percorso fg - Simone per la scuola

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Percorso F-G
Il contratto - I singoli contratti
Approfondimenti
Il contratto preliminare
Contratto preliminare proprio e improprio
Dal preliminare proprio, appena analizzato, va tenuto distinto il preliminare improprio, detto anche compromesso: quest’ultimo è un contratto definitivo, immediatamente efficace, ma che contiene l’impegno di
riprodurre il consenso in una forma determinata.
Si osserva (TRABUCCHI) come il compromesso sia particolarmente diffuso nelle vendite immobiliari, allo
scopo di non manifestare nell’atto pubblico, per ragioni fiscali, il reale contenuto dell’atto. Ed, infatti, la
distinzione tra preliminare proprio e improprio ha rilevanza soprattutto in materia fiscale, in quanto la
giurisprudenza ritiene che al compromesso si applica l’intera imposta proporzionale al registro sui trasferimenti di proprietà mentre al preliminare proprio la più modesta tassa fissa.
A differenza del preliminare proprio, non trova ragion d’essere l’esecuzione in forma specifica di un obbligo di contrarre, in quanto si tratta di una vendita effettiva.
Il c.d. preliminare di preliminare
Il «preliminare di preliminare» è il contratto preliminare con il quale le parti si impegnano a stipulare un
futuro contratto preliminare.
Secondo un orientamento, tale contratto è viziato da nullità per mancanza di causa. Mancherebbe, cioè,
la causa tipica del contratto preliminare, e la mancanza di una giustificazione causale comporta, in base
all’art. 1322, la nullità del contratto.
Se, infatti, la causa del contratto preliminare risiede nel vincolare le parti alla stipulazione di un successivo
contratto definitivo, non trova giustificazione alcuna un contratto preliminare che impegni le parti alla
stipula di un contratto (non definitivo, ma) anch’esso preliminare.
Inoltre, si aggiunge, il contratto preliminare ha senso soltanto se il contratto futuro che le parti si impegnano a concludere produce effetti diversi, più intensi o più specifici di quelli offerti dal preliminare, e ciò non
si verifica nel caso del preliminare di preliminare, dove il secondo contratto ha la stessa portata obbligatoria del primo e, quindi, sarebbe sostanzialmente inutile.
Altri autori hanno cercato, però, di «salvare» la legittimità del preliminare di preliminare, affermando che
il primo preliminare sarebbe un contratto preliminare vero e proprio, suscettibile di esecuzione in forma
specifica in base all’art. 2932, mentre il secondo contratto, sebbene etichettato anch’esso come contratto
preliminare, sarebbe in realtà un contratto definitivo.
Il preliminare ad effetti anticipati
Nel contratto preliminare ad effetti anticipati, di frequente utilizzazione nelle contrattazioni immobiliari,
le parti, nell’assumere l’obbligo della prestazione del consenso al contratto definitivo, convengono l’antici-
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pata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti da questo, quale, ad esempio, la consegna immediata della cosa al promissario acquirente, con o senza corrispettivo.
La disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei
contraenti che l’effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando piuttosto dal titolo l’altruità della cosa.
Il dolo quale vizio del volere
Il dolo, considerato quale vizio della volontà, consiste in un inganno che induce un soggetto in errore, e
che lo determina a stipulare un negozio che, se fosse mancata l’azione ingannatrice, egli non avrebbe affatto posto in essere.
In questo caso il dolo è causa di annullamento del contratto (art. 1439, 1° comma, c.c.), in quanto i raggiri utilizzati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato.
Da tale fattispecie di dolo definito determinante, va distinto il dolo incidente (art. 1440) che sussiste quando i raggiri non hanno determinato il consenso ma hanno influito sul contenuto del contratto (il contraente avrebbe infatti concluso ugualmente il contratto ma a condizioni diverse).
Due sono gli elementi in cui si enuclea la fattispecie del dolo vizio della volontà, e cioè il raggiro e l’errore. Quanto all’errore, la norma dell’art. 1439 c.c. prende in considerazione qualunque forma di errore,
purché determinante della volontà contrattuale: sarà, in particolare, rilevante l’errore sul motivo, a differenza di quanto accade nell’ipotesi di errore non indotto dall’altrui inganno. Oltre ai due indicati elementi, l’art. 1439 c.c. non richiede ulteriori presupposti per l’annullabilità del contratto (salva, nel caso di dolo
del terzo, la conoscenza dei raggiri da parte dell’altro contraente): non richiede in particolare che il soggetto ingannato abbia subìto, per effetto della conclusione del contratto, una lesione (patrimoniale).
