Felice Accame Supplementi a Il linguaggio come capro espiatorio (2

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Felice Accame
Supplementi a Il linguaggio come capro espiatorio (2)
Nelle sue annotazioni su La stimolazione linguistica e il suo contesto (Wp 296), Renzo Beltrame,
dopo aver acutamente rilevato che manchiamo tuttora di un modello adeguato di memoria
procedurale – “in quanto saper fare” – e dopo aver esteso la propria indagine al rapporto tra
contesto e operazioni mentali, giunge per forza di cose alla “problematica di costitutivo e
consecutivo nella letteratura della Scuola Operativa Italiana”. E’ a questo punto che parla
dell’ampio capitolo da me dedicato all’argomento ne Il linguaggio come capro espiatorio
dell’insipienza metodologica (Odradek, Roma 2015) lamentando però che, per quanto abbia
seguito tutti i “contorcimenti” della mia argomentazione, non è riuscito a ricavare la mia opinione in
merito al motivo per cui la nozione di “consecutivo” sia stata introdotta.
Precisando che dei detti contorcimenti mi sento solo parzialmente colpevole – perché è innegabile
che, nell’ambito della SOI, di questa nozione siano stati fatti almeno tre usi che io ho distinto in
rapporto a tre argomentazioni diverse: l’anti-epistemologica, la semantica e la logico-sintattica -, mi
proverò qui a esplicitare più chiaramente l’opinione che mi è stata richiesta.
Innanzitutto, vorrei tornare sulla classificazione proposta e sui nomi che, forse un po’
frettolosamente, ho assegnato a quanto classificato.
Il modello di analisi dell’attività mentale e dei suoi rapporti con il linguaggio proposto dalla SOI
nasce soltanto il momento dopo in cui si è capita l’inagibilità di una descrizione in termini di entità
nonché delle conseguenze di ciò. Al costitutivo siamo arrivati e nel costitutivo resteremo, come
enunciato, tuttavia, implica l’adozione di misure di sicurezza onde evitare l’ontologia di ritorno –
che ciò che si è buttato dalla porta rientri dalla finestra e non solo, perché, come ammonisce
Ceccato, sono le operazioni stesse che potrebbero costituirsi in nuova ontologia. La misura di
sicurezza è consistita essenzialmente nell’invenzione di un mondo a prova dei calci del dr. Johnson
di turno – un universo di cose dotate di storia loro e di cui pertanto noi tapini non si possa avere
certezza alcuna. E, in virtù del fatto che, comunque, di questo mondo, non se ne possa parlare se
non dopo averlo costituito, a Ceccato è parso conveniente chiamarlo “consecutivo”. Come ho
dimostrato spulciando qua e là nel suo passato, il termine gli ronzava per la testa già da un po’ e il
concetto, chiamiamolo così, inquietava da secoli tutti coloro che si erano resi conto
dell’autocontraddittorietà del realismo in particolare e dei guai cui avrebbe portato la teoria della
conoscenza in generale.
L’ambito di questo uso linguistico l’ho circoscritto come quello dell’argomentazione antiepistemologica che, come nome, rispetto a quanto volevo designare, è piuttosto poverello (perché i
significati di “epistemologia” non possono essere ridotti tutti a “teoria della conoscenza”) e ha
anche il torto di essere del tutto negativo (avrei potuto definirlo come l’ambito dell’individuazione
del costitutivo e della sua difesa ovvero del mantenimento della sua integrità), ma un’idea, in fin dei
conti, la dà.
Nel designare come “argomentazione semantica” il secondo ambito d’uso, invece, sono stato
piuttosto frettoloso, ma ritenevo – come ritengo tuttora – che, data l’evidenza della questione, avrei
potuto permettermelo. L’ambito era, infatti, quello originato da Ceccato stesso allorquando
individuò un “costitutivo-consecutivo”. Non vorrei che a qualcuno fossero sfuggite delle virgolette
importanti. Ceccato e Zonta, infatti, in Linguaggio consapevolezza pensiero (pag. 39) si
riferiscono a “rapporti che si pongono fra le cose come ‘loro’ (il neretto è mio) rapporti, una volta
‘disposte’ in correlazioni” ponendo così le basi per una “fondamentale distinzione da introdurre,
prima nell’ambito dell’operare costitutivo, e poi fra questo e una successiva tappa dell’operare, che
ci immette nell’operare ‘consecutivo’”. Quest’ultimo operare – sono ancora Ceccato a Zonta a
parlare (pag. 78) – “pur essendo anch’esso costitutivo” si innescherebbe dai particolari contenuti
della correlazione e dalla disposizione che è stata loro assegnata e risultando pertanto “vincolato”
può esser definito “consecutivo” (pag. 79). I rapporti fra le cose poste in correlazione sono “loro”
tra virgolette, per modo di dire, perché ad altri non possono ascritti che allo stesso soggetto che
costituisce quelle cose. Che questa sia una descrizione sufficiente o sufficientemente efficace sia
Beltrame che il sottoscritto lo mettono in dubbio da tempo (si rilegga anche il mio Appunto su
“Definizioni lessicali e loro uso in contesto. Costitutivo e consecutivo” di Renzo Beltrame (Wp
284) in Wp 285, 2014). L’idea di un’attività costitutiva perennemente attiva tale e quale in
corrispondenza di ciascun elemento della produzione linguistica – e, perché no, dell’intero processo
di comunicazione – è, come minimo, antieconomica. Tramite una algebrizzazione del linguaggiopensiero – almeno parziale – si potrebbe forse render più giustizia a queste fasi dell’attività umana.
Questo ambito, poi, mi sembra proprio lo stesso di quello segnalato variamente in particolare da
Beltrame e specificato nei termini degli effetti di una parola sull’altra, di una correlazione sull’altra,
di una rete correlazionale sull’altra, e via estendendosi – quando, cioè, il modello funzionale deve
dotarsi di un’ipotesi circa la memoria procedurale e circa tutto quel ben di Dio metaforizzato da
Ceccato nell’invenzione della categoria di “mantenimento”.
Il terzo ambito d’uso – quello che, per esplicitazione dell’analisi può essere confinato al solo
Vaccarino – è quello “logico-sintattico” e, a mio avviso, è designato senza offrire grossi margini di
ambiguità. Al di là di ogni giudizio che se ne voglia dare, mi sembra inoppugnabile che, dal sistema
di analisi semantica di Vaccarino, possa scaturire e di fatto scaturisca una “logica”. A me sembra
altrettanto inoppugnabile che questa logica venga a colmare lacune nell’ambito di questi studi, ma,
ovviamente, credo anche che tutto ciò sia da tenere ben distinto dalle problematiche insite
nell’analisi dell’attività costitutiva.
I tre designati, insomma – è la conclusione – hanno tutti le loro buone ragioni per pretendere un
rispettivo designante. Quello scelto pare adeguato allo scopo. Ovviamente, che sia lo stesso per tutti
e tre può ingenerare qualche equivoco.
Se, poi – lo faccio notare a latere -, si volesse considerare indipendentemente il processo di
significazione successivo alla costituzione degli elementi posti in correlazione e il processo di
ulteriore correlazione cui il primo dà adito, va da sé che si dovrebbe distinguere – all’interno
dell’argomentazione semantica – tra due (o più) costitutivi-consecutivi diversi. Ma qui, come ben
dice Beltrame, si tratterebbe innanzitutto di saper conferire un senso operazionale alla memoria
propulsiva.
Piero Borzini
IL METODO E IL CONTESTO
La dottrina darwiniana e le ideologie parassitarie*
A proposito delle relazioni che intercorrono tra gli elementi che costituiscono i cosiddetti “sistemi
complessi”, Vincenzo De Florio ha recentemente definito l’interazione simultanea degli opposti con
il termine di “resilienza” (De Florio V., 2015) 1. Le teorie scientifiche, gli ambiti specifici
all’interno dei quali esse sono prodotte e i contesti più ampi e variegati della società in cui queste
dottrine sono applicate costituiscono, nel loro insieme, un sistema complesso. In questi sistemi,
teorie e ambiti, metodi e contesti, interagiscono simultaneamente in maniera non necessariamente
simmetrica. La relazione “resiliente” tra la dottrina darwiniana e i contesti ideologici che di questa
si sono avvalsi è il caso eclatante di cui tratto in questo articolo. Per discutere di questo fenomeno di
resilienza dovrò riferirmi ai contesti storici, sociali e ideologici all’interno dei quali la dottrina
darwiniana è stata manipolata, nella consapevolezza del fatto che l’analisi del contesto originale è
metodologicamente essenziale per comprendere – senza tuttavia che la ricostruzione storica ne
rappresenti una giustificazione – lo svolgimento dell’intricata vicenda.
