Complementi alle lezioni di “Fondamenti di Struttura della Materia” Laurea Magistrale in Fisica - a.a. 2014/2015 - Università degli Studi di Cagliari Crisi della fisica classica Luciano Colombo Dipartimento di Fisica - Università degli Studi di Cagliari Cittadella Universitaria, 09042 Monserrato (Ca) La riproduzione, anche parziale, di questa Dispensa in qualsivoglia formato cartaceo, elettronico o virtuale è severamente vietata. Si invita il Lettore ad inviare segnalazione di eventuali errori o ambiguità al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected] Presentazione Questa Dispensa è messa a disposizione degli Studenti sul sito http://people.unica.it/lucianocolombo/didattica/materiale-didattico/ ed è intesa come semplice complemento alle lezioni tenute dal prof. Luciano Colombo durante il secondo semestre dell’a.a. 2014/2015, nell’ambito del corso “Fondamenti di Struttura della Materia” - Laurea Magistrale in Fisica, dell’Università degli Studi di Cagliari. E’ doveroso sottolineare che questi appunti non rappresentano un trattato completo; sono, piuttosto, da intendere come un semplice ausilio didattico offerto allo Studente, principalmente finalizzato a completare le lezioni frontali. Lo stile di scrittura è, dunque, molto conciso e le dimostrazioni sono spesso solo schematicamente illustrate, lasciando alla cura dello Studente la ricostruzione dettagliata di tutti i passaggi. 2 Indice 1 Inquadramento storico 4 2 Il calore specifico dei gas e dei solidi 2.1 Teoria cinetica dei gas . . . . . . . . . . . . . 2.2 Energia interna di un gas monoatomico ideale 2.3 Calori specifici di gas mono– e bi–atomici . . 2.4 Calori specifici dei solidi . . . . . . . . . . . . . . . . 5 5 7 8 10 3 Lo spettro del corpo nero 3.1 Gli esperimenti e la teoria classica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2 La teoria quantistica di Planck . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 14 16 4 L’effetto fotoelettrico 18 . . . . . . . . . . ed equipartizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 La fisica dei quanti 5.1 Spettri atomici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2 Il modello di Bohr per l’atomo di idrogeno . . . . . . . . 5.3 Estensioni del modello di Bohr . . . . . . . . . . . . . . 5.4 L’ipotesi di de Broglie ed il dualismo onda–corpuscolo . 5.5 Il principio di indeterminazione di Heisenberg . . . . . . 5.6 Momenti magnetici associati ai moti orbitali elettronici . 5.7 Lo spin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’energia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 21 24 27 28 29 32 32 Capitolo 1 Inquadramento storico Verso la fine del XIX secolo la fisica aveva raggiunto un soddisfacente livello di sviluppo teorico e sperimentale. Essa permetteva di rendere conto praticamente di tutti i fenomeni naturali allora conosciuti: • La meccanica era stata completamente compresa e nella sua formulazione lagrangiana ed hamiltoniana aveva raggiunto un assoluto livello di rigore matematico. • La derivazione delle quattro equazioni di Maxwell aveva, invece, riconciliato in un’unica teoria di campo elettromagnetico tutta quella vastissima fenomenologia di effetti elettrici e magnetici scoperta ed investigata negli ultimi cento anni. • Parallelamente, l’ottica (sia geometrica che fisica) aveva spiegato tutti i principali fenomeni ondulatori (sia di tipo luminoso che meccanico). • Infine, la termodinamica aveva permesso di capire in profondità le leggi che governano la generazione, lo scambio e la trasformazione di energia in forma di calore. Cosa importantissima, le conoscenze teoriche avevano una vivace controparte sperimentale che aveva favorito, a sua volta, un impetuoso sviluppo tecnologico. Questo quadro confortante era destinato ad essere sconvolto nel giro di pochissimi anni nella transizione tra i secoli XIX e XX. Stava, infatti, per offrirsi all’attenzione dei fisici una ricca serie di nuovi fenomeni che sfuggivano ad ogni tentativo di interpretazione basato sulla meccanica, elettromagnetismo, ottica o termodinamica classica. In un modo o nell’altro, essi risultarono tutti riconducibili alle proprietà fisiche del mondo microscopico. La risposta che la comunità internazionale dei fisici diede a questa sfida rappresentò probabilmente il momento di più grande fertilità intellettuale di questa disciplina scientifica. Essa, infatti, porterà all’elaborazione della meccanica quantistica ed alla sua applicazione sistematica ai nuovi fenomeni. La meccanica quantistica rappresenta lo strumento più efficace per spiegare in modo profondo e completo i fenomeni naturali su scala microscopica. Questa rivoluzione rappresenta, inoltre, un esempio estremamente significativo di come il metodo scientifico è capace di superare e trasformare i propri postulati di base. In questo Dispensa vengono presentate e discusse alcune fenomenologie microscopiche che risultano non spiegabili in base alla fisica classica. Verrà, quindi, introdotto il rivoluzionario concetto di quanto di energia che sta alla base degli sviluppi teorici che hanno portato alla formalizzazione della meccanica quantistica. 4 Capitolo 2 Il calore specifico dei gas e dei solidi 2.1 Teoria cinetica dei gas La teoria cinetica dei gas predice le proprietà macroscopiche dei gas a partire dall’ipotesi che essi siano formati da costituenti elementari quali atomi o molecole. L’idea chiave alla base della teoria consiste nella rinuncia a calcolare esplicitamente in modo esatto le proprietà di particella singola (obiettivo praticamente irrealizzabile, visto che una mole di sostanza contiene dell’ordine di 1023 atomi), ma piuttosto di ragionare in termini di grandezze medie, ovvero di grandezze valutate come media sull’intera popolazione di atomi costituenti il gas. Per semplicità noi svilupperemo la teoria cinetica nel caso di un gas monoatomico ideale. In altre parole, assumeremo che: (i) il sistema sia costituito da una sola specie chimica in forma atomica; (ii) siano trascurabili le interazioni atomo–atomo. Ognuno di essi, dunque, si muoverà liberamente (cioè, in basi alle leggi della meccanica classica, di moto rettilineo uniforme) fino a quando non urti occasionalmente con un altro atomo, o con una delle pareti del recipiente contenente il gas. Quando ciò accade l’atomo subirà un urto che, sempre per semplicità, considereremo perfettamente elastico. Ne risulta, dunque, un moto casuale a zig–zag come quello schematicamente rappresentato in Fig.2.1. Descrivere, come sopra suggerito, in media le proprietà di questo moto, equivale a sostituire il concetto di traiettoria esatta di ogni singola particella con quello di libero cammino medio λ. Supponiamo che gli atomi siano sfere di raggio d: due di essi si urteranno quando la loro distanza sarà pari a 2d. Possiamo, quindi, descrivere il moto del generico atomo del gas come quello di una particella di dimensioni 2d che si muove, con velocità media pari a v̄, contro un insieme di particelle fisse e puntuali. Il numero di urti sperimentato nell’unità di tempo risulta pari a 4πd2 v̄n, dove n è il numero di atomi per unità di volume (densità di particelle). Abbiamo, cioè, contato il numero di particelle contenute, nell’unità di tempo, in un cilindro di raggio 2d ed