Quanto al raggiro, la dottrina (Mirabeli, Mariconda) si chiede anzitutto se, al fine di far scattare le
conseguenze contemplate negli artt. 1439 e 1440 c.c., sia richiesta una particolare attitudine ingannatoria
dell’attività fraudolenta, o se invece sia rilevante una qualunque condotta purché in concreto abbia indotto a stipulare il contratto, ovvero a stipularlo a certe condizioni.
Il dolo come reticenza
I raggiri con i quali si inganna l’altro contraente e se ne carpisce il consenso consistono, generalmente, in
comportamenti commissivi. Può accadere però che un contraente sia indotto in errore da un contegno
puramente omissivo dell’altro (c.d. dolo omissivo), come nel caso dell’uomo d’affari, da tutti ritenuto solvibile, che compera a credito un immobile tacendo al venditore un sopraggiunto dissesto economico.
Per il contratto di assicurazione l’art. 1892 c.c. prevede che la semplice reticenza dell’assicurato costituisca
causa di annullamento del contratto e ci si chiede se tale norma costituisca espressione di un principio
generale.
In base al principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. si può affermare che il dolo omissivo costituisca
causa di annullamento del contratto ogniqualvolta, date le circostanze, si deve ritenere che il contraenteavesse l’obbligo di informare l’altra parte.
I problemi più delicati in tema di reticenza consistono nell’esigenza di trovare il punto di equilibrio fra
dovere di informazione e diritto al riserbo e nel tracciare il confine fra il dovere di informazione gravante
su una parte e l’onere di autoinformazione incombente sull’altra.
Può ritenersi in via generale che si abbia diritto di tacere fatti che concernono esclusivamente la propria
sfera individuale (es: l’uso che si farà dell’oggetto acquistato, l’utile che si ricaverà dall’affare), mentre non
possono essere taciute le qualità essenziali della cosa oggetto dell’acquisto.
È inoltre da notare che il semplice comportamento menzognero o reticente non può considerarsi dolo,
quando l’altra parte avrebbe potuto facilmente rilevarlo con l’uso della normale diligenza.
Sul problema della rilevanza tuttavia la dottrina è divisa. Alcuni autori (Cariota Ferrara) limitano la
rilevanza all’ipotesi in cui la parte abbia il dovere di comunicare e dire la verità; altri (Betti) osservano che
nell’ambiente sociale odierno, sensibile alle esigenze della solidarietà civile, le parti debbono in ogni caso
comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) nello svolgimento delle trattative e nella
conclusione del contratto (art. 1337 c.c.).
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Pubblicità menzognera
Il dolus bonus è costituito dal complesso di quei comportamenti tenuti di regola dai soggetti nella fase
delle trattative per invogliare la controparte a concludere il contratto: si tratta, insomma, di quegli accorgimenti che sono normalmente tollerati in rapporto al costume ed alla pratica degli affari. Bianca parla al
riguardo di millantata esaltazione di un bene o di un servizio: l’irrilevanza del dolus bonus viene giustificata in ciò, che la normale inidoneità di tale pratica a trarre in inganno il cliente vale a far presumere che
questi in concreto non sia stato tratto in inganno. Ogni persona avveduta ed accorta sa che deve considerare con circospezione la reclame o la lode eccessiva che l’altra parte fa dei prodotti che offre.
In questo contesto largo spazio per la valutazione del comportamento dovrà essere dato alla correttezza
ed alla buona fede ex artt. 1175 e 1337 c.c.
L’esaltazione millantata dei beni e dei servizi dell’impresa è tollerata anche nella pubblicità commerciale. Il
limite è tuttavia superato quando si attribuiscono alla prestazione specifiche qualità non rispondenti al vero.
La pubblicità deve allora considerarsi menzognera e fonte di responsabilità extracontrattuale.
Dunque, il vero problema è quello di difendere l’intera categoria dei consumatori rispetto alla categoria
dei produttori che utilizzano le comunicazioni di massa (in particolare i cd. spot pubblicitari televisivi) come
mezzo per indurre all’acquisto. Al riguardo una regolamentazione organica del fenomeno pubblicitario si
è avuta con il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 poi sostituito dal D.Lgs. 6 aprile 2005, n. 206 (Codice del
consumo).
Fino all’entrata in vigore del decreto l’unica forma di tutela poteva essere costituita dalle norme in tema di
concorrenza sleale, che però erano finalizzate in primo luogo alla tutela degli interessi imprenditoriali.
Così a partire dal 1966 gli imprenditori avevano realizzato un controllo volontario contro la pubblicità
ingannevole attraverso il codice di autodisciplina pubblicitaria (C.A.P.), che vincolava le imprese pubblicitarie che vi avevano aderito e gli operatori economici che si avvalevano delle stesse per la loro pubblicità.