La dottrina di Darwin sull’evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale quale effetto della
lotta per la sopravvivenza è risultata così logica e “naturale” che, fin dal suo primo apparire nel
1859, essa è stata subito astratta dal suo contesto originario – quello delle scienze naturali – per
essere adattata a principio generale di qualunque cosa trasmutasse nel tempo. In tal modo, in men
che non si dica, la dottrina darwiniana si è trasformata in darwinismo, vale a dire in principio e
paradigma generale, adattabile ai più disparati domini (Borzini P, 1914; Borzini P. 1915) 2. Che ciò
sia avvenuto non solo è “naturale”, ma forse anche quasi ineluttabile. Come ciò sia avvenuto ha a
che fare con le modalità dell’umano ragionare.
L’evoluzione del cervello umano ha fatto sì che l’uomo sia portato a ragionare in modo causale (in
modalità astratta) e in modo strumentale (in modalità concreta). Per sua natura, l’uomo è portato a
ricercare le cause immediate o remote di ogni fenomeno e di ogni oggetto concreto o astratto che
cada sotto la sua osservazione: questo è, nella sua essenza, il ragionamento causale umano. È
proprio in ragione delle relazioni causa-effetto costantemente ricercate che l’uomo costruisce catene
causali tra i fenomeni del mondo, ponendo relazioni logiche e costitutive anche là dove queste sono
altamente improbabili dando vita, per esempio, alle religioni o costruendo catene causali tra
fenomeni sensibili e fenomeni sopranaturali o “magici”. In modalità concreta, il cervello umano
pensa in modo strumentale: è così che un pezzo di ramo può diventare un’arma o una leva, un
mucchio di foglie può diventare un giaciglio più comodo che non la nuda terra, il teschio di un
nemico ucciso può diventare una coppa rituale in cui bere una bevanda rituale. In base a questo
modo di ragionare, non sorprende che la teoria darwiniana (brillante frutto del ragionamento
causale) sia stata considerata (grazie al ragionamento strumentale) uno strumento idoneo a spiegare
e a giustificare l’evolversi di oggetti (anche astratti e culturali) che nulla hanno a che fare con le
scienze naturali. Se questo è il meccanismo naturale per cui non sorprende che il darwinismo sia
stato utilizzato in contesti vari anche molto lontani dal suo ambito originario, la domanda che mi
pongo ha però a che vedere con l’appropriatezza dell’operazione che consiste nell’astrazione a
“principio universale” delle relazioni causali descritte da Darwin nell’ambito delle scienze naturali
e col trasferimento di tale “principio generale” ad ambiti tutt’affatto diversi. Quant’anche si
stabilisca l’appropriatezza generica del trasferimento di un principio generale da un ambito all’altro,
resterebbe comunque molto da discutere circa l’appropriatezza di ogni trasferimento di aspetti
specifici e peculiari tra ambiti eterogenei e sulla legittimità dell’uso ideologico che di questi
trasferimenti d’ambito può essere fatto. Quest’ultima questione è importante perché, nella relazione
causale e strumentale del trasferimento del pensiero di Darwin, può succedere che si finisca con il
giustificare “scientificamente” – e col definirne la “fondatezza darwiniana” – di comportamenti o di
ideologie che nulla hanno a che vedere con la dottrina descritta da Darwin.
In linea di massima, sono portato a vedere con sospetto alcuni trasferimenti d’ambito del pensiero
darwiniano. D’altra parte, Darwin è arrivato a determinate conclusioni sul filo logico del
ragionamento causale: in base al medesimo ragionamento, principi generici come “trasmutazione”,
“competizione”, “selezione”, possono risultare legittimi tanto nell’ambito delle scienze naturali che
in ambiti a queste estranei. Se così fosse, allora, fare riferimento al “darwinismo” potrebbe
semplicemente rappresentare una discutibile scelta semantica. Ritengo, però, che in alcuni casi non
siamo solo di fronte a una leggerezza semantica, ma siamo di fronte a vere e proprie operazioni di
illegittimo e distorto trasferimento di principi e a ingiustificabili appropriazioni eseguite al solo
scopo di addurre “giustificazioni scientifiche” a ideologie altrimenti non giustificabili.
Nell’ambito del ragionare causale e strumentale, ogni idea e ogni contingenza può di volta in volta
fungere da elemento costitutivo di una catena causale, da strumento da utilizzare all’interno di una
catena, da strumento che indirizza alla costituzione di nuove relazioni causali. Ciò che intendo dire
è che i principi e i diversi contesti all’interno dei quali essi vengono utilizzati si influenzano
reciprocamente. L’esempio più tipico è quello – che sarà più volte richiamato in questo articolo –
del concetto di “lotta per l’esistenza”. Il principio, teorizzato in economia da Thomas R. Malthus
(1766-1834), verrà empiricamente testato da Darwin nelle sue osservazioni sulla stabilità del
numero dei pettirossi che frequentavano il suo giardino. Quello della lotta per l’esistenza è un
principio che rimbalza dalle osservazioni naturalistiche alle teorie economiche, ma è anche un
principio che rimbalza – come giustificazione – da e fra contesti diversi e opposti tra loro, come
quello della lotta di classe sostenuta dalle teorie marxiste, o come quello dell’economia
imperialistica o quello della pratica schiavista.
Il mio articolo vuole illustrare le relazioni reciproche tra ciò cha va sotto il nome di darwinismo (e
non è una cosa sola che va sotto questo nome) e le varianti di contesto e di contingenza in cui il
darwinismo viene fatto entrare in modo costituivo oppure ideologico. La tesi del mio articolo è che
il ricorso ai principi darwiniani da parte di alcune ideologie è spesso pretestuoso: la situazione,
tuttavia, è tutt’altro che semplice e lineare, e il fluttuare del darwinismo tra ideologie, contingenze e
contesti sociali è alquanto complesso. La mia analisi di questa relazione si riferisce in modo
particolare ai contesti sociali offerti dal mondo anglosassone, mitteleuropeo e italiano a cavallo tra
Ottocento e Novecento, e estendendo l’osservazione alle più evidenti conseguenze che tale
relazione ha avuto (ed ha) con la contemporaneità.
Non è corretto, né dal punto di vista lessicale né da quello metodologico, estendere l’idea
darwiniana, che riguarda la selezione naturale delle forme biologiche, a un’idea d’ordine generale
riguardante un “algoritmo universale” che “governa” molte disparate cose in ambiti esistenziali che
nulla hanno a che fare con la biologia (fenomeni sociali, fenomeni economici, fenomeni culturali,
fenomeni linguistici, ecc. ecc.). Darwin ha scoperto che in biologia il fenomeno della selezione
determina quali gruppi di individui potranno prevalere su altri gruppi di individui. La “selezione” è
un nome “appropriato” con cui ci si riferisce a questo fenomeno biologico che va ritenuto – pur
nella sua valenza statistica – un fenomeno reale, perché ha conseguenze concrete sulla permanenza
(vita, morte e diffusione) di oggetti concreti come individui e gruppi di individui. La “selezione” è
un fenomeno che interviene anche sull’evoluzione di oggetti e di fenomeni di natura diversa da
quella biologica. In molte aree fenomenologiche (sociali, economiche, culturali, ecc.) il fenomeno
della selezione consente ad alcuni aspetti di prevalere su altri e consente altresì di indirizzarne lo
sviluppo e il divenire. Parlo di indirizzo, e non di governo, per il semplice fatto che “governare”
significa porre consapevolmente in essere un indirizzo in modo tale da ottenere risultati prevedibili.
La selezione non interviene in maniera consapevole su un divenire. Essa è un meccanismo che
dipende da eventualità e da accidentalità e che consente ad alcune variabili di prevalere su altre in
specifiche condizioni contingenti: essa non è però in grado di “guidare” il divenire “verso” forme o
risultati prevedibili prima che dette forme o risultati si siano realizzati.
Darwin ha identificato la rilevanza del fenomeno in ambito biologico. Anche se fenomeni analoghi
valgono per altri contesti, è opinabile definire detti fenomeni come una estensione della scoperta
darwiniana: metodologicamente, è molto più sensato e appropriato fare riferimento a un “algoritmo
di tipo selettivo” e non a un “principio darwiniano universale”. L’appropriazione della dottrina
darwiniana da parte di contesti estranei agli ambiti in cui tale dottrina era maturata non rappresenta
una novità dell’agire umano. Ben prima che questo fenomeno riguardasse l’idea darwiniana, altre
idee, altri metodi scientifici, altri algoritmi particolari vennero assunti come “paradigmi universali”
o come generiche “scatole per gli attrezzi” liberamente utilizzabili in situazioni anche del tutto
estranee ai contesti originali in cui tali idee erano sorte. Anche questi episodi di appropriazione e di
ricontestualizzazione del metodo testimoniano di una vivace (anche se non sempre appropriata o
giustificata) “dialettica tra metodo e contesto”.
