Sviluppo in economia aperta - Dipartimento di Economia Politica e

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Capitolo 3
Sviluppo in economia aperta
Introduzione
Il problema dello sviluppo economico va necessariamente esaminato in economia aperta.
Ciascun paese, infatti, commerciando con altri paesi acquisisce merci che non produce direttamente
ed anche, come vedremo, finanziamenti potenzialmente utili alla crescita. Esistono, seppure con
grandi semplificazioni, due posizioni al riguardo. La prima, riconducibile alla teoria neoclassica,
vede nell’apertura dei mercati nazionali ai flussi commerciali e finanziari un importante propulsione
alla crescita. La seconda posizione ritiene che la mera liberalizzazione commerciale e finanziaria
possa generare danni superiori agli eventuali vantaggi, per cui la questione dell’apertura verso
l’estero va affrontata in maniera pragmatica, non rinunciando a politiche volte a proteggere in varie
forme l’economia nazionale. I critici delle liberalizzazioni non negano, naturalmente, che le
economie dei PVS – anzi loro in particolare – necessitano di prodotto, tecnologie e capitali
dall’estero, né di accrescere le proprie esportazioni per farlo. Il punto è che le varie liberalizzazioni,
interne e verso l’esterno, possono essere di ostacolo a tali obiettivi – o comunque gli svantaggi
superare di gran lunga i vantaggi. Le correnti non ortodosse individuano proprio nel vincolo estero
il nodo macroeconomico più rilevante per la crescita: la necessità in altri termini per i PVS da un
lato di acquisire dai paesi avanzati beni di produzione e relative tecnologie necessarie per avviare lo
sviluppo, e dall’altro del come reperire la valuta o liquidità internazionale con cui pagare tali
acquisti. Per contro, si può affermare che il vincolo neoclassico risieda nella scarsità di risparmi
interni per finanziare la crescita:
vincolo non ortodosso (Keynesiano)
vincolo neoclassico
scarsità liquidità internazionale
scarsità di risparmio
Gli studiosi neoclassici più avveduti riconoscono l’esistenza dei due gap (“dual gaps
hypothesis” di Chenery). Noi diamo tuttavia importanza solo al primo.
L’esperienza dei paesi Asiatici insegna come senza un ruolo rilevante dello Stato nel guidare
in diverse forme la crescita economica, questa non avrebbe avuto luogo. Peraltro questo è stato vero
anche per il Giappone e l’Italia nel secondo dopoguerra, e un secolo prima per la Germania, la
Francia e gli Stati Uniti, per non risalire all’epoca mercantilista che teorizzava il ruolo degli Stati
come agenti degli interessi economici nazionali.
Ripassati alcuni attrezzi del mestiere relativi alla bilancia dei pagamenti (v. appendice), nel
capitolo ci occuperemo delle teorie del commercio internazionale con particolare riguardo al legame
fra quest’ultimo e lo sviluppo economico. Al pari del dibattito sulla politica economica, anche
quello sul commercio internazionale vede contrapposte due scuole: quella che individua la via allo
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sviluppo nel laissez-faire negli scambi internazionali; e coloro i quali ritengono che, invece, gli stati
nazionali svolgano un ruolo decisivo nel volgere quegli scambi a favore dello sviluppo nazionale,
scambi che se invece lasciati al laissez-faire lo danneggerebbero o addirittura impedirebbero. Si è
parlato al riguardo di “developmental state”, con riferimento a stati che sostenuti da coalizioni
sociali favorevoli allo sviluppo sono riusciti a svolgere un ruolo decisivo nel decollo della nazione.
Il pensiero va a paesi come la Corea del Sud, ma in verità non v’è praticamente esempio nella storia
economica di paese che, magari in maniera diversa, non abbia visto un coinvolgimento attivo dello
stato nella crescita.
I sostenitori del laissez-faire nel commercio internazionale si rifanno a due ceppi teorici. Il
primo fa riferimento agli economisti classici, e in particolare alla teoria del vantaggi assoluti di
Adam Smith e a quella dei vantaggi comparati di David Ricardo. Il secondo alla teoria marginalista
o neoclassica studiata nel capitolo precedente. L’indirizzo alternativo a quello del laissez-faire può
ricondursi alla tradizione mercantilista che prosegue in maniera spesso sotterranea anche nei secoli
successivi.
1. Friedrich List
List (1789-1846) fu studioso e uomo politico tedesco. Trascorse un lungo periodo come
emigrato negli Stati Uniti e fu propugnatre dell’unità politica ed economica della Germania. Senza
che queste brevi osservazioni sostituiscano la lettura diretta dell’autore, si può qui ricordare come
List non rifiuti i vantaggi del commercio internazionale. Egli ritiene che, tuttavia, tali vantaggi si
verifichino fra nazioni al medesimo livello di sviluppo. Egli ha in mente lo svantaggio della
Germania, di cui auspica l’unificazione politico-economica, rispetto al Regno Unito. List ritiene che
il liberismo sia una dottrina sostenuta dalle potenze più avanzate per assicurarsi l’accesso ai mercati
delle nazioni più deboli. Come dirà successivamente Joan Robinson, una allieva di Keynes, il
liberismo è una forma di mercantilismo. Secondo List, invece, le nazioni in ritardo dovrebbero
adottare misure di protezione della propria industria nascente, dar cioè tempo alle proprie industrie,
attraverso forme di protezionismo, di adeguare la propria competitività a quella delle industrie dei
paesi più avanzati. [Per esempio, ora gli economisti tedeschi sono ultra-liberisti, sebbene
nell’ordoliberismo o Economia sociale di mercato non si sia persa traccia dello Stato come
istituzione ordinante e garante di un capitalismo ben funzionante e degli interessi dell’industria
tedesca; peraltro la Germania non ha perso i suoi connotati mercantilisti; del resto il mercantilismo
non era contro il mercato, era semplicemente meno ideologico del LF nel guardare la realtà del
capitalismo, in particolare il ruolo dello Stato in esso].
List è stato infatti un autore studiatissimo dai paesi asiatici in cui forte è stata la presenza di
un developmental state.
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Come si vede, nella tradizione mercantilista, e in maniera assai marcata in List, forte è l’idea
organicista dello stato-nazione come comunità con la propria storia, tradizioni, peculiarità non
necessariamente contrapposta alle altre entità nazionali, ma certamente distinta. Le visioni liberalborghese degli economisti classici e quella marxista hanno in comune, invece, l’idea che il mercato
uniformi le peculiarità nazionali. Seguono alcune note preliminari su questo tema.
Lettura obbligatoria: http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201502-fra-marx-elist-sinistra-nazione-e-solidarieta-internazionale/
Gli studenti interessati nello sviluppo economico dovrebbero a questo punto approfondire il
pensiero del grande economista argentino Raul Prebisch (1901-1986):
http://en.wikipedia.org/wiki/Ra%C3%BAl_Prebisch
In
questa
tradizione
autori
importanti
sono
Alice
Amsden
(1943-2012)
(http://en.wikipedia.org/wiki/Alice_Amsden), Ha-Joon Chang (http://en.wikipedia.org/wiki/HaJoon_Chang)
e
più
recentemente
l’italiana
Marianna
Mazzuccato
(http://www.sussex.ac.uk/spru/people/lists/person/111262).
2. La teoria neoclassica del commercio internazionale e la sua critica
Non è possibile in queste lezioni trattare in maniera esauriente la teoria neoclassica del
commercio internazionale. D’altronde molti studenti avranno nel programma il corso di economia
internazionale. Ai nostri scopi è qui sufficiente ricordare che per la teoria neoclassica, a parità di
condizioni tecniche di produzione, ciascun paese tenderà a specializzarsi nella produzione di quelle
merci che utilizzano relativamente più del fattore (o fattori) relativamente più abbondante in quel
paese. Per esempio, se per produrre formaggio si utilizza relativamente più lavoro rispetto alla terra
mentre per produrre carne si impiega relativamente più terra rispetto al lavoro, e la terra è
relativamente più abbondante in Francia a confronto della Germania, ecco che la Francia si
specializzerà nella produzione di carne e la Germania in quella di formaggio. La ragione è intuitiva:
se la terra è più abbondante relativamente al lavoro in Francia rispetto alla Germania, il prezzo di
affitto della terra (o rendita) sarà relativamente più conveniente in Francia che in Germania, sicché
nel primo paese sarà più conveniente la produzione di carne che fa un uso relativamente maggiore
di terra rispetto al lavoro. Simmetricamente, l’abbondanza relativa di lavoro in Germania farà sì che
i salari in questo paese siano relativamente più bassi rispetto alla Germania, e la produzione di
formaggio più conveniente dato il suo relativo maggior uso di lavoro rispetto alla terra.
Nell’esempio abbiamo utilizzato i due fattori della produzione più facilmente “misurabili”: il
lavoro in ore-lavoro, la terra in ettari. Avremmo tuttavia potuto fare un esempio col fattore
“capitale”. In questo caso avremmo, ad esempio, concluso che se la Germania è un paese in cui il
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capitale è abbondante (rispetto a terra e lavoro) esso tenderà a specializzarsi in produzioni ad
elevata intensità di capitale.
In seguito, tuttavia, alle critiche in tema di teoria del capitale menzionate nel capitolo 1,
sappiamo che l’introduzione del fattore “capitale” comporta delle problematicità per la teoria
neoclassica.
Si
veda
per
una
spiegazione
introduttiva
http://nakedkeynesianism.blogspot.it/2011/10/more-on-free-trade.html.
Per gli economisti neoclassici una alternativa al commercio internazionale risiede nel
movimento dei fattori. In altri termini è la medesima cosa per un paese relativamente ricco di
capitale esportare beni ad alta intensità di capitale, oppure esportare capitale verso i paesi che ne
sono relativamente meno dotati. L’idea degli economisti neoclassici è dunque che i paesi del “nord”
del mondo, i cui reddito pro capite è più elevato e dunque risparmiano molto, tenderanno a
esportare capitale verso i paesi del “sud”, in cui il reddito pro capite è più basso e che dunque hanno
una minore disponibilità di risparmi. Si noti che il nord presta al contempo capitale finanziario e
capitale reale: le famiglie del nord prestano, via sistema finanziario, parte del proprio reddito al sud
(aspetto finanziario); gli imprenditori del sud impiegano questo risparmio per acquistare
attrezzature dal nord. Sappiamo dalle nostre nozioni di bilancia del pagamenti che ciò che stiamo
osservando è un disavanzo di parte corrente (l’importazione netta di beni capitali), che è la parte
reale, coperta da un avanzo nei movimenti di capitale, che è la parte finanziaria. Nel lungo periodo,
così prosegue questo ragionamento, la maggiore accumulazione di capitale consentita dall’afflusso
di capitale estero consentirà a questi paesi di esportare di più. Nel lungo periodo la situazione dovrà
dunque ribaltarsi: i paesi del sud diverranno esportatori netti con partite correnti in avanzo, potendo
così restituire i debiti contratti nel passato coi paesi del nord.
Peccato che in genere le cose non siano quasi mai andate così: in genere i flussi di capitale
dal nord sono andati a finanziare consumi e non investimenti nei paesi del sud. Questi si sono così
indebitati in maniera crescente sino, in molti casi, alla bancarotta. Vedremo nel capitolo 6 l’esempio
recente degli squilibri europei. Negli anni più recenti si è inoltre sviluppato il paradosso – paradosso
dal punto di vista della teoria neoclassica dominante – di un flusso netto di capitali dal sud del
mondo verso il nord. Questo riguarda i cosiddetti squilibri globali, anch’essi trattati nel capitolo 8.
Da un punto più teorico, rifacendosi alle lezioni di Keynes e Sraffa, non ci sorprende che a
presunti risparmi del nord non abbiano generalmente seguito investimenti nel sud, non essendovi
alcuna relazione causale fra risparmi e investimenti.
Un approccio alternativo ai problemi di economia aperta ci proviene infatti dalla teoria di
Keynes.
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3. Approccio keynesiano all’economia aperta
3.1. La determinazione di domanda aggregata e reddito in economia aperta
Il modello keynesiano (si veda l’appendice 1 al capitolo 3) può essere rappresentato
dalle seguenti equazioni:
Y=C+I+G+E–M
C =Ca + cY
Ca = Ca
I= I
G= G
T = tY
E= E
M = mY.
La penultima equazione mostra le esportazioni come dato esogeno determinato al di fuori
del modello dalla domanda estera per i nostri beni. L’ultima equazione mostra le importazioni come
funzione della domanda effettiva, nel senso che quando quest’ultima aumenta, si accresce la
domanda non solo per beni nazionali, ma anche per beni prodotti all’estero. L’aumento delle
importazioni riguarderà per esempio prodotti energetici e materie prime, necessari ad accrescere la
produzione, ma pure beni di consumo.
L’equazione
Y
che
determina
la
domanda
aggregata
e
il
reddito
nazionale
è:
1
(C a  I  G  E )
1  c(1  t )  m
3.2. Il moltiplicatore del commercio estero
Si considerino le seguenti, ormai note, equazioni:
M = mY
(A)
E = E*
(B)
Esse suggeriscono che le importazioni sono funzione del reddito nazionale, mentre le
esportazioni sono un dato esogeno che dipende dalla domanda mondiale (dunque dal reddito degli
altri paesi). Le prime sono dunque controllabili dalle autorità di politica economica, mentre le
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seconde non lo sono, o lo sono in maniera più limitata.1 Nel lungo periodo la bilancia commerciale
deve essere in pareggio, per cui: M = E*. Da cui si ottiene: mY = E*, ed infine
Y
E*
,
m
che è il foreign trade multiplier.
Esso ci suggerisce che il livello del reddito compatibile con l’equilibrio della bilancia
commerciale dipende dal livello delle esportazioni e dalla propensione marginale ad importare.
