocazione in questo percorso, teniamo
presente la conclusione della tesi di laurea della Stein sul problema
dell’Einfühlung, in cui la filosofa si chiede, puramente in quanto
fenomenologa, se sia possibile un’entropatia senza supporto delle
espressioni corporee dell’altro, in rapporto cioè a persone puramente
spirituali: «Ma come stanno adesso le cose in rapporto alle persone
puramente spirituali, la cui rappresentazione non implica di per sé alcuna
contraddizione? È forse impossibile pensare che tra loro non vi sia qualche
relazione? Ci sono stati degli uomini che, in un improvviso cambiamento
della loro persona, hanno creduto di esperire l’influsso della grazia divina;
altri che nelle loro azioni si sentivano guidati da uno spirito protettore. […] Chi
deciderà se qui si tratti di un’esperienza genuina oppure di quella oscurità
sulle proprie motivazioni, che abbiamo trovata nel considerare le Idole der
Selbsterkenntnis? Ma, forse, in quest’ambito non è già data, con le immagini
illusorie di un’esperienza del genere, anche la possibilità eidetica di una vera
esperienza? In ogni modo mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia
4
il miglior mezzo per la risposta a questo problema» . Alcune lettere all’amico
e fenomenologo Roman Ingarden testimoniano che la Stein ha effettivamente
portato avanti questa ricerca, sia sotto il profilo teoretico, come si desume
dalla lettera del 30.8.1921 in cui ella informa l’amico che sta lavorando a una
trattazione di filosofia della religione (secondo le ricerche è appunto il saggio
5
che ci interessa) , sia con una riflessione personale che l’avvicina sempre di
6
più “ad un Cristianesimo assolutamente positivo” .
Pertanto il lavoro della Stein qui in esame, benchè sia uno dei testi
dell’autrice forse meno visitati, occupa a nostro avviso un posto rilevante, non
solo nella sua produzione fenomenologica, ma come annuncio di un
completamento della sua ricerca sul piano ontologico-metafisico, piano non
contemplato nel termine husserliano di “ontologie regionali”.
Abbiamo scelto il tema della comunità di destino, come nucleo
pregnante del saggio, poiché proprio nello stesso arco temporale la Stein
sviluppa in altri testi la sua indagine sulla vita associata, che culmina nella
7
comunità , ma ancor più perché l’autrice, per giungervi, attraversa tutto il
terreno che riguarda il problema della libertà personale, che ci sembra
esemplare punto d’innesto proprio tra il piano fenomenologico e quello
ontologico-metafisico. Le riflessioni steiniane in questione fanno emergere
anche la capacità della fenomenologa di muoversi in ambiti diversi, sapendoli
tenere contemporaneamente sempre distinti. Ciò costituisce una prima
messa in forma di quella sua posizione particolare sul rapporto filosofiateologia, che rivestirà un ruolo centrale in Essere finito e Essere eterno:
29
anche là dove la filosofia incontra questioni a cui non può rispondere con i
propri mezzi e accetta di venire integrata dalla dottrina di fede, non per
questo la si deve ritenere teologia. Il suo compito è di riconoscere sé e altro
da sé: essa rimane lo spazio intangibile del riconoscimento.
a) L’essere umano tra natura e grazia.
La complessità strutturale dell’essere umano viene colta qui in
funzione della possibilità del passaggio al regno della grazia. Due sono le
sfere, denominate “regni”, in cui la vita umana può svilupparsi: il regno della
natura e quello della grazia. Il motivo per cui si parla di “regni” lo si
comprende in modo particolare quando l’autrice sottolinea che il passaggio
dall’uno all’altro non può avvenire se non attraverso un atto libero del
soggetto, così che tra il regno della natura e quello della grazia emerge
manifestamente quello della libertà. La Stein avverte che a questo proposito,
però, non si può parlare di un regno in senso stretto: «Parlare di un regno
della libertà è perciò realmente impossibile, in quanto questo regno non ha
dimensioni, esso è ridotto ad un punto. La persona, presa unicamente come
soggetto libero, non è capace di compiere alcun movimento dell’anima, tutta
la sua vita interiore si svolge in un regno che ha un’estensione e l’anima ha
8
bisogno di legarsi ad un tale regno per potersi dispiegare in esso.» Un regno
comporta dunque “estensione”, che permette l’espandersi della vita
dell’anima e il suo riempimento con dei contenuti, ma anche un dominio
esercitato da un signore: nel caso del regno della grazia, si tratta di una
signoria d’amore, che non desidera il possesso dell’anima, ma donarle la sua
pienezza; per il regno della natura, in alcuni casi sembra che possa
esercitarvi un dominio un tipo d’uomo di cui abbiamo una raffigurazione
anche in personaggi letterari, come il Faust di Goethe o come Prospero della
“Tempesta” di Shakespeare, che apparentemente dominano la natura e
sembrano essere massimamente liberi, in realtà sono succubi di una potenza
estranea, quella del maligno, che vuole impossessarsi delle anime.
Un’autentica signoria a favore del regno naturale, analoga in qualche modo a
quella divina, può essere esercitata dall’essere umano redento, il quale,
unico essere che possa passare dalla natura alla grazia con una scelta
responsabile, è capace di partecipare, anzi è chiamato a farlo, l’azione
liberante della salvezza alle altre creature naturali: «L’anima dell’animale
cupamente rinchiusa in se stessa e tuttavia eternamente inquieta di uscire da
sé desidera una sicurezza che solo la Grazia può darle. Ma non può capire
che cosa gli manchi, né l’impulso cupo è capace di diventare in esso un
desiderio finalizzato e un atto liberante. La salvezza gli deve venire
totalmente dall’esterno. Può giungere solo da un essere che trovi da sé un
accesso alla sua anima e che, da parte sua, abbia con esso un certo legame
30
SAGGI
di comprensione. L’uomo è chiamato ad essere il redentore di tutte le
creature. Può esserlo nella misura in cui egli stesso è salvato. Il santo
comprende il linguaggio degli animali, egli sa farsi capire da essi e fratello
9
lupo si sottomette a lui obbedendo» .
L’essere umano, per quanto onticamente faccia anche parte della
natura, deve ergersi su di essa, passare da ciò che è esteriore, corporeopsichico, al nucleo più interno della sua anima, a ciò che di più spirituale c’è
in lui, se vuole trovare il “luogo” in cui stare presso di sé.
La fenomenologia dei due “regni” fa emergere livelli diversi di
profondità della struttura antropologica, con le loro diverse gradazioni di
luminosità per la coscienza del soggetto e, di conseguenza, diverse
configurazioni possibili dell’anima e del grado di libertà raggiunto dall’io.
Nella vita propriamente naturale-spontanea, il soggetto è indotto a
reagire alle impressioni che mettono in movimento l’anima dall’esterno,
perciò le sue prese di posizione sono passive, non libere: manca la regia
(Inszenierung) di un ultimo centro interiore. A questa vita se ne contrappone
una essenzialmente diversa: quella in cui l’anima non è più messa
immediatamente in moto dalle impressioni, ma è “guidata dall’alto”, riceve
ancora le impressioni dal mondo, ma le coglie da quel centro profondo per
mezzo del quale è ancorata al regno della grazia.
Vi è, poi, un altro tipo di vita naturale, non caratterizzata da un
meccanismo inconsapevole, ma regolata dalla luce della ragione. E’ chiaro
che tra questa forma e la precedente vi è una differenza sostanziale: qui
siamo già in una vita spirituale. «Se il discorso riguardava le reazioni naturali,
non deve per questo limitarsi all’oscura vita psichica, bensì deve riguardare
allo stesso tempo qualcosa che si trova anche nella vita spirituale. Tra le
impressioni e le reazioni esistono rapporti che noi designiamo come legge
della ragione. […] Finché la vita spirituale si svolge nella forma della
motivazione, cioè nella forma della risposta razionale alle impressioni, il
soggetto spirituale sottostà senz’altro alle leggi della ragione, allo stesso
modo in cui, ovviamente, tutti gli eventi naturali obbediscono alle leggi
naturali. Riguardo a quest’ordine naturale possiamo parlare di un secondo
regno della natura o, in maniera più pregnante, di un regno della ragione
naturale. […] Il regno della ragione non è una sfera spirituale che fluisce da
un centro personale che lo qualifica in maniera particolare. Solo in tali sfere
10
l’anima può essere realmente al sicuro ed essere penetrata dalla libertà.»
È proprio in questo tipo di vita che è possibile nient’altro che una
giustizia retributiva, la quale non conduce al regno della grazia, né ad
un’autentica comunità di destino. Lo spirito della luce, lo Spirito Santo, infatti
trasforma, abitando il suo nucleo, le reazioni naturali-psichiche dell’anima:
«Si danno reazioni che attraverso di Lui vengono eliminate anche dove
31
abbiano origine dalla ragione naturale: odio, desiderio di vendetta, e altre
simili. Si danno anche atti spirituali e stati dell’anima che sono le forme
specifiche della sua vita attuale: amore, misericordia, perdono, beatitudine,
pace. Essi si presentano anche là dove, secondo la ragione naturale, non ve
ne sarebbe alcun motivo. Per questo la pace di Dio è al di sopra di tutte le
ragioni, ed è per questo che, per tutti coloro che ne vivono fuori, il regno di
11
Dio deve essere una follia» Anche il “regno” della ragione naturale non è in
definitiva un autentico regno, poichè non ha uno spirito personale che ne
costituisca il centro. La Stein sottolinea come la parola spirito qui significhi da
un lato una persona spirituale, dall’altro una sfera spirituale, e come i rapporti
che si possono stabilire tra le due si basino sul fatto che, da una parte, ogni
sfera spirituale scaturisce da una persona ed in essa ha il suo centro e che,
dall’altra, una persona può essere al sicuro in una sfera spirituale che non
scaturisca da lei stessa. Il regno della grazia è la sfera spirituale che emana
da Dio.
Dunque la vita psichica guidata dalla conoscenza sembra elevarsi al
di sopra di quella animale, ma è questa una luce che non deve essere
sopravvalutata; quanto più la psiche rimane natura, tanto più risulta vuota e
chiusa a ciò che può animarla e illuminarla in profondità. Anche le operazioni
dell’intelletto, come il soggetto libero preso di per sé, sono vuote e devono i
loro contenuti a sfere che sono da esso indipendenti, perciò pure nel caso
della vita naturale guidata dalla ragione la psiche risulta indifesa.
Riguardo l’entrata del soggetto in un regno spirituale e il suo
dedicarsi allo spirito che ne è il signore, esiste l’estrema possibilità di darsi
allo spirito del male e, in questo caso, come si è detto, l’anima cade in una
schiavitù peggiore di quella dello stadio naturale, poiché le sue reazioni non
sono neanche più naturali: se è naturale amare ciò che è amabile e odiare
ciò che è detestabile, odiare ciò che merita amore non è più naturale ma
diabolico.
b) Fenomenologia e ontologia della libertà.
Un’analisi degli atti liberi la Stein la conduce nella sua seconda
pubblicazione, un lavoro di capillare indagine fenomenologica riguardante il
12
problema della causalità nella psiche , elaborato nel 1918 e pubblicato nel
1922 nello Jahrbuch di Husserl: nella sfera del volere e dell’agire troviamo gli
13
atti liberi “nei quali l’io non solo vive, ma è padrone dei propri atti” . Tali atti
possono sorgere da un proposito e devono essere avviati da un fiat, un’
”ora!”, che interiormente mi dico al presentarsi del momento favorevole.
Senza ripercorrere la complessa analisi condotta dall’autrice, questo
passaggio ci sembra importante al fine di chiarire meglio ciò che è sotteso a
quel modo d’essere “come un punto” proprio della libertà, prima evidenziato.
32
SAGGI
L’ “ora!” del “fiat”, che appare come punto di sospensione fra ciò che è
passato e ciò che non è ancora e sembra concentrare l’inarrestabile flusso di
coscienza in un istantaneo presente, è carico di potenzialità che la Stein
approfondirà sempre più. Inoltre il “fiat” come spinta interna, si nutre della
forza vitale determinata, sia sensibile che spirituale, propria di un soggetto,
rinviando così immediatamente all’unicità della persona.
Lasciarsi riempire dalla sfera spirituale divina e votarsi al suo
Signore significa per l’anima essere difesa da tutto ciò che può insidiarla,
essere perciò recintata e liberata. È bene soffermarci su ciò che la Stein
evidenzia nel significato del termine liberato con cui si caratterizza l’habitus
del soggetto che è ancorato all’alto, l’habitus interiore dei figli di Dio: «Il
meccanismo della vita naturale dell’anima non raggiunge quel centro che è il
luogo della libertà e dell’origine dell’attività. L’anima guidata è tesa con
questo centro verso l’alto, qui ne riceve le direttive e, obbedendo, si lascia
muovere da esse. L’attività è sospesa al suo punto d’origine; della libertà, nel
14
luogo della libertà non vien fatto alcun uso.» . L’autrice si chiede se il
rinunciare alla libertà e abbandonarsi non sia esso stesso un atto libero: per
poter essere liberati bisogna essere già liberi? L’essere liberato, per un
soggetto che vive imbrigliato nel regno della natura, comporta
necessariamente un atto di libera collaborazione, altrimenti non può esservi
passaggio ad un regno diverso da quello naturale. D’altra parte solo un
essere in cui abitano già il bene e il male può cadere in tentazione, o
consentire alla grazia. Ciò viene illuminato attraverso l’esempio di Cristo, al
quale il tentatore viene dal di fuori: Cristo non cade in tentazione e non deve
difendersi da essa, ma comprendendola e dandone risposta adeguata, la
svela e mostra come l’uomo debba comportarsi per vincerla. C’è solo una
tentazione a cui l’uomo integro e l’angelo possono cedere, di fronte alla
quale, quindi, la libertà in quanto tale è esposta: quella di consistere in se
stesso; essa è l’unica che è rivolta contro Dio e nient’altro e da cui il male
stesso scaturisce. Se si fosse riempiti solo da Dio non si potrebbe cadere in
tentazione, come vediamo per Cristo, viceversa se vi fosse in noi soltanto il
male non potremmo resistergli. Nel caso di Cristo la libertà è rivolta del tutto
al bene e a favore delle creature, come l’autrice metterà in luce nella figura
del Mediatore universale.
La Stein si concentra su un’analisi fenomenologica che svolge il
prezioso compito di portare alla luce delle dinamiche interiori, di districarle,
riconoscendo allo stesso tempo che la loro ragione ultima rimane misteriosa
e comporta il passaggio ad una rivelazione altra: «La discesa della Grazia
nell’anima umana è un atto libero dell’amore divino, e non vi sono limiti alla
sua estensione.Quali strade scelga per operare, perché cerchi di entrare in
un’anima e da un’altra si lasci cercare, se, come e perché operi anche
33
laddove i nostri occhi non scorgono alcun effetto, sono tutte domande che
sfuggono alla comprensione razionale. A noi è dato solo un riconoscimento
delle possibilità in linea di principio e, sul fondamento di esse, una
15
comprensione dei fatti a noi accessibili.»
Nell’ambito dei vissuti, uno in particolare ha un carattere rivelatore:
16
l’angoscia “di cui è piena ogni anima insicura” . Si tratta di un’angoscia
metafisica, che non è legata a qualcosa, non è angoscia per qualcosa, ma in
essa viene sentita la peccaminosità dell’anima. «Infatti, non appena l’anima
avverte veramente l’angoscia e la peccaminosità, non può più liberarsene
[…]. Rimane allora fermamente legata a sé […]. L’essere legata all’indietro,
che non contrasta con l’allontanamento da se stesso, è una caratteristica
17
primaria dell’angoscia.» Il carattere metafisico dell’angoscia sarà ancora
messo in luce in alcune pagine densissime di Potenza e Atto, in riferimento
alla possibilità di peccare mortalmente, stato che si avvicina a quello della
dannazione: si è angosciati per la minaccia di annientamento che si avverte
nel cuore del proprio essere. In questo testo tutta la riflessione sul peccato è
trattata dal punto di vista ontologico-metafisico, poiché decidere contro Dio,
essere assoluto, significa decidersi per il non essere, e si ribadisce, perciò,
che le decisioni sono “vette nella vita della persona”. Approfondendo poi
anche questo non-essere, la Stein riconosce che esso non può equivalere a
un niente, così come non lo è il modo d’essere dei demoni e dei dannati; non
può provenire dal nulla, bensì da un atto originario di negazione da parte di
18
un essente.
Quanto più l’anima si svuota di sé, tanto più si apre il varco perché
entri la grazia per cui veramente può realizzarsi l’atto propriamente libero:
l’abbandono (Selbsthingabe), attraverso il quale la persona raccoglie tutto il
suo essere in un punto, dopo essere giunta, libera dal meccanismo psicofisico, nel nucleo dell’anima e da qui aver preso in mano tutta se stessa per
darsi. «L’abbandono è l’atto più libero della libertà. Colui che, totalmente
incurante di sé – della propria libertà e individualità – si consegna alla Grazia,
penetra in essa, completamente libero e totalmente se stesso. Si delinea così
l’impossibilità di trovare la strada finchè lo sguardo è fisso su di sé.
L’angoscia può spingere il peccatore tra le braccia della Grazia. L’angoscia
spinge da dietro. Ma se egli si volge completamente alla Grazia, perderà
19
l’angoscia perché la Grazia lo libera dal peccato e dall’angoscia.»
Per quanto riguarda questa fenomenologia della libertà, che apre
parimenti alla conoscenza di livelli diversi di consistenza d’essere, la Stein si
pone anche dal lato della grazia e della sua libertà. Può la grazia operare
senza il concorso della libertà umana? L’autrice risponde negativamente, ma
vuole andare a fondo di questa risposta perché essa implica, da un lato,
ammettere un limite per la libertà di Dio e, dall’altro, ammettere la possibilità
34
SAGGI
di una resistenza assoluta alla grazia e quindi di un’esclusione dalla
salvezza. Se quest’ultima in linea di principio non si può negare, come si è
visto anche dalla possibilità estrema di darsi al male e alle reazioni che ne
scaturiscono, di fatto può diventare infinitamente improbabile se si guardano
gli effetti che la grazia è in grado di produrre nell’anima. Pertanto, se la libertà
umana non può essere distrutta nemmeno da Dio, può essere da Lui attirata,
non avendo limiti l’amore di Dio e la portata del suo libero agire. Questo
amore viene colto nell’atto di fede, alla cui delucidazione la Stein dedica
l’ultimo paragrafo del saggio. Da un lato l’essere afferrati da Dio è qualcosa a
cui non ci si può sottrarre, dall’altro per passare al vero e proprio atto di fede
bisogna tenersi alla mano che ci afferra. Solo così trovo in quella “potenza
incomparabile” che mi sta dinnanzi, il Dio infinitamente buono che mi
20
sostiene . Dunque se Dio si arresta, per dir così, di fronte alla libertà di
quell’essere che Egli stesso ha creato libero, tuttavia la sua Presenza è
ineludibile e ciò è reso manifesto anche dall’insopprimibilità dell’angoscia,
anche quando l’io cerchi di sfuggirle gettandosi nella vita periferica.
La fede nella sconfinatezza della grazia giustifica poi anche la
speranza nell’universalità della salvezza. Tutto ciò introduce al problema
della mediazione, in cui si scoprono all’opera le due libertà, quella umana e
quella divina ed, altresì, che la possibilità della mediazione implica che la
salvezza sia questione comune a tutti gli uomini.
35
2.
La Schicksalsgemeinschaft.
Un mediatore può condurre un altro alla grazia senza un’attività
diretta, per il semplice fatto che da lui emana la luce divina, di cui è riempito,
e attira altri sulla stessa via. Ma quando il mediatore collabora attivamente
alla salvezza di un altro, si rende evidente un duplice limite di questa attività:
non si può costringere nessuno a salvarsi, né pretendere che la grazia lo
faccia. Tuttavia questo limite s’incontra per l’appunto con un amore infinito e,
giusta l’affermazione della Stein, il fatto che la libertà divina si sottometta, per
dir così, alla preghiera di uno per la salvezza di un altro, è la “realtà più
21
stupenda della vita religiosa”, anche se eccedente ogni comprensione.
Anche a questo proposito un’ulteriore chiarificazione va ricercata nelle pieghe
del complessivo pensiero della Stein: il rispetto della libertà altrui non è limite
formale, ma è la sostanza intrinseca della relazione di entropatia, che
proviene dal riconoscimento dell’alterità come reale alter ego, tale perciò da
produrre non solo una relazione legalisticamente intesa, ma il nucleo su cui
può sorgere una comunità di persone che reciprocamente si riconoscono nel
22
loro essere .
La responsabilità per la salvezza propria e altrui e la libertà vanno
di pari passo: «È singolare come proprio ciò che isola totalmente l’uomo e lo
pone totalmente su se stesso – e questo fa la libertà – lo lega, allo stesso
tempo, indissolubilmente a tutti gli altri e fonda una vera comunità unita dal
medesimo destino (Schicksalsgemeinschaft). Egli è responsabile della
propria salvezza perché essa non è raggiungibile senza la sua
collaborazione […] . E allo stesso tempo egli è responsabile della salvezza di
23
tutti gli altri e tutti gli altri della sua» . Questa reciproca responsabilità è
appunto nel più alto grado formatrice di comunità e su di essa si fonda la
Chiesa, che si costituisce per null’altro che per questo stare dinnanzi a Dio
uno per tutti e tutti per uno. Cristo è l’unico sostituto di tutti davanti a Dio
perché la pienezza dell’amore di Dio si è incarnata in Lui ed è, quindi, vero
capo della comunità, la Chiesa. Accanto a questa sostituzione universale e
sulla base di essa hanno senso i legami di patrocinio spirituale per il
prossimo ed anche la possibilità di stare dinnanzi a Dio al posto di un altro,
prendendo su di sé, la sofferenza per la punizione che questi si è meritato
per una colpa. La Stein si rifà qui a questioni la cui trattazione ha svolto nella
24
sua indagine sullo stato, elaborata negli stessi anni di questo saggio : si
tratta in particolare dell’esame di colpa/pena il cui nesso richiama quello
peccato/punizione. Anche in questo scritto l’autrice si era resa ben conto
dell’intersezione di ambiti diversi, giuridico-etico-religioso, e della necessità di
mantenerli rigorosamente distinti. Ella aveva trovato ispirazione nella sfera
25
del diritto puro, indicata per la prima volta da Adolf Reinach , in cui appare
evidente che ci sono stati-di-cose riguardanti il diritto, che sono indipendenti
dall’arbitrio e dal fatto di essere riconosciuti dal diritto positivo. Nel diritto puro
entrano quei momenti essenziali che Husserl aveva ben evidenziato come
momenti costitutivi. Bisogna sempre partire dagli atti liberi attraverso i quali si
introducono nel mondo stati-di-cose negativi, o ingiusti e allora si ha una
colpa che richiede una punizione, o stati-di-cose positivi per cui si ha un
merito che richiede una ricompensa. Ma mentre la pena di per sé non è
adatta alla sostituzione, lo è la sofferenza, nei confronti della quale è
possibile un atto libero, cioè assumersela. In questa assunzione volontaria è
possibile che al colpevole si sostituisca un altro. Sulla base del fatto che solo
alla figura del giudice compete la punizione, anche per la sostituzione la sua
autorizzazione sarebbe necessaria; questo non si trova nel diritto positivo,
ma se il giudice è Dio, unico Signore del mondo, a cui spetta di mantenere
l’ordine attraverso l’equilibrio tra colpa-pena, merito-ricompensa, Egli può a
suo gradimento accettare la sostituzione e solo a Lui si può rivolgere la
preghiera che la accetti. La Stein sottolinea che in questo caso emerge come
i rapporti giuridici puri si riempiano di senso religioso; dall’ontologia si apre la
strada per considerazioni metafisiche, le quali incontrano la teologia e il dato
rivelato e l’autrice percorre tutti questi ambiti. Al tempo stesso non va
dimenticato ciò che nell’opera sullo stato ella parimenti sottolinea, che anche
36
SAGGI
il rimando della punizione nel suo senso proprio a Dio, come supremo
giudice, non la relega in un ambito soltanto etico. Stein ribadisce con forza la
diversità delle sfere rispettive del diritto puro, del diritto positivo, della morale
e insieme ne coglie l’intersezione nella persona come soggetto capace di atti
26
liberi .
Come si può chiedere nella preghiera di assumersi la sofferenza per
la colpa di un altro, così si possono offrire i meriti, insiti nelle opere buone
compiute, e chiedere che venga data ad un altro la ricompensa per questi
dovuta. Questo non vuol dire, però, che ci si possa richiamare ai propri meriti
dinnanzi a Dio, sia perché non si può mai essere certi di averne qualcuno, sia
27
perché non si possono fare affari (Geschäfte machen) con Dio . Che si
rivolga la propria supplica per un altro, questo è gradito a Dio, perciò non
solo il santo può essere intermediario o sostituto dinnanzi al Signore, ma
anche il peccatore, che ha il diritto di pregare per un altro e chiedere per lui la
grazia: «Prima di tutto perché il Signore non è solo giusto, ma anche
misericordioso. E poi perché non ci può essere opera più gradita a Dio che
28
una preghiera devota.» Nessuno si deve sentire escluso dalla misericordia
divina e dalla corresponsabilità per l’estensione della grazia ad ogni altro; per
di più la responsabilità vale anche per altre forme di vita. Per quanto riguarda
il mondo animale, l’essere umano liberato è capace, come si è detto, di
comprendere l’inquietudine cupa dell’animale perché si è sollevato sul mondo
della natura, anche se la responsabilità per la redenzione del mondo animale
è assolutamente diversa dalla corresponsabilità per gli altri essere umani.
Per ciò che riguarda le creature inanimate, non toccate da alcun tipo di
angoscia metafisica, nemmeno quella inconsapevole e oscura dell’animale, è
in gioco una qualche responsabilità dell’uomo? In queste creature è posto un
senso originario, la loro forma, che si manifesta nel loro dispiegamento nello
spazio, ma poiché esse non si muovono come gli esseri animati, non
essendo formate a partire dall’interno, non sono capaci di sentire, non
possono evitare le aggressioni esterne e non sono capaci di conservarsi, ma
devono essere conservate. «Il dominio della natura fondato sulla conoscenza
fa sì che l’uomo conservi le creature nel senso ontologico inscritto in loro. La
tecnica moderna, nella misura in cui vede il proprio compito nel sottomettere
la natura all’uomo e nel metterla al servizio dei suoi desideri naturali, senza
preoccuparsi del pensiero creatore e in contrasto stridente con esso,
rappresenta una caduta radicale dal servizio originariamente ad essa
prescritto. L’uomo è responsabile di tutto ciò che, nella natura, non è come
dovrebbe essere; l’allontanamento della natura dal progetto del creatore è a
lui imputabile. Ricordiamo ancora che, secondo la sua struttura, l’uomo è
29
capace di portare una simile responsabilità.»
37
Abbandono e preghiera ci sono apparsi come atti fondamentali da
parte del soggetto per l’incontro della libertà umana con la grazia divina. Ma
c’è qualcosa di più originario ancora dell’atto, libero per eccellenza,
dell’abbandono di sè? Se l’abbandono richiede la fatica di un cammino,
l’attraversamento della propria interiorità e la progressiva presa di coscienza
delle sue pieghe anche più interne per potersi “prendere in mano” e
consegnarsi, c’è un punto che prelude al cammino, che si pone tra attività e
passività del soggetto? Proprio in Psicologia e scienze dello spirito, la Stein
parla di un Erlebnis, lo “stato di riposo in Dio”, un abbandono di maggior
passività, si potrebbe dire, consistente in una semplice recettività: «Esiste
uno stato di riposo in Dio, di totale rilassamento di ogni attività spirituale, in
cui non si fanno piani, non si prendono decisioni e non solo non si agisce, ma
si rimette ogni cosa futura alla volontà divina e ci si “abbandona”
completamente al “destino”. Si riceve questo stato dopo che un vissuto, che
ha superato le mie forze, ha completamente consumato la forza vitale
spirituale e ha privato la persona di ogni attività. Il riposo in Dio, rispetto al
venir meno dell’attività per la mancanza di forza vitale, è qualcosa di
completamente nuovo e particolare. Il venir meno era caratterizzato da un
silenzio di morte, al suo posto si presenta ora un senso di sicurezza, della
liberazione da ogni preoccupazione e da ogni responsabilità e impegno ad
agire. […] Questo flusso vivente appare come l’afflusso di un’attività e di una
forza che non è mia e che diventa attiva in me senza alcuna mia richiesta
personale. L’unico presupposto per una tale rinascita spirituale è una
particolare capacità ricettiva come quella che si fonda sulla struttura della
30
persona che si è liberata dal meccanismo psichico.» L’esempio che la Stein
adopera per illuminare questo afflusso, si rifà alla relazione interpersonale: il
rapporto con persone che hanno un’intensa vitalità può esercitare un’azione
vitale su chi è stanco e non presuppone alcuna attività da parte del soggetto.