Per avere un’idea di quanto sia importante il contesto sociale e culturale nella rilettura o nella
riappropriazione anche ideologica di dottrine scientifiche, si può pensare per esempio a come le
dottrine sul calcolo infinitesimale siano state interpretate e poste al servizio di soggiacenti ideologie
o mire di politica economica. Il matematico e monaco camaldolese Luigi Guido Grandi (16711742) studiando i metodi di calcolo infinitesimale di Newton e di Leibniz non esitò ad affermare
che questo metodo di calcolo rappresentava un potenziale strumento per avvicinarsi alle verità
teologiche. Questa affermazione (o riappropriazione ideologica) era però strumentale a obiettivi di
carattere economico in quanto il calcolo infinitesimale applicato alle leggi idrauliche di Bernoulli
era utile per gli interventi di bonifica della Val di Chiana di cui lo stesso Grandi era responsabile
per conto del Granduca di Toscana. Alla “intelligènzia” cattolica implicata nel governo del
territorio poteva risultare utile giustificare teologicamente un metodo scientifico laico per potersene
servire nell’ambito delle proprie competenze terrene. L’illuminismo cattolico italiano del
diciottesimo secolo abbracciò questa riappropriazione del metodo matematico utile ai potentati
economici: in quest’ottica Ludovico Muratori (1672-1750) scriveva che “la filologia biblica non è
incompatibile con lo studio della natura”. Ancora più eterodosso fu il tentativo di riappropriazione
del metodo newtoniano per la dimostrazione “scientifica” “dell’esistenza e degli attributi di Dio e
della immaterialità ed immortalità dello spirito umano”, secondo quanto pubblicato nel 1746 da
Giovanni Gualberto de Soria, professore di filosofia all’Università di Pisa (Mazzotti M., 2013) 3.
Questo stravolgimento epistemologico applicato alla dottrina di Newton e di Leibniz è della
medesima natura di quello applicato alla dottrina di Darwin quando questa, in certe situazioni, verrà
assunta a modello onnirisolutore quasi-metafisico che andrà sotto il nome di “darwinismo”. Una
volta inteso come algoritmo universale, al “darwinismo” fu necessario associare dei predicati per
specificarne l’applicazione in contesti particolari. Il più importante di questi predicati è l’aggettivo
“sociale” che va a definire un ampio contesto sociologico e di politica economica – quello, appunto,
detto del “darwinismo sociale” – in cui la dottrina di Darwin è stata estesamente riciclata. Nel
prosieguo di questo articolo, la mia analisi riflette in modo particolare sull’evoluzione storica della
pretesa di utilizzare la dottrina di Darwin come riferimento metodologico asservito a varie e anche
eterogenee ideologie, tutte facenti in qualche modo capo al concetto di “darwinismo sociale” 4.
Nella seconda metà dell'Ottocento – dopo la pubblicazione delle teorie darwiniane sulla selezione
naturale – i pensatori positivisti, segnatamente Herbert Spencer (1820-1903), videro proprio nei
principi darwiniani della selezione naturale conseguente alla lotta per l’esistenza una matrice
scientifica da applicare allo studio delle società umane, ai loro comportamenti e alle loro culture.
Una distorta visione ideologica di tale visione porterà, nella prima metà del Novecento, a sostenere
– e a giustificare in base al principio della sopravvivenza del più adatto – pretese superiorità razziali
mentre, nella seconda metà del secolo, le tesi che erano state della filosofia positivista vennero in
parte riprese dalla “sociobiologia”, una disciplina il cui fondatore può essere ritenuto Eduard
Osborne Wilson (1929) 5.
Il positivismo di Spencer era direttamente collegato all’idea di August Comte (1798-1857) secondo
cui i comportamenti sociali potevano essere indagati con metodi “scientifici”. Spencer vedeva nella
dottrina di Darwin un principio malleabile attorno al quale costruire una metafisica dell’evoluzione
applicabile anche a ciò che non appartiene al dominio della biologia. A questo principio tanto
malleabile quanto universale Spencer diede il nome di “evoluzionismo cosmico”. Basandosi su
osservazioni naturalistiche che sembravano dimostrare che l’evoluzione delle cose ha una ben
precisa direzione dall’omogeneo all’eterogeneo, dal semplice al complesso, Spencer ritenne che
anche l’intera storia della civilizzazione dell’uomo – caratterizzata dal passaggio da strutture sociali
semplici a strutture sociali complesse – fosse soggetta a leggi evolutive non dissimili da quelle che
Darwin aveva descritto per le specie biologiche. Spencer fu quindi il primo a realizzare una
traslazione sistematica della dottrina darwiniana al campo degli studi storici e sociali. In questo
contesto, la “sopravvivenza del più adatto” poté essere usata come una giustificazione naturalistica
bell’e fatta delle istituzioni sociali umane tra cui, manco a dirlo, quelle inglesi rappresentavano il
vertice della perfezione.
Spencer produsse una sintesi metodologica sistematica tra ambiti di studio ontologicamente distanti
come le scienze naturali, la psicologia, la sociologia, l’economia, l’etica. Credo che la costruzione,
operata da Spencer su tali basi metodologiche, di una teoria generale del progresso umano
costituisca un vero e proprio errore metodologico, un errore che ha avuto conseguenze perniciose.
Se così possiamo esprimerci, l’operazione di Spencer è stata trasformare il selezionismo darwiniano
da procedura naturale implicata nell’evoluzione delle specie a “proceduralità aperta”, buona per
spiegare la trasformazione nel tempo (evoluzione) di ogni sorta di fenomeno extra-biologico.
Spencer ha adottato il modello storicistico utilizzato da Darwin per interpretare alcuni fatti biologici
e lo ha assunto come modello per analizzare fatti riguardanti i fenomeni sociali. Di per sé questo è
più che legittimo, come altrettanto legittimo è considerare il presente come punto di arrivo di un
processo storico. La differenza metodologica sostanziale tra l’operazione di Darwin e quella di
Spencer sta nell’uso strumentale del presente che Spencer ha impiegato per desumere
teleologicamente la necessarietà della direzione assunta dall’evoluzione culturale e sociale, un uso
teleologico del presente che in Darwin è completamente assente. La sintesi metodologica e
sistematica tra scienze naturali e scienze sociali operata da Spencer fa del filosofo inglese il padre
putativo del cosiddetto darwinismo sociale il quale, com’è noto, pone il conflitto (vale a dire la lotta
per la sopravvivenza) come paradigma fondamentale non solo delle relazioni umane ma di ogni
aspetto della vita sociale.
Bisogna dire, a parziale giustificazione dell’errore metodologico di Spencer, che egli, come tutti gli
intellettuali del suo tempo, si trovava a operare con elementi tecnici e logici poco chiari e mal
definiti, vale a dire con elementi le cui caratteristiche, le cui relazioni reciproche e i cui confini
erano troppo vaghi. Alcuni elementi – per esempio la natura e la cultura – che sarebbe stato più
opportuno considerare in concorso uno con l’altro, venivano trattati in opposizione reciproca. Altri
elementi – per esempio i caratteri somatici e le qualità morali – che sarebbe stato opportuno
mantenere ben separati e distinti, venivano considerati come strettamente imparentati, costituiti
della medesima sostanza, sfumanti gli uni negli altri. In una situazione di questo tipo era fin troppo
facile cadere nell’errore di considerare omogenei fenomeni tra loro eterogenei o, semplificando
eccessivamente fenomeni complessi, porre incongrue analogie tra elementi o fenomeni
incommensurabili e soggetti a dinamiche evolutive tra loro non confrontabili. Fu così, per esempio,
che a Carl Marx venne spontaneo di interpretare il progressivismo naturalistico darwiniano come un
omologo del progressivismo storico che avrebbe portato l’umanità dalla lotta di classe alla
eliminazione (per selezione negativa) delle classi. E fu così anche che si diffuse l’idea che la
razionalità, le facoltà morali, e l’organizzazione sociale, si dovessero evolvere verso forme sempre
più raffinate di perfezione grazie ai meccanismi selettivi che premiavano le migliori interazioni tra
ambiente e società, tra natura e cultura, tra esigenze collettive e risposte adattative individuali. Ogni
cosa – dalla morale, al diritto, alle relazioni sociali – era accreditata degli stessi meccanismi
evolutivi cui soggiaceva l’evoluzione biologica dei fenotipi somatici. Il selezionismo darwiniano
entrava nel subconscio della gente come regola universale del tutto. Ma perché questa regola
entrasse definitivamente nel sentire comune, ci fu bisogno degli interventi attivi di molti scienziati e
intellettuali: fu attraverso le loro interpretazioni del selezionismo – un selezionismo integrato in una
forma di mirabile sintesi di leggi naturali con teorie storiche, giuridiche e sociali – che il
selezionismo di matrice darwiniana divenne una sorta di paradigma interpretativo del tutto.
