Santa Ildegarda e lo “spazio straordinario” del monastero Spesso è stato detto, e non a torto, che alcune grandi donne di cultura del Medioevo devono alla protezione dell’abito monacale la fortuna di essere sfuggite all’accusa di stregoneria, e forse con essa alle orribili conseguenze che appartengono alla storia di tante donne comuni e meno comuni nei secoli bui della caccia alle streghe. È assai probabile che Ildegarda sia stata una di queste donne. Forse l’esempio più illustre. Sebbene in questa sede ci interessi principalmente il sapere medico della santa, è impossibile comprendere la complessità di una figura come quella di Ildegarda prescindendo dalla versatilità della sua cultura, oltre che dalla sua personalità così come emerge dalle vicende biografiche, che sono strettamente connesse all’abbondante produzione scritta. La storia della sua vocazione comincia come quella di tante altre fanciulle offerte a Dio dai genitori: la piccola Ildegarda infatti nasce nel 1098 in una famiglia di rango nobiliare e destinata, non unica fra i numerosi fratelli e sorelle, alla vita religiosa fin dall’età di otto anni. Tuttavia la bambina aveva mostrato fin dalla prima infanzia i tratti di una personalità non comune, uno spirito e una sensibilità acuti, uniti, per contrasto, a un fisico fragile e cagionevole. Nella sua biografia, secondo uno schema consolidato delle vite dei santi, emergono già dalla fanciullezza i primi episodi del dono profetico che si sarebbe manifestato nella sua pienezza nel tempo dell’età adulta. La vita del monastero sembra essere subito gradita a Ildegarda, che viene affidata a una tutrice, Jutta von Sponheim, incaricata di impartirle le nozioni e le competenze richieste all’inserimento di una novizia, e alla cui morte, circa trent’anni dopo, la santa sarebbe subentrata nella direzione del monastero. Ildegarda nei suoi scritti ha spesso tenuto a sottolineare la sua presunta mancanza di cultura. Implicitamente intendeva spostare l’origine della propria conoscenza nella sfera di quel dono visionario, che spesso aveva vissuto con disagio, ma che aveva permeato la sua intera esistenza. A discapito di queste dichiarazioni, la vastità della cultura della monaca ci parla di una preparazione maturata nei tempi e negli spazi dilatati del ritiro monastico, alimentata da un’innata curiosità di sapere. Con ogni probabilità Ildegarda nutrì la sua anima non solo con i testi delle sacre scritture, ma ebbe anche accesso agli autori latini, agli scritti della filosofia neoplatonica, a parte della vasta produzione enciclopedica medievale. Attraverso gli scritti dei naturalisti si appassionò alle scienze naturali; dalla trattatistica musicale apprese le leggi misteriose e perfette della composizione. La sua lunga vita è stata scandita dalle regole e dalle vicende della quotidianità claustrale, prima a Disibodenberg e in seguito nel monastero di Rupertsberg, da lei stessa fondato; un mondo chiuso ma addolcito da affetti profondi maturati negli anni: la vivida relazione spirituale e intellettuale con i tre segretari che hanno accompagnato negli anni la stesura delle sue opere, Volmar, Goffredo e Gilberto; il rapporto filiale con la giovane monaca Riccarda, figlia spirituale amatissima. La forza di queste relazioni è la rappresentazione di un mondo affettivo ristretto ma allo stesso tempo intenso, imposto dalla convivenza serrata, dall’isolamento e dalla dilatazione emotiva della clausura. In realtà Ildegarda lasciò in più di un’occasione le mura del Ildegarda di Bingen ritratta nel Rupertsberger Codex del Liber Scivias, 1151 d.C. Santa Ildegarda è una tra le figure più emblematiche della storia della medicina femminile. Guaritrice mistica e curiosa indagatrice della natura umana, ha saputo elaborare una filosofia medica di grande spessore e originalità. A lei va il merito di aver avuto cari i temi della sessualità femminile, assegnando alla donna un ruolo di parità e compartecipazione all’interno della coppia. 90 convento, fino a tarda età e anche in condizioni di salute precarie, chiamata dal mondo a consegnare, attraverso viaggi pastorali e la predicazione nelle cattedrali, la sua visione della vita monastica e della Chiesa. Deve inoltre alla sua tempra eccezionale l’aver saputo intrattenere relazioni con alcuni tra i più grandi personaggi del suo tempo. Innanzitutto San Bernardo, con il quale intraprese una corrispondenza epistolare, e che la sostenne nell’accettazione del dono profetico. Ma è proprio attraverso lo strumento epistolare, un’abbondantissima produzione di missive che accompagna un lungo periodo della sua vita, che la santa riesce a superare i limiti angusti della clausura per portare la sua voce alle grandi personalità del suo tempo, sia nell’ambiente ecclesiastico che temporale. Ne