Esso mostra infatti come una economia aperta sia soggetta al vincolo estero. Una espansione interna
determinata, per esempio, da un aumento della spesa pubblica determina, a parità di E, una crescita
delle importazioni. Se la bilancia commerciale era in pareggio, essa ora peggiorerà. Per questo
spesso si parla - o si parlava in epoca keynesiana - della necessità di politiche espansive coordinate
fra paesi. Solo se i diversi paesi legati da forti vincoli commerciali – per esempio i paesi
dell’Unione Europea – espandono contemporaneamente domanda aggregata e produzione, in
ciascun paese aumentano sia le importazioni, che costituiscono esportazioni per i partner, che le
esportazioni, che costituiscono le importazioni degli altri paesi. Se invece un singolo paese espande
in solitudine la propria economia, la sua bilancia commerciale andrà presto in disavanzo ed esso
non potrà alla lunga mantenere le politiche di crescita. In questa esperienza incappò ad esempio il
governo socialista francese di Francois Mitterand nei primi anni '80. Dopo pochi mesi di politica
espansiva, la bilancia commerciale francese andò in forte disavanzo in quanto la Germania non era
interessata ad espandere a sua volta la propria economia, e Mitterand dovette tornare a politiche
economiche più restrittive.
Le equazioni A e B sono rappresentate nella figura 4.2. Essa mostra come, se un paese
espande il proprio reddito da Y1 a Y2, le importazioni aumentano da M1 a M2. Allora le
importazioni dagli altri paesi dovrebbero aumentare da E1 ad E2, in maniera da riequilibrare la
bilancia commerciale. Questo tuttavia dipende dall’adozione di politiche espansive da parte dei
partner commerciali.
1
In verità lo sono attraverso modificazioni del tasso di cambio, nel breve periodo, e attraverso le politiche
industriali e di innovazione, nel lungo periodo. Una svalutazione accresce la competitività di prezzo
(perché?). Le seconde accrescono la competitività di prezzo, attraverso l’adozione di metodi produttivi più
moderni che diminuiscono i costi di produzione (innovazioni di processo), ma soprattutto la competitività di
prodotto, migliorando o innovando la gamma dei prodotti (innovazioni di prodotto).
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Se questi paesi non intendono espandere le loro economie, un paese che voglia invece
perseguire politiche keynesiane potrebbe adottare misure alternative come il controllo delle
importazioni. Con questa misura si bloccano le importazioni al livello di equilibrio M1, compatibile
con il livello dato di esportazioni E1. In tal modo, si noti, gli altri paesi non risultano danneggiati in
quanto continuano ad esportare M1. Il paese può così espandere sino a Y2 senza incorrere in un
disavanzo di bilancia commerciale (muove dal punto A al punto C invece che al punto B). 2 Questo
tipo di politiche è tuttavia oggi mal visto, scoraggiato o addirittura proibito da organismi come l’UE
o il WTO.
In alternativa un paese può finanziare gli squilibri di parte corrente indebitandosi verso
l’estero. Questo non può durare troppo a lungo, tuttavia. Inoltre i debiti ed i relativi interessi vanno
pagati, per cui ad un certo punto il paese dovrà realizzare degli avanzi di parte corrente per ripianare
il debito estero.
Infine un paese può ricorrere ad una svalutazione della propria moneta per stimolare un
volume adeguato di esportazioni (e rendere più costose le importazioni). Anche questa strada ha i
suoi difetti in quanto (i) altri paesi potrebbero adottare la medesima strategia – e quindi il gioco
diventa a somma zero -, e perché, anche se questo non accade, (ii) il maggior costo delle
importazioni crea inflazione e conflitto distributivo. Chi deve infatti pagare il maggior costo dei
beni importati?
3.3. Un esempio istruttivo
2
Il controllo delle importazioni sarà selettivo, nel senso che alcuni beni importati saranno necessari per
accrescere la produzione, come petrolio, materie prime, macchinari industriali ecc. Si tenderà allora a ridurre
l’importazione di alcuni beni, come auto di lusso, ecc. per lasciar spazio a beni più indispensabili.
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Si consideri ora l’economia di Esteronia. Questa economia vende tutta la propria produzione
all’estero, e consuma solo prodotti stranieri. Assumiamo che c = 0,8; m = 0,1; E = 100. Il reddito
nazionale sarà: Y 
1
1
E
100  333,3 . Il saldo commerciale è:
1 c  m
1  0,8  0,1
E  M  E  mY  100  0,1 * 333,3  66,7 , dunque positivo. L’offerta di risparmio è
S  sY  0,2 * 333,3  66,7 , dunque pari al saldo estero. Come mai? Si ritorni alle relazioni di
contabilità nazionale, ed in particolare la relazione Sp + Sg – I = E - M (si veda l’appendice sulla
bilancia dei pagamenti). Nell’esempio per ipotesi I = 0 e Sg = 0. Si ha dunque Sp = 66,7 ed E – M
= 66,7, sicché l’equazione è verificata. Cosa significa? Il paese di Esteronia produce 333,3, ma ne
consuma solo l’80%. Infatti ne cede il 20%, cioè 66,7, all’estero. Nei fatti “presta all’estero” 66,7.
Nei termini della bilancia dei pagamenti questo risparmio, se non accumulato nelle riserve ufficiali,
dà luogo ad un movimento di capitali in uscita di 66,7.
Esercizi:
1. Perché le importazioni diventano più costose in seguito ad una svalutazione? Che effetti
ha questo sull’inflazione? E sulle partite correnti?
2. Si supponga: Y = 1000€, m = 0,2. Quanto devono essere le esportazioni affinché la
bilancia commerciale risulti in pareggio?
3. Supponete che Esteronia effettui una spesa pubblica G = 250. Se ricalcolate il reddito
nazionale, questo verrà di 1166,7. Constatate poi che le partite correnti (coincidenti qui
con la bilancia commerciale) sono in disavanzo (-16,6) e che l’offerta di risparmio
privato non è in grado di coprire il risparmio pubblico negativo (-250 di disavanzo
pubblico), sicché occorre un prestito estero di 16,6.
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4. Realismo politico e International Political Economy3
In questo capitolo esamineremo alcuni aspetti di due filoni di pensiero fra loro collegati e
particolarmente interessanti: Realismo politico ed Economia delle relazioni internazionali
(International Political Economy-IPE). Vedremo che alcuni autori ricollegano l’IPE non solo alla
tradizione del realismo politico, ma anche alla tradizione mercantilista e, per certi versi, a quella
marxista. Per altri autori, l’IPE trova i suoi fondamenti ideali nel pensiero economico-politico
liberale.
4.1. Introduzione
Il Realismo Politico (RI) è una tradizione di pensiero molto antica e, come vedremo assai
importante negli Stati Uniti. E’ fondamentale per comprendere l’Economia delle relazioni
internazionali (ERI), termine con cui traduco International Political Economy (IPE) che è una
filiazione della scienza delle Relazioni internazionali (RI).
Nell’accezione comune il termine “realismo” ha un connotato tendenzialmente conservatore:
“sii realista…”, e in politica si traduce in genere in una opposizione all’utopismo e in una difesa
dello status quo.4 Una interpretazione progressista del Realismo politico è quella che da un lato
riconosce le difficoltà del cambiamento, ma dall’altro stimola all’adozione di prassi che facciano
leva su fattori reali per mutare l’esistente nella direzione desiderata. E’ indubbio che il RP muova
da un giudizio pessimista sulla natura umana; tale constatazione può tuttavia essere circoscritta alla
sfera politico-storica e non costituire così un giudizio assoluto (Portinaio, : 30). In tale sfera l’agire
umano sarebbe guidato dal desiderio del potere, in sé e per i privilegi materiali e sociali che lo
accompagnano: “paura, utile e onore” sono i moventi dell’agire indicato da colui che è considerato
il primo grande realista politico, lo storico greco Tucidide; “paura, avarizia e ambizione” sono i
moventi suggeriti da Machiavelli, il secondo “padre nobile” del RP..
Una articolazione del RP è nelle RI. Il terzo padre nobile dell’RP, Thomas Hobbes, diede,
com’è noto, una risposta contrattualista alla questione dell’assetto presuntamene anarchico dei
rapporti sociali nelle “stato di natura” nel quale, secondo il famoso passo, la vita sarebbe stata
“short, brutish and nasty”. Lo Stato sarebbe logicamente sorto per por fine a tale situazione. Ciò non
appare tuttavia possibile a livello internazionale dove nessuno Stato sovrano accetterebbe di essere
3
Questi appunti vanno accompagnati allo studio di Sorensen oppure Mazzei, Marchetti, Petito come indicato
nel programma.
4
Albert Hirschman nota come il realismo entri fra le argomentazioni portate in difesa dello status quo per
dimostrare l’impossibilità, la dannosità se non l’inutilità del tentativo di cambiamento.
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subordinato a una autorità superiore – se non per brevi periodi e laddove conveniente. In questo
senso i RP reagiscono contro le posizioni utopistiche che guardano con speranza all’emergere di
autorità sopranazionali a cui gli Stati cederebbero porzioni di sovranità. Il RP sorge proprio come
conseguenza al fallimento di queste posizioni nei riguardi della Società delle Nazioni. Per il RP le
RI sono il regno per eccellenza dei rapporti anarchici. La lotta per il potere non assume in tale
ambito un connotato necessariamente aggressivo, ma anche solo quello, più limitato, di
sopravvivenza, di sicurezza.
L’IPE sorge da un tentativo di convergenza della scienza delle RI con la disciplina
dell’Economia internazionale. Dal lato degli scienziati politici molto influenti sembrano essere stati
i RP, mentre più tiepida sembra essere stata la partecipazione dal lato degli economisti, tranne
alcune notevolissime eccezioni (peraltro non dovute all’IPE). Per Robert Gilpin, uno degli scienziati
politici padri dell’IPE, quest’ultima disciplina consiste nella “reciprocal and dynamic interaction
…of the pursuit of wealth and the pursuit of power” (Gilpin, 1975: 43, cit. da Gilpin 1987: 11).
Ricchezza e potere sono anche i termini ricorrenti, seppure in maniera controversa, nella letteratura
mercantilista (Viner) che Gilpin individua come antesignana dell’IPE.
Passiamo ora in rassegna alcune antiche figure del RP.
4.2. Figure ed elementi del realismo politico
Tucidide
Tucidide viene considerato uno dei primi moderni scienziati nel senso che la sua
metodologia di analisi storica è basata sulla ricostruzione dei fatti, non sulla narrazione di gesta,
cercandone le cause profonde nel comportamento umano e non più nell’influenza divina. La sua
opinione della natura umana, immutabile, è pessimistica: paura, onore e utile come motivazioni
ultime dell’agire umano. La ricerca della sicurezza è il primo fattore esplicativo del comportamento
politico. In Tucidide c’è il dilemma della sicurezza: timore reciproco ed escalation di misure
difensive.
Le istituzioni possono contribuire a modificare il corso necessario degli eventi, a
stabilizzare l’incertezza, a domare le pulsioni autodistruttive dell’uomo (Portinaio 70). Ma il RP
non perde occasione per sottolineare la fragilità dei valori, delle norme, persino delle istituzioni
(71). Queste ultime sono robuste rispetto al conflitto interno, fragili rispetto a quello esterno.
Famoso in T. è il dialogo dei Melii. Durante la guerra fra Atene e Sparta nel V° secolo,
Atene cerca la sottomissione della città neutrale di Melos. Gli inviati di Atene espongono ai Melii
quello che è considerato il manifesto del RP: è inutile, cittadini di Melii, che adduciate argomenti
morali – ciò che è in assoluto bene o ciò che è in assoluto male, e la prepotenza del più forte è
certamente un male mentre il rispetto della dignità del più debole è un bene – per evitare il vostro
destino. Ciò che dovete considerare è la vostra sopravvivenza: “For you know as well as we do that
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right, as the world goes, is in question only between equal in power, while the strong do what they
can and the weak suffer what they must” (cit. Donnely 23). I vostri argomenti, continuano gli inviati
ateniesi (in altra occasione?), è inoltre piena di ipocrisia: usate argomenti moralistici perché siete
deboli, se foste al nostro posto vi comportereste come noi (24) (v. pure Portinaio p.36). Nell’agire
umano va infatti distinto ciò che si dice di voler fare e ciò che effettivamente si fa. La storia narra
che Melos rifiutò le profferte ateniesi e fu distrutta. Tucidide scopre dunque la dinamica
imperialista di potenza.
Machiavelli
Anche M. ha una bassa opinione dell’animo umano: “nel mondo non è se non vulgo” (76).
Data questa premessa, potere e sicurezza diventano di primaria importanza. In maniera simile a
Tucidide, in M. dominano paura, avarizia e ambizione. Dilemma fra gli oligarchi che vogliono
porre l’ordinamento giuridico a propria disposizione (sic) e il popolo che vorrebbe che esso si
ergesse a baluardo contro la prepotenza dei potenti (79). Per M. tale conflitto di obiettivi è tuttavia
positivo perché “tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascono dalla disunione loro”
(83).
La forza (il Leone) e l’astuzia (la Volpe) sono gli strumenti principali della politica estera. Il
valore che il Principe è tenuto a perseguire è l’indipendenza e in tal senso sua responsabilità è
assicurare la sopravvivenza – dunque gli interessi – del proprio Stato e dei propri cittadini. Agire
“eticamente”, anteponendo principi morali astratti agli interessi dei propri cittadini, sarebbe da
irresponsabili. V’è dunque un aspetto civicamente virtuoso nel cinismo machiavelliano: chi governa
deve essere Leone e Volpe perché da lui dipendono la sopravvivenza e la prosperità dei suoi
cittadini.
Thomas Hobbes (Leviatano 1951)
La sua visione matura sotto l’impressione della guerra civile inglese del 1640. Egli parte da
una concezione negativa per cui nello ‘stato di natura’ esso sarebbe guidato da “competition,
diffidence and glory” verso la sopraffazione del prossimo: persino “the weakest has strength enough
to kill the strongest, either by secret machination, or by confederacy with others” (cit. da Donelly,
p.14). In passi famosi Hobbes scrive che. “During the time men live without a common Power to
keep the all in awe (soggezione), they are in that condition which is called warre: and such a warre,
as is of everyman, against every man” e, conclude, “la vita dell’uomo sarà “solitary, poor, nasty,
brutish, and short” (ibid, 15).
