Il contratto, le parti..... e gli altri Riflessioni sul progetto di riforma del codice civile francese in materia di contratto e sulla funzione della causa nei codici civili nazionali e nell’ ordinamento europeo. 1. I colleghi che mi hanno preceduto hanno già sviscerato le innovazioni e le problematiche introdotte dal progetto di riforma in esame, sia in riferimento al codice civile francese che alle sue relazioni con le questioni suscitate dalla riforma del diritto contrattuale europeo. Alcuni hanno anche fornito le indicazioni che se ne possono trarre quanto allo sviluppo e precisazione di posizioni teoriche italiane. Limiterò pertanto le mie osservazioni a due aspetti di carattere generale della nozione di causa contrattuale che ho scelto per l’ unica ragione che mi permettono: (1) di raccogliere alcune delle osservazioni già formulate intorno ad alcuni aspetti problematici, su cui insiste la teoria della causa, in quanto sono meno presenti nell’analisi cartesiana compiuta, in piena tradizione nazionale, dai colleghi francesi e dal Prof. Amadio; nonchè (2) di esaminare il valore che la riforma francese assume con riferimento all’ordinamento italiano quanto allo sforzo di armonizzazione che si attua a livello europeo. Del resto, in un paese come il nostro, che ha perso i “lumi della ragione”, si debbono cercare altre fonti di illuminazione, e vorrei qui farlo all’interno di un’alternativa proposta dal Prof. Grundmann, un collega molto attivo nel lavoro sul codice europeo. Il Prof. Grundmann in uno dei suoi saggi1 sull’alternativa tra libertà e ordine - libertà di scelta e ordine all’interno di queste scelte - ha elaborato alcune distinzioni relative ai ragionamenti che fanno leva (anche) sulla causa per giustificare l’ impegno contrattuale. In tale contesto dalla parte dell’ordine, che si contrappone alla libertà contrattuale di scelta, egli considera tutto il diritto dei consumatori, la disciplina relativa ai contratti ad esecuzione differita, i contratti di durata, taluni aspetti di responsabilità dei contraenti verso i terzi. Tutte questoni nelle quale la stessa salvezza dell’ autonomia delle parti presuppone il rispetto di un “ordine” ad essa esterno. Vorrei in questa sede generalizzare tale alternativa. L’ alternativa di Grundmann va infatti al di là della materia contrattuale: tanto che si trova in contributi precedenti. Già Wieacker, ad esempio, aveva riassunto alcune caratteristiche dell’ intera società giuridica occidentale in alcuni assiomi che sono quelli dell’individualismo (e cioè la libertà di scelta), del legalismo (cioè della prevalenza della legge sui valori) e dell’intellettualismo (cioè del diritto inteso come scienza cognitiva). Se inseriamo il discorso della causa negoziale all’interno di questa alternativa, mi sembra ragionevole concludere che la causa faccia parte dell’ordine da dare alla libertà di scelta, più che della libertà di scelta stessa. In verità l’ affermazione - in tempi recenti assai utilizzata proprio nei ragionamenti che ne hanno ispirato l’ eliminazione nei “principles” e nel “framework”- per cui la causa del contratto rappresenta una pura e semplice testimonianza, rafforzamento o indice della 1 S. GRUNDMANN, The Concept of the Private Law Society: After 50 Years of European and European Business Law, in European Review of Private Law, 4, p. 553 ss. “volontà impegnativa” delle parti costituisce, come fu detto del sorriso di un eminente politico inglese, “la targa d’ argento sul coperchio di una bara”. Essa svolge una evidentissima funzione autoassolutoria degli autori dell’ omicidio, in quanto la rimessione della causa sullo stesso piano della volontà rappresenta l’ antecedente logico della dichiarazione, presentata subito dopo, che è perfettamente possibile ed opportuno farne a meno, concedendo eventualmente la detta funzione probatoria alla “forma”. E’ singolare, e può forse interessare gli amici francesi, la circostanza che in Italia tale concezione viene generalmente attribuita all’ opinione autorevole di un comparatista che si è espresso sulla nozione del contratto con specifico riferimento alla common law e che, quanto al diritto italiano, ha scritto delle pagine memorabili per criticare l’ idea che il contratto sia un “incontro di consensi”.2 E’ altresì singolare che nello steso progetto che qui si commenta, alla sostituzione della causa si provveda mediante il rinvio alla nozione di “interesse” della parte e alla “natura” del contratto3. Tutte circostanze che – più o meno nebulose che siano – fanno comunque preciso riferimento ad un profilo oggettivo. D’ altra parte, la Storia è Maestra. E La Francia è maestra della storia giuridica. E tuttavvia tale maestria ci propone un insegnamento che proviene dalla proprietà e che con riferimento al rapporto relativo tra proprietà e contratto, risulta di nuovo alquanto singolare. Non c’ è mai stata nessuna libertà più “libera” ed assoluta del dominio riconosciuto dal Code civil al proprietario sui propri beni e di nuovo esportata in tutto il mondo (continentale). Eppure la storia moderna della proprietà è la storia del relativo declino di tale libertà dal “centro dell’ ordinamento giuridico”. La Storia della proprietà è una storia dettata da circostanze “esterne” ad essa, che hanno indotto la legge a prescrivere e le menti a convenire sul fatto che la proprietà soggiace alle esigenze ambientali, urbanistiche, abitative, edilizie e produttive di “altri”. La storia del contratto, che l’ ha sostituita nella detta posizione centrale, è invece o ci viene proposta come una storia tutta “interna” alla libertà delle parti ed a ciò che è necessario per promuoverla o limitarle solo nei rispettivi confronti4. Ma la Storia ci insegna anche che, indipendentemente dall’ ordine esterno, il diritto di proprietà è dotato di una sua propria razionalità che mette d’ accordo il “dominio” del proprietario con l’ ordine del mondo. Le regole sulle distanze, immissioni, etc, non esprimono solo il “dominio” del proprietario, ma anche la razionalità necessaria ed oggettiva del medesimo con il dominio degli altri proprietari. Ma l’ ordine oggettivo della proprietà non concerne solo i proprietari. Vi sono altre regole, come quella del “numero chiuso”, che impongono un ordine alla proprietà e, nel caso specifico, riguardano vedi un poco proprio il suo potere dispositivo, ciè i limiti nei quali la situazione giuridica creata dal proprietario con un contratto può, non tanto imporsi ai terzi, ma addirittura esistere nel mondo di questi. Certamente Napoleone fu il primo a capire la rivoluzione 2 Le opere in questione sono rispettivamente GORLA, Il contratto, Milano, 1954; ID, La logica illogica del consensualismo o dell’ incontro dei consensi e del suo tramonto, in Riv. Dir. Civ., 1966, I, 255; 3 Artt. 85-87 e 135 del progetto. 4 Questà è appunto la posizione discussa da GRUNDMANN, op. cit. imposta dal moschetto. Ma altrettanto certamente non pensò che il moschetto servisse a “rafforzare la volontà del soldato” o il suo coraggio. Quello che capì Napoleone è che il moschetto uccide la linea e rende necessaria la colonna. Che cioè il moschetto cambia l’ ordine della battaglia, indipendentemente da quello che “vogliono” i contendenti. Ed allo stesso modo quando prescrisse l’ invalidità dei patti successori non fu certo per limitare la libertà di scelta dei testatori o proteggere l’ autonomia negoziale di eredi e legatari, ma perchè l’ ordine interno della proprietà richiedeva che essa potesse circolare, indipendentemente e anche contro la volontà di testatori, eredi e legatari. E’ mai possibile, ritorno dunque a chiedermi, che nella ricostruzione della nozione di autonomia contrattuale dobbiamo fermarci, od essere ricondotti indietro, alle costruzioni dei nostri predecessori ? E’ mai possibile che dobbiamo ripetere oggi, dell’ autonomia contrattuale quello che gli antichi sostenevano della proprietà: che cioè si tratti di un “vuoto al centro di norme” e che questo vuoto sia privo di ogni razionalità interna che non sia quella dipendente dalla “libera scelta” delle parti, e cioè dal loro potere di dominio sui rispettivi affari patrimoniali ? 