altezza v̄. Secondo una definizione proposta originalmente da Maxwell, il libero cammino medio λ della particella è pari a λ= spazio percorso per unità di tempo v̄ 1 = = numero urti per unità di tempo 4πd2 v̄n 4πd2 n . (2.1) Questa espressione, che quantifica in media il moto di una particella di un gas, è in accordo con il senso comune: più denso è il materiale (maggiore è la sua densità n), minore è il libero cammino medio delle sue particelle costituenti. Ugualmente: maggiore è la dimensione atomica d, minore risulta λ. Consideriamo, dunque, un’assemblea di N atomi contenuta entro un recipiente cubico di lato l disposto, rispetto agli assi cartesiani, come indicato in Fig.2.2. Sia v il vettore che rappresenta la velocità di un certo atomo, di componenti vx , vy e vz . Quando esso urta contro la parete posta a x = l subirà, come detto, un urto elastico che non altera le componenti y ed z della velocità, mentre fa variare la componente x dal valore iniziale vx al valore finale −vx . In altre parole, l’atomo varia la sua quantità di moto (o momento lineare) di un valore pari a 2mvx , essendo m la sua massa. Tra questo urto ed il successivo contro questa stessa parete - deve passare, in media, un tempo pari a 2l/vx (questo, infatti, è il tempo necessario per attraversare l’intero recipente da x = l ad x = 0 e tornare indietro da x = 0 ad x = l). Durante un certo intervallo di tempo ∆t si osserveranno dunque un numero di urti contro la parete pari a ∆t/(2l/vx ) in modo tale che la corrispondente variazione di quantità di moto risulta pari a variazione totale quantità di moto = (numero urti) × (variazione quantità di moto per urto) 5 (2.2) CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 6 Figura 2.1: Rappresentazione schematica del moto casuale di un atomo secondo la teoria cinetica dei gas. Figura 2.2: Cinematica del singolo urto elastico atomo–parete. ovvero: mvx2 ∆t × (2mvx ) = ∆t . (2.3) 2l l Secondo la meccanica classica, possiamo uguagliare tale variazione di quantità di moto all’impulso che la particella ha esercitato in quell’intervallo di tempo sulla parete1 e scrivere variazione totale quantità di moto = fx ∆t = v x mvx2 ∆t l (2.4) da cui ricaviamo il valore medio della forza fx esercitata dall’atomo sulla parete: fx = mvx2 l . (2.5) Questo ragionamento può essere esteso alle altre due componeti cartesiane (ovvero agli urti contro le pareti y = l e z = l) ed a tutte le altre particelle costituenti il gas, in modo che la forza totale media F esercitata sulle pareti sarà: PN 2 Fx = ml vx,i Pi=1 N m 2 Fy = l i=1 vy,i P N 2 . (2.6) Fz = ml i=1 vz,i Se il gas è all’equilibrio non ci sono differenze macroscopiche tra le tre componenti cartesiane della forza totale e, quindi, possiamo calcolare la pressione P su una qualunque delle facce del recipiente cubico: P = 1 Ricordiamo Fx Fy Fx = 2 = 2 l2 l l . che l’impulso di una forza F che agisce per un tempo ∆t è semplicemente il prodotto F∆t (2.7) CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 7 Possiamo, inoltre, scrivere che in media: 2 2 2 vx,i = vy,i = vz,i = 1 2 v̄ 3 (2.8) per ogni particella i del gas, dove abbiamo introdotto la grandezza velocità quadratica media v̄ 2 = N 1 X 2 v N i=1 i (2.9) 2 2 2 dove vi2 = vx,i +vy,i +vz,i rappresenta il modulo quadro della velocità della i–esima particella. Finalmente, combinando le espressioni appena derivate, possiamo scrivere che la pressione vale P = 1 m 2 N v̄ 3 l3 (2.10) ovvero 1 N mv̄ 2 3 dove abbiamo fatto uso del fatto che per il recipiente considerato V = l3 . PV = 2.2 (2.11) Energia interna di un gas monoatomico ideale ed equipartizione dell’energia Consideriamo, ora, una mole di gas in modo che N = NA = 6.022 × 1023 sia il numero di Avogadro e, quindi, il prodotto M = NA m rappresenti la massa di una mole. Ricordando l’equazione di stato dei gas perfetti P V = RT (dove la costante universale dei gas R vale R = 8.314 J/K) possiamo scrivere PV = 1 M v̄ 2 = RT 3 (2.12) dove T è la temperatura del gas. Ne segue immediatamente una relazione di fondamenale importanza: r 3RT v̄ = . (2.13) M Essa sancisce, a meno di costanti, l’equivalenza tra la grandezza fisica macroscopica temperatura (quella grandezza legata alla esperienza fisiologica del “caldo” e “freddo”) ed una grandezza fisica che descrive una proprietà microscopica dei costituenti elementari della materia: la velocità quadratica media degli atomi. Abbiamo, quindi, attribuito un chiaro significato fisico al concetto empirico di caldo e freddo: più veloce è il moto di agitazione termica a livello atomico, maggiore è la temperatura del corpo. In modo più quantitativo, possiamo legare l’energia cinetica media degli atomi alla temperatura: 1 3 R 3 mv̄ 2 = T = KB T 2 2 NA 2 (2.14) avendo introdotto la costante di Boltzmann KB = R = 1.3807 × 10−23 J/K NA (2.15) Osserviamo che questa relazione è valida all’equilibrio termodinamico quando, cioè, sia possibile definire la temperatura di un sistema. Per esempio, se consideriamo un gas formato da idrogeno o da ossigeno √ alla temperatura di 273 Kelvin (cioè allo zero gradi Celsius) otteniamo dei valori di velocità medie v̄ 2 pari a 1840 ms−1 e 460 ms−1 , rispettivamente. Torniamo a considerare la generica particella del gas libera di muoversi nello spazio. Possiamo affermare che essa possiede tre gradi di libertà. La particella, infatti, ha una componente di moto per ciascuno dei tre assi cartesiani. In modo alternativo, si può dire che una siffatta particella ha tre gradi di libertà perchè ci vogliono tre coordinate cartesiane per definire in modo univoco la sua posizione nello spazio. La eq.(2.14) stabilisce un risultato importantissimo: dato un gas monoatomico ideale all’equilibrio termodinamico alla temperatura T , ad ogni sua particella compete, in media, una energia pari a 12 KB T per CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 8 Figura 2.3: Legge di distribuzione delle velocità molecolari per un gas di ossigeno a T=80K e T=800K. ogni grado di libertà. Questo risultato costituisce una prima (elementare) formulazione del principio di equipartizione dell’energia. In base a questo principio, è immediato scrivere l’espressione per l’energia interna U di una mole di gas monoatomico ideale2 : U= 3 RT. 2 (2.16) Sulla base di questi risultati, è possibile sviluppare un calcolo che permetta di ricavare la legge di distribuzione delle velocità molecolari di una gas all’equilibrio termico. Con questo intendiamo una legge capace di prevedere il numero Nv di particelle di un dato gas (all’equilibrio termico alla temperatura T ) che possiedono velocità compresa, in modulo, tra v e v+dv. Per brevità noi ricorderemo solo il risultato finale che è dovuto a Maxwell: 32 m mv 2 Nv = 4πN v 2 exp − (2.17) 2πKB T 2KB T dove N è il numero totale di particelle formanti il gas. È importante ricordare che questa legge, riportata in forma grafica in Fig.2.3, è stata verificata sperimentalmente in modo molto accurato. Questo risultato costituisce una delle più convincenti prove di validità della teoria cinetica dei gas. 2.3 Calori specifici di gas mono– e bi–atomici Ricordiamo che, secondo la termodinamica classica, il calore specifico di una certa sostanza alla temperatura T rappresenta il calore che è necessario somministrare ad una massa unitaria di quella sostanza per aumentare la sua temperatura di un grado Kelvin. Quando questo processo è eseguito in condizioni di volume costante, si parla di calore specifico a volume costante CV . La quantità di calore scambiata Q, la variazione di temperatura ∆T ed il calore specifico sono legati dalla semplice relazione: Q = CV ∆T . (2.18) La termodinamica, poi, ci insegna che il calore scambiato Q tra un sistema e l’ambiente esterno, il lavoro prodotto dal sistema W e la variazione della sua energia interna ∆U sono legati dalla relazione Q = W + ∆U (2.19) nota come primo principio della termodinamica. Esso, in sostanza, sancisce la conservazione dell’energia per processi termodinamici e può essere postulato su base sperimentale. Il modo più semplice per illustrarlo consiste nel considerare un gas contenuto in un recipiente a pareti fisse, sormontato da un pistone mobile, come illustrato in Fig.2.4. Somministrando del calore Q al gas, esso: (i) si scalda o, equivalentemente, aumenta la sua energia interna secondo la eq.