Tale anarchia richiama dunque la necessità di una autorità superiore. A livello
internazionale, tuttavia, tale strada appare preclusa, sicché alla maggiore sicurezza interna si
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accompagna la formazione di una arena di potenziale discordia internazionale. 5 Si parla a tal
riguardo del “security dilemma” ma che sarebbe meglio definibile come “security paradox”: il
conseguimento della sicurezza personale e della sicurezza interna attraverso la creazione dello Stato
è inevitabilmente accompagnato dalla condizione di insicurezza nazionale e internazionale che
affonda le proprie radici nell’anarchia e nella sfiducia reciproca degli Stati (J.S. 75).
4.3. L’IPE nel racconto di Gilpin
Obiettivo tradizionale delle scienze delle RI erano i temi della diplomazia, organizzazioni
internazionali, pace, sicurezza ecc. Sfera politica e sfera economica restavano separate, anzi, la sfera
economica era trattata con una certa dose di sufficienza dalla “haut politique”. Sostiene per contro
Robert Gilpin (1987): “an understanding of the issues of trade, monetary affaire, and economic
development requires the interpretation of the theoretical insights of the disciplines of economic and
political sciences” 3. In particolare: “The parallel existence and natural interaction of ‘state’ and
‘market’ in the modern world create ‘political economy’; without both state and market there could
be no political economy” 8.
Gilpin individua tre tradizioni di pensiero all’origine dell’IPE.
Tradizione liberale: “ Economic liberals believe that the benefits of an international division
of labor based on the principle of comparative advantage cause markets to arise spontaneously and
foster harmony among the states; they also believe that expanding webs of economic
interdependence create he basis for peace and cooperation in the competitive and anarchic state
system” (12-13)
Tradizione nazionalista: “Economic nationalists… stress the role of power in the rise of a
market and the conflictual nature of international economic relations; they argue that economic
interdependences must have a political foundation and that it (?) creates yet another arena of
interstate conflict, increases national vulnerability, and constitutes a mechanism that one society can
employ to dominate another” 13. Tale tradizione ha, secondo Gilpin, mutato nome nella storia:
mercantilismo, statismo, protezionismo, scuola storica tedesca ecc.
Tradizione marxista: i marxisti sostengono che le RI sono terreno di conflitto fra potenze
imperiali o fra paesi ricchi/capitalistici che cooperano fra loro per sfruttare i paesi più poveri.
La tradizione liberale e marxista tendono a vedere nel commercio internazionale (CI) un
motore di crescita (liberali) o di diffusione modernizzatrice del capitalismo (marxisti).14 I
nazionalisti danno un giudizio più cauto sul CI che può danneggiare un paese a vantaggio di altri
più forti.14
5
Anche qui la teoria, RI, RP o IPE, dovrebbe però spiegarci perché dovrebbe tale discordia sorgere. La teoria
armonica del commercio internazionale, ricardiana o neoclassica, sembrerebbe condurci alla negazione del
conflitto potenziale.
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Conclude Gilpin: “Although my values are those of liberalism, the world in which we live is
one best described by the ideas of economic nationalism and occasionally by those of marxism as
well”25. Parole di un vero RP!
I tre approcci si caratterizzano per differenti concezioni nella relazione fra stato, società
civile, mercato. I nazionalisti vedono un primato della politica sull’economia. I liberali vedono
politica ed economia come sfere separate. 26 Per i marxisti sono le ragioni dell’economia a guidare
quelle della politica. 26. In particolare:
“liberals believe that trade and economic intercourse are a source of peaceful relations
among nations. Because of their mutual benefits of trade and expanding interdependence among
national economies will tend to foster cooperative relations. Whereas politics tends to divide,
economics tends to unite people 31.
Dobbiamo dunque notare la centralità del teorema dei vantaggi comparati per i liberali, e il
conseguente rigetto della tesi mercantilista del commercio come gioco a somma zero (per cui il
vantaggio per uno stato implica la perdita per un altro stato). Naturalmente i liberisti ammettono un
ruolo dello Stato nella definizione della cornice giuridica entro cui si deve svolgere il commercio, in
particolare con riguardo alla protezione dei diritti di proprietà (moderno filone neo-istituzionalista:
Douglas North).
Per i nazionalisti, invece, “economic activities are and should be subordinate to the goal of
state building and the interest of the State”. Obiettivo dei nazionalisti è l’industrializzazione. Qui
Gilpin richiama Alexander Hamilton: “not only the wealth but the independence and security of a
country appear to be materially connected to the prosperity of manufactures”. Inoltre le regole
economiche internazionali sono arbitrariamente fissate e successivamente mutate a piacere delle
potenze dominanti: “nations continually try to change the rules or regimes governing international
economic relations in order to benefit themselves disproportionally with respect to other economic
powers” 33. Il legame della prospettiva nazionalista con il mercantilismo è evidente. Il
mercantilismo è trattato altrove in queste lezioni.
Per i marxisti gli interessi degli stati riflettono quelli delle rispettive borghesie, e il conflitto
fra gli stati va dunque visto come un conflitto fra le borghesie nazionali.
4.4. Analisi e comparazione delle tre prospettive in Gilpin
Secondo Gilpin RP e nazionalismo economico (NE) sono due faccie di una medesima
medaglia: “economic nationalism is based on a realist doctrine of international relations” 43? Vi è
invece differenza fra nazionalismo (e RP) e marxismo: per il marxismo la natura umana è corrotta
dal capitalismo e perfettibile col socialismo; quest’ultimo porterà anche armonia fra gli stati
abolendo lo sfruttamento fra questi. Per il nazionalismo economico (e il RP) il conflitto politico
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deriva da caratteristiche immutabili della natura umana; le RI sono oggettivamente conflittuali data
la natura anarchica delle relazioni fra stati sovrani.
Gilpin è anche critico del liberismo (44), ma la critica è quella standard all’idea di
assunzioni irrealistiche (concorrenza perfetta, informazione completa ecc) che altrove nelle lezioni
giudicheremo una critica superficiale. Spesso infatti queste assunzioni sono mere semplificazioni
che la teoria (come ogni teoria) adotta, per cui la critica deve essere alla teoria stessa, non alle
semplificazioni procedurali.
Gilpin giudica come punti di forza del NE il focus sullo Stato come attore predominnate
nelle RI e strumento dello sviluppo economico; l’importanza attribuita alla sicurezza e all’interesse
nazionale nelle RI, pena la perdita di sovranità, attributo insopprimibile di uno Stato; importanza
della sicurezza politica per le attività economiche: “as Carr has argued, every economic system
must rest on a secure political base” (47). Fra le debolezze enumera: l’idea del gioco a somma zero
nelle RI, mentre andrebbero riconosciuti dei vantaggi reciproci dalla cooperazione; lo spreco di
risorse per la difesa, un caso in cui il perseguimento della ricchezza e della potenza possono
configgere – si tratta tuttavia di una posizione non keynesiana.6 Manca inoltre una analisi della
società domestica: “it is assumed that society and the State form a unitary identità and that foreign
policy is determined by objective national interest”48. In realtà “foreign policy (including foreign
economic policy) is in large measure the outcome of the conflicts among dominant groups within
each society”48. Al riguardo Gilpin porta come esempio il danno che il protezionismo richiesto dai
produttori areca ai consumatori, sorprendentemente trascurando sia l’argomento della infant
industry (di cui è scettico 49), che i vantaggi che derivano ai lavoratori che non perdono il posto di
lavoro e all’economia nazionale che comunque predice all’interno ciò che avrebbe altrimenti dovuto
importare. Come argomenteremo, purtroppo l’IPE conosce solo l’economia neoclassica, e
comunque ne subisce, per così dire, l’egemonia. Gilpin argomenta così che il NE è sia una teoria
dello “State building”, come riteneva la scuola storica tedesca, ma anche una analisi della
formazione delle coalizioni di interessi all’interno di un paese. Sebbene in maniera non del tutto
convincente, Gilpin mette in luce un punto rilevante: come possa essere fuorviante parlare di
interesse nazionale tout court, in quanto questo può essere in verità l’interesse di una coalizione
vincente.
6
Per la teoria keynesiana “burro e cannoni” non sono obiettivi configgenti, si possono avere più burro e più
cannoni allo stesso tempo, anzi l’obiettivo di più cannoni consente quello di più burro. Vedi la trattazione di
Kalecki altrove in queste lezioni. Un caso in cui l’acquisto di armamenti può configgere con l’obiettivo
economico è quello in cui essi sono importati con spreco di valuta pregiata altrimenti utilizzabile per
importare tecnologia produttiva incorporata in attrezzature o scorporata (brevetti, licenze, know-how).
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Per approfondire
Cesaratto S. (2013). Harmonic and Conflict Views in International Economic Relations: a Sraffian
view. Forthcoming in Levrero E.S., Palumbo A. and Stirati A., Sraffa and the
Reconstruction of Economic Theory, vol. II, Aggregate Demand, Policy Analysis and
Growth, Palgrave Macmillan, 2013. Working paper version available at: http://www.econpol.unisi.it/dipartimento/it/node/1693
Benjamin J.Cohen, International Political Economy: An Intellectual History, Princeton University
Press, Princeton, 2008, in Studi e note di economia, 2009.
J. Sorensen, Relazioni internazionali, Egea 2007
Mazzei, Marchetti, Petito, Manuale di politica internazionale, Egea, 2010
P.P.Portinaro, Il realismo politico, Laterza.
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Capitolo 5
Origini della crisi europea, cambi fissi, movimenti di capitale e crisi finanziarie
In questo capitolo dapprima esamineremo le origini della crisi europea sulla base di due rapporti
della Commissione Europea. Successivamente confronteremo le caratteristiche di tale crisi con altre
crisi accadute innumerevoli volte in circostanze simili. Tali circostanze possono essere riassunte
nell’adozione da parte di paesi periferici di forme di cambi fissi e di liberalizzazione dei movimenti
di capitale (si rammenti il triangolo sopra esaminato che mostrava cambi fissi associati a
liberalizzazione finanziaria come incompatibili con la stabilità finanziaria).
Cominceremo con la crisi europea, da un paio di rapporti della Direzione per gli affari
economici e finanziari della Commissione Europea (European Commission 2009, 2010) che
forniscono un quadro ben documentato e condivisibile della genesi degli squilibri europei, sia
commerciali che nei bilanci interni dei settori pubblici e privati, nel periodo 1999-2009.
Dimostreremo poi, seguendo l’analisi di un noto economista argentino, Roberto Frenkel, la
similarità di questa crisi con quelle vissute da numerosi paesi emergenti nelle scorse decadi.
5.1. Lo sviluppo della crisi europea
5.1.1. Sintesi interpretativa7
Sebbene, come per le famiglie infelici di Anna Karenina ogni paese fa caso a sé, in sintesi il quadro
interpretativo che si può trarre dai rapporti sembra il seguente. Tassi di cambio fissi,
liberalizzazione dei movimenti di capitale e tassi di interesse nominali relativamente bassi generano
un più agevole accesso ai flussi finanziari esteri a favore di alcune economie periferiche –
principalmente Spagna, Irlanda e Grecia. Questo non sorprende. La scomparsa del rischio di cambio
rende infatti più agevole ai soggetti di questi paesi periferici di indebitarsi presso paesi core, e
viceversa a istituzioni dei paesi core di prestare ai paesi periferici. In tal modo questi ultimi passano
da una situazione in cui il credito al settore privato è relativamente ristretto- si può supporre in
maniera da mantenere le partite correnti in equilibrio – a una in cui esso è disponibile a più buon
mercato (sebbene a tassi più alti di quelli dei paesi core che sono così incentivati a concedere
credito). La disponibilità di credito esterno fa ritenere che un disequilibrio delle partite correnti non
sia più un problema.
L’afflusso di finanziamenti determina una crescita superiore alla media dell’Eurozona (EZ)
della domanda interna del gruppo di questi paesi, guidata soprattutto da una bolla nel settore
7
Le prime sei sezioni sono state scritte nella primavera del 2010.
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immobiliare e dal settore pubblico in Grecia. Data la robusta crescita, l’aumento dei salari nominali
è anch’esso superiore alla media dell’EZ conseguenza dell’accresciuta domanda di lavoro. La
maggiore inflazione che ne consegue fa diminuire i tassi di interesse reali che in tal modo stimolano
l’indebitamento. Da un lato l’aumento del reddito pro-capite dà la sensazione di un apparente
processo di “catching up” di questi paesi verso quelli più avanzati del gruppo. Dall’altro, tuttavia, la
crescita dei salari nominali e il fatto che il tipo di crescita in atto – basata su consumi ed edilizia –
non è certo tale da dar luogo a significativi aumenti di produttività, generano una perdita di
competitività. Il disposto combinato di una crescita superiore alla media delle importazioni, e
inferiore alla media delle esportazioni, genera persistenti disavanzi commerciali e un progressivo
peggioramento della posizione finanziaria netta sull’estero di questi paesi. Nel caso italiano la
debolezza della domanda interna compensa la debole performance delle esportazioni, che soffrono
moltissimo della perdita di competitività di prezzo, sicché le partite correnti non peggiorano
significativamente. Sebbene le famiglie felici dovrebbero assomigliarsi, anche nel caso dei paesi in
avanzo (Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia) ciascun paese fa storia a sé. 8 Ci concentreremo
dunque sulla Germania. In maniera simmetrica ai paesi in disavanzo corrente, quest’ultimo paese
vede una strutturale debolezza della domanda interna dovuta principalmente alla debole dinamica
dei salari nominali anche a seguito di importanti riforme del mercato del lavoro e, in associazione
alla debole dinamica dei prezzi interni, ai tassi reali di interesse relativamente elevati.9 Anche qui il
combinato disposto dei guadagni di competitività, che genera una dinamica delle esportazioni
superiore alla media, e della debole dinamica delle importazioni, genera persistenti avanzi della
bilancia commerciale verso l’area europea.