è prova il particolare rapporto di confidenza intrattenuto con Federico Barbarossa, che arrivò a invitarla nel suo palazzo spinto dalla fama di profetessa, desideroso di trovare nella visione di questa nuova pizia conferme e incoraggiamento per le sue ambizioni politiche. Ildegarda sarà per lui una voce autorevole e ammonitrice, sempre rispettata; dal canto suo, la santa non ebbe timore di esprimersi nei confronti del sovrano anche con parole dure, cariche di rimprovero, come una madre verso un figlio difficile da disciplinare. Lo scontro ideologico tra i due sembrò rafforzarne il rapporto di affettuoso rispetto reciproco più che produrre rotture: Federico avrebbe avuto modo di dimostrare la sua gratitudine alla badessa offrendo personale protezione al suo monastero in un momento di tempesta politica. La produzione scritta di Ildegarda è vastissima ed eterogenea, divisa tra teologia, medicina e composizione musicale, ma accomunata da un’unità di ispirazione che porta i segni di una visione del mondo di grande impatto filosofico. Cominciò a scrivere intorno ai quarant’anni, finalmente risoluta a dare voce alle visioni che l’avevano sopraffatta fin da bambina e sempre accompagnata nel suo percorso di vita, ma che aveva a lungo pudicamente nascosto. I suoi scritti infatti erompono dal mondo interiore, e sono per sua stessa ammissione il prodotto di un sapere non acquisito da regolari studi, ma infuso dal dono mistico, e quasi incompreso da lei stessa, incolto strumento. I libri profetici sono certamente il fulcro della sua produzione: sono lo Scivias (Conosci le vie), il Liber Divinorum Operum (Libro delle opere divine) e il Liber Vitae Meritorum (Libro dei meriti della vita). L’impulso visionario che li anima è il centro del mondo spirituale di Ildegarda, che tuttavia riesce a non perdere la sua ispirazione anche in opere apparentemente diverse, in realtà generate da una medesima visione. Lo stesso vale per le composizioni musicali, raccolte nel Symphonia harmoniae celestium revelationum, che oltre a fare della santa la prima donna compositrice della storia, rappresentano un’altra faccia del dono mistico, che si compiace della bellezza del creato attraverso la perfezione dell’armonia musicale. Gli effetti della musica sull’equilibrio psicofisico dell’individuo rientravano anche nella riflessione sulla salute globale dell’uomo, secondo antiche intuizioni che risalivano alla filosofia pitagorica. Ildegarda è come una nuova Teano, la filosofa, forse moglie di Pitagora stesso, che non solo era stata una medichessa, ma aveva fama di aver elaborato una teoria della salute del tutto simile a quella riproposta dalla badessa di Bingen. In un’ottica moderna nasceva, o per meglio dire riemergeva dalla sapienza filosofica del passato, l’approccio musicoterapico, perfettamente integrato nei principi della medicina ildegardiana, che ora andiamo ad esplorare attraverso gli scritti più specifici. 92 Un approccio olistico alla salute Attraverso la produzione scientifica e medica di Ildegarda approdiamo a quella parte del sapere della monaca non direttamente guidato dall’influsso delle visioni e, in un certo senso, libero dal turbamento e dai conflitti interiori provocati dalla conoscenza profetica. È il sapere dell’Ildegarda curiosa indagatrice del creato, che nonostante tutto non abbandona il bisogno di inquadrare le cose della natura nel disegno provvidenziale, ma si immerge in un progetto di indagine più attinente a una scienza pratica, al servizio della quotidianità delle attività quotidiane del monastero. Si usa presentare il suo corpus naturalistico sotto i titoli di Physica (o Libro delle medicine semplici) e Causae et Curae (Cause e Cure, o Libro delle medicine composte). La Physica è un testo di grande impegno, composto di nove libri, che si proponeva di presentare secondo uno schema enciclopedico il mondo della natura come straordinaria risorsa terapeutica al servizio dell’uomo: erbe, alberi, animali, pietre preziose e metalli sono classificati e indagati attraverso le virtù curative che sono loro proprie, senza abbandonare il gusto per una scrittura immaginifica, l’interesse per mitologie e simboli e una visione filosofica di fondo. Sullo sfondo si staglia il principio generale che presiede ai meccanismi della vita, che è fatta dei quattro elementi fondamentali, il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, e dalla mescolanza dei quattro umori, ovvero caldo, freddo, umido e secco, la cui predominanza o recessione dà luogo a equilibri e caratteristiche differenti determinanti anche per stabilire lo stato di salute o malattia. L’uomo è il terreno di indagine privilegiato di un sistema che ricalca le leggi del macrocosmo, che riproposte sull’individuo ne fanno il riverbero perfetto della bellezza