(2.16); (ii) scaldandosi, si espande muovendo 2 L’energia interna, infatti, è solo di tipo cinetico, essendo il gas ideale caratterizzato dalla assoluta assenza di energie potenziali di interazione atomo–atomo. CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 9 Figura 2.4: Rappresentazione schematica del bilancio energetico tra calore, lavoro ed energia interna. Figura 2.5: Rappresentazione dei due gradi di libertà rotazionali di una molecola biatomica rigida. verso l’alto il pistone, cioè compiendo lavoro meccanico W . Se il pistone viene mantenuto fisso, non sarà più possibile compiere lavoro esterno e, in base al primo principio della termodinamica, tutto il calore assorbito dal sistema andrà in aumento di energia interna. Questo fenomeno può essere quantificato in base ai risultati della teoria cinetica dei gas. Per una mole di un gas monoatomico ideale, infatti, si ha che: Q = CV ∆T = ∆U = 3 R∆T 2 (2.20) da cui risulta immediatamente che CV = 3 R 2 gas monoatomico ideale . (2.21) Questo risultato è in buon accordo con il dato sperimentale e la cosa va considerata come un ulteriore lusinghiero successo della teoria cinetica dei gas, nonostante le drastiche approssimazioni che abbiamo adottato per svilupparla analiticamente. Proviamo, ora, ad estendere i risultati fino a qui ottenuti al caso di un gas biatomico. In questo caso, i suoi costituenti elementari sono molecole biatomiche formate da due atomi legati chimicamente. Cominciamo col considerare queste molecole biatomiche come entità rigide. In altre parole, assumiamo che i due atomi rimangano ad una distanza fissa. Un tale oggetto può, ovviamente, traslare nello spazio. Possiederà, quindi, 3 gradi di libertà traslazionali. Inoltre, la molecola biatomica può ruotare attorno alle due direzioni perpendicolari al suo asse molecolare, come illustrato in Fig.2.5. Dovremo, cosı̀ aggiungere due gradi di libertà rotazionali, che portano ad un totale di 5 gradi di libertà complessivi per molecola. In base al principio di equipartizione dell’energia, all’equilibrio termodinamico alla temperatura T ogni molecola possiederà in media una energia pari a 25 KB T e, quindi, il calore CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 10 Figura 2.6: Andamento del calore specifico CV a volume costante per il gas biatomico H2 in funzione della temperatura, riportata in ascissa in scala logaritmica. specifico a volume costante risulterà essere CV = 5 R 2 gas biatomico (molecole rigide) . (2.22) Questa volta l’accordo con i dati sperimentali è insoddisfacente. I valori misurati di CV , infatti, approssimano quello teorico soltanto in un limitato intervallo di temperature. La situazione è illustrata in Fig.2.6. Appare evidente che la predizione teorica risulta questa volta inadeguata sia alle basse, che alle alte temperature. In particolare si osserva che: • alle basse temperature il gas biatomico sembra comportarsi come un gas monoatomico; in altre parole, sembra che i gradi di libertà rotazionali siano stati “congelati” e che non debbano essere inclusi nella applicazione del principio di equipartizione dell’energia; • alle alte temperature il gas biatomico sembra acquisire due nuovi gradi di libertà che portano il valore di CV a 72 R. L’unico modo possibile per riconciliare teoria cinetica e dato sperimentale è ammettere che al progressivo aumentare della temperatura, vengano “accesi” sempre più gradi di libertà. Alle basse temperature, la molecola è animata solo da moto traslatorio; a temperature intermedie vengono innescati anche i modi di rotazione; infine, alle alte temperature i due atomi non possono più essere considerati fissi, ma acquistano ciascuno un grado di libertà vibrazionale lungo l’asse molecolare3 . In altre parole, cioè, la molecola non può più essere vista come una unità rigida. Questa interpretazione trova solo una giustificazione euristica; non vi è modo di spiegare, tuttavia, il perchè debba esistere una tale dipendenza dalla temperatura del numero e tipo di gradi di libertà molecolari attivi. Questa difficoltà rappresenta il primo importante fallimento della teoria cinetica dei gas. 2.4 Calori specifici dei solidi Da un punto di vista strutturale, possiamo descrivere un solido come una distribuzione ordinata e periodica di atomi. L’insieme di posizioni nello spazio occupate dagli atomi viene chiamato reticolo cristallino. Per esempio, in Fig.2.7 vengono riportati tre diversi modi di realizzare strutture cristalline a simmetria cubica. La differenza fondamentale tra un solido ed un gas è che, mentre in quest’ultimo gli atomi (o molecole) sono liberi di muoversi nello spazio, in un solido (per temperature inferiori a quella di fusione) gli atomi sono vincolati ai siti reticolari. Essi, al più, possono oscillare attorno alla loro posizione di equilibrio, con ampiezza variabile in funzione della temperatura. Affinchè, tuttavia, un atomo possa essere confinato 3 Questo modo di giustificare i due nuovi gradi di libertà vibrazionali non è rigoroso, come verrà discusso più avanti a proposito del calore specifico dei solidi. Tuttavia esso rappresenta un semplice ed efficace modo per visualizzare il fenomeno dell’“accesione” dei moti di vibrazione molecolare. CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 11 Figura 2.7: Celle convenzionali per il cristallo cubico semplice (sinistra), cubico a corpo centrato (centro) e cubico a facce centrate (destra). I pallini neri rappresentano i siti reticolari, cioè le posizioni degli atomi. Replicando periodicamente lungo i tre assi cartesiani queste celle convenzionali si ottiene il reticolo cristallino completo. in prossimità di un sito anche a temperatura finita, è necessario che su di esso agisca un potenziale “confinante”, ovvero che esista una forza di richiamo che impedisca all’atomo il definitivo allontanamento. È chiaro, dunque, che nel caso di un solido non potremo applicare banalmente la teoria cinetica del gas ideale dove, invece, si erano escluse a priori azioni di forza su/tra gli atomi. Per poter procedere, abbiamo bisogno di specificare la natura del potenziale “confinante” che ciascun atomo di un solido sperimenta. Un ottimo modello