L’osservanza delle relative regole di comportamento nella pubblicità era garantita dal controllo di un apposito organo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina).
Si avvertiva però l’esigenza di una tutela più ampia, che si è realizzata con il D.Lgs. 74/1992 prima e con
il Codice del consumo poi. Il decreto prevede infatti la possibilità per i consumatori di attivare l’intervento
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (istituita con la c.d. legge antitrust n. 287 del 1990),
che può anche sospendere provvisoriamente la pubblicità ingannevole.
La nozione di ingannevolezza accolta dal Codice del consumo è molto più estesa rispetto a quella formatasi
in seno alla giurisprudenza civilistica a proposito della «pubblicità menzognera». Quest’ultima, infatti, presuppone il contenuto non veritiero del messaggio o di singole affermazioni, mentre la ingannevolezza della comunicazione pubblicitaria può ricorrere anche quando, pur essendo veri tutti i fatti esposti, il contesto generale o le modalità o la forma di presentazione del messaggio possono indurre in errore il consumatore medio.
La nostra legislazione non legittima ancora qualsiasi consumatore ad agire per ottenere il risarcimento del
danno.
Tale legittimazione spetta solo a coloro i quali esercitano un’attività commerciale in diretta concorrenza,
che potranno perseguire la pubblicità menzognera, nel quadro della concorrenza sleale in base alla clausola generale che obbliga ad un comportamento corretto sul piano professionale (art. 2598, n. 3, c.c.).
Vendita a rate con riserva della proprietà
Nella vendita a rate con riserva di proprietà, il compratore e il venditore si accordano affinché il prezzo
venga pagato frazionatamente (a rate) entro un certo periodo di tempo, mentre la cosa (oggetto della vendita) viene consegnata subito senza però che immediatamente venga trasferita la proprietà. L’art. 1523 del
codice civile stabilisce, infatti, che il compratore acquista la proprietà della cosa con il pagamento dell’ultima rata di prezzo ma assume i rischi dal momento della consegna.
La natura di tale contratto è discussa ed è stata espressa una notevole varietà di opinioni.
Secondo l’impostazione tradizionale (RESCIGNO), la vendita con patto di riservato dominio è una vendita
sottoposta alla condizione sospensiva del pagamento del prezzo. Il trasferimento del diritto sul bene si
verifica solo se e quando l’ultima rata del prezzo viene pagata al venditore. Il pagamento integrale, perciò,
costituisce l’evento a cui è condizionata l’efficacia del contratto.
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Questa ricostruzione, però, è criticata da chi evidenzia come la vendita con patto di riscatto produce effetti obbligatori fin dal momento della sua stipulazione. Da subito, infatti, il venditore è obbligato a consegnare il bene e il compratore da parte sua è vincolato a pagare le rate.
Secondo un’altra tesi (RUBINO) la vendita a rate è una vendita obbligatoria, durante il periodo che precede l’integrale corresponsione del prezzo, infatti, il venditore resta proprietario di quanto ha venduto, anche
se questo suo diritto è limitato nelle facoltà di godimento che spettano al compratore. Tuttavia anche questa tesi non ha convinto del tutto poiché il trasferimento del diritto avviene automaticamente in seguito al
pagamento e non come conseguenza dell’adempimento di un’obbligazione del venditore.
Per questo c’è chi preferisce parlare di una vendita ad effetti reali differiti poiché il trasferimento del diritto è
conseguenza del consenso espresso dalle parti al momento della stipula del contratto. In tal caso però c’è da
evidenziare che dal contratto sorgono delle obbligazioni, come l’obbligo di consegna a carico del venditore.
Possiamo, infine, riportare la tesi di chi vede nella vendita un negozio collegato ad uno scopo di garanzia:«in
seguito al quale il venditore conserverebbe sul bene un diritto reale di garanzia (il c.d. riservato dominio)
mentre al compratore sarebbe trasferita la proprietà immediatamente, con ogni conseguenza in ordine ai
poteri e alle facoltà di diritto sostanziale e processuale (così come gli oneri di manutenzione, fiscali ed
altro) che spettano al proprietario» (GAZZONI).
Questa tesi condivisa anche da BIANCA sarebbe confermata dalla posizione che assume il compratore.
Questi, infatti, oltre a subire le conseguenze del perimento del bene, ha la possibilità di fare uso della cosa
come gli pare e piace, sia pure con il limite della conservazione della cosa; egli inoltre può vendere a
propria volta la cosa comprata con patto di riservato dominio (il subacquirente diventerà proprietario soltanto ad avvenuto pagamento del prezzo); il compratore in fin dei conti sarebbe da subito il proprietario
della cosa e al venditore non competerebbe nulla di più che una posizione di garanzia.