2. Per questa ragione in questa sede non mi interessa trattare della causa con riferimento all’interesse delle parti, ma vorrei approfondire il discorso della causa come giustificazione oggettiva del contratto nei confronti del giudizio proveniente da qualche altra “parte”, diversa da quelle che lo concordano e sottoscrivono. La necessità “giuridica” di affrontare questo problema è presente nel diritto positive emanate ed emanando. Si trova ad es. nella sezione II del capitolo VII del progetto della Cancelleria che è dedicata a “Les effets du contrat à l’égard des tiers”. Il lucido esprit de finesse transalpino mette infatti di seguito e contrappone le due affermazioni lapidarie per cui: art. 137, “Le contrat n’a d’effet qu’entre les parties”; ma subito dopo, art. 138, “Le contrat est opposable aux tiers qui doivent respecter la situation juridique ainsi créée..” La logica è maestra del diritto. E la Francia è maestra della logica. Non si potranno mai ringraziare abbastanza Cartesio e la Francia per il dono che non alla Francia, ma al mondo, hanno fatto. Ma la gratitudine per questo genere di doni la si manifesta esercitandoli. E l’ esercizo del dono mi induce , anche se con qualche esitazione, a sottomettere ai maestri francesi una questione. Esso impone infatti a mio avviso di ravvisare che tra i due concetti sopra indicati esiste una certa contraddizione, resa in qualche modo evidente – una volta tanto – dalla chiarezza e maestria cristallina con cui essi vengono espressi e collegati. Mi pare infatti che mentre la circostanza che “il contratto produce effetti tra le parti” sia in piena sintonia con quella, consequenziale, su cui riposa il fondamento dell’ atto stesso e cioè la “libertà di scelta” che l’ ordinamento garantisce alle parti e deve rispettare come sacra, tale sintonia e consequenzialità viene quasi completamente a mancare tra questa premessa e l’ altra affermazione, che vi si collega, per cui “la situation juridique ainsi créée....” deve essere rispettata come sacra anche dai terzi è dalla società, che parti non sono, che a quella scelta non hanno partecipato, e che magari vedono pregiudicata la “propria” libertà da questo “manufatto” esteriore improvvisamente comparso nella realtà materiale (giuridica) per volontà di persone che non conoscono. A tutti piacerebbe spostare macigni, ma credo che nessuno sarebbe contento di vedersene comparire improvvisamente uno di fronte mentre viaggia sull’ autostrada. L’ art. 138, tradotto per esempio in inglese (ma anche nelle altre lingue), significa che i creditori sono gli schiavi della libertà contrattuale dei loro debitori. Significa cioè che la “situazione così creatà” (il macigno) da questi ultimi con un contratto, si impone ai loro creditori per effetto del puro consenso (senza causa) determinando, nei loro confronti i relativi spostamenti nella garanzia patrimoniale. Si può presumere dunque che i creditori in questione non siano molto contenti di “rispettare” questa “situazione”. Tuttavvia a ciò sono tenuti, evidentemente, “per forza”. Mentre dunque tra la libertà di scelta e la relatività del contratto esiste una piena corrispondenza logica, non vi è un collegamento logico preciso, ma solo l’ autorità normativa, tra l’ affermazione della libertà delle parti e l’ opponibilità o rilevanza del contratto verso i terzi. Tale ulteriore effetto è “esterno” alla volontà contrattuale e non esiste nessun medico, filosofo o generale che abbia prescritto alla società che questi effetti, che le parti liberamente determinano e devono rispettare tra loro, devono essere anche da essi terzi rispettati, senza una ragione. La domanda che ne deriva è dunque la seguente: è possibile che l’ ordine del mondo per tutti (cioè l’ ordine oggettivo del mondo) sia prodotto in maniera consequenziale dall’ ordine imposto dalle parti a se stesse (e quindi al mondo, che lo deve rispettare) ? Oppure è vero il contrario, vale a dire che che la “situazione così creata....” si impone al mondo solo perchè e quando c’ è una ragione per cui il mondo debba rispettarla ? Se esiste questa ragione, essa è la causa del contratto. Ovvero, per meglio dire, è precisamente da questo lato, non da quello della volontà delle parti, che bisogna cercarla e determinarne la consistenza o decretarne la irrilevanza. Questa dunque è la questione fondamentale che il dibattito sulla causa deve affrontare ed è la domanda che vi propongo. Esiste ancora un’ esigenza di “ordine” che sorregge l’ esercizio della libertà di scelta ? Tutti gli ordinamenti hanno risposto a tale esigenza attraverso l’ elaborazione della causa (o della consideration) quale condizione di compatibilità col quadro degli interessi protetti dall’ ordinamento per l’ efficacia del detto esercizio5. Dobbiamo dunque presumere che il tramonto della causa sia anche il tramonto della detta esigenza ? Si tratta ovviamente di una domanda che richiede gli sforzi congiunti di tutti per ricevere una soluzione. Tuttavvia poichè ho promesso di dire qualcosa anche sul tema del rapporto tra “riforma” della causa e dei codici nazionali e unificazione del diritto europeo inizierò, a questo esclusivo scopo, a rispondermi da solo con alcune considerazioni che, in via subordinata e sottomessa, mi permetto di sottoporvi. 5 Dato che siamo in Italia dove, di questi tempi, non appena si assume una posizione non ortodossa si viene accusati – qualunque cosa si dica – di essere “comunisti” (un’ esperienza di cui attualmente fa le spese il nostro Presidente della Camera, nonostante che in gioventù si trovasse fra i difensori ferventi dela repubblica di Salò), sento il bisogno di precisare subito che l’ ordine di cui sopra non ha nulla a che vedere con qualsiasi forma di intervento statuale, pubblico o comunque esteriore che si sovrapponga al regolamento pattizio, ma concerne il suo ordine “interno” come risulta dal quadro disciplinare del codice civile. Il punto è trattato subito dopo. Qualcuno invece dovrebbe spiegare subito al popolo italiano che cosa c’ è di male nell’ essere, eventualmente, “comunista”. In fondo dovrebbe essere quanto meno meglio che essere “ebreo”. 3. Tornando per un attimo a Wieacker si può cominciare con l’ osservare che l’ istanza di “ordine”, almeno nel senso di “ordinamento”, non esprime soltanto soggezione dell’attività all’ “ordine della legge” intesa come enumerazione di norme, ma soggezione della legge stessa al “principio di legalità (rule of law): cioè sottomissione a “valori” che in essa si esprimono e soprattutto, per quel che qui interessa, ad un “ordine mentale” che essa possiede in quanto allo stesso tempo frutto ed oggetto del giudizio cognitivo della scienza giuridica. Affrontando il problema da questa angolazione la questione di cui sopra può essere tradotta nella seguente: se la causa esprime un’ ordine dell’ operazione contrattuale , a chi appartiene quest’ ordine, ovvero per quale interesse – e di chi - esso è imposto ? Questa ri-formulazione ha il merito di segnalare alla nostra attenzione che il problema di cui ci occupiamo non appartiene solo alla scienza giuridica, ma a tutte le scienze sociali. Si tratta in verità dello stesso problema che in economia viene dibattuto da circa duecento anni fra le alternativa poste da marginalismo ed economia del benessere, tra “preferenze soggettive” e “domanda effettiva”, tra le teorie monetariste e quelle della produzione. Con tali approcci il diritto condivide non solo il problema, ma anche l’ attitudine a dargli una risposta tautologica. In quanto se il contratto deve avere un ordine, questo non può essere che l’ ordine che gli danno le parti; ovvero, in alternativa, esso è l’ ordine formulato autoritariamente dall’ “ordinamento” giuridico che gli può addirittura imporre – secondo le note costruzioni italiane e tedesche – una funzione “sociale. Il fatto che generalmente la pratica adotta una via di mezzo non è di aiuto alla teoria, che viene solamente confusa dalla conseguente incertezza dei parametri di riferimento. Ma l’ alternativa continua a produrre profondi effetti: come è visibile se si osserva la circostanza che essa presiede in qualche maniera alla divisione fra i codici in “commerciali”, dove prevale il primo; “civili”, dove l’ ordine “esterno” alle parti è presente; o di “consumo” dove non solo è presente, ma diventa dominante. Non è dunque un caso se precisamente questa alternativa ritroviamo nel rapporto tra principles e common frame da un parte e unificazione del diritto europeo (nazionale) dei contratti, dall’ altra. E insieme all’ alternativa si riproduce la relativa tautologia. Poichè non c’ è dubbio alcuno che il raccordo stretto fra le due prime iniziative e le