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Tratto da. Pastore, Storia della filosofia, S.E.I.
La Critica della ragion pratica
La fondazione dell’etica
In uno dei capitoli finali della prima Critica, Kant afferma che gli interessi fondamentali della
ragione, dai quali scaturisce la filosofia, si riassumono nelle tre domande seguenti:
I. Che cosa posso sapere?
2. Che cosa devo fare?
3. Che cosa ho diritto di sperare?
Alla prima domanda egli ha cercato di rispondere con la Critica della ragion pura, in cui ha
affrontato il problema delle condizioni e dei limiti della conoscenza teoretica, fondando la possibilità
delle scienze del mondo fenomenico e mostrando l’impossibilità della metafisica come scienza della
cosa in sé. Nella Critica della ragion pratica (in gran parte già anticipata nella Fondazione della
metafisica dei costumi), Kant affronta il problema della natura e delle condizioni di possibilità della
vita morale. Il risultato dell’indagine è importante per la nuova concezione etica che Kant propone.
In essa l’uomo, come soggetto etico, è posto al centro dell’universo morale, con una vera e propria
“rivoluzione copernicana” analoga a quella compiuta in campo gnoseologico. Anche in questo caso,
non si tratta naturalmente del soggetto individuale, ma della ragione umana in generale.
La ragione pratica dell'uomo, detta pratica perché è considerata non in riferimento agli oggetti da
conoscere, ma ai motivi con cui determina la volontà all’azione, è infatti dichiarata fonte originaria e
autonoma della moralità, indipendentemente da ogni contenuto oggettivo dell’azione e da ogni
imposizione esterna di un legislatore. E tuttavia (…) la centralità dell'uomo come soggetto etico non
elimina i limiti costitutivi della sua natura sensibile, essenzialmente passiva e recettiva, e non
diminuisce quindi la drammaticità di un’esistenza etica che implica impegno e sforzo per essere
realizzata.
Punto di partenza dell’etica di Kant è la convinzione della presenza nell'uomo di una legge
morale con valore universale e necessario. Convinzione parallela a quella circa il valore universale e
necessario delle leggi della fisica newtoniana, che stava alla base della prima Critica.
Scrive Kant nella Conclusione della Critica della Ragion Pratica:
“Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più
spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale
in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero
avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e
le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.”
Compito dell’etica non sarà allora quello di dimostrare l’esistenza della legge morale, ma di
studiarne l’origine e la natura, e di metterne in luce le condizioni di possibilità.
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APPUNTI:
Nella Critica della Ragion pura Kant si era preoccupato di limitare la ragione conoscitiva alla sfera
dell’esperienza. Nella Critica della Ragion pratica Kant esamina la ragione in quanto determina la
volontà, cioé guida l’azione, dirige il comportamento. Nella Critica della Ragion pratica Kant vuole
dimostrare che solo la Ragione pratica pura, non condizionata empiricamente, è la sorgente della
morale. Quindi, mentre la ragione conoscitiva è limitata alla sfera dell’esperienza e dei fenomeni, la
ragion pratica può fondare la legge morale proprio perché non è condizionata dall’esperienza
Per Kant l’esistenza di una legge morale universale, valida per tutti gli uomini e sempre, non deve
essere dimostrata o giustificata, ma semplicemente constatata, perché è un fatto evidente, un fatto
della ragione.
Infatti secondo Kant ogni uomo sa di dover agire in un certo modo perché la sua ragione (potremmo
anche dire: “la sua coscienza”) gli dice che è giusto, che è bene. Il dovere dettato dalla ragione non
coincide in nessun modo con il vantaggio personale, con l’istinto o con gli impulsi della sensibilità,
con le pressioni sociali, ambientali ecc.: infatti l’uomo avverte un contrasto fra ciò che la Ragion
pratica comanda e ciò a cui è spinto dalla sua natura sensibile. Secondo Kant questa voce della
ragione (o della coscienza) che comanda “devi agire così, anche se non ti conviene, anche se la tua
natura sensibile ti spinge ad altro ecc.” è sentita da ogni uomo allo stesso modo. Quindi la legge
morale dettata dalla Ragion pratica è universale ed è diversa da tutti gli altri motivi (motivi non
universali, perché diversi da uomo a uomo, come impulsi sensibili, sentimenti, utilità,
condizionamenti sociali ecc.) che determinano il comportamento.
Chiarita quindi l’esistenza della legge morale dettata dalla Ragion Pratica pura (vale a dire dettata
esclusivamente dalla ragione), Kant descrive i caratteri propri della legge morale.