Siamo risospinti alle questioni centrali del saggio preso in considerazione: la
ricettività del soggetto richiede una struttura ontica non solo corporeopsichica, ma anche psichico-spirituale e un io che in sé è relazione.
Vogliamo mettere in evidenza, a conclusione della nostra lettura del
saggio della Stein, come saltino subito agli occhi quei termini, ad esempio
quello di angoscia, che ci rinviano ad altri autori; se un confronto può
31
senz’altro essere fatto e accompagnare la lettura , tuttavia il significato
proprio dell’analisi steiniana rimane immutato: ella si muove autonomamente,
in aderenza a ciò che vuole esaminare, così come si manifesta, ben sapendo
che anche altri hanno trattato le stesse questioni, ma che è l’appello
intrinseco alla cosa stessa che sollecita anzitutto la risposta di un pensatore
e che proprio per questo il suo cammino non si compie mai in solitudine.
38
SAGGI
1
E. STEIN, Die ontische Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische
Problematik in Welt und Person. Beitrag zum christlichen Wahrheitsstreben, Werke VI,
Editions Nauwelaerts - Verlag Herder, Louvain-Freiburg 1962; tr. it. di M. D’Ambra, La
struttura ontica della persona e la problematica della sua conoscenza in : E. STEIN,
Natura Persona Mistica – Per una ricerca cristiana della verità, a cura di A. Ales Bello,
ed. Città Nuova, Roma 1997.
2
E. STEIN, Potenz und Akt – Studien zu einer Philosophie des Seins, Werke XVIII,
Verlag Herder, Freiburg 1998, tr.it. Potenza e atto – Studi per una filosofia dell’essere
di A. Caputo, a cura di Hans Rainer Sepp, prefaz. di A. Ales Bello, ed. Città Nuova,
Roma 2003.
3
Si confronti la ricostruzione particolare di questo saggio di Edith Stein, il cui titolo
originale sarebbe “Natur, Freiheit und Gnade”, nello studio di Claudia Mariele Wulf:
“Rekonstruktion und Neudatierung einiger früher Werke Edith Steins” in: Beckmann
Beate / Gerl-Falkovitz, Hanna-Barbara (Hg.): Edith Stein. Themen, Bezüge,
Dokumente. Orbis phänomenologicus, Perspektiven 1,Verlag Königshausen §
Neumann, Würzburg 2003, S. 249-267.
4
Cfr. E. STEIN, Zum Problem der Einfühlung, Buchdruckerei des Waisenhauses, Halle
1917, S. 131-132; tr. it. Il problema dell’empatia, di E. e E. Costantini, prefaz. di A. Ales
Bello, Studium, Roma 1998², pp. 229-230.
5
E. STEIN, Briefe an Roman Ingarden 1917-1938, Werke XIV, Verlag Herder, Freiburg
1991, Br. 76 , S.139 ff., tr. it. Lettere a Roman Ingarden 1917-1931 di E. ed E.
Costantini, revisione di Anna Maria Pezzella, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2001, p.183 ss.
6
E. STEIN, Ebd., Br. 53, 10.10.1918, S.106 ff., tr. it. p. 132 ss.
Come testimonianza del cammino che portò la Stein ad occuparsi sempre più di
questioni religiose e del Cristianesimo in particolare, sono preziose anche quelle lettere
in cui ella parla del lascito di Adolf Reinach che, dopo la sua la morte, avvenuta nella
prima guerra mondiale, ha avuto l’incarico di riordinare. Non solo appare assai
significativa, proprio sotto il profilo religioso, la ripercussione nell’animo della Stein
della tragica morte dell’amico, ma anche il riferimento ad alcuni dei suoi ultimi scritti
riguardanti questioni di filosofia della religione, (si confronti Br. 27, 12.2.1918, S. 70 ff.,
p.78 ss. nella tr. it. citata).
7
Cfr. E. STEIN, Individuum und Gemeinschaft in Beiträge zur philosophischen
Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, in «Jahrbuch für
Philosophie und phänomenologische Forschung», V, Halle 1922; ristampa Max
Niemeyer Verlag, Tübingen 1970²; tr. it. Individuo e comunità in Psicologia e scienze
dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, di A. Maria Pezzella, Città Nuova,
Roma 1999².
8
Cfr. E. STEIN, Die ontische Struktur der Person…cit. , S. 140; tr. it. cit., p.55.
9
Ivi,, S. 169; tr. it., p. 84.
10
Ivi , S. 148-149; tr. it., pp. 64-65.
11
Ivi, S. 151-152; tr.it., p. 67.
12
Si tratta dei già citati Beiträge…
13
Ivi, S. 46; tr.it., p. 84.
14
E. STEIN, Die ontische…, S. 138 ; tr. it., p. 53.
15
Ivi, S. 159; tr. it., p.75.
16
Ivi, S. 155; p.70.
39
17
Ivi, S. 155; p. 71.
E. STEIN , Potenz und Akt cit., S. 139 ff. ; p. 212 ss.
ID., Die ontische… cit, S. 156; p. 72.
20
Ivi, si confronti S. 192; pp. 108-109
21
Ivi, S.161; p.77.
22
Si confronti a questo proposito, L. AVITABILE, Il ruolo della comunità nella vita sociale,
politica e religiosa in: A. ALES BELLO – A. MARIA PEZZELLA, Edith Stein. Comunità e
mondo della vita. Società Diritto Religione. Lateran University Press, Città del
Vaticano, 2008.
23
E. STEIN, Die ontische…, S. 162-163; tr. it., p.78.
24
Si confronti a questo proposito la lettera di Edith Stein a Roman Ingarden già citata,
tr. it. p. 184. E. STEIN, Eine Untersuchung über den Staat in Jahrbuch fürPhilosophie
und phänomenologische Forschung, vol. VII, Halle 1925. E’ stato ripubblicato insieme
al saggio Beiträge… cit. dall’editore M. Niemeyer, Tübingen 1970; tr. it. Una ricerca
sullo Stato di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1999².
25
A. REINACH, Die apriorischen Grundlagendes bürgerlichen Rechts in Gesammelten
Schriften, Halle, 1921, tr.it. I fondamenti a priori del diritto civile, di Daniela Falcioni,
Giuffrè Editore, Milano, 1990.
26
Si confronti Eine Untersuchung über den Staat cit., S. 102 ff. ; tr.it. p. 142 ss.
27
Cfr. E. STEIN, Die ontische…S. 167-168; tr. it. p. 83.
28
Ibidem.
29
Ivi, S. 171; tr.it. p.86-87.
30
Cfr. Beiträge… cit. S. 76; tr. it. pp.115-116.
31
Si ricorda che nello stesso vol. delle Opere della Stein in cui è stato pubblicato il
presente saggio, appare anche lo studio più importante dell’autrice su Heidegger: E.
STEIN, Martin Heideggers Existentialphilosophie in Welt und Person. Beitrag zum
christlichen Wahrheitsstreben, Werke VI, Editions Nauwelaerts-Verlag Herder,
Louvain-Freiburg 1962, S. 69-135; tr. it. La filosofia esistenziale di Martin Heidegger di
A. Maria Pezzella in La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana,
a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1993, pp. 153-226.
18
19
40
L’approccio allo studio della filosofia di Feuerbach suggerisce di
accettare il dato di fatto, a testimonianza della sua natura articolata e per
nulla riducibile a formule precostituite, che essa è intimamente animata da
un’evoluzione concettuale, strutturata di fasi differenti, ognuna con una sua
peculiarità, pertanto esigenti chiavi di lettura specifiche al fine di delucidarne
le questioni salienti. Appare, a tal fine, doveroso estendere la valenza di
questa considerazione introduttiva anche per quanto concerne il confronto
che Feuerbach stesso ha instaurato con l’idealismo tedesco del XIX secolo,
cercando di contribuire a dissolvere un’immagine storiografica, fin troppo
abusata, di netta cesura polemica fra Feuerbach e le massime sintesi
teoriche di questa filosofia, conseguenza ovvia di certe vulgate
ermeneutiche, eccessivamente dimentiche della gradualità dei passaggi,
delle trasformazioni concettuali, anche e soprattutto tipiche di quei filosofi
vittime, loro malgrado, per diversi motivi e a prescindere dai loro stessi
intendimenti, di facili ed esiziali etichettature.
Da qui la forte esigenza, innanzitutto, di ripercorrere la linea
evolutiva del pensiero di Feurbach in merito ai suoi giudizi espressi su Hegel
e su Fichte, constatando l’iniziale ammirazione per l’idealismo, seguita da
una critica centrata soprattutto su Hegel, culminante in una personale
elaborazione categoriale del “Gattung”, fino all’ultima fase in cui si evince con
una certa chiarezza la radicalizzazione della critica all’idealismo nei termini di
un’accentuata enfatizzazione materialistica. L’esclusione di una trattazione
specifica della critica feurbachiana a Schelling trova la sua giustificazione nei
contorni piuttosto definiti di tale critica, pertanto, non appare suscettibile di
successivi chiarimenti bensì di una succinta ricostruzione. La critica a
Schelling prende corpo intorno al 1830, in particolare, è la prospettiva della
filosofia positiva a costituire il bersaglio polemico di Feuerbach, che contesta
la possibilità di conciliare cristianesimo, filosofia e scienza.
La radicalizzazione di questa polemica inizia intorno al 1838, in
occasione della pubblicazione del Boyle, all’epoca della collaborazione con
Ruge e Echtermeyer e assume una certa articolazione argomentativa nel X
capitolo de L’Essenza del Cristianesimo, in cui Schelling è accostato a
Bohme, essendo considerato l’artefice di una bislacca teoria
teocosmogonica, in cui da Dio, puro spirito e luminosa autocoscienza, si
SAGGI
POLEMICA ED EREDITÀ PROBLEMATICA
DELL’IDEALISMO TEDESCO
NELLA FILOSOFIA DI LUDWIG FEUERBACH
di Francesco Clemente
41
deduce la natura, che è al contrario, confusa, oscura, priva di ordine,
giustificando tale derivazione con l’assunzione l’esistenza di un elemento
impuro in Dio stesso. L’esplicito riferimento è quello concernente le
schellinghiane Ricerche sull’essenza della libertà. In secondo luogo,
all’interno di questa ricostruzione far emergere il più possibile quali aspetti
della filosofia di Feurbach sono stati espressamente finalizzati al confronto e
alle polemiche con Hegel e con Fichte. Il difficile punto di partenza è: Che
cosa intende Feuerbach per idealismo? Per avere un quadro dell’evoluzione
di giudizio che Feuerbach ha compiuto dell’idealismo tedesco è opportuno
considerare in prima battuta il De Communitate, Infinitate, Unitate atque
rationis, lo scritto del 1828 con cui il filosofo consegue il diploma in filosofia
all’università di Erlagen. L’interesse dell’opera consiste nella polemica con la
filosofia critica poiché “l’impulso alla conoscenza infinita dimostra la necessità
e la possibilità di conoscere l’assoluto contro la filosofia critica, così come la
forza di gravità dimostra la sua esistenza attraverso la propria capacità
1
astrattiva”. Più specificatamente la polemica con il criticismo è incardinata
sul rifiuto dell’ipotesi di stabilire la limitatezza della ragione, poiché non si può
percepire un limite che non sia pensabile, per cui “la dissertazione conclude
affermando che l’impossibilità della ragione possa essere intesa in qualche
2
modo come limitata”. In questa cornice teorica spicca il giudizio sulla filosofia
fichtiana. Fichte è additato come filosofo di profonda originalità, l’artefice di
un’autentica impronta idealistica in ambito speculativo, il “Messia della
3
ragione speculativa”, il “Genio idealistico” , promotore di soluzioni reali per il
4
superamento della “contrapposizione fra soggetto e oggetto” , riuscendo a
svecchiare l’immagine stessa della speculazione attraverso l’idea del
pensiero in termini di fungenza e attività. Al contrario l’osservazione per cui
“l’Ascheri e il Cesa hanno fatto notare come la prospettiva della
dissertazione, con la condanna del finito e del sensibile, sia stata
successivamente rovesciata nella concezione antropologica a tinte
5
naturalistiche degli anni maturi” , sembra suggerire l’ipotesi che i giudizi di
Feuerbach sull’idealismo risentano di un’evoluzione, che costituisce di fatto
un indicatore dei mutamenti concettuali all’interno della stessa filosofia
feuerbachiana. L’incidenza dell’apparato concettuale hegeliano sulla filosofia
genetico - critica, anche nelle sue fasi intermedie di sviluppo, è tangibile nel
momento in cui è sufficiente riferirsi alla nota categoria del “Gattung” di
matrice hegeliana.
La formulazione feurbachiana della categoria di “genere” matura
grazie agli apporti della Fenomenologia dello Spirito, della Scienza della
Logica, e dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio,
assumendo probabilmente una dignità razionale neanche rinvenibile in Hegel
stesso. Tuttavia in tale ripresa emerge il ruolo influente dell’ermeneutica
42
SAGGI
religiosa di Strass, che avrebbe consentito a Feuerbach di conferire a questa
categoria una curvatura spiccatamente antropologica: “L’interpretazione
cristologia di Strass aveva infatti ripreso tale termine hegeliano, interpretando
die Idee der Gattung come sinonimo di Menscheit, prosegue lo sforzo di
‘realizzare’ l’hegelismo, di tradurre cioè in chiave antropologica la filosofia
6
hegeliana.”
L’enfatizzazione della categoria del “Gattung” non è il mero residuo
concettuale della lezione appresa da un allievo da un suo maestro, perché
essa è funzionale all’instaurazione della strategia di della riappropriazione di
quell’umanità andata smarrita nei fumi alienanti della religione. Il “Gattung” è
lo scrigno categoriale che custodisce in sé quell’essenza infinita, ma di
natura umana, che l’aberrazione proiettiva ha relegato oltre l’umano. Esso è
“quell’al di qua” che costituisce il tesoro perduto dell’uomo.
A dimostrazione della rilevanza di tale categoria, non è casuale che
anche gli ultimi approdi della Feuerbach-forschung abbiano riaffermato la
portata filosofica della critica feurbachiana alla filosofia hegeliana in termini
rielaborativi, poiché il riconoscimento che la “filosofia di Hegel è costruita in
modo sbagliato” anticiperebbe una più matura “visione antropologica e
materialistica” e che pertanto, le stesse celebri ricerche feuerbachiane sul
7
fenomeno religioso anticiperebbero la “riforma della filosofia” . La rottura che
Feuerbach ha compiuto con la filosofia hegeliana è espressamente sancita
per la prima volta, nello scritto del 1839 intitolato Per la critica della filosofia
hegeliana, in un processo di accentuazione della dimensione empirica a
svantaggio di quella astrattamente speculativa. Si avverte, così, l’esigenza di
ricordare all’uomo fedele alla speculazione astratta, eccessivamente incline
ad avallare la pretesa tutta teoreticistica di aggirare i vincoli della realtà. È
questo lo spirito che anima lo scritto Per la critica della filosofia hegeliana,
non trascurando la specificità della prospettiva hegeliana, nella sua aperta
divaricazione con quella schellinghiana. La filosofia speculativa tedesca, così
distante dalla saggezza salomonica, è inequivocabilmente identificata con
l’idealismo di Hegel, che, a sua volta, si oppone all’orientalismo di Schelling,
secondo uno schema di contrapposizione concettuale riassumibile nella
dicotomia fra filosofia dell’identità e filosofia della differenza: “La filosofia
speculativa tedesca costituisce la diretta antitesi dell’antica saggezza
salomonica. Mentre quest’ultima non vede nulla di nuovo sotto il sole,quella
vede soltanto del nuovo; mentre l’uomo dell’oriente perde di vista, per l’unità,
la differenza, l’uomo dell’Occidente dimentica, per la differenza, l’unità;
mentre il primo spinge la sua indifferenza per l’eterna uniformità sino
all’apatia della stupidità, il secondo esalta la sua sensibilità per l’alterità e la
diversità sino all’ardore febbrile della imaginatio luxurians. E quando io dico:
la filosofia speculativa tedesca, intendo, in specie […] quella hegeliana;
43
perché la filosofia di Schelling fu, a voler essere precisi, una pianta esotica la vecchia identità orientale su suolo germanico -per cui la propensione della
scuola schellinghiana per l’Oriente è un tratto carattersistico essenziale di
essa, mentre al contrario la propensione per l’Occidente e la svalutazione
dell’Oriente è un segno distintivo specifico della scuola hegeliana. Di contro
all’orientalismo della filosofia dell’identità l’elemento caratteristico di Hegel è
8
quello della differenza.”
Nell’illustrazione del metodo hegeliano Feuerbach osserva che esso
è solo pretenziosamente orientato a riprodurre il corso naturale,ma in realtà
l’elemento fondamentale è la circolarità, che ne rappresenta la cifra, nonché il
motivo di superiorità rispetto alla filosofia di Fichte: “Per sistema si intende un
cerchio chiuso in se stesso, ciò che non continua, in linea retta, sino
all’infinito, ma , alla fine, torna al suo inizio. La filosofia hegeliana è anche, di
fatto, il sistema più compiuto che ci sia mai stato. Hegel ha fatto davvero ciò
che Fichte voleva ma non riuscì a fare, perché Fichte conclude soltanto con
9
un dover-essere, e non con una fina identica all’inizio.”
L’elemento caratteristico della logica filosofica di Hegel è
argomentato in stretta relazione con la tradizione filosofica moderna,
individuando come comun denominatore, la rottura, il divorzio dalla
dimensione della sensibilità: “Alla filosofia hegeliana può quindi essere rivolta
la stressa critica che investe tutta la filosofia moderna, a partire da Cartesio e
da Spinoza: di aver operato una insanabile rottura con l’intuizione sensibile di
10
aver immediatamente presupposto la filosofia.”
Nell'ambito di queste considerazioni Feurbach non accetta la replica
che farebbe valere il carattere fondamentalmente propedeutico della
Fenomenologia dello Spirito sulla Scienza della logica, perché se è vero che
la Logica ha la Fenomenologia dietro di sé, è anche vero che la realtà
effettuale, che rappresenta il contrario dell’essere logico gode di una sua
ineliminabile indipendenza. Piuttosto, è proprio la Fenomenologia a essere
vagliata criticamente, soprattutto nelle parti che accamperebbero la legittimità
di spiegare, in chiave schiettamente dialettico-idealistica, il passaggio dalla
certezza sensibile alla percezione, all’intelletto e così via, ovvero di tutto quel
pacchetto di argomentazioni hegeliane che pone al centro dell’indagine il
superamento progressivo dello stadio della conoscenza sensibile, e che si
risolve nell’esito finale di includere l’oggetto nel soggetto. Secondo Feurbach
le argomentazioni hegeliane in tal senso, non rivelando neanche una certa
originalità dimostrativa, non riuscirebbero a dimostrare quell’universalità che
si pretenderebbe di aver raggiunto. Il nucleo della polemica è il tentativo
hegeliano di mostrare che nel momento fenomenologico della coscienza
sensibile il particolare, che si mostra come verità, in realtà è
autocontraddittorio perché per comprendere il particolare bisogna passare
44
SAGGI
all’universale. Secondo Hegel, infatti, la certezza sensibile crede che sia vero
il “qui” spazialmente determinato e l’ “ora” temporalmente specificato. Ma, in
realtà, il ‘qui’ indicato come verità dalla certezza sensibile è tale solo
presupponendo un “qui” universale che non è più particolare. Dicendo: il “qui”
è l’albero che vedo si pensa di affermare una verità; ma un altro vede una
casa più lontana è afferma che il “qui” non è l’albero bensì la casa. Il capitolo
vorrebbe dimostrare che l’essere sensibile e individuale è invece universale:
“Per la coscienza sensibile il primo capitolo della Fenomenologia non è
quindi altro che l’argomento fritto e rifritto di Stilpone di Megera, -che qui però
è rivolto nella direzione opposta -;non è altro che un gioco di parole che il
pensiero-già ben certo di essere la verità-vuole imporre alla coscienza
11
naturale.”
L’obiettivo della critica feurbachiana è il ruolo giocato dall’universalità
del linguaggio nell’argomentazione hegeliana. Non è un caso che la
trattazione fenomenologia sia incardinata sul riconoscimento dell’indicibilità
dell’individuale e sul fatto che l’universale espresso dal linguaggio, è, in
ultima analisi, la verità della certezza sensibile: “Il primo capitolo ha come
contenuto: La certezza sensibile, o il questo e l’opinione. Esso indica il grado
della coscienza in cui questa considera come l’essere vero e reale e l’essere
sensibile e individuale, che però più tardi, con un cammino sotterraneo, si
dimostra come un essere universale. ‘Il questo è un albero’; ma io vado oltre
e dico: ‘il questo è una casa’. La prima verità si è dileguata. ‘L’ora è notte’;
ma non dura a lungo, ed eccomi a dire ‘L’ora è giorno’. La prima pretesa
verità è ora diventata ‘stantia’. L'ora si dimostra dunque come un ora
universale, come un molteplice sensibile (negativo). E lo stesso accade con il
qui. Anche il qui non dilegua, ma è costantemente nel dileguare della casa,
dell’albero, ecc. e gli è indifferente di essere casa o albero. Di nuovo, il
‘questo’ si mostra dunque come semplicità mediata o come universalità.
L’individuale che noi opiniamo nella certezza sensibile, non può quindi
nemmeno essere espresso da noi. ‘Il più verace è il linguaggio: in esso
confutiamo immediatamente perfino la nostra opinione; e poiché l’universale
è il vero della certezza sensibile, e il linguaggio esprime solo questo, così è
12
escluso che si possa dire quell’essere sensibile che noi opiniamo”.
Feuerbach rigetta quest' argomentazione evidenziando che il ‘qui’ e
l’‘ora’ della certezza sensibile non possono mai essere universali, ma sono
sempre di valenza singolare. Secondo la critica che egli conduce, Hegel
confuterebbe non il ‘qui’ oggetto della conoscenza sensibile, bensì il ‘qui’
logico. In questo senso per Feurbach la fenomenologia si scopre essere, in
definitiva, logica fenomenologia: “Il qui fenomenologico non si differenzia in
nulla da un altro qui che io fisso; esso si mostra quindi anche come un qui
universale, perché di fatto è già un universale; ma il qui reale è distinto, e
45
proprio in un modo reale, da un altro qui: è un qui esclusivo. ‘Per es. il qui è
l’albero. Io mi volto, e questa verità è dileguata’. Si sarà dileguata nella
Fenomenologia, dove voltarsi costa soltanto una parolina; ma nella realtà,
nella quale io devo fare una conversione al mio corpo pesante, il qui, anche
se dietro le mie spalle, mi si mostra come un’esistenza assai reale. L’albero
limita le mie spalle; mi'impedisce di essere nel luogo che esso già occupa.
Hegel confuta non il qui che è oggetto della coscienza sensibile, e che noi
consideriamo oggetto differenziandolo dal puro pensare, ma il qui logico, lo
ora logico […]. La fenomenologia non è altro che la logica fenomenologia.
Solo da questa prospettiva si può scusare il capitolo sulla certezza
13
sensibile.”
Nel rifiuto del ragionamento hegeliano gioca con una certa evidenza
un certo ruolo lo scarto, la differenza sussistente fra la realtà sensibilmente
avvertibile e l’astrattezza abilmente azionata nella dimensione linguistica.
Feuerbach mantiene saldo lo iato incolmabile fra la dimensione del pensiero
e quella dell’essere, ricalcata su quella esistente fra il piano logico e quello
ontologico. D’altronde è già nelle prime battute dello scritto che si evince in
forma stringata un giudizio complessivo sul pensiero di Hegel, identificato
come filosofia dell’”idea presupposta”, laddove l’unica filosofia che parte
senza presupposti è quella capace di mettere in discussione se stessa. In
questo senso è evidente la sintonia fra Hegel e le filosofie moderne che
hanno presupposto come “verità la loro filosofia”. Emerge, così, abbastanza
nettamente la configurazione del rapporto fra la filosofia hegeliana e la
filosofia genetico-critica. La prospettiva genetico-critica non si risolve in esiti
dimostrativi, né in approdi concettuali inamovibilmente dogmatici, bensì
nell’intenzione di distinguere nettamente fra ambito soggettivo e ambito
oggettivo. Ne consegue che la filosofia genetico-critica sta a quella
dell’assoluto come la concezione puramente naturalistica della natura sta a
quella puramente teologica della stessa: “Filosofia genetico-critica non è
quella che dimostra o comprende dogmaticamente un oggetto dato
attraverso la rappresentazione-per gli oggetti meramente reali, dati
immediatamente, cioè attraverso la natura, è perfettamente valido ciò che
Hegel dice - ma quella che ricava l’origine di esso, che pone in discussione
se l’oggetto sia reale o soltanto una rappresentazione, o in generale un
fenomeno psicologico, quella che, insomma,distingue nel modo più rigoroso
tra il soggettivo e l’oggettivo […] per chiarire con un paragone il rapporto che
c’è tra lei e la filosofia assoluta […]. Si può dire che essa sta alla seconda
come la concezione puramente fisica o naturalistica sta alla concezione
14
teologica della natura.”
Alla “mistica razionale”, come è in via definitiva etichettata la filosofia
hegeliana, alla teo-filosofia, Feurbach oppone la filosofia concepita
46
SAGGI
espressamente come scienza della natura. La natura, pertanto, si studia
nella sua naturalità, rifuggendo le fantasticherie della filosofia speculativa: “La
filosofia è la scienza della realtà nella sua verità e totalità; ma la sostanza
della realtà è la natura (nel senso più universale del termine). I segreti più
reconditi sono contenuti nelle più semplici cose naturali, quelle che calpesta il
filosofo speculativo che brama fantasticamente un aldilà. L’unica fonte di
15
salvezza è il ritorno alla natura.”
Anche nei Frammenti per il mio curriculum filosofico campeggia in
maniera rilevante la critica ad Hegel. Nel frammento intitolato Lezioni di
logica e metafisica tenute ad Erlagen (sit venia verbo!) (1829-1831-1832),
Feurbach concepisce la logica come metafisica in quanto risultato necessario
della stessa storia della filosofia, ribadendo il suo rifiuto della definizione
hegeliana come filosofia assoluta, ultima e suprema: “Signori! Voglio parlarvi
di logica, ma non nel modo con cui essa viene comunemente insegnata,
benché, per completezza, debba esporvi anche questa, sia pure da un punto
di vista storico; voglio parlarvi della teoria del pensare come teoria della
conoscenza, come metafisica […] come Hegel l’ha intesa e l’ha esposta, […]
ma insieme non ne parlo come Hegel dandole il significato di filosofia
assoluta, ultima e suprema, ma soltanto nel significato di organo della
16
filosofia.”
Nel frammento intitolato Dubbio del 1827-1828, Feuerbach affronta
Uno dei problemi eterni della filosofia: il tipo di relazione che intercorre fra
pensiero ed essere, fra logica e natura all’interno della costruzione teorica
hegeliana. Negando la possibilità di un passaggio fra pensiero ed essere,
Feuerbach evidenzia che la logica, per se stessa, si rivela autoreferenziale e
tautologica, di conseguenza non è diretta a una conoscenza diversa da
quella che ha di se stessa, non può dunque conoscere o far conoscere la
natura: “Che rapporto c’è tra pensiero ed essere, tra logica e natura? È
fondato il passaggio dal primo al secondo termine? Dov’è la necessità, dov’è
il principio di questo passaggio […] la logica da se stessa, non sa altro che se
stessa, il pensare[…]. Se non ci fosse una natura, la logica, vergine
17
immacolata, non sarebbe in grado di generarne una, mai e poi mai.”
Una riflessione, quest’ultima, che si riallaccia all’Essenza del
cristianesimo dove si evince una critica che riteniamo di un certo rilievo,
anche storiografico, per quella che costituisce una rivalutazione di riflesso, se
non proprio occasionale, di Kant, al cui trascendentalismo Feuerbach non
aveva risparmiato riserve. Nel contesto argomentativo del XX capitolo
dell’opera, in cui si affronta il tema dell’esistenza di Dio, con l’intenzione di
farne emergere le contraddizioni, Feurbach nota che lo scopo ultimo di
dimostrare Dio è quello di esteriorizzare l’interiorità dell’uomo. Dio diviene
sensibile. Limitatamente a questa circostanza Feuerbach dimostra di
47
rivalutare Kant su Hegel, compiendo un’eccezione anche verso se stesso,
verso le sue stesse riserve intellettuali verso il trascendentalismo kantiano,
poiché dimostra di condividerne la soluzione dell’indeducibilità dell’esistenza
di Dio dalla sua mera pensabilità logica, secondo quanto lo stesso Kant si è
premurato di argomentare nei celebri passi di cui si compone la dialettica
trascendentale, quelli appunto incardinati sulla trattazione della reale portata
gnoseologica da riconoscere alla teologia razionale, così pregna della
tradizionale prova ontologica anselmiana, che tenta la legittimazione del
passaggio dalla sfera logica a quella ontologica: “Com’è noto, Kant, nella sua
critica delle prove sull’esistenza di Dio, ha affermato che l’esistenza di Dio
non si può provare con la ragione. Kant perciò non meritava il biasimo che
ricevette da Hegel. Kant, invece, ha completamente ragione: da un concetto
io non posso dedurre l’esistenza […]. La ragione non può fare a meno di un
18
suo oggetto dei sensi.”