Tuttavia questa tesi seppur convincente è in contrasto con il dettato normativo che espressamente qualifica
il venditore come colui che conserva la proprietà fino al momento del pagamento dell’ultima rata.
Il contratto di deposito
Il deposito è il contratto con il quale una parte (depositario) riceve dall’altra (depositante) una cosa mobile, con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura (art. 1766 c.c.).
La causa del deposito consiste nell’assicurare la custodia della cosa, cioè nel provvedere alla conservazione materiale di essa, preservandola dai pericoli di sottrazione, distruzione o danneggiamento. Il deposito
è un contratto reale, poiché si perfeziona con la consegna della cosa dal depositante al depositario, e non
formale poiché la forma scritta ha rilevanza solo ai fini della prova (e non per la validità del contratto).
Normalmente, nella pratica, al momento del deposito vengono rilasciati particolari contrassegni, che abilitano il possessore al ritiro della merce depositata.
Il deposito può essere a titolo oneroso o a titolo gratuito, ma se le parti non hanno pattuito alcun compenso per la custodia il deposito si presume gratuito.
La presunzione di gratuità non opera, tuttavia, se il depositario esercita attività di custodia per professione
(art. 1767 c.c.): per esempio, il pellicciaio che, nella stagione estiva, custodisce le pellicce dei clienti oppure chi gestisce un garage per la custodia delle autovetture.
Il deposito può essere effettuato da chiunque abbia il possesso o la detenzione della cosa, non importa se
sia o meno proprietario; la cosa deve essere restituita al depositante o a chi sia in possesso di un documento di legittimazione alla restituzione e il depositario non può pretendere che questi provi di esserne proprietario (art. 1777 c.c.).
La consegna della cosa dal depositante al depositario non trasferisce la proprietà della cosa, ma fa sorgere
nel depositario l’obbligo della custodia e quello di restituire la cosa. Al depositario, dunque, non passa né
la proprietà né il possesso della cosa depositata; egli la detiene soltanto, nell’interesse del depositante, e
non può disporne né servirsene (art. 1770 c.c.).
La restituzione viene definita in natura poiché il depositario non può restituire una cosa uguale o appartenente allo stesso genere di quella affidatagli ma deve restituire proprio quella stessa cosa che ha ricevuto
(salvo quanto vedremo, tra poco, circa il deposito irregolare).
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Obbligazioni del depositario
Le principali obbligazioni del depositario sono le seguenti:
1) custodire la cosa usando la diligenza del buon padre di famiglia, ma se il deposito è gratuito la responsabilità per colpa del depositario è valutata con minore severità (art. 1768 c.c.);
2) non usare né dare in deposito ad altri (subdeposito) la cosa affidatagli, salvo che il depositante vi abbia
acconsentito. L’affidamento della cosa al depositario, infatti, avviene per soddisfare l’interesse del depositante alla conservazione della cosa, non quello del depositario all’uso di essa;
3) restituire la cosa in ogni momento in cui il depositante la richieda; d’altro canto, però, il depositario può
domandare in qualunque tempo di essere liberato dall’obbligo della custodia, qualora questo diventi
gravoso (art. 1771 c.c.). Se nessun termine è fissato nel contratto, dunque, ciascuna delle parti può
porvi fine quando vuole, il depositante richiedendo la restituzione, il depositario richiedendo che il
depositante riprenda la cosa;
4) se la cosa è fruttifera, restituire al depositante, insieme alla cosa, anche i frutti percepiti durante la sua
custodia (art. 1775 c.c.).
Obbligazioni del depositante
Le principali obbligazioni del depositante sono le seguenti:
1) pagare l’eventuale corrispettivo pattuito (art. 1781 c.c.);
2) rimborsare il depositario delle spese sostenute per la custodia della cosa (art. 1781 c.c.);
3) pagare le spese eventualmente necessarie per la restituzione della cosa (art. 1774 c.c.);
4) ritirare la cosa depositata, a richiesta del depositario (art. 1771 c.c.).
Il deposito irregolare
Fin qui si è parlato del deposito che ha ad oggetto la custodia di una cosa mobile, determinata ed infungibile, ma può avvenire che il deposito abbia ad oggetto una quantità di denaro o di altre cose fungibili (per
esempio, un certo quantitativo di grano, di combustibile, di generi alimentari etc.).
In tal caso, con la consegna il depositario acquista la proprietà delle cose e gli viene concessa la facoltà di
servirsene (art. 1782 c.c.). Egli potrà quindi disporre delle cose come crede, potendo anche cederle e consumarle per i propri bisogni; non è perciò più tenuto a conservarle per restituirle nella loro identità, ma unicamente a restituirne altrettante della stessa specie e qualità (i latini parlavano di tantundem eiusdem generis).