La legge morale è: 1) UNIVERSALE E NECESSARIA; 2) CATEGORICA; 3) FORMALE; 4)
LIBERA E INCONDIZIONATA; 5) AUTONOMA
1) UNIVERSALE E NECESSARIA
La legge morale (che scaturisce dalla ragione) è universale e quindi, come abbiamo già detto, vale
per tutti gli uomini e sempre, perché la Ragione è uguale in tutti gli uomini.
E’ necessaria perché la Ragion Pratica pura, dettando la legge morale, esige un’obbedienza
incondizionata ad essa: il comando della Ragion Pratica pura è “TU DEVI ...” (Tu devi agire così,
indipendentemente dalle condizioni in cui ti trovi...)
2) CATEGORICA
A questo punto dobbiamo esaminare la tipologia delle norme o delle prescrizioni della Ragion
Pratica:
MASSIME: hanno un valore soggettivo, per esempio “Fai ginnastica alla mattina” non può essere
una norma per tutti, è una norma solo per i soggetti che decidono di adottarla.
IMPERATIVI IPOTETICI (CONDIZIONATI): per esempio “per rafforzare la muscolatura devi
fare ginnastica ”: è una norma oggettiva perché se si vuole ottenere un certo risultato è necessario
agire in un certo modo. Ma lo scopo è soggettivo (rafforzare la muscolatura non è un dovere per
tutti)
IMPERATIVI CATEGORICI: comandano qualcosa che si impone come un dovere per tutti (legge
universale e necessaria) e che non è condizionato o finalizzato. “Tu devi … solo perché la ragione ti
dice che tu devi, non ci sono motivi, scopi, condizioni esterni alla ragione”.
La legge morale è costituita da imperativi categorici, perché solo gli imperativi categorici possono
essere universali e necessari. Le massime hanno un valore soggettivo, gli imperativi ipotetici
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sottostanno a condizioni o a scopi soggettivi, quindi né le massime né gli imperativi ipotetici possono
costituire la legge morale.
A questo punto si pone il problema: qual è questo imperativo categorico che costituisce la legge
morale? In altri termini “Tu devi…” che cosa?
Nella “Critica della Ragion pratica” Kant presenta una sola formula dell’imperativo categorico:
I. Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, nello stesso tempo, come
principio di una legislazione universale.
Nella “Fondazione della metafisica dei costumi” si leggono altre due formule:
II. Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro,
sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo.
III. Agisci in modo che la volontà, con la sua massima, possa considerarsi come universalmente
legislatrice rispetto a se stessa.
La prima formula, che è quella più appropriata, non prescrive un comportamento determinato (del
tipo: “sii sincero”, “non uccidere” ecc) ma ordina di agire in un modo che possa essere condiviso
dalla ragione di tutti gli uomini, ordina quindi di agire in un modo universalmente valido. Kant offre
questo esempio: non è morale chiedere soldi in prestito sapendo di non poterli restituire, perché se
questo comportamento venisse adottato da tutti, come norma, si creerebbe una situazione
contraddittoria (e inaccettabile per chiunque), nella quale perderebbe di senso il concetto stesso di
prestito. Kant dice anche che la prima formula dell’imperativo categorico equivale al precetto
evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
La seconda e la terza formula sono delle varianti della prima formula, non aggiungono nulla di
sostanziale (la seconda formula deriva dalla prima perché un comportamento che strumentalizzi
l’uomo non può mai avere valore universale; la terza formula chiarisce meglio l’autonomia della
volontà, di cui diremo più avanti)
3) FORMALE
L’imperativo categorico, come abbiamo visto, non comanda (e non vieta) un comportamento
determinato; esso ci dice come dobbiamo volere, non cosa dobbiamo volere. Dobbiamo volere in
modo universale. Quindi l’imperativo categorico, cioé la legge morale, non ha un contenuto, indica
soltanto una forma, la forma dell’universalità (FORMALISMO ETICO KANTIANO).
Kant spiega che se la legge morale avesse un contenuto (comandasse cioé cose determinate) sarebbe
il contenuto a determinare la volontà, e non più la ragione. Si perderebbe così l’universalità della
legge morale (infatti tutte le norme che comandano o vietano azioni determinate non sono universali,
perché ammettono sempre delle eccezioni ).
Anche il formalismo etico, secondo Kant, è la traduzione filosofica del principio evangelico secondo
cui non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa; dal punto di vista morale conta solo
l’intenzione, cioé la volontà di agire in modo universalmente valido. Un’azione può essere legale se è
esteriormente conforme alla legge, ma perché sia morale occorre un’adesione interiore, della volontà,
dell’intenzione, all’imperativo categorico (quindi dall’esterno non è possibile valutare la moralità di
un’azione).