approssimato (che risulta efficace nel descrivere moltissime proprietà della materia allo stato solido) consiste nell’assumere che ogni atomo oscilli sul fondo di una buca di potenziale di tipo armonico. In altre parole, possiamo assumere che ogni atomo sia vincolato alla propria posizione di equilibrio da un potenziale elastico di tipo armonico. Ciò equivale ad ammettere l’esistenza di una forza di richiamo del tipo F = −kr, dove r rappresenta il vettore spostamento dal sito reticolare e k la costante elastica della “molla efficace” di richiamo all’equilibrio. Poichè ciascun atomo può oscillare nelle tre dimensioni, possiamo facilmente scrivere la sua energia totale ET : ET = 1 1 1 1 1 1 mv 2 + mv 2 + mv 2 + kx2 + ky 2 + kz 2 2 x 2 y 2 z 2 2 2 (2.23) avendo, per semplicità, assunto che la costante di forza k sia la stessa nelle tre direzioni e che il vettore spostamento r abbia componenti (x, y, z). Figura 2.8: Confronto tra la legge di Dulong e Petit (curva sottile) ed i dati sperimentali (curva spessa) per il calore specifico a volume costante di un solido di argento. La differenza fondamentale tra un atomo di un gas ideale e quello di un cristallo armonico consiste nella presenza di tre contributi di energia potenziale elastica nell’energia totale di quest’ultimo. Notiamo, però, che esiste una caratteristica comune ai contributi cinetici e potenziali nell’espressione di ET : entrambi sono quadratici. I termini cinetici, infatti, dipendono dal quadrato della velocità, mentre quelli potenziali dal quadrato dello spostamento. Questa analogia formale ci consente di giustificare una CAPITOLO 2. IL CALORE SPECIFICO DEI GAS E DEI SOLIDI 12 estensione importante del principio di equipartizione dell’energia: assumeremo che per un sistema all’equilibrio termodinamico alla temperatura T competa, in media, un’energia pari a 21 KB T ad ogni grado di libertà che introduca un termine quadratico nelle posizioni o nelle velocità nell’espressione dell’energia totale. Questa formulazione generale del principio può essere dimostrata rigorosamente con i metodi della meccanica statistica. Considerando un solido costituito da N atomi e supponendo che sia all’equilibrio alla temperatura T possiamo immediatamente scrivere la sua energia interna come U = 3N KB T e, per una mole di sostanza (cioè N = NA ), ricavare il calore specifico: CV = 3R solido cristallino armonico . (2.24) Questo risultato è noto come legge di Dulong e Petit ed è verificato in buona approssimazione da moltissimi solidi a temperature sufficientemente alte. Quando, tuttavia, si scende in temperatura, le risultanze sperimentali evidenziano forti deviazioni dalla legge di Dulong e Petit fino a dimostrare che CV si annulla alla temperatura zero. Questo risultato è illustrato in Fig.2.8. L’incapacità di spiegare il calore specifico dei solidi costitisce un nuovo importante fallimento della fisica classica. Per riconciliare teoria ed esperimento bisognerà, infatti, sostituire la descrizione di un atomo cristallino come oscillatore classico, con quella più rigorosa di un oscillatore che obbedisce alle regole della fisica quantistica. Capitolo 3 Lo spettro del corpo nero È esperienza comune che un corpo a temperatura sufficientemente alta irradia calore, facilmente percepibile anche senza strumenti sofisticati (si pensi al termosifone od alla stufa usati per riscaldamento domestico). Questo fatto rappresenta una manifestazione del fenomeno dell’irraggiamento termico: ogni corpo che si trovi ad una temperatura superiore allo zero assoluto emette radiazione elettromagnetica. Tale radiazione (che, spesso, è indicata come radiazione termica per ricordare lo stretto legame con la temperatura) è distribuita su tutto lo spettro delle frequenze (vedi Fig.3.1) e la sua intensità aumenta con l’aumentare della temperatura. La distribuzione spettrale della radiazione termica manifesta un massimo in corrispondenza di una frequenza νmax che aumenta all’aumentare della temperatura del corpo. Anche questo fenomeno rientra nella nostra esperienza quotidiana: limitandosi, per esempio, a quella porzione dello spettro elettromagnetico che corrisponde alla luce visibile (cioè a quella parte dello spettro che può essere rilevata dall’occhio umano) è noto che scaldando sempre più un pezzo di metallo, il suo colore passa dal rosso, all’arancio, al bianco. Il massimo di emissione di radiazione da parte del metallo avviene, cioè, a frequenze sempre maggiori. In generale, caratterizziamo la radiazione termica emessa da un corpo qualunque tramite il suo potere emissivo spettrale eν (detto anche brillanza spettrale) che rappresenta la quantità di energia elettromagnetica emessa nell’unità di tempo dall’unità di superficie nell’intervallo di frequenze [ν, ν + dν]. Il potere emissivo spettrale è legato da una semplice relazione alla densità di energia elettromagnetica uν emessa1 : eν = c uν 4 (3.1) dove c è la velocità della luce. Naturalmente, un corpo può anche assorbire radiazione elettromagnetica. Possiamo quantificare il processo di assorbimento tramite il potere assorbente spettrale aν (o assorbanza 1 Ricordiamo che u rappresenta la quantità di energia elettromagnetica per unità di volume ed è proporzionale al modulo ν quadro del vettore campo elettrico ed al modulo quadro del vettore campo magnetico che definiscono l’onda elettromagnetica di frequenza ν che stiamo considerando. Figura 3.1: Lo spettro della radiazione elettromagnetica. 13 CAPITOLO 3. LO SPETTRO DEL CORPO NERO 14 Figura 3.2: Rappresentazione schematica di un corpo nero come cavità. spettrale), definito come la quantità di energia elettromagnetica assorbita nell’unità di tempo dall’unità di superficie nell’intervallo di frequenze [ν, ν + dν]. È naturale aspettarsi che eν ed aν dipendano, presi singolarmente, dalla natura chimico–fisica del corpo che stiamo considerando (un pezzo di metallo esposto all’irraggiamento solare si scalda diversamente da un pezzo di plastica) e dalle caratteristiche della sua superficie (un corpo di superficie lucida assorbe meno radiazione di un corpo uguale, ma con superficie opaca). Tuttavia è possibile dimostrare che, per ogni fissata frequenza ν, il loro rapporto è una funzione universale della sola temperatura. In altre parole, vale la seguente legge di Kirchhoff Σν (T ) = eν aν (3.2) dove Σν (T ) rappresenta tale funzione universale, che non dipenderà più in alcun modo dallo specifico corpo considerato, ma solo dalla sua temperatura. È utile introdurre a questo punto il concetto di corpo nero, come quel corpo capace di assorbire tutta la radiazione elettromagnatica su di esso incidente, per qualunque frequenza e per qualunque temperatura. In altre parole, un corpo nero è un oggetto che non riflette (nè trasmette) radiazione. Il concetto di corpo nero è un’astrazione, ma possiamo citare diversi esempi pratici in cui un oggetto si comporta quasi esattamente come un corpo nero. Si pensi, ad esempio, ad una cavità ricavata dentro ad un oggetto come rappresentata in Fig.3.2. La radiazione elettromagnetica può penetrare entro la cavità (caratterizzata da pareti riflettenti) attraverso una piccola apertura. Una volta entrata nella cavità, la radiazione rimane ivi “intrappolata”, perchè è molto poco probabile che riesca a fuoriscire attraverso la piccola fenditura. In altre parole, la cavità assorbe praticamente tutta la radiazione che riceve. È, quindi, un corpo nero a tutti gli effetti pratici. Segue immediatamente dalla definizione data che un corpo nero ha potere assorbente spettrale unitario a qualunque frequenza: aν (corpo nero)=1. La legge di Kirchhoff, dunque, può essere interpretata come segue: il rapporto tra potere emissivo e potere assorbente di un corpo qualsiasi ad un certa frequenza e temperatura è sempre uguale al potere emissivo del corpo nero a quella frequenza e temperatura. Da questa semplice deduzione, discende l’enorme importanza concettuale che ha il corpo nero per quel capitolo della fisica che si occupa di termodinamica della radiazione. Se conosciamo lo spettro di emissione del corpo nero, siamo in grado di risalire, tramite la legge di Kirchhoff, alle caratteristiche di assorbimento ed emissione di un qualsiasi altro oggetto. Per questo motivo, il corpo nero fu dettagliatamente studiato negli ultimi tre decenni del XIX secolo. 