esigenze del commercio internazionale e transfrontaliero, rappresenta per l’ appunto la concidenza dell’ ordine del contratto con un luogo dove, se pure c’ è ordine, non c’ è “ordinamento” e dove dunque l’ ordine del mercato coincide largamente con le scelte delle parti, senza la mediazione o l’ attività ordinante dei diritti statuali “interni”6. Proviamo ad esaminare più da vicino la posizione anticausalista in termini tecnico-positivi. Essa fa leva su due argomenti. Uno negativo, l’ altro positivo. Tralasciamo per ora l’ argomento negativo. Esso consiste nell’ affermazione che la causa è un concetto nello stesso tempo arcaico, sopravvissuto ad una società pre-industriale e addirittura premercantile, ed esoterico: in quanto nessuno è stato in grado di spiegare fino in fondo e con chiarezza in cosa esso consista. L’ argomento positivo invece consiste nell’ assegnare alla causa il valore di indice della volontà impegnativa, ai fini soprattutto di regolare in qualche modo la possibilità di impegni unilaterali a 6 Su questo punto rinvio incondizionatamente alle osservazioni già formulate dal Prof. Amodio. titolo gratuito. Tale funzione per un verso è superfetante, poichè l’ accordo è gia sufficiente indizio della volontà di impegnarsi, per altro verso inutile nel commercio internazionale e transfrontaliero, in quanto in questo contesto tutti i contratti sarebbero bilaterali e dunque di per sè provvisti di tale “rafforzamento”7. Questa argomentazione non contiene una risposta espressa alla questione che abbiamo sopra sollevato intorno alla ragione per cui tutto ciò si dovrebbe imporre alla sopportazione dei terzi. Esso però ne contiene una implicita: in quanto dalla stessa argomentazione e dal suo punto di riferimento preciso (la contrattazione internazionale) risulta ovvio che “la situazione...” che dev’ essere rispettata dai terzi non è costituita dalle scelte delle parti, ma dall’ “ordine del mercato” (internazionale) che da esse risulta e che esso rappresenta. Nel rappresentare tale risposta la argomentazione anticausalista cade però vittima precisamente della conseguenza che vuole evitare. Paradossalmente infatti, proprio nell’ eliminare la causa, è costretta a fornire al contratto una vera e propria “funzione sociale”. Infatti la ragione unica ed esclusiva che rimane a presidiare la rilevanza del contratto per i terzi risiede nel fatto che attraverso la libertà di scelta delle parti si realizza un incremento di valore ed utilità “generale”. Si realizza cioè la “ricchezza della nazione”. La mano invisibile di Smith, il fatto che la liberazione dei privati egoismi sul mercato porta al benessere generale costituisce dunque la ragione “sociale” implicita (perchè ovvia), che giustifica il rispetto da parte della società dei risultati ed effetti prodotti dagli egoismi medesimi. 4. Sennonchè mentre sul risultato in questione si potrebbe convenire, l’ intera argomentazione e soprattutto le sue conclusioni in tema di causa fanno sorgere il grave dubbio che l’ “ordine del mercato” così invocato, venga in verità completamente confuso ed esaurito con “l’ ordine dei mercanti”. Due nozioni completamente differenti tra loro, tenute sempre ben distinte e mai confuse nei codici civili nazionali e la cui riproposizione ed identififcazione in termini unitari farebbe retrocedere il codice “europeo” di almeno duecento anni, ai tempi del mercantilismo. rispetto all’ attuale assetto economico dei mercati nazionali (nonchè alla sua traduzione, in termini giuridici, nelle codificazioni). Anche questo dubbio può essere rappresentato in termini di diritto positivo. Si è infatti appena notato che la ricostruzione della causa contrattuale (e della sua inutilità) mette al suo centro il presidio che questa contiene circa la “onerosità”: vale a dire la reciprocità delle prestazioni contrattuali. Ma se si esamina storicamente il processo di costruzione ed evoluzione di tali concetti è agevole riscontrare che esso concerne preoccupazioni diverse ed assai più fondamentali che quello della ricerca e dimostrazione della “volontà impegnativa” delle sole parti. E’ lo stesso Gorla a spiegare che il requisito della cause suffisante o della consideration, quale ragione giustificativa 7 Ciò non eclude che il medesimo ragionamento venga sdegnosamente respinto – generalmente da parte dello stesso entourage che lo propone – quando si fa notare che a nche i contratti di consumo e, soprattutto, quelli di utenza pubblica, sono genralmente bilaterali e quindi non frappongono alcun ostacolo “nazionale” alla unificazione delle regole di protezione dei consumatori. Cfr. ad es. Whittaker, (causa) dell’ attribuzione patrimoniale, non concerne la giustificazione relativa alle parti tra loro, ma riguarda la giustificazione assoluta dell’ operazione davanti all’ ordinamento. Essa infatti risolve due problemi assai più fondamentali e strutturali che non la testimonianza dell’ impegnatività della scelta. Essi sono (a) la certezza oggettiva che il contratto de quo presenti i presupposti oggettivamente necessari perche vi sia un’ intermediazione sul valore, che possa produrre un incremento del medesimo (perchè solo questo aumenta la ricchezza della nazione); b) che tale operazione di intermediazione (appunto perchè tale) sia neutrale rispetto agli effetti verso i terzi (creditori, eredi e aventi causa). Un ‘operazione gratuita è un gioco economico a somma zero: una ricchezza si sposta da un lato ad un altro, senza variazioni della sua consistenza e con possibile pregiudizio dei terzi che vedono rispettivamente diminuere ed aumentare la garanzia patrimoniale dei protagonisti. Un’operazione onerosa comporta la possibilità di un arricchimento di entrambi i patrimoni e assoggetta terzi e parti solo al rischio generale del mercato (che è inevitabile), ma conserva in equilibrio le rispettive posizioni patrimoniali di fronte a (quindi) creditori, aventi causa, etc. A queste condizioni il “consenso” è libero di produrre i suoi effetti anche indipendetemente da formalismi e pubblicità, perchè a queste condizioni e solo ad esse si verifica la conseguenza virtuosa che trasforma la “libera scelta” nell’ arma invisibile del mercato e nella “ricchezza delle nazioni” e ne giustifica l’ opponibilità ai terzi. Ne segue dunque che l’ onerosità, la cause suffisante, la consideration, non costituiscono affatto il frutto o l’ indice della volontà impegnativa, ma ne costituiscono la condizione di esercizio. E tale condizione di esercizio non nasce da norme imperative protettrici di una qualche funzione sociale del contratto e legittimante interventi “pubblici” sull’ autonomia private, nel nome di altrattanto pubblici interessi. Essa è una condizione “interna” al codice civile ed all’ atto di autonomia: essa rappresenta, nell’ ordine dato dalla legge al contratto, l’ ordine oggettivo del mercato. La condizione oggettiva, cioè, per la quale il mercato stesso può esistere nel suo significato moderno e svolgere la sua funzione “sociale” di giustificare la libertà di scelta. Trasformando l’ individuale scelta in beneficio generale o, quanto meno, rendendola compatibile con l’ interesse di tutti i partecipanti al mercato medesimo. La causa non appartiene alle parti: essa riguarda le regole del loro gioco: così come l’ ordine del mercato non è delle parti. Esso, come la concorrenza, si impone ad esse. Non sta a loro decidere se approfittare o rinunciare alla suddetta “testimonianza” del rispettivo impegno. 