del creato. Ogni aspetto della natura è collegato secondo una prospettiva organicistica che oggi è tornata di grande attualità, e che fa di Ildegarda una precoce fautrice dell’approccio olistico alla salute. L’attenta analisi delle combinazioni umorali permette di utilizzare un adeguato bilanciamento nella ricerca di caratteristiche simili, oppure opposte, nelle erbe curative (così come anche nelle pietre preziose e nei metalli), promuovendo una proposta terapeutica non standardizzata, ma vestita sulle specifiche esigenze e caratteristiche del singolo. Poiché infatti anche le erbe sono catalogate in calde e fredde, il loro utilizzo aiuta a combattere nella persona un eccesso della qualità opposta, secondo il principio allopatico del curare attraverso i contrari applicato alla fitoterapia. Ildegarda non trascurava nemmeno l’influsso che gli astri potevano avere su erbe e piante nelle diverse fasi vegetative, determinandone una maggiore o minore efficacia curativa: la sua è una visione aperta, allargata, che lascia pensare alla consultazione di testi eterogenei, forse a un interesse per i principi della scienza alchemica, che potrebbe aver fornito un presupposto non trascurabile. Il Causae et Curae propone un taglio più prescrittivo, pur presentando al suo interno teorie cosmologiche, oltre che mediche, spesso difficili da integrare tra loro in una visione unitaria. È introdotto da una descrizione della creazione, seguita da un approfondimento del ruolo dell’uomo nell’universo, insieme alla teoria dei quattro elementi. Nel suo complesso ci fornisce una testimonianza verosimile dell’esperienza pratica che Ildegarda poteva avere acquisito nell’orto dei semplici, e presenta uno schema ricorrente nei corpora medici, che affiancavano alle opere teoriche testi di consultazione pratica: una sistemazione che abbiamo già avuto modo di osservare nel corpus attribuito a Trotula de Ruggiero. 93 Il raffronto tra queste due grandi medichesse, peraltro, non può sfuggire, se pensiamo che furono contemporanee, anche se hanno stigmatizzato realtà che appaiono diversissime fra loro. Trotula, la medichessa laica, empirica, autrice di opere di ampia diffusione, sembra ai nostri occhi portare la bandiera di un’emancipazione femminile più moderna, accettata e integrata nel mondo scientifico; Ildegarda è al contrario la ricercatrice ispirata, appartata, che studia la natura nelle stanze chiuse del suo ritiro dal mondo, nel microcosmo dell’orto claustrale. Ma è anche la mistica, la pizia cristiana, la donna toccata dal dono profetico, tanto più vicina a quell’antico archetipo della guaritrice in cui la conoscenza botanica era solo ciò che emergeva in superficie di una capacità di risanare arcana e irrazionale. La coesistenza di queste due dimensioni è la cifra distintiva della medicina di Ildegarda: da una parte, la viva curiosità naturalistica dell’instancabile indagatrice delle cause; dall’altra, una biografia ricca di episodi di guarigione miracolosa. La santa eliminava il male fisico e spirituale attraverso la benedizione di gesti o parole, oppure ricorrendo alle virtù di erbe e pietre: i suoi miracoli avevano il sentore delle antiche consuetudini magiche pagane, rivisitate dal linguaggio della religione di Cristo e dai modi delle pratiche esorcistiche. Herbae et cantus: erbe e incantamenti. Questi, nell’immaginario di molti secoli, avevano rappresentato gli strumenti congiunti di streghe e maghi, figure ben distinte dal medico, che si affidava invece solo alle prime, le erbe, non avendo la scienza accesso al potere della parola. Solo ricondotti nell’alveo rassicurante del monastero, e nelle mani di una donna consacrata, gli antichi poteri femminili di guarigione potevano riaffermarsi in piena libertà. Ildegarda aveva facoltà di guarire facendo il segno della croce sulle parti malate del corpo, o di benedire con l’acqua accompagnando al gesto la recitazione di passi delle sacre scritture. In un caso specifico riportato dalle fonti fornì indicazioni terapeutiche per via epistolare, quando una donna di Losanna, afflitta da un flusso inarrestabile di sangue, le scrisse per sottoporle la propria sofferenza: Ildegarda le rispose indicando una formula da recitare vicino al ventre: “Nel sangue di Adamo la morte è sorta. Nel sangue di Cristo si è estinta. Per questo sangue di Cristo io ti ordino, o Sangue, di fermare il tuo flusso”. Pronunciate queste parole la donna immediatamente guarì. Se è vero che le caratteristiche dell’episodio lo inseriscono bene nei canoni della narrazione agiografica del tempo, è altrettanto vero che la guarigione attraverso la recitazione di formule, insieme al ricorso alle virtù delle pietre preziose, compare anche nelle pagine della Physica, così come era anche presente nei testi di