Tra questi interventi, uno di una certa importanza fu il saggio di Walter Bagehot pubblicato nel
1872 e intitolato Physics and Politics - Thoughts on the application of the principles of "natural
selection" and "inheritance" to political society (Fisica e Politica: riflessioni sull’applicazione dei
principi della “selezione naturale” e dell’”ereditarietà” alla società e alla politica) 6. In questo
saggio, Walter Bagehot (1826-1877) – giornalista ed economista che fu anche direttore
dell’Economist – applicò le teorie evoluzionistiche (non solo di Darwin ma anche di Lamarck ove
queste potevano sembrare più idonee) combinandole alle teorie economiche, sociali e filosofiche
allora in voga per delineare un progresso storico e sociale culminante con l’organizzazione
economica e giuridica inglese. Una frase emblematica di questa opera paradigmatica è la seguente:
“Questa sorta di dottrina che ci è diventata familiare e che nell’ambito delle scienze fisiche si
chiama ‘selezione naturale’, come ogni altra grande conquista scientifica tende a valicare i propri
confini e a diventare utile per risolvere problemi che vanno ben oltre quelli che dovevano
affrontare originalmente. In questo modo, ciò che è stato messo in campo per affrontare i problemi
riguardanti la storia degli animali, può, mutandone i contorni ma lasciandone immutata l’essenza,
essere applicata alla storia dell’uomo”. Ed è proprio il cambiamento di contorno e di contesto
della selezione naturale – da naturalistico a sociale – che consente a Bagehot di suggerire che i
comportamenti sociali altruistici possono derivare per selezione naturale da comportamenti egoistici
individuali e che il processo evolutivo applicato alla società è in grado di produrre una morale
secolarizzata organizzata in un progetto politico e in un diritto. Tra le dottrine sociali utilizzate da
Bagehot nel suo saggio meritano una speciale menzione quelle del giurista inglese Henry Maine
(1822-1888) il quale interpreta l’evoluzione del diritto guardando ideologicamente e
teleologicamente alla “necessarietà” della struttura elitaria della società inglese a lui
contemporanea. L’approccio “scientifico” di Maine è molto interessante dal punto di vista
metodologico perché egli guarda all’idea scientifica dell’evoluzione e della selezione come a un
strumento privilegiato di analisi utile per far prevalere il preconcetto di una società ordinata in base
alla centralità dell’individuo su altre visioni che pongono alla base dell’ordine sociale altre
centralità preconcettualizzate, come la cooperazione, o l’ordine divino, o la lotta di classe. La storia
– ovvero l’evoluzione – è il metodo attraverso cui, in un certo contesto, diversi fenomeni si
pongono in relazione reciproca in modo tale che risulti scientificamente dimostrato che l’ordine
sociale raggiunto è il più adatto alla attuale contingenza e segna, in ogni caso, la direzione
necessaria del progresso. Una delle principali opere in cui Maine declina il suo pensiero è Ancient
Law (L’Antica Legge), pubblicato nel 1861. Questa opera è praticamente contemporanea alla
Origine delle Specie di Darwin che è del 1959, ma mentre Darwin sviluppa il suo pensiero
“naturalistico” in un ambiente puramente “naturalistico” anche quando si occupa dell’uomo (vedi
L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, 1871), il giurista Maine estende metodologicamente
l’approccio “scientifico” basato sulle scienze naturali agli ambiti sociali e culturali. Sebbene anche
in questi ambiti si possa parlare di evoluzione e di selezione, le relazioni tra i meccanismi che
determinano l’evoluzione biologica e quelli che regolano l’evoluzione sociale e culturale sono tutte
da dimostrare, ancorché esista qualche relazione tra sistemi così diversi. L’avvertenza metodologica
che intendo qui sollevare è quella di cercare di non confondere le parole con cui descriviamo certi
fenomeni – per l’esempio l’evoluzione degli organismi biologici o l’evoluzione dei sistemi giuridici
– e i meccanismi soggiacenti ai fenomeni che descriviamo. Il fatto di descrivere fenomeni diversi
utilizzando la medesima parola non implica assolutamente l’identità dei meccanismi soggiacenti.
L’unica cosa che si può dire sulle analogie metodologiche utilizzate dal giurista Maine e dal
naturalista Darwin è che entrambi guardavano indietro avendo ben presente il loro oggi come punto
di arrivo di un complesso processo di sviluppo la cui storia essi volevano ricostruire. Lo
storiografismo giuridico di Maine e quello bioevolutivo di Darwin consentono, metodologicamente,
di riavvolgere il film della storia in modo che questa, la storia da loro narrata, consenta di dare a noi
stessi un senso e un’identità, per quel che siamo ora e qui. Tutto ciò, indipendentemente dalla
precisione con cui la ricostruzione storicizzata riproduce lo svolgimento “veritiero” dei fatti.
Intendo dire che, secondo me, l’interpretazione darwiniana dell’evoluzione delle specie descrive in
modo sufficientemente veritiero la dinamica della trasformazione degli organismi viventi, mentre
l’interpretazione dell’evoluzione giuridica di Maine – così come quella economica di Bagehot –
sembra più il tentativo di una giustificazione “scientifica” di un’opinione politica che non una
ricostruzione verosimile dei fatti.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono ricchi di sovrapposizioni tra ambiti di pensiero diversi per
natura e per qualità. Sono anni in cui abbondano le analogie tra fisico e sociale, tra individuo e
collettività, tra organismo naturale e organismo sociale. Da allora tali analogie sono entrate nel
linguaggio corrente con metafore come “organismo sociale”, “il corpo dello stato”, ecc. D’altra
parte, questo genere di commistione non è una novità, basti ricordare l’apologo di Menenio Agrippa
che descriveva la rivolta del popolo contro il senato romano come una rivolta, all’interno del
medesimo corpo, delle braccia contro lo stomaco.
Oltre al padre putativo di queste commistioni, vale a dire Spencer, altri importanti intellettuali
hanno portato il loro contributo. Uno di questi è senz’altro Galton. Francis Galton (1822-1911) fu
uno degli scienziati più poliedrici e rappresentativi della seconda metà del diciannovesimo secolo.
Esploratore, matematico, metereologo, evoluzionista, egli professava un evidente ottimismo
riguardante il progresso dell’umanità, un progresso che poteva essere sostenuto e orientato
dall’uomo stesso attraverso processi di selezione che favorissero le migliori doti morali e
intellettuali. Egli fu autore di saggi nei quali credeva di poter dimostrare scientificamente che le doti
morali e intellettuali dell’uomo sono ereditabili (e pertanto selezionabili) come ogni altra
caratteristica somatica. Tra le opere più riguardevoli a questo titolo, Hereditary talent and
character, 1865) (Eredità del talento e del carattere) e Hereditary genius, 1892 (Eredità del Genio).
Galton ritiene che sia possibile intervenire sul progresso della stirpe umana attraverso
l’eliminazione degli individui inclini al delitto e attraverso la selezione positiva degli individui dalle
alte doti intellettuali e dalle integerrime qualità morali, trattando le facoltà umane alla stessa tregua
con cui gli allevatori inglesi selezionavano le doti fisiche di colombi domestici. Questo modo di
ragionare sta alla base degli ideali dell’eugenetica – di cui Galton è considerato il padre fondatore –
ed ha qualche affinità con alcuni aspetti ideologici professati dal darwinismo sociale.
In questo contesto di confusione furono pubblicati in quegli anni due saggi simili nel titolo ma quasi
opposti nelle conclusioni. Si tratta di Evolution and Ethics, 1893 (Evoluzione e Etica) di Thomas
Huxley (1825-1895, darwiniano entusiasta, più darwiniano dello stesso Darwin) e di Social
Evolution, 1894 (Evoluzione Sociale) di Benjamin Kidd (1858-1916). Mentre Huxley giudicava
l’evoluzione culturale dell’uomo un percorso evolutivo che consentiva alla specie umana di
emanciparsi dalle pure relazioni di forza che governano il resto della natura, Kidd – il cui saggio di
“bio-politica” sarebbe diventato in quegli anni un best-seller mondiale – vedeva nell’evoluzione
dell’uomo un processo di trasformazione sociale alla cui base risiedeva uno specifico disegno
divino. Di natura simile alla visione di Kidd fu la deriva spiritualista di un evoluzionista darwiniano
della prima ora, Alfred Wallace (1823-1913), il quale nel 1859 aveva condiviso con Darwin la
paternità delle nuove teorie sull’evoluzione delle specie.
A completare il quadro delle sovrapposizioni d’ambito generatrici di confusione si può citare il caso
del letterato di Leslie Stephen (1832-1904, padre di Virginia Woolf) il cui saggio The Science of
Ethics, 1882 (La Scienza dell’Etica), già nel titolo la dice lunga sui rimescolamenti socio-fisicoorganicistici in voga in quegli anni e sul grado di ambiguità che tali rimescolamenti d’ambito erano
in grado di generare.