La fecondità del tema del “Gattung” in Feurbach deve essere notata
non solo nell’originale e personale riformulazione della categoria di “Genere”,
bensì nelle implicazioni non sempre lineari, e quindi problematiche, che esso
stesso pone. Nell’assunzione che la riduzione della filosofia di Feuerbach
risponde, in via definitiva, all’esigenza di cogliere i fondamenti reali dell’uomo,
le fondamenta del suo essere sensibile e concreto, non si può certo negare
che il tema della “soggettività”, in quest’ottica di privilegiamento della
categoria di “genere”, si complessifichi, per cui si apre un duplice problema:
“1) Si mostra che il discorso dell’essenza del genere dell’uomo presuppone
l’accettazione della presenza della comunità nella realtà. Quindi Feurbach
insiste sul fatto che […]” l’universale spetti al singolo ‘come unità di pensiero,
che ha luogo nella rappresentazione, ma non esiste nella realtà o che vi
partecipa’. 2) D’altro canto è concesso di aver chiarito che Feuerbach in
alcun modo vi rinuncia a parlare di universalità, rapporti reali, […] a parlare
19
della sensibilità.”
In altre parole ne L’Essenza del cristianesimo emergerebbe una
dialettica problematica fra ‘genere’ e ‘singolo’, fra ‘universale’ e ‘particolare’,
schiudendo un’aporia piuttosto difficile, che in termini classici si annuncia
come il ‘problema dell’individuazione’. Se e solo se il ‘Gattung’ costituisce
l’essenza dell’uomo, ovvero l’universale in cui però i singoli trovano un solido
radicamento ontologico, rimane il fatto che fra la dimensione originaria e
quella secondaria sussiste sempre una distanza, un solco differenziale. Non
è un caso, né tanto meno secondario il fatto che tale differenza emerga nella
circostanza della riflessione sui limiti umani, che non devono essere riferiti
all’uomo universale, ma sempre e comunque al singolo uomo: “Ogni
limitazione della ragione o dell’essenza dell’uomo in generale si basa su un
inganno, su un errore. Certamente, l’individuo umano può, e addirittura deve
48
SAGGI
sentire e conoscere se stesso come limitato - e in ciò consiste la sua
differenza dall’animale. Può, però, prendere coscienza dei suoi limiti, della
sua finitezza, soltanto perché la perfezione, l’infinità del genere gli è oggetto,
indipendentemente dal fatto che sia oggetto del sentimento, o della
coscienza morale, o della coscienza pensante. Se, tuttavia, fa dei suoi limiti i
limiti del genere umano, ciò è dovuto all’inganno di sentirsi una cosa sola con
il genere - un inganno che è intimamente connesso con l’indolenza, la
pigrizia, la vanità e l’egoismo dell’individuo. Infatti, un limite che conosco
come limite esclusivamente mio, mi umilia, mi fa vergogna e mi rende
inquieto. Perciò per liberarmi da questo senso di vergogna, da questa
inquietudine, trasformo i limiti della mia individualità in limiti dell’essenza
20
umana stessa.”
Mentre ne L’Essenza del Cristianesimo il problema rimarrebbe
aperto, nei Principi della filosofia dell’avvenire, troverebbe una chiara
soluzione poiché con “‘genere’ Feuerbach intende non qualcosa di astratto
ma una concreta realizzazione dell’essere-uomo negli individui […]. ‘Gattung’
non è un concetto diventato illusione o un’astrazione della realtà, ma la
21
concreta realtà dell’universale.” Nonostante questa precisazione, tuttavia è
difficile non notare che l’universalità del genere umano rimane distante dalle
sue individuali e singole realizzazioni, quasi un’ipostasi che mostra tutta la
sua divaricazione con gli uomini concreti. Proprio il recupero della
concretezza segna il confronto con l’idealismo di Fichte. In Spiritualismo e
22
materialismo Feuerbach radicalizza , com’è noto, la critica all’idealismo,
rivolgendo la polemica non solo verso Hegel ma anche e soprattutto verso
Fichte. Certamente Feuerbach dimostra che non gli sfugge l’ impostazione
teorica dell’idealismo, per cui non vi è un aprioristico rifiuto della ragion
d’essere del soggetto, assumendo così dell’ idealismo l’istanza di partire dal
soggetto, dall’io, dato che l’essenza del mondo dipende evidentemente solo
dalla mia soggettività; piuttosto egli contesta la pretesa dell’attività nullificante
dell’io che tenderebbe a neutralizzare dell’esteriorità. Alla pretesa di
inghiottire astrattamente nell’io il “tu” oggettuale, Feuerbach oppone una
concezione correlativa del polo soggettivo e di quello oggettivo, nella ferma
convinzione che l’io che toglie l’esistenza delle cose sensibili, non ha esso
stesso alcuna esistenza, è un io soltanto pensato e non reale. L’io reale è
soltanto quello a cui si contrappone un tu, un oggetto. Nell’ottica idealistica
non esisterebbe nessun tu, come non esiste nessun oggetto in generale. Al
trascendentalismo idealistico e alla sua arzigogolata operazione
soggettivistica di dissoluzione dell’oggetto si oppone la fedeltà alla realtà
esterna, all’umana, ineliminabile dipendenza da essa, rifiutandone
l’assunzione di fondo circa la modalità dell’indagine della realtà esterna, del
mondo, che nell’ottica idealistica si risolverebbe ad una mera faccenda di
49
ordine teorico. Tuttavia il mondo e tutti gli enti che lo compongono, prima di
configurarsi come oggetto del conoscere, quindi della speculazione teoretica,
costituiscono un oggetto del volere, cioè rientra originariamente nella sfera
pratica. Alla visione freddamente teoreticistica del mondo se ne oppone una
passionalmente volontaristica, nel suo slancio appropriativi dell’oggetto. Per
sostenere questa tesi Feuerbach insiste sul potere del desiderio, sul potere di
spinta appropriativa verso gli oggetti del mondo, rivelativi della fungenza della
volontà, ma anche della costitutiva dipendenza del soggetto dagli oggetti
esterni: “Il difetto fondamentale dell’idealismo è appunto questo, che esso si
pone e risolve la questione della oggettività e della soggettività. Della realtà o
dell’irrealtà del mondo solo da un punto di vista teorico, laddove invece il
mondo originariamente, da principio, è oggetto dell’intelletto solo perché è
oggetto del volere, della volontà di essere e di avere […]. Comunque, la
potenza del desiderio con cui mi approprio dell’oggetto, e lo consumo, non è
forse insieme un’espressione del potere che esso esercita sopra di me, della
mia dipendenza da lui? Non è forse un’espressione del fatto che esso mi è
indispensabile ed essenziale, che io vivo e sussisto soltanto mercé sua […],
in un rapporto non esclusivamente negativo, ma anche positivo, non solo di
23
dominio, ma anche di soggezione e di doverosa riconoscenza.”
Tutto ciò costituisce la necessaria premessa a tutta la costruzione
fichtiana di marca intellettualistica di derivazione, deduzione, dell’oggetto dal
soggetto: “Io sono e penso, anzi sento solo in quanto ‘soggetto-oggetto’, ma
non nel senso identico - o analitico, per usare l’espressione kantiana - di
Fichte, per cui, il pensante e il pensato sono una cosa sola con l’oggetto,
bensì nel senso per cui l’uomo, o la donna, è un concetto sintetico, difatti io
non posso sentirmi e pensarmi come uomo o come donna senza
oltrepassare me stesso, senza collegare al sentimento o al concetto di me
24
stesso il concetto di un altro essere diverso, ma insieme analogo a me.”
Già nell’ottica ermeneutica di Schmidt è stato evidenziata il fatto che
la potenzialità filosofica di Feuerbach risiede in primo luogo nello sviluppo in
chiave anti-idealistica dell’astrattismo gnoseologico, che ha affettato la
filosofia occidentale, dalla modernità fino ad Hegel. Il rifiuto della deducibilità
del mondo dalla dimensione tautologica dell’Io (Io=Io), nel ribadire
l’impossibilità di una soggettività chiusa in se stessa, si articola in via
definitiva in una gnoseologia definibile come “esistenzialismo della
corporeità”, in cui si sostanzia “una triplicità di elementi che sono soggettività,
25
corpo e mondo che formano un’unità concreta” . La contrapposizione a
Fichte trova nutrimento nella divergenza che Feurbach dimostra di avere
circa la considerazione assai differente della vera, autentica natura da
riconoscere all’io. In tal senso, assume rilevanza l’insieme di riflessioni
feurbachiane espresse nel recensire uno scritto del fichtiano J.F. Reiff,
50
SAGGI
sostanziatesi nel rigetto “di ogni posizione trascendentalista mettendo con
26
chiarezza l’accento sulla corporeità dell’io” . Alla posizione di Reiff Feurbach
oppone l’ineludibile apporto della dimensione empirica nel rinvenimento
dell’oggetto di conoscenza,giungendo a scorgere nel sodalizio fra riflessione
ed esperienza il terreno da cui emerge lo spirito: “Reiff poneva la differenza
essenziale tra la filosofia e le scienze nell’essere la filosofia - a differenza
delle seconde - priva di presupposti e di un oggetto determinato. A questo
Feurbach opponeva che l’oggetto sensibile come oggetto di scienza non è
precostituito, ma è trovato nell’empiria; quindi non è un prius per le scienze, è
un posterius. D’altro canto merito della filosofia moderna è di aver riunificato
‘l’attività empirica’ con ‘l’attività pensante’ […]. In questa fusione di empiriafilosofia, sensi-pensiero, l’empiria e i sensi appaiono come ciò da cui deve
scaturire poi il pensiero, lo ‘spirito’. È quindi dai sensi, dalla corporeità che
27
nasce lo spirito.”
Alla divergenza di vedute sulla vera natura dell’io si aggiungono le
riserve all’indirizzo delle specifiche soluzioni argomentative fichtiane volte a
fornire una spiegazione esauriente della ricettività, della passività dell’io, dello
stesso molteplice sensibile, della natura stessa, in definitiva a tutto quel
pacchetto di questioni attinenti al processo di deduzione che Fichte
concepisce per delucidare la derivazione dell’io empirico dall’Io assoluto,
nella fase in cui è il non-io ad agire sull’io. Sotto accusa è la nota
considerazione fichtiana secondo cui la stessa passività dell’io è, in realtà, un
aspetto particolare della stessa attività, nel senso che nella passività l’io non
è soggiacente a qualcosa che patisce, ma il patire stesso rientra nell’essere
attivo dell’io, per cui Feurbach sostiene, di contro, che la passività dell’io
rivela l’attività dell’oggetto.
Facendo valere la forza propria dell’oggetto sul soggetto,
enfatizzandone il potere vincolante sull’io, Feuerbach dimostra non solo di
approdare ad una sorta di realismo gnoseologico, ma appare suggerire una
prospettiva più ampia in cui l’io corporeo è il canale diretto e privilegiato ai fini
dell’instaurazione del rapporto con la dimensione mondana, nei termini della
maturazione di “una sorta di concezione ‘esistenziale’ del corpo, che
trascende ogni significato puramente conoscitivo per porsi come illimitata
28
apertura al mondo da parte della soggettività.”
La riconfigurazione concettuale feurbachiana operata sull’io, così
distante dal conferimento di un’assolutezza che gli consentirebbe uno
svincolo totale dall’umiliazione dei limiti impostigli dal mondo, bensì, al
contrario, concepita in termini di uno strutturale radicamento corporeo, nella
consapevolezza della non esauribilità della questione dell’io in termini
teoricamente gnoseologistici, quindi della necessità di un’integrazione della
dimensione umana dei bisogni e dei desideri, conosce come esito finale
51
anche un serio ripensamento dei tradizionali rapporti circa il riconoscimento
della priorità da stabilirsi fra processo razionale ed eruttività istintuale, per cui
si ribalta tale consolidata gerarchia, anteponendo l’originarietà dell’istinto
sullo stesso processo e sulla stessa attività razionale: “Forse che la luce non
è anch’essa un oggetto di desiderio e di piacere per l’occhio, e quel che è
toccabile non è un oggetto di piacere e di desiderio per il tatto?
E la mano è forse per noi soltanto ‘l’invitante compagna di dolci
galanterie’ nei confronti dell’altro sesso? Non accarezziamo con piacere
animali, cani, gatti, cavalli e persino oggetti inanimati esterni a noi? Il
bambino non vuole forse ciò che vede? Per lui l’oggetto dell’occhio idealistico
29
non è insieme anche oggetto della cupidigia realistica o materialistica?”
Emerge con una certa evidenza che le critiche dell’ultimo Feuerbach
alla filosofia fichtiana sono dichiaratamente funzionali ad un recupero della
dignità esistenziale dell’esteriorità, cioè della realtà, dell’oggettività-mondo,
unitamente e conseguentemente ad una riconosciuta centralità filosofica del
ruolo gnoseologico, e non solo, riconosciuto alla corporeità, ma anche alla
sensibilità in generale, quale canale principale di accesso al mondo,
rivalutando così tutta la sfera dei bisogni e dei desideri dell’uomo
singolarmente e concretamente inteso.
La portata di quest' approdo feurbachiano la si comprende appieno
se si considera l’osservazione effettuata in sede critica, secondo la quale
proprio “la ricezione della filosofia della sensibilità di Feuerbach” da parte del
giovane Marx abbia contribuito alla elaborazione di una visione politica sui
“Sistemi dei bisogni” combinata con un “processo di assimilazione della
30
filsofia di Hegel”.
Diversamente nel confronto con Hegel, al di là della tesaurizzazione
della categoria del “Gattung”, si può riconoscere la cifra polemica di
Feuerbach nella valutazione che ne ha fatto Pareyson nei suoi celebri Studi
sull’esistenzialismo, in cui, in ultima analisi, il filosofo della risoluzione della
teologia in antropologia è accomunato a Kierkegaard, riconoscendogli il
merito di aver espresso una filosofia per un verso emergente dallo
sfaldamento dell’hegelismo, per un altro verso sviluppo e implicazione dello
stesso idealismo assoluto: “Kierkegaard e Feuerbach hanno dunque svolto
dall’hegelismo due possibilità tipiche in esso implicite: il finito di fronte
all’infinito e il finito come infinito; l’uomo davanti a Dio e l’uomo-Dio; la
soggettività della verità e l’umanizzazione di Dio; il teismo e l’ateismo, il
31
teandrismo e l’umanismo.”
In conclusione, senza la tentazione della non rivedibilità
ermeneutica, il confronto feuerbachiano con le filosofie di Hegel e di Fichte
traccia due direzioni di pensiero, che, differenziandosi, in realtà si
completano, strutturando così una linea concettuale coerente e organica. Da
52
SAGGI
un lato, infatti, la ripresa della categoria hegeliana del “Gattung”, come si è
cercato di evidenziare, sfocia nel riconoscimento cioè del riconoscimento
dell’infinitudine del genere umano, che si complica nel quadro della
concepibilità dei rapporti fra l’Uomo e gli uomini, fra Universale e particolare,
tema su cui Leonardo Casini ha ribadito le sue perplessità circa l’esito reale
della filosofia feurbachiana nel suo sforzo di conferire al “gattung” una
32
“concreta realizzazione” .
Dall’altro, la polemica sviluppata all’indirizzo di Fichte sviluppa
potentemente l’esigenza del recupero della concretezza umana dentro la
cornice di una visione sensistica e corporea, testualmente tangibile
nell’evoluzione della sua filosofia, che appare suggerire la tacita concezione
di una sorta di umanesimo della finitudine, una vera e propria ≪negazione di
un entusiastico antropocentrismo, che svincola l’uomo dalla natura e dalle
33
vicissitudini della storia del mondo≫ , ma che, al contrario, considera le
limitazioni e i patimenti a cui è costitutivamente esposto.
53
1
L. CASINI, Storia e umanesimo in Feuerbach, Il Mulino, Bologna 1974, p. 374.
Ivi, p. 38.
J. MADER, Fichte Feuerbach Marx, Leib dialog Gesellschaft, Verlag Herrder, Wien
1968, p. 93.
4
L. CASINI, op. cit., p. 40.
5
Iibidem.
6
U. PERONE, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Torino 1972, p.
147.
2
3
7
J. GRANDT, Ludwig Feuerbach und Die Welt des Glaubens, Verlag Westfalisches
Dampfboot 2006, p. 25.
L. FEUERBACH, Zur Kritik der Hegelschen philosophie, Gesammelte Werke, Akademie
Verlag-Berlin-1970, vol. 9, 1839-1846, pp.16-17, trad. it. Per la critica della filosofia
hegeliana, in Opere, a cura di Claudio Cesa, Laterza, Bari 1965, p. 109.
9
L. FEUERBACH, Zur Kritik der hegelschen philosophie, Gesammelte Werke, cit., vol. 9,
p. 25, trad. italiana, Per la critica della filosofia hegeliana, in Opere, cit.,p. 177.
10
Ivi, p. 42, e trad. p. 134.
11
Ivi, p. 44 e trad, p. 136.
12
Ivi, pp.42-43 e trad. p. 135.
13
Ivi, p.44 e trad. p. 137.
14
Ivi, 52-53 e trad. p. 145.
15
Ivi, p. 61 e trad. p. 154.
16
Ivi v..10, p. 158 e trad. p. 351.
17
Ivi, pp.155-156 e trad. p. 348.
18
Ivi, vol. 5, pp. 341-342 e trad. p. 249.
19
M. BYKOVA, Subjektivitat und Gattung, “Internationale Feuerbachforschung”,
Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 122.
20
Ibidem.
21
L. FEUERBACH, Das Wesen des Christentum, cit., v..5, pp.37-38; trad. it. cit, pp. 69-70.
22
M. BYKOVA, op. cit., p. 124.
23
In un’ottica che si apre al ripensamento del materialismo di Feurbach riteniamo
importante non dare per scontato questo aspetto, considerato che proprio in
Spiritualismo e materialismo è degna di nota la ricezione feurbachiana del pensiero di
Molescott nelle motivazioni al rifiuto dell’esito ultimo dell’idealismo, cioè la
soggettivizzazione dell’oggettivo, della definitiva spiritualizzazione dell’oggetto:
“Quando Feuerbach nei suoi scritti più maturi affrontò Molescott e la sua teoria
dell’alimentazione,lo fece nello spazio di una critica all’idealismo […]. La riduzione
dell’oggetto - sia in virtù dell’idealismo o della Religione - a mera manifestazione
fenomenica […], risulta nella prospettiva di Feuerbach falsa ed è duramente attaccata
in conformità dei suoi scritti di cultura scientifica sul nutrimento.” J. HYMERS,
Verteidigung von Feuerbach Molescott-Rezeption:Feurbachs offene dialektik,
“Internazionale Feuerbach Forschung”; Ludwig Feuerbach (1804-1872), Wax Mann,
Münster 2006, p. 134.
24
L. FEUERBACH, Spiritualismus und Materialismus, Gesammelte Werke, cit.,v. 4; trad.
it. Spiritualismo e materialismo, a cura di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 186187.
25
Ivi, p. 172 e trad. p. 184.
26
C. SCHMIDT, Il Materialismo antropologico di Ludwig Feuerbach, De Donato editore,
Bari 1973, pp. 129-130.
27
L. CASINI, La riscoperta del corpo, cit., p. 154.
28
Ibidem.
29
L. FEUERBACH, Spiritualismus und Materialismus, cit., v.4, p. 173 e trad. p. 186.
30 J. KANDA, Die Feuerbach-Rezeption des jungen Marx im Licht der
Junghegelialismus-Forschung, in “Internationale Feuerbachforschung”, Waxmann
Verlag, Münster 2006, p. 115.
31
L. PAREYSON, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni editore, Firenze 1950, p. 72.
8
54
32
L. CASINI, Die Globalisierung: Eine verwirklichung ode rein dementi des
feuerbachschen universalen Humanismus, “Internationale Feuerbachforschung”,
Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 230.
33
L. M. ARROYO, War Feuerbach ein “Verkenner des Bosen”? “Internationale
Feuerbachforschung”, Waxmann Verlag, Münster 2006, p. 65.
55
TH. W. ADORNO. L’ESTETICA MUSICALE E LA FORZA DELLA CRITICA
di Giacomo Fronzi
Nonostante Theodor W. Adorno sia autore oramai divenuto
“classico”, riferimento ineludibile per ricerche di natura filosofica, sociologica
o estetica, e nonostante ci si potrebbe considerare quasi assuefatti alla sua
originale “teoresi di rottura”, affrontare i testi adorniani suscita, ancora oggi,
fascino, disorientamento ed estremo interesse.
Adorno, nella sua multiforme attitudine critica, si è soffermato su
molti e diversi aspetti della società tardo-capitalistica, producendo analisi
imprescindibili: dalle diagnosi sulla crisi della società borghese e sulle
degenerazioni della società capitalistica post-industriale all’analisi delle
perverse connessioni tra sviluppo economico sempre più pervasivo e
produzioni culturali, dalla teorizzazione (con Max Horkheimer) dell’“industria
culturale” alle pregnanti e controverse indagini di natura estetologica e
musicologica. Ma, a fronte di questa estrema diversificazione interna, la
riflessione adorniana nasce, innanzitutto, come riflessione musicologica. Nel
1922, quando venne costituito a Francofore sul Meno l’“Istitut für
Sozialforschung”, al suo interno mentre Max Horkheimer ed Herbert Marcuse
si occupavano di Filosofia, Henryk Grossmann di Economia e Leo Löwenthal
di Letteratura, Adorno si interessava di Musica. Possiamo, dunque,
sostenere che la riflessione adorniana ha da sempre e da subito investito
temi e questioni relative alla musica e ai suoi intrecci con la storia e con la
società.
Fin dall’inizio si rese manifesta la carica innovativa e dirompente
dell’approccio teorico di Adorno. Fu «enorme l’impatto di un’analisi della
musica che si fondava sui materiali e impostava la critica in una prospettiva
sociale e filosofica, del tutto inedita […], anche per la netta prevalenza tra i
1
critici dell’eredità del pensiero crociano» . Le tesi di Adorno scossero il
panorama teorico italiano alla fine degli anni Cinquanta, esattamente nel
1958, anno di pubblicazione dell’edizione italiana di Philosophie der Neue
Musik. Da quel momento anche i nostri musicologi e filosofi della musica non
poterono più fare a meno di confrontarsi con le ricerche adorniane,
manifestando ora piena sintonia ora profonda idiosincrasia.
Negli ultimi cinquant’anni si sono susseguiti innumerevoli studi
sull’estetica adorniana e, più in particolare, sulla sua filosofia della musica,
tracciando una lunga tradizione critico-interpretativa, i cui risultati, però, non
sempre hanno colto fino in fondo lo spirito che animava quella filosofia. Ma
cosa ne è rimasto di quello spirito? La peculiare e controversa carica critica
56
SAGGI
che ha contraddistinto l’opera di Adorno è da considerarsi come un oggetto
d’antiquariato intellettuale o da essa possiamo ancora tentare di raccogliere
preziose indicazioni teorico-pratiche?
Quel che è certa è la straordinaria distanza, di natura storicopolitico-sociale più che cronologica, che ci separa dagli ruggenti e convulsi
decenni in cui è vissuto Adorno, decenni che, per quel che concerne l’arte e,
più in particolare, la musica, hanno visto una costante e ferma volontà di
realizzare opere fortemente connotate da un punto di vista ideologico,
tentando di recidere qualsiasi legame, reale, presunto o semplicemente
ipotetico, con «la natura dell’uomo o del mondo in cui l’uomo è condannato a
2
vivere» . Enrico Fubini rileva come la musica degli anni Cinquanta vivesse di
questa grande e nobile utopia, condivisa da molte ideologie del tempo
passato, e che proclamava l’insensatezza della musica come «ideale
supremo» al quale ispirarsi. E’ in questo Zeitgeist che si muove Adorno, nel
tentativo di sostenere e attribuire un senso, per un verso storico e per altro
verso sovrastorico, a questi movimenti tellurici della musica occidentale. Ma
essendo noi così lontani da quello spirito e da quei profondi scontri ideologici,
possiamo ipotizzare un’estetica musicale post-adorniana? Tanto Fubini
quanto Cappelletto convengono sul fatto che Adorno può, a ragione, essere
considerato l’ultimo filosofo della musica e la sua può essere considerata
l’ultima forte teoria della musica. Sebbene ad Adorno sia stato spesso
rimproverato da parte dei musicologi di essere eccessivamente “filosofo” e,
da parte dei filosofi, di essere troppo “tecnico” nelle sue analisi (come non
ripensare alla frase di Friedrich Schlegel che Adorno avrebbe voluto inserire
in epigrafe alla sua Teoria estetica, secondo la quale in ciò che viene
chiamato filosofia dell’arte manca sempre una della due: o la filosofia o
l’arte), egli è riuscito ad elaborare un pensiero che, come nessun altro dopo
di lui, è giunto alle soglie del suo obiettivo più intimo, vale a dire alla «sintesi
tra i due “campi visivi”», sintesi che nessuno è riuscito a replicare, il che
significa che quel che incuteva timore e perplessità, «“preoccupante” e
3
“singolare”, oggi risulta perduto» . La potenza critica e teorica dell’impianto
adorniano ha lasciato il posto ad una neutra attività di descrizione, molto più
attenta ad evitare valutazioni e giudizi che possano smascherare, con la
forza del concetto e del pensiero, la banalità e l’equivalenza della maggior
parte dei prodotti della musica d’arte.
Il vero problema, dunque, è che il nostro momento storico non è più
un campo di forze all’interno del quale gruppi di artisti o singoli artisti si
fronteggiano con irriducibile vigore creativo, bensì un campo di battaglia
deserto, «in cui non solo non c’è più un pensiero forte ma non c’è più
4
neppure una realtà forte» , ragion per cui non è storicamente possibile
formulare «una teoria estetica capace di fornire un’interpretazione univoca
57
5
della realtà» . È, pertanto, la stessa realtà, presentandosi così differenziata
ma, al contempo, così indifferente ad impedire il sorgere di una filosofia della
musica forte, che riesca, come ci è riuscita quella adorniana, ad interpretare
e valutare la realtà musicale di oggi. Se, per un verso, questo
depotenziamento generale del pensiero ha prodotto una riduzione delle
derive estremistiche e totalitarie, è anche vero che la rinuncia ad un pensiero
forte, nel campo estetico, «può portare, come in effetti avviene, alla rinuncia
a distinguere tra valore e disvalore estetico, favorendo una forma di
giustificazione e accettazione dello stato di fatto, dell’esistente in quanto
6
esistente» . È evidente il grado di inefficacia e di dannosità proprie di un
atteggiamento di questo genere, autenticamente irresponsabile e votato alla
reiterazione della neutralizzazione delle differenze, delle qualità e, da un
punto di vista strettamente filosofico, del contenuto di verità delle opere
d’arte, ma anche alla graduale cancellazione del passato. Il paradigma
contemporaneo è centrato sul mito del “nuovo”, di un novum senza radici e
senza passato. Nel migliore dei casi esso non è che un «cumulo di detriti su
cui si può liberamente operare un saccheggio, come gli sciacalli dopo le
7
alluvioni o i terremoti» . I compositori di oggi sono davvero «più lucidi, più
8
aperti e più liberi come ci piace credere?» oppure rivisitano il passato
mancando di realizzarne il messaggio, sopprimendo le tensioni storiche e le
differenze?
Tanto la critica quanto l’arte odierne – sebbene le eccezioni non
siano poche ed irrilevanti – sembrano orientate, più che dal desiderio di
incidere sul progressivo miglioramento dello status quo, dalla passiva
accettazione dell’emergere caotico ed incontrollato di realtà spesso
inconsistenti. «In un mondo del ‘tutto è possibile’, ‘nulla è vietato’, in un
mondo in cui tende a scomparire il confine tra la libertà come scelta e la
libertà come indifferenza alla scelta, la filosofia della musica non trova un
9
terreno propizio al suo sviluppo» . Ed ecco che quella di Adorno finisce per
rappresentare «l’estrema frontiera, il canto del cigno per la filosofia della
10
musica» , in un presente in cui si sente la mancanza di un pensiero critico
forte, capace di intrecciare, nell’analisi della realtà musicale, il movimento
storico con quello socio-antropologico, individuandone e chiarendone tanto
gli elementi positivi quanto quelli negativi, producendo, in definitiva, delle
distinzioni e delle differenze.