Trotula. Contrariamente alla diffusione degli scritti di Trotula e alla risonanza del personaggio, è sorprendente come invece le opere mediche di Ildegarda per lunghi secoli siano passate quasi del tutto inosservate, a discapito della complessità di filosofia e contenuto, e nonostante il grande interesse che oggi suscitano agli occhi del mondo. La riscoperta del pensiero di questa donna straordinaria infatti è attualmente oggetto di approfondimento sia da parte del mondo accademico che di tutti coloro che hanno riconosciuto nel suo universo culturale temi fortemente attuali. La sua visione della salute, in particolare, stupisce per la lucidità di un approccio che oggi definiamo olistico, e che stentiamo a ricondurre a tempi così lontani. Ildegarda e le stagioni. Liber divinorum operum Codex Latinum 1942, XXX. Biblioteca Statale di Lucca. Illustrazione tratta da un codice ildegardiano del XII secolo, che raffigura la terra sferica e le quattro stagioni. L’importanza simbolica della quadripartizione ricorre in diversi concetti fondamentali espressi dalla santa, anche riguardo ai temi della salute, dove fondante è il rapporto fra i quattro elementi e le quattro qualità: calda, fredda, umida, secca. 95 Eppure, la medicina ildegardiana si fonda su una visione dell’individuo che potremmo definire “ecologica”, ridefinita su un rapporto di sintonia tra la componente fisica, psichica e spirituale, oltre che su un armonico senso di appartenenza all’ordine cosmico. Ed è interessante che sintonia e armonia richiamino ancora i termini dell’universo musicale, perché la complessità dell’essere umano porta in fondo verso la ricerca della sinfonia perfetta. La malattia, in quest’ottica psicosomatica, si origina dalla rottura dell’equilibrio, e la sua causa va cercata nella psiche, nelle emozioni, in quel malessere del vivere che consuma l’energia vitale. Con stupore tra le pagine della santa incontriamo la depressione, male che erroneamente attribuiamo alla società contemporanea, vista con gli occhi di una donna del XII secolo. Anche questo male dello spirito vede nella ricerca interiore e nella comprensione di sé i soli presupposti alla guarigione. È bene inoltre soffermarsi su un fatto di non poco conto. L’elaborazione filosofica di Ildegarda sui temi della salute e della malattia era filtrata da un’esperienza diretta della sofferenza fisica, che attraverso la quotidiana convivenza con uno stato cagionevole del fisico l’ha accompagnata lungo la sua pur longeva vita. Il tema del martirio, della sopportazione del dolore, insopprimibile tentazione della testimonianza mistica, sembra essere stranamente ricorrente nell’esperienza femminile. Motivo comune alla biografia di tante grandi sante visionarie, è l’altra faccia della medaglia della dedizione alla salvezza dell’umanità, come se la sofferenza costituisse una sorta di chiave d’acccesso alla sublimazione della virtù cristiana. Questo sentire trova rispondenza in numerose testimonianze di coloro che, facendo esperienza della malattia, e nel tentativo di dare un senso alla propria condizione, lo trovano in un inaspettato senso di comunione con Dio, o nell’acuirsi di una sensibilità vicina a una dimensione più alta dell’esistenza. L’essere guaritrice e malata allo stesso tempo, nel caso di Ildegarda, segna la conferma di un destino voluto da Dio ai fini di uno scopo più alto. È lo strumento, certamente non casuale, che approfondisce e dà spessore alla sua capacità terapeutica. Se molte altre mistiche fecero della volontà di sofferenza una vera e propria ossessione, ciò che salvò Ildegarda fu uno straordinario amore per la vita e i suoi doni. Studiare una via per onorare la bellezza dell’esistenza terrena attraverso la ricerca della salute fu il suo modo di sublimare un personale conflitto col tema della sofferenza. Un rispetto profondo per il femminile Ildegarda ha avuto il merito di aver espresso una visione del cosmo e della natura personale e non pedissequamente tratta dalle fonti, nonostante fosse certamente supportata dallo studio e dalla conoscenza di una letteratura specifica. È consapevole della piccolezza di ogni punto di vista umano che sta ai margini della verità delle cose: come donna, poi, essendo figlia del suo tempo, sa di essere il contenitore di una natura ancora più fragile, una paupercula feminea forma, “povera piccola donna”: la più umile delle creature, dunque, scelta nonostante tutto per qualcosa di grande. Come lei stessa scrive: La donna è debole e guarda all’uomo perché si prenda cura di lei, come la luna prende la sua forza dal sole; perciò deve essere soggetta all’uomo e sempre servirlo.19 19 Ildegarda di Bingen, Liber divinorum operum, IV, 65. 