Non ci si può quindi sorprendere che in un terreno colturale come quello sopra descritto in cui i
confini dei vari elementi in gioco sono indistinti al punto tale che ciascuno di essi sembra perdere la
propria identità costitutiva, i confini tra organico e sociale andassero completamente a farsi
benedire e che il selezionismo di matrice organica venisse assunto come principio ordinatore unico
di tutto ciò che si trasforma.
Darwin aveva illustrato come un unico principio naturale – il selezionismo – potesse fungere da
meccanismo centrale e da motore universale che consente all’universo organico di darsi ordine. Ed
è proprio da questa idea della generazione spontanea dell’ordine a partire da meccanismi ordinatori
universali che prendono origine le ideologie sociali che si richiamano in vario modo al selezionismo
darwiniano. L’idea di ridurre la complessità del mondo a un unico meccanismo ordinatore è, però,
molto pericolosa, se non decisamente fuorviante. Temerariamente, il principio ordinatore unico – il
selezionismo – venne adottato come chiave di volta per la comprensione e l’interpretazione di ogni
cosa avesse la ventura di evolversi nel tempo, ovvero di ogni cosa descrivibile o indagabile in
chiave storicistica. In quest’ottica, Engels e Marx interpretarono la lotta di classe come un momento
necessario di evoluzione sociale. Altri, come s’è visto, attribuirono al selezionismo di matrice
darwiniana il ruolo di motore delle trasformazioni sociali. Se il selezionismo era valido per il genere
umano (inteso come individui e popolazioni), esso doveva essere altrettanto valido per le società e
per le istituzioni umane, intese come aggregazioni funzionali organizzate. Fu così che la nascente
sociologia mitteleuropea adottò il selezionismo darwiniano come il motore dello sviluppo sociale
assumendo che questo sviluppo e l’intera organizzazione sociale fossero determinate
essenzialmente delle interazioni variamente conflittuali tra i gruppi umani. Ecco che, nell’Europa
centrale e negli Stati Uniti, il darwinismo sociale finisce curiosamente col sostituirsi all’etica
calvinista come giustificazione delle disparità sociali. Prima che il darwinismo, inteso come “legge
naturale” della lotta per la sopravvivenza, venisse assunto come ideologia giustificatoria del
predominio di una classe sociale sull’altra, era stata l’etica calvinista – che vedeva il prevalere di
una classe sull’altra come risultato di una “legge divina” – a fornire tale giustificazione. Ora,
l’ideologa darwinista che era stata inizialmente vista come nemica perché avversa a ogni
implicazione teologica, in qualità di etica laica subentrava (o più semplicemente si affiancava)
all’etica calvinista nel giustificare le diseguaglianze sociali, fornendo per di più “solidi alibi
scientifici” allo sfruttamento, al servilismo, al colonialismo, allo schiavismo, all’imperialismo.
Di un’interpretazione decisamente pessimistica di questa visione ideologica si fece interprete il
giurista polacco Ludwig Gumplowicz (1838-1909) il quale affermava che tutta la storia dell’uomo
sta lì a testimoniare che le istituzioni sociali, l’organizzazione del lavoro, le leggi e ordine sociale,
non sono generati dalla cooperazione sociale, bensì dal conflitto. L’origine ebraica di Gumplowicz
– con tutto ciò che comporta in termini di conflitti etnici e razziali e di “lotta per la sopravvivenza”
– è certamente all’origine di tali convinzioni che egli ha descritto in due delle sue opere maggiori:
Lineamenti di Sociologia, 1886 e La Lotta delle Razze, 1909. L’organizzazione del lavoro e le
regole sociali che ne conseguono (vale a dire il “diritto”) sono generati dai conflitti tra le classi
sociali. La sociologia pessimistica di Gumplowicz sembra sintetizzare il selezionismo darwiniano
con le istanze marxiste formando un’ideologia in cui, apparentemente, leggi naturali, ideologie
politiche, scienze giuridiche e sociali formavano un sorta di miscela omogenea ove però uno dei
costituenti – il selezionismo darwiniano – non è omogeneamente miscibile con gli altri. Nella
sociologia di Gumplowicz io ravviso un vizio metodologico che consiste nel considerare omogenei
e simmetrici sistemi che omogenei e simmetrici non sono. Gumplowicz – che perviene a una forma
di darwinismo sociale partendo dalle esperienze e dal punto di vista degli oppressi – finisce
sorprendentemente per condividere questo errore con i vari esponenti del darwinismo sociale che
utilizzavano ideologicamente il selezionismo come strumento giustificatorio per i comportamenti
oppressori. Questa inquietante convergenza degli opposti derivata dalla distorsione della dottrina
darwiniana è paradigmatica dei possibili effetti causati dalla distorsione su base ideologica delle
dottrine scientifiche in genere.
C’è quindi tutta una storia – una continuità filetica di darwiniana memoria, a voler utilizzare anche
noi l’analogia darwiniana – tra Spencer, Galton, Bagehot, Gumplowicz, Dawkins e il sempre
pimpante darwinismo sociale di oggigiorno. Nel 1944, lo storico americano Richard Hofstadter
(1916-1970) pubblica il saggio Social Darwinism in American Thought, 1860–1915 (Il Darwinismo
Sociale nel Pensiero Americano tra il 1860 e il 1915) nel quale analizza criticamente il capitalismo
americano di fine Ottocento. Tale saggio costituisce un raccordo sia lessicale che semantico tra il
darwinismo sociale dell’Ottocento e quello del Novecento. Hofstadter mostra come l’ideologia del
darwinismo sociale fosse utile a giustificare “scientificamente” l’innato individualismo competitivo
degli americani e lo sviluppo della politica imperialista da parte della loro nazione. Con il saggio di
Hofstadter, l’espressione “darwinismo sociale” diviene una locuzione popolare. Divenendo
popolare, la locuzione non trova più ostacoli all’estensione ai più vari contesti (politico, economico,
ecc.), finendo così col chiudere il cerchio e facendo tornare l’ideologia del selezionismo là da dove
era partita, vale a dire all’ambito delle scienze biologiche: e con questo si arriva alla
contemporaneità. Prima, però, di aprire quest’ultimo capitolo, è necessario che ci soffermiamo sulla
riflessione italiana di fine secolo nei confronti dell’evoluzionismo e del selezionismo, e sulle
implicazioni o sulle applicazioni dell’ideologia darwinista all’ambito sociale e politico del nostro
paese. Il capitolo “italiano”, pur collocandosi nella periferia provinciale della riflessione sul
darwinismo, è importante per due motivi: il primo è che il darwinismo, collocandosi nella corrente
del pensiero razionalistico europeo, si inserisce in modo strutturale nel feroce dibattito politico,
religioso, istituzionale dell’Italia postunitaria. Il secondo motivo è che in Italia il dibattito sul
darwinismo, e la transizione di questo da dottrina scientifica a dottrina ideologica, fu ampio e ricco
di spunti interessanti e ancora attuali.
Così come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, anche in Italia la dottrina darwiniana si è inserita
in un precostituito “contesto” sociale tutt’altro che uniforme ma piuttosto variegato e contrastato,
costituito da paradigmi scientifici in contrasto uno con l’altro, da credenze e miscredenze religiose,
da contrastanti principi sulle politiche economiche e sociali, da una varia e diversificata
propensione da parte dei potentati politici, economici e religiosi all’espansione territoriale e
coloniale, e così discorrendo. Queste diverse anime del contesto sociale si sono relazionate in modo
vario con la dottrina darwiniana, talora cercando di combatterla, tal’altra cercando di sfruttarla
generalizzandone alcuni aspetti peculiari, ma – in ogni caso – mai ignorandola e sempre
accreditandola come dottrina a forte rilevanza sociale.
Nell’Italia postunitaria la teoria darwiniana assurse a pretesto di un aspro dibattito (un vero e
proprio conflitto verbale e ideologico) sulla natura e sull’origine dell’uomo (creazionismo contro
naturalismo): la querelle fu dibattuta tra evoluzionisti e antievoluzionisti, tra materialisti e
spiritualisti, tra clericali e anticlericali, tra repubblicani e papisti, tra liberi pensatori, anarchici,
marxisti e mazziniani. Il materialismo e l’evoluzionismo sconfinarono purtroppo spesso in
tentazioni scientiste, dogmatiche tanto quanto lo furono le posizioni assunte – sul versante opposto
– dei creazionisti. Il saggio di Antonio De Lauri intitolato La “patria” e la “scimmia”. Il dibattito
sul darwinismo in Italia dopo l’Unità (Biblion Edizioni, Milano 2010) fornisce un’ottima
prospettiva storica di questa querelle.