A differenza delle esperienze di passati episodi di squilibri commerciali relativi alle decadi
1970 e 1980, ciò che caratterizza quelli attuali è la loro persistenza (European Commission 2009:
19). E’ evidente come la differenza sia costituita dalla possibilità di riallineamenti dei tassi di
cambio nominali, possibile allora e impossibile oggi. Anche la dimensione dei disavanzi di parte
8
Meritevoli di approfondimento futuro sono i casi dei Paesi Bassi, i quali perdono competitività pur
mostrando avanzi di partire correnti, e della Polonia, che è fuori dell’UME, lodata per aver
mantenuto tassi di crescita positivi negli ultimi due difficili anni, forse non causalmente
accompagnati da una svalutazione del 40% della moneta
9
Come segnalava De Cecco “grazie ad un deciso intervento delle autorità pubbliche, d' accordo e in
collaborazione con la leadership industriale del paese, … la Germania sta compiendo, a modo suo, e
cioè silenziosamente e gradualmente, ma inesorabilmente, quell' adeguamento della sua gigantesca
struttura industriale alle innovazioni scientifiche degli ultimi decenni”, tutto questo “mentre i prefati
guru angloamericani e i loro scimmiotti nostrani dicono peste e corna della ‘politica industriale’”
(Affari & Finanza, 11 giugno 2007).
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corrente rispetto al GDP appare cospicua confrontata con altri paesi in disavanzo come gli USA,
Australia e Nuova Zelanda (ibid: 22).
Allo scopo di esaminare in dettaglio i dati presentati dai due rapporti, ordiniamo in uno
schema a freccette gli elementi dello schema interpretativo, valido, mutatis mutandis, sia per i paesi
in disavanzo che per quelli in surplus.
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Politica monetaria europea (BCE)
Tassi di interesse reali
Prezzi
Politica fiscale (nazionale)
Domanda domestica (crescita)
Importazioni
Saldo partite correnti10
Salari nominali (reali)
Tasso di cambio reale
Esportazioni
Produttività
Domanda esterna
Posizione netta sull’estero
5.1.2. Esame dei dati: l’andamento divergente delle partite correnti
La figura 1 confronta il saldo delle partite correnti nell’area dell’Euro 1998-2007 (in % del Pil). 11
Si vede il netto peggioramento per un cospicuo gruppo di paesi a fronte degli avanzi maturati per un
più piccolo gruppo, in particolare Germania e Olanda.12
10
Dovremmo specificate ‘saldo commerciale’, ma i dati dei rapporti UE si riferiscono ai saldi
correnti, forse per tener conto dei redditi netti dall’estero che conseguono dalla posizione netta
sull’estero del paese.
11
12
In calce a queste note v’è la lista delle abbreviazioni-paese.
Il rapporto 2009 considera il periodo 1999-2008 mentre quello 2010 il periodo 1998-2007. Nel
rapporto più recente si intende probabilmente sottolineare gli squilibri maturati in anni più
“normali”, mentre la crisi esplosa nel 2008 ha portato a una leggera correzione degli squilibri che
non è tuttavia di natura strutturale. Poiché le differenze non sono così significative, consideriamo in
genere il periodo 1999-2008 in quanto i grafici ci sembrano più chiari.
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Figura 1 – Current account positions, euro-area Member States (in % of GDP – 1999 to
2008)
La simmetria fra i paesi in avanzo e quelli in disavanzo è mostrata dalla figura 2:
Figura 2 – Current account positions, euro-area surplus and deficit countries (1991-2010,
in % of GDP)(1)
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Le due determinanti prossime del saldo corrente sono il tasso di cambio reale, che influenza
esportazioni e importazioni, e la domanda, domestica - che governa le importazioni, ed esterna –
che influenza le esportazioni. Significativamente i rapporti considerano il primo fattore (dal lato
dell’offerta, per così dire) meno importante del secondo (il lato della domanda). Cominciamo
dunque col primo fattore.
Le due tavole successive mostrano sia dati più aggiornati sugli squilibri correnti (di flusso)
che quelli relativi alla posizione netta sull’estero (stock). Come si vede il peggioramento degli
equilibri esterni per il nostro paese è stato assai più contenuto rispetto ai paesi più propriamente
periferici. Ciò è stato dovuto alla contenuta crescita della domanda interna in Italia rispetto a qui
paesi. Il miglioramento delle partite correnti che si realizza da 2008-2009 è dovuto principalmente
alle misure di austerità che i paesi periferici hanno adottato, dunque alla contrazione delle
importazioni.
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5.1.3. Il lato dell’offerta
L’indicatore di competitività utilizzato nei rapporti è il tasso di cambio reale (Real effective
exchange rate-REER o Trade-weighted currency index) definito come REER 
ePd
, dove Pd
Pe
indica i prezzi interni e Pe i prezzi esteri pesati secondo l’importanza relativa di ciascun partner nel
commercio estero del paese esaminato. Ovviamente, qualora si esaminino esclusivamente paesi
dell’area dell’Euro, e  1 .
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La figura 3 mostra il differenziale di competitività fra la Germania e gran parte degli altri
partner accumulatosi dalla creazione dell’UME. Tale divario non è episodico, vale per qualunque
deflatore di prezzo impiegato,13 e riguarda sia il mercato infra-area che quello esterno (European
Commission 2009: 19; 2010: 7).
13
I possibili deflatori (o indice dei prezzi) impiegati sono: prezzi al consumo, deflatore del Pil,
deflatore dei beni e servizi esportati, costo del lavoro per unità prodotta, costo del lavoro per unità
prodotta nel settore manifatturiero.
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Figura 3 - Changes in REER (intra and total), euro-area Member States (in % - 1998 to 2008)
La competitività di prezzo, indicata dai mutamenti del REER, è il fattore principale nello
spiegare il mutamento delle quote di mercato, come mostra la figura 4.
Figura 4 – Price competitiveness and market shares, euro-area countries (average annual
% change, REER based on export prices, 1999-2008)
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D’altro canto, il mutamento delle quote di mercato è associato ai tassi di crescita delle
esportazioni: i paesi in avanzo mostrano tassi di crescita delle esportazioni e, associato a ciò,
guadagni di quote di mercato superiori dei paesi in disavanzo, come mostra la figura 5:
Figura 5 – Market shares and export growth, euro-area countries
Nel complesso, solo il 40% delle differenze nelle variazioni delle quote di mercato
sarebbero però spiegate dai mutamenti del REER (European Commission 2010: 24). Fattori non di
prezzo sono anche rilevanti. L’importanza di questi fattori muta a seconda dei paesi, com’è ben
noto: per esempio la competitività di prezzo è più importante per l’Italia e meno per la Germania.
Per tutti i paesi, è in realtà la domanda la principale determinante della crescita delle esportazioni,
ma, data quest’ultima, la competitività di prezzo e la tecnologia fanno la differenza. La tabella 1 –
dove sono stimate le cosiddette “export demand equations” - mostra che se la competitività reale
dell’Italia fosse evoluta in linea con quella tedesca, le esportazioni italiane sarebbero anche
cresciute in linea con quelle tedesche.
Tabella 1 – Contribution of trade determinants to export growth, euro-area Member States
(1999-2008, average annual growth in %)
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L’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è alle spalle del divergente
andamento del REER. La figura 6 mostra come la variazione media annuale del Clup (nominal unit
labour costs) sul periodo 1999-2008 vada dallo 0,4% della Germania, a oltre il 2,5% in Italia e
Spagna. Tradotto in termini di REER calcolato utilizzando il Clup, si tratta di un deprezzamento
reale cumulato della Germania dell’ordine del 15% a fronte di un apprezzamento per gli altri del 1015% (European Commission 2010: 24). Ciò che è interessante è lo sganciamento in Germania della
dinamica del costo del lavoro dal ciclo: “The decline in unit labour costs in Germany which prevale
in 1999-03 continued its downward path during the 2004-08 period, due to persistent wage
moderation in spite of an improvement in the country’s cyclical position relative to the rest of the
euro area” (European Commission 2009: 25).
Figura 6 – Compensation per employee, labour productivity and nominal unit labour costs
(1999-2008) (average annual changes in %)
5.1.4. Il lato della domanda
L’andamento divergente nelle partite correnti è tuttavia attributo in “larga misura” alle
“considerevoli e persistenti differenze nella forza della domanda interna fra i paesi membri”
(European Commission 2010: 8), come rivela la figura 7:
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Figura 7 – Domestic demand and the current account, euro-area Member States (19982008)
Al riguardo, il rapporto (2009: 26-7) commenta: “According to conventional wisdom,
external factors such as price competitiveness are seen as major drivers of current accounts.
However, a large part of the divergence in the current account in the euro area since late 1990s can
be traced back to domestic demand…Stronger relative demand pressure in a Member State will tend
to fuel import demand and depress the current account …The analysis suggests that changes in
domestic demand could account for as much as 40-50% of the differences in current accounts
observed in the euro-area since the launch of the euro”. Quello che i rapporti sembrano suggerire è
che gli effetti del diverso andamento della domanda interna si siano fatti sentire con riguardo alle
importazioni (deboli nei paesi in avanzo, forti nei paesi in disavanzo), piuttosto che alle esportazioni
(forti nei paesi in avanzo, ma non necessariamente deboli nei paesi in disavanzo), dunque
un'asimmetria fra paesi che esportano molto e importano poco e paesi che magari esportano molto,
ma importano ancor di più.14 Al riguardo alla figura 8 mostra una debole correlazione
( R 2  0.14) fra la dinamica delle esportazioni e il disavanzo corrente:
14
L’Italia pare assomigliare alla Germania per la scarsa dinamica delle importazioni, ma non le
somiglia più per la dinamica delle esportazioni.
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Figura 8 – Exports and the current account, euro-area Member States (1998-2008)
La principale spiegazione della divergenza nei saldi correnti andrebbe dunque ricercata,
secondo i rapporti, dal lato della divergenza negli andamenti della domanda interna a ciascun paese
e della conseguente dinamica delle importazioni: nei paesi in avanzo“[the w]eakness in domestic
demand has been the central driver of the downshift in imports and increasing current account
surpluses” (European Commission 2010: 18). Poiché in una regione chiusa le esportazioni di un
paese sono le importazioni di un altro, un'idea di come può sorgere l'asimmetria può essere fornita
dalle relazioni Spagna-Germania. Nel 2007 (Eurostat 2009) le esportazioni spagnole verso la
Germania contavano per il 14,4% sul totale delle esportazioni spagnole, mentre le importazioni
dalla Germania per il 23% sul complesso delle importazioni (e così il disavanzo verso la Germania
pesava per il 49,3% sul totale).15 Si può dire cioè che la relativa buona performance esportatrice
della Spagna si rivolge verso mercati differenti dalla Germania, mentre quest’ultima trova un
importante mercato nella Spagna.
Il rapporto (2009: 27) suggerisce inoltre una particolare scansione temporale per alcuni
paesi, segnatamente Spagna e Grecia: “the deterioration in current accounts in the late 1990s
preceded – rather than follone – a deterioration in exports performance by several years. This
suggest a pattern where strong domestic demand first drives the current account down and is
associated with a progressive weakening of competitiveness, which later weighs on export
performance”. Si osservi come la maggior crescita relativa della domanda interna induce da un lato
un aumento delle importazioni, e generando una perdita di competitività di prezzo in seguito alla
15
Le esportazioni tedesche verso la Spagna rappresentavano il 7,7% del totale, e le importazioni il
4,4%, con un avanzo verso la Spagna pari al 21,1% dell’avanzo tedesco complessivo.
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più veloce dinamica di salari nominali e prezzi, una minor crescita delle esportazioni. In un certo
senso, dei due fattori causativi dei disavanzi (avanzi) correnti ne rimane uno solo: l’andamento della
domanda interna.
L’accesso al mercato internazionale dei capitali, a tassi più favorevoli in seguito all’adesione
all’UME, ha determinato bolle immobiliari in taluni paesi, e un aumento della spesa pubblica in
altri. La più elevata inflazione, conducendo tassi reali più bassi, ha a sua volta costituito uno stimolo
all’indebitamento. La figura 9 mostra la correlazione ( R 2  0.51) fra variazione del prezzo delle
abitazioni e disavanzi correnti nel periodo in esame:
Figura 9 – Changes in real house prices and current accounts, euro-area Member States
(1999-2007)
Così “[h]ousing markets have played a pivotal role in the divergence of external positions
across eur-area …over the past decade.” (2010, p.11).
Un secondo elemento influenza la domanda interna dei paesi: la distribuzione del reddito. Al
riguardo, segnala il rapporto (2010: 19) “the share of wages [in GDP] has been falling significantly
in the euro area as a whole. However, the fall has been more marked in Germany and Austria than
in the euro area as a whole…Wage share developments are broadly in line with disposable income
developments which, in turn, have led to weak consumption and domestic demand thereby resulting
into current account surpluses”. In aggiunta sarebbe aumentata la propensione al risparmio delle
famiglie tedesche, fra l’altro intimorite dal problema pensionistico. Il grosso del risparmio tedesco
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appare tuttavia dovuto al settore delle imprese, e ciò è attribuito, oltre a una debole dinamica degli
investimenti, proprio alla debole dinamica salariale e dunque agli elevati profitti: “the greatest lever
to increase savings in the corporate sector is via moderate wage compensation” (ibid).
Richiamandosi a Kalecki, si potrebbe affermare che la moderazione salariale si è tradotta in
un elevato ammontare di profitti che hanno trovato realizzazione (nel senso della realizzazione del
sovrappiù di Marx) in un avanzo commerciale (contabilmente pari al risparmio nazionale).16
Il settore pubblico è un’altra determinante della domanda interna. I rapporti non
approfondiscono particolarmente questo aspetto. Nei riguardi dei paesi in avanzo corrente rilevano
tuttavia che il bilancio pubblico è stato impiegato in maniera anti-ciclica: nella fase bassa del ciclo
2000-2003 i disavanzi di questi paesi si sono ampliati, mentre con la ripresa delle esportazioni nel
periodo 2004-2007 vi è una riduzione dei disavanzi, anche dovuta alle maggiori entrate fiscali sui
profitti realizzati dalle esportazioni (“The increasing fiscal consolidation can be linked to the world
trade boom as rising exports meant higher sales and greater corporate profitability, leading to
buoyant (corporate) tax revenues” (European Commission 2010: 20, fn 19). Non v’è invece
un'analisi della politica fiscale nei paesi in disavanzo.