3.1 Gli esperimenti e la teoria classica Il tipico apparato sperimentale per lo studio dello spettro di emissione del corpo nero è schematicamente rappresentato in Fig.3.3: la cavità C rappresenta il corpo nero le cui pareti vengono portate alla temperatura desiderata tramite accoppiamento con il termostato T . La materia che forma queste pareti emette radiazione termica che rimane intrappolata nella cavità2 . Se pratichiamo un orefizio O attraverso una 2 Più rigorosamente, diremo che la radiazione emessa dalle pareti della cavità rimane ivi confinata dando origine ad un sistema di onde elettromagnetiche stazionarie. CAPITOLO 3. LO SPETTRO DEL CORPO NERO 15 Figura 3.3: Apparato sperimentale per la rivelazione dello spettro di corpo nero. Figura 3.4: Lo spettro di corpo nero raccolto sperimentalmente a diverse temperature (linee continue). La linea tratteggiata rappresenta la legge classica di Rayleigh–Jeans. parete, la radiazione termica può fuoriuscire, ovvero viene emesso lo spettro di corpo nero che è infine raccolto ed analizzato (sia in intensità, che in distribuzione spettrale) dal rivelatore R. Il risultato sperimentale è descritto in Fig.3.4 dove viene riportata la densità di energia elettromagnetica uν emessa da un corpo nero a diverse temperature, in funzione della frequenza ν. L’analisi quantitativa delle curve sperimentali ha permesso di stabilire alcune leggi fenomenologiche: • legge di Stefan (1879): l’energia elettromagnetica totale utot irraggiata per unità di tempo dall’unità di area è proporzionale alla quarta potenza della temperatura T del corpo nero: utot = σT 4 (3.3) dove σ = 5.67 × 10−8 Wm−2 K−4 è detta costante di Stefan; • legge di Wien (1893): la frequenza νmax alla quale si ha il massimo della densità spettrale della radiazione di corpo nero dipende in modo direttamente proporzionale dalla temperatura: νmax = costante T (3.4) (questa legge è anche nota come legge dello spostamento). Il tentativo classico di spiegazione di queste risultanze sperimentali e delle corrispondenti leggi fenomenologiche fu elaborato come segue. Quando la radiazione di corpo nero presente nella cavità è in equilibrio termico con la materia che costituisce le pareti di quest’ultima, allora deve esserci corrispondenza tra la distribuzione di energia della radiazione e quella degli atomi che formano il materiale delle CAPITOLO 3. LO SPETTRO DEL CORPO NERO 16 pareti3 . Calcoliamo, dunque, quella degli atomi che, essendo animati da moti di oscillazione termica, si comportano in buona approssimazione come oscillatori armonici. Dalla meccanica classica sappiamo che un oscillatore armonico di massa m, frequenza propria ν ed ampiezza di oscillazione R possiede energia Eoscillatore armonico classico = 2π 2 mν 2 R2 , (3.5) ovvero può possedere qualunque valore continuo di energia (purchè la frequenza e l’ampiezza di oscillazione abbiano valori opportuni). Classicamente, dunque, la radiazione di corpo nero è descritta come un insieme di onde stazionarie confinate nella cavità con distribuzione continua di frequenze. È possibile calcolare che il numero dnν di onde per unità di volume con frequenza compresa nell’intervallo [ν, ν + dν] è 8π 2 ν dν (3.6) c3 cui, alla temperatura T , corrisponde una energia media per unità di volume e per intervallo spettrale [ν, ν + dν] pari a: uν dν = Em dnν = KB T dnν (3.7) dnν = dove abbiamo fatto uso del principio di equipartizione dell’energia, imponendo che l’energia media Em degli oscillatori armonici valga all’equilibrio termico KB T . Segue immediatamente che per la densità di energia uν vale la seguente espressione 8π (3.8) uν = 3 ν 2 KB T c nota come legge di Rayleigh–Jeans. Il confronto tra i risultati sperimentali ed il modello teorico che abbiamo fin qui sviluppato è riassunto in Fig.3.4. Come si vede possiamo ritenere buono tale accordo nel limite di piccole frequenze, mentre esso risulta assolutamente insoddisfacente alle alte frequenze. Il modello di Rayleigh–Jeans, infatti, non prevede l’esistenza di un massimo per uν che, addirittura, cresce in modo monotono fino a divergere per frequenze elevate. La conseguenza di ciò è importante: integrando l’eq.(3.8) su tutto lo spettro, si ottiene un risultato infinito. Questo risultato paradossale fu chiamato catastrofe ultravioletta per indicare il fallimento della teoria alle alte frequenze. Il risultato trovato è particolarmente insoddisfacente perchè: (i) contrasta con il principio di conservazione dell’energia4 ; (ii) non permette di spiegare la legge di Stefan; (iii) non consente di giustificare il valore numerico della costante di Stefan σ. In conclusione, la fisica classica non riesce a spiegare lo spettro di emissione di un corpo nero. 3.2 La teoria quantistica di Planck L’enigma dello spettro di corpo nero fu risolto da Planck nel 1900 con l’introduzione di una ipotesi rivoluzionaria. Planck, infatti, assunse che ciascun oscillatore armonico radiativo potesse emettere (e, equivalentemente, assorbire) energia solo in quantità proporzionali alla sua frequenza ν. Questa ipotesi corrisponde ad ammettere che l’energia di un oscillatore atomico sia quantizzata5 . Questa condizione è in totale discontinuità con la teoria elettromagnetica classica che, invece, prevede che energia emessa (o assorbita) e frequenza di oscillazione siano direttamente proporzionali e variabili con continuità. Operativamente, Planck sostituı̀ l’eq.(3.5) con la seguente espressione Eoscillatore armonico quantistico = nhν (3.9) dove n = 1, 2, 3, · · · è un numero intero qualunque e h è una opportuna costante di proporzionalità il cui valore deve essere ancora determinato. Planck ripercorse il ragionamento che abbiamo già schematicamente sviluppato, utilizzando la nuova espressione per l’energia di oscillatore. Il risultato ottenuto è rappresentato dalla espressione uν = ν3 8πh c3 exp hν − 1 KB T (3.10) 3 Se cosı̀ non fosse, si osserverebbe un flusso di energia tra parete e radiazione, o viceversa. Possiamo, perciò calcolare indifferentemente la distribuzione di energia degli atomi o della radiazione, a seconda della nostra convenienza: le due distribuzioni sono uguali in virtù di questo equilibrio. 