Anche tra gli scienziati – vedi per esempio il caso dell’illustre medico e senatore del Regno Paolo
Mantegazza – il darwinismo assurse a segno ideologico, volendo rappresentare un ideale di
progresso dell’umanità che vedeva nel selezionismo e nella continuità causale tra i fenomeni
naturalistici una dimostrazione scientifica del progressionismo ideologico.
Nel 1892, il medico e psichiatra Enrico Morselli (1852-1929) raccolse in un unico volume una serie
di articoli scritti da studiosi di diverse discipline e appartenenti a differenti aree di pensiero. Questo
volume intitolato Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali. Scritti vari
raccolti e pubblicati per cura del prof. Enrico Morselli (Fratelli Dumolard, Milano 1892) fornisce
un quadro particolarmente interessante della eterogeneità di interpretazione, spesso di natura
ideologica, che la dottrina darwiniana ha avuto su parti importanti della cultura italiana 7. Sebbene
gli scritti raccolti da Morselli datino a più di centoventi anni fa (essendo stati scritti in prevalenza
prima del 1890), parte del loro contenuto è ancora sorprendentemente attuale.
L’attualità di questi scritti riguarda il nocciolo duro di questo mio intervento, vale a dire il
darwinismo inteso: 1) come metodo da estendere eventualmente a discipline originariamente
estranee al naturalismo darwiniano; 2) come paradigma di interpretazione del cosmo; 3) come legge
naturale e universale assunta a sostegno scientifico di qualunque genere di ideologia. Su questi
temi, le opinioni espresse dagli autori dei saggi raccolti da Morselli sono eterogenee e se ne
riportano qui di seguito alcuni stralci significativi.
Tito Vignoli (1829-1914) fu un filosofo dagli ampi interessi scientifici tanto che dal 1892 al 1911
egli diresse il Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Per Vignoli il darwinismo assurge a
“metodo” e, come tale, esso rappresenta una rivoluzione che va ben oltre la sfera puramente
scientifica. A proposito del darwinismo, Vignoli afferma che “sfolgorerà di luce sempiterna e
durerà come organo sempiterno del sapere. Perché Darwin è un ‘metodo’, come un ‘metodo’ fu
Galileo […] che assieme a Bacone spezzò l’antica raffigurazione mistica del mondo” 8.
Anche per lo stesso Enrico Morselli il darwinismo assurge a metodo, un metodo monistico che –
nel contesto del razionalismo neoilluministico e liberale di fine Ottocento – si candidava a coprire le
esigenze gnoseologiche riguardanti ogni genere di rappresentazione della realtà che ci circonda: “E
però, dopo che Carlo Darwin ebbe trovato la base scientifica del trasformismo biologico, […] la
teoria dell’evoluzione non poteva tardare a divenire il legame nel quale e pel quale tutte le branche
del sapere si unificavano allo stesso modo con cui si dispone e coordina – uno e continuo nella
scienza umana – il complesso delle rappresentazioni del cosmos. […] La dottrina evoluzionistica
resterà ciò che essa è presentemente: il vincolo metodico per tutte le concezioni cosmologiche, il
nesso fra tutte le parti del sapere, l’espressione sincera e perenne del generalissimo tra i principi
filosofici, quello della continuità causale tra i fenomeni e con ciò l’unificazione del mondo dello
spirito col mondo della materia” 9.
Coloro i quali simpatizzano per la discutibile teoria di Richard Dawkins della corrispondenza tra
gene e meme, replicatore, il primo, della variabilità delle informazioni biologiche e replicatore, il
secondo, della variabilità delle informazioni riguardanti il pensiero (vedi oltre), troverà nel filologo
Gaetano Trezza (1828-1892) un notevole anticipatore dello stesso Dawkins, almeno per quanto
riguarda la filogenesi delle forme linguistiche. Afferma Trezza: “Il linguaggio, dunque, costituisce
una realtà storica, mobile sempre, trasmutabile sempre a forme più idealmente vere. Le leggi
biologiche di Darwin si confermano mirabilmente nella storia morfologica del linguaggio stesso.
Chi ne studia l’embriogenia vi ritrova quell’unità di composizione che, pur sotto la diversità della
forma, ci manifesta il processo meccanico nelle lingue come nelle specie fisiche” 10.
Molto articolato è il pensiero dell’economista Achille Loria (1857-1943) sulle relazioni tra il
darwinismo e le leggi economiche e su quelle tra il selezionismo darwiniano e le istanze
ideologiche del darwinismo sociale. A proposito delle relazioni del darwinismo con le leggi (o con
le teorie) economiche, Loria tratteggia alcuni importanti precedenti storici e sottolinea – credo per
primo – l’aspro contrasto tra due opposte interpretazioni di tali relazioni: quella di tipo malthusiano
(con i suoi precedenti pre-malthusiani), che immagina del tutto coerente l’applicazione del
darwinismo alle leggi economiche (tesi per la quale parteggia anche Enrico Morselli), e quella di
impronta socialista sul cui versante moderato lo stesso Loria si schiera. A proposito delle origini
pre-malthusiane delle relazioni tra darwinismo e teorie economiche e della visione che anticipa le
teorie del darwinismo sociale, Loria afferma: “Il pastore anglicano Townsend esponeva una teoria
della popolazione in cui la lotta per l’esistenza tratteggiavasi come l’effetto della procreazione
eccessiva e come risultante al trionfo degli individui più forti” 11, 12.
Nella sua visione improntata al socialismo moderato, a proposito del rapporto tra darwinismo ed
economia Loria spende una serie di riflessioni particolarmente interessanti, specie se si tiene conto
che tali riflessioni in quegli anni andavano decisamente controcorrente. Tali riflessioni partono da
un’introduzione storica sulle connessioni tra le dottrine darwiniane e la loro applicazione in campo
economico: “Lo scrittore al quale spetta il merito di avere per primo tentato una geniale
applicazione del darwinismo alla scienza economica è l’eminente filosofo F.A. Lange la cui opera
sulla questione operaia è indubbiamente la più felice associazione fra l’economia politica e il
darwinismo. Lange sostiene che la contesa odierna [seconda metà dell’Ottocento] tra il capitale e il
lavoro non è che l’ultima manifestazione della lotta per l’esistenza, di cui l’antropofagia primitiva,
la schiavitù e il servaggio sono le precedenti e più brutali manifestazioni […] e che la mortalità tra
le classi povere non è che il risultato tra lo squilibrio tra la quantità delle sussistenze limitata e
crescente con lentezza e l’accrescersi accelerato ed energico delle popolazioni brulicanti” 13.
Infine, Loria contrappone in modo dialettico le due diverse visioni per condannarne una senza
riserve e per sostenere l’altra: “Se invece, col darwinismo, ravvisate nella misura il risultato
dell’evoluzione storica, voi potete rivolgervi alle classi lavoratrici e dir loro: «non odiate, non
combattete le classi proprietarie, perocché son così irresponsabili della loro ricchezza come voi
della vostra povertà, perocché la vostra condizione rispettiva è ineluttabile prodotto di un’epoca, e
contro il fato che la regge i vostri sforzi verranno indarno a infrangersi. […] Ma non sarò
giudicato irriverente alla memoria del grande britanno se affermo che troppe e troppo affrettate
applicazioni della teoria darwiniana si fecero e si rifanno nella scienza nostra, e se per mia parte
mi oppongo a una applicazione sociale del darwinismo nella sua più ampia portata. […]
Imperocché, se è giusto ammettere che la evoluzione sociale o superorganica si compie per la
medesima causa che la evoluzione organica per l’incremento della popolarità, è irrazionale
l’ammettere che questa causa agisca per identico modo nello sviluppo dell’organismo umano e
dell’organizzazione sociale. […] Sovente ci incontriamo nell’asserto che la teoria darwiniana è
giustificatrice delle ineguaglianze sociali. Imperocché la natura, dicono, è aristocratica e impone
all’economia tutta del cosmo la disparità delle condizioni come legge di progresso e di vita. […]
Se voi asserite che la natura, pel darwinismo, è aristocratica e perciò è giusta e naturale
l’aristocrazia, io vi risponderò che la natura, pel darwinismo, è omicida e che perciò l’omicidio
dee pur trovare nel sistema darwiniano la più completa giustificazione” 14.
A questo medesimo periodo storico appartiene un altro contributo rilevante da parte di un
intellettuale italiano al connubio “metodo-contesto”: anche in questo caso il “metodo” è la dottrina
darwiniana, mentre il “contesto” è quello dell’antropologia criminale.