5.1.5. Flussi di capitale, crescita e partite correnti: è sbagliata la realtà o la teoria?
“Thanks to the euro and the EU financial integration – afferma il rapporto (2009: 34) -,
converging economies in the euro area generally benefited from large capital inflows over the past
decade”. Secondo la teoria convenzionale i disavanzi correnti nei paesi in corso di “catching up”
sono un fatto naturale: i capitali muoverebbero dai paesi avanzati, dove v’è un elevato rapporto
capitale-lavoro e un basso rendimento marginale del capitale, verso i paesi inseguitori dove v’è la
situazione opposta (per esempio Blanchard e Giavazzi 2002). Le attese di crescita renderebbero
persino razionale per le famiglie indebitarsi ora, potendo restituire il debito quando i redditi procapite saranno più elevati, il cosiddetto “consumption smoothing” (European Commission 2009:
28). Peccato tuttavia che, così prosegue la citazione, “foreign capital was not always channelled to
the most productive uses and therefore not always very conducive to growth… Consumption
obviously has no impact on production potential”. Così “[t]he estimates suggests that the euro has
allowed catching-up Member States to tap International capital market more successfully… In most
catching-up Member States, the ensuing reduction in interest rates entailed an economic boom
16
Si supponga che i lavoratori consumino tutto il monte salari W e i capitalisti risparmino tutti i
loro profitti P, dunque: C = W, Y – W = P = S, si ottiene che: Y = C + I + (X – M) = W + I + (X –
M), ovvero:Y – W = P = S = I + (X – M) . V. per esempio Kalecki (1971).
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driven by buoyant domestic demand. Demand pressures led to the emergence of significant current
account deficits alongside increased inflation pressures. In addition, the financial integration effect
of the euro was reinforced by diverging inflation and real interest rates. Indeed, the booming
economies of the euro area received further stimulus as their above-average inflation rate led to
lower interest rates in the face of virtually identical nominal interest rates across the euro area. The
combination of further demand stimuli from falling real interest rates and the progressive
appreciation of the real exchange rate fostered further increases inn the current account deficit.
Conversely, countries with below-average inflation rates, in particularly Germany, faced relatively
high interest rates. High real interest rates reduced domestic demand and imports while gains in
competitiveness enhanced the export performance, with both effects driving the current account
upwards” (European Commission 2009: 31).
Spesso si fa moralismo da parte degli economisti conformisti circa la presunta dissipazione
di risorse da parte dei paesi che hanno ricevuto flussi esterni di capitale. 17 Ma sembrerebbe la teoria
ad essere errata: l’idea che qualcosa chiamato produttività marginale del capitale sarebbe più
elevata nei paesi inseguitori, in cui v’è un rapporto relativamente più basso capitale-lavoro,
attirando capitali dai paesi avanzati non ha solidi fondamenti teorici. La storia di decine di casi di
liberalizzazioni finanziarie nei PVS ci ha inoltre insegnato che le liberalizzazioni finanziarie non
hanno mai costituito la via dell’industrializzazione, e anzi hanno messo in crisi processi di crescita
ben avviati in un contesto di “repressione finanziaria” come ben illustra la crisi asiatica del 1997-98.
In questa luce, il fatto che dal combinato disposto del quadro economico dell’area euro quale
descritto nei paragrafi precedenti dovesse scaturire una situazione quale quella greca non sorprende.
Le similitudini con la vicenda del “currency board” argentino sono sorprendenti: perdita di
17
Un esempio per tutti è l’economista tedesco Michael Hüther nel dibattito ospitato dall’Economist
sul tema se la Germania fosse troppo dipendente dalle esportazioni per la sua crescita. Al moralismo
di Hüther, l’economista tedesco Heiner Flassbeck (ex consigliere di Lafontaine e ora all’Unctad)
che gli si contrapponeva, ha così risposto: “A similar reasoning holds regarding Mr Hüther's (and
the European Commission's recent) saving-investment philosophy. I am asking myself why
Germany is fighting like a Cerberus to generate current-account surpluses and avoid a currentaccount deficit for the last 50 years if such a deficit means ‘to import capital and thus to create a
potential for investment, so that opportunities for more growth and employment occur’. Who would
doubt that Germany, in contrast to these lazy Mediterranean people, would be able to put the
imported capital to productive use? On the other hand, why has East Germany, the region with the
highest current-account deficit in the world, not managed to use the imported capital productively?
Lesson: do not try to interpret identities in a causal way”. La risposta è impeccabile analiticamente e
nel richiamare il fallimento “in casa” dei tedeschi nello sviluppo della Germania dell’est, che
certamente ha ricevuto fiumi di capitali. Nelle votazioni la posizione di Hüther ha prevalso (col
60% dei voti). Ciò non sorprende, conformismo e moralismo non richiedono grandi fatiche mentali,
e il moralismo soddisfa certi nostri sentimenti più bassi.
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competitività delle esportazioni e bolla dei consumi, tranne che ora per la Grecia una svalutazione
per uscirne sarebbe un evento più complicato (Boone e Johnson 2010). Gli apprendisti stregoni
dell’UME, così come è stata concepita, hanno di che meditare.
5.1.6. Il ruolo della Germania
La tesi tedesca in difesa delle proprie politiche salariali restrittive, a parte le retoriche
moralistiche, si riferisce alla necessità di recuperare la competitività che il paese avrebbe perduto
nell’ultimo decennio pre-euro e che, comunque, essa sarebbe entrata nell’euro con un cambio
sopravalutato (si veda per esempio l’economista Hüther sull’Economist 2010). Un altro economista
tedesco, Flassbeck, ribatte tuttavia segnalando un “overshooting”, nel senso che se la moderazione
salariale doveva servire a recuperare uno svantaggio, ebbene essa ha comunque finito per
determinare un marcato vantaggio assoluto per la Germania. Si può aggiungere che non v’è nulla di
sbagliato se il paese più competitivo entra in un accordo di cambio a una parità sopravvalutata,
dando tempo ai partner di adeguare la propria competitività. Flassbeck segnala invece la violazione
dei “patti impliciti” europei da parte della Germania: laddove questi prescrivevano un obiettivo
comune di inflazione del 2%, la Germania avrebbe perseguito una inflazione al di sotto di tale
soglia “by means of politically induced wage dumping.”18 E’ naturalmente opinabile che vi fosse
tale patto implicito. Certo il “fine tuning” della Germania ricorda quanto il padre del miracolo
economico tedesco, il ministro delle finanze e poi cancelliere Erhard ebbe a dichiarare nel 1951 in
una fase di ripresa internazionale e regime di cambi fissi: “A great opportunity for the future of
German exports has arisen out of the current situation. If, namely, through internal discipline we are
able to maintain the price level to a greater extent than other countries, our exports strength will
increase in the long run and our currency will become stronger and more healthy, both internally
and with respect to the dollar” (citato da Holtfrerich, 1999: 345). E così il PresidenteVocke della
Bank deutscher Lander (la banca centrale tedesca si chiamava così allora), ispiratore di questa
politica, ebbe a dichiarare nel 1951: “you will see, with satisfaction, that we have consistently
remained below them [the other countries’ inflation rate]. And this is our chance, that is decisive,
for our currency and especially for our exports. Raising exports is vital for us, and this in turn
depends maintaining a relative low price level and wage level …As I have said, keeping the price
level below that in other countries is the focal point of our efforts at the central bank, and it is a
success of those efforts. That should be born in mind by those who say to us: your restrictive
measures are too tight, are no longer necessary” (ibid). Questa istanza di politica economica è stata
18
“With an inflation target of close to 2% (in EMU established by a decision of the ECB) the
implicit contract is that nominal wages do not raise more than national productivity growth plus
2%”.
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definita “mercantilismo monetario” (o “mercantilismo monetarista”, Holtfrerich 2008: 45).19 La
pressione politica sui sindacati e l’opinione pubblica, assieme a politiche sociali volte a creare
consenso lungo le linee dell’economia sociale di mercato, è stato un elemento aggiuntivo della
politica economica tedesca volta a mantenere la propria competitività.
La soluzione ragionevole agli squilibri regionali suggerita da molti è che la Germania
sostenga di più la domanda interna fondamentalmente attraverso una più vivace dinamica salariale.
Tuttavia non v’è molto da attendersi in questa direzione. La Germania guarda ben oltre i decadenti
confini europei, alla sfida delle potenze economiche emergenti.20 A questo scopo essa non rinuncerà
mai all’accoppiata vincente fra stabilità interna e competitività esterna. 21
5.2. La similarità della crisi europea con le precedenti crisi finanziarie
La crisi europea presenta della profonde similarità con le sequenze con cui si sono
sviluppate le crisi finanziarie dei paesi periferici emergenti nei decenni precedenti. Frenkel &
Rapetti (2009: 688-91) ben riassumono le caratteristiche di quelle crisi finanziarie. La studentessa
faccia lo sforzo di riconoscervi gli accadimenti europei illustrati nei paragrafi precedenti.
“A distinguishing characteristic of these crises, however, is that the booming phase began not with
innovations within the financial markets, but with the implementation of macroeconomic policies
that gave rise to a profitable environment for financial arbitrage between domestic and foreign
assets. These policies typically included the liberalisation of the domestic financial market, the
deregulation of the capital account, and some ‘credible’ rule of nominal exchange rate
predetermination (Frenkel, 2003). The prototypical boom-and-bust cycle resulting from that
macroeconomic configuration is described as follows.
19
Holtfrerich è uno dei maggiori storici economici tedeschi; la sua tesi circa il “mercantilismo
monetario” è espresso anche in Holtfrerich (1999) nel volume celebrativo della Bundesbank sui 50
anni del marco.
20
Come è stato notato: “And before anyone complains that the Germans are too dependent on
exports to the South of Europe to do anything which makes selling these more difficult, please
consider that domestic demand growth in all four Southern European members of the Eurozone is
expected to be extremely weak over the next decade, while growth in emerging markets like India,
China, Brazil and Indonesia is predicted to be massive. The markets are moving, so why not move
with them?” (Hugh 2010).
21
Al riguardo del modello tedesco De Cecco ha osservato: “Questi sono i problemi dell' economia
tedesca da più di un secolo: perché da tanto dura il modello di sviluppo introdotto dai prussiani
dopo il 1870 e arrivato fino ad oggi, basato su esportazioni, investimenti e cultura. E' un modello
rischioso perché dipende quasi completamente dal resto del mondo. Ed è quindi naturale che esso
detti formule dichiaratamente mercantiliste alla politica economica tedesca. La più nota di esse è la
condotta della politica monetaria volta a far da chiglia di stabilità ai comportamenti di industriali e
sindacati e alla finanza pubblica”. (Affari & Finanza, 11 giugno 2007). De Cecco nota come il
modello si basi sulla reciproca alimentazione della crescita basata sulle esportazioni e della stabilità
interna (si veda anche Cesaratto 2010).
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The rapid deregulation of previously ‘repressed’ capital markets raises domestic interest rates. In
such a context, the combination of credibly fixed (or predetermined) exchange rates and capital
account liberalisation leads to significant spreads between the yields of foreign and domestic assets.
Initially, a few local players take advantage of the arbitrage opportunities, issuing foreign debt to do
so. Their exposure to risk essentially depends on the probability that the exchange rate rule is
altered (i.e. the exchange rate risk). From the viewpoint of the individual investor, engaging in
external borrowing to exploit an arbitrage opportunity has no significant effect on the sustainability
of the exchange rate rule. However, since the first movers are exploiting significant benefits, other
players have strong incentives to jump in, even when by doing so their combined actions may have
negative macroeconomic consequences. As Salih Neftci (2002), a market practitioner, points out, ‘if
the banking system is immature, or if modern risk management is not very well understood, it may
be extremely difficult to explain to the owners of a bank returns such as 7–8%, while competitors
have been displaying performances of 10–15% for two or three years in a row’.
Capital inflows expand liquidity and credit in the economy. As a result, domestic interest rates and
spreads fall, and output and employment grow. The expansion of aggregate demand leads to price
increases (particularly in non-tradable sectors), which under fixed (or predetermined) exchange rate
regimes generates an appreciation of the real exchange rate. The real appreciation reinforces the
inflow of capital seeking capital gains by holding domestic assets and, therefore, further fuels the
expansion of credit and output growth.
The combined effect of the real exchange rate appreciation and economic growth stimulates the
demand for imports, while exports weaken. The worsening of the trade balance together with the
increase in interest and dividend payments resulting from the reduction of the net foreign assets
leads to a current account deficit. Given the progressive worsening of the external balance, the
credibility of the exchange rate rule weakens. As the probability of exchange rate devaluation
increases, the balance sheet of the domestic financial system—which is short on foreign currency
and long in local assets—becomes increasingly fragile. Some players, possibly the most risk averse
or the best informed, begin undoing their positions in domestic assets, leading to a slowdown in
the capital inflows. Authorities increase interest rates in order to retain capital. However, there
eventually comes a point at which no interest rate can attract new external financing.
Foreign exchange reserves at the Central Bank, which grew during the booming phase of the cycle,
begin falling as the monetary authority intervenes to sustain the exchange rate regime. However, the
run against the Central Bank’s foreign exchange reserves cannot be stopped and the exchange rate
rule is finally abandoned. A sequential or simultaneous twin (external and financial) crisis is the
final outcome.