Detto ciò, si pone il problema, di natura metodologico-procedurale,
circa i parametri ed i criteri che un pensiero critico dovrebbe utilizzare e
mettere in campo per poter produrre delle valutazioni. Restando all’interno
dell’orizzonte adorniano, ci pare di una certa utilità richiamare l’attenzione su
una particolare ed enigmatica categoria, del tutto centrale nell’estetica
musicale di Adorno, quella di «materiale musicale». Tale nozione, alla quale
58
SAGGI
ci si è riferiti molto di frequente ma senza mai analizzarne fino in fondo la
portata e le implicazioni, può giustamente essere considerata come uno dei
possibili strumenti di valutazione, dal momento che essa, nella prospettiva
adorniana, è strettamente connessa con il processo di Aufklärung in musica.
Il materiale musicale è una funzione del progresso e un compositore potrà
dirsi progressista soltanto quando riuscirà a cogliere il materiale al livello più
avanzato della sua dialettica storica.
La nozione di “materiale”, dicevamo, è particolarmente enigmatica,
tanto sfuggente quanto sempre presente nella produzione adorniana, fin
dagli anni Trenta. Tale concetto si offre, proprio in virtù di questa sua
costante presenza, ad essere utilizzato come fil rouge dell’estetica musicale
del Francofortese, anzi, sarebbe il «concetto cardine» di un’estetica musicale
che va ricondotta, secondo la Zurletti, «a una visione più articolata e meno
11
schierata della musica» e che, tra i vari risultati positivi, consentirebbe di
individuare al suo interno «una mai sospettata matrice “strutturalista”»,
nonché «una soggiacente teoria della comunicazione musicale che Adorno
12
ha lasciato non tematizzata» .
Un concetto dal «carattere inafferrabile», quello di “materiale
musicale”, e la cui mancata definizione, da parte di Adorno, «ha il peso di
una scelta teoretica: il materiale non può e non deve essere definito
positivamente perché è non-concreto, entità astratta, dispositivo
13
condizionante situato al cuore dell’esperienza musicale» . La nebulosità
della nozione di cui stiamo parlando, in via preliminare, può essere ricondotta
in qualche modo all’oscurità dello stile della scrittura di Adorno, uno stile che
14
rivela una vera e propria «valenza estetica» dell’argomentare , il che solleva
il problema dei criteri di riferimento da applicare al pensiero adorniano.
L’oscillazione di questi criteri di riferimento si verifica tra due poli, tra «due
15
piattaforme metalinguistiche» : modo tecnico-scientifico e modo poeticoletterario. Dall’utilizzo di queste due modalità di senso, che si alternano, si
sovrappongono, si sostengono reciprocamente, avvalendosi delle rispettive
connotazioni tecniche e stilistiche, scaturisce un andamento del discorso che
oscilla tra rigore analitico e «pirotecnica verbale», tra fluire lineare e
spostamento violento ed improvviso del peso dell’argomentazione. Ma,
continua la Zurletti, c’è «un’altra possibilità, quella che si verifica quando
Adorno fa in modo da spostare il peso del discorso da una piattaforma
metalinguistica all’altra in modo che tale spostamento risulti praticamente
16
impercettibile al lettore» .
Spesso si ha la sensazione di essere respinti da questo particolare
intrico di stile, forma letteraria e organizzazione linguistica, un intrico
respingente che rinvia, però, ad una più accurata e attenta analisi, dal
momento che, adornianamente, quel che è è più di quel che è. Nei testi
59
adorniani, l’estenuante ricerca della più giusta forma linguistica ed espressiva
da adottare finisce per «oscurare il suo pensiero più di quanto non riescano a
17
chiarirlo e a comunicarlo» .
Il riferimento al problema stilistico in Adorno, comunque, non va
considerato sic et simpliciter come una quasi doverosa premessa alla
trattazione successiva, bensì come un ulteriore elemento a sostegno della
tesi per la quale il concetto di “materiale musicale” non viene definito una
volta per tutte da Adorno. Il sapiente gioco tra piattaforme linguistiche che il
filosofo di Francoforte mette in scena spesso produce una disarticolazione tra
premesse e conclusioni, laddove le prime e le seconde le si trovano su piani
differenti se non addirittura in opere differenti. Ciò accade anche per la
nozione di materiale musicale, il che implica una difficile e problematica
ricostruzione, analisi ed interpretazione delle pagine adorniane, rispetto alle
quali bisognerebbe porsi come un «ascoltatore responsabile», considerando
che «ogni volta che elementi apparentemente estranei, che non stanno in
una relazione reciproca, configurazioni fraseologiche a prima vista
inesplicabili, se ascoltate attentamente si rivelano invariabilmente come parte
di uno stesso contesto di senso, di una «costellazione» che può estendersi
18
su un’intera opera o addirittura attraverso più opere» .
Ma cerchiamo di entrare nello specifico delle questioni teoriche che
il concetto di materiale musicale richiama. Innanzitutto: cosa dobbiamo
intendere per materiale musicale? Esso «non deve essere concepito come
l’insieme delle opzioni tecnico-formali che si offrono al di fuori del tempo.
Esso deve essere inserito al contrario in un sistema di coordinate dove è
funzione del progresso della storia musicale, e del rapporto di questa con la
19
«struttura» e le dinamiche primarie del sociale» . Emerge immediatamente il
carattere storico e sociale di tale nozione. Rifondando il rapporto tra
«possibilità di decisione» del compositore e «stato del materiale», Adorno
concepisce l’azione compositiva non come una risposta automatica e
meccanica alle esigenze che esprime un’epoca. La libertà di tale azione,
ricorda l’Autrice, non poggia sull’idea del compositore come colui che agisce
su di un terreno privilegiato, lontano dalla cruda e lacerata realtà, in una
dimensione quasi incantata. La libertà del compositore è circoscritta al suo
modus operandi, per così dire, alla sua sensibilità, alla sua poetica, alla
tecnica (sebbene anch’essa sia storicamente determinata), ma ha,
purtuttavia, una delimitazione: se, ad esempio, per Krenek l’opera deve
rispondere prioritariamente alle esigenze espressive individuali, per Adorno il
compositore deve comprendere cosa va fatto, in relazione a quel dato
momento storico-sociale. Compositore progressista sarà, allora, colui che
riuscirà a cogliere ogni volta il materiale al livello più avanzato della sua
dialettica storica. «La libertà del compositore, secondo la rivelazione di
60
SAGGI
questa nuova concezione di materiale musicale, si fermerebbe dove
20
comincia la libertà dell’opera» .
Il materiale musicale, dunque, è un’istanza esterna e che agisce
sull’opera in maniera condizionante, ma dall’esterno. Esso è imposto al
soggetto «in quanto “storia sedimentata”, “spirito sedimentato”». A questo
punto, però, va richiamato il rapporto che intercorre tra materiale e tradizione,
dal momento che il materiale non è che «l’insieme di tutte le “Stoffe” e
“Techniken” testimoniate dalla tradizione, più tutte quelle che la futura pratica
21
compositiva sia suscettibile di testimoniare» . Da queste affermazioni
emerge un altro aspetto del materiale: la sua fondamentale apertura;
apertura che è creatività ma anche finalità. Esso, se colto al massimo grado
della sua dialettica storica, traduce in musica la storia sedimentata e lo spirito
sedimentato; questo significa che il materiale, essendo un’istanza anonima e
astratta, si contrappone, in qualche modo, all’individuale e concreta opera
d’arte nella quale, ciononostante, esso si manifesta. Riferirsi all’individualità e
concretezza dell’opera significa fare riferimento al concetto di «forma», altra
nozione cardine dell’estetica adorniana.
Detto in estrema sintesi, «il termine forma indica il condensato della
razionalità propria dell’arte, l’organizzazione di ogni singolo elemento
dell’opera, in modo che esso «parli» coerentemente col tutto ma resti
22
individuato» . La forma rappresenta, dunque, la coerenza interna dell’opera
d’arte, essa funziona come un «magnete» che attrae elementi empirici dalla
realtà, riorganizzandoli coerentemente, «li estrania al contesto della loro
esistenza extraestetica e solo così essi possono diventare padroni
23
dell’essenza extraestetica» . Ciò vuol dire che la forma per un verso
garantisce coerenza all’opera e, per altro verso, separa l’oggetto dal
«puramente esistente», compiendo il passaggio dall’oggetto empirico
all’oggetto estetico. Questo meccanismo, per il quale l’oggetto artistico viene
separato dall’esistente e si determina, anche attraverso il processo di
costruzione, come contenuto, «non ha niente a che vedere con un dispositivo
astratto e anonimo come il materiale, la cui distinzione dall’attualità dell’opera
24
è ben puntualizzata da Adorno» . L’analisi del concetto di materiale
musicale ha indotto la Zurletti ad individuarne quattro qualità: arbitrarietà,
carattere sociale, carattere storico, carattere di costrizione. Tale partizione,
passa attraverso un’antinomia presente in Teoria estetica, per la quale il
materiale è un «patrimonio passivo» che giunge agli artisti sotto la pressione
della tradizione e, contemporaneamente, fonte di una «costrizione attiva»
sugli stessi artisti per indurli ad una «standardizzazione del comportamento
25
espressivo» . La soluzione dell’antinomia, già accennata in precedenza, è
l’idea adorniana di una sorta di libertà espressiva condizionata dal materiale,
26
che «detta e garantisce le condizioni del senso musicale» . Ma
61
ripercorriamo i quattro caratteri che possono consentire di meglio definire la
sfuggente nozione di materiale musicale.
Arbitrarietà. Il carattere di arbitrarietà, dal quale discendono le altre
tre qualità, è legato alla natura selettiva del materiale. Esso funziona come
un dispositivo, per nulla necessario ma, al contrario, arbitrario, che seleziona
dei suoni e delle combinazioni sonore tra l’infinita massa possibile,
obbligando il compositore (ma anche l’ascoltatore) a riferirsi ad esse e ad
esse soltanto. Il materiale funziona, per certi aspetti, come una lingua: «essa
suddivide il continuum dell’esperienza in modo arbitrario e irripetibile, e
27
obbliga i parlanti a servirsi del repertorio che risulta da tale selezione» .
L’analogia con i meccanismi della lingua, da ricondurre principalmente alla
teoria del linguaggio di Hjelmslév, è particolarmente efficace, tanto per il fatto
di fare emergere il «carattere linguistico della musica» quanto per via della
percezione di oggettività che la lingua, mediante la convenzionalità delle sue
strutture, manifesta, oggettività assimilabile alla presunta naturalità del
sistema tonale in musica. Tale presunta naturalità viene fortemente criticata e
rifiutata da Adorno, per il quale «il materiale «filtrato attraverso il sistema
temperato», cioè il materiale della tonalità, è […] possibile allo stesso titolo di
altri […] è, senza alcun dubbio, prodotto della cultura, «artificio» di una certa
società, nomos universalmente riconosciuto opposto a ogni possibile
28
tentazione di riconoscervi una physis» .
Si tratta, indubbiamente, di un problema spinoso. Il grande pubblico,
l’orecchio “comune” continua ad essere più reattivo nei confronti di una
melodia dispiegata o, come direbbe Adorno, di un «poderoso crescendo
dinamico» piuttosto che verso gli sperimentalismi armonici, formali, timbrici e
sonori delle avanguardie e delle neoavanguardie. L’ascoltatore che segue
con attenzione il flusso musicale, giunto ad un accordo dissonante, si
dispone nell’attesa della sua risoluzione. La musica atonale e dodecafonica
tradisce questa aspettativa. L’accordo dissonante, ormai del tutto
emancipato, non sussiste più come anticipazione di un accordo consonante,
bensì acquista valore, senso e contenuto di per sé; «le dissonanze, nate
come espressione di tensione, di contraddizione e di dolore, si sono
sedimentate diventando “materiale”. Non sono cioè più mezzi
dell’espressione soggettiva, ma in questo non rinnegano affatto la loro
29
origine, e divengono caratteri della protesta oggettiva» . L’effetto che questo
nuovo tipo di musica aveva sugli ascoltatori era legato al fatto che «le
dissonanze che li spaventa[va]no parla[va]no della loro condizione personale,
30
e unicamente per questo [riuscivano] loro insopportabili» o perché «il nuovo
rivela[va] violentemente, con l’inganno della loro civiltà, l’incapacità alla
31
verità, che non [era] solo la loro incapacità individuale» . Se non si tratta di
62
Carattere sociale. La grande capacità «camaleontica» del sistema
tonale ha fatto sì che esso potesse radicarsi nella cultura dei popoli in
contesti ed epoche differenti, dimostrando di riuscire ad adattarsi alle
«esigenze comunicative di società diverse». Questo significa che però,
essendo una costruzione del tutto arbitraria, il materiale dipende da «una
sorta di contratto sociale, stabilendo quindi che soltanto il consenso
36
generalizzato dei musicisti garantisce la sua concreta validità» . Il materiale,
come il sistema tonale e come i codici linguistici, nasce per circolare nella
società, viene ripreso, elaborato, modificato, si evolve e riesce a mantenersi
in vita proprio in virtù di questi adattamenti costanti. Esso è mediazione sotto
un duplice aspetto: è termine intermedio tra «immediatezza sociale» e
SAGGI
una questione di “naturalità” del sistema tonale e “innaturalità” di quello
atonale, è possibile educare l’orecchio a certa musica (non più)
32
contemporanea? . Forse la rottura che si è creata tra ascoltatori e musica
contemporanea ha motivazioni, oltre che “pedagogiche”, specificamente
percettive. Ci riferiamo al meccanismo che la psicologia ha definito
“automatismo percettivo”. Il punto è che la musica che “piace”, grazie
all’aderenza a criteri quali la simmetria, l’ordine, la consonanza, l’armonia,
risponde effettivamente proprio a quelle esigenze percettive dell’uomo
individuate, e scientificamente ormai acquisite, dalla Gestalttheorie. Alla luce
di ciò andrebbe rivista la posizione di Adorno il quale, per rispondere alla
critica di intellettualismo frequentemente mossa alla nuova musica, afferma
che coloro i quali muovono tale “rimprovero” ragionano «come se l’idioma
tonale degli ultimi trecentocinquant’anni fosse “natura”, e come se fosse
33
contro natura il superare ciò che ha ristagnato col tempo» . Sulla stessa
linea si pone anche Arnold Schönberg, affermando che «la tonalità si è
rivelata non un postulato di condizioni naturali […] Poiché la tonalità non è
una condizione imposta da natura, è privo di senso insistere nel conservarla
34
in base ad una legge naturale» . Anton Webern, dal canto suo, si
preoccupava di sottolineare la comune ascendenza della tonalità e
dell’atonalità: durante delle lezioni tenute a Vienna nel 1932 sosteneva la
“nuova causa”, rilevando come «quanto adesso viene denigrato ci è stato
dato dalla natura allo stesso modo di ciò che si è praticato fino ad oggi».
Webern risolve, dunque, la questione riconducendo a “natura” tanto la
tonalità quanto l’atonalità.
Dal punto di vista di Adorno, invece, «la tonalità è il codice che la
società occidentale si è data per esprimere musica durante quattro secoli:
dunque semplicemente un dispositivo convenzionale, un codice
35
completamente arbitrario» , esattamente come quelli linguistici. Dunque, il
materiale non è naturale, ma sociale e storico.
63
«opera d’arte», ma lo è anche tra «individuo compositore» e «società»,
garantendo un flusso di comunicazione tra i due soggetti. Il materiale
musicale è un dispositivo che è comune a tutti i membri della comunità e che
esercita una funzione di «universale della comunicazione». Tale funzione è
legata a doppio filo alla straordinaria capacità camaleontica a cui abbiamo
fatto riferimento, ad una particolare «duttilità» del sistema tonale che gli ha
consentito di resistere nel tempo, rinnovandosi e “imponendosi” come una
«seconda natura».
Ma, e arriviamo ad un altro punto centrale, il sistema tonale è l’unico
«dispositivo capace di esprimere le classi di tutto ciò che viene prodotto al
37
livello della composizione individuale» . Quindi l’abbattimento ed il
superamento del sistema tonale non è che «lo smantellamento dell’unico
38
dispositivo che rendeva possibile la comunicazione musicale» , un
dispositivo arbitrario, astratto, sociale, sovraindividuale e, quindi, storico.
Carattere storico. Dichiarare la storicità del materiale ha diverse
conseguenze. Innanzitutto significa sottrarre, seppure a breve termine, il
materiale alla possibilità di essere modificato da parte del singolo individuo, il
quale si trova a doversi confrontare con esso, senza averlo potuto scegliere.
Ciò vuol dire, inoltre, che «rivendicare il carattere storico del materiale in
quanto dispositivo comunicativo significa […] sottrarre tale dispositivo alla
39
volontà esclusiva dei compositori» . La loro libertà creativa è primariamente
e preliminarmente circoscritta dal materiale, rispetto al quale essa si potrà
esercitare. Eppure considerare il materiale così astratto e sovraindividuale da
non poter essere in alcun modo scalfito dall’azione individuale sarebbe
sbagliato. Come spesso accade nelle argomentazioni adorniane, anche il
concetto di materiale presenta delle connotazioni che, dialetticamente,
possono rovesciarsi nel loro contrario. Nel caso in questione, il materiale è
allo stesso tempo «inalterabile» e «continuamente alterato», per un verso
«l’individuo non può fare niente per modificare gli equilibri interni del
materiale» ma, per altro verso, «è anche vero che il germe dei cambiamenti
che investono il materiale nel suo complesso deve essere ricercato, in ultima
40
analisi, in un’iniziativa individuale, un atto sovversivo di parole in musica» .
Iniziative di questo genere si sommano e si sedimentano nel tempo, in
maniera lenta ma costante e continua. I tentativi “sovversivi” posso avere
effetti trasformanti solo nel tempo, nelle interazioni con altri tentativi, e
soltanto dopo un lungo processo di questa natura le modifiche potranno
essere assorbite nel codice e si avrà, conseguentemente, una innovazione
strutturale. Il materiale, dunque, è soggetto all’innovazione e al cambiamento,
coerentemente con una visione, come quella adorniana, fedele al
«presupposto di un telos interno che regola l’evoluzione musicale e che
64
Carattere di costrizione. Anche in relazione alla quarta ed ultima
qualità del materiale musicale, emerge l’analogia tra questa nozione cardine
dell’estetica musicale adorniana e la strutturazione dei codici linguistici.
L’aspetto costrittivo viene esercitato dal materiale sui compositori e sugli
ascoltatori così come lo esercitano i codici linguistici sui parlanti. Il
compositore, così come il parlante, «si conforma spontaneamente al sistema
di relazioni stabilito dal codice [nel nostro caso, dal materiale] per verificare la
compatibilità di ciò che vuole esprimere con le categorie espressive
44
riconosciute dalla comunità» . Il materiale, dunque, proprio come i codici
linguistici, esercita una doppia pressione, una più evidente ed un’altra meno
evidente. La prima è quella alla quale abbiamo appena fatto riferimento; la
seconda, invece, è «una costrizione più profonda che riguarda la facoltà
45
stessa di percepire la possibilità dell’espressione» , ed è legata alla funzione
selettiva del materiale. Il compositore si trova ad esprimere gli aspetti della
realtà che sono stati, preliminarmente e preventivamente, selezionati dal
materiale: «esso fornisce e impone alla composizione sia la serie di elementi
minimi atti a connettersi in strutture comunicative che i modelli per strutturare
SAGGI
41
rende irreversibile il progresso musicale» . E proprio in virtù di questa
visione teleologica e progressiva della musica, il materiale si presta, per le
proprie caratteristiche, a funzionare come parametro di valutazione, come
«gradiente dell’evoluzione». La Neue Musik rappresentava, in ordine
cronologico, l’ultimo stadio di sviluppo della musica, uno sviluppo segnato da
una sempre maggiore razionalizzazione dei mezzi musicali e orientato verso
la neutralizzazione del sistema tonale. La Nuova Musica aveva come
obiettivo l’opera d’arte integrale, momento finale di un processo di
razionalizzazione di tutte le dimensioni legate alla prassi compositiva e che
non è difficile leggere come la specificazione in musica del generale, radicale
ed universale processo di Aufklärung distintivo del cammino dell’Occidente.
Razionalizzazione, in musica, va intesa come «la rottura delle frontiere che
limitavano l’espressività musicale soltanto alle configurazioni tonali, e
l’allargamento del materiale a elementi che prima restavano esterni al
42
codice» , offrendo così alla musica, come ebbe a dire Anton Webern, «un
mare di suoni mai uditi». È questa la chiave di volta per comprendere la
funzione ed il senso che Adorno attribuisce al Progresso musicale e alla
dialettica storica del materiale che, in ultima analisi, sembra terminare nel
suo rovesciamento: il materiale, sostiene Zurletti, una volta reso dalla Nuova
Musica totalmente razionalizzato «sembra fruire di una posizione
metastorica: qualunque combinazione si voglia istituire fra i suoni, da questo
momento in poi, è valida come qualunque altra visto che sono tutti
43
fisicamente possibili» .
65
46
tali elementi in sequenze sensate» . Eppure il materiale musicale, inteso
come un «codice-competenza» non è consultabile come un manuale, non è
un libro sacro nel quale poter scorrere norme e regole alle quali attenersi. E,
47
viceversa, percepito come «il sentimento della possibilità dell’opera» , è
qualcosa che si subisce: «la struttura e il funzionamento del materiale
48
musicale non sono interamente esplicitabili in concetti» , il che spiegherebbe
in parte il motivo per il quale Adorno non tematizza esplicitamente e
chiaramente il concetto di materiale.
L’interesse suscitato dall’analisi della nozione di materiale musicale
in Adorno che Sara Zurletti ha prodotto, va, comunque, riconvertito in una
generale attenzione che andrebbe nuovamente rivolta all’estetica musicale
adorniana, la cui densità e ricchezza di prospettive rimangono indiscutibili.
L’aver voluto ricondurre l’estetica musicale di Adorno ad un unico concetto,
tuttavia, può nascondere qualche rischio che, nel caso specifico della
produzione adorniana, è sempre presente e nel quale l’Autrice abilmente e
rigorosamente non cade. Il pensiero adorniano si può ben definire un terreno
instabile e pericoloso, all’interno del quale ogni aspetto va messo in relazione
e in rapporto sia con il tutto sia con altre singole parti. Alla sua dialettica
interna dovrebbe seguire una sorta di dialettica metodologico-interpretativa
che possa tenere conto del reticolo, tanto affascinante quanto, talvolta,
inestricabile, che Adorno riesce a tessere. Conseguentemente, il concetto di
materiale musicale non deve essere considerato isolatamente, bensì
bisognerebbe far dialogare con esso numerosi altri concetti, ugualmente
centrali nell’estetica adorniana, nonché inserire il tutto nel quadro teoricocritico del Francofortese.
Per il momento ci si è voluti limitare a proporre la lettura e l’analisi
che ha condotto Sara Zurletti in merito al materiale musicale in Adorno,
volendo, allo stesso tempo, proporre, senza percorrerla in questa sede, una
direzione opposta, orientata non verso la restituzione dell’estetica adorniana
ad una sua interpretazione meno schierata, bensì orientata, viceversa, verso
il recupero della carica critica che una filosofia della musica oggi può tentare
di ricostituire. Se ad Adorno è stato rimproverato un sostanziale “rinvio della
prassi”, si potrebbe tentare di considerare il nostro come il “tempo della
prassi”, riattualizzando tesi che, evidentemente, scaturivano da un
particolarissimo intreccio di eventi storici, politici, sociali e culturali del tutto
irripetibili. Ciò non toglie che, a differenza di quanto sembra accadere, la
riflessione musicologica e quella dell’estetica musicale possano recuperare
un intentio critica che si è andata via via affievolendosi nel tempo, unico
strumento per poter restituire alla musica un’autentica funzione sociale.
66
E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 111.
2
Ivi, pp. 111-12.
3
Ivi, p. 112.
4
Ivi, p. 113.
5
E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, Edizioni ETS, Pisa 2007, p. 108.
6
S. CAPPELLETTO, L’ultima filosofia (della musica), cit., p. 6.
7
E. Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 111.
8
Ivi, pp. 111-12.
9
Ivi, p. 112.
10
Ivi, p. 113.
11
A. FINKIELKRAUT, L’ingratitudine. Conversazione sul nostro tempo con Antoine
Robitaille, trad. it. di R. Bentsik, Excelsior 1881, Milano 2007; questa citazione è tratta
dalla quarta di copertina.
12
E. FUBINI, Il pensiero musicale del Novecento, p. 114.
13
Ibidem.
14
S. ZURLETTI, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, il Mulino,
Bologna 2006, p. xi.
15
Ivi, pp. x-xi.
16
Ivi, p. 16.
17
Ivi, p. 4.
18
Ivi, p. 8.
19
Ivi, p. 9.
20
S. PETRUCCIANI, Adorno, ovvero del pensare aperto, Introduzione a Th.W.
Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, trad. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2006,
pp. ix-x.
21
S. ZURLETTi, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno,, pp. 14-5; corsivo
dell’autrice.
22
Ivi, p. 18.
23
Ivi, p. 19.
24
Ivi, p. 22, corsivo dell’autrice.
25
P. PELLEGRINO, Teoria critica e teoria estetica in Th.W. Adorno, Argo editrice,
Lecce 20042, p. 116.
26
TH.W. ADORNO, Teoria estetica, trad. it. a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino
1975, p. 202.
27
S. ZURLETTI, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, cit., pp. 32-3.
28
Ivi, p. 33.
29
Ivi, p. 39.
30
Ivi, p. 41.
31
Ivi, p. 43.
32
TH.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, trad. it. di G. Manzoni, Einaudi,
Torino 1959, p. 89.
33
Ivi, p. 14.
34
Ivi, p. 109.
35
Arnold Schönberg era convinto che il tempo e l’educazione (sebbene
considerasse “la conoscenza teorica non la condizione più essenziale”) avrebbero
modellato l’orecchio all’ascolto e alla comprensione della musica dissonante e
dodecafonica. Nel 1926 scriveva: «L’orecchio dell’ascoltatore deve venire educato
SAGGI
1
67
ancora per lungo tempo, prima che i suoni dissonanti gli appaiano ovvi e i procedimenti
basati su essi gli diventino comprensibili» (A. Schönberg, Partito preso o convinzione?,
in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, Einaudi,
Torino 1966, p. 406). Cosa egli intendesse per “lungo tempo” non ci è dato di saperlo,
quel che è certo è che Schönberg aveva colto il problema della difficile ricezione della
nuova musica da parte del pubblico.
36
TH.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, cit., p. 17.
37
A. SCHÖNBERG, Partito preso o convinzione?, cit., p. 424.
38
S. Zurletti, Il concetto di materiale musicale in Th.W. Adorno, cit., p. 44.
39
Ivi, p. 46.
40
Ivi, p. 49.
41
Ibidem.
42
Ivi, p. 52.
43
Ivi, p. 53.
44
Ivi, p. 55.
45
Ivi, p. 56.
46
Ivi, p. 58. Sul rapporto tra materiale musicale e Aufklärung in musica cfr. S.
ZURLETTI, Il concetto di “materiale musicale” in Adorno: Aufklärung in musica, in
Theodor W. Adorno. Musica, filosofia, letteratura, cit., pp. 15-30.
47
Ivi, p. 59.
48
Ivi, p. 60.
49
Ivi, p. 61.
50
Ivi, p. 62; corsivo dell’autrice.
68
Il ricorrere del centenario della pubblicazione de L’évolution
créatrice nel 2007 ha fornito l’occasione di celebrare un “année Bergson”.
Dopo un lungo silenzio, la cui fine è stata certamente annunciata dal breve
saggio di Deleuze del ’66 dedicato al bergsonismo, lo studio del pensiero del
filosofo francese – che, nonostante sia difficile oggi farsene una chiara idea,
tanto spazio occupava nella filosofia francese dell’inizio del secolo scorso ha
riconquistato l’interesse che gli spetta. Nel contesto di questo rinnovato
fermento, si colloca il libro Bergson, L’évolution créatrice e il problema
religioso, curato da Giovanni Invitto ed edito dalla casa editrice milanese
Mimesis (2700, pp. 13). Il volume raccoglie i contributi del Convegno
internazionale su L’évolution créatrice e il problema religioso, svoltosi a
Lecce, presso l’Università del Salento, il 5 maggio 2007, e organizzato dal
Centre internationale de la philosophie française contemporaine de l’École
Normale Supérieure e dall’Association des amis de Bergson, entrambi
presieduti da Frédéric Worms.
Tali contributi rendono esplicita nel loro insieme la complessità
dell’itinerario filosofico-religioso di Bergson, che dalle problematiche de
L’évolution créatrice conduce a quelle de Les deux sources de la morale et
de la religion, ridando voce, sotto nuovi punti di vista, al dibattito sul presunto
irrazionalismo bergsoniano, su monismo e panteismo, sul posto da attribuire
nel suo pensiero alla presenza di un Dio personale e, di conseguenza e non
in ultimo, sul rapporto in cui pensare metafisica e scienza.