96 CAUSE E CURE: LE RICETTE DI ILDEGARDA Contro il mal di testa dovuto alla malinconia Se la malinconia, suscitata da diverse febbri, fa dolere il cervello di un uomo, questi prenda malva e il doppio di salvia e le batta in un mortaio sino a ottenerne il succo. Vi aggiunga, poi, un poco di olio di oliva o, se non ne avesse, un poco di aceto, e lo stenda, quindi, di fronte alla sommità del capo, sino alla nuca, e vi leghi poi un panno. Faccia questo per tre giorni. E in questi tre giorni rinnovi verso sera l’olio o l’aceto e continui così sino a quando starà meglio. Infatti, il succo della malva dissolve la malinconia, mentre il succo della salvia la secca, l’olio di oliva blandisce la testa spossata e l’aceto estirpa l’acume della malinconia. E tutt’e quattro, combinati insieme, alleviano il mal di testa. Contro la cattiva digestione Se un uomo, dopo aver mangiato, non riesce a digerire, beva succo di aristolochia lunga, tanto quanto pesano due monete, e succo di pimpinella, per il peso di una moneta, e succo di lassativo, per il peso di un obolo, e zenzero, per il peso di un obolo, e un poco di fior di farina, e con questo si preparino tortelli della larghezza di una moneta, ma piuttosto spessi, e li si cuoccia al sole o in una fornace quasi raffreddata. E chi soffre dell’infermità suddetta, se è caldo al suo interno, essendo il cibo bruciato, prenda un tortello al mattino e a digiuno, mentre, se è freddo al suo interno, essendo il cibo congelato e compresso dal freddo, ne mangi due o tre, al mattino e digiuno. E il cibo che mangerà per primo sia ancora un brodetto, e poi mangi altri cibi buoni e delicati. E faccia così, sino a quando si sentirà liberato nello stomaco. Il calore dell’aristolochia lunga è piuttosto acuto e forte e, combinato alla freddezza della pimpinella, sommuove nell’uomo gli umori malsani, che il calore dello zenzero dissolve, mentre la freddezza del lassativo li fa espellere di colpo; il fior di farina, infine, rafforza lo stomaco, affinché non venga danneggiato. E dopo essere stati cotti al sole - il cui calore è forte - o in una fornace ancora calda - il cui calore è sano - se vengono dati all’uomo dolorante, come detto innanzi, purificano il suo stomaco nel modo che si è detto. Prendi lo zenzero e riducilo in polvere, e mescolalo con un poco di succo dell’erba che si chiama calendola; fanne poi, con un poco di farina di fava, alcuni tortelli e cuocili in una fornace, il cui calore stia ormai scemando, e mangia quei tortelli sia a stomaco pieno sia a digiuno. Contro l’insonnia Chi non riesce a dormire a causa di qualche contrarietà, prenda, se è estate, un poco di finocchio e il doppio di millefoglie, e li faccia bollire in poca acqua e, tolta l’acqua, metta quelle erbe calde sulle tempie, sulla fronte e sul capo, e vi avvolga sopra un panno. Prenda, poi, salvia fresca e l’asperga con un poco di vino, la metta sopra il cuore e intorno al collo, e in tal modo concilierà il sonno. Se è inverno, faccia cuocere i semi di finocchio e la radice del millefoglie e li metta intorno alle tempie e al capo, come detto innanzi, e disponga la salvia in polvere, inumidita col vino, sopra il cuore e intorno al collo e fermi il tutto legandovi un panno. In inverno, infatti, non può procurarsi le erbe verdi, ma nel modo che si è detto riuscirà a dormire meglio. Il calore del finocchio, invero, induce ad addormentarsi, mentre il calore del millefoglie stabilizza il sonno; il calore della salvia, infine, rallenta il cuore e placa le vene del collo, sino a far sopraggiungere il sonno. E quelle erbe, riscaldate nella dolcezza dell’acqua ed esaltate nel loro calore, si mettono intorno alle tempie per placarne le vene, e si dispongono anche sulla fronte e sul capo per ispirare al cervello la quiete e, inoltre, i semi di finocchio e di millefoglie si cuocciono in acqua, per via della dolcezza dell’acqua, mentre la polvere di salvia viene messa nel vino, per esaltare la sua proprietà curativa. 97 Contro le difficoltà del parto Se una donna incinta fatica molto durante il parto, si cuoccia in acqua, con precauzione e grande controllo, un poco di erbe leggere, ossia il finocchio e la renella, e tolta l’acqua, le si disponga calde intorno ai fianchi e al dorso della donna, legandole delicatamente con un panno che le tenga ferme, affinché il dolore e le chiusure si sciolgano un poco più facilmente e dolcemente. Gli umori cattivi e freddi che sono nella femmina quando è incinta, la contraggono e la chiudono, ma il soave calore del finocchio e della renella, esaltati dalla dolcezza dell’acqua messa sul fuoco e disposti intorno ai fianchi e al dorso, dal momento che proprio in quei punti la donna soffre per la contrazione, stimolano le membra ad aprirsi. Contro il raffreddore Se si sente troppo dolore nel soffiarsi il naso, si prenda un poco di finocchio e quattro volte tanto di aneto e li si metta sopra