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This type of developing-country Minskyan cycle was first observed in Argentina and Chile during
the late 1970s (i.e. the so-called Southern Cone episodes), where systemic financial crises unfolded
in both countries about one year before their balance of payment crises in 1980 and 1981,
respectively. Similar stylised cycles were observed in the Mexican and Argentine crises of 1995, the
East Asian crises of 1997–98, the Russian crisis of 1998, the Brazilian crisis of 1999, and the
Argentine and Turkish crises of 2001.1 In all these episodes, crises were preceded by periods of
boom, where financial intermediation and asset price bubbles developed in a context of increasing
risk-taking behaviour. The analyses of all these episodes referred to in footnote 1, page 5 show that
crises did not result from unsustainable fiscal policies, negative external shocks or moral hazard
behaviour due toexplicit or implicit government guarantees. They arose, instead, from the
increasing financial fragility that resulted from the worsening of the external robustness of the
economies. The deterioration of external conditions and the increase in financial fragility ultimately
resulted from the destabilising consequences of domestic and foreign private sectors taking risky
positions, and public sectors unable or unwilling to regulate financial markets during the booming
phase (Taylor, 1998A).
…
All the tables [examples] show that at the beginning of these episodes domestic interest rates were
high enough to attract capital from abroad. The simple measure of the interest rate differential
adjusted by the ex-post variation of the nominal exchange rates shows, with the exception of Korea,
the existence of significant arbitrage opportunities. The booming phase is observed very clearly in
all cases. There are large capital inflows, accumulation of foreign exchange reserves and expansion
of the domestic credit to the private sector. Along with these processes, domestic interest rates (and
spreads) tend to decrease and output grows at high rates. However, a simultaneous deterioration of
the external conditions is also observed. All cases show that during the booming phase the real
exchange rate appreciates, while both the trade balance and the current account worsen. Around the
years that the exchange rate rules are abandoned, indicated by the columns in bold text, signs of
reversion of the cycle emerge: capital inflows and foreign exchange reserve accumulation
decelerate and domestic interest rates tend to rise. Then the crises erupt. We observe reversals of
capital inflows, contractions of foreign exchange reserves and sharp depreciations of the nominal
(and real) exchange rates. Economic activity contracts substantially and credit to the private
sector collapses. With the exception of Argentina in 2001, none of these episodes registers
significant fiscal imbalances neither during the booming phase nor prior to the crisis.”
A questo punto si devono studiare gli articoli di Cesaratto, Bagnai e Zezza nell’e-book
“Oltre l’austerità”, www.Micromegaonline.it. Il contributo di Cesaratto esamina come le
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liberalizzazioni finanziarie e la moneta unica abbiano generato squilibri commerciali e debiti esteri
nell’ambito dell’Eurozona: un caso non nuovo di crisi capitalistica, sebbene il suo svolgimento
entro un’unione monetaria renda diversa la sua evoluzione e più complicata la sua soluzione.
Riprendendo e approfondendo tale interpretazione, Alberto Bagnai mostra come le elite dominanti
del centro e della periferia, le une mosse dall’obiettivo di catturare i mercati periferici, le altre da
quello di importare la disciplina dei paesi più forti, abbiano finito per sfidare il buon senso,
contrario all’unificazione monetaria, che proveniva dalla parte più avveduta della professione
economica. Entrambi i contributi sono scettici circa una possibile soluzione della crisi condivisa
dall’insieme dei paesi dell’Eurozona, anche sulla scorta dell’impostazione mercantilista
dell’economia dominante, quella tedesca. Gennaro Zezza critica l’interpretazione della crisi come
conseguenza di debiti pubblici eccessivi, argomentando che le sue origini vanno piuttosto cercate
nell’ideologia economica che nell’ultimo quarto di secolo ha permeato l’azione dei governi e nella
decisione dei vertici europei di subordinare il sostegno finanziario dei paesi in difficoltà
all’attuazione di piani di austerità. Si consiglia, naturalmente, la lettura anche di altri contributi, a
cominciare da quello magistrale di Massimo Pivetti dove egli argomenta come ciò che oggi si cerca
di pervicacemente di preservare di fronte alla recessione, attraverso l’austerità e l’ulteriore
svuotamento delle sovranità nazionali, è il cambiamento delle condizioni di potere e distributive a
sfavore delle classi popolari verificatosi in Europa nel corso dell’ultimo trentennio.
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Dispense ECS Cesaratto 2015-16
Abbreviazioni
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APPENDICE 1 - La Bilancia dei pagamenti
1.1. Le partite correnti
In un’economia aperta al commercio internazionale parte della produzione nazionale viene
acquistata dagli altri paesi (resto del mondo), viene cioè esportata, mentre parte della domanda
interna è soddisfatta da beni e servizi acquistati all'estero, beni e servizi che costituiscono le
importazioni. L'equazione del reddito nazionale è ora
Y = C + I + G + (E - M),
dove E ed M indicano, rispettivamente, le esportazioni e le importazioni. In termini della
nostra "economia-grano", la quantità Y di grano nazionale prodotta va accresciuta della quantità E
di grano nazionale acquistata dagli altri paesi, ma diminuita della quantità di grano acquistata dagli
altri paesi, ovvero M.
Tutti i flussi commerciali e i trasferimenti fra paesi e, vedremo fra poco, i flussi di capitale,
sono contabilizzati nella bilancia dei pagamenti. La differenza fra E ed M costituisce il saldo della
bilancia commerciale.22 La bilancia commerciale fa parte delle partite correnti (PC). Chiariamo
questi termini procedendo per approssimazioni.
Va in primo luogo chiarito che non tutte le monete sono sullo stesso piano. Esistono alcune
valute che, per la forza economica e politica del paese che le emette, sono comunemente accettate
nei pagamenti internazionali. Si tratta principalmente del dollaro americano, ma anche l’euro si sta
affermando come moneta internazionale. I paesi che emettono le valute accettate nei pagamenti
internazionali sono in una posizione un po’ speciale in quanto emettono la moneta con cui possono
effettuare i propri pagamenti – è come se ciascuno di noi potesse stampare la moneta con cui
finanziare i propri acquisti! I paesi che emettono queste monete rendono però un servizio al resto
del mondo mettendo a disposizione la liquidità necessaria per gli scambi. Tutti gli altri paesi,
pensiamo all’Italia al tempo della lira, per finanziare le importazioni devono procacciarsi le valute
internazionali. Un primo canale per procurarsi liquidità internazionale è attraverso le esportazioni.
Cosa accade se un paese ha uno squilibrio nella bilancia commerciale, per esempio se
esporta più di quanto importa? In quest’ultimo caso il paese accumula riserve di valuta straniera,
dette riserve ufficiali (RU), detenute dalla banca centrale. In luogo di tenere queste divise inattive, i
paesi in attivo possono tuttavia prestare queste valute ai paesi in deficit commerciale, che ne hanno
bisogno per finanziare il loro disavanzo. Infatti se M > E, ed un paese non ha riserve di valute
22
La bilancia commerciale riguarda esportazioni e importazioni sia di beni che di servizi. Fra questi ultimi va
ricordato il turismo: quando degli stranieri visitano il nostro paese, le loro spese costituiscono dal nostro
punto di vista una esportazione di servizi turistici, mentre dal punto di vista della loro bilancia commerciale
si tratta di una importazione di servizi turistici.
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internazionali, deve ricorrere a prestiti.23 L’accensione di un debito estero è dunque un secondo
canale attraverso cui un paese può procacciarsi la valuta necessaria a finanziare un disavanzo di
bilancia commerciale, o più in generale di partite correnti, come vedremo fra poco.
I paesi indebitati pagano degli interessi sul debito estero, interessi percepiti dai paesi
creditori. Il pagamento di questi interessi costituisce un “drenaggio del PIL”: cioè parte della
produzione nazionale viene ceduta all’estero per il pagamento degli interessi. Anche questo
pagamento deve essere effettuato in valuta internazionale. Il saldo dei pagamenti in conto interessi
(interessi debitori meno interessi creditori) rientra nel cosiddetto saldo dei redditi netti dall’estero.
Non solo il capitale circola nel mondo - viene cioè prestato dai paesi in attivo commerciale
ad altri -, ma anche il lavoro. Fino a pochi decenni fa migliaia di italiani emigravano in altri paesi,
mentre ora il nostro paese è diventato terra di accoglienza per centinaia di migliaia di lavoratori
stranieri. Le rimesse degli immigranti verso le famiglie in patria costituiscono un altro “drenaggio”
sul prodotto nazionale del paese ospitante. Per converso, le rimesse costituiscono un importante
ingresso di valuta pregiata per i paesi di provenienza degli immigrati, in genere paesi in via di
sviluppo. Anche il saldo delle rimesse (afflusso meno deflusso di rimesse) entra nei saldo dei redditi
netti dall’estero. In questi ultimi rientrano anche i trasferimenti unilaterali come gli aiuti ai paesi in
via di sviluppo o quelli effettuati nei confronti degli organismi internazionali.
Riassumendo, il saldo delle partite correnti include sia del saldo della bilancia commerciale,
che il saldo dei trasferimenti di reddito (da lavoro e da capitale) o redditi netti dall’estero, R. 24.
Possiamo dunque scrivere il saldo delle partite correnti, PC, come:
E – M + R.
23
Quanto andiamo dicendo risulterà molto utile per capire il famoso problema del debito estero dei PVS.
Questi sono paesi strutturalmente indebitati: devono importare molto per crescere ed industrializzarsi poiché hanno una struttura industriale ancora non in grado di produrre numerosi prodotti moderni.
D’altronde non sempre hanno un volume di esportazioni in grado di generare la valuta necessaria a
finanziare le importazioni. Così si ricorre al debito estero che, tuttavia, se i tassi di interesse si fanno troppo
onerosi e se l’economia non riesce per tempo a generare un flusso di esportazioni adeguato a pagare gli
interessi e restituire il debito, comincia ad accumularsi. Può accadere che ad un certo punto si devono
accendere nuovi prestiti solo per far fronte al pagamento degli interessi, oppure che i proventi delle
esportazioni vanno a finanziare il pagamento degli interessi e non, come auspicabile, l’importazioni di beni
necessari a modernizzare le economie (trappola del debito). Gli anni ottanta e novanta del secolo scorso
hanno visto numerose crisi da debito estero, ciò paesi che in difficoltà a restituire le rate del debito in
scadenza e a pagare gli interessi, senza possibilità di poter accendere ulteriori prestiti, dovettero dichiarare il
default sul debito estero. L’ultimo caso famoso è stato quello dell’Argentina nel 2001. Negli anni più recenti
una buona performance delle espertazioni ha consentito a molti paesi emergenti di conseguire avanzi di
partite correnti e di accumulare riserve ufficiali, allontanando dunque lo spettro della trappola del debito.
24
R include dunque gli interessi sui capitali dati o ricevuti in prestito, e le rimesse degli emigranti. Si osservi
come sino a pochi anni fa le rimesse degli emigranti erano favorevoli al nostro paese, terra in cui il lavoro ha
costituito la maggiore esportazione, mentre da alcuni anni la bilancia si è fatta sfavorevole a causa del
crescente numero di immigrati nel nostro paese.
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Esempio. E = 1100, M = 1000, saldo rimesse migranti = + 300, debito estero a inizio anno =
10.000, tasso di interesse sul debito i = 0.05 (o 5%). Calcolare il saldo delle partite correnti e il
debito estero a fine anno.
Saldo Bilancia commerciale: E – M = 1100-1000= +100 (entrata netta di valuta)
Saldo dei redditi netti dall’estero: saldo rimesse + saldo c/interessi = +300 (afflusso valuta) –
500 (deflusso di valuta) = -200. Il saldo interessi (qui solo interessi debitori o passivi) è calcolato
facilmente come: 0.05*10.000 = 500.
Saldo delle PC = -100
Il debito a fine anno risulterà di 10.100, cioè pari al debito pregresso più il nuovo disavanzo
di BP. Come vedremo fra poco, infatti, i disavanzi delle PC, se non finanziati con le RU
comportano l’accensione di un prestito dall’estero, dunque un nuovo indebitamento.
Come si è visto dall’esempio un paese potrebbe avere una bilancia commerciale in attivo (E
> M), ma trasferimenti verso l’estero negativi (nel cui caso R è un numero negativo), per cui nel
complesso le PC hanno segno negativo.25 Un negativo saldo delle partite correnti è contabilmente
pari ad un saldo positivo delle PC del “resto del mondo” (che può essere visto come un secondo
paese, come in talune amichevoli di calcio).
L’equazione della contabilità nazionale suggerisce ora che:
Y = RDL + TA = C + I + G + E – M
(RDL – C) + (TA – G) – I = E – M
Sp + Sg – I = E – M
Per semplicità supponiamo T = G, dunque Sg = 0. Se M > E, allora I > Sp. Vale a dire, se il
paese investe più del risparmio nazionale (I > Sp), vuol dire che sta finanziando parte degli
investimenti con risorse estere, infatti la bilancia commerciale è in passivo (M > E). Se invece M <
E, ne segue I < Sp. Dunque, se il paese investe meno del risparmio nazionale (I < Sp), vuol dire che
sta cedendo risorse all’estero, infatti la bilancia commerciale è in attivo (M > E).
Poiché i trasferimenti costituiscono una aggiunta o una sottrazione al PIL, a seconda del
segno di R, potremmo definire il Prodotto nazionale lordo (PNL) come:
PNL = C + I + G + E – M + R.
Questa misurazione del reddito nazionale, che è quella utilizzata dagli USA, include nel
reddito nazionale i redditi relativi ai capitali e al lavoro americani che operano all’estero, ed esclude
dal prodotto americano i redditi relativi ai capitali e al lavoro stranieri che operano negli USA. In
25
E’ questo il caso di un PVS con attivo di bilancia commerciale, ma con un forte indebitamento estero, per
cui l’attivo della bilancia commerciale non è neppure sufficiente a pagare gli interessi sul debito, e nuovi
prestiti devono essere accesi.
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Europa non si impiega, invece, questa definizione. L’equazione di raccordo è ovviamente PNL =
PIL + R.