4) LIBERA E INCONDIZIONATA
Se la legge morale, per essere veramente universale, deve scaturire esclusivamente dalla ragione,
allora la ragione deve essere libera da qualsiasi condizionamento.
La ragione pratica, nel determinare la volontà, può essere condizionata dalla natura sensibile
dell’uomo, da cui provengono impulsi, passioni, desideri ecc, oppure può essere condizionata da
pressioni esterne (che comunque faranno sempre leva sulla natura sensibile dell’uomo), ma in questo
caso essa non può generare la legge morale universale, perché la natura sensibile dell’uomo è sempre
egoistica e quindi soggettiva.
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La Ragion pratica può generare la legge morale universale solo quando è “pura”, vale a dire quando
è libera da qualsiasi condizionamento e pressione interna od esterna; in particolare quando è libera
dalla natura sensibile dell’uomo. Si pone quindi il problema del rapporto tra la Ragione dell’uomo e
la natura sensibile, fenomenica dell’uomo, problema su cui torneremo più avanti.
La necessaria purezza della ragion pratica da qualsiasi condizionamento della sensibilità induce Kant
ad affermare il “rigorismo etico”: l’azione morale deve scaturire esclusivamente dall’imperativo
categorico, non deve essere “inquinata” da emozioni e sentimenti, che, per quanto nobili,
scaturiscono comunque dalla natura sensibile (così, per esempio, un’azione buona fatta “per pietà”
non è perfettamente morale).
5) AUTONOMA
Da quanto detto fin qui risulta chiaro che la Ragion pratica, come fonte dell’imperativo categorico e
della moralità, è e deve essere autonoma. Questa è la “rivoluzione copernicana” etica: l’uomo non
deve più adeguarsi a una legge morale che esista fuori di lui (per esempio nella volontà di Dio o nelle
Idee-valori di Platone), l’uomo deve obbedire a una legge morale che scaturisce da lui stesso, dalla
sua ragione umana.
LA CRITICA DELLE MORALI ETERONOME
A questo punto, definite le caratteristiche della legge morale (che nasce dalla ragion pratica pura),
Kant sottopone a critica quei sistemi morali che pongono l’origine della legge morale non nella
ragione umana ma in altro, e che quindi vengono definiti eteronomi (autonomo = ha la sua legge in
sé; eteronomo = riceve la sua legge da altro).
In particolare Kant critica:
L’UTILITARISMO e l’EDONISMO: l’utilità e il piacere sono soggettivi, quindi non si può in
alcun modo fondare su di essi una legge universale. Inoltre una legge morale fondata sulla ricerca del
piacere e dell’utilità non è incondizionata, infatti non prescrive “tu devi ...”, ma “agisci così se è utile
per te”, “agisci così se ti procura piacere”
L’EUDAIMONISMO (ricerca della felicità, per es. la morale socratica), anche in questo caso la
legge morale è condizionata (“agisci così se ti rende felice”) e non è universale, perché anche la
percezione della felicità è soggettiva.
La MORALE RELIGIOSA (la legge morale è dettata da Dio)
in questo caso la ragione pratica umana non è autonoma, poiché riceve la legge da Dio, e inoltre non
è incondizionata, perché si segue la legge morale dettata da Dio per ottenere la salvezza eterna,
quindi si cade in una forma di utilitarismo. Inoltre, poiché l’esistenza di Dio non può essere
conosciuta razionalmente, una legge morale fondata sulla volontà di Dio avrebbe un fondamento
assai dubbio e precario. Per Kant la religione non può essere il fondamento della morale, al
contrario, come vedremo, è la morale il fondamento più valido della fede religiosa.
La posizione critica dell’etica
La prospettiva rivoluzionaria della filosofia kantiana è evidente anche nella posizione assunta in
campo etico nei confronti dell’empirismo e del razionalismo, nei confronti dei quali esercita una
serrata critica.
1) Dato che la legge morale si presenta come universale e necessaria essa non può derivare in
alcun modo dall’esperienza. L’esperienza può infatti dire come si comportano gli uomini,
condizionati dall’educazione o dagli usi sociali, può dire quali sono i sentimenti e le tendenze
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istintive che li conducono di fatto, e in modi storicamente divergenti, a giudicare buona o cattiva
una determinata azione. Essa però non potrà mai fondare un dover essere necessario e universale.
L’empirismo etico nelle sue varie forme (etica tradizionalista, edonismo, utilitarismo, etica del
sentimento) non potrà quindi mai fondare la legge morale.