Nel primo intervento Santo Arcoleo si concentra sui Quaderni E.
Cotton, redatti dall’allievo di Bergson, da cui gli stessi prendono il nome, al
liceo di Clérmont-Ferrand. In possesso della versione dattiloscritta di questi
corsi inediti, Arcoleo mette in luce la presenza di alcuni temi che troveranno
una definitiva trattazione nelle opere della maturità del filosofo: il dialogo con
la psicologia sperimentale, la critica al materialismo, il problema della libertà
e quello di Dio.
L’intervento successivo, firmato da Marisa Forcina, è incentrato sul
rapporto Bergson-Péguy dal punto di vista delle tematiche politiche. Dopo
aver fornito una bibliografia essenziale sull’argomento, l’accento è posto sul
carattere «veramente innovativo in politica» di questo binomio. In primo
luogo, si sottolinea l’eco bergsoniana del concetto di società aperta nella
progetto peguyano di città armoniosa, di cui il nuovo concetto di cittadinanza
è «ri-descrizione e rappresentazione». In seconda battuta, si mettono in
NOTE
BERGSON, L’ÉVOLUTION CRÉATRICE, E IL PROBLEMA RELIGIOSO
di Palma Valentina di Nunno
69
evidenza gli echi bergsoniani nell’opera De la cité socialiste, da cercare
innanzitutto nel linguaggio e nel carattere antististematico, e anche, a livello
di contenuti, nel porre a fondamento della democrazia l’«importanza della
differenza di qualità, intensità e durata che si manifestano nelle comunità
umane».
La parziale apertura dell’Archivio della Congregazione per la
Dottrina della Fede è per Jean-Robert Armogathe – autore del terzo
intervento riportato dal volume – l’occasione di approfondire la messa
all’Indice, nel 1914, di tre opere di Bergson: l’Essai sur les données
immédiates de la conscience, Matière et mémoire e L’évolution créatrice. L’8
marzo del 1913 – questo emerge dal dossier infine a disposizione dei
ricercatori – il domenicano padre Edouard Hugon denuncia le tre opere
suddette al suo confratello padre Esser, segretario della Congregazione
dell’Indice. Seguendo le tracce di questo affascinante affaire – affascinante
non solo per lo storico e lo studioso di filosofia – attraverso lettere, articoli ed
interviste, se ne ricostruisce il contesto politico e dottrinale, sullo sfondo di
uno scenario che ha per protagonisti tra gli altri Mgr Albert Farges e il
giovane Maritain.
Frédéric Worms propone un approfondimento che parte da due
definizioni di Dio presenti nell’opera bergsoniana («Dieu, ainsi défini, n’a rien
de tout fait, il est vie incessante, action, liberté», L’évolution créatrice, 1907,
PUF, Paris 2007, p.249; «Cette nature de “Dieu”, le philosophe aurait vite fait
de la définir s’il voulait mettre le mysticisme en formule. Dieu est amour, et il
est objet d’amour; tout l’apport du mysticisme est là», Les deux sources de la
morale et de la religion,1932, PUF, Paris 2007, p.267). Tali definizioni hanno
in comune il fatto di mettere a dialogo, in modo opposto, filosofia e mistica;
non solo: in entrambi i casi la definizione viene proposta come se fosse già
stata data in precedenza nel testo, e come se l’esperienza di Dio (filosofica in
un caso, mistica nell’altro) avesse preceduto la definizione e il problema
stesso. In breve, «tout se passe comme si le rôle de la définition était dans
les deux cas […] médiateur», come se la definizione si situasse a metà
strada tra l’esperienza di Dio e la posizione del problema. Worms osserva
che è proprio questo movimento dall’esperienza al problema a servire da
metodo per le opere di Bergson da cui le due definizioni sono tratte.
Un’ultima considerazione completa i presupposti interpretativi dell’autore: c’è
qualcosa ne Les deux sources de la morale et de la religion che,
contrariamente a quanto accade ne L’évolution créatrice, precede
fondamentalmente l’esperienza positiva di Dio. Per l’uomo, prima del Dio dei
mistici e di quello della religione dinamica e aperta – Dio di cui, a diverso
titolo, si fa esperienza – viene il Dio, o piuttosto, gli dèi del “pantheon” della
religione statica e chiusa, gli dèi della superstizione e della città, della paura
70
NOTE
e della guerra. L’approfondimento di Worms, alla ricerca del significato di Dio
nella filosofia di Bergson, segue esattamente questo percorso: si apre con
l’analisi del doppio movimento dell’esperienza e del problema ne L’évolution
créatrice e si conclude mettendo a tema il nuovo ostacolo, appena evocato,
che il tema incontra ne Les deux sources de la morale et de la religion. Il
contributo di Giulia Belgioioso è dedicato al Bergson di H. Gouhier; non sono
i richiami a Bergson da parte di Gouhier che si mettono a tema – numerosi e
sufficientemente indagati – ma, in un’ottica più specifica, il ruolo che Bergson
ricopre nell’Histoire philosophique du sentiment religieux en France,
progettato da Gouhier nel 1926 come versante filosofico del progetto che
Bremond stava conducendo sul terreno letterario. Ciò a partire da un testo,
pubblicato postumo nel 2005, dal titolo Henri Gouhier se souvient… ou
comment on devient historien des idées, che comprende cinque entretiens,
fra cui uno dedicato a Bergson et Gilson. Dopo aver messo in evidenza il
carattere profondamente bergsoniano del metodo d’indagine di Gouhier –
alla ricerca dell’intuizione originaria del bergsonismo – si chiarisce come
Gouhier individui tale intuizione nella nozione di creazione. Quest’ultima,
offerta a Bergson dalla tradizione giudaico-cristiana e affrancata dal suo
significato religioso per essere trapiantata nella tradizione greco-latina
diventa l’asse portante della sua riflessione filosofica. Così si esprime
Belgioioso: «In questa trasposizione, il concetto di creazione smette di
essere una teoria religiosa, e diventa la teoria filosofica che spiega il
“pensiero” di Bergson». Inoltre si mostra come «Gouhier reinterpreti gli scritti
bergsoniani a partire da questa scoperta dell’intuizione originaria che è loro
sottesa», già riconoscendo la nozione di creazione nella teoria della doppia
causalità (fisica e psicologica) esposta nell’Essai. In seguito, il discorso si
concentra su altri due testi per guadagnare ulteriori conferme a questa
interpretazione:l’Entretien avec Henri Gouhier. Histoire personelle de la
philosophie. A quoi pensent les philosophes, intervista rilasciata da Gouhier a
Jacques Message e Etienne Tassin, e il libretto che contiene i Trois essais
sur Etienne Gilson: Bergson, la philosophie chretienne, l’art, pubblicati a cura
di Gouhier e di Belgioioso presso la casa editrice Vrin.
Rimandando allo studio di M. Barthélemy-Madaule per un esaustivo
e insuperato confronto tra il pensiero di Bergson e quello di Teilhard de
Chardin, Franco Meschini dedica il suo intervento alla ricostruzione di un
momento preciso della vita e della formazione del giovane Teilhard, vale a
dire quello in cui quest’ultimo, ad Hastings, per la prima volta prende in mano
L’évolution créatrice. L’intervento si articola sulla lettura parallela di una
pagina de La pensée et le mouvant e una del Contre Saint-Beuve di Proust,
indagando le ricchezze e i pericoli del biografismo. Nell’ottica di
un’ermeneutica che metta in dialogo l’interprete e il vissuto filosofico che si
71
cela dietro le opere di un autore, il contributo di Meschini individua nel
concetto di intuizione la nozione chiave – per quanto non esplicitamente
tematizzata in Teilhard – che più di ogni altra lo avvicina Bergson.
L’intervento di Giovanni Invitto, dedicato al rapporto Merleau-PontyBergson, indaga questo confronto filosofico attraverso l’analisi di due scritti
merleaupontyani: l’Éloge de la Philosophie del 1953 e Bergson se faisant del
1959. L’autore introduce l’analisi con alcune premesse. Innanzitutto è
opportuno chiarire che dal punto di vista metodologico – come è manifesto
nel caso della lettura merleaupontyana di Husserl e Descartes – non è con lo
sguardo di uno storico della filosofia che Merleau-Ponty legge Bergson, ma,
piuttosto, con l’intenzione di condividere uno spazio «intermediario, ove il
filosofo del quale si parla e colui che parla sono presenti insieme». In
secondo luogo, si chiarisce «la posizione di Merleau-Ponty nei confronti della
religione in generale e del cristianesimo in particolare e, quindi, della filosofia
che nei secoli si è richiamata al messaggio cristiano» nei termini di un
fondamentale e dichiarato presupposto: «i temi cristiani sono “des fermentes,
non des reliques”». Chiariti questi presupposti, l’approfondimento ruota
intorno ai due scritti citati, nei quali Merleau-Ponty mostra interesse e
ammirazione in particolare per la riflessione sull’intuizione e la percezione,
dimensioni di una coscienza che, alquanto problematicamente, apre alle
novità del discorso teologico bergsoniano. Invitto fa notare, tra l’altro, che
Merleau-Ponty non riscontri in Bergson alcuna significativa svolta teoretica
determinata dalla conversione al Cristianesimo: come per Simone Weil – con
cui Bergson condivide l’origine ebraica e le motivazioni di una mancata
conversione – è innanzitutto alla verità che bisogna essere fedeli. Tuttavia,
come Maritain, anche Merleau-Ponty riconosce un Bergson “reale” e uno
“latente” altrettanto degno di considerazione.
Il Convegno si chiude, con un approfondimento di Leo Lestigni sul
misticismo e Les deux sources de la morale et de la religion, quasi a voler
indicare la necessità imprescindibile di allargare l’orizzonte di riflessione sul
tema religioso in Bergson anche a quest’opera. L’intervento prende in
considerazione il rapporto tra sapere teologico e sapere filosofico, ritenendo
un pregiudizio interpretativo il rifiuto bergsoniano, per ciò che concerne Les
deux sources de la morale et de la religion, di un confronto con la teologia.
L’ipotesi piuttosto è che, nel contesto di un ascolto attento alla teologia
rivelata, Bergson mantenga ad ogni passo la consapevolezza di dover
salvaguardare l’autonomia della filosofia, la quale, quand’anche si occupi di
religione, deve rimanere entro i suoi limiti speculativi.
72
Nota bibliografica
Dal 2007 è in corso di pubblicazione la prima edizione critica dell’intera opera
di Bergson diretta da Frédéric Worms per i tipi di Presses Universitaires de France
nella collana Quadrige. Nel 2007 sono apparsi: Essai sur les données immédiates de
la conscience, Le rire e L’évolution créatrice. Nel 2008 Matière et mémoire e Les deux
sources de la morale et de la religion. Previsti per il 2009 Durée et simultanéité, La
pensée et le mouvant e gli Écrits philosophiques; per il 2011 l’Énergie spirituelle e
Cours et correspondances.
PAOLO GODANI, Bergson e la filosofia, Pisa, ETS, 2009.
OLIVIER PERRU, Science et itinéraire de vie: la pensée de Bergson, Paris,
Kimé, 2009.
BRIGITTE SITBON-PEILLON, Religion, métaphysique et sociologie chez
Bergson: une expérience intégrale, Paris, Presses Universitaires de France, 2009.
RENAUD BARBARAS, Introduction à une phénoménologie de la vie, Paris, Vrin,
2008.
Bergson en bataille, a cura di ÉLIE DURING «Critique», t. LXIV, 732, 2008.
ARNAUD FRANÇOIS, Bergson, Schopenhauer, Nietzsche. Volonté et réalité,
Paris, Presses Universitaires de France, 2008.
Dio, la vita, il nulla. L’evoluzione creatrice di Henri Bergson a cento anni dalla
pubblicazione. Atti del Colloquio internazionale Bari, 4 maggio 2007, a cura di GIUSI
STRUMMIELO, Bari, Edizioni di Pagina, 2008.
JEAN-LUC GIRIBONE, Le rire étrange: Bergson avec Freud, Paris, Éditions du
Sandre, 2008.
La politesse et autres essais, con una prefazione di FREDERIC WORMS, Paris,
Payot & Rivages, 2008.
Bergson, centenaire de L’évolution créatrice, a cura di BRIGITTE SITBONPEILLON, «Archives de philosophie», t. LXXI, n 2, 2008.
MATTEO PERRINI, Filosofia e coscienza: Socrate, Seneca, Agostino, Erasmo,
Thomas More, Bergson, Brescia,Morcelliana, 2008.
Lectures de Bergson, a cura di JEAN-LOUIS VIEILLARD-BARON, «Revue
philosophique de la France et de l’Étranger», CXCVIII, 2, 2008.
Bachelard et Bergson : continuité et discontinuità. Atti del colloquio tenuto
all’Université Lyon III- Bergson et la religion. Nouvelles perspectives sur Les deux
sources de la morale et de la religion, a cura di GHISLAIN WATERLOT, Paris, Presses
Universitaires de France, 2008.
Annales bergsoniennes , a cura di FREDERIC WORMS:
t. III, Bergson et la science, Paris, Presses Universitaires de France, 2007;
t. IV, L’évolution créatrice 1907-2007: épistémologie et métaphysique,
Paris, Presses Universitaires de France, 2008.
NOTE
In occasione del centenario della pubblicazione de L’évolution créatrice sono
stati numerosi i convegni e le pubblicazioni: si fornisce quindi una breve rassegna
bibliografica in merito.
73
Jean Moulin dal 28 al 30 settembre 2006, a cura di FREDERIC WORMS e
JEAN-JACQUES WUNENBURGER, Paris, Presses Universitaires de France, 2008.
FRANÇOIS AZOUVI, La gloire de Bergson. Essai sur le magistère
philosophique, Paris, Gallimard, 2007
ARNAUD FRANÇOIS, Y a-t-il une théorie de la pulsion chez Bergson ? Pulsion
et actualisation , in La pulsion, a cura di JEAN-CHRISTOPHE GODDARD, Paris, Vrin, 2007,
pp. 183-211.
PAUL-ANTOINE MIQUEL, Bergson ou l’imagination métaphysique, Paris, Kimé,
2007.
BRIGITTE SITBON-PEILLON, L’Ambivalence de Bergson: entre judaïsme et
christianisme , in «La célibataire. Revue de psychanalyse», XV, 2007, pp. 114-128
BRIGITTE SITBON-PEILLON, Bergson et Durkheim: entre philosophie et
sociologie. Ruptures et unité , in «Klesis», 2007, www.klesis-revue.org.
Bergson, la vie et l’action, a cura di JEAN-LOUIS VIEILLARD-BARON, Paris, Les
Éditions du Félin, 2007.
Centenaire de la parution de "L'évolution créatrice" de Henri Bergson:
colloque du vendredi 21 septembre 2007, organisé par l' Institut de France, Académie
des sciences morales et politiques, Paris, Palais de l'Institut, 2007.
Si segnala la recente traduzione italiana de L’énergie spirituelle di GIUSEPPE
BIANCO, Milano, Saggi, 2008.
Si segnalano inoltre disponibili su Internet (in data 23 luglio 2009):
HISASHI FUJITA, Finalisme et vitalisme : Bergson et le problème de la
téléologie (testo e video conferenza), intervento nell’ambito degli «Ateliers eurojaponais sur L’évolution créatrice de Bergson» (Toulouse, le 20 avril 2007)
http://www.europhilosophie.eu/recherche/IMG/pdf/Fugita.pdf
L’évolution créatrice de Bergson cent ans après (1907-2007): Épistémologie
et Métaphysique, (registrazione audio), Congrès international de clôture de l’année
Bergson, 23 et 24 novembre 2007, http://www.paris4philo.org/article-14402667.html
74
Una “sintesi” sul colloquio internazionale svoltosi a Parigi a
conclusione dell’anno bergsoniano - così è stato definito il 2007, anno del
centenario della pubblicazione de L’évolution créatrice - ci spinge a
richiamare l’attenzione su alcuni temi dibattuti nella più attesa fra le
numerose manifestazioni che, svoltesi in varie parti del mondo, hanno trovato
nella grande assiste del Collège de France, l’istituzione nella quale Bergson
1
ha esercitato la quasi totalità della sua attività accademica. , il loro momento
più intenso e significativo.
Considerando sia le polemiche che gli apprezzamenti che questo
testo di Bergson ha suscitato nella cultura del primo ‘900, un numeroso
gruppo di interpreti e di studiosi del suo pensiero ha ritenuto opportuno
riproporre la trattazione di alcuni nodi essenziali sul significato e sugli sviluppi
del ruolo di quest’opera emblematica che illumina non solo il percorso della
ricerca del filosofo ma l’ intera attività filosofico-scientifica della prima metà
2
del XX secolo.
Anche se nella maggior parte dei suoi contemporanei ha suscitato
un certo entusiasmo, L’évolution créatrice, non esente da critiche e da
3
condanne” , ha contribuito a rinnovare l’interesse per la scienza, e in
generale per il “conoscere”, all’interno e contro una “diffusa tradizione
evoluzionistica” che da cinquant’anni dominava la cultura e la società
europea, promuovendo un ininterrotto dibattito sul significato e sul ruolo della
scienza.
All’origine del positivismo, le opere di Darwin - l’Evoluzione della
specie, l’’Evoluzione dell’uomo - avevano indirizzato la cultura scientificofilosofica europea alla ricerca di nuove vie del sapere, sviluppando e
rinnovando la metodologia e la ricerca scientifica, indispensabili per
estendere i confini della scienza, nonostante lo scontro assai duro con una
dogmatica religiosa che vedeva nel creazionismo l’unica dottrina valida a
spiegare le origini delle specie e dell’uomo. L’opera di Darwin aveva
contribuito a rendere di maggiore attualità i temi capaci di giustificare i
fondamenti di una dottrina dell’evoluzione, già enunciata – nelle sue linee
generali - da A. Comte, che nella matematica e nella fisica aveva trovato i
modelli necessari per la conoscenza oggettiva.
4
La filosofia di Bergson non era nata all’improvviso, come una
meteora imprevedibile: era il risultato di una formazione particolarmente
NOTE
NEL CENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DE L’EVOLUTION
CREATRICE DI H. BERGSON
IL COLLOQUIO AL “COLLÈGE DE FRANCE”
di Santo Arcoleo
75
efficace, radicata nella tradizione della filosofia francese che Egli, in un
articolo del 1915, presentava come sapere caratterizzato da una profonda
adesione alla realtà comune nella quale gli uomini vivono ed operano. “Che
[la filosofia] si sia sempre costretta a parlare la lingua di tutti non è stato il
privilegio di una specie di casta filosofica; essa è rimasta sottoposta al
controllo di tutti e non ha mai rotto con il senso comune. Praticata da uomini
che furono psicologi, biologi, fisici, matematici, si è costantemente tenuta in
contatto sia con la scienza che con la vita. Il suo contatto permanente con la
vita, con la scienza, con il senso comune, l’ha fecondata costantemente e
nello stesso tempo le ha impedito di giocherellare con se stessa, di
ricomporre artificialmente le cose servendosi delle astrazioni”.
Bergson diventa l’interprete del realismo della filosofia francese e,
secondo A. Fagot-Largeault, primo relatore alle assise bergsoniane del
Collège de France, cerca di caratterizzare il proprio pensiero con la
medesima precisione che contraddistingue la scienza positiva; in lui il
modello scientifico coincide con la sua attitudine più personale con cui misura
la sua dottrina filosofica, che caratterizza la scienza positiva come la vera
scienza, la quale “constata i fatti, li studia e li collega fra loro per mezzo delle
leggi”. A. Fagot–Largeault si sofferma sulla “attitudine di rispetto”, tipica
dell’uomo Bergson che è lo sforzo costante di mettersi al corrente con i lavori
scientifici e con i risultati ottenuti dagli scienziati, opposto all’atteggiamento di
Cournot, che sosteneva che bisognava sottoporre alla speculazione filosofica
i dati offerti dalle scienze. “Se pretendiamo di andare oltre la scienza, nella
stessa direzione nella quale la scienza si incammina, dovremo accontentarci
di possibilità, o tutt’al più di probabilità; a noi dovrà essere sufficiente il
plausibile. Ma il plausibile non ci basterà. Noi vogliamo la certezza- la
certezza per la filosofia come anche per la scienza. Ed è questo il motivo per
il quale non esitiamo a tracciare una linea di demarcazione netta tra la
scienza e la filosofia”, enunciava Bergson. A. Fagot-Largeault ha evidenziato
il valore ed il significato della metodologia bergsoniana, della dottrina della
5
“intuizione”, che ha prodotto la grande rivoluzione culturale del 1889 - che
“insieme alla scienza” ricerca la “certezza”, proprio come fa la scienza. La
relatrice si è soffermata anche sul modo con cui Bergson ha messo in pratica
il suo rapporto con la scienza, in particolare con la scienza psichica, della
quale, a conclusione dell’opera Les deux sources de la morale et de la
religion, ha ricordato che sia pure presente fin dalle sue prime opere, essa
resta una terra incognita la cui esplorazione, in quelle opere, è solo all’inizio.
6
La successiva relazione di J. Gayon , proseguendo nell’ analisi del
problema della scienza, ha illustrato i momenti fondamentali della dottrina
della evoluzione.
76
NOTE
Secondo lui la dizione “filosofia della scienza” poco s’addice al
pensiero di Bergson il quale se, per un verso, vuole evitare ogni tipo di
sovrapposizione della scienza alla filosofia, per l’altro rivendica a quest’ultima
una concretezza che, intesa come “metafisica positiva”, diventa il
fondamento di una conoscenza positiva. “Apertamente spiritualista, questa
metafisica positiva ha rivolto la propria attenzione agli aspetti della realtà in
cui il problema dell’interpretazione della materia e dello spirito è oscuro: la
sensazione (Données immédiates de la conscience), la patologia della
memoria (Matière et mémoire), e, punto culminante di questo programma di
ricerca- l’evoluzione biologica (L’évolution créatrice). Bergson affermerà
successivamente di aver ”fatto scendere lo spirito il più vicino possibile alla
materia” e questo spiega il suo privilegio per le scienze biologiche. Queste
forniscono le prove empiriche dell’esistenza di un certo grado di
“indeterminazione”, di “contingenza”, di “capacità di scelta” presenti nei
fenomeni e negli esseri lontani dal livello di organizzazione dello psichismo
umano. Dall’evoluzione biologica Bergson ricava il materiale empirico,
necessario per offrire la più ampia estensione alle sue tesi indeterministe e
alla sua visione dello spirito. Dagli aspetti della patologia della memoria
emergono indizi che rendono “interessante” un elemento di grande rilevanza:
la incredibile forza dell’azione delle forze occultiste - dottrine all’epoca diffuse
e popolari - accanto al riproporsi dell’”indeterminismo“, sul quale si andavano
concentrando gli interessi degli scienziati dell’epoca, soprattutto dei biologi
evoluzionisti.
Gayon presenta un ampio panorama nel quale mette in evidenza il
ruolo di quanti hanno considerato con attenzione il ruolo dell’Evolution
créatrice considerata come momento originario della “teoria sintetica
dell’evoluzione”; fra essi i genetisti Julien Huxley, Theodosius Dobzhansky,
Sewall Wright, che hanno fatto di quest’opera lo strumento di un dialogo
ininterrotto e di un confronto continuo con il proprio credo filosofico
evoluzionistico; contro si è schierato Ronald Fisher, che ha giudicato
negativamente la concezione bergsoniana dell’indeterminismo,mentre gli
zoologi, i botanici, i paleontologi sono stati estremamente critici o indifferenti.
Si può ipotizzare, allora, la lettura di quest’opera bergsoniana come
precorritrice dell’epistemologia evoluzionista?
7
E’ il tema sul quale si è soffermato Dong-Hyun-Son , muovendo
dall’ipotesi
di
una
presupposta
complementarietà
fra
filosofia
“trascendentale”, di marca germanica, e filosofia “empiristica”, propria dei
paesi anglofoni, a cui aggiunge una terza via “sintetica”, ove la ragione è
detta “trascendentale” non in quanto principio sovrannaturale, ma perché si
presenta come lo sforzo di non perdere il legame reale con l’esperienza del
mondo; non si tratta dunque di una esperienza psicologica personale, ma
77
piuttosto di“ una esperienza biologica di evoluzione ben più estesa”, quella
dell’homo sapiens. Il nuovo corso di una “epistemologia evoluzionista”, che
negli anni ’70 ha cominciato a svilupparsi con D. Campbell, ha coinvolto i
paesi di lingua e cultura tedesca e quelli di lingua e cultura inglese, secondo
il relatore è cominciato con Bergson ed i fondamenti dell’epistemologia
evoluzionistica che caratterizzano la filosofia bergsoniana, si possono
riassumere in poche tesi.: le attività cognitive dipendono dal
corpo;l’evoluzione della vita è un processo dello sviluppo cognitivo; le diverse
forme di conoscenza derivano dalla evoluzione biologica, e perciò sono
relative ed incompiute. Se ne può dedurre che la percezione sensibile ed il
pensiero razionale abbiano avuto la medesima origine e che le forme del
ragionamento logico nascano dalla relazione spaziale delle cose.
8
F. Azouvi , ha invece trattato del magistero bergsoniano e del
successo de “l’élan vital”,sviluppato in un percorso che comprende tre
momenti:la determinazione del concetto di élan vital, il suo ruolo
nell’insegnamento, i suoi limiti, nel periodo che precede la pubblicazione
dell’Evolution créatrice, che ne determinerà la notorietà ed il favore del
pubblico. L’analisi del concetto di élan vital procede a “cerchi concentrici”,
che abbracciano gli ambienti universitari dei filosofi e dei biologi e,
successivamente, suscitano una attenta analisi nel mondo cattolico, che non
si esprime in modo omogeneo ma evidenzia grandi differenze di valutazione:
esso è accolto favorevolmente nella destra cattolica nazionalista, con
l’eccezione della destra maurrassiana. Nella prima il bergsonismo dell’ élan
vital confluisce nel niccianesimo della volontà di potenza e seduce un
pubblico desideroso di fondare una morale ed una politica dello sforzo,
antidemocratica e talora antirepubblicana ; in questo l’ambito l’interesse è
rivolto alle figure emblematiche delle tradizione intellettuale e politica del
momento.
I cattolici tomisti hanno considerato l’élan vital come una
fantapolitica, assai pericolosa perché offre la possibilità di fare a meno di Dio
e spinge tutto in un “mobilismo” disastroso: si tratta delle tesi grazie alle quali
essi, con i maurrassiani, otterranno la condanna di Bergson e la messa
all’indice delle sue opere. La ricezione de l’élan vital fra le avanguardie
estetiche è stata invece molto più felice: il futurismo, il cubismo e alcuni
circoli letterari ne hanno messo in luce l’apologia della vita, proponendo
anche di metterla al centro delle composizioni poetiche. Un ultimo aspetto ha
messo in luce la ricezione de l’élan vital all’interno dell’ estremismo
anarchico- sindacalista della sinistra.
Circa l’influenza delle fonti della biologia che hanno alimentato le
9
ricerche bergsoniane , A. François ha individuato tre momenti, a cominciare
dal problema del meccanicismo e del vitalismo, il primo rappresentato da
78
NOTE
Haeckel e da Spencer, quest’ultimo considerato come suo avversario nella
Evolution créatrice.
Il relatore ha richiamato le esperienze di Roux e di Bütschli,
ricordando che quelle di quest’ultimo , dedicate a sottolineare la somiglianza
tra la struttura del protoplasma e quella di alcuni muschi alveolari, avevano
suscitato la condanna di Bergson di quella varietà di meccanicismo , il “ neovitalismo”, criticato in ragione della sua teleologia.
Il rigore meccanicista era generalmente considerato come un criterio
che consentiva di apprezzare il valore e la pertinenza di una teoria della
ereditarietà (problema ereditato come uno dei principali obiettivi del primo
capitolo de l’évolution créatrice). Nella polemica di Haeckel contro Weismann
, relativa alla trasmissione dei caratteri acquisiti , contrapponendo la vecchia
dottrina della “preformazione” e quella della “epigenesi”, la soluzione di
Haeckel era ritenuta l’unica sola in grado di rendere conto dell’evoluzione,
escludendone principi teleologici inutili. Bergson si schiera a favore di
Weismann, ma non aderisce al neo-darwinismo, al quale rimprovera di non
essere in grado di spiegare le cause delle “Variazioni”, e mostra invece una
certa simpatia per i neo-lamarckiani, gli unici in grado di ricorrere ad un
principio interno alla evoluzione - nella versione americana datane da Cope,
opposta alla versione francese di Delage o di Le Dantec - entrambi citati da
Bergson, il quale fa riferimento anche all’ortogenesi di Eimer, che secondo lui
obbedisce ad un principio esterno; conclude affermando che l’evoluzione
procede secondo una direzione ben definita. Un aspetto importante della
discussione bergsoniana, relativa alla dottrina della ereditarietà, riguarda la
trattazione del mutazionismo, base per la teoria genetica. Bergson lo include
nella stessa obiezione che aveva rivolto al neo- darwinismo, convinto di
mettere in luce i tratti profondamente innovatori di una dottrina, di cui
conosceva bene i primi sviluppi e cita,oltre ai lavori del De Vries, ricopritore
delle leggi di Mendel, quelli di Batson,Wilson, Morgan. Sono aspetti che
occorre riconsiderare per comprendere a fondo la teoria dell’evoluzione di e
in Bergson, necessari anche per chiarire l’annoso problema della
individualità, che - sottolinea il relatore - è l’unico problema biologico che
ricompare nel terzo capitolo de l’Evolution créatrice, consacrato alla fisica e,
10
infine, alla metafisica.