Esempio ed esercizio
Supponiamo una economia di solo grano.26
Sp = 200 (tonnellate oppure € di grano), Sg = -100€, I = 200. Allora necessariamente M – E
= 100 (trascuriamo R). Ciò vuol dire che dei 200 di grano non consumati dalle famiglie (S = 200),
100 sono stati assorbiti dallo Stato. Siccome sono stati seminati, cioè utilizzati come investimento,
200 (I = 200), allora di necessità c’è stata una importazione netta di grano di 100, grano “prestato”
dal “resto del mondo”.
Per esercizio specificare quale sarà l’avanzo di bilancia commerciale del paese ‘resto del
mondo’.
1.2. Movimenti reali e movimenti di capitale
Abbiamo visto come ad un attivo delle PC corrisponda un afflusso di valuta straniera, e ad
un passivo un deflusso di valuta. Se c'è un afflusso netto di valuta, come si è detto, un paese può o
accrescere le riserve ufficiali (RU), cioè il fondo di valute straniere detenuto dalla banca centrale,
oppure effettuare dei prestiti all'estero. In ambedue i casi si dice che è migliorata la posizione netta
del paese verso l'estero. Nei fatti accrescere la valuta straniera posseduta vuol dire avere accresciuto
la possibilità del paese di acquistare nel futuro prodotto estero. Se invece le PC hanno segno
negativo, il paese attinge alle proprie RU di valuta per compensare la differenza fra entrate e uscite
di valuta, oppure si fa prestare la valuta dall'estero. In termini della nostra economia grano, quando
il saldo delle PC è positivo vuol dire che, al netto del grano importato, stiamo cedendo parte del
grano prodotto nel paese all'estero. Trascurando R, supponiamo che il paese A abbia Ea > Ma,
mentre il paese B (‘resto del mondo’) presenti Mb > Eb, dove Ea = Mb e Ma = Eb. Nei fatti il
paese A presterà dei capitali a B finanziando così il suo disavanzo.
I flussi relativi all’accensione di nuovi debiti e alla concessione di nuovi crediti entrano nella
bilancia dei pagamenti contabilizzati sotto la voce di movimenti di capitale. Il saldo dei movimenti
di capitale ci informa se il paese nel corso dell’anno ha acceso nuovi debiti al netto dei crediti
concessi, nel qual caso vi è stato un ingresso netto di capitali, ovvero ha concesso nuovi crediti al
netto dei debiti accesi, nel quel caso vi è stata una fuoriuscita netta di capitali.
26
Il grano è stato spesso usato dagli economisti perché è una merce utilizzabile sia come bene di consumo
(pane) che come capitale (semi). Gli economisti si fanno vanto di semplificare i problemi nei loro termini
essenziali, e spesso usano gli esempi di ‘solo grano’ quando un solo bene riassume le proprietà essenziali per
il ragionamento da condurre. Lo studio attento dell’economia è anche utile per acquistare questo stile di
ragionamento.
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Come già detto, considerare l’esistenza di rapporti di debito e credito verso l’estero significa
considerare i movimenti di capitale. Convenzionalmente la bilancia dei pagamenti si compone di
due parti: “sopra la linea” vi sono le partite correnti (PC) e i movimenti di capitale (MK), e in
particolare i loro saldi; “sotto la linea” la variazione delle riserve ufficiali (RU). Cerchiamo di
capire.
Come abbiamo visto, un disavanzo delle partite correnti può essere finanziato o con
l’accensione di un debito netto con l’estero, quindi con un afflusso netto di capitali, o ricorrendo
alle RU che in tal modo diminuiscono. Quindi:
saldo PC = E – M + R = saldo MK +  RU.
Per esempio, un disavanzo delle partite correnti del paese di Svilupponia di 1 milione di $
può essere compensato da un ingresso di capitali per 800 mila $, e da una diminuzione delle RU di
200 mila $.
Si ha pure che:
saldo PC – saldo MK =  RU.
Nell’esempio:
- 1 milione $ + 800 mila $ = -200 mila $
La variazione delle riserve obbligatorie è uguale al saldo della bilancia dei pagamenti (BP).
Arricchendo l’esempio, la bilancia dei pagamenti di Svilupponia potrebbe essere la
seguente:
Partite correnti:
Esportazioni 2 milioni $ (afflusso valuta)
Importazioni 3 milioni $ (deflusso)
Saldo rimesse migranti + 1 milione $ (afflusso)
Saldo c/interessi – 1 milione $ (deflusso)
Saldo PC
- 1 milione $
Movimenti di capitale:
Uscite di capitali 200 mila $
Entrate di capitali 1 milione $
Saldo MK
+ 800 mila
Saldo “sopra la riga” - 200 mila
Variazione RU
- 200 mila
Si dice che la BP è contabilmente sempre in pareggio (saldo complessivo = 0), in quanto il
saldo “sopra la riga” viene compensato dalla variazione delle RU: saldo partite correnti + saldo
movimenti di capitale = variazioni delle riserve ufficiali. Tuttavia si può anche dire che il vero
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saldo della BP è quello “sopra la riga”, perché quel saldo ci spiega le ragioni per cui il paese ha
perso o guadagnato di RU nel corso dell’anno.
Nel fare gli esercizi è importante che ciascuna voce delle partite correnti sia classificata,
rispettivamente, o come afflusso di valuta o come deflusso, e il saldo delle PC come saldo di
afflussi e deflussi. Per esempio, un saldo positivo (afflusso netto) dà luogo ad una uscita di capitali
(si prestano soldi all’estero), o ad un aumento delle RU (o ad una combinazione dei due eventi).
Le RU sono una sorta di “tesoro” in valuta pregiata che un paese possiede. Averne troppo è
uno spreco: indica che il paese ha per anni accumulato avanzi della BP senza impiegare la valuta
accumulata per acquistare beni all’estero utili alla crescita economica o a migliorare la qualità della
vita nel paese (è come un avaro che nascondesse sotto il materasso i propri guadagni). Avere poche
riserve, per contro, vuole dire non poter difendere il cambio della propria moneta se ne ravvedesse
la necessità.27
Come detto sopra, la possibilità di finanziare disavanzi delle PC attraverso afflussi di
capitale è una misura che non può durare troppo a lungo perché sui tali afflussi si pagano interessi.
Questi a loro volta aggravano il saldo negativo delle PC. Nel lungo periodo, a meno di incorrere in
una grave crisi finanziaria, il saldo delle PC, e in particolare della bilancia commerciale, deve
diventare positivo e sufficiente da permettere una progressiva restituzione del debito estero.
1.3. Il debito dei paesi in via di sviluppo e il FMI
Come si è ora osservato, nessun paese potrà alla lunga mantenere un saldo delle partite
correnti negativo, accumulando debito. La situazione si dovrà ad un certo punto invertire - a meno
di un default sul debito come accaduto per esempio in Argentina nel dicembre 2001. Nel caso dei
paesi in via di sviluppo ciò che viene auspicato è che il finanziamento con debito agevoli la crescita
economica e lo sviluppo delle esportazioni, sì da realizzare un avanzo commerciale e la restituzione
del debito estero. Nel passato molto spesso, all’accumulo del debito è seguita una crisi finanziaria
per la difficoltà di ripagarlo, anche perché sul debito si pagano accumulano cospicui interessi che
alla lunga sono fonte di nuovo debito (cioè ci si indebita per pagare il debito pregresso, la cosiddetta
“trappola del debito”). In genere il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un organismo finanziato
dai paesi più industrializzati, è intervenuto ‘in soccorso di questo paesi, aiutandoli a pagare le rate di
debito e interessi in scadenza - dunque in verità ‘salvando’ i creditori-, e imponendo loro politiche
‘di aggiustamento’ – la famosa “conditionality” - tali da realizzare un avanzo di bilancia
commerciale. Tali politiche sono in genere consistite di una riduzione drastica delle importazioni
effettuata indebolendo il tenore di vita e le possibilità di crescita di tali paesi. Per questa ragione le
27
Per esempio, se l’euro si deprezzasse rispetto al dollaro, la BCE potrebbe intervenire vendendo dollari
detenuti nelle riserve e acquistando euro.
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politiche di aggiustamento del FMI sono state oggetto di numerose critiche. Una volta ottenuto un
Se positivo, questi paesi erano in grado pagare gli interessi e restituire il debito privato, ed anche
quello all’FMI. Alle politiche di aggiustamento si accompagnavano in genere forme di
“rinegoziazione” del debito con forme, ad esempio, di dilazione nei pagamenti.
Dopo la crisi finanziaria del 1997-98 molti paesi in via di sviluppo hanno cercato di
realizzare surplus di bilancia dei pagamenti. Questo è stato reso possibile dalla crescita
dell’economia mondiale, in particolare dopo il 2001, trainata dalla domanda americana. Si è così
sviluppato il paradosso di flussi di capitale dai paesi meno sviluppati verso l’economia americana.
1.4. Tassi di cambi nominali e reali
Il tasso di cambio nominale (e) è qui definito come la quantità di moneta estera per una unità
di moneta nazionale. Considerando l’Euro come moneta nazionale e il dollaro come moneta estera,
e è l’ammontare di $ in cambio di 1€. Apprezzamenti o deprezzamenti del tasso di cambio nominale
influenzano la competitività delle produzioni nazionali. Ad esempio, se il $ si apprezza nei
confronti dell’€ - per esempio il cambio passasse da 1€ = 1,3$ a 1€ = 1,2$ - come sappiamo
diventerebbe più conveniente, ceteris paribus, per i turisti americani venire il Europa: servono
infatti meno $ per acquistare 1€. E’ dunque aumentata la competitività della nostra industria
turistica – aumentano le esportazioni di turismo verso gli USA. Al contempo al nuovo tasso di
cambio sarà meno conveniente per i turisti europei andare negli USA, dunque acquisteremo meno
servizi turistici americani che costituiscono per noi una importazione.
La competitività delle due industrie turistiche – ed in generale di tutti i beni e servizi oggetto
di commercio internazionale - dipenderà, tuttavia, anche dal confronto fra prezzi europei e prezzi
americani. Introduciamo a tal proposito il tasso di cambio reale. Questo è definito invece come:
er 
eP
Pf
, dove e è il tasso di cambio nominale, Pf costituisce l’indice dei prezzi esteri (del paese
“resto del mondo”), mentre P è l’indice dei prezzi interni. Questi indici di prezzo possono essere
intesi come il prezzo di una unità composita di PIL nazionale, che nel caso di due economie
sviluppate come USA e Europa sono di composizione molto simile. Se il tasso di cambio nominale
fra $ ed € fosse di 1€ = 1,1$, il livello dei prezzi USA di 110, e quello europeo di 100, il tasso di
cambio reale sarebbe 1.28 Se il livello dei prezzi europeo aumenta a 110, er crescerebbe a 1,1.
28
A questo tasso di cambio nominale è rispettata la cosiddetta parità dei poteri d’acquisto (PPP: purchasing
power parity), cioè il livello dei prezzi è il medesimo in Europa e negli Stati Uniti. In altri termini il potere di
acquisto di 1$ è il medesimo in USA e in Europa; lo stesso vale per 1€. Talvolta quando vengono confrontati
i PIL nazionali calcolati in $, non si utilizzano i tassi di cambio nominali che, si dice, non riflettano le
effettive PPP. Per esempio, un hamburger McDonald non ha lo stesso costo in $ nel diverse parti del mondo
(costa probabilmente meno in Cina che a Londra). Allora, se traduciamo il PIL cinese in $ impiegando i tassi
di cambio nominali, probabilmente sottovaluteremo il valore reale, del PIL cinese “misurato in hamburger”.
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Poiché l’aumento dei prezzi europei significa una minore competitività delle merci europee rispetto
a quelle americane, un aumento del tasso di cambio reale implica una perdita di competitività. 29 Un
deprezzamento dell’€ rispetto al $ del 10%, cioè pari all’aumento del livello dei prezzi europeo,
potrebbe ripristinare la competitività perduta.
Per esempio sia il PIL cinese di 1000 Ranmimbi (o Yuan) e il cambio 1 R = 1 $, cosicchè YCh. = 1000$. Se
un hamburger costa 1$ al MacDonald a New York, in hamburger il PIL cinese equivale a 1000$. Ma se a
Pechino l’hamburger, costa 0,5R, ricalcolato in “termini di hamburger” il PIL cìnese vale 2000 (hamburger).
In termini di potere d’acquisto (di hamburger) il PIL cinese vale di più che se misurato in dollari. Si
utilizzano dunque degli altri tassi di cambio che tengono conto dei diversi livelli dei prezzi nei vari paesi,
cioè aggiustati per le PPP. Il risultato è che il PIL della Cina viene fortemente rivalutato, e in alcune
statistiche la Cina appare come la seconda potenza economica mondiale (seguita da paesi come il Brasile,
l’India e così via). La rivista The Economist pubblica annualmente una statistica basata sul prezzo di un
Cheeseburger McDonald nel mondo. Questo però esagera di gran lunga lo sviluppo economico di quei paesi.
Infatti sebbene molti prezzi siano più bassi nei PVS, tipicamente i generi alimentari, altri prodotti,
tipicamente quelli industriali, hanno in quei paesi i medesimi prezzi che nei paesi più avanzati.
29
In questo caso, 1$ al tasso di cambio nominale di 1$ = 1,1€ vale di più in USA che in Europa. In effetti il
tasso di cambio nominale non sta riflettendo il mutamento dei poteri d’acquisto delle monete ed a questo
corrisponde il fatto che per un cittadino americano risulta più conveniente, a quel tasso di cambio nominale,
spendere un $ negli USA che in merci europee.
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BOX Relazioni di contabilità nazionale in economia chiusa e aperta e crisi europea.
Riporto qui alcuni appunti che inviai a un tesista utili per porre in relazione le relazioni di
contabilità nazionale in economia chiusa e aperta sopra studiate con crisi europea.
Dalla contabilità nazionale conosciamo la relazione: S-I=(G-T)+(X-M) ovvero (S - I) + (GT) = saldo commerciale.