Questo tipo di deposito, per le anomalie che presenta rispetto alla figura generale, è detto irregolare (un’ipotesi assai frequente ed importante di deposito irregolare si ha nel deposito bancario) e poiché è più simile
al mutuo (che abbiamo studiato lo scorso anno) devono osservarsi, in quanto applicabili, le norme relative
ad esso (artt. 1813 ss. c.c.).
Il deposito in albergo
Il codice civile regola altri due particolari tipi di deposito, i quali rientrano a pieno diritto nel novero dei
contratti commerciali poiché in essi il depositario è sempre un imprenditore; si tratta del deposito in albergo (artt. 1783-1786 c.c.) e del deposito nei magazzini generali (artt. 1787-1797 c.c.).
La legge si occupa del deposito in albergo per regolare la responsabilità dell’albergatore in caso di deterioramento, distruzione o sottrazione dei beni appartenenti al cliente-ospite.
È però necessario distinguere le cose semplicemente portate dal cliente in albergo da quelle che il cliente
ha invece appositamente consegnato all’albergatore per la loro custodia.
Se si tratta di cose portate, l’albergatore risponde del valore di quanto sia deteriorato, distrutto o sottratto,
ma non oltre il limite di cento volte il prezzo giornaliero dell’alloggio. Se, però, si riesca a provare la colpa,
o addirittura il dolo, dell’albergatore, questi risponderà dell’intero valore delle cose distrutte, deteriorate o
sottratte e quindi anche oltre il limite indicato.
Se si tratta invece di cose consegnate, l’albergatore risponde senza limiti. Tale responsabilità sussiste anche
quando egli abbia rifiutato di ricevere in custodia cose che aveva invece l’obbligo di accettare (tra le quali carte-valori, denaro, oggetti di valore).
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L’albergatore è in ogni caso esente da responsabilità se prova che il fatto dannoso è imputabile al cliente o
ai suoi accompagnatori o visitatori (per esempio, se la cosa è stata sottratta da un accompagnatore del
cliente), a forza maggiore (per esempio, nel caso di distruzione durante un incendio causato da un corto
circuito) o alla natura della cosa (pensa ad un prezioso e delicato dipinto danneggiato dal normale tasso di
umidità dei locali dell’albergo). Il cliente — dopo avere constatato il deterioramento, la distruzione o la
sottrazione — deve denunziare «il fatto» all’albergatore, senza ritardo. Ciò al fine di consentire allo stesso
di rimuovere le cause che danno origine al deterioramento delle cose dell’albergato, o di svolgere le ricerche che potrebbero portare al recupero delle cose sottratte.
All’omessa o ingiustificatamente tardiva denuncia, da parte del cliente, è connesso, quale speciale conseguenza sanzionatoria, l’esonero di responsabilità dell’albergatore, cioè la decadenza del danneggiato dal
diritto al risarcimento.
I patti che limitano o escludono in via preventiva la responsabilità dell’albergatore sono nulli.
L’art. 1785quinquies c.c. dichiara inapplicabili le norme di cui agli artt. 1783 e seguenti del codice civile
per i danni che i clienti abbiano a subire ai veicoli ed alle cose lasciati in essi, o agli animali vivi.
Ciò, comunque, non significa affatto esonerare l’albergatore da qualunque responsabilità in ordine ai danni anzidetti. Infatti, qualora — ad esempio — il cliente lasci il veicolo nel garage dell’albergo, si forma tra
albergatore e cliente un comune contratto di deposito, collegato ed accessorio al contratto di albergo,
soggetto — come tale — alle disposizioni generali in tema di deposito.
Il deposito nei magazzini generali
Particolare importanza ha assunto, nell’economia moderna, il deposito nei magazzini generali, che sono
grandi locali particolarmente attrezzati per garantire ai depositanti una razionale conservazione delle loro
merci, in attesa che siano messe in circolazione o avviate verso i luoghi di consumo.
L’esercizio dei magazzini generali è soggetto ad autorizzazione e vigilanza dell’autorità governativa, e coloro che gestiscono questi magazzini, esercitando un pubblico servizio, sono obbligati, finché abbiano
spazio disponibile, a ricevere in deposito tutte le merci comprese nelle loro tariffe.
Il contratto stipulato fra i magazzini generali e coloro che ad essi affidano le merci è un comune contratto
di deposito, il quale si distingue da quello ordinario soltanto per la speciale qualità professionale del depositario e per alcune particolarità della disciplina (che comunque non modificano la natura del contratto).
Il deposito, anche nel silenzio delle parti, è a titolo oneroso, in considerazione appunto della qualità professionale del depositario.
Il deposito nei magazzini generali è sempre deposito regolare; non si determina, quindi, l’acquisto della
proprietà della merce da parte dell’esercente.