una tegola di pietra o sopra un mattone leggero, riscaldati al fuoco, e si spargano qua e là il finocchio e l’aneto, affinché facciano fumo, e con le narici e con la bocca se ne aspiri il fumo e l’odore; si mangino poi con il pane il finocchio e l’aneto scaldati, come si è detto, sulla pietra. Così si faccia per tre o quattro o cinque giorni, sino a quando il flusso nella testa e nelle radici si sia sciolto dolcemente e gli umori effluenti si siano separati delicatamente. Il calore e l’umidità del finocchio, invero, raccolgono e contraggono gli umori sparsi e separati indebitamente, e l’asciutta freddezza dell’aneto li secca, se entrambi vengono temperati insieme sopra il mattone bollente, in ragione della sua natura sana, come detto innanzi. Contro la smemoratezza Chi, contro la propria volontà, è smemorato, prenda ortica irritante e la pesti sino a ottenerne il succo, vi aggiunga un poco di olio di oliva e, quando va a dormire, si unga il petto e le tempie con quel preparato e lo faccia spesso, e in lui la smemoratezza diminuirà. Infatti, il calore acuto dell’ortica irritante e il calore dell’olio d’oliva eccitano le vene compresse del petto e delle tempie, che erano un poco addormentate invece di essere vigili. Del bagno di vapore Il bagno di vapore, ossia quello riscaldato da pietre ardenti, non è indicato per un uomo che sia magro e secco, perché egli diventerebbe ancora più secco. Ma per chi ha le carni grasse, il bagno di vapore è buono e utile, perché reprime e riduce gli umori che in quell’uomo sovrabbondano. I bagni a vapore, preparati con pietre calde, sono però utili anche a chi soffre di gotta, perché gli umori che sempre salgono in lui, vengono sensibilmente placati dal bagno di vapore. Ma con un bagno nell’acqua gli umori cominciano a salire e a muoversi in modo piuttosto insano, perché le carni, il sangue e le vene di chi soffre di gotta passano a uno stato di instabilità. Le pietre contengono fuoco e diverse umidità. Quando vengono poste sul fuoco l’umidità che è in loro non può essere completamente allontanata, e per questo motivo non è sano utilizzarle per preparare un bagno di vapore; è invece molto più sano servirsi a tal fine di mattoni, perché sono cotti e asciutti. Infatti, l’umidità che era in loro è stata del tutto eliminata dalla cottura. Chi, dunque, vuole prendere un bagno di vapore, deve prepararlo con i mattoni. Se non riesce a procurarsi i mattoni, prenda la pietra arenaria, perché questa ha in sé un fuoco più mite e una più mite umidità delle altre pietre; ma non prenda le pietre silicee, perché queste hanno in sé un forte fuoco e perché nell’acqua si sono riempite di diverse umidità. A pp. 100 - 101 Giorgio Kienerk, L’enigma umano: il dolore, il silenzio, il piacere, 1900. Pavia, Musei Civici. I simboli affascinanti e misteriosi dell’alchimia in un trittico al femminile: tre donne enigmatiche avvolte in drappi di differente colore interpretano tre passaggi fondamentali dell’opera alchemica: la Viriditas, la Nigredo, l’Albedo. 98 Debole e inferiore nel corpo, secondo un dogma incontrovertibile nella mentalità medievale, ma pari per dignità e intelletto agli uomini di fronte a Dio. E mai dimentica dei privilegi della femminilità. Come abbatissa di una comunità si impose per aver favorito all’interno del convento alcune concessioni ai vezzi femminili che furono certamente malviste dagli osservatori del tempo. Le consorelle venivano infatti incoraggiate ad esibire, nei giorni di festa, gioielli e altri ornamenti, più indicati per la vita secolare che per quella monacale. Con questa scelta intendeva sottolineare una gioiosa rivendicazione di femminilità per coloro che, spose di Cristo, avevano abbracciato la più pura delle unioni spirituali: era il suo modo di ribadire l’allontanamento da quell’antico rituale di negazione e annullamento della femminilità ritenuto parte integrante della scelta del convento. E proprio in quanto donna di grande tempra Ildegarda ci regala il privilegio di un personalissimo angolo visuale. Uno degli aspetti più originali del suo pensiero è proprio la riflessione sulla sessualità femminile, fondamentale per mettere a punto un concetto completo di salute della donna. L’indagine medica sull’anatomia e le patologie specificamente femminili aveva prodotto una lunga tradizione di testi dedicati alle malattie e ai disturbi dell’apparato riproduttivo, riflesso di un approccio che dal punto di vista maschile riportava l’interesse per la donna al suo ruolo “strumentale”, cioè quello riproduttivo. Ildegarda è invece attenta ad indagare il fondamento e il senso delle cose. La funzione sessuale rimane per lei al centro della vita di ogni donna, essendo effettivamente il fulcro della sua identità sociale, nel segnare i passaggi importanti dell’esistenza. La