2) D'altra parte, neppure il razionalismo etico, che vuole derivare la legge morale dal concetto di
perfezione (= è bene ciò che mi conduce alla perfezione), o dalla volontà di Dio (= è bene ciò che
Dio mi comanda), è in grado di dare una sufficiente giustificazione della legge morale. Esso infatti
vorrebbe fondare l’etica sulla metafisica. Ma dato che la metafisica è impossibile, ogni
razionalismo etico è destituito di validità. (Pastore, Storia della filosofia, SEI)
PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA MORALE E NATURA
La libertà non esiste nel mondo naturale (fenomenico), e l’uomo fa parte di questo mondo, è un
essere naturale.
Ma la legge morale, proprio perché incondizionata, implica la libertà: non avrebbe senso il “TU
DEVI!” della Ragion pratica, se non esistesse la libertà, cioé se non esistesse la possibilità di
obbedire al TU DEVI sottraendosi al determinismo naturale.
Quindi l’esistenza della legge morale pone l’uomo al di sopra del mondo naturale, fenomenico; la
ragione dell’uomo, da cui scaturisce la legge morale, è collocata in un mondo soprasensibile,
noumenico, in cui è libera e incondizionata (questo mondo soprasensibile è chiamato da Kant “il
regno dei fini”).
Ciò non contraddice la Critica della Ragion Pura perché essa non negava l’esistenza del mondo
soprasensibile, ma solo la possibilità di conoscerlo.
Quindi l’uomo è bidimensionale: come essere dotato di una ragione pratica libera e incondizionata fa
parte del mondo soprasensibile, noumenico, fa parte del “Regno dei fini”; come essere naturale,
dotato di corpo e di sensibilità, fa parte del “Regno della natura”, fenomenico, deterministico.
L’uomo è bidimensionale: la legge morale nasce dalla ragion pratica libera e incondizionata, ma deve
realizzarsi nel mondo sensibile, la volontà umana è spinta dalla ragion pratica pura ad agire in un
certo modo, ma è sottoposta anche ai condizionamenti della natura sensibile dell’uomo.
C’è quindi una tensione, una lotta fra la ragion pratica pura e gli impulsi naturali: la legge morale si
presenta come “TU DEVI” proprio perché incontra una resistenza.
Se l’uomo non fosse bidimensionale:
se l’uomo fosse solo un essere naturale agirebbe sempre per istinto e non sentirebbe mai il contrasto
tra i suoi impulsi naturali e il “dovere”se l’uomo invece fosse solo pura ragione agirebbe in modo morale sempre e senza sforzo, il suo
comportamento sarebbe adeguato alla legge morale automaticamente, spontaneamente; l’uomo
allora sarebbe santo, cioé moralmente perfetto, ma la santità è impossibile all’uomo bidimensionale.
N.B. L’affermazione della libertà dell’uomo, con la conseguente affermazione di una dimensione
soprasensibile dell’uomo, non è un’affermazione scientifica, non esprime una conoscenza dello stesso
tipo delle conoscenze scientifiche.
Infatti nella Critica della ragione pura Kant aveva affermato che nel mondo fenomenico la libertà non
esiste (Principi dell’intelletto puro: analogie dell’esperienza: l’esperienza è costituita da una trama
necessaria di rapporti…), e che la ragione non può sapere se nel mondo come totalità esistano
oppure no cause libere (dialettica trascendentale: terza antinomia della cosmologia razionale).
Per Kant l’affermazione della libertà umana è un POSTULATO = affermazione non dimostrabile,
presupposta necessariamente dalla vita morale e che ha esclusivamente un “uso pratico”, cioè ha
valore soltanto nella e per la vita morale.
DIALETTICA DELLA RAGION PRATICA
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è la parte della Critica della Ragion Pratica in cui viene esaminata la ANTINOMIA DELLA
RAGION PRATICA.
La nostra natura tende inevitabilmente al SOMMO BENE = unità di felicità e virtù (moralità)
ATTENZIONE!!! Non agiamo in modo morale (o virtuoso) per essere felici, perché in tal caso il
nostro agire non sarebbe incondizionato (vedi sopra la critica all’eudaimonismo), tuttavia sentiamo
l’esigenza che alla virtù corrisponda la felicità. Sentiamo che la persona virtuosa è degna della
felicità.
L’ANTINOMIA della Ragion Pratica consiste nel fatto che questa esigenza di SOMMO BENE, di
unità tra Virtù e Felicità, non è soddisfatta, perché nella vita terrena la Felicità e la Virtù sono distinte
e spesso opposte. E’ vano ogni tentativo di sciogliere questa antinomia nella vita presente (per
esempio dicendo che l’uomo virtuoso è felice anche nelle sofferenze, che “la virtù è premio a se
stessa”)
L’unico modo per risolvere l’antinomia è postulare un mondo soprasensibile in cui alla virtù
corrisponda la felicità e in cui pertanto sia soddisfatta l’esigenza del Sommo Bene.