4. Se le considerazione esposte hanno un qualche fondamento intorno alla funzione effettiva della causa in quanto criterio di “ordine” interno al mercato ma esterno all’ autonomia negoziale, esse suggeriscono due esitanti riflessioni intorno alla sua eliminazione da un codice civile. La prima, di natura strutturale, concerne i succedanei che vengono proposti per la sua sostituzione: la buona fede, le norme imperative, la “natura” delle cose. La seconda, di ordine socioeconomico, concerne l’ oggetto della sostituzione medesima. Quanto al primo punto si possono avanzare due considerazioni non facilmente discutibili. In primo luogo tenendo presenti le osservazioni di cui sopra, tutti i detti succedanei possono generalmente venir riportati ad una funzione causale. In secondo luogo mentre essi operano comunque attraverso un giudizio “esterno” al contratto (il legislatore stabilisce quali norme sono imperative, i tribunali in che consiste la buona fede, etc.) la causa possiede il grande vantaggio di operare all’ interno di esso ed automaticamente8. Per il fatto stesso di inserire direttamente nel contratto il requisito di compatibilità con le regole del mercato la causa supplisce a diversi milioni di norme imperative che si renderebbero necessarie per realizzare dall’ esterno lo stesso obiettivo di compatibilità9. Non so bene se la causa sia o meno necessaria al commercio internazionale, ma una cosa è certa. La causa non esisteva e non esiste, come strumento di controllo automatico di corrispondenza dell’ “ordine delle parti” all’ “ordine del mercato” , nei sistemi basati sulla “pianificazione sovietica”10. Questa verità può essere mostrata proprio ricorrendo alla common law. In una lucidissima pagina del prof. Lawson che ho avuto l’ occasione di leggere in giovcntù, al termine di una sintetica ma completa trattazione del rapporto tra assolutezza del diritto (reale) e relatività del contratto, si trova enunciata come verità la seguente conclusione definitiva. Che in qualunque sistema giuridico del mondo la opponibilità ai terzi della “situation ainsì cree...” si può verificare in tre modi diversi, che sono i seguenti. Primo: gli effetti voluti dalle parti si impongono al mondo esterno per il fatto steso di esistere tra di esse (è questo il caso dei contratti consensuali ad effetti obbligatori; ma non necessariamente di quelli ad effetti differiti). Secondo: gli effetti voluti dalle parti vanno rispettati dal mondo solamente dopo che esso ne è stato messo a conoscenza (è questo il caso dei contratti che dispongono su diritti assoluti, in particolare su diritti reali). Terzo: gli effetti voluti tra le parti non esistono neanche tra esse se non dal momento in cui esistono per il mondo11. La relazione fra questa verità generale, che riguarda la pubblicità e l’ opponibilità dei contratti, e la natura causale della relativa operazione, compare immediatamente se si osserva che quelli appartenenti all’ ultima categoria sono precisamente i contratti dotati di una funzione di garanzia. Quando un contratto trova la sua causa (o ragione, o natura, o interesse) nella creazione di una 8 Questo è particolarmente vero del giudizio di buona fede che, nel rapporto della Corte di Cassazione francese sul progetto Català viene proposto come alternativa al vuoto lasciato dalla causa , in quanto: “...cet effet est rempli par une acception large de la bonne foi, avec ses composantes de loyauté, de solidarité, et de proportionnalité, qui permettent de contrôler l’équilibre contractuel et son maintien ». Prescindendo dall’ effettiva possibilità ed ammissibilità di un impiego così esteso del giudizio di buona fede, questo è per definizione limitato all’ equilibrio dell’ operazione tra le parti in rapporto alla defizione di tale equilibrio da esse stesse definito e non alla compatibilità del medesimo con interessi terzi. Tuttavvia, sia pure entro tali limiti, le costruzioni moderne della buona fede tendono a riportarne l’ esito alle stesse funzione di u giudizio causale. Così è per esempio della teoria più accreditata in Italia, per la quale il giudizio di nullità parziale o la conversione del contratto riposano sostanzialmente sul contrasto tra la domanda della parte e la buona fede (oggettiva), ogni volta che la domanda (di eliminazione o di conservazione del contratto) sia diretta a preservare la situazione di palese e decisivo squilibrio determinata dalla « scomparsa » di una clausola del medesimo. Il problema che si propone è se la buona fede protegge in questo caso le « parti » dal contratto, o il « contratto » dallo squilibrio. Per avere la risposta è sufficiente chiedersi quale sarebbe la sorte di una clausola preventivamente apposta per mantenere in piedi il contratto anche ove la prestazione di una delle parti diventasse successivamente « derisoire » o « illusoire ». Sarebbe nullo per difetto di causa, salvo che la clausola non venga espunta per nullità parziale. E senza che nessun giudizio di buona o mala fede ne possa consentire la conservazione. 9 Sulle multiformi applicazioni della causa nella giurisprudenza francese e sul suo ruolo di intervento di ultima istanza v. per tutti Ghestin, Cause de l'engagement et validité du contrat, Paris- L.G.D.J., 2006. Pressochè identica la situazione in Italia. Interressanti osservazioni sull’ applicazione della causa si trovano inoltre sul sito web www.village-justice.com in un saggio a firma A.P. dal titolo Le projet de réforme du droit des contrats, ou l’uniformisation sans sommation. 10 Sul punto rinvio per tutti ad HAYEK, Law, legislation and liberty : a new statement of the liberal principles of justice and political economy,Vol. I, London-Routledge, 1973, partic. pp. p. 45 ss. 11 Lawson, Introduction to the Law of Property, Oxford. Utilizzo nel testo l’ espressione inglese circa l’ opponibilità del contratto “against all the world”. situazione che sia destinata specificamente ad operare sulla posizione di terzi creditori ed allora la “situazione da esse creata” si impone ad esse medesime solo alle condizioni previste dall’ ordinamento perchè la medesima non possa nuocere all’ interesse dei creditori. Ma la funzione di garanzia (come quella di finanziamento) non appartiene ad un tipo particolare di contratto: essa attraversa orizzontalmente l’ intera area delle fattispecie contrattuali, tipiche ed atipiche. Essa non può che essere rilevata attraverso un giudizio causale. Ma il giudizio causale è precisamente quello che la “scelta delle parti” delle piccole, grandi e medie operazioni finanziarie sui mercati transnazionali vuole evitare. E tra le varie costruzioni messe in opera per mettere in discussione e decostruire la tradizonale “realità” dei contratti di finanziamento e garanzia nei codici civili e riportare l’ intera area della concessione del credito al modello consensualistico e costruire allegramente nuova ricchezza circolabile sulla base di “aspettative”, non mi pare di aver mai visto considerato, decostruito e smontato il seguente argomento. Che la ragione principale che si oppone ai vari leasing, futures, cessioni pro futuro e vendite con patto di riscatto a scopo di garanzia non sta nè nella tutela del debitore, nè in quella della parità di trattamento dei creditori. Ma sta precisamente nel fatto specifico che qualunque sistema di garanzia basato su un “trasferimento” efficace tra le parti, è appunto tale. Cioè opera tra di esse indipendemente dal giudizio del mondo e ad esso “si impone” in quanto efficace tra esse, fuori ed al di là della giustificazione causale (di mercato) che tale imposizione rende legittima. Le vendite e i patti di riscatto si trascrivono, non si iscrivono (e la trascrizione ha natura dichiarativa, non “costitutiva”); i pegni “consensuali” e le cessioni di credito non richiedono “spossessamenti” e consegne. La causa di garanzia fa in modo che il peso sorga sul patrimonio del debiore nello stesso istante in cui la sua presenza è visibile ai terzi. Il distacco dal meccanismo illustrato da Lawson comporta che creditori e debitori ritornano ad essere servi del consenso “nudo” espresso dalle parti. Nel modello classico in presenza di una causa di garanzia la situazione si “crea” nei confronti dei terzi e, solo a questa condizione, vale per le parti. In quello “moderno” la causa non serve, dunque ciò che le parti decidono, vale per i creditori. L’ alternativa di fondo tra le due scelte è chiarissima. I codici civili classici diffidano degli specchi. Essi sono in linea generale restii a riconoscere che il corrispettivo o garanzia, causa di un’ attribuzione possa, quanto meno nei confronti dei terzi, consistere in una “aspettativa”, dotata di un valore indipendente da quell’ attribuzione e magari liberamente circolabile, che può moltiplicarsi senza fine mentre la sua base rimane sempre la stessa. In questo i codici riproducono in termini antecedenti, prevedibile e calcolabili l’ ordine del mercato. Il mercato è fondato invece sulle aspettative: ma su aspettative dotate di un valore economico corrispondente all’ attribuzione che le ha create (qualità della quale appunto i codici forniscono la garanzia)12. Ma i moderni mercati internazionali, specialmente quelli finanziari, non si preoccupano molto del “valore” (corrispettivo) delle aspettative. Come abbiamo finalmente sperimentato essi sono assai più propensi a riconoscere a qualunque aspettativa un valore in quanto “situation ainsì cree...” dai protagonisti dei detti mercati. 