sua novità riguarda la proposta di un’indagine profonda e di una decisa rivalutazione del ruolo femminile all’interno della coppia, che pone la donna su un piano di parità e assoluta compartecipazione. In fondo una simbologia al servizio della sfera del femminile è presente in tutta l’opera della santa, anche e soprattutto nei testi teologici, dove Eva e Maria ripropongono i due poli dell’immaginario cristiano del femminile. Nella filosofia di Ildegarda la donna, madre o vergine (oppure entrambe le cose, nella suprema sintesi di Maria), è tramite della salvezza dell’umanità, metafora di amore assoluto e saggezza. Sul piano fisico esprime gli stessi significati attraverso un corpo dedito alle funzioni della maternità, spesso idealizzata, così come il matrimonio, che ne è la premessa, e l’unione spirituale, oltre che fisica, con il compagno. Anche il piacere dell’atto sessuale rientra in questa visione un po’ mistica, certamente poetica, di Ildegarda, modernissima rispetto al suo tempo, ma che coinvolge e legittima pienamente la partecipazione gioiosa della donna, aspetto che certamente doveva aver rivestito poco interesse nelle riflessioni di filosofi e medici maschi. il piacere nella donna è simile al sole, che teneramente, lievemente e costantemente pervade del suo calore la terra, affinché dia frutto, perché, se vi si riversasse sempre con asprezza, danneggerebbe i frutti più che giovarvi. Così, il piacere nella donna è tenero e lieve, ma con assiduo calore, per poter concepire e generare la prole, poiché, se restasse costantemente nel fervore del piacere, non sarebbe adatta al concepimento e al parto. Quando, infatti, nella donna insorge il piacere, è più lieve che nell’uomo, dal momento che il fuoco non arde in lei come nell’uomo.20 20 Vd. Calef, F. (a cura di), Cause e Cure delle infermità, Palermo 1997, p. 130. 99 In questa visione trova pieno rispetto la peculiarità specifica femminile anche nella dimensione erotica, laddove il piacere dell’uomo è invece descritto con l’immagine della tempesta, e i suoi lombi sono una fucina arroventata da un fuoco proveniente dal midollo. La dimensione del corpo non è demonizzata o svilita, come nella visione prevalente nel Medioevo, bensì degna e meritevole di tutte le necessarie attenzioni, in quanto complementare alla sfera dell’anima. Solo in comunione anima, corpo e mente rendono davvero completo l’essere umano, consentendogli di esprimere la bellezza della creazione. Leggendo le parole di Ildegarda, per una volta appare lontana quell’immagine, moltiplicata dall’autorevolezza di tanta letteratura cristiana, della femmina lasciva e tentatrice, dominata dal vizio della lussuria. Ildegarda dimostra di conoscere non solo gli aspetti funzionali, medici e terapeutici legati al corpo femminile, ma manifesta una straordinaria sensibilità verso quei risvolti della psiche che, per la rinuncia alla sessualità implicita nella scelta monacale, erano apparentemente più lontani dalla sua esperienza. Sensibilità forse acquisita proprio attraverso la pratica medica e la conversazione con le donne che si rivolgevano alle sue cure e di cui raccoglieva le confidenze. Classificava diverse tipologie individuali, seguendo lo schema della tradizione trattatistica che l’aveva preceduta. La sua novità sta però nel sottolineare, all’interno dei tipi fisici, la differenza tra uomini e donne. L’osservazione prendeva spunto dalla prevalenza di uno dei quattro umori sugli altri, caratteristica che le permetteva di tracciare un profilo tipico, riconducibile ad aspetti caratteriali ricorrenti, senza tralasciare gli effetti sortiti sulla sfera del comportamento sessuale, sempre al centro della sua riflessione. Così, ogni tipo di donna (la sanguigna, la flemmatica, la collerica, la malinconica) oltre a caratterizzarsi per le peculiarità fisiche e fisiologiche come colorito, complessione, tendenza ad ingrassare, specificità del flusso mestruale, predisposizione verso certe malattie, si distinguerebbe per una diversa attitudine nei confronti degli uomini: li attira a sé, oppure li domina, o ancora li allontana. La capacità di spiegare il mondo valendosi della forza di alcuni fondamentali concetti astratti è parte preziosissima del talento mistico di questa donna eccezionale. Alcune parole, scelte e amatissime dalla santa, divengono nei suoi scritti una sorta di concetti-guida, la chiave interpretativa di un’intera visione della realtà. Una di queste, e forse la più emblematica, è viriditas. O nobilissima viriditas/que radicas in sole et que in candida serenitate/luces in rota quam nulla terrena excellentia/comprehendit: Tu circumdata es/amplexibus divinorum ministeriorum. Tu rubes ut aurora/et ardes ut solis flamma.21 Il termine latino è difficilmente traducibile con un corrispondente