POSTULATI DELLA RAGION PRATICA = proposizioni non evidenti né dimostrabili, ma
condizioni dell’esistenza e pensabilità della vita morale.
3 POSTULATI: ESISTENZA DI DIO, IMMORTALITA’ DELL’ANIMA, LIBERTA’
si noti la corrispondenza con le 3 Idee della metafisica (la libertà era una delle tesi contrapposte
nell’idea del Mondo come totalità)
ESISTENZA DI DIO = credenza in una volontà santa e onnipotente che fa corrispondere la felicità
alla virtù. L’unità di virtù e felicità deve essere realizzata da Dio.
IMMORTALITA’ DELL’ANIMA = solo la santità rende degni del Sommo Bene e la santità non è
conseguibile nella vita terrena, occorre perciò pensare un tempo infinito in cui l’uomo possa
conseguire la santità e rendersi degno del Sommo bene
I primi 2 postulati (Dio e Immortalità dell’anima) si fondano su un’esigenza morale: non
costituiscono una conoscenza e neppure sono indispensabili per l’agire morale che dipende solo dal
“TU DEVI” della Ragion pratica; tuttavia la vita morale, senza i postulati, risulterebbe segnata da
una grave contraddizione, risulterebbe in qualche modo assurda, e quindi difficilmente sostenibile.
Per questo Kant dice che i postulati hanno solo un uso pratico, intendendo che non sono utili per la
conoscenza “scientifica”, ma sono utili per la vita morale.
Anche la Libertà è un Postulato , e non una conoscenza, anche se ha un fondamento più solido dei
precedenti postulati, perché non si fonda solo su una esigenza della Ragione (l’esigenza del Sommo
Bene), ma si fonda sul fatto stesso della Ragion Pratica pura (abbiamo detto che per Kant l’esistenza
di una legge morale universale e necessaria è un fatto da constatare).
Come abbiamo già rilevato, non c’è contraddizione tra i risultati della Critica della Ragion Pura e i
risultati della Critica della Ragion Pratica: infatti la Critica della Ragion Pura negava la possibilità di
conoscere Dio, Anima e Mondo, ma non escludeva che potessero esistere al di là dei limiti della
nostra conoscenza fenomenica. La Critica della Ragion Pratica postula Dio, l’immortalità dell’anima
e la libertà ma non attribuisce valore conoscitivo a questi postulati.
IL RAPPORTO MORALE - RELIGIONE
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Da quanto abbiamo detto sui postulati risulta che l’unica via di accesso a Dio e all’immortalità
dell’anima è offerta dalla morale, anche se questa via non ha un valore conoscitivo. Insomma la
morale costituisce il fondamento della religione e non viceversa. Naturalmente se la religione risulta
fondata sulla morale, allora l’aspetto essenziale della religione è costituito dal suo insegnamento
morale, mentre tutti gli altri aspetti (dottrinali, ritualistici, ecc.) sono marginali e superflui. Fra tutte
le religioni il cristianesimo è la religione perfetta perché il suo messaggio morale corrisponde
completamente alla morale universale e necessaria espressa dall’imperativo categorico kantiano, e
Gesù Cristo viene visto come il più grande maestro di morale; naturalmente tutti gli aspetti salvifici e
miracolistici della vita e della personalità di Gesù Cristo vengono eliminati.
IL PRIMATO DELLA RAGION PRATICA SULLA RAGION PURA
Kant afferma anche che la Ragion Pratica ha un primato sulla Ragion Pura, cioé che la Morale è più
importante della Conoscenza Scientifica.
Questo primato è giustificato dal fatto che la Ragion Pratica colloca l’uomo in quella dimensione
noumenica e soprasensibile che è preclusa alla conoscenza scientifica. Insomma se l’uomo avesse
solo una Ragione conoscitiva e non avesse una Ragion pratica pura (una coscienza morale) potrebbe
concepirsi solo come un essere naturale totalmente soggetto alle leggi della natura, alla pari di tutti
gli altri esseri naturali.
Inoltre non è indispensabile che ogni uomo abbia una conoscenza scientifica della natura: si può
essere “uomini” anche ignorando le leggi della natura; invece è indispensabile che ogni uomo abbia
una ragion pratica pura (una coscienza morale) per vivere un’esistenza “umana”.