4 Basterebbe scaldare un corpo nero ad una qualunque temperatura maggiore di zero per emettere una quantità infinita di energia. 5 L’aggettivo quantizzata significa che tale energia non è più una funzione continua della frequenza, ma diventa una grandezza discreta. CAPITOLO 3. LO SPETTRO DEL CORPO NERO 17 nota come legge di Planck per il corpo nero. Questa formula è in ottimo accordo con i dati sperimentali di Fig.3.4. Infatti: • il limite per frequenze infinite è zero; • il limite per frequenza nulla è zero; • il limite per frequenze piccole è uν ∼ ν 2 , in accordo con la teoria di Rayleigh–Jeans; • l-eq.(3.10) ammette un massimo per una certa frequenza νmax che dipende linearmente dalla temperatura; • il grafico dell’eq.(3.10) per ogni data temperatura è indistinguibile dalle curve sperimentali su tutto lo spettro di frequenze. Il valore di h, chiamata costante di Planck, fu ottenuta per calibrazione sulle curve sperimentali. Ad essa è assegnato il valore numerico h = 6.62 × 10−34 J s . (3.11) L’ipotesi di quantizzazione delle energie introdotta da Planck ebbe, nonostante il suo carattere rivoluzionario, grande eco in virtù dell’eccellente accordo teoria–esperimento che essa forniva. Essa fu immediatamente adottata da Einstein per tentare di risolvere il problema ancora aperto del calore specifico dei solidi. Considerando, dunque, gli N atomi di un reticolo cristallino come oscillatori armonici quantizzati tridimensionali, Einstein ricavò una nuova espressione per l’energia interna U di un solido, ottenendo: hν solido cristallino armonico quantizzato . (3.12) U = 3N exp Khν − 1 BT Nel caso di volume costante, il primo principio della termodinamica consente di scrivere6 per una variazione finita ∆T di temperatura: ∆U CV = . (3.13) ∆T Estendendo questa espressione al caso di trasformazioni infinitesime a volume costante otteniamo immediatamente che 2 hν dU hν exp KB T CV = = 3R (3.14) dT KB T exp Khν − 1 BT dove abbiamo considerato una mole di sostanza N = NA . Considerando questa nuova espressione per il calore specifico di un solido, è facile dimostrare che: • il limite per temperatura nulla è zero; • il limite per temperatura infinita è 3R. Inoltre, la rappresentazione grafica dell’eq.(3.14) riproduce quasi esattamente l’andamento sperimentale di Fig.2.18 per tutti i materiali considerati7 . 6 Si vedano le eq.(2.19) e (2.20), facendo uso del fatto che W = 0. possibile migliorare ulteriormente l’accordo con il dato sperimentale, ammettendo che gli N atomi di un cristallo possano oscillare a frequenze diverse. Esisteranno, quindi, per ciascun materiale considerato delle frequenze proprie di oscillazione su ciascuna delle quali si può ripetere il ragionamento di Einstein, pervenendo ad una formula solo leggermente diversa, ma in eccellente accordo con gli esperimenti. Il fatto che gli atomi di un cristallo possano oscillare a diverse frequenze è conseguenza diretta delle loro interazioni reciproche. Questo miglioramento della teoria di Einstein fu dovuto al fisico Debye. 7 È Capitolo 4 L’effetto fotoelettrico Discutiamo un altro effetto la cui interpretazione corretta è basata sull’ipotesi di quantizzazione dell’energia. Si consideri l’apparato sperimentale di Fig.4.1 dove due armature metalliche A (anodo) e C (catodo) sono inserite in un tubo a vuoto T . Le due armature sono collegate ad un generatore di differenza di potenziale V ed il circuito è completato da un misuratore di intensità di corrente elettrica G. In condizioni normali, ovviamente, il misuratore G non registra il passaggio di alcuna corrente. Tuttavia, qualora il catodo C venga illuminato da una radiazione elettromagnetica opportuna, si osserva passaggio di corrente nel circuito. Questo fenomeno, scoperto ed analizzato in due fasi distinte da Hertz e da Hallwachs e Lenard, fu chiamato effetto fotolelettrico. La cosa importante da sottolineare in modo particolare è che si osserva passaggio di corrente solo se la radiazione incidente ha frequenza opportuna. Per esempio, se le due armature C ed A sono di tipo metallico, si osserva effetto fotoelettrico solo se la frequenza è maggiore od uguale a quella della luce ultravioletta. Per frequenze inferiori, non si osserverà mai il fenomeno, neanche aumentando di molto l’intensità della radiazione. In condizioni di opportuna illuminazione (cioè fissando la frequenza della luce ad un valore opportuno), si osserva tra anodo e catodo una corrente elettrica i il cui andamento in funzione della differenza di potenziale V tra C ed A è illustrato in Fig.4.2. Questa curva sperimentale ha alcune caratteristiche importanti: • i è diversa da zero anche quando V = 0; • i satura ad un valore massimo, oltre il quale non si riesce ad andare, neanche aumentando arbitrariamente la differenza di potenziale; • esiste un valore di differenza di potenziale negativo (cioè corrispondende ad una situazione di inversione di polarità della V) in corrispondenza del quale i si annulla; • mantenendo la frequenza della luce costante ad un valore opportuno, ma aumentando l’intensità della stessa, la corrente satura ad un valore di intensità maggiore. Figura 4.1: Schema dell’apparato sperimentale per l’osservazione dell’effetto fotoelettrico. 18 CAPITOLO 4. L’EFFETTO FOTOELETTRICO 19 Figura 4.2: Andamento sperimentale della corrente i prodotta per effetto fotoelettrico in funzione della d.d.p. erogata dal generatore V. L’interpretazione teorica dell’effetto fotoelettrico fu offerta per la prima volta da Einstein nel 1905. Innanzitutto va osservato che affinchè circoli corrente nel circuito di Fig.4.1 è necessario ammettere che dei portatori di carica (elettroni, in questo caso) siano emessi da catodo. Essi, accelerati dalla tensione generata da V, verranno raccolti sull’anodo e, quindi, rilevati da G. Bisogna, quindi, ammettere che la radiazione elettromagnetica abbia, in opportune conduzioni, la capacità di estrarre elettroni dalla superficie metallica del catodo. Einstein, utilizzando il concetto di quantizzazione di Planck, ipotizzò che una radiazione di frequenza ν fosse rappresentabile come pacchetti di luce, ciascuno avente energia pari a hν. Questi pacchetti furono chiamati fotoni o quanti di luce. In altre parole Einstein sostituı̀ la descrizione tradizionale della luce come fenomeno ondulatorio, con una descrizione corpuscolare: un raggio luminoso di frequenza ν è un flusso di fotoni di energia hν. Ciascun fotone incidente sul catodo può interagire con gli elettroni di conduzione e trasmettere ad uno di essi tutta la sua energia. In altre parole, il meccanismo di interazione radiazione–materia tra luce e catodo è descritto come una serie di interazioni tra corpuscoli (elettroni e fotoni) che scambiano energia1 . Un elettrone che acquista energia hν da un fotone fuoriesce dalla superficie metallica solo se la sua energia cinetica Ecin è maggiore o al più uguale al lavoro di estrazione W del metallo. Ricordiamo che il lavoro di estrazione di un metallo rappresenta la minima quantità di energia che è necessario trasmettere ad un elettrone immerso in un metallo affinchè venga rotto il suo legame col metallo stesso. Questa grandezza assume un valore caratteristico tipico per ciascun metallo. Tipicamente W ha il valore di alcuni elettronVolt (eV) per i metalli più noti. Ricordiamo che l’elettronVolt rappresenta una unità di misura di energia definita cosı̀ : 1 eV è l’energia cinetica acquistata da un elettrone accelerato da una differenza di potenziale pari ad 1 Volt. Quindi, poichè si ha che Ecin = hν − W (4.1) la condizione sotto la quale si osserva estrazione di elettroni, ovvero si misura corrente nel circuito, risulta essere: hν > W . (4.2) L’ipotesi di esistenza del fotone spiega, quindi, in modo naturale perchè la manifestazione dell’effetto fotoelettrico dipenda dalla frequenza della radiazione usata. Possiamo, poi, aggiungere una stima quantitativa per la cosidetta frequenza di soglia ν0 al di sotto della quale non si osserverà mai fotoemissione di elettroni: W (4.3) ν0 = h che corrisponde, per i metalli, ad una frequenza ultravioletta. 