che sappia trattenerne la ricchezza semantica. Letteralmente significa “la qualità di ciò che è verde”, o meno elegantemente “verdezza”; ma anche “vigore”, “fertilità”, “energia vitale”. Esprime un significato che si origina dalla spiegazione dei processi vegetativi, ma che trascende verso la definizione dell’essenza stessa della vita dell’universo. La viriditas è la qualità e l’impulso di tutto ciò che è vivo, vitale, che germoglia, e in quanto tale è implicita nell’atto volontario di creazione di Dio. 21 “O nobilissima viriditas/ che hai radici nel sole/ e che in splendente serenità brilli/ descrivendo un cerchio che nessuna insigne cosa terrena/ può abbracciare./ Tu sei cinta/ dalle carezze/ dei ministeri divini./ Tu rosseggi come un’alba/ e sei ardente come i raggi del sole”. Ildegarda di Bingen, Symphonia harmoniae celestium revelationum, 56. 102 Questo termine è a tal punto ricorrente e pregnante nel pensiero della badessa, che chiunque famigliarizzi con il suo linguaggio potrà alla fine dimenticarsi di inseguire una traduzione adeguata. Eppure, intorno a questo concetto diviene chiara la posizione storica di Ildegarda come figura di raccordo tra i personaggi emblematici dell’antica sapienza femminile e le elaborazioni concettuali sull’uomo e sulla salute dei secoli che verranno. Di fatto, nella viriditas come metafora di salute fisica e spirituale riposa il fondamento della visione medica olistica ildegardiana, che considera l’uomo nella sua integrità e nello stato di equilibrio con la natura. Il potere del colore verde come simbolo benefico di energia e salute ha forti risonanze con la medicina magica delle antiche civiltà del Mediterraneo, legata al culto degli alberi sacri e delle divinità della vegetazione, e riporta in un certo senso in vita attraverso Ildegarda un antico sapere femminile dimenticato. La possibilità che la monaca fosse inconsapevole dell’eredità sapienziale di cui si faceva portatrice rende ancora più straordinario il suo legame con questi archetipi fondamentali delle tradizioni spirituali femminili. Una tale concezione vitalistica della salute era parte di un approccio all’uomo che, se pur fortemente spirituale, non dimentica mai il corpo. Il colore verde rappresenta una sorta di riserva energetica a cui l’essere umano può attingere attraverso un contatto “terapeutico” con la natura, anche attraverso un’alimentazione vegetariana e l’energia vitale che apporta all’organismo debilitato, al fine di ripristinare quell’equilibrio che, spezzato, ha provocato la malattia. È questa l’Ildegarda che ripropone l’antica visione della saggezza medica femminile, quasi ancestrale nella forza profonda dell’intuizione. Alla luce di tali considerazioni si fa davvero pregnante quella definizione di “Sibilla del Reno”attribuitale, che rievoca il binomio antichissimo tra dono della profezia e capacità terapeutica che da sempre accompagna le sciamane. Ma, come abbiamo detto, l’Ildegarda medichessa è anche e soprattutto figura mediatrice tra diverse dimensioni del sapere. Il fatto che il termine viriditas indentifichi anche una delle fasi minori e intermedie dell’opera alchemica, l’Opera al Verde, appunto, momento di passaggio tra la Nigredo e l’Albedo,22 apre nuove finestre sulla complessità dei suoi riferimenti culturali. Verde smeraldo era anche la Tabula Smaragdina (di smeraldo) attribuita a Ermete Trismegisto, testo fondamentale della letteratura alchemica ermetica. Lo spirito dell’alchimista, a cui sarà dedicato il prossimo capitolo, è senza dubbio una delle sfaccettature della personalità di Ildegarda, insita nella sua visione della realtà così come nel suo metodo. Tra le pagine dei suoi scritti questo orientamento è ben vivo, a partire da una visione della realtà fondata sullo stretto rapporto tra macrocosmo e microcosmo, fondamento della prospettiva alchemica, senza dimenticare l’importanza dell’esperienza musicale, anche a fini di terapia, che affonda le sue radici nel pensiero di uno dei più antichi alchimisti del pensiero occidentale, Pitagora, e nelle sue teorie sulla musica, l’arte alchemica per eccellenza, e sui rapporti armonici. Oggi, numerosissimi sono i centri di studi dedicati e ispirati all’approccio medico di Ildegarda, riscoperto tanto dal mondo accademico quanto da tutti coloro che cercano di costruire un percorso personale di terapia e salute in un’ottica organicistica o più genericamente new age. C’è chi ritiene che applicazioni pratiche della sua filosofia della salute siano attuali a tal punto da poter essere talora applicate in modo letterale. 22 Due delle fasi dell’opera alchemica. La Nigredo (o Opera al Nero), indica lo stadio di dissolvimeto, o putrefazione della materia; l’Albedo (o Opera al Bianco), il processo di purificazione, o sublimazione. 103