Cesare Lombroso (1835-1909) applicò in maniera positivistica e deterministica alcuni concetti delle
teorie evoluzionistiche alle teorie riguardanti il comportamento criminale. Le sue conclusioni –
apparentemente dotate di una coerenza logica e scientifica inappuntabile – contribuirono in modo
determinante a fare dell’evoluzionismo e dell’ereditarietà un paradigma di interpretazione in ambito
antropologico. Gli echi delle teorie lombrosiane sono tuttora vivi e non cessano, di tanto in tanto, di
riapparire in forma varia nelle politiche sociali che si rifanno al darwinismo sociale. A determinare
il grande successo delle teorie lombrosiane è stato l’aver trasferito il materialismo deterministico
dall’ambito darwiniano delle scienze naturali al territorio delle scienze umane, considerate queste
un territorio molto prossimo alle scienze biologiche e, pertanto, ugualmente soggetto al
materialismo deterministico 15. In alcune delle sue opere (L'uomo criminale, 1875; L'uomo
delinquente, 1876) Lombroso si riallaccia all’opera di Galton che dimostrava “scientificamente”
l’ereditarietà delle caratteristiche psichiche e mentali dell’uomo (Hereditary talent and character).
Dalle dottrine darwiniane Lombroso aveva tratto il concetto di “reversione”. Darwin – che non
poteva conoscere i meccanismi dell’ereditarietà scoperti da Gregor Mendel – utilizzava il termine
reversione per descrivere la ricomparsa occasionale in alcuni individui (piante e animali) di caratteri
morfologici ancestrali non presenti nei genitori. Immaginando che la “reversione” costituisse una
sorta di legge naturale di “ritorno alle origini”, Lombroso vi attribuiva l’emergere in alcuni
individui – i criminali – dei comportamenti aggressivi, violenti e prevaricatori, propri dei bruti
primitivi. Va da sé che tali spiegazioni apparivano “scientificamente provate” ed erano
perfettamente funzionali tanto alle politiche di isolamento e di eliminazione dei caratteri negativi,
quanto al contesto costituito dall’organizzazione sociale contemporanea a Lombroso. Anche con
Lombroso, quindi, “metodo” e “contesto” vanno a braccetto, e anche in questo caso tale connubio
genera conseguenze alquanto discutibili.
Dopo aver doverosamente citato il contributo italiano al dibattito sul rapporto tra darwinismo e
società, si può tornare convenientemente alla contemporaneità riprendendo il filo del discorso là
dove lo si era lasciato parlando dello “sdoganamento” dell’espressione “darwinismo sociale”
operata da Richard Hofstadter. Parlando di contemporaneità e di darwinismo sociale il pensiero non
può andare che a Richard Dawkins e a Eduard Osborne Wilson.
Nel 1976, il biologo inglese Richard Dawkins (1941) pubblicò un saggio intitolato The Selfish Gene
(Il Gene Egoista): questo saggio ebbe un enorme successo. Rifacendosi esplicitamente al
selezionismo darwiniano, Dawkins applicava il principio della selezione naturale alla genetica
affermando che non sono tanto i fenotipi, gli individui e le specie più adatti a essere selezionati,
quanto, piuttosto, i geni. La selezione dei fenotipi, degli individui e delle specie è lo strumento
operativo attraverso cui viene selezionata l’informazione genetica: l’ambiente e le specifiche
contingenze storiche fungono da motori della selezione dei geni. Poiché l’uomo non è formato solo
da sostanza organica ma anche da intelletto, il meccanismo selettivo si applica anche alle idee che
risultano più adatte all’ambiente e alle contingenze. Le idee, però, altro non sono che l’espressione
fenotipica (individuale o collettiva) di un certo genere di informazione, quella intellettuale.
All’“unità fondamentale” di questo tipo di informazione Dawkins ha attribuito il nome di “meme”.
Con questa operazione Dawkins pone un parallelismo cogente tra l’evoluzione attraverso la
selezione delle strutture fisiche dell’uomo e una analoga evoluzione per selezione delle idee che
costituiscono la “materia” su cui si basa il progresso sociale e culturale dell’uomo. Su questo
presunto parallelismo si è molto discusso e occorrerebbe troppo spazio per discuterne qui e ora. Qui
voglio solo rimarcare il trasferimento di domino operato da Dawkins del selezionismo darwiniano,
da quello della fisicità corporea a quello della idealità. Ora appare abbastanza evidente che al
biologo Dawkins il naturalismo originale di Darwin non è sufficiente a spiegare la natura
dell’uomo. Per Dawkins, come per molti altri, l’uomo ha una doppia natura: naturale da una parte,
intellettuale, culturale, spirituale dall’altra. Entrambe le nature soggiacciono però a un unico
meccanismo evolutivo e ordinatore: il selezionismo darwiniano. Tutto ciò richiama abbastanza
apertamente il punto di vista di Galton che considerava ereditarie le doti intellettuali, ma richiama
in parte anche il punto di vista di Alfred Wallace che, alla fine, non era riuscito ad abbandonare una
visione dualistica – naturale e spirituale – dell’essere umano, confermando l’idea di una natura del
tutto speciale dell’uomo nei confronti di tutti gli altri esseri viventi. Dawkins attribuisce pertanto al
selezionismo darwiniano il ruolo di “algoritmo universale”. In questo senso, però, Dawkins non è
nemmeno del tutto originale perché fu per certi versi preceduto da Wilhelm Wundt (1832-1920),
uno dei padri fondatori della psicologia. Per Wundt, sono i costrutti psichici e i motivi psicologici
che emergono nella mente dell’uomo a condizionare le relazioni tra gli individui e quelle tra gli
individui e l’ambiente: le funzioni psichiche – che Wundt considerava alla stregua di strutture
latenti nella mente – sono soggette a selezione, il progresso morale e sociale dell’uomo dipendendo
in parte da questo tipo di selezionismo.
Se Dawkins si affida al naturalismo considerando in modo paritetico l’evoluzione per selezione
naturale tanto del soma quanto delle idee, Eduard Osborne Willson (1929) porta il “metodo”,
ovvero la dottrina darwiniana, dritto dritto nel “contesto” dello studio del comportamento sociale
creando il termine e la disciplina della “sociobiologia”. Come disciplina, la sociobiologia cerca
nelle leggi della biologia evoluzionistica gli algoritmi che determinano il comportamento degli
uomini (e degli animali). La sociobiologia come disciplina assume il sociodarwinismo come
ideologia assegnando determinismi naturalistici alla genesi dei comportamenti umani. Assumere
principi biologici e leggi naturalistiche come motore del comportamento dell’uomo allevia il
principio di responsabilità e fa sì che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo possa essere considerato
come l’ineluttabile risultato di un determinismo naturalistico. A questa deriva sociodarwinistica
sembrano applicarsi magnificamente le parole profetiche di Achille Loria “e perciò l’omicidio dee
pur trovare nel sistema darwiniano la più completa giustificazione”, pronunciate cinquant’anni
prima dell’emergere della dottrina sociobiologica di Eduard Wilson.
Dopo tutta questa spatafiata urge arrivare una conclusione.
Adattare ogni possibile “metodo” a ogni possibile “contesto” è una prerogativa dell’intelligenza
inferenziale umana. Questa intelligenza sostiene la capacità di ideazione ed è alla base di tutti i
successi ottenuti dalla specie e – ahimè – anche di tutte le immani tragedie che l’uomo ha generato
con le sue proprie mani. Associare un metodo a un contesto è il risultato di un “costrutto” mentale.
Dušan Stojnov definisce il “costrutto” con queste parole: “I costrutti sono operazioni mentali
personali che discendono da e implicano le discriminazioni (interpretazioni delle somiglianze e
delle differenze) compiute dall’individuo in tutta la sua esperienza biografica. […] I costrutti, come
tali, sono idiosincratici, variando da persona a persona” (Stojnov D., 2015) 16. I costrutti, quindi,
sono prodotti individuali: essi possono essere volontari (generati deliberatamente) o involontari
(generatisi spontaneamente grazie a inferenze automatiche). In ogni caso, la responsabilità
individuale nasce quando un costrutto viene comunicato ad altri o viene utilizzato,
metodologicamente, per trarne conseguenze. Oltre alla responsabilità individuale di chi genera un
costrutto, vi è anche la responsabilità, individuale e collettiva, di cui si grava chi utilizza – per
qualsiasi fine – quel certo costrutto. Con questo intendo semplicemente dire che, come in tutti i casi
riportati in questo articolo, ogni connubio tra metodo e contesto è gravato da responsabilità
individuali e collettive che pesano tanto quanto le conseguenze (sulla conoscenza, sull’economia,
sulla società, ecc.) che tali connubi hanno provocato. La responsabilità grava anche su chi accetta
connubi metodo-contesto senza averli valutati e, se il caso, criticati. Io dunque vorrei criticare,
metodologicamente, i vari connubi tra la dottrina darwiniana e contesti estranei al dominio delle
scienze naturali ove la dottrina selezionistica è stata ideata. La mia critica è molto semplice ed
essenziale. Affermo in buona sostanza che tutti i connubi sopra riportati hanno utilizzato
strumentalmente solo una parte della dottrina darwiniana ignorandone colpevolmente una parte
sostanziale: quella che ha che fare con la “variazione”.
La selezione naturale proposta da Darwin è un meccanismo di selezione della variazione. Il
momento della selezione sta a valle della variazione e quest’ultima si può generare perché esistono
delle pre-condizioni che consentono la variabilità. Sia Darwin che altri, per esempio il morfologo e
genetista William Bateson (1861-1926), hanno affermato questo concetto molto chiaramente. Il
selezionismo cui si rifanno varie strumentalizzazioni ideologiche sembra trascurare del tutto
l’aspetto legato alla variazione che è, invece, un elemento fondamentale dell’evoluzione. Il vero
motore è la variazione: è questa che conferisce a chi la possiede un punto di forza o un punto di
debolezza rispetto agli individui non variati. La natura seleziona (aumentando o riducendo le loro
capacità di sopravvivenza o di generare prole) gli individui in base a quanto una data variazione li
rende più o meno adatti alle contingenze storico-ambientali in cui essi si trovano. Il basarsi sul
“selezionismo” è di per sé un errore metodologico perché la selezione è solo il risultato del
combinato disposto tra variazione e contingenza tanto che, giustamente, alla fine dell’ottocento,
molti definivano il meccanismo evolutivo descritto da Darwin come “trasformismo biologico”. Ma
c’è di più. La natura non premia il “migliore”, il più “progredito”, il più “perfetto”: essa premia il
più adatto a una determinata contingenza storica. Riguardo agli organismi naturali, questo rende
evidente che è metodologicamente errato aspettarsi un “progresso” costituito da una linea temporale
unidirezionale puntata verso la “perfezione”. Se si usa il naturalismo darwiniano come concetto
guida delle ideologie, da questo non vanno escluse componenti scomode come la relatività del
concetto di “perfezione” o di “progresso”. Se lo si fa, utilizzando la parte conveniente di una
dottrina e facendo finta che la parte meno conveniente non esista, si opera una arbitraria selezione
strumentale della dottrina che si assume come riferimento. La dottrina che si assume come
riferimento risulta alterata e quindi non può conservarne né il nome né l’autorevolezza originaria.
Se si compie una manovra del genere bisogna ammettere la parzialità intrinseca dell’analogia. Se
l’omissione non è una dimenticanza, allora è un dolo. Ma non finisce qui. In natura, la selezione si
genera in base a un certo qual principio di utilità. Se la variazione è utile, questa potrebbe essere
conservata, se è inutile o dannosa, viene rimossa ma, anche in questo caso, non c’è una natura che
“deliberatamente” conserva o elimina: c’è solo un sopravvivere o un perire degli individui più o
meno adatti a una certa contingenza. È corretto concettualizzare questo fenomeno individuale di
sopravvivenza o di declino come fondamento naturalistico di un’ideologia, per esempio economica
o sociale? Secondo me, non è corretto. Se mai, è legittimo dire (ma senza necessariamente tirare in
ballo Darwin) che, poiché in ogni azione umana e in ogni fenomeno naturale ciò che è più adatto
alle contingenze ha maggiori probabilità di affermarsi fintanto che quelle contingenze rimangono
tali, a questa tendenza si può dare il nome di “selezionismo” e si può utilizzare questo costrutto
come principio di analisi dei vari fenomeni di cui l’uomo è attore o spettatore.
Bibliografia e note
1. De Florio V. A behavioural model for the discussion of resilience, elasticity, and antifragility
(2015); presentazione. (http://goo.gl/OIWftf)
2. Borzini P. Darwin-ismo. Methodologia on line. WP 278: pp. 18-20; (http://goo.gl/74Cnzq;
5/11/2015; Borzini P. Non tutto, per favore, nel nome di Darwin. Methodologia on line. WP 287: pp.
1-10; (http://goo.gl/iZ9y9s).
3. Mazzotti M. Il newtonianesimo e la scienza del Settecento. Enciclopedia Treccani on line:
(http://goo.gl/VrlAeL).
4. Una definizione essenziale di “darwinismo sociale” è quella data d Alessandra La Marca che lo
definisce come “una lettura semplificata della teoria di Darwin che si voleva applicare
meccanicamente alle complesse società umane”. [La Marca A. Darwin, Charles Robert.
Enciclopedia Treccani on line: (http://goo.gl/7C0h3B).
5. Nel 1975, pubblicando il libro Sociobiology: the new synthesis (Sociobiologia: la nuova sintesi),
Eduard Wilson diede il nome a una branca degli studi antropologici il cui fondamento era quello di
ricondurre il comportamento socioculturale dell’uomo alla sua matrice naturale, ove idee,
comportamenti e culture si affermano attraverso meccanismi di “selezione naturale” in cui biologia e
geni svolgono un ruolo fondamentale.
6. Bagehot W. Physics and Politics - Thoughts on the application of the principles of "natural
selection" and "inheritance" to political society. Henry S. King & Co., London, 1872.
(http://goo.gl/h6CWCU).
7. Morselli E. Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali. Scritti vari raccolti e
pubblicati per cura del prof. Enrico Morselli. Fratelli Dumolard, Milano 1892. Oltre allo stesso
Morselli, gli autori dei saggi contenuti nel volume sono: Giovanni Canestrini, Giacomo Cattaneo,
Achille Loria, Giovanni Marinelli, Guglilmo Romiti, Giuseppe Tarozzi, Gaetano Trezza, Tito
Vignoli.
8. Vignoli T. Carlo Darwin e il pensiero. Ivi, pp. 189-196.
9. Morselli E. Darwinismo ed evoluzionismo. Ivi, pp. 267-268.
10. Trezza G. Il darwinismo e le formazioni storiche. Ivi, p. 114.
11. Loria A. Carlo Darwin e l’economia politica. Ivi, pp. 68-186.
12. Il Reverendo Joseph Townsend (1739-1816), anticipando alcune riflessioni di Thomas Malthus, si
dichiarava contrario a ogni intervento pubblico o privato in sostegno dei poveri. In A Dissertation on
the Poor Laws (Dissertazione a proposito della Legge sui Poveri), nel 1876 egli affermava: “it is
only hunger which can spur and goad them on to labour” (è solo la fame che li sprona e li sollecita
alla fatica del lavoro). Con tutta evidenza, Townsend è stato un anticipatore delle tesi che saranno
proprie del darwinismo sociale più duro e Loria ne cita le parole testuali per mostrare tutto il proprio
dissenso rispetto a tale posizione.
13. Friedrich Albert Lange (1828-1875) è un esponente di un’ala moderata del socialismo, il cosiddetto
socialismo etico. Nell’opera Ansichten uber die sociale Frage (1866) (Osservazioni sulla Questione
Sociale), egli difende energicamente gli interessi dei lavoratori e le loro richieste politiche ed
economiche.
14. Il grassetto è mio.
15. A Georg Friedrich Hegel (1770-1831) questo trasferimento d’ambito non sarebbe per niente
piaciuto. Già nel 1809 (quindi parecchio in anticipo rispetto a Lombroso), in Fenomenologia dello
Spirito, riferendosi proprio ai guai secondo lui provocati dal trasferimento di concetti dal dominio
organico a quello della psiche e volendo polemizzare con fisiognomica di Lavater (1741-1801) e con
la frenologia di Gall (1758-1828), egli affermava ironicamente: “l’essere dello spirito è un osso!”.
16. Dušan Stojnov. GLOSSARIO: Costrutto. Riv. It. Costruttivismo 2015; Vol. 3, n° 2, ISSN 2282-7994.
* "Articolo originariamente apparso in due parti su "Filosofia e nuovi sentieri/ISSN 2282-5711" ai
seguenti url:
http://goo.gl/L8fFwW oppure
http://filosofiaenuovisentieri.it/2015/11/15/il-metodo-e-il-contesto-la-dottrina-darwiniana-e-le-ideologie-parassitarieparte-i/
http://goo.gl/JHyI0T oppure
http://filosofiaenuovisentieri.it/2015/11/22/il-metodo-e-il-contesto-la-dottrina-darwiniana-e-le-ideologie-parassitarieparte-ii/
Notizie
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Per la cura di Rosa De Simone, la casa editrice Odradek ha pubblicato la versione e-book con indice dei nomi e link - di tre opere di Felice Accame: Dire e condire (1999), Antologia
critica del sistema delle stelle (2006) e Il linguaggio come capro espiatorio dell'insipienza
metodologica (2015).
*
Nella collana "Ideologia e conoscenza", con una prefazione di Margherita Marcheselli, la
casa editrice Odradek ha pubblicato la nuova edizione riveduta e corretta de Il
costruttivismo radicale di Ernst Von Glasersfeld.
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In "Il Segnale", ottobre 2015, n. 102, Felice Accame ha pubblicato "Una citazione di autore
più o meno identificato".
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