12 Sul punto si veda quanto considerato in conclusione dell’ ultimo paragrafo. 5. Questo ci riporta alla seconda aggiunta che si rende necessaria e che riguarda la domanda da cui siamo partiti: di quali “mercati” stiamo parlando ? Di quelli retti dalle “regole oggettive del mercato” o di quelli in cui le regole in questione coincidono con gli accordi che le parti stabiliscono tra di loro ? Questo problema non è ignoto alle torie della causa13 ed anzi ne rappresenta il criterio logicamente e storicamente determinante ai fini della descrizione e selezione. Possiamo perciò anche qui prendere l’ avvio da considerazioni di carattere normativo. Ad esempio il progetto in esame contiene una disposizione fondamentale per la quale “l’ impegno di ciascuna parte dev’ essere giustificato da un interesse”14 il quale, a pena di nullità non può essere illusorio o futile15. Il codice civile italiano contiene una disposizione molto simile in materia di obbligazioni, la dove dispone che, ai fini della esistenza di questa, la prestazione che ne è oggetto “dev’ essere suscettibile di valutazione economica” anche se può corrispondere ad un “interesse non patrimoniale” del creditore. Il problema che ciò fa sorgere è noto. L’ “interesse” in questione risulta dal puro fatto che una delle parti è disponibile a fornire un corrispettivo, o la sua esistenza è preliminare rispetto a questa circostanza ? La prestazione di “cantare come una gallina” è suscettibile di valutazione economica (solo) perchè il suo creditore, per sue ragioni particolarissime, glielo attribuisce ? I codici civili e anche la common law forniscono alcuni indizi per rispondere a questa domanda. Uno, per esempio, è la assoluta diffidenza e circospezione con cui essi trattano le clausole penali: sempre nulle o sempre riducibili in via “equitativa” da parte del giudice. Ma anche tale regime può trovare ragione nella necessaria protezione del debitore (anche se poi si deve spiegare perchè non dovrebbe costui essere tenuto a ciò che ha liberamente convenuto), ovvero nel rischio che si attribuisca valore a “cose” che non lo hanno e si effettui cioè, come detto sopra, un trasferimento patrimoniale senza contropartita e perciò “non neutrale” rispetto ai terzi. 13 Questo problema rappresenta in qualche modo anche il limite dell’ attuale mainstream giurisprudenziale che intende per causa la c.d. “causa in cocnreto” quale risulta dal confronto fra il tipo (o i tipi) contrattuale impiegato ed il contenuto e lo scopo effettivi che le parti intendono raggiungere attraverso l’ impiego del medesimo. Il problema è che una volta ravvisato quale sia tale “causa in concreto” non resterebbe che verificarne la liceità e dar corso agli effetti; mentre in realtà il ragionamento viene impiegato in funzione di controllo della ripondenza del regolamento stabilito tra le parti rispetto alla detta causa “in concreto”. Ma siccome tale causa in concreto è per l’ appunto “diversa” da quanto stabilito nel contratto, la detta commisurazione richiede comunque un riferimento esterno ad un qualche modello di “causa” astratta (il deposito, il godimento, la custodia, etc.) per verificare se e quanto essa possa giustificare la vincolatività dell’ impegno “in concreto”. 14 Dato che il progetto della cancelleria non è facilmente accessibile ne riproduco qui il testo sul punto in esame. Art. 85, Chaque partie doit avoir un intérêt au contrat qui justifie son engagement. Art. 86, Un contrat à titre onéreux est nul faute d'intérêt lorsque dès l'origine la contrepartie convenue au profit de celui qui s'engage est illusoire ou dérisoire. Art. 87 , La clause vidant le contrat de son intérêt est réputée non écrite. 15 Può essere interessante, per gli stranieri, venire a conoscenza che il problema illustrato nel progeto viene riprodotto nei manuali italiani per illustrare la causa contrattuale attraverso l’ esempio di una vendita in cui le parti abbiano escluso l’ effetto di “trasferire la proprietà” o quello di “pagare il prezzo”. E’ evidente che questo contratto, in quanto vendita, sarebbe nullo per difetto di causa. Sarebbe interessante vedere come la stessa ipotesi viene regolata in seguito a difetto di “interesse” (l’ art. 37 lascia qualche dubbio in proposito). In ogni caso molti professori italiani hanno osservato che per la verità la affermazione della detta conseguenza non giustifica tutto lo spreco di risorse derivante da una teoria della “causa”. Sarebbe altrettanto interessante verificare se tale conclusione non si applichi anche quando la causa diventa “interesse”. Vorrei qui solo far notare, senza addentrarmi in questo tema, che una risposta assai semplice è fornita prima che dai codici dalla storia. Sono per lo più storici del diritto16 a spiegarci che l’ evoluzione del contratto, come l’evoluzione dei mercati, ha seguito due distinte fasi. Nella fase originaria, quella della liberazione degli “spiriti animali” del capitalismo, è stato in gran parte vero che l’ ordine del mercato fu il frutto delle scelte dei contraenti e che le regole del mercato furono quelle che si crearono i mercanti tra di loro (non senza peraltro qualche sostanzioso aiuto esterno in materia di circolazione, responsabilità limitata, responsabilità estracontrattuale, etc.). In questo periodo si trovano sentenze delle corti regie italiane nei quali si dibatte su contratti con cui “privati” vari si impegnavano a svolgere il “mestiere dell’ armi”, in vece del loro committente che ne era debitore verso il suo “signore”. Non c’ erano codici, Stati e norme imperative e non c’era neanche una netta divisione fra “commercio” e operazioni economiche tra privati. Ciascuno fu arbitro di assegnare il “suo” valore al “suo” interesse ed in questo contesto fu non solo possibile ma anche ovvio che il contratto arbitrasse questo equilibrio delle private scelte. Ma da tutto ciò nacquero regole e codici. Ben presto fu chiaro che l’ economia di scambio non si regge solo sugli spiriti animali, ma costituisce un equilibrio delicato e dinamico che richiede precisi, certi e stabili presupposti17. I codici civili riconobbero, posero e regolarono quei presupposti: i quali altro non sono che le “ragioni di scambio” tra i fattori che rendono possibile ed utile l’ economia di mercato fondata sui privati interessi. Regolarono i rapporti fra proprietari e contraenti (numero chiuso), fra proprietà e circolazione (possesso dei beni mobili), fra contratto, credito, proprieta e successione (trascrizione tipicità, causa ) e fra tutto questo e l’ impresa (concorrenza, diritti immateriali, etc). Il mercato moderno non è (più) creato dalla libertà delle parti, ma dalla permanenza e tutela delle condizioni che la rendono possibile. Una delle prime sentenze “moderne” sulla conclusione del contratto – una questione che non potrebbe apparire più lontana da istanze che non appartengono ai contraenti – è francese. Ma chi la legga noterà con stupore, come accadde al sottosritto, che le parti di questa causa NON furono le parti del contratto in questione. Furono, invece, i loro rispettivi fallimenti. Fu in nome di essi che le decisioni delle corti stabilirono come “le parti” devono concludere il contratto tra loro. Per risolvere il nostro problema basterebbe aggiungere al codice civile italiano ed all’ art. 85 del progetto una semplicissima congiunzione ed una sola parola. Che, cioè, la prestazione sia “suscettibile di valutazione economica” o l’ interesse non sia “illusoire o derisoire” sul mercato. In realtà è una parola che già esiste nei codici, ma noi non la vediamo perchè è da essi presupposta e, come dice Rudden: 16 Per la verità ricavo i tratti generali della ricostruzione che segue da uno storico “acquisito” alla detta materia, in provenienza dal diritto attuale: ATHYA, The Rise and Fall of Freedom to Contract, Oxford, 1990. Più di recente per consimili – ma assai più sintetiche - osservazioni sul processo di “costruzione” del diritto dei commerci mella common law cfr. J. Cartwright, The English Law of Contract: Time for Review ?, in European Review of Private Law, 2009, p. 157 ss 17 Hayek, op. loc.cit. “Quando la legge funziona essa acceca i suoi servi. Giudici pratici e persino accademici diventano talmente usi ai suoi rituali che non si accorgono nemmeno più di quanto essi possano essere strani.”18 6. Queste ultime