Il magazzino ha l’obbligo di predisporre locali adatti ed impianti regolarmente funzionanti per la conservazione delle merci e di mantenerli in tale stato.
Compete al depositante il diritto di ispezionare le merci depositate, di ritirare i campioni, di compiere le
operazioni di manipolazione, di cernita, miscela, travaso o altro, le quali difficilmente possono ritenersi
consentite in un comune contratto di deposito.
La responsabilità dei magazzini generali è parificata a quella del vettore. Il gestore dei magazzini generali
è responsabile nei confronti del depositante della conservazione delle merci e risponde in ogni caso, a
meno che non provi che la perdita, il calo o l’avaria delle merci è derivata da caso fortuito, dalla natura
delle merci e dai vizi delle cose stesse o dal loro imballaggio.
I magazzini generali, a richiesta del depositante, rilasciano due documenti: la fede di deposito e la nota di
pegno, contenenti le generalità del depositante, il luogo del deposito, la natura e quantità delle cose depositate, l’eventuale pagamento dei diritti doganali e la stipulazione di assicurazioni.
La fede di deposito e la nota di pegno sono documenti rappresentativi della merce depositata e possono
circolare mediante girata.
La manifestazione più tipica della forma di deposito in esame è, infatti, la possibilità che le merci depositate vengano reiteratamente negoziate o date in pegno (per ottenere anticipazioni sul valore) senza che le
stesse siano rimosse dal luogo di deposito.
Il trasferimento dei titoli rappresentativi delle merci depositate comporta il trasferimento del diritto di proprietà sulle merci che rappresentano (parliamo di vendita su documenti), oppure del diritto di pegno sulle stesse.
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L’assicurazione contro i danni e l’assicurazione sulla vita
La definizione fornita dall’art. 1882 c.c. comprende due diversi tipi di assicurazione: l’assicurazione contro i
danni, per il risarcimento del danno subìto dall’assicurato in conseguenza di un sinistro; l’assicurazione sulla
vita, per il pagamento di un capitale o di una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana.
Assicurazione contro i danni
Nell’assicurazione contro i danni l’assicuratore si obbliga a risarcire l’assicurato del danno patrimoniale
che questi subisca a seguito di un sinistro.
Nell’ambito della assicurazione contro i danni rientrano diverse figure che differiscono tra loro per il rischio
assicurato e per l’interesse assicurato: assicurazione incendio, assicurazione per la responsabilità civile
autoveicoli, assicurazione infortuni etc.
Alle assicurazioni contro i danni si applica il principio indennitario, per effetto del quale l’assicurato
non può mai ricevere, a titolo di risarcimento, una somma superiore all’entità del danno sofferto.
L’applicazione di tale principio evita che il contratto di assicurazione, da mezzo di tutela dell’integrità
del patrimonio, si trasformi in un’operazione puramente speculativa.
L’assicurazione non deve essere stipulata per una somma superiore al valore reale della cosa. La violazione di tale divieto, se vi è stato dolo, comporta la nullità del contratto; in mancanza di dolo, invece, l’efficacia del contratto è limitata al valore reale della cosa assicurata (art. 1909 c.c.).
Il danno risarcibile è soltanto il danno emergente; l’eventuale assicurazione del profitto sperato è ammessa, ma deve formare oggetto di espressa pattuizione (art. 1905 c.c.).
Il valore delle cose perite o danneggiate va determinato con riferimento al momento del sinistro. Soltanto
per i prodotti del suolo il danno si determina con riferimento al valore che i prodotti avrebbero avuto al
tempo della maturazione o della ordinaria raccolta.
L’assicurazione può coprire anche solo una parte del valore che il bene assicurato ha al momento del sinistro.
Si applica in tali casi la regola proporzionale, per la quale l’assicuratore dovrà pagare un’indennità che sta
al danno nella stessa proporzione in cui la somma assicurata sta al valore assicurabile (art. 1907 c.c.).
Per poter ottenere il risarcimento, l’assicurato entro tre giorni dal sinistro o dalla conoscenza di esso deve
darne avviso all’assicuratore; egli, inoltre, deve fare quanto è possibile per evitare o diminuire il danno. Le
spese comunque fatte a tale scopo sono a carico dell’assicuratore anche se superano la somma assicurata
ed anche se lo scopo non si raggiunge.
In caso di inadempimento degli obblighi di avviso e di salvataggio (art. 1915 c.c.) occorre distinguere: se
tale inadempimento è doloso, l’assicurato perde il diritto all’indennità; se è colposo, l’assicuratore ha il
diritto di ridurre l’indennità in ragione del pregiudizio sofferto.