1 L’ipotesi di Einstein, che gli valse il premio Nobel per la fisica, anticipò il concetto di dualismo onda–corpuscolo che sottointende tutta la fisica quantistica. Secondo questo concetto, ogni fenomeno naturale può efficacemente essere descritto come un’onda o come un corpuscolo, a seconda della specifica situazione considerata. Esistono, poi, precise regole di corrispondenza tra la natura ondulatoria e corpuscolare dello stesso fenomeno o oggetto. La luce, quindi, è descritta in modo impeccabile come un’onda quando se ne considerino le modalità di propagazione, riflessione, rifrazione, interferenza. In modo parimenti efficace e veritiero, la luce è descrivibile come un flusso di corpuscoli, i fotoni, quando interagisce con l’insieme degli elettroni di un cristallo. CAPITOLO 4. L’EFFETTO FOTOELETTRICO 20 Figura 4.3: Analisi grafica qualitativa delle traiettorie degli elettroni fotoemessi dal catodo ed accelerati dal campo elettrico esistente tra catodo ed anodo. L’ipotesi di Einstein consente anche di spiegare l’andamento della corrente in funzione della tensione applicata. Il generico elettrone fotoemesso fuoriesce dalla superficie del catodo con una vettore velocità orientato a caso. Tale velocità iniziale, quindi, possiede una componente orizzontale ed una verticale. Poichè tra le due armature esiste un campo elettrico costante ed uniforme, l’elettrone subisce l’azione di una forza costante diretta orizzontalmente, cosı̀ come indicato in Fig.4.3. Il moto risultante è descritto da un arco di parabola, la cui curvatura dipende dal modulo e dalla direzione della velocità iniziale dell’elettrone fotoemesso, cosı̀ come dal valore della differenza di potenziale elettrostatico applicata tra catodo ed anodo. In generale, non tutte le traiettorie hanno una curvatura tale per cui l’elettrone possa venire raccolto sull’anodo. Tuttavia, se aumentiamo la differenza di potenziale, riusciremo a curvare sempre più le traiettorie, fino a raggiungere il valore in corrispondenza del quale tutti gli elettroni fotoemessi dal catodo vengono raccolti sull’anodo: questa condizione corrisponde alla condizione di corrente di saturazione. Al contrario, se invertiamo la polarità del generatore V, otteniamo l’effetto di curvare le traiettore degli elettroni emessi in direzione opposta, cioè faremo deflettere gli elettroni uscenti verso il catodo. Quando la differenza di potenziale negativa raggiunge un certo valore, allora tutti gli elettroni emessi tornano sul catodo e la corrente si annulla. Questo valore di differenza di potenziale negativa si chiama potenziale di arresto Varresto . Infine, i diversi valori di corrente di saturazione che si osservano al variare della intensità della radiazione, sono anch’essi spiegabili in base a questa interpretazione corpuscolare della luce. Aumentare l’intensità di un fascio luminoso, infatti, significa aumentare il numero di fotoni contenuti nel fascio. Un fascio più intenso (di opportuna frequenza), dunque, depositerà un maggior numero di fotoni sulla superficie del catodo e conseguentemente farà emettere un maggior numero di elettroni. Ciò equivale a raggiungere correnti di maggior intensità. In conclusione, possiamo affermare che per la terza volta (calori specifici, spettro del corpo nero ed effetto fotoelettrico) l’introduzione di una ipotesi di quantizzazione ha riconciliato i dati sperimentali con l’interpretazione teorica. Appare, quindi, evidente che le leggi della Natura sulla scala microscopica non possono più essere quelle della fisica classica, cui è estraneo ogni concetto di discretizzazione (quantizzazione). Fino ad ora, tuttavia, il concetto di quanto è stato introdotto per pura convenienza, senza alcuna giustificazione formale, se non quella euristica: cosı̀ facendo si mettono a posto le cose ... Appare evidente, quindi, la necessità di sviluppare un nuovo capitolo della fisica dove i fenomeni di quantizzazione risultino come naturale conseguenza dei principi di base. Capitolo 5 La fisica dei quanti Questo Capitolo si apre con la discussione di una nuova serie di risultanze sperimentali emerse agli inizi del XX secolo a riguardo degli spettri di emissione ed assorbimento di radiazione elettromagnetica da parte di sistemi atomici. Ancora una volta, le misure risultarono sconcertanti perchè non giustificabili classicamente. La prima risposta organica al nuovo enigma fu elaborata da Bohr e condusse alla formulazione del primo modello teorico per la struttura dell’atomo, descritto nel secondo e terzo paragrafo di questo Capitolo. La teoria di Bohr ha la notevole caratteristica di essere fondata su una ipotesi di partenza di tipo quantistico. Il Capitolo termina con la discussione del concetto di dualismo onda–corpuscolo, concetto che sta alla base della moderna teoria quantistica. 5.1 Spettri atomici Riferiamoci, per semplicità, all’atomo di idrogeno che, come noto, è formato da un elettrone legato ad un nucleo formato da un solo protone. Se si misura sperimentalmente la frequenza della radiazione elettromagnetica emessa da questo atomo, si ottiene il risultato rappresentato in Fig.5.1 da cui si evince una cosa importantissima: la radiazione emessa da un atomo possiede solamente alcune lunghezze d’onda determinate (o, analogalmente, alcune frequenze determinate). In altre parole, lo spettro di emissione è discreto. Tali lunghezze d’onda si raggruppano inoltre in sequenze di righe. Più in dettaglio, possiamo dire che le diverse righe spettrali si raggruppano in sequenze regolari chiamate serie. Le lunghezze d’onda λ delle diverse righe formanti una serie soddisfano la seguente regola empirica scoperta da Rydberg: 1 1 1 =R − 2 (5.1) λ n21 n2 dove la costante R (costante di Rydberg) vale 109677 cm−1 . I numeri n1 ed n2 sono numeri interi positivi che individuano le diverse serie secondo le seguenti relazioni n1 n1 n1 n1 n1 =1 =2 =3 =4 =5 e e e e e n2 n2 n2 n2 n2 = 2, 3, 4, · · · = 3, 4, 5, · · · = 4, 5, 6, · · · = 5, 6, 7, · · · = 6, 7, 8, · · · serie serie serie serie serie di di di di di Lyman Balmer Paschen Brackett Pfund ; (5.2) le serie hanno preso il nome dallo sperimentatore che per primo le ha risolte spettroscopicamente. È importante notare che gli spettri di assorbimento presentano esattamente le stesse caratteristiche. La radiazione elettromagnetica è anch’essa assorbita da un atomo di idrogeno (o da un qualunque altro atomo) a lunghezze d’onda date dalla legge di