. La si può perfezionare tenendo conto dei redditi netti dall’estero (RNE) che si aggiungono
(se positivi) o sottraggono (se negativi) al PIL (ottenendo il reddito nazionale lordo)
RNL=PIL+RNE. Allora:
RNL = C + I + G + (X-M)+RNE
RNL disp = RNL - T ovvero RNL = RNLdisp + T
da cui
RNLdisp + T = C + I+G+(X-M)+RNE
da cui
RNLdisp - C - I = (G-T)+ [(X-M)+RNE] = (G-T) + saldo partite correnti
finalmente:
(S - I) + (G-T) = saldo partite correnti.
Cosa ci racconta.
In un paese ci sono solo due individui: il dott. P(ubblico) e il sig. M(ercato). Se P ha un
debito con M, ovvio che M ha un credito con P e viceversa. Se al mondo ci sono solo loro due, non
possono essere contemporaneamente in debito o in credito (possono ovviamente esser ambedue in
pareggio). In termini delle ns equazione, in economia chiusa il saldo partite correnti neppure esiste,
per cui S-I + G-T = 0. Se S > I e G > T il sig. M sta prestando soldi al dott. P.
In economia aperta le cose cambiano. Entra Herr E(estero). Allora le combinazioni sono
tante, per esempio:
- In Italia dott. P tende a indebitarsi (G>T), però il sig.M no (S>I). Tuttavia i crediti di M a P
non coprono i debiti di P. Allora Herr E presta i soldi a P.
- paesi PIGS:30 P ed M ambedue fortemente indebitati, Herr E finanzia ambedue.
Ciò che ho scritto sono relazioni di flusso (S, I, G, T X, M, RNE). Flussi e stock sono legati.
Ad occhio la relazione di stock è:
- in mercato chiuso: POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA dott.P = POSIZIONE
PATRIMONIALE NETTA sig. M. (se uno ha stock di debiti, l'altro ha identici stock di crediti)
30
Chi sono i PIGS? Se non lo sapete vuol dire che vivete fuori del mondo. E i GIPS? (hint: sono gli stessi
paesi).
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- in economia aperta POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA dott. P + POSIZIONE
PATRIMONIALE NETTA sig. M. = Posizione netta sull’estero (PNE). Se P ha uno stock di debito
di 100, e M uno stock di crediti di 50, il paese ha uno stock di debiti di 50.
1.5. Regimi di cambio
Distinguiamo fra due fondamentali regimi di cambio: fissi e fluttuanti.
Cambi fissi
In tale regime la Banca centrale (BC) di una piccola economia aperta (come l’Italia ai tempi
della lira) si impegna a mantenere la ”parità ufficiale” del cambio attraverso gli intervento di
acquisto o vendita della divisa estera sul mercato valutario. Il criterio a cui si ispirano tali interventi
è quello di stabilizzare il tasso di cambio nominale tramite il soddisfacimento continuativo
dell’eccesso di domanda di valuta (che può essere di valuta domestica o di valuta estera); tale
eccesso di domanda è determinato dal saldo delle partite correnti (PC).
Se questo si trova in avanzo, si riscontra un eccesso della domanda di valuta nazionale
sull’offerta; la BC deve intervenire sul mercato valutario per evitare che il tasso di cambio nominale
si apprezzi, vendendo valuta nazionale e acquistando in maniera compensativa valuta estera. In
questo caso, l’offerta di moneta nazionale aumenta e la BC accumula riserve ufficiali. Se la BC
vuole evitare un eccesso di creazione di moneta via canale estero (v. cap. 1), perché timorosa di
creare un eccesso di domanda interno, dovrà vendere titoli e sterilizzare la moneta creata. I paesi in
surplus commerciale e che accumulano riserve non le tengono in genere oziose, ma le “riprestano”
ai paesi in disavanzo finanziando il loro squilibrio di PC. Il caso di scuola è fra Cina e USA.
Il contrario vale se il saldo estero si trova in disavanzo; in questa circostanza il
mantenimento dell’accordo di cambio comporta una riduzione dell’offerta di moneta e una
decumulazione delle riserve ufficiali. Se un paese ha un disavanzo persistente delle PC, le RU
possono esaurirsi nella difesa del cambio. Solo un ingresso di capitali può impedire una
svalutazione della moneta e la BC dovrà fissare il tasso dell’interesse in maniera da generare un
flusso di capitali che, finanziando il saldo negativo delle PC, stabilizzi il cambio.
Il vantaggio del regime di cambi fissi è nell’impedire le svalutazioni competitive che alla
fine nuocciono al commercio internazionale. Tuttavia tale regime vincola assai l’autonomia della
politica economica di un paese
Si dice dunque che coi cambi fissi un paese “perde la politica monetaria”. Prendiamo un
piccolo paese in tendenziale equilibrio di PC. Esso dovrà mantenere un tasso di interesse non
inferiore a quello degli altri paesi, in particolari a quelli delle grandi economie, e se questi
accrescessero il loro, di conserva il paese in oggetto dovrà accrescere il proprio. Alti tassi di
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interesse possono andare a detrimento dell’obiettivo del sostegno della domanda interna e
dell’occupazione. Per contro, se il piccolo paese volesse fissare tassi più alti di quelli internazionali
verrebbe affluire capitali indesiderati che farebbero apprezzare la sua valuta in maniera indesiderata
(l’apprezzamento potrebbe determinare uno squilibrio commerciale e la necessità di politiche
restrittive a detrimento dell’occupazione).
In un regime di cambi fissi un paese in disavanzo di PC non potrà fare affidamento sulla
svalutazione della propria moneta per aggiustare la bilancia commerciale. Esso sarà dunque
costretto o (a) adottare misure restrittive atte a riequilibrare la bilancia commerciale, ovvero (b) ad
attirare capitali attraverso elevati tassi di interesse.
Essendo un paese a rischio di svalutazione, esso potrà anche facilmente assistere a “fughe di
capitali”. Se v’è una attesa di deprezzamento della moneta nazionale, sarà infatti conveniente per un
possessore di capitali detenuti in valuta nazionale cambiare questi capitali in valuta estera, azione
che a sua volta accelera la svalutazione, e ricomprare a più buon prezzo la moneta nazionale una
volta che la svalutazione abbia avuto luogo. Il tasso di interesse deve dunque essere tale da
compensare il rischio di perdita (o di mancato guadagno) che si incorre nel mantenere i propri
capitali in valuta nazionale. Sostenere disavanzi della bilancia commerciale attraverso ingresso di
capitali è tuttavia pericoloso in quanto: (a) il perdurare del cambio non competitivo può determinare
deindustrializzazione, dunque perdita definitiva di capacità produttiva in particolare nel settore
manifatturiero ed esportatore; (b) la crescita progressiva del debito estero sui cui si pagano, per
giunta, tassi di interesse elevati. Casi di scuola sono l’Italia nello SME, soprattutto nel periodo
1987-1992, l’Argentina degli anni 1990 nel currency board (si svolga da soli una piccola ricerca su
Wikipedia), ma in fondo, anche, la situazione che è maturata nell’Unione monetaria europea (UME)
essendo una unificazione monetaria un caso estremo di cambi fissi.
Una maniera per evitare, almeno parzialmente, la perdita di autonomia nella politica
monetaria è nel controllo dei movimenti di capitale. In questo caso i movimenti di capitale sia in
uscita che in ingresso sono soggetti a un regime di autorizzazioni. In tal modo un paese può
decidere il livello del tasso di interesse più consono senza veder fuggire (se fissa i troppo basso) o
affluire (se fissa i troppo alto) capitali. Il problema, si dice, è che i controlli di capitale sono difficili.
Una impresa che volesse esportare clandestinamente capitali sotto-fatturerebbe le proprie vendite
all’estero oppure sovrafatturerebbe i propri acquisti.
In sintesi gli economisti parlano di triade impossibile: cambi fissi, autonomia della politica
monetaria (liberta di fissare i) e libertà dei movimenti di capitale: solo due dei tre corni sono
compatibili.
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Due esempi di regimi di cambio sono Bretton Woods e lo SME. Nel primo sistema si scelse
la prima coppia - cambi fissi e autonomia della politica monetaria (liberta di fissare i) sacrificando
(giustamente) libertà dei movimenti di capitale. Nello SME si scelse cambi fissi e libertà dei
movimenti di capitale sacrificando l’autonomia della politica monetaria. Per l’Italia questo
comportò tassi di interesse molto elevati che, unitamente al “divorzio” fra BC e Tesoro e alla
mancata lotta all’evasione fiscale, fecero esplodere il debito pubblico.
Il sistema di Bretton Woods prevedeva anche finanziamenti esterni da parte del FMI ai paesi
in disavanzo temporaneo di bilancia dei pagamenti in maniera da dar loro tempo di riequilibrarla
senza ricorrere alla svalutazione. Tale riequilibrio presupponeva, tuttavia, una politica restrittiva
interna. Per questo Keynes, che partecipò agli accordi di BW avrebbe voluto un sistema che
imponesse l’aggiustamento anche da parte dei paesi in avanzo commerciale.
Come si diceva sopra, l’UME è il caso estremo di cambi fissi.
Cambi flessibili
In questo sistema monetario internazionale la BC non interviene sul mercato valutario
acquistando o vendendo valuta estera; il tasso di cambio nominale si può aggiustare liberamente in
relazione alle condizioni prevalenti sul mercato valutario. Quando si riscontra un surplus della
bilancia dei pagamenti, ossia un eccesso della domanda di valuta nazionale, il prezzo della valuta
nazionale aumenta e il cambio si apprezza. Nel caso in cui ci sia un deficit del saldo estero, ossia un
eccesso dell’offerta di valuta nazionale, il prezzo della valuta nazionale scende ossia il tasso di
cambio si deprezza. Si noti che mentre l’apprezzamento della valuta nazionale comporta una
riduzione della competitività delle merci nazionali, un deprezzamento ne decreta di contro un
acquisizione della competitività di tali merci. Come sappiamo, infatti, dalla nozione di tasso di
cambio reale (cap. 2) a parità di livello dei prezzi, un deprezzamento del cambio nominale rende più
economiche le esportazioni e più costose le importazioni.
Per un singolo paese un regime di cambi flessibili ha il vantaggio di assicurare attraverso la
flessibilità del cambio il riequilibrio della bilancia commerciale.
Come abbiamo osservato quando abbiamo trattato del tasso di cambio reale (cap. 2), le
variazioni del tasso di cambio nominale sono necessarie per recuperare competitività quando un
paese ha un tasso di inflazione superiore a quello dei concorrenti (caso di scuola, l’Italia degli anni
1970… e del 2011, se potesse svalutare!). In pratica, se le nostre merci sono più costose delle
analoghe prodotte all’estero, le rendiamo di nuovo concorrenziali rendendo più conveniente agli
stranieri la nostra moneta. Il deprezzamento del cambio nominale comporta d’altronde che aumenta
il prezzo delle merci acquistate all’estero: in pratica il deprezzamento della moneta ci rende più
competitivi a un costo: dobbiamo cedere una quantità maggiore delle nostre merci in cambio di una
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quantità inferiore di merci estere. Chi “paga” all’interno del paese questo maggior costo delle
importazioni? Nel caso estremo che le importazioni riguardano beni di lusso saranno i più abbienti a
pagare; nel caso di beni salario saranno i lavoratori; nel caso di beni di base come energia, materie
prime ecc., saranno un po’ tutti. Da ultimo i più colpiti sono certamente i lavoratori dipendenti in
quanto imprese e lavoratori autonomi “fissano i prezzi”, possono cioè, in genere, aggiustare
rapidamente i propri prezzi all’aumento del costi degli input importati.
Dal punto di vista del singolo paese che svaluti per compensare una sua maggiore inflazione
interna va ricordato che la svalutazione, comportando un aumento del prezzo degli input importati
(si pensi al prezzo del petrolio per l’Italia) dà ulteriore benzina (è il caso di dirlo) all’inflazione. Il
caso di scuola è l’Italia degli anni 1970: un forte conflitto sociale determinava una forte inflazione,
a cui gli shock petroliferi aggiunsero carburante. La svalutazione faceva in modo che la forte
inflazione non minasse la competitività esterna del paese. (Graziani ricorda come, opportunamente,
la Banca d’Italia avesse ancorato la lira al dollaro, valuta con cui pagavamo le importazioni di
petrolio, e tendesse invece a deprezzare rispetto al marco tedesco, la Germania essendo il nostro
principale partner commerciale e concorrente. Questo regime, certamente infelice ma che
manteneva in vita la nostra economia, finì con l’adesione del paese allo SME nel 1979).
Come abbiamo detto, per un singolo paese un regime di cambi flessibili ha il vantaggio di
assicurare attraverso la flessibilità del cambio il riequilibrio della bilancia commerciale. Se tutti i
paesi intendono però utilizzare lo strumento del cambio per sostenere la domanda dei propri beni
attraverso maggiori esportazioni e minori importazioni si ha una situazione di svalutazioni
competitive che è un gioco a somma zero – questa fu l’esperienza degli anni 1930.
BOX Svalutazione interna
Nel dibattito sull’Europa i governi dei paesi centrali (core) e i loro economisti argomentano
che i paesi dell’Europa periferica non potendo recuperare la loro competitività attraverso la
svalutazione devono farlo attraverso una deflazione interna di prezzi e salari. Questa è stata definita
“svalutazione interna”. Il problema è che mentre la “svalutazione esterna” comporta certamente una
diminuzione dei salari reali (perché?), essa colpisce un po’ tutti i redditi e comunque i suoi effetti
sui salari reali sono meno evidenti. La svalutazione interna comportando una diminuzione dei salari
nominali è più indigesta ai lavoratori. Al pari, inoltre, delle classiche “svalutazioni competitive”, la
linea europea di “svalutazioni interne competitive” (competitive deflativo) è anch’essa un gioco a
somma zero: se tutti i paesi europei fanno questo - ammesso che ci riescano senza scatenare la
reazione dei lavoratori – cade la domanda interna in ciascun paese e non v’è ripresa, anzi la
recessione peggiora.
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