In tutti i casi in cui abbia pagato l’indennità, l’assicuratore ha diritto di surrogarsi, fino alla concorrenza
dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili del danno. Ciò significa che
l’assicuratore può sostituirsi all’assicurato nel richiedere il risarcimento ai terzi che abbiano causato il danno (art. 1916 c.c.). A sua volta l’assicurato, che abbia conseguito dall’assicuratore il risarcimento, non può
ottenerlo una seconda volta dal terzo responsabile.
Per coprire uno stesso rischio possono essere stipulati più contratti di assicurazione (art. 1910 c.c.), contemporaneamente o successivamente. Anche in caso di pluralità di assicurazioni non si deve violare il
principio indennitario, per cui l’assicurato ha l’obbligo di avvisare ciascun assicuratore di tutte le assicurazioni stipulate (l’omissione dolosa di tale avviso libera gli assicuratori dal pagamento dell’indennità) e può
chiedere a ciascun assicuratore la somma dovuta secondo il rispettivo contratto, ma le somme complessivamente riscosse non devono superare l’ammontare del danno. All’assicuratore che ha pagato spetta l’azione di regresso nei confronti degli altri, per la ripartizione dell’onere secondo i rispettivi contratti.
Diversa dalla pluralità di assicurazioni è la coassicurazione. In essa, infatti, non si hanno più contratti, ma
un unico contratto nel quale intervengono più assicuratori assumendo ciascuno una quota del rischio. In
tale ipotesi, ciascun assicuratore risponde in proporzione della propria quota (art. 1911 c.c.).
L’azione di regresso è il diritto di rivalsa che spetta al condebitore solidale che ha pagato il creditore comune, nei confronti degli altri condebitori.
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L’assicurazione per la responsabilità civile
Nell’ambito delle assicurazioni contro i danni riveste particolare importanza l’assicurazione per la responsabilità civile. Si tratta del contratto con il quale l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato delle
somme che questi abbia dovuto pagare a terzi a titolo di risarcimento del danno per fatti causati con responsabilità civile (art. 1917 c.c.).
Le assicurazioni della responsabilità civile possono assumere varie configurazioni: assicurazioni R.C. professionali; assicurazioni R.C. per l’esercizio di un’impresa commerciale; assicurazioni R.C. derivanti da
proprietà, possesso o detenzione di cose suscettibili di recare danno, quali l’asssicurazione R.C. automobilistica, quella per i danni da rovina da edificio etc.
In ogni caso, il rischio dal quale l’assicurato intende tutelarsi è l’eventuale responsabilità civile verso terzi
in cui può incorrere, responsabilità che può essere contrattuale o extracontrattuale.
L’interesse tutelato dalle assicurazioni della responsabilità civile è, dunque, quello della conservazione
dell’integrità del patrimonio dell’assicurato esposto al rischio di essere diminuito dal debito di risarcimento dei danni a favore del terzo.
La legge ha reso obbligatoria la responsabilità civile in relazione a certe attività particolarmente pericolose
e caratterizzate da un’alta probabilità di sinistri. Il caso più diffuso di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile si ha per la circolazione dei veicoli a motore e dei natanti (L. 24 dicembre 1969, n. 990).
A decorrere dal 1° gennaio 1993 l’obbligo di assicurazione è stato esteso a tutti i veicoli a motore senza
guida di rotaie (compresi, cioè, i ciclomotori e le macchine agricole).
Peraltro con l’approvazione del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, che ha abrogato la L. 990/1969, è stato
risistemato l’intero settore assicurativo nel Codice delle assicurazioni private, entrato in vigore il 1° gennaio 2006.
Ai sensi del Codice delle assicurazioni (artt. 122 e 123), sono obbligati all’assicurazione per la responsabilità civile:
— i veicoli a motore senza guida di rotaie, compresi filoveicoli e rimorchi, i ciclomotori e le macchine
agricole; — i natanti adibiti a diporto destinati a navigare in acque ad uso pubblico o equiparate, se
muniti di motore, indipendentemente dalla stazza: per questi è obbligatoria l’assicurazione per i danni
alla persona;
— i natanti adibiti ad uso privato diverso dal diporto o ad uso pubblico, di stazza lorda inferiore alle 25
tonnellate muniti di motore inamovibile superiore a 3 cavalli fiscali;
— i motori amovibili, di qualsiasi potenza e indipendentemente dall’unità cui vengono applicati (risulterà
assicurato il natante sul quale è di volta in volta collocato il motore).
Si ha responsabilità contrattuale nel caso di violazione di un dovere specifico, derivante da un precedente
rapporto obbligatorio: l’art. 1218 c.c. precisa che se il debitore non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno.