Gli anni della fine del XIX secolo hanno visto la sostituzione di una
concezione associazionista e polizoica dell’essere vivente ,ispirata alla teoria
cellulare, alla quale Bergson dedica un grande spazio, riproponendo però la
teoria dissociazionista. A questa sostituzione che si collega una delle più
profonde ispirazioni del bergsonismo e della stessa Evolution créatrice.
Cosa rimane di quest’opera? Essa ha contribuito – ma in che modo a chiarire fino in fondo la filosofia di Bergson? A questi interrogativi ha
79
11
cercato di rispondere Armand de Ricqlès sostenendo che il filosofo
dell’évolution créatrice si presenta come un evoluzionista autentico, che
considera tutti gli esseri viventi derivati da un ceppo originario comune, la cui
origine risale a l’élan vital, il quale, contro ogni forma di finalismo o di
vitalismo della tradizione, non è di natura meccanica, ma si situa in una
prospettiva metafisica ed astratta. Bergson fa una scelta che lo spinge ad
uscire dalla scienza positivista ed è per questo che la sua teoria
dell’evoluzione propone elementi attuali ancora oggi - insieme ad altri ormai
superati - quali un antropocentrismo esplicito e filosoficamente rivendicato.
Perciò oggi siamo condotti, sfidando l’anacronismo, a chiederci, in
un contesto materialistico, in quale misura l’élan vital potrebbe prefigurare o
se fosse in grado di superare le concezioni moderne della evoluzione
biologica, soluzione che non è del tutto sterile ma che porta pochi frutti.
Bergson ha approvato ed accettato le indagini di Weismann, ma non è
riuscito a cogliere né il significato “innovativo” delle leggi di Mendel né a far
propri gli elementi innovativi della teoria della “ereditarietà”: il motivo va
ricercato nella permanenza del lamarckismo nella biologia francese. Può
sembrare più strana la sua comprensione del significato evolutivo generale
dei dati citologici del suo tempo, che riguardano la meiosi e la fecondazione
profonda e resta da approfondire come, dopo la pubblicazione di
quest’opera, il pensiero di Bergson si sia evoluto grazie al progressivo
intensificarsi delle sue conoscenze biologiche degli anni venti e trenta.
L’Evolution créatrice è un indice della svolta che caratterizza la
cultura francese grazie allo sviluppo della filosofia e della biologia operato
dalla “crisi del Trasformismo”, una crisi che durerà quattro decenni e le cui
conseguenze sono state durature, soprattutto per la biologia naturalista ed
evoluzionista. Se ci si chiede se esistono delle analogie fra selezione ed
evoluzione in Bergson e Darwin, non si può che rispondere che quella più
famosa si trova nel primo capitolo dell’Evolution créatrice: “la vita è
invenzione come l’attività cosciente”. Grazie ad essa e attraverso di essa,
l’“intuizione” non è più una semplice “ visione diretta” della durata vissuta, ma
diventa “simpatia con la vita” e con lo stesso universo della materia. Si tratta
di una analogia che funziona in un significato “comprensivo”, del tutto
opposto a quello “esplicativo” con il quale Darwin aveva avanzato l’ipotesi
della selezione naturale, fondandola e comparandola con la selezione
12
13
artificiale. P. A. Miquel , che approfondisce questo tema, ritiene che più
che a Darwin Bergson si oppone al neo-darwinismo: in una delle sue tesi
fondamentali sostiene che l’ereditarietà si trasmette grazie alla diffusione
dell’energia genetica - così la chiama, collegandosi alla ereditarietà ed alla
continuità del “plasma germinativo”, la nota tesi di Weismann. È possibile
tuttavia trovare un punto in cui convergono le tesi di Darwin e quelle di
80
NOTE
Bergson: per il primo la selezione naturale ha senso solo se riferita alla
differenza dei caratteri, per Bergson l’evoluzione procede per dissociazione,
biforcazioni e divergenze successive, mai per aggregazione.
Abbiamo ascoltato degli interventi che hanno esposto interessanti
considerazioni sul clima e le contrapposizioni scientifiche operanti nell’epoca
14
di Bergson: in questa direzione H. J. Han ha messo l’accento sull’euristica
del vitalismo, indispensabile per chiarire il concetto di élan vital. Secondo
l’oratore è indispensabile un confronto fra la teoria bergsoniana e quella di P.
J. Barthez. sulla dottrina del vitalismo, verso il quale Bergson ha adottato una
doppia euristica, una negativa e modesta, l’altra positiva ed audace. La prima
presenta i limiti della biologia come è intesa dal meccanicismo, dal
riduzionismo fisico-chimico, e più ampiamente dallo scientismo e
dall’intellettualismo ottimista, mentre la seconda enuncia delle ipotesi - i
concetti occulti - ad esempio il principio vitale di Barthez e l’élan vital di
Bergson,- nel tentativo di definire le nuove caratteristiche vitali. Ci si può
riferire ai Nouveaux éléments de la science de l’homme, l’opera in cui
Barthez adopera il principio vitale come causa sperimentale dei fenomeni
vitali, ove per “causa sperimentale”, nella fisiologia, si intende la causa
ancora sconosciuta. L’euristica bartheziana ammette l’esistenza di un
principio ipotetico ed unificante: in questo senso si nota une somiglianza
assai stretta tra il suo principio vitale e l’élan vital de Bergson. Ma sulla
possibilità di conoscere questo principio occulto le due dottrine divergono:
Barthez resta scettico, Bergson ritiene di non potere rigettare a priori i metodi
che servono a comprendere la materialità della vita, anche se poi ne richiama
la priorità dell’aspetto soggettivo nei confronti dell’aspetto oggettivo.
L’élan vital, attributo essenziale della vita, non è che la durata reale;
in questo modo Bergson invita a riflettere ,per comprendere il significato della
vita, su di un elemento psicologico: il tempo vissuto che di fatto è soggettivo.
Non spetta dunque alla scienza interrogarsi su l’élan vital, perché solo la
metafisica è in grado di conoscerlo, grazie alla intuizione.
Possiamo comprende allora come sia importante l’esame del
significato e del ruolo delle percezioni , il che ci introduce al grande capitolo
15
sul ruolo della psicologia. A questo s’interessa A. Berthoz ,sia pure
giustificando la propria incompetenza di un “non filosofo”; ma un fisiologo
della percezione e dell’azione, alla ricerca di una filosofia dell’azione, non
può che essere completamente d’accordo con le tesi di Bergson che radica
la percezione, la coscienza e le numerose facoltà del cervello dell’uomo nel
movimento e nell’azione, l’aspetto grazie al quale il saggio di Bergson è
certamente attuale; per coglierne però più profondamente i motivi occorre
esaminare la svolta del XX secolo che ha messo in forse le tesi formaliste ,
81
dominanti nel secolo precedente, che riposavano essenzialmente sul
linguaggio e la logica teorica.
Bergson denuncia la creazione, originata da tutti i formalismi, di una
ostacolo frapposto tra il vissuto del soggetto ed il flusso continuo degli eventi
del mondo, causa del “progressus”, del procedere e dell’avanzare nelle cose,
del vissuto nelle sue molteplici manifestazioni, compresa anche l’ipotesi che
la percezione sia una azione simulata, secondo la recente dimostrazione dei
neuroni-specchio. Il contributo fondamentale di Bergson è consistito nel
reintegrare la tesi “del corpo in atto” nel pensiero, secondo la quale si pensa
con il proprio corpo, con i propri movimenti, con i propri gesti. Già Poincaré e
Einstein avevano affermato che i fondamenti della geometria si trovano
nell’azione. La tesi di Bergson mostra una interessante consonanza con
l’opera famosa Penser avec les mains del letterato-filosofo Denis de
Rougemont, una opera filosofica ma anche applicabile alla vita, nell’arco
16
delle sue manifestazioni della realtà del XX secolo.
Fra il “continuo”, che egli esalta, e la “frammentazione”, di cui sono
responsabili il linguaggio ed i vari formalismi, a partire da Matière et mémoire
Bergson aveva cercato di trovare un compromesso, simile a quello fra
materialismo e idealismo, per cercare di eliminare ogni forma di dualismo che
avrebbe potuto danneggiare il suo pensiero. Così aveva pensato di conciliare
teorie opposte sull’attività del cervello, come oggi ce le propongono le neuroscienze, solidali nella tesi secondo la quale si può considerare il cervello
come una serie in coppia di oscillatori. Ne risulta che il problema del tempo
del movimento,del tempo discreto o del tempo continuo, è mal posto, poiché
il tempo, la durata, sono in qualche modo iscritti nella frequenza degli
oscillatori. Lo spazio stesso può essere creato da interazioni degli oscillatori,
come afferma il recente modello di Burgess.
Non si possono dunque separare lo spazio ed il tempo nella
dinamica del processo cognitivo, anzi occorre tener presente ,ad
esempio,che il gesto è nello stesso tempo una traiettoria et un cammino che
viene vissuto lungo il suo svolgersi. Bergson insiste anche nel ritenere che le
scelte di vita sono più “comode” per alcune specie , nello stesso spirito con
cui Poincaré affermava che era maggiormente “comoda” la geometria
euclidea. L’evoluzione ha consentito di scoprire mezzi di semplificazione
nell’immensa complessità dei meccanismi biologici e delle funzioni del corpo
e del cervello, ma a Bergson sembra che sfugga una delle ragioni più
importanti di questa semplificazione: la necessità di “fare” in fretta.
Nelle opere di Bergson si trovano certamente importanti intuizioni:
così, dal fatto che il cervello utilizza molti referenti spaziali. Egli deduce il
ruolo della inibizione,l’importanza della nozione di affordance, le molte forme
di memoria, per cui riconoscere un oggetto significa giocarselo, ossia
82
NOTE
immaginare quello che se ne può fare. E ci spinge ad andare oltre quando
considera che il vissuto del soggetto consiste nella durata: è il fine che
perseguono oggi le scienze cognitive, senza risolvere il problema. E sono
indubbiamente interessanti le comparazioni che si possono cogliere fra le
teorie bergsoniane del ridere ed i dati moderni della Neurologia e delle
Neuroscienze sulle basi neuronali della risata.
Come si collega la dottrina della “invenzione” alla teoria
17
dell’”intuizione”? È questo l’interrogativo che si è proposto H. Hude , che
sottolinea come nella filosofia intera di Bergson - non solo nelle Opere, ma
anche nei Corsi - il problema dell’invenzione è strettamente connesso con
quello della “intuizione” perché l’immediatezza con cui ci salta agli occhi è più
il frutto dell’invenzione che dell’intuizione., la quale è una forma di vita
intellettuale, non di routine ed è coestensiva alla vita dello spirito intuitivo. Se
con l’intuizione cogliamo la durata, con l’invenzione possiamo comprendere
intuitivamente cosa sia l’invenzione in sé, e la conoscenza in quanto
intuizione è il risultato di due invenzioni e dell’invenzione della loro stessa
unione. Bergson segue un processo già proposto da Descartes e da
Kant.:l’intuizione è un metodo che presuppone i risultati dell’analisi
trascendentale, proprio perché l’immediato non si dà in maniera capricciosa,
ma lo si inventa metodicamente; l’intuizione è un elemento in questo metodo
d’invenzione. L’invenzione bergsoniana consiste nell’intuizione della durata,
resa possibile dalla distinzione fra simbolo spaziale della durata( il tempo per
Bergson) e la durata in sé. L’intuizione della durata rende possibile inventare
una sintesi universale, non a-priori né a posteriori, ma di organizzazione
vivente, nella quale s’inscrivono i meccanismi dell’invenzione: un circuito
mentale che va da uno “ schema dinamico” alle immagini
L’intuizione, momento cognitivo fondamentale , nasce nella
emozione ed ha come oggetto la totalità, pluralità di durata all’interno del
tempo universale, sullo sfondo dell’eternità della vita.
Il colloquio al Collège de France si è concluso con la relazione di A.
18
Prochiantz , che ha esposto i criteri con cui procedere sulla possibilità e la
validità di una lettura bergsoniana da parte di un biologo. Secondo lui, grazie
alla nozione di durata Bergson ha sperimentato la possibilità di mettere
insieme sviluppo ed evoluzione, che assegnano un ruolo più importante
all’intervento della storia caratterizza le strutture biologiche. “Ovunque ci sia
una forma di vita,esiste, aperta qualche parte, un registro in cui il tempo
s’inscrive”. Il relatore si richiama alla sua esperienza personale sottolineando
che è sorprendente la soddisfazione che dà ,ad un biologo materialista, la
lettura della Evoluzione creatrice; inoltre, almeno secondo lui, è necessaria
per correggere quell’etichetta di “filosofo spiritualista”, di cui spesso si è
abusato per comunicare il lato peggiore di Bergson.
83
Quest’ultimo, attraverso l’ analisi dell’evoluzionismo che continuava il
dibattito tra Claude Bernard e i fisiologi meccanicisti, ha saputo individuare
ciò che appartiene all’ essenza dell’essere vivente. L’oratore non esclude
che, strada facendo, la separazione fra intelligenza ed istinto - esprit de
géométrie ed esprit de finesse-, come fondamento del conoscere, faccia lo
scherzo ai biologi di ricollocarli fra i meccanicisti. Ma quella che si può
considerare la parte “nobile” della vita,ossia l’istinto, l’intuizione, l’esprit de
finesse andrebbe a finire nella “ borsa” filosofica? Non si può certamente
accettare e tutto questo spinge ad interrogarsi su una filosofia della
conoscenza adatta all’essere vivente.
Il mattino del giorno successivo (24 novembre) il Congresso è stato
dedicato al momento propositivo ed alla discussione, in ben quattro “ateliers”.
Di essi, il primo ha preso in esame le fonti e la ricezione dell’Evolution
créatrice nella storia della filosofia (coordinato da F. Worms), il secondo ha
seguito il percorso bergsoniano da l’Evolution créatrice a Les deux sources
de la morale et de la religione (ordinato da J.L.Vieillard- Baron), il terzo ha
approfondito il tema della metafisica: Le statut du negatif de l’Evolution
créatrice (coordinatrice Fl. Cayemaex), mentre il quarto ha indagato il
problema della materia ne l’Evolution créatrice. Gli “ ateliers” si sono svolti
all’ENS, ove,nello stesso pomeriggio, sono state pronunciate le conferenze
19
plenarie, affidate a Pete A. Y. Gunter , Bergson‘s New Concept of Analysis,
cui è seguita l’esposizione: Bergson et l’idée de loi scientifique, pronunziata
20
21
da J. L. Vieillard-Baron , mentre J. Mullarkey ha illustrato il tema: Breaking
22
the Circe: Elan Vital as Performative Metaphysics. Roi Tchoe ha offerto una
interessante analisi, che analizza. Une interprétation metaphysique de
Bergson: l’âme du Phèdre de Platon et la durée bergsonienne, mentre A.
23
Bouaniche ha trattato il tema: De la surprise devant le temps à la surprise
24
devant la création. Fl. Caemayeux
ha svolto una originale relazione sul
tema: Positivité et indétermination: la question du négatif dans la philosophie
de Bergson. Ha concluso il colloquio Fr. Worms con l’analisi di “Ce qui est
vital dans l’Evolution créatrice”.
Riteniamo che questa nostra semplice enunciazione delle tesi e
delle problematiche presentate nei due giorni del congresso sia sufficiente a
giustificare l’interesse suscitato dagli interventi e a formulare la richiesta che
al più resto vengano pubblicati gli atti.
All’interno della linea storiografica, perseguita in questi ultimi venti
anni da Frédéric Worms - anima della ripresa degli studi bergsoniani e della
riedizione delle sue opere,alla luce di un assoluto rigore filologico e filosofico
- scorgiamo un nuovo “destino”, capace di restituirci un pensatore tanto
amato quanto “inconsiderato”, grazie ad una più puntuale conoscenza e ad
una valutazione più oggettiva, anche alla luce del non sempre lineare
84
NOTE
svolgimento della filosofia francese del secolo XX. Ripubblicare tutte le opere
di Bergson, dare alle stampe i suoi corsi al Collège de France, scegliere fra la
sua corrispondenza anche quelle lettere da Lui destinate all’incenerimento
significa ripristinare tempi, luoghi, sensazioni, senza i quali è impossibile
cogliere il clima in cui è maturata la filosofia bergsoniana.
Nella seconda metà del XIX secolo si era organizzato un insieme di
conoscenze che avevano trovato nella scienza il modello ideale alimentare
una vera, definitiva,liberazione dell’uomo.
Il rinnovamento radicale del pensiero scientifico è stato avviato
grazie alle ricerche intraprese da nuovi indirizzi per la matematica, alimentati
dalla scoperta delle geometrie non-euclidee e dai risultati innovatori sulle
ipotesi sulla natura dell’universo. L’antropologia, che si apriva ai contributi
della psicologia, ormai scienza autonoma dalla filosofia, della psichiatria, che
trovava nelle prospettive sperimentate da Charcot le motivazioni per
innovazioni radicali della disciplina, i primi orientamenti della ricerca
psicoanalitica di Freud, che , diventati dominanti nella prima metà del secolo
XX, daranno dei contributi fondamentali anche alle scienze
umane,spalancavano orizzonti insospettati negli anni precedenti.
Le scienze hanno vissuto dunque un eccezionale momento di
rinnovamento, presupposto per una dinamica riflessione filosofica sull’uomo
e sulle sue attività conoscitive.
Per un caso, tanto felice quanto non comune, Bergson è il primo
filosofo dell’età moderna nel quale il sapere filosofico e quello delle scienze
sperimentali sono coltivati con grande intelligenza.
Nella filosofia della natura di Bergson, che influenza in maniere
radicale la scienza nel passaggio dal XIX al XX secolo, influiscono anche
diverse componenti: dalla tradizione ebraica, che si ispira alla Bibbia, alla
cultura filosofica greca, medievale, moderna e contemporanea, nella quale é
presente l’influenza della tradizione della medicina, quella della scienza del
Positivismo, che Bergson riprende, corregge ed integra con gli appassionanti
studi con cui approfondisce i problemi della biologia, da quella vegetale- la
più difficile- a quella animale ed umana.
Ci sembra però che non si debba dimenticare l’influenza
dell’insegnamento di F. Ravaisson, il maestro che lo ha avviato a questo
genere di studi e il ruolo significativo che hanno avuto le sue opera, dal De
25
l’habitude al Testament philosophique - ultima opera pubblicata postuma
Ravaisson precorre ed anticipa molti aspetti del pensiero bergsoniano,
insistendo sul pensiero antico-da Platone al neo-platonismo- su quello
moderno- da Descartes a Pascal- su quello contemporaneo, con particolare
attenzione alla biologia ed alle figure di Claude Bernard e William James. La
“nota di generosità e di amore”- con la quale Bergson commemorerà il
85
maestro e la sua “ filosofia eroica”- sono i chiari aspetti di una eredità
spirituale destinata a rafforzarsi nel proseguo degli anni della vita del filosofo.
1
Le manifestazioni, coordinate dalla Società des amis de Bergson e dal Centre
international d’ètude de la philosophie française contemporaine, hanno preso il via il 9
marzo 2007 con l’apertura dell’ “anno Bergson “ all’ENS ( Ecole Normale Superiore),
cui é seguita une giornata di studio( 15 marzo) alla Fondation Singer- Polignac. Il 1921 marzo si sono aperti a Toulouse gli “Ateliers internationaux sur l’Evolution créatrice
de Bergson. Nature et subjectivité”, mentre il 4-5 maggio successivi nelle università di
Bari e di Lecce oggetto del dibattito è stato il tema: L’évolution créatrice e il problema
religioso, G. Invitto, organizzatore dell’incontro di Lecce, ha curato il volume degli atti
del colloquio svoltosi a Lecce: Bergson: L’évolution creatrice e il problema religioso,
Mimesis, Milano 2007). Il 4- 5 luglio a Mayence un incontro è stato dedicato a :Bergson
et l’Allemagne: la question de la philosophie de la vie, mentre a Londra (Institut
Français) il 19 settembre si è discusso su : Bergson Today .Nello stesso mese, 1 19,
l’Institut de France ha commemorato il “Centenarie de la parution de l’Evolution
créatrice de Henri Bergson”. Un congruo numero di incontri si sono svolti
,successivamente,nei mesi di ottobre e novembre: il 4-5 ottobre à Poitiers il tema
verteva su: Sujet et totalité, mentre dal 15-20 ottobre le università giapponesi di Tokio,
Kyoto ,Fukuoka, hanno approfondito il tema :Disséminations de l’Evolution créatrice.
Histoire(s) de la réception. A Seul, il 22-23 ottobre si è trattato di Réception et actualité
de Bergson en Corée: monisme ou dualisme? mentre il 30 ottobre l’università di Lille
ha organizzato un incontro di studio: En quoi l’évolution est-elle créatrice?, seguito , il
giorno successivo, da un dibattito su La création. Nel mese di novembre, il 10, a
Barwick il tema prescelto è stato: Creative Evolution, One Hundred Years. On.Biology,
Ecology, Complexity, ed il 15-16 l’università di Buenos Aires ha proposto di discutere
:¿ Inactualidad del Bergsonismo?. Il convegno promosso dal Collège de France,
dall’ENS e dalla Société des amis de Bergson, si è svolto nei giorni 23-24 novembre
ed è stato dedicato a L’Evolution créatrice de Bergson cent ans après. Epistémologie
et Métaphysique. A questo evento abbiamo dedicato questo articolo. Le celebrazioni si
sono concluse con il colloquio del 12-14 dicembre a S. Paulo del Brasile con
l’argomento: ”Le statut du négatif et la nouvelle ontologie dans la philosophie de la
durée .Bergson et sa postérité”.
2
Ci sembra opportuno ricordare il rinnovamento che F. Worms ed i suoi collaboratori
hanno impresso alla pubblicazione critica dell’intera opera bergsoniana, già accessibile
“en poche”, nella collezione “Quadrige- Grands teste”. Il nuovo piano editoriale si
sviluppa in tre tappe: 2007, 2009, 2011, e riguarda tutte le opere pubblicate da
Bergson, completate da note esplicative e dalle eventuali varianti del testo, cui
s’aggiunge una tavola analitica dell’opera, una sequenza di indici, unitamente ad una
“lettura” e ad una bibliografia ragionata. Alla edizione delle opere seguirà quella della
86
NOTE
corrispondenza e dei corsi tenuti al Collège de France. Sono già stati pubblicati anche i
primi quattro tomi degli Annales Bergsonniennes (a cura di F. Worms) e, per le edizioni
PUF, i volumi: Essai sur les données immédiates de la con science ( 1889) - a cura di
A. Botaniche -; Le rire (1900) -, a cura di G. Sibertin- Blanche; L’évolution créatrice, a
cura di A. François. La rinascita di Bergson nella cultura contemporanea non è
imputabile al caso: il dibattere oggi sul significato della psicologia - e della psicoanalisi
-, della filosofia della scienza e della stessa metafisica trova nel pensatore francese un
vigore ed una attualità non scalfiti dal tempo e mette in crisi un vecchio pregiudizio
secondo il quale la filosofia di Bergson sarebbe obsoleta ed in più la conclusione di
una stagione della filosofia anteriore alla prima guerra mondiale, incapace di aprire
nuove prospettive che possano far progredire le esigenze teoretiche del pensiero
contemporaneo. Il dibattito sul bergsonismo è stato lungo e doloroso, liquidato da
Sartre con l’epigrafe “il bergsonismo rappresenta una grande corrente del pensiero
d’ante-guerra” (L’imagination, p.112). Riteniamo di poter dire, con F. Worms, che è
grazie all’impegno per i problemi comuni e alle soluzioni di interesse generale che
Bergson merita di essere riletto non solo per se stesso ma in rapporto ai vari Jaurès,
Brunschvicg, Alain, Nietzsche, Husserl, Freud, James, Russel, Whithead e molti altri,
di cui conosciamo il valore e l’importanza.
3
Cfr., fra gli altri, J .R. ARMOGATHE, La mise à l’index de l’Evolution créatrice, in (a cura
di G. Invitto), Bergson . L’Evolution créatrice e il problema religioso, cit., pp. 41-50.
4
Ci riferiamo alla relazione La philosophie et la science, selon Bergson, pronunciata
come discorso di apertura al congresso su Bergson da Anne Fagot-Largeault ,
professore di filosofia delle scienze biologiche e mediche al Collège de France.
5
Così l’ha considerata il presidente poeta Senghor sostenendo la tesi che il ritorno alla
intuizione in Europa significava per lui una reintegrazione nella dimensione dell’uomo.
6
É docente all’università Paris I-Panthéon Sorbonne.
7
Docente all’università di Seul.
8
Direttore di ricerche al CSNS, egli ha pubblicato di recente uno dei più bei saggi critici
su Bergson di questi ultimi anni, La gloire de Bergson. Essai sur le magistère
philosophique, Gallimard, Paris 2007.
9
A. François, segretario della associazione Amis de Bergson ha curato la edizione
critica de L’évolution créatrice ed è autore di studi dedicati a Schopenhauer, Nietzsche
e Bergson.
10
Il capitolo III de L’évolution créatrice è, senza dubbio, uno dei più interessanti
dell’intera opera; di esso vogliamo richiamare questa pagina. “A prima vista può
sembrare prudente lasciare considerare i fatti alla scienza positiva. La fisica e la
chimica si occuperanno della materia bruta, le scienze biologiche e psicologiche
studieranno le manifestazioni della vita. Il compito del filosofo è dunque chiaramente
delimitato. Questi riceve, dalle mani dello scienziato, i fatti e le leggi, e, sia che cerchi
di superarle per comprenderne le cause profonde, sia che ritenga impossibile andare
più lontano e provi questo con l’analisi stessa della conoscenza scientifica, in entrambi
i casi mantiene, per i fatti e le relazioni che la scienza gli trasmette, il rispetto che si
deve alla cosa che è stata giudicata. A questa conoscenza sovrapporrà una critica
della facoltà di conoscere, ed anche, quando è necessario, una metafisica: per quanto
concerne la conoscenza stessa, nella sua materialità, egli la considera come un
problema di scienza, non di filosofia” (E. BERGSON, L’évolution créatrice,- édition
87
critique par Fr. Worms, PUF, Paris 2007, p.195 - Traduzione del brano in italiano a
cura di S.Arcoleo)
11
Professore al Collège de France, dove insegna biologia storica e Evoluzionismo
12
Del Centro di ricerche e di Storia delle Idee (Università di Nizza) e del Centro
Cavailles, dell’ENS di Parigi, studioso della filosofia francese contemporanea ha
pubblicato,fra le altre, le seguenti opere: Bergson ou l’imagination métaphysique,
Kimé, Paris 2007 e “From an immanentist to an emergentist approach to Evolution:
Between Bergson and Darwin,”SubStance, Wisconsin Un. Pr., 114, vol. 36,3 , 2007,
pp. 42- 56.
13
Questo studioso ha pubblicato un pregevole articolo: Bergson et Darwin, nel volume:
Bergson la durée et la nature, coordinato da J. L. Viellard- Baron, pubblicato da PUFDébats, Paris 2004, pp. 119- 135. L’edizione-all’apparenza un volumetto di dimensioni
modeste- ha anticipato molte teorie che sono state esposte, con maggiore ricchezza di
particolari, nel colloquio presso il Collège de France. Presenta i contributi rilevanti di
J.L.Vieillard- Baron,A. Panero, J.F.Marquet, M. Le Moine,P.A. Miquel, P. Montebello,
F.Worms
14
Hee-Jan Han è professore al Collège de France e al Centre Cavaillès, dell’ENS di
Parigi.
15
Alain Berthoz, professore al collège de France, direttore del laboratorio di Fisiologia
della Percezione e dell’azione. Fra le sue opere ricordiamo: A. BERTHOZ et J.L. PETIT,
Phénoménologie et Physiologie de l’action, O. Jacob, Paris 2006; A. Berthoz, Le sens
du mouvement, Jacob, Paris 2007.