osservazioni contengono in sè la conclusione cui voglio arrivare quanto all’ unificazione “europea” dei codici e che mi accorgo essere ansiosamente attesa dall’ uditorio: anche se purtroppo, mi rendo conto, non tanto per l’ efficacia dirimente dell’ argomentazione, quanto per il suo effetto “liberatorio” dalla presenza dell’ argomentatore. Nei codici civili si riflette senza dubbio la libertà di scelta, ma si riflettono senza alcun dubbio anche le “ragioni” di compatibilità “interne” tra i protagonisti del mercato; proprietà, circolazione, credito, impresa, contratto, etc. I codici civili cercano di riprodurre per quanto di ragione l’ ordine del mercato nell’ ordine dei rapporti civili. Non c’ è dubbio alcuno che il Trattato di Roma e i successivi sviluppi legislativi dell’ Unione si propongano e svolgano una funzione ordinante dello stesso genere. Dell’ ordine dei mercati esse riconoscono le “libertà” e, insieme ad essi, le condizioni che ne sono il presupposto: tra tutte la concorrenza che trasforma l’ esercizio singolare di quelle libertà in utilità collettiva dell’ intera società. Il trattato di Roma ha introdotto nell’ ordinamento italiano una nuova nullità “strutturale”, cioè un nuovo criterio di compatibilità tra le ragioni del mercato, quelle dell’ impresa e quelle del contratto. Nell’ ordine oggettivo del mercato i contratti contrastanti alla concorrenza non possono esistere. La loro contrarietà a “norme imperative”, è in realtà il frutto di una necessità interna a quell’ ordine medesimo. Non c’ è bisogno di interventi “esteriori” per negare effetti ad una convenzione che, nel momento in cui li producesse, ucciderebbe il presupposto stesso su cui si fonda la libertà di concluderla (nemo venire potest.....). D’ altra parte non c’ è dubbio alcuno che la tendenza anticausalista abbia preso le mosse e sia stata patrocinata all’ interno di esperienze giuridiche legate al grande commercio internazionale ed in risposta ai problemi della globalizzazione. Sotto questo aspetto essa è espressione di una decisa scelta di campo fra le nozioni di autonomia e ordine, a favore della prima. Senza arrivare a sostenere che “l’ opzione anticausalista del modello europeo non risenta, presupponga o elida una nozione di “causa” contrattuale, ormai completamente estinta nelle esperienze nazionali, per lo meno a livello giurisprudenziale....”19, non c’è di nuovo dubbio che a questa evoluzione abbia contribuito per un verso la “socializzazione” della nozione di causa ed il suo conseguente veicolamento di istanze esterne alle logiche di mercato; per altro verso la circostanza decisiva che nei rapporti internazionali non esiste un istanza ordinante dotata di potere autoritativo, quale lo Stato nazionale. Cio che ha identificato il controllo causale, vissuto come “funzione sociale”, con un puro vincolo privo di una capacità e di una prospettiva ordinante. 18 B. RUDDEN, Things as things and things as worth, in Oxford Journal of Legal Studies, 1995 C. SCOGNAMIGLIO, Problemi della causa e del tipo, in TRATTATO DEL CONTRATTO, diretto da Roppo, Vol. II, Milano, 2007, p. 102. 19 Ancora non sembra discutibile la conclusione, proposta appena prima dal Prof. Amadio, per la quale l’ eliminazione della causa tende a portare il fondamento giustificativo (dell’ efficacia) dell’atto di autonomia privata all’interno della scelta delle parti stesse20. La ricomprensione della causa nel “contenuto” consegna la giustificazione del vincolo alla valutazione delle parti consentendo una lettura della funzione del contratto che costituisce più criterio interno di compatibilità della medesima con le stesse logiche di mercato. Tale compatibilità esiste in funzione dell’ interesse di queste e l’ “ordine” può arrivare solo dall’ esterno, che sia dato dal controllo di liceità o dal meccanismo della buona fede etc. (art 18). Queste considerazioni – sia pure avanzate in termini ipotetici – fanno dell’ esperienza sulla causa una chiave di lettura estremamente indicative sullo stato attuale, il senso e le prospettive del rapporto fra codificazione europea e codificazione nazionale. Non c’ è dubbio, infatti, che nel common frame of reference entrambe le prospettive (l’ autonomia e l’ ordine) sono costrette a convivere; e questo fatto non è probabilmente privo di conseguenze sulla estraniazione dell’ “ordine” causale alla logica del contratto e la sua riproposizione all’ esterno di esso, quale criterio di controllo del contenuto negoziale; tenuto presente per di più che la parte “generale” del common frame era già contenuta nei principles. Tuttavvia ritengo che le considerazioni sopra esposte debbano indurre ad essere estremamente chiari su almeno due questioni fondamentali. La prima di esse è che l’ alternativa generale sopra proposta tra autonomia ed ordine, così come si esprime anche negli attuali progetti europei di unificazione, va ben al di là della esigenze di scelte “tecniche” intorno alle modalità di sviluppo e messa in opera del suddetto manufatto, sulla sua natura più o meno opzionale, e sulla sua conseguente capacità “orientativa” di una successiva armonizzazione. Essa è un alternativa fra due modelli profondamente differenti di “codice” – di cui in realtà uno solo esprime in pieno l’ intero significato storicamente posseduto dal detto termine – ed è anche un’ alternativa fra due differenti concezioni di sviluppo della società europea: di cui, di nuovo, una sola corrisponde alla tradizione storica degli “Stati” europei21. Se infatti il codice europeo dei contratti vuole essere un modello generale di principi eleggibili dalle parti nei rapporti transfrontalieri, sia pure un modello di “contrattazione rafforzata” dall’ autorità della Commissione europea rispetto ad altri modelli già in atto, si può tranquiollamente proseguire nell’ attuale discussione e sviluppo. Peraltro il sottoscritto, in qualità di comune cittadino 20 21 Ancora SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 106 V. una diversa opinione in G. ALPA, Draft Common Frame of Reference, (conferenza tenuta all’ università di Oslo), che opera un tentativo di ricondurre alla stessa matrice il Draft common frame e gli acquis principles ( cioè dalle regole contenute nelle direttive consumatori e in parte consolidate nella proposta di direttiva in materia COM (2008) 614/4). La contraddizione, nonostante il tentativo dell’ autore di appianarla, è perfettamente visibile nella stessa finale separazione delle due esperienze per la cui unificazione il C.F.R. era stato in pratica istituito. Il C.F.R. era nato infatti proprio per ricondurre ad unità la materia contrattuale diversamente regolata nella proposta dei priciples e nell’ acquis communautaire in materia di diritto dei consumatori. Per un esempio della differenza strutturale che informa le due esperienze sulla stessa materia dei contratti di consumo v. ultra, p.... e nota. In realtà nel Common Frame esistevano due anime e, dopo la separazione, l’ anima dei codici sta dall’ altra parte. europeo, dichiara fin d’ ora il suo totale disinteresse e la sua pilatesca astensione rispetto all’intera discussione, alla quale destinerà esclusivamente il suo interrsse teorico di giurista professionale. Il vostro relatore ha una esperienza pratica abbastanza occasionale della contrattazione internazionale, ma sufficiente per confermare la conclusione suggerita con forza dalle conoscenze teoriche espresse nelle considerazioni sopra formulate, per le quali sui mercati internazionali è tuttora in gran parte vero quello che era vero sui mercati nazionali di duecento anni fa. Nella lex mercatoria sono le parti che fanno le regole del mercato. Il che non significa che tali regole non possano essere vincolanti ed oggetivamente costrittive della stessa scelta delle parti, ma semplicemente che tale oggettiva vincolatività è funzionale ai soggettivi interessi della detta categoria. E così sarà, finchè, attraverso il lungo processo che è già in atto, non si riprodurranno le condizioni che presiedono alla vigenza (non opzionale) dei “codici” degli Stati nazionali. Vale a dire un’ “ordine” capace di imporre regole uguali per tutti, una sola corte capace pronunciare l’ ultima parola per farla rispettare, ed un’ autorità dotata di competenza generale per far eseguire la sentenza. Ma un “codice euroepeo dei contratti” unificato – opzionale o meno che sia – è tutta un’ altra cosa. Le sue norme sono – come l’ euro – applicabili a tutti i cittadini in tutti i loro rapporti, esterni e interni. Questo manufatto non serve solo ai “contraenti nei rapporti transfontalieri” dell’ Unione europea. Esso è un codice dei contratti e basta, senza aggettivi, predisposto – proprio come il progetto della cancelleria - per tutti i contratti di tutti i cittadini del territorio in cui è vigente. Un codice europeo “unico” è a tutti gli effetti – ed è questa è la seconda questione su cui occorre pure che qualcuno si assuma il rischio di fare estrema chiarezza, a costo di venir preso per un folle – un “codice nazionale” dell’ Europa operante, alla stessa guisa dei codici nazionali degli Stati, sull’ intero territorio del “mercato unico interno” e contenente regole uguali per tutti su quell’ intero territorio. Ma se il codice europeo unico deve sostituire i codici nazionali molteplici o porsi come modello unitario per la loro riforma, tema per l’ appunto oggetto del mio intervento ed a cui finalmente siamo arrivati, ed allora non c’ è dubbio alcuno che esso deve contenere l “ordine” che ispira i suoi progenitori. Certo non quel preciso ed identico ordine, ma comunque un “ordine”, che sarà l’ ordine del mercato “interno” europeo il quale, come i codici civili nazionali, contenga in se la chiave stabile ed oggettiva dei rapporti (eventualmente anche rapporti di forza) tra mercanti e proprietari, commercio e credito, contratto e successione, Garanzia e impresa, etc. etc. Contenga cioè l’ ordine riconosciuto dei rapporti di mercato che si impone ai mercanti come a tutti gli altri e risponde soprattutto, per tutti, alla domanda sulle ragioni per cui la “situation ainsìì cree...” dalle parti deve venire dai terzi rispettata. Contenga, insomma, la “causa” del contratto. 7. Entrambe queste due considerazioni, che spero di avere esposto con la dovuta chiarezza (con tutte le relative conseguenze quanto alle capacità raziocinanti del loro autore) propongono una identica questione che va al cuore della stessa giustificazione offerta dai riformatori francesi quanto all’ abolizione della causa. E’ possibile ed è auspicabile che l’ ordine dei rapporti civili tra i cittadini fin qui contenuto nei rispettivi codici nazionali , cessata la loro funzionalizzazione alla causa, venga “globalizzato” dai loro stessi codici all’ insegna delle esigenze di sviluppo del commercio internazionale ? E’ possibile ed auspicabile che il diritto civile del contratto, non “europeo”, ma nazionale e comunque “interno” si identifichi , all’ insegna dell’ Unificazione europea, con il diritto (mercantile) dei contratti “transnazionali” ? Sotto tutti i profili al legislatore europeo si presentano le stesse opzioni tra cui hanno dovuto scegliere i legislatori nazionali nella costruzione di un nuovo ordine dei rapporti civili. L’ alternativa tra il “diritto dei consumatori” delle direttive e quello dei merca(n)ti nei principles non è che l’ alternativa – che si propone questa volta a livello comunitario - tra unificazione o separazione dei codici civili e dei codici di commercio e presenta le stesse opzioni tra cui dovette scegliere il legislatore italiano (e francese e tedesco). Si tratta infatti di una evidente scelta politica tra la scelta di assoggettare il “professionista”, quando tratta con “altri” alle regole di tutti; ovvero assoggettare alle regole dei professionisti, sempre e comunque, tutti gli altri22. Questa scelta non può venir elisa dalla commissione rinviandola al common frame, nè può essere ricomposta dai professori nel medesimo in base a giudizi “tecnici” sul “migliore assetto contrattuale” che elimini le “indebite” alterazioni introdotte dalla legislazione europea nel diritto “puro” dei contratti nazionali. Le confusioni in questione non sono la ragione, ma sono la conseguenza dell’ incertezza che regna proprio sulla sopraddetta domanda e, di conseguenza, sul ruolo da attribuire alla causa nella disciplina dei contratti. Questa circostanza è perfettamente visibile dal punto di vista positivo se si osserva che è la stessa Unione europea, che vuole eliminare la causa dai contratti perchè “non serve” al commercio sui mercati transfrontalieri, ad utilizzarla nei medesimi tipi contrattuali sui medesimi mercati, perchè invece “serve” quando essi non riguardano l’ ordine dei mercanti, ma l’ ordine del mercato. Anche se infatti siamo ormai abituati a far dipendere la differenza nella disciplina di tali identici atti dalla qualifica soggettiva delle loro parti quali “professionisti” e “consumatori” e sebbene la Corte di giustizia ci abbia abituato a condurre tale discrimine sulla base di una lettura analitica della “lettera” delle disposizioni delle direttive, solo la “cecità professionale” di cui parla Rudden ci può nascondere che i differenti effetti del medesimo atto23 si rendono oggettivamente necessari per una ragione causale. La nozione di professionista e consumatore non sono infatti etichette corporative discendenti da uno status ma, come negli antichi codici di commercio, sono qualificazioni derivanti da una qualità funzionale del contratto e cioè dal fatto che la sua “ragione” stia nel condurre un’ attività mercantile o nel soddisfare un’ esigenza della vita di relazione. E la necessità di tale “separazione” si trova evidentemente nel fatto che proprio la “causa” di questi contratti è diversa: poichè è ovvio che mentre nell’ operazione commerciale la “ragione” dello scambio è nella pura e semplice creazione, trasferimento o percezione del “valore” della prestazione, nell’ operazione non commerciale ciò che conta è la prestazione in sè considerata, per la specifica utilità cui la parte intende destinarla. Le disposizioni testuali delle direttive non costituiscono quindi la fonte, ma la conseguenza della “confusione”, ormai comunemente condivisa e perciò non più tale, per cui il contratto “di viaggio” appartiene ormai ad un tipo differente dal contratto di “trasporto” (o di albergo, o di ristorazione) precisamente in funzione del connotato causale per cui nel primo, ma non nel secondo, la 22 Si tratta per l’ appunto di questioni che vengono regolate diversamente a seconda della “natura” o “causa” civile o commerciale dell’ operazione. NB adde Rudden 23 Peraltro, va ricordato, in entrambi i casi “bilaterale”. controprestazione non è orientata al conseguimento del plusvalore derivante dallo spostamento da un luogo ad un altro, ma a quello della realizzazione della “vacanza” dovuta alla controparte. Il contratto di viaggio “europeo” ha seguito la stessa parabola dei “tipi” contrattuali dei codici. Ha la sua causa particolare, ma non ce ne accorgiamo neanche, perchè si è consolidata nel tipo dopo averne originato la disciplina. Dunque anche nel diritto europeo, da qualche parte, esiste la causa: anzi vengono addirittura create e legittimate nuove “cause” di giustificazione di nuove obbligazioni tra le parti e, come testimonia una recentissima decisione della S.C. italiana proprio in tema di contratto di viaggio, esse presiedono anche alla giustificazione del rispetto, da parte dei terzi (nella specie eredi) della “situation ainsì crée....”24. 8. Il problema, per concludere con lo stesso argomento di apertura, rimane quello di stabilire per chi tale ordine esista e sia richiesto. E sotto questo aspetto mi rendo perfettamente conto che il tentativo di imporre alle regole dei mercanti un ordine oggettivo, fosse pure l’ ordine del mercato stesso, si scontra con difficoltà pressochè insormontabili nel mondo dell’ economia moderna globalizzata nella quale enormi quantità di capitali “attraversano gli oceani al tocco di una tastiera .....”