Si ha, invece, responsabilità extracontrattuale nel caso di violazione del dovere generico di non ledere la
sfera giuridica altrui. Il principio generale in materia di responsabilità extracontrattuale è fissato dall’art.
2043 c.c., il quale prevede l’obbligo di risarcire il danno a carico di chi commette un fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto
La legislazione speciale attribuisce al danneggiato un’opportunità in più rispetto al diritto comune: egli,
invero, può pretendere di essere risarcito — oltre che da ciascuno dei soggetti responsabili a norma dell’art.
2054 c.c. — anche dall’assicuratore. È l’art. 144 del D.Lgs. 209/2005 che prevede l’azione diretta del
danneggiato nei confronti dell’assicuratore, entro i limiti delle somme per le quali è stata stipulata l’assicurazione (anche se superiori ai massimali obbligatori).
Tale azione si prescrive in due anni (art. 144, D.Lgs. 209/2005; art. 2947 c.c.). L’indennizzo diretto, disciplinato dall’art. 149 del D.Lgs. 209/2005, rappresenta sicuramente la norma di maggiore portata innovativa.
La norma citata prevede, infatti, che in caso di sinistro tra due veicoli (è quindi escluso il ricorso alla procedura nel caso di pluralità di veicoli coinvolti), entrambi identificati ed assicurati, ove siano derivati danni ai veicoli ovvero ai conducenti, i danneggiati debbano rivolgere la loro richiesta non già all’assicuratore
del veicolo antagonista, come di norma accadeva nel sistema anteriore, ma alla propria impresa di assicurazione.
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Approfondimenti
Quanto alla tipologia dei danni, la norma si estende, senza limiti quantitativi, ai danni al veicolo ed ai
danni alle cose di proprietà dell’assicurato o del conducente (se trasportate a bordo), ed ai danni alla persona del conducente non responsabile, ma nei limiti di cui all’art. 139 (cd. lesioni di lieve entità).
L’assicurazione sulla vita
L’assicurazione sulla vita è il contratto avente ad oggetto il pagamento di un capitale o di una rendita al
verificarsi di un evento attinente alla vita umana.
Questo tipo di assicurazione non ha scopo di risarcimento, come l’assicurazione contro i danni, bensì
scopo previdenziale, poiché mira a garantire al beneficiario la disponibilità di una somma con la quale far
fronte a bisogni futuri.
A seconda del tipo di evento previsto nel contratto, l’assicurazione sulla vita può essere: per il caso morte,
quando la somma assicurata deve essere pagata al beneficiario a seguito della morte dell’assicurato o di
un terzo; per il caso di sopravvivenza, quando la somma assicurata deve essere pagata allorché l’assicurato raggiunga una certa età prestabilita nella polizza; mista, quando la somma assicurata deve essere pagata alla morte dell’assicurato o, in alternativa, ad una data prestabilita se questi sarà ancora in vita.
Come si è accennato, l’evento può riguardare tanto la vita propria quanto quella di un terzo (coniuge, socio
etc.); tuttavia, l’assicurazione per il caso di morte di un terzo non è valida senza il consenso (da provarsi
per iscritto) della persona sulla cui vita l’assicurazione è contratta (art. 1919 c.c.).
Diverso dal caso appena considerato è quello in cui l’assicurazione sia stipulata per un evento relativo alla
propria vita e la somma assicurata vada attribuita ad un terzo (beneficiario) designato dalla persona che
contrae l’assicurazione; si parla in questo caso di assicurazione a favore di un terzo (per esempio, nel caso
del genitore che stipula un’assicurazione in forza della quale alla sua morte l’assicuratore dovrà versare il
capitale ai figli).
La designazione del beneficiario può essere fatta anche per testamento; per effetto di essa il terzo acquista
un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920 c.c.). Tale diritto è però soggetto a revoca dello
stipulante, a meno che questi non vi abbia rinunziato per iscritto. La designazione del beneficiario non ha
effetto qualora questi attenti alla vita dell’assicurato (art. 1922 c.c.).
L’obbligazione principale dell’assicurato consiste nel pagamento del premio. In caso di mancato pagamento, dopo un termine di tolleranza, l’assicurazione cessa di produrre i suoi effetti ed il rischio non è più
coperto.
Per il resto, quando il pagamento del premio è avvenuto per un certo tempo regolarmente, è previsto che
l’assicurato possa esercitare il diritto al riscatto dell’assicurazione oppure alla sua riduzione. Il diritto al
riscatto consiste nel diritto dell’assicurato di risolvere anticipatamente il contratto, sospendendo il pagamento del premio ed ottenendo dall’assicuratore il pagamento immediato di una somma commisurata ai
premi versati. Il diritto di riduzione consiste nel diritto dell’assicurato di limitare il valore assicurato in relazione ai premi già pagati.
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