16
Cfr. G. VALBÉRT, Un précurseur de l’engagement. Entretien avec Denis de
Rougemont, Magazine littéraire, 161, 1980, pp. 54-56.
17
Henri Hude, maître de conférences, è un apprezzato studioso di Bergson, sul quale
ha pubblicato ben due tomi, Bergson I, 1989, Bergson II, 1990 (premiate dalla
Académie française) e del quale ha curato quattro volumi dei Cours al Collège de
France.
18
Alain Prochiantz, del CNR, dell’ENS, e del Collège de France.
19
P.A.Y.Gunter è professore a Denton-Texas al dipartimento di Filosofia e studi
religiosi. E’ autore di una importante bibliografia su Bergson- Henri Bergson:A
Bibliography, 2 ed. 1986- e di una monografia dedicata a Bergson and the Modern
Thought, 1989
20
Professore all’università di Poitiers.
21
Lettore di filosofia all’università di Dundee-Scozia, UK. Studioso di Bergson ha
pubblicato, fra gli altri, gli studi: Bergson and Religion, in History of the Philosophy of
Religion,vol.5, edited by Graham Oppy and Nick Trakakis, Acumen Press 2007; The
very Life of Things: Reversing Thought and Thinking Objects in Bergsonian
Metaphysics- Introduction to Henri Bergson, Introduction to Metaphysics, edited by J.
Mullarkey, Palgrave-Macmillan, 2007.
22
Roi Tchoe è professore di filosofia all’università di Kyung Hee, di Seul Corea del
sud.. Ha tradotto in coreano Il Saggio sui dati immediati della coscienza di Bergson ed
ha dedicato molti studi alla tradizione filosofica ed alle dottrine di Bergson. Ricordiamo
il suo “Bergson et Bachelard:la durée et l’instant”, in “Le monde de la philosophie
ancienne”, 1995 e “ Bergson et Heidegger”,in “ Heidegger et les Philosophies, 1999.
23
De l’Université de Lille.
88
24
NOTE
Chercheur de l’Université de Liège. Ha pubblicato un saggio molto ben documentato
e di singolare importanza.:Sartre, Merleau–Ponty, Bergson. Les phénoménologies
existentialistes et leur héritage bergsonien, Olms Verlag 2005.
25
F. Ravaisson, Testament philosophique, presenté par Claire Marin, Allia, Paris 2008.
89
GUYAU E UNA MORALE SENZA OBBLIGAZIONE NÉ SANZIONE
di Maria Cristina Fornari
Una bella occasione, la ristampa dell’Abbozzo di una morale senza
obbligazione né sanzione di Jean-Marie Guyau a cura di Ferruccio Andolfi
(Diabasis 2009: già Paravia 1999), per ripensare un autore oggi non noto ai
moltissimi ma in grado di esprimere, in più modi e per più aspetti, la temperie
culturale di un secolo fervido che cercava di conciliare la filosofia e l’etica con
i progressi evidenti e pregnanti della scienza. Nato a Laval, in Normandia, nel
1854 (morto a Mentone poco più che trentenne), educato agli studi classici
dal patrigno Alfred Fouillée, collaboratore alla Revue des deux mondes e alla
Revue Philosophique, autore di numerosi saggi di etica e di estetica che gli
valsero pubblici riconoscimenti (nel 1874 la sua memoria su L’histoire et la
critique de la morale utilitaire ottenne il consenso dell’Accadémie des
Sciences Morales et Politiques), Guyau ebbe fama di scrittore, poeta e
filosofo. In particolare, la sua appartenenza al secolo di Darwin e ancor più
agli anni che vedevano l’affermarsi dell’evoluzionismo spenceriano e delle
teorie utilitaristiche, lo spinsero a cimentarsi con gli autori più rappresentativi
del panorama morale antico e contemporaneo – dagli Stoici ed Epicuro a
Bentham e Stuart Mill – per tentare, lui stesso, vie nuove e meno scontate
alla vita etica, nell’ambito di quella scienza positiva della morale chiamata a
sostituire, in un’Europa ormai decristianizzata, i dogmi della teologia e le
innaturali imposizioni del dovere. Ma di fronte ai “miti progressivi della sua
epoca” – comprese le “religioni del cuore” di stampo comtiano, fino alle etiche
naturalistiche paladine del primato fisiologico dell’altruismo, che Nietzsche
leggerà quali eredi mascherate della teleologia romantica – la prospettiva di
Guayu consisterà «nello sfumare i confini tra il territorio dell’etica e quello
dell’estetica, interpretando l’agire morale, nel suo aspetto più elevato, come
luogo della libera creazione individuale di “ipotesi metafisiche”, capaci di
orientare la condotta ma non imponibili a tutti a parte di qualche autorità
sociale» (p. 8). L’anomia a cui Guyau approda – ancor più fortemente ribadita
in un’opera successiva, L’irreligion de l’avenir. Étude sociologique, Félix
Alcan, Paris 1887 – rappresenta la risposta più matura di un pensatore che
crede fortemente nell’esito libero e spontaneo di una vita votata
all’intelligenza e al proprio felice potenziamento.
Il pensiero di Guyau, che Andolfi ci aiuta a ripercorrere nel suo
saggio introduttivo (La ragionevole ossessione di Jean-Marie Guyau, pp. 7-
90
NOTE
37), muove dall’accostamento della prospettiva sociologica, tipica del
positivismo comtiano, con le teorie evoluzioniste di quello inglese,
incentrandosi soprattutto sugli aspetti sociali dell’etica e dell’estetica. Una
certa tensione etica di stampo kantiano si concilia infatti in Guyau con le
ferree leggi dell’evoluzione, derivandone una morale che trovi nei fatti
naturali, e non in un apriori trascendente o in astratte speculazioni filosofiche,
la sua piena giustificazione. Nessuna ipotesi metafisica può legittimare i
principi morali: né l’ottimismo, con l’illusorio rifugio nella Provvidenza e
nell’immortalità dell’anima o con l’indicazione di principi eudemonistici quali il
piacere o la felicità; né il pessimismo, con le sue conseguenze nichilistiche;
né l’indifferenza della natura, ipotesi allettante ma insoddisfacente. Il principio
della moralità va chiesto alla vita stessa, e non ad una legge che la preceda
o la sottometta: la guida principale di tutti i valori umani (etici, artistici,
religiosi) non può che essere l’impulso vitale, unica base possibile per una
morale libera dai pregiudizi e dalle pressioni esterne.
La vita incarna una forza naturale di carattere espansivo, fecondo e
generoso; come la fiamma, essa non può conservarsi se non comunicandosi.
Orientata dunque verso gli altri per naturale prodigalità, è essa stessa fonte
di moralità e dà a se stessa il nome di dovere. Guyau può così attuare la sua
rivoluzione copernicana, l’inversione dell’imperativo categorico kantiano:
devo perché posso, non esiste obbligazione né sanzione capace di
eguagliare o sostituire questa potente forza impulsiva. Di conseguenza,
l’etica non deve essere un insieme di prescrizioni e di divieti, ma deve
semplicemente limitarsi a riconoscere e favorire la naturale tendenza
dell’uomo verso la socializzazione, in un progresso morale naturale in cui le
ingiunzioni di imperativi categorici e di dogmi religiosi non avranno più
ragione di esistere. «Una morale positiva e scientifica [...] non può dare
all’individuo che questo comandamento: sviluppa la tua vita in tutte le
direzioni, sii un individuo ricco il più possibile in energia intensiva ed
estensiva; perciò, sii l’essere più sociale e più socievole», laddove Nietzsche
dirà invece, significativamente: «Sviluppa tutte le tue forze – ma ciò vuol dire:
26
sviluppa l’anarchia! Perisci!» .
Nietzsche conosceva la Esquisse d’une morale sans obligation ni
sanction (Félix Alcan, Paris 1885) per averla acquistata presso il libraio
Lorentz di Lipsia, e non presso la libreria Visconti di Nizza, come ci informa
erroneamente Fouillée (al Goethe-und-Schiller Archiv di Weimar si conserva
27
la ricevuta d’acquisto del 7 novembre 1884 ). Il suo interesse per
quest’opera è testimoniato dalle numerose glosse a margine apposte al
volume – oggi perduto – fortunatamente riportate da Fouillée già nel 1909 e
che del libro di Andolfi costituiscono un’appendice fondamentale (dobbiamo
all’edizione Paravia del 1999 la loro prima pubblicazione in traduzione
91
italiana). L’altra opera che Nietzsche conosceva, L’irreligion de l’avenir, non è
affatto andata perduta ma è conservata tra i suoi volumi personali presso
l’Anna-Amalia-Bibliothek di Weimar (coll. C 268), anch’essa con numerose
glosse a margine.
Come spesso accade con autori che egli considera, per vicinanza o
per opposizione, suoi interlocutori, Nietzsche intreccia con Guyau un dialogo
virtuale. Se Guyau sembra legittimare la socialità à la Fouillée, il vitalismo
altruista à la Spencer, e si inserisce dunque nel filone che Nietzsche
stigmatizza come “culto malcelato dell’ideale cristiano” (si veda ad esempio il
28
frammento 10[170] dell’autunno 1887) , tuttavia non poteva non interessare
al filosofo tedesco l’idea-chiave della vita come movimento espansivo, come
dépense, al di là di ogni finalismo prefissato e di ogni consapevole teleologia.
Le glosse riportate da Andolfi, e che costituiscono, se analizzate alla luce
della filosofia nietzscheana, uno studio nello studio, mostrano diversi segni di
consenso (“moi”, “gut”, “ja”) coi quali Nietzsche riconosce a Guyau delle felici
intuizioni. Ad esempio, la critica al finalismo troppo angusto della morale
utilitaria, che Nietzsche condivideva fermamente: «Gli utilitaristi o gli edonisti
si sono troppo compiaciuti a considerare la prima specie di piacere [legato ad
una forma particolare di attività; ma] non si agisce sempre con lo scopo di
perseguire un piacere particolare, determinato ed esterno all’azione stessa;
talvolta si agisce per il piacere di agire, si vive per vivere, si pensa per
pensare. C’è in noi della forza accumulata che chiede di essere spesa;
quando il dispendio è impedito da qualche ostacolo, questa forza diventa
desiderio o avversione: quando il desiderio è soddisfatto, c’è piacere; quando
è contrariato c’è pena; ma non ne risulta che l’attività accumulata si manifesti
unicamente in vista di un piacere, con un piacere per motivo; la vita si
manifesta e si esercita perché è la vita. Il piacere accompagna in tutti gli
esseri la ricerca della vita, molto più di quanto non la provochi; bisogna
innanzitutto vivere, poi godere» (Nietzsche sottolinea e scrive “gut” a margine
29
del suo testo) . Ma se Guyau legge quest’impeto vitale ancora come
“mantenersi in vita”, come «tendenza dell’essere a perseverare nell’essere»,
che costituisce per lui il «fondo di ogni desiderio» – non si tratta di un puro
dominio dell’attività in tutte le sue forme, non è affatto energia vitale che
vuole scaricarsi, ma ancora “brama di vita” –, Nietzsche ne prenderà le
distanze, ribadendo il suo concetto di vita: «Io non insegno che il fatto che
ogni essere vuole persistere nel suo essere sia il fondo di ogni desiderio: lo è
invece la volontà di potenza» (glossa a margine del suo testo; sottolineature
30
di Nietzsche) . «Qui si nasconde l’errore», commenta ancora Nietzsche
all’affermazione di Guyau che «l’essere ha sempre bisogno di accumulare un
surplus di forza, anche per avere il necessario; il risparmio è la legge stessa
31
della natura» : per il Nietzsche che stava riflettendo, all’opposto, sulla natura
92
NOTE
persino “assurdamente prodiga” della vita come volontà di potenza, l’incontro
32
con Guyau non poteva che essere stimolante .
Oggi l’interesse per questo “Nietzsche francese” – come qualcuno,
33
con non troppa precisione, ha voluto definirlo – è pressoché scemato ,
complici forse l’ingombrante presenza di Nietzsche o la massiccia influenza
di Bergson, al quale non furono estranee le considerazioni sul tempo
sviluppate da Guayu in La Genèse de l’idée de temps (1890, postumo). Per
alcuni pioniere e precursore di Durkheim, “sociologo interdisciplinare”, storico
34
della filosofia del quale non si sono ancora indagate a fondo le influenze , la
sua riscoperta potrebbe essere senz’altro “assai preziosa per la riflessione
morale contemporanea” (p. 7): la ristampa dell’Esquisse da parte di Andolfi
riaccende l’appetito nei confronti di questo pensatore tipicamente
ottocentesco, ma al quale non si possono negare rigore metodologico e una
certa originalità teoretica.
1
Frammento postumo 6[159] autunno 1880, KSA 9, 237.
Le date non devono stupire: era infatti consuetudine che i volumi uscissero a fine
anno con la data dell’anno successivo.
3
«NB. Forme più celate del culto DELL’IDEALE MORALE CRISTIANO. Il concetto effeminato
e vile di “UOMO” alla Comte, possibilmente addirittura oggetto di culto… È sempre di
nuovo il culto della morale cristiana sotto un nuovo nome… I liberi pensatori, per
esempio Guyau […]. E poi addirittura tutto l’ideale socialista: nient’altro che un balordo
fraintendimento dell’ideale morale cristiano» (KSA 12, 558).
4
Ed. Andolfi p. 217.
5
Ed. Andolfi p. 218.
6
Ed. Andolfi p. 218.
7
Se ne vedano alcuni interessanti aspetti in F. ANDOLFI, Nietzsche e Guyau. Consensi,
dissonanze, silenzi, “La società degli individui”, n. 15, 2002/3, pp. 37-48. Su Nietzsche
e Guyau anche D. PÉCAUD, Ce brave Guyau, “Nietzsche-Studien”, n. 25, 1996, pp.
239-54.
8
Felice eccezione in Italia gli studi di Annamaria Contini.
9
Cfr. H. HALBLITZEL, Jean-Marie Guyau: penseur interdisciplinaire et sociologue,
“Corpus”, 46, 2004, pp. 17-23.
2
93
ALCUNE RIFLESSIONI SU
“LINGUAGGIO E PRINCIPIO DI ESCLUSIONE”
di Tommaso Speccher
Con l’articolo di Ernst Nolte Un passato che non vuole passare,
pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 6 giugno 1986 si suole
dare inizio allo Historikerstreit (“disputa degli storici”): in quella intervista
Nolte lanciò una provocazione destinata a sollevare un ampio dibattito non
solo in terra tedesca e non solo in ambito storiografico. Egli rifletteva in quella
occasione su come «con “passato che non vuol passare” si può intendere
soltanto il passato nazionalsocialista dei tedeschi o della Germania. Il tema
implica la tesi che ogni passato di solito passa e che in questo non passare
c’è qualcosa di affatto eccezionale». La centralità di quella riflessione per il
dibattito attorno alla Shoah non sta solamente nell’avere aperto alle tesi
propagandistiche e sensazionaliste di un certo revisionismo storico quanto
piuttosto nell’avere prodotto due risultati significativi. Quell’intervento permise
innanzitutto la ri-abilitazione (a trent’anni di distanza dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale e soprattutto grazie alle interpretazioni di Kocka e
Habermas) di un necessario “filo di continuità” all’interno del pensiero
conservatore e medio-borghese della Germania. Oltre a questo elemento di
carattere sociale e politico si nascondeva però un ulteriore e annoso
problema, riguardante il concetto di “unicità” dell’esperienza nazista. Il nesso
portante del ragionamento di Nolte era il tentativo di aprire all’idea di una
“pensabilità allargata” dell’esperienza nazionalsocialista, al di là dell’aspetto
dell’unicità razziale ed etnica della Shoah e in vista di una “normalizzazione”
di quell’esperienza all’interno del “ciclo ideologico del Novecento”.
La riflessione nolteiana giungeva in realtà a emancipare
definitivamente - anche a livello “nazionale” (non a caso lo Historikerstreit
coinvolse ampiamente l’opinione pubblica) - un dibattito ormai
cinquantennale, iniziato in maniera manifesta in quel piccolo saggio del 1933
del filosofo Emmanuel Lévinas dal titolo Alcune riflessioni sulla filosofia
dell’hitlerismo e sviluppatosi poi attraverso la Schuldfrage di Jasper del 1946
fino alle riflessioni contenute nella Dialettica negativa di Adorno o alle teorie
di Lyotard sul rapporto tra “Auschwitz e il post-moderno”. Leggere quei due
interventi limite sulla scia di una sorta di continuità non significa forzare il
discorso filosofico all’interno di scuole storiche: significa decidere di andare a
fondo alla radicalità e al significato per la contemporaneità dell’esperienza
della Shoah.
94
NOTE
Non c’è difatto riflessione filosofica, storica o di storia sociale che
possa prescindere, rapportandosi alla storia europea recente, da un
riferimento a quella esperienza: la radicalità dell’oggetto di memoria Shoah
continua tutt’oggi a determinare prospettive, teorie, politiche di chiunque
intenda relazionarsi con le esperienze del secolo passato.
Se è vero quello che dice G. Agamben di come «il Saggio
sull’hitlerismo di Lévinas, con la sua diagnosi senza indulgenze, può offrire
l’occasione per prendere coscienza della nostra imbarazzante prossimità con
il nazismo, non certo in nome del revisionismo ma, anzi, per affrontare una
volta per tutte questa prossimità» allora sembra porsi come necessario
proseguire su di una messa in luce comprensiva di quella medesima
prossimità, liberando i discorsi attorno al non dicibile attraverso cui sembra
definirsi la riflessione sull’Olocausto.
I quattro studi contenuti in La lingua malata. Linguaggio e violenza
nella filosofia contemporanea, (Bologna, Clueb, 2007) di Federico Dal Bo,
risentono della necessità di confrontarsi con una contemporaneità filosofica
impegnata nell’approfondimento di quelle riflessioni, nel tentativo di affinare
nuovi strumenti e prospettive. Il Novecento sembra avere tracciato una
fenditura di ampia portata non solo per quella che è stata la incidenza
effettiva dell’esperienza dell’Olocausto ma per avere messo a nudo
meccanismi che vanno oltre l’insieme di quella esperienza. Il nazismo ha
posto lo spirito europeo dinanzi alla radicalità di questioni che non sembrano
essere risolvibili e che richiedono lo spostamento di strategie prospettiche.
L’interrogazione heideggeriana friburghese del 1934-35 riguardante il
rapporto tra situazione fattizia e compito storico nel rapporto fra il nazionale o
proprio (das Nationelle o das Eigene) e l’estraneo (das Fremde), come del
resto le analisi freudiane de L’uomo Mosé non sono semplici indagini attorno
ad aspetti di cultura ontologica o di carattere psicoanalitico ma definiscono
paradigmi essenziali dentro cui riversa costantemente la condizione del
soggetto europeo contemporaneo. Il problema di “una vocazione storica” (a
quanto pare sempre al di là dal venire) “di trasformare il già dato, il nazionale,
in un dato-in-compito”, problema ontologico di cui parla Heidegger a
Friburgo, ripropone problematicamente la propria centralità nel gioco
perverso e coevo della riflessione freudiana sul nazismo ripresa da Dal Bo
ovvero di quella «visione di una lingua dell’inferno, di un accanito necrofilo e
di un distruttore che hanno prodotto il male fingendo di ricercare un progetto,
un’impresa politica, una rivoluzione». La psicoanalisi come l’ontologia
rappresentano la possibilità di ricucire lo squarcio di senso da cui sembra
essere costitutito il magma nazionalsocialista. Non c’è una unicità di quella
esperienza bensì una pluralità di rimandi a nessi riguardanti la modernità e i
95
suoi assi portanti come il rapporto tra natura e cultura, biologia e filosofia,
metafisica e storia.
Attraverso questo gioco di specchi, La lingua malata di Dal Bo si
produce in un contributo eclettico e innovativo del come può essere pensata
la fenditura rappresentata da quel male radicale. Il nazismo come fatto
storico racchiude una serie di nodi di ordine psicologico e linguistico che
sembrano essere prefigurati dal clima culturale dentro cui verrà a definirsi.
Nel secondo studio del suo testo, La teoria freudiana dell’aggressività:
nazionalsocialismo e uso demagogico della lingua, Dal Bo riflette con
abbondanza di riferimenti, sulla considerazione freudiana del rapporto tra
natura e cultura e attorno alla radicalità semantico-politica di quella
essenziale tensione in rapporto al fenomeno nazionalsocialista. Quando Dal
Bo sottolinea «come ricorda di passaggio lo stesso Freud, il nazismo è uno
oscuro grido di rivolta dell’inconscio dell’umanità contro le istanze morali
rappresentate dall’intera Bildung europea» non sta semplicemente
riprendendo il filo dell’interpretazione psicoanalitica della figura di Hitler
dunque del sistema-nazismo come “incesto” bensì cerca di individuarne
aspetti costitutivi in relazione alla contemporaneità novecentesca.
La nascita e il ruolo stesso della psicoanalisi, come la crisi generale
presente in altri ambiti scientifici, rimandano secondo Dal Bo, a delle costanti
della storia sociale e simbolica europea di inizio Novecento: una di queste è
l’accessibilità ad una comprensione generale del presente storico a cui anche
il nazismo sembra anelare e che coincide con la possibilità di realizzare
pienamente una trasformazione positiva del dato “naturale” in quello
“culturale”. A questo livello Dal Bo determina la centralità critica del
linguaggio che è capace di «intessere nuovamente questo legame che
permetta all’uomo perlomeno di elaborare una strategia di uscita dal muto
mondo della natura» ma che al tempo stesso è esposto al rischio di “potersi
porre al di fuori di ciò che chiamiamo morale, buono e giusto”. Non è un caso
che il ruolo performativo del linguaggio torni dirompente nella riflessione
attorno al dibattito tra “diritto positivo” e “rivoluzione” con cui si confronta Dal
Bo nel quarto capitolo de La lingua malata dedicato a Benjamin e Sorel: «la
lingua è, ancora, lo strumento privilegiato per questa ricerca: dalla
determinazione dell’essenza del linguaggio dipende la direzione del processo
rivoluzionario. Coloro che tra i teorici della rivoluzione hanno compreso il
ruolo decisivo del linguaggio, senza degradarlo a propaganda oppure a
semplice instrumentum regni, hanno dovuto affrontare la questione decisiva
se la violenza sia essenzialmente estranea alla lingua, alla riflessione e alla
teoria – ovvero, se la lingua sia essenzialmente e interamente al servizio di
ciò che chiamiamo morale, buono e giusto». Dietro questa riflessione sul
linguaggio si nasconde quella del rapporto tra la “positività” ed il “significato”
96
NOTE
della storia politica moderna, già espressa sull’asse Benjamin-SchmittDerrida: in gioco non sono tanto le categorie del politico quanto il compito di
una filosofia della storia nel collocare il ruolo del linguaggio come impegno
politico, sociale, educativo. Nelle pagine dedicate ai lapsus heideggeriani,
così come nella riflessione sulla comunanza tra i pensieri greco-latino ed
ebraico attorno all’origine di un vocabolo come barbar, Dal Bo si muove sull’
impervio crinale di chi cerca di “salvare” il linguaggio proprio nel momento in
cui esso sembra esporsi ad una caduta verso il basso, ad una degradazione.
Ma perché lavorare sul linguaggio, perché “salvare il linguaggio”?
Perché pensare che il linguaggio «riesca a riprendersi, a sfuggire alla
violenza e, al pari della Parola divina, che possa tornare a cadere lieve come
rugiada»? Verrebbe da chiedersi se, ancora una volta, non sia la riflessione
di Hannah Arendt a sgombrare il campo dall’equivoco di una gradualità
presente nel rapporto tra il linguaggio e i totalitarismi, tra il linguaggio e la
violenza. La violenza forse non porta misura, come forse non la portano i
“linguaggi dell’esclusione”: «quello che ora penso è che il male non è mai
“radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una
dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero,
perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” il
pensiero, perché il pensiero cerca di andare alle radici, e nel momento in cui
cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità.
Solo il bene è profondo e può essere radicale».
97
La Democrazia nell’età moderna, a cura di C. Vasale e P. Armellini, Soveria
Mannelli, Rubbettino 2008, pp. 566.
Questo corposo testo raccoglie i frutti di una vasta ricerca, che,
promossa di concerto dagli atenei romani “Sapienza” e Lumsa, ha coinvolto
le università di Tor Vergata, di Palermo, di Firenze, di Bologna, di Forlì, di
Camerino, e del Molise. Diviso in quattro parti, esso ospita i contributi di vari
studiosi, tra cui vi sono docenti di Filosofia politica, Storia delle dottrine
politiche, Scienza politica, Storia del pensiero politico moderno e
contemporaneo, Storia dei movimenti e dei partiti politici. E tali contributi,
come altrettanti sguardi mossi da prospettive diverse, benché talora tesi ai
medesimi oggetti, grazie all’abilità dei curatori confluiscono in un’immagine
compiuta, ampia e articolata. Si delinea così un’analisi multidisciplinare del
fenomeno democratico, che, affermatosi appieno solo a partire
dall’Ottocento, affonda però le sue radici fin nell’epoca del Rinascimento.
Infatti, la prima parte, dedicata ai «presupposti» della democrazia,
torna agli albori della modernità. Lorella Cedroni esamina la teoria del
governo misto, elogiato da Machiavelli e Althusius, criticato da Bodin e Vico,
quindi «riabilitato» da Locke e Hamilton. E Alberto Lo Presti descrive
l’utopismo rinascimentale, nelle concezioni della storia esposte da Bodin e Le
Roy, ove il futuro appare come «degenerazione», e nella «visione irenica»
della “Civitas Christiana”. Poi, Paolo Armellini delinea «le forme» del
giusnaturalismo moderno, collegando la teoria contrattuale dello Stato al
federalismo di Althusius, e il nascente diritto internazionale, alla «teoria della
sovranità» di Grozio, rielaborata presto in senso laico-razionalistico da
Pufendorf, e costituzionalistico da Locke. Infine, Gabriella Cotta rileva nel
volontarismo antropologico (Scoto, Ockam, Lutero), e nella sua labile
“soluzione” al «problema del male», le fonti filosofiche del contrattualismo,
per poi individuare le tappe salienti del «lungo itinerario» teoretico, che
conduce sino alla «democrazia dei moderni».
Nella seconda parte, dedicata alla presenza di ideali democratici nei
fenomeni rivoluzionari, Mario Tesini scorge, nella rivoluzione inglese, i tratti
“progressisti” e i richiami alla consuetudine, ricavati dai dibattiti di Putney
come dai diversi repubblicanesimi di Harrington e di Milton. Parimenti,
Giovanni Dessì li scorge in quella americana, ove i valori religiosi-politici della
“Nuova Inghilterra” ispirano sia la Dichiarazione d’Indipendenza, con la
«democrazia “semplice”» di Paine e Jefferson, sia le discussioni sulla ratifica
della Costituzione, col federalismo di Hamilton, Jay e Madison. Poi, Marcello
Musté ci porta nella Francia dell’89, per confrontare i concetti di libertà e di
uguaglianza propri dell’abate Sieyès, di Marat, di Robespierre, e degli
98
RECENSIONI
“enrages”. Infine, Alberto Lo Presti, circa i rapporti tra democrazia e libertà
economica nella rivoluzione industriale, si sofferma sulla filosofia utilitarista di
Hume, ispirante una scienza politica attenta ai ruoli delle fazioni e dei partiti
nelle diverse forme di governo, sul «moderatismo democratico» di Burke, che
richiede un fondamento costituzionale per le libertà civili, nonché sui legami
tra morale e politica teorizzati da Shaftesbury, Mandeville e Smith.
La terza parte, presenta le principali dottrine filosofico-politiche sorte
tra il XVI e il XIX secolo. Lorella Cedroni rinviene, nella Seconda Scolastica
(Vitoria, Suarez, Molina, Mariana, Bellarmino), una visione “egualitaria” del
“diritto delle genti”, che informa il moderno diritto internazionale. Poi, Paolo
Pastori penetra nello svolgimento illuministico dell’idea democratica: colta sia
la centralità di Montesquieu, che “media” tra la prospettiva “etnica” di
Boulainvilliers e le suggestioni egualitario-universalistiche dei giacobini, sia le
peculiarità dell’«altro illuminismo», elaborato da Hume, egli si sofferma
sull’individuo di Rousseau, diviso tra incerti “ritorni alle origini” e l’arduo
“progresso” di una società civile retta dalla virtù, nonché sulle pregiudiziali
filo-assolutistiche di Voltaire, fonti di realistiche svalutazioni della democrazia
(riprese nell’Encyclopèdie), sui dubbi dell’ultimo Diderot, tra repubblica e
“monarchia limitata”, sull’ambiguo sistema democratico dell’Abbé de Mably,
nato dagli antagonismi ma perfezionato dalla concordia, e sul
costituzionalismo federalista dei patrioti americani. Invece, Rocco Pezzimenti
analizza i concetti di storia e politica in Vico, Montesquieu e Cuoco, come
Maria Cristina Laurenti analizza quelli di idealismo e democrazia in Fichte,
Hegel e Schelling, mentre Paolo Armellini, confrontando dottrine
democratiche e liberali, esamina lo “Stato di diritto” kantiano, la “libertà dei
moderni” di Constant, il «garantismo dottrinario» di Guizot, e le concezioni
della libertà e della differenza formulate, rispettivamente, da Tocqueville e
John Stuart Mill.