. Tanto più se si tratta dell’ ordine dei rapporti economici contenuto nei codici nazionali e basato, ancor oggi, sulle antipatiche e ridondanti esigenze collegate al trasferimento del possesso od alle pubblicità costitutive dei contratti con funzione di credito e garanzia. Tutto ciò ben può giustificare che le regole dei mercanti, applicabili solo tra essi, vengano stabilite con uno statuto speciale che gli consenta maggior libertà nello scegliersele da soli per adeguarle dinamicamente alla cangiante complessità del mercato moderno. Nei confronti di questo destino non c’ è molto che un anziano professore di diritto civile possa argomentare circa il tema della permanenza od assenza della causa. Salvo due qualificazioni che le osservazioni appena esposte rendono inevitabili. Primo, se l’ Unione europea vuole proseguire come sembra nel common frame senza la causa ciò costituisce un sostanziale indizio che all’ interno di tale esperienza essa abbandona in effetti la componente “consumeristica” (preferirei dire civilistica) dell’ acquis communautaire a favore dell’ assunto che la libertà degli scambi possa provvedersi di un ordine dei contratti da sola. Ciò costituisce del resto la ragione della natura “opzionale” del modello: tuttavvia dev’ essere chiaro che tale scelta non rappresenta la “continuazione”, ma la rottura con il concetto ed il sistema di “codice” storicamente realizzato nella tradizione europea. Può darsi che la conservazione dell’ etichetta renda il discendente illegittimo più digeribile; ma essa non illuderà a lungo gli osservatori specializzati e, a mio avviso, ancora meno quelli ignari. Secondo. Le transazioni “transfrontaliere” si fondano su congegni tecnici il cui livello di specializzazione e dematerializzazione è assai più avanzato di quelli conosciuti e disciplinati dai codici nazionali e che sono regolati in alcuni accordi internazionali ma soprattutto in migliaia di modelli contrattuali perennemente e dinamicamente in trasformazione. Un codice contiene alcune migliaia di parole, ma soprattutto contiene le idee che le collegano tra loro e le rendono “sistema”. 24 Cfr cass. E le idee, a differenza delle parole, hanno due qualità scomodissime, indipendenti da chi le pensa, proprio come le regole del mercato. La prima è quella che sono generalmente pochissime. La seconda è che ciascuna di esse può governare e controllare, ed in effetti governa e controlla, miliardi di parole e di contratti e, perciò stesso, è assai refrattaria a cambiamenti che non si accordano con l’ ordine concettuale fornito dall’ idea stessa ai trilioni di relazioni tra quei miliardi di parole. In questo contesto non si deve dimenticare che questi sofisticati congegni dei “contratti transfrontalieri” hanno in comune con le norme dei codici civili la medesima ed uguale sostanza. Entrambi i fenomeni regolano infatti lo stesso oggetto, che resta costituito dalla circolazione di entità dotate di valore economico in funzione di tale loro qualità. Torna perciò utile ricordare la conclusione di quello stesso autore dal quale ho appena rubato la citazione. Il quale dopo aver appunto premesso che oggi la ricchezza circola al tocco di una tastiera, conclude che: “In termini di teoria e tecnica legale tuttavia , vi è stata una profonda anche se poco discussa evoluzione attraverso cui i concetti che furono originariamente costruiti per la proprietà dei beni immobili sono stati separati dal loro oggetto originario, per sopravvivere e svilupparsi solo come mezzi per maneggiare valori astratti . Il calcolo feudale vive e prospera, ma il suo ambiente è il valore , non la terra.” 25 Non vedo alcuna ragione per cui questa non conclusione di Rudden non possa venir applicata anche alla codificazione continentale europea26. Scriveva Hicks alla conclusione del suo volume sulla storia del pensiero economico che l’ economia moderna, soprattutto nel settore della finanza, deve necessariamente ammettere un certo grado di concertazione (antitetica al principio di concorrenza); aggiungeva però che alla fine dei conti e per quanti sofisticati ragionamenti si possano fare, l’ efficacia economica di una finanziamento continua a dipendere dalla circostanza che questo venga utilizzato per uno scopo produttivo, che tale scopo produca un risultato, che questo risultato produca un valore e che questo valore produca un reddito tale da compensare l’ attività di chi l’ha ottenuto dopo aver pagato l’ interessi. I codici civili dal tempo del diritto romano disciplinano il mutuo come contratto reale: e la causa del mutuo non è data solo dal fatto che in esso si realizza lo scambio del capitale contro interesse (cioè dal tipo), ma che ciò può avvenire nel rispetto delle seguenti due condizioni: che l’ investimento sia produttivo (i.e. gli interessi vengano pagati e l’ investimento sia – quindi – fonte di valore incrementale) e i creditori vengano protetti (i.e il capitale scompaia alle mani di chi lo ha prestato e possa venir impiegato, per prestarlo, una sola volta). 25 RUDDEN, op. loc.cit. Aggiungo che in realtà l’ intero processo di unificazione europea può venir descritto come la prima risposta eficace al fenomeno della globalizzazione poichè in essa l’ intento di liberare i mercati nazionali alla circolazione di beni, capitali, persone, etc. è realizzato attraverso un processo consapevole di regolazione dei mercati, che affida ad organi “istituzionali” i compiti che in sua sasenza dovrebbero essere affidati a meccanismi automatici od al governo dei pannelli, accordi e cartelli stabiliti dagli operatori medesimi. Sarebbebib verità singolare che la conclusione di questa intera costruzione dovesse consistere in decisioni con cui la Corte di giustizia provvedde sull’ assunto, testualmente contenuto in alcune sentenze i tribunali italiani in materia dui leasing e garanzia finanziaria, che una determinata soluzione va accolta o rigettata non in quanto corrisponde al contratto come regolato dal “codice”, ma in quanto corrisponde o meno all’ esigenza di consentire all’ operatore di agire sul mercato internazionale. SE questo fosse il punto si potrebbe fare tranquillamente a meno dell’ intera Unione Europea, così comne, nel caso specifico, di quell’ intero tribunale. 26 Ci dicono i nostri governanti “globalizzati” che per una qualche ragione (sarà la volontà di Dio, perché non vedo chi altri, a parte loro, dovesse sorvegliare attentamente la situazione nel mentre essi per l’ appunto la “governavano”), la leva creata dai sistemi finanziari tra capitale e prestiti ha raggiunto e superato il livello di 400 volte il capitale; cioè lo stesso euro è stato prestato quattrocento volte (eventualmente a quattrocento persone diverse). Del benevolo atteggiamento (non di Dio, dei governanti) che ha reso possibile tutto ciò si trovano molte tracce anche nella direttiva europea sulle garanzie finanziarie: alcune di esse precisamente dirette a decostruire il rapporto tra investimento e produttività e la protezione “reale” dei creditori istituite dai codici27. Ci dicono che la causa è “tramontata”, ma di non avere paura perchè vi sono comunque i controlli “esterni” (istituiti da loro). Io ritengo – per concludere come ho iniziato - che se il commercio internazionale vuole convincere tutti quanti che il contratto è un fatto privato (com’ è certo), ma che i suoi effetti vanno riconosciuti da “tutti” (come non è oggettivamente necessario), deve fornire a “tutti” le garanzie adeguate perché tale efficacia si risolva in un vantaggio generale e non, come sta accadendo, nella generale miseria. E deve darla nel contratto, non fuori di esso.28 Questa garanzia, in particolare, dev’ essere fornita ai cittadini europei “unificati” da un codice. Un codice europeo uniforme di un mercato interno non è un modello “internazionale” “opzionabile”: nè lo sono e lo saranno i codici nazionali eventualmente ricavati sulla sua base. E’, a tutti gli effetti, un codice nazionale riferito all’ intera europa nella quale tutti gli europei dovranno ritrovarsi per utilizzarlo nei loro rapporti “transfrontalieri” mercantili, di consumo e “civili” e anche in quelli domestici. Si tratta ovviamente di una lunga strada. Assai più lunga e lenta della predisposizne opzionale di un modello da fornire a la charte agli utenti che lo richiedano. Noi non vedremo la fine della strada e probabilmente non la vedranno neanche i nostri figli. E’ umano che si preferisca prendere una strada di cui si può già prevedere la fine. Ma alla fine dei conti sappiamo tutti benissimo che quando si sceglie una strada, ciò che è veramente importante non è sapere quanto è lunga. Ciò che conta, è se sia quella giusta. Nicola Scannicchio 27 28 V. ad es. l’ art. Non è una novità che furono i mercanti italiani del medioevo ad inventare loro stessi la regola che assoggettava tutti i loro individuali patrimoni alla responsabilità patrimoniale illimitata verso i terzi per le obbligazioni stipulate da ciascuno di essi. Essi lo fecero, tuttavvia, perchè non avevano il controllo del “mercato”, il quale, in caso diverso, non si sarebbe fidato di loro. Essi “accettarono” la regola, non la crearono, non per loro contratto, ma allo stesso modo in cui si “contrae” una malattia..