Rydberg. Le lunghezze d’onda (e le frequenze) di assorbimento/emissione sono esattamente coincidenti. L’interpretazione delle misure sperimentali sugli spettri atomici richiede l’utilizzo di un adeguato modello di struttura atomica. L’ipotesi allora più accreditata era basata sul modello atomico di Thomson, secondo il quale un atomo all’equilibrio è formato da una distribuzione continua di carica elettrica 21 CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 22 Figura 5.1: Spettro di emissione/assorbimento dell’atomo di idrogeno. Figura 5.2: Traiettorie di diffusione di particelle α come osservate nell’esperimento di Rutherford. positiva1 nella quale sono presenti delle cariche elettriche negative puntiformi (gli elettroni) in numero sufficiente ad assicurare la neutralità di carica dell’atomo nel suo complesso. Era stato però dimostrato da Earnshaw che, in base alla elettrostatica classica, una siffatta distribuzione di cariche positive e negative compenetrantesi non è stabile. Inoltre, questa struttura atomica non era compatibile con le risultanze spettroscopiche. Il modello di Thomson fu sostituito dal modello planetario di Rutherford, elaborato nel 1911 a seguito di esperimenti di diffusione di un fascio di particelle α attraverso una sottile lamina metallica2 . L’analisi delle traiettorie delle particelle diffuse dimostrava che si davano tre casi possibili, come indicato in Fig.5.2: • alcune particelle venivano solo leggermente deviate durante l’ attraversamento della lamina (traiettoria 1); • altre particelle invece venivano deviate fortemente rispetto alla traiettoria di avvicinamento (traiettoria 2); • infine alcune particelle venivano addirittura retrodiffuse (traiettoria 3). L’unica possibilità che spieghi quanto osservato consiste nell’ipotizzare che ogni atomo formante la lamina metallica sia costituito da un nucleo massivo, caricato positivamente e praticamente puntiforme, attorno al quale ruotino gli elettroni su orbite che, per semplicità, possiamo considerare perfettamente circolari. Ne risulta il modello di atomo nucleare o planetario illustrato in Fig.5.3. Riferendoci di nuovo all’atomo di idrogeno, l’intrepretazione degli spettri atomici nell’ambito del modello di Rutherford passa attraverso il calcolo della radiazione emessa da un elettrone in orbita circolare 1 Per semplicità, possiamo immaginarla come una sfera carica con densità di carica spaziale data da una certa funzione ρ(x, y, z). 2 Ricordiamo che una particella α è costituita dal nucleo di un atomo di elio; essa, quindi, è una particelle di carica elettrica positiva. CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 23 Figura 5.3: La struttura dell’atomo planetario (o nucleare) di Rutherford (sinistra). Giustificazione della deviazione di traiettoria per una parlicella α nei tre casi descritti nel testo (destra). attorno ad un nucleo e soggetto alla forza elettrostatica di attrazione data dalla legge di Coulomb: Felettrone−nucleo = − 1 e2 4π0 r2 (5.3) dove abbiamo indicato con e = 1.6 × 10−19 C la carica elettrica (positiva) del protone formante il nucleo e dell’elettrone (negativa); r indica il raggio dell’orbita circolare percorsa da quest’ultimo durante il suo moto di rivoluzione. Poichè l’eq.(5.3) rappresenta una forza radiale di tipo centrale, il moto dell’elettrone sarà di tipo circolare uniforme, come studiato in meccanica classica. Se assumiamo (come indica la chimica dell’atomo di idrogeno) che r=0.529 Å=0.529 ×10−8 cm, allora ne segue che i moduli della velocità di rotazione v e della corrispondente accelerazione a valgono rispettivamente: q 2 v = 4πe0 mr = 2.19 × 106 m s−1 a = v2 r = 9.02 × 1022 m s−2 (5.4) dove m = 9.11 × 10−31 Kg è la massa dell’elettrone. In generale, la potenza P irraggiata (cioè la quantità di energia elettromagnetica emessa nell’unità di tempo) da una particella di carica e che si muove con accelerazione a è data dalla espressione e2 a2 P = (5.5) 6π0 c3 nota come formula di Larmor3 . Sostituendo tutti i valori numerici noti, otteniamo che la potenza PH irraggiata classicamente da un atomo di idrogeno vale PH = 4.72 × 1011 eV s−1 . (5.6) Dalla chimica è noto come l’energia di ionizzazione di un atomo di idrogeno sia pari a 13.6 eV. In altre parole, bisogna spendere un lavoro pari a 13.6 eV per strappare l’elettrone dal suo nucleo e portarlo a distanza infinita. La quantità 13.6 eV rappresenta, dunque, la quantità di energia immagazzinata in un atomo di idrogeno nello stato fondamentale sotto forma di interazione elettrostatica. Se essa viene dissipata nel tempo secondo la potenza PH che abbiamo calcolato, allora un atomo di idrogeno perde tutta la sua energia in un tempo dell’ordine di 10−11 s. Il risultato è stupefacente: secondo la fisica classica, un atomo di idrogeno perde tutta la sua energia in poco più che un centomiliardesimo di secondo. “Perdere energia” significa dire che l’elettrone diminuisce la sua velocità di rotazione e, conseguentemente, vede diminuire il suo raggio orbitale. In una parola: secondo la fisica classica un elettrone precipita sul nucleo in un tempo dell’ordine di 10−11 s. La materia, cosı̀ come noi la conosciamo, non dovrebbe essere stabile! Il quadro è già abbastanza sconfortante, ma, putroppo, le cose vanno ancor peggio di cosı̀İnfatti, un elettrone che irraggia e, quindi, rallenta cadendo sul nucleo, si muove di un moto a spirale, piuttosto 3 Questa equazione è ricavata esplicitamente nel libro R. Mazzoldi, M. Nigro e C. Voci, “Fisica - vol. Elettromagnetismo ed onde” (casa editrice EdiSES). II - CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 24 Figura 5.4: Traiettoria a spirale seguita da un elettrone in orbita attorno al nucleo atomico secondo la fisica classica. complicato, ma schematicamente illustrato in Fig.5.4. Durante questo moto, il suo raggio r(t) varia 1 nel tempo con continuità secondo una legge del tipo: r(t) = r0 − At 3 , con r0 pari al valore iniziale della distanza elettrone–nucleo e A costante opportuna. Durante questo moto di rivoluzione, l’elettrone dovrebbe emettere radiazione elettromagnetica con frequenza variabile con continuità. In altre parole: classicamente gli spettri dovrebbero essere continui. Il punto cui siamo arrivati è sconsolante: secondo la fisica classica gli atomi (e dunque la materia) non dovrebbero essere stabili e dovrebbero emettere spettri continui. Invece, la materia esiste stabilmente e gli spetri atomici sono discreti. C’è qualcosa di qualitativamente sbagliato nel modello atomico che fu sviluppato da Rutherford. 5.2 Il modello di Bohr per l’atomo di idrogeno L’impasse cui si era pervenuti, indusse Bohr a formulare nel 1913 un modello per l’atomo di idrogeno basato su due postulati nei quali il concetto di discretizzazione (quantizzazione) delle frequenze veniva introdotto fin da subito. Questo modello è costruito su due postulati. In base al primo postulato Bohr assunse che l’elettrone percorresse solo quelle orbite circolari per le quali il suo momento angolare l = r × mv avesse modulo dato da un multiplo intero di h/2π (poichè l’orbita circolare è piana e la forza agente è centrale, la direzione ed il verso di l sono perfettemante determinate). In altre parole, Bohr impose che l = mvr = n h = n~ 2π (5.7) