L'America liberal critica il presidente e si interroga sulla globalizzazione Tonino Bucci Per i liberal, la sinistra dei democratici, non c'è ombra di dubbio. Nello scontro politico sul debito pubblico americano che ha visto contrapposti fautori dei tagli e sostenitori delle tasse ai ricchi, la vittoria è andata ai primi. L'accordo che ha ottenuto due giorni fa il via libero definitivo al Senato è considerato senza mezzi termini una resa del presidente Obama alle richieste dei repubblicani e, nella fattispecie, alla loro ala più intransigente, quel Tea Party indisponibile a qualsiasi misura di tassazione sui redditi alti. «Un accordo terribile», lo ha definito il New York Times, forse sufficiente per scampare al rischio apocalittico della bancarotta di stato, «ma per il resto una capitolazione completa alle richieste degli estremisti repubblicani». Sulle stesse colonne, a rincarare la dose, l'economista Paul Krugman, un riferimento per l'area liberal. «Molti commentatori dichiareranno che il disastro è stato appena evitato, ma si sbagliano; l'accordo è un disastro, non solo per Obama e il suo partito. Danneggerà un'economia già depressa». L'unica nota di consolazione è che nella galassia dei democratici si è palesata un'area di opinione, una sorta di "partito di sinistra", provvisto non solo di propri intellettuali e maître à penser, ma anche di un peso politico specifico, con un gruppo parlamentare progressista di 75 deputati (all'incirca il 17 per cento della Camera dei rappresentanti). Gli esponenti della cultura liberal, intellettuali ed economisti, sono tra i più attivi nelle università americane, intervengono sulla stampa, pubblicano saggi, alcuni di notevole diffusione, sul modello de La coscienza di un liberal del già nominato Paul Krugman, divenuto un vero e proprio manifesto. «Credo in una società relativamente ugualitaria - scrive Krugman - supportata da istituzioni che limitano gli eccessi di ricchezza e povertà. Credo nella democrazia, nelle libertà civili e nello Stato di diritto. Tutto questo fa di me un liberal, e ne vado orgoglioso». Ma quanto pesano gli articoli e i libri degli intellettuali liberal nella società americana? Quanto influisce quest'area culturale sull'opinione pubblica? E, soprattutto, quale ruolo politico potrà giocare a ridosso della campagna elettorale del 2012 che già a gennaio entrerà nel vivo delle primarie? Una campagna elettorale che con molta probabilità vedrà contrapposte due Americhe: da un lato, l'America del Tea Party, desiderosa di una rivincita su Obama e che ha come slogan rigore e taglio delle spese; dall'altra, l'America che chiede più tasse per i ricchi, equità e sicurezza sociale. Se gli estremisti repubblicani possono far leva sul populismo e sull'antistatalismo, sull'altro fronte le idee liberal potrebbero intercettare la rabbia sociale di una middle class impoverita e della massa di disoccupati che calcano le strade dell'America. «La maggior parte degli americani - scrive l'opinionista progressista del Washington Post, Katrina Vanden Heuvel - vuole che Washington si concentri su come creare posti di lavoro e far funzionare l'economia, e non su come tagliare la spesa destinata al sempre maggior numero di bambini poveri mentre si tengono al riparo i paradisi fiscali per i milionari». Quanto all'accordo taglierà «all'incirca 1000 miliardi di dollari in dieci anni a programmi come scuole, acqua pulita, trasporti di massa, energie pulite e sanità pubblica, con zero contributi dai benestanti e dalle multinazionali tramite l'aumento delle tasse o la chiusura delle scappatoie fiscali». «Un cattivo accordo che prende di mira la sicurezza sociale e protegge i paradisi fiscali aziendali». E ancora: «questo accordo bipartisan alimenterà soltanto rabbia pubblica».Ora «i democratici e il presidente avranno più difficoltà a convincere i lavoratori americani di essere dalla loro parte». C'è, però, sullo sfondo degli interventi di questi giorni sull'accordo sul debito pubblico un dibattito che già da qualche anno a questa parte anima la produzione teorica dei liberal. All'indomani della crisi del 2008 una significativa rappresentanza di intellettuali americani ha iniziato a interrogarsi sugli effetti della globalizzazione finanziaria e sul ruolo strutturale che l'indebitamento - privato e pubblico - ha giocato nel sistema economico dominante. Il debito pubblico americano - di cui da tempo si conosceva l'entità - non è un incidente di percorso o l'effetto di una patologia passeggera. Il denaro è il «quartier generale» del capitalismo per usare una formula di Schumpeter del secolo scorso - e banche e finanza sono istituzioni senza le quali il sistema capitalistico non potrebbe funzionare. Detto in altre parole, il debito (di cittadini, banche e governi) è stato il motore della globalizzazione finanziaria. «Il denaro - prendiamo a prestito la spiegazione dell'economista Geoffrey Ingham, autore del saggio Capitalismo - è costituito da una relazione sociale di credito-debito... Il denaro stesso (al contrario delle merci di scambio) non può essere creato senza che si crei un debito». «Inteso nella sua struttura di rete, il sistema bancario è in grado di generare una produzione elastica di denaro con un processo di creazione del debito che si alimenta da sé; infatti, una banca può sempre concedere prestiti ulteriori, perché la crescita delle somme che offre determina una corrispondente crescita di quelle che le sono dovute». E' il film visto negli anni ruggenti della globalizzazione finanziaria. Gli stati hanno fatto sempre più ricorso a banche e investitori privati per finanziare il proprio debito pubblico. Allo stesso modo, a far temere per la tenuta dei conti italiani è la fuga di banche e operatori di mercato dai nostri titoli di stato. L'ampliarsi del famigerato spread (la differenza di rendimento dai titoli tedeschi) fa sì che per rifinanziare il nostro debito pubblico dobbiamo garantire a chi ci presta i soldi quasi quattro punti percentuali in più dei tedeschi. Vicenda analoga a quanto avvenuto in Grecia. Col risultato di assoggettare le politiche fiscali ed economiche degli stati alle banche e alle istituzioni private della finanza. Il tema - si accennava prima - è da tempo sotto la lente d'ingrandimento dell'intellettualità americana progressista. «La globalizzazione finanziaria scrive ne La globalizzazione intelligente Dani Rodrik, economista di origini turche e docente all'università americana di Harvard - ha consentito a banche, aziende e governi di gonfiare a dismisura i finanziamenti a breve termine da loro ottenuti e di aumentare l'indebitamento nell'ambito dell'intero sistema. Inoltre ha creato un contagio assai più esteso attraverso i confini nazionali poiché le difficoltà finanziarie di un paese adesso contaminavano rapidamente i bilanci bancari degli altri paesi». L'America progressista dovrà interrogarsi sulle alternative. Dani Rodrik accenna a una nuova governance, a «un nuovo istituto finanziario internazionale con obiettivi limitati» e a «un'imposta globale sulle transazioni finanziarie», che quand'anche esigua (per esempio un decimo dell'1 per cento) produrrebbe «decine di miliardi di dollari che servirebbero ad affrontare, con un costo economico ridotto, le sfide globali del tipo cambiamenti climatici». Paul Krugman, invece, giudica più urgente ridurre la disuguaglianza sociale ed economica e introdurre un sistema fiscale progressivo. Chissà che queste proposte non entrino nella campagna elettorale 2012. 04/08/2011