Nella quarta e ultima parte, dedicata agli sviluppi ottocenteschi,
Salvo Mastellone colloca Mazzini tra i padri della democrazia europea,
mentre Eugenio Guccione, tramite la “Matrona selvaggia” di Gioacchino
Ventura, l’«approdo ideologico» di Gioberti e le aperture costituzionali di
Rosmini, indica nel neoguelfismo italiano un liberalismo aperto alle istanze
sociali propugnate da Lamennais. Poi, Vincenzo Scaloni raffronta il
socialismo francese, quello inglese e quello del “Marx giovane”, mentre
Claudia Giurintano cerca le origini della democrazia d’ispirazione cristiana in
Francia, colte nella scuola di Buchez, e Rosanna Marsala ricostruisce i
princìpi teorici dell’ala democratica del Risorgimento italiano, colti nel
federalismo repubblicano di Cattaneo, nel «socialismo atipico» di Ferrari, e
nella «democrazia sostanziale» di Pisacane. Infine, Maria Pia Paternò riflette
sui problemi della cittadinanza femminile nel mondo occidentale,
99
tratteggiando le origini giusnaturalistiche della idea di eguaglianza, le tesi
“pre-giacobine” della pedagogia rousseauiana, nonché la figura della donna
in Kant, Fichte ed Hegel, per mostrare come i mutamenti semantici subiti
dalle nozioni di “natura” e “cultura”, transitino da un ambito liberaldemocratico (Olympe de Gouge, Mary Wollstonecraft, John Stuart Mill,
Harriet Taylor) a uno socialista (Fourier, Marx, Engels, Bebel), e confluiscano
poi nel concetto di «disuguaglianza di genere» coniato dalle contemporanee
“filosofie femministe”.
Nel complesso, dunque, l’opera può leggersi come una storia del
concetto di democrazia, o meglio, di “Stato democratico”. Tale storia, infatti,
parte dalla fine del Medioevo, perché solo allora, come nota Claudio Vasale
nella sua preziosa Introduzione, «si prepara l’incontro delle grandi tradizioni
politiche dell’antichità, quella democratica ellenica e quella repubblicana
romana». A partire da quel momento, in cui le categorie filosofiche
giusnaturalistiche e contrattualistiche, pur con le loro reciproche differenze,
alimentarono la riscoperta rinascimentale del “governo misto”, inizia il lungo
cammino verso la democrazia odierna, sia poi quella costituzionalisticoliberale, o quella giacobino-radicale. Tale cammino, attraversa la guerra
contadina seguita allo scisma luterano, la guerra civile puritana
nell’Inghilterra seicentesca, la rivoluzione americana e quella francese, i moti
nazionalisti e socialisti scaturiti dall’idealismo tedesco, sino alle
problematiche dell’accesso femminile ai diritti di cittadinanza, ancora irrisolte.
Emerge così il tratto essenziale della prassi democratica, dato sia da una
specifica forma di governo, o modalità d’esercizio del potere, sia più in
generale dalla titolarità di quest’ultimo, che si trasmette in virtù di una
legittimazione ascendente, “dal basso in alto”.
Tale prassi implica un consenso diffuso, maggioritario, ma dotato
pure di concrete capacità “costituenti”, per realizzare un’organizzazione della
convivenza ove l’oggettivazione della funzione “giuridica”, dello “jus dicere”,
non si affidi alla “discrezionalità” della società pre-politica, né al mero “diritto
del più forte”. Implica dunque, forse più di ogni altra forma di governo, una
tangibile traduzione istituzionale, perché non può garantirsi l’effettivo
controllo popolare su chi esercita il potere, senza garantire l’effettività di tale
esercizio – al riguardo, si può osservare, con Paolo Armellini, come il
concetto di sovranità riceva da Locke, contrariamente a quanto si è soliti
ritenere, un ruolo non inferiore a quello ricevuto da Hobbes, pur con le debite
differenze.
Del resto, se la democrazia, sorta nella dimensione classica
(politeista) della polis ateniese, si è poi riprodotta nella realtà politica
(monoteista) del XX secolo, è grazie alla validità del suo principio di fondo: la
meno peggiore tra le forme governative, per gli uomini, è quella da loro stessi
100
Marco Recchi.
RECENSIONI
legittimata, selezionando i governanti e controllandone l’operato. Infatti, il
“governo degli uomini” può tendere al “governo delle leggi”, e allontanarsi dal
“governo sugli uomini”, solo se si mantiene “governo sotto le leggi”, ossia se
queste ultime sono approvate e applicate, se non da tutti gli uomini, almeno
da tutti i cittadini. Tuttavia, nella trasposizione storica della sovranità, dallo
Stato, quale “persona collettiva”, al popolo, quale totalità dei “cittadini”,
aumenta la necessità di formalizzare i criteri di attribuzione della cittadinanza.
E tale iato, tra i componenti della comunità e i detentori dei diritti politici,
costituisce una «perdurante incompletezza» (Vasale). Il rischio, serio, è che
la democrazia, necessitando di regolamentazioni formali, vincolanti con
normative procedurali la partecipazione popolare alla vita istituzionale,
divenga meramente formalistica, sì da rescindere i legami ai valori
“sostanziali”, e tradire così la stessa prassi consensuale. Certo, esso pare
scongiurabile, o almeno affrontabile, tutelando il vero fondamento della
“sovranità popolare”, dato dai diritti fondamentali, preesistenti, dell’individuo.
Eppure, Maria Pia Paternò ci mostra come il sistema democratico, nella sua
evoluzione storica, abbia a lungo conciliato i nuovi postulati individualistici, al
tradizionale modello familiare patriarcale, ove la diversità (tra i sessi) è una
fonte di disparità (sociale, politica, economica).
Da ultimo, allora, forse il lettore potrà pure dubitare, tra il serio e il
faceto, che davvero si tratti solo d’un “rischio”, nella misura in cui l’importanza
spettante alle “regole del gioco”, per non esaurire il “gioco” nelle sue “regole”,
richiede che l’individuo, in quanto tale, si erga a fonte di “valori”, ma che al
contempo “valga”, o si valorizzi, principalmente in quanto “giocatore”.
L’opera ci accompagna così ad approfondire un filone vitale del
pensiero politico, ricostruendone la travagliata “gestazione”, teorica e pratica,
per comprenderne i più recenti sviluppi, sì da offrire un valido contributo alla
formazione, individuale e collettiva, di una coscienza civica democratica.
101
B. Groys, Post scriptum comunista, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma
2008, pp. 95.
Uscito in Germania nel 2006 e ora tradotto in italiano da Silvia
Rodeschini, questo saggio di Boris Groys, docente di Filosofia, Estetica e
Teoria dei media alla Hochschule für Gestaltund di Karlsruhe, entra nel
dibattito sulla fine del socialismo reale con una prospettiva diversa e fuori dal
coro, senza toni da fine della storia o delle ideologie. Nessuna analisi di tipo
politologico o economico si trova in queste pagine bensì un tentativo di
colmare un vuoto di pensiero e un ripensamento di tante certezze
velocemente abbandonate fin quasi a vergognarsene. La prospettiva
filosofico-linguistica di questo tentativo appare quantomeno inusuale in un
periodo, come quello attuale, di collasso generale delle idee della sinistra e di
un autoscioglimento di fatto delle sue strutture politiche e organizzative.
Con ‘comunismo’ egli intende «un progetto che vuole subordinare
l’economia alla politica, per fare agire quest’ultima in modo libero e sovrano.
L’economia funziona attraverso il medium del denaro. La politica attraverso le
parole […]. La rivoluzione comunista è il passaggio di una società dal
medium del denaro a quello del linguaggio. Essa costituisce una linguistic
turn a livello della prassi sociale» (p. 24).
Nel capitalismo conta il denaro, il successo sul mercato delle idee e
delle parole, conta la merce e contano i segni-merce. «Con ciò il linguaggio
viene messo fuori gioco» (ibid.), e con esso l’uomo. Soltanto quando il
linguaggio viene liberato dalla sua mercificazione, dal suo essere funzionale
alla produzione, e torna al suo valore d’uso, antropogenico, solo «allora
l’uomo diviene un essere che esiste nel linguaggio e per mezzo del
linguaggio. L’uomo ottiene così la possibilità di argomentare, protestare,
sollevarsi contro decisioni fatali» (p. 25). Il comunismo – dice Groys –
riconduce l’uomo a questa condizione, alla «verbalizzazione della società»
(p. 29) che comincia con Platone: il filosofo è «colui che pensa il tutto della
società». A differenza delle scienze e delle arti, la filosofia è «un uso del
linguaggio che prende di mira il tutto della lingua» (p. 29), mostrando che «il
lógos è paradosso» e che nessun discorso può evitare di essere
contraddittorio (cfr. p. 32). Lo è il discorso di Platone quando «sostiene che i
filosofi, cioè coloro che per definizione non sono saggi ma che cercano la
verità, devono governare lo Stato» (p. 33). A e non-A sono pensati
contemporaneamente e contemporaneamente ritenuti veri. «Il paradosso è
l’icona del linguaggio, poiché apre la prospettiva sul tutto del linguaggio, […]
è l’icona del lógos nel suo complesso», dice Groys (p. 37).
Sul paradosso vive anche il capitalismo che riesce a mettere a
102
RECENSIONI
profitto sia A che non-A: «Se i lavoratori ricevono più salario, possono
comprare di più, e il profitto cresce. Se i lavoratori percepiscono meno
salario, si può risparmiare sulla manodopera – e i profitti continuano a
crescere. Se c’è la pace, i profitti crescono grazie alla stabilità. Se c’è la
guerra, crescono grazie alla nuova domanda» (p. 41). Ma qui il paradosso,
che si esprime come conflitto economico, può essere «risolto entro il medium
del denaro», contrariamente al paradosso innescato dal linguaggio (p. 65).
Il potere sovietico, appropriandosi della contraddizione che pensa
simultaneamente gli opposti, è il «tentativo di instaurare un governo dei
filosofi», come teorizzato da Platone (p. 44). Il paradosso arriva al potere.
Secondo Groys, nel modo di pensare contraddittorio del
materialismo dialettico il rimprovero di unilateralità gioca lo stesso ruolo di
quello di contraddittorietà interna nella logica formale. Una tesi classificata
come unilaterale, e di conseguenza adialettica, veniva respinta e il suo
sostenitore squalificato (e non solo sul piano teorico, come è ben tristemente
noto); e una posizione era considerata deviante «non per ciò che i suoi
rappresentanti sostenevano ma per il fatto che essi si rifiutavano di accettare
come affermazione vera anche il contrario di ciò che essi avevano
sostenuto» (cfr. pp. 48-49). Essi negavano la contraddittorietà del tutto, che è
la caratteristica della vita. A differenza delle macchine che di fronte a un
paradosso si inceppano, l’uomo può vivere nel paradosso e per mezzo di
esso (cfr. p. 49).
Il punto più alto della «verbalizzazione» del corpo dottrinario del
potere sovietico, ovvero del governare attraverso il linguaggio, viene
individuato da Groys nel famoso intervento di Stalin per negare la tesi del
carattere sovrastrutturale e classista della lingua sostenuta da Nickolaj Ja.
Marr. Secondo Stalin, come è noto, la lingua è comune all’intero popolo,
anteriore all’uso di classe che se ne fa; essa è connessa non solo con
l’attività produttiva, come le macchine e gli altri strumenti di lavoro, ma anche
con tutte le altre attività umane, ivi comprese quelle considerate
sovrastrutturali. In questa presa di posizione staliniana – dice Groys - «viene
riflessa con qualche ritardo la linguistic turn rivoluzionaria, che il partito
comunista sovietico aveva già portato a termine molto tempo prima» (p. 56).
«Non disturba affatto Stalin che con ciò il linguaggio ottenga una definizione
in sé contraddittoria e paradossale» (p. 60).
Viene così confermato che la realtà vivente è una totalità in sé
contraddittoria e paradossale che va vissuta come tale, agendo, in altri
termini, in nodo contraddittorio. Ciò porta a dire Groys che l’evento della
pacifica abolizione del comunismo su iniziativa e sotto la guida dei suoi
dirigenti viene sovente volgarizzato come disfatta nell’ambito della Guerra
Fredda, o come risultato della lotta per la libertà dei popoli soggiogati. Si
103
tratta di spiegazioni inesatte, che non tengono conto della specifica natura
del potere sovietico (cfr. p. 88). I dirigenti comunisti russi, ma anche quelli
cinesi, hanno dato seguito a quello che era il loro compito, basato sulla
convinzione «di dare forma alla storia in modo dialettico e non di sopportarla
passivamente. I marxisti hanno sempre creduto che il capitalismo
rappresentasse la migliore macchina per l’accelerazione economica. Marx lo
ha sempre sottolineato e ha usato questo argomento contro il “comunismo
utopico”. Già dalle giornate della Rivoluzione d’Ottobre era all’ordine del
giorno la proposta di imbrigliare il capitalismo, di strumentalizzarlo e di
metterlo al lavoro nel contesto di un ordine socialista e sotto il controllo del
Partito comunista per promuovere la vittoria del comunismo» (p. 89).
Dopo la fase della statalizzazione, la «ri-privatizzazione ha conferito
definitivamente all’evento del comunismo la sua forma storica. Così il
comunismo non è di fatto più un’utopia – la sua incarnazione storica è
compiuta», dice Groys (p. 93), che immediatamente aggiunge (ed è qui
condensata la proposta provocatoria del libro): «Compiuta significa qui
conclusa e pronta per una ripetizione [cors. ns.]. Di sicuro tale ripetizione non
può costituire un ritorno al comunismo sovietico, che è un fenomeno
storicamente unico e definitivamente concluso. Ma sono molto probabili e, in
realtà, inevitabili ulteriori tentativi di fondare un governo [Herrschaft] per
mezzo del linguaggio, cioè affermare un governo dei filosofi. Il linguaggio è
più universale e democratico del denaro. Su questa base è più efficace come
medium, […] è il medium dell’uguaglianza. […] Evidentemente l’uguaglianza
del linguaggio si rompe e si distrugge, se a tutti i parlanti viene chiesto di
argomentare correttamente sul piano logico formale. Il compito della filosofia
consiste proprio nel liberare gli uomini dall’oppressione del linguaggio
logicamente e formalmente corretto. […] La filosofia è un’istituzione che offre
agli uomini la chance di vivere in contraddizione con se stessi, senza doverla
tenere nascosta. Perciò non si può completamente reprimere la speranza
che questa istituzione si espanda a tutta la società» (pp. 93-94).
Si tratta, ci pare di poter dire, di un ritorno della politica come luogo
della costruzione o della progettazione sociale e della decisione, che oggi
avvengono altrove, nell’economia che ha ridotto la politica a un teatrino dove
ha luogo la “rappresentazione democratica” di interessi che operano dietro la
scena e lontano dagli schermi. Ma – insistendo sulla centralità del linguaggio
posta da Groys e probabilmente spostandone un poco la pertinenza - si tratta
anche di focalizzare la capacità formativa, di scrittura e ri-scrittura del mondo,
del linguaggio stesso, prima ancora della sua capacità comunicativa.
Gli esseri umani, specificamente dotati di linguaggio e in quanto tali
animali progettuali, si distinguono dagli altri animali per la loro capacità di
sfuggire al condizionamento della storia che stanno effettivamente vivendo.
104
Cosimo Caputo
RECENSIONI
Attraverso il sogno, l’abbandono della mente al gioco delle libere
associazioni, che Peirce chiamava play of musement (gioco del fantasticare),
essi sono in grado di prefigurare scenari alternativi, di collegare storie o
esperienze che andrebbero tenute logicamente distinte per amalgamarle in
un nuovo progetto, così come sono in grado di ricostruzioni alternative o in
conflitto fra loro di una certa situazione. La logica del linguaggio si manifesta
così come “logica poetica” (Vico).
L. GHISLERI, L’unità nella dualità. L’ontologia della rivelazione di K.W.F.
Solger, Mimesis, Milano 2007, pp. 140.
Esce per la collana Essere e Liberà della casa editrice Mimesis
l’ultima monografia italiana dedicata a Karl Wilhelm Ferdinand Solger
(1780/1819). Dopo le ricerche in ambito italiano, da parte di Marco Ravera,
Valeria Pinto, Giovanna Pinna e Markus Ophälders, Luca Ghisleri aggiunge
un importante contributo dedicato ad un autore ingiustamente poco
conosciuto, ma ricco di spunti e scorci interpretativi. Lo fa prendendo in
esame tre opere significative di Solger quali Erwin, Dialoghi filosofici su
essere, non essere e conoscere e il manifesto solgeriano, Sul vero significato
e sulla destinazione della filosofia, specialmente nel nostro tempo.
Inoltre, l’opera di Ghisleri può, a nostro avviso, essere letta anche
come un’utile guida introduttiva al pensiero di Solger, poiché l’autore, accanto
alla propria lettura interpretativa, imbastisce un fitto intreccio di citazioni e
relativi commenti, soprattutto concentrati nelle note a piè pagina.
La tensione tra l’idealistica necessità della creazione e la libera
incarnazione di impronta luterana, che sfocia nella doppia negazione
dell’‘attimo della fede’, è il filo conduttore che accompagna Ghisleri attraverso
la disamina della filosofia solgeriana. Detto ciò, con il presente lavoro,
incentrato sul concetto focale di ‘rivelazione’ (Offenbarung), l’autore non ha
voluto indagare semplicemente alcune parti della filosofia solgeriana bensì
ripercorrere l’intero arco speculativo, attraverso il quale Solger espone la
propria filosofia della rivelazione, dispiegantesi nelle tre forme spirituali per
eccellenza: la filosofia, la religione e l’arte. Il tutto seguendo la scia
105
dell’interpretazione di Valeria Pinto e Marco Ravera, che in Italia hanno letto
Solger con particolare attenzione al versante speculativo piuttosto che a
quello estetico. L’originale nota interpretativa fornita da Ghisleri è di carattere
filosofico-teologico, poiché attenta a ricercare le ragioni che fanno di Solger
un autore che, sebbene ancora intriso di elementi idealistici, presenta il suo
lato più distintivo attraverso la libertà dell’incarnazione redentiva, concepita
da un punto di vista luterano.
L’opera è suddivisa in due parti, la prima intitolata La rivelazione tra
arte e religione e la seconda La rivelazione tra religione e filosofia, così da
sottolineare sia la centralità della rivelazione sia la preminente importanza
della religione rispetto all’arte e alla filosofia, tema problematico e mai risolto
definitivamente dallo stesso Solger. A tal proposito, Ghisleri propone nelle
pagine iniziali della seconda parte un’interessante chiave di lettura che indica
come il rapporto solgeriano tra religione, arte e filosofia costituisca «un unico
plesso originario, avente come oggetto la rivelazione divina considerata da
opposte prospettive» (p. 66). In sintesi, alla religione spetta la rivelazione del
divino mentre, per quanto riguarda arte e filosofia, Ghisleri considera uno
sguardo interpretativo che giochi sulla relazione esterno/interno; ovvero l’arte
è la modalità attraverso cui il divino si rende percepibile esternamente come
oggetto estetico e la filosofia è l’autocoscienza interna che riflette il fatto
rivelativo.
Passando ad una breve ricognizione del lavoro, è menzionabile
l’attenzione posta dall’autore nei confronti dell’originalità del piano estetico
solgeriano, ravvisabile nella presa di distanza dalla filosofia dell’arte
schellinghiana criticata, nei dialoghi dell’Erwin, per aver confinato i modelli
ideali ad un’esistenza iperuranica senza vita né sensibilità. Al contrario, lo
sforzo di Solger è di dimostrare come la forza rivelativa dell’idea richieda la
necessaria entrata nell’esistenza da parte di quest’ultima che si fenomenizza
come predicato reale. Da qui deriva il fondamentale richiamo di Ghisleri alla
“molteplice unità” dell’unica idea che, entrando nell’esistenza, si rifrange nelle
quattro idee, ossia Bellezza, Bontà, Beatitudine, Verità per giungere alla tesi
solgeriana che definisce il bello come un’unità idealistico-plotiniana tra finito e
infinito, che mantiene contemporaneamente l’opposizione di matrice paolinoluterana. Ghisleri può, in seguito, soffermarsi sul ‘salto’, sull’esperienza di
rottura dell’‘istante di grazia’, attraverso cui si disvela il bello per proseguire
con la presentazione del concetto di fantasia e con l’accezione tragica
riservata all’arte, luogo di salvezza, che ricadendo nella corruzione del finito
torna nella condizione del peccato. Senza dimenticare di evidenziare la
portata rivelativa della fantasia, che permette all’opera d’arte di ricreare le
cose comuni da una prospettiva essenziale, Ghisleri passa velocemente in
rassegna gli altri elementi essenziali dell’estetica solgeriana quali la
106
RECENSIONI
contemplazione, il Witz e l’entusiasmo per concentrarsi soprattutto
sull’interpretazione teologica dell’ironia, che permette di leggere l’attimo
dell’ispirazione artistica come coglimento della trasfigurazione divina. Tali
osservazioni permettono all’autore di passare alla seconda parte del lavoro,
dedicata al rapporto che la rivelazione istaura tra religione e filosofia con la
finalità di consolidare la tesi, secondo la quale, il rapporto tra finito e assoluto,
mai risolventesi in una sintesi di sapore hegeliano, illustra la filosofia di
Solger come un intreccio tra due punti di vista distinti e in tensione tra loro. Il
primo, di carattere gnoseologico, è ravvisabile nell’istanza idealistica di Dio
che si rivela per conoscersi; il secondo, di carattere ontologico, è la visione
luterana del Dio che annulla il proprio essere per redimere l’uomo dal
peccato.
La riflessione fin qui maturata consente a Ghisleri di indirizzare la
parte rimanente del lavoro verso una conclusione che, chiarendo il significato
del titolo, darà spazio alla tarda riflessione solgeriana dedicata alla vera
mistica e alla relativa concezione «puntuale del nesso di identità e differenza
tra Dio e la sua rivelazione nell’autocoscienza umana» (p. 133), ovvero l’unità
dell’assoluto nella dualità del finito. Ciò è giustamente introdotto da un’attenta
analisi dei Dialoghi filosofici su essere, non essere e conoscere che, dopo
un’introduzione storiografica inerente l’incerta data di composizione, mostra
l’originalità della speculazione solgeriana, contraria sia alla filosofia
dell’identità schellinghiana sia all’infinita espansione dell’Io del “primo” Fichte.
Da quest’ultimo eredita l’autolimitazione dell’assoluto mentre da Schelling la
priorità dell’essere rispetto all’Io per fondare, secondo la definizione di
Ghisleri, un “monismo dialettico e dinamico” (p. 95) mai statico ma
perpetuamente ripetuto nella puntualità dell’attimo della rivelazione, che si
conosce attraverso la riflessione filosofica.
Il rapporto tra filosofia e religione è il tema che interessa il
commento allo scritto programmatico Sul vero significato e sulla destinazione
della filosofia, specialmente nel nostro tempo, analizzato da tre differenti
angolature. Dal punto di vista gnoseologico, Ghisleri evidenzia la tensione
circolare e insieme dialogica tra la percezione immediata del «fatto assoluto»
della fede e la mediazione della coscienza filosofica, che pensando l’assoluto
sostanzia se stessa. Il secondo punto di vista, di carattere ontologico,
presenta la rivelazione della «eterna legge del mondo» (p. 115), incarnata da
Cristo, che Solger non considera storicamente, ma speculativamente come
«modello eterno di struttura della realtà, […], rivelazione continua
dell’universale nel particolare, che mantiene la differenza tra immanenza e
trascendenza» (p. 116). La differenza dialettica è il perno attorno al quale
Ghisleri presenta il terzo motivo di lettura del saggio solgeriano, nel quale
sono sinteticamente messe a confronto natura ed etica. Entrambe sono lette
107
alla luce della rivelazione e riunite dall’autocoscienza umana in cui si rivela la
verità della natura dove l’agire umano diviene compiuta immagine oggettiva
del bene.
Concludiamo ribadendo come la sproporzione ontologica e la
trascendenza divina, conosciuta attraverso una rivelazione istantanea ed
eternamente ripetuta, spiegano il messaggio dell’unità nella dualità
divenendo i punti focali di questo lavoro che apporta un ulteriore sviluppo agli
studi italiani dedicati a Karl Wilhelm Ferdinand Solger.
Andrea Camparsi
C. PADOVANI, Paflasmós. Il battito del Mar Egeo. Viaggio nell’anima della
Grecia, Diabasis, Reggio Emilia 2008, pp. 160.
108
Paflasmós. Il battito del Mar Egeo è l’ultimo lavoro di Cesare
Padovani. Il titolo, chiaramente onomatopeico, riproduce il rumore del mare,
quel mare che racconta la Grecia e la “grecità”, intesa più che altro come una
condizione intima e personale. Il libro è una raccolta di umori, sensazioni,
emozioni che raccontano di viaggi per le isole della Grecia, la terra “del
domani, la terra dell’attesa che qualcosa possa accadere”, come scrive lo
stesso Padovani, e la culla del mito che è “un dire povero perché privo di
retorica”, comunque sempre attuale. Perché l’uomo si evolve, costruisce
grattacieli, butta giù muri, monta la fiera della scienza, ma, al di là di tutto, il
suo alfabeto intimo è fatto di poche lettere, sempre le stesse nei secoli.
Così il mito diventa patrimonio dal quale attingere insegnamenti e in
cui riconoscersi e ritrovarsi. Qualcosa che sopravvive tutt’oggi anche se con
alcune varianti.
Questo è, dunque, il racconto di “spostamenti” fisici che, come
bussola, si avvalgono del mito, della cultura classica, dei filosofi; è la storia di
un uomo, Padovani, che si accetta per quello che è, per “ il mio tutto” come
egli stesso dice, “che è anche il mio bastone, la mia mancanza di equilibrio”.
Ma “tutto scorre” - diceva Eraclito - e allora il viaggio, da sintesi di ciò che
siamo, diventa esperienza catartica che volge lo sguardo verso l’Altro da sé.
RECENSIONI
Ecco che il viaggio in Grecia, “che colma il vuoto dell’esistenza”, diventa
un’anànke, una necessità di crescita, di maturazione, un percorso obbligato
costellato di volti, visioni e presenze: Aristotele, Parmenide, Eraclito. Tuttavia
i riferimenti culturali non sono pedanti, il lettore si siede accanto allo scrittore
e guarda, diventa testimone del suo vissuto e lo condivide anche. Ogni luogo
evoca una storia, una leggenda, un intrigo, una tragedia. Padovani, ad un
certo punto, scorge l’antica acropoli di Kòrintos, dove la Medea di Euripide
giunge per seguire il suo Giasone: Medea, simbolo dell’amore disperato e
tradito, che sceglie di morire con i figli e, al “perché lo fai” di Giasone,
risponde: “Così tu non potrai più ridere di me”.
Un itinerario di conoscenze, letture, incontri oltre le coordinate
geografiche, forse l’esperienza della presa di coscienza di una vita, con i suoi
dolori e l’orgoglio delle sue scoperte.
La traduzione in parole di tutto ciò è possibile perché è la maturità
che lo concede, difatti si tratta di un’avventura solida, supportata com’è dalla
conoscenza, ma non per questo priva di voli. Una serie di riflessioni su Atene
“che non è più quella di una volta”, sul silenzio, sull’abitudine e, a tal
proposito, Padovani cita di nuovo Eraclito per dire che “l’abitudine è la
peggiore calamità per l’uomo ma pure la sua genialità”. Quindi una ricerca
interiore, una ricerca della propria “grecità”, come Itaca per Kavàfis, cosi la
Grecia tutta per Padovani è la terra del ritorno, di un ritorno a sé, più pieno.
109
Federica Rega
PUBBLICAZIONI RICEVUTE
DA “SEGNI E COMPRENSIONE”
Volumi:
M. CASELLA, Gli ambasciatori d’Italia presso la Santa Sede dal 1929 al 1943, Congelo,
Galatina 2009, pp. 648;
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Schelling, bibl. A c. di C. Tatasciore, ETS, Pisa 2009, pp. 140;
D. COFRANCESCO, Debiti. Percorsi tra Storia e Memoria, Sapere, Padova 2009, pp. 80;
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La persona come paradigma di senso. Dibattito sull’eredità di Mounier, a c. di S.
Sorrentino e G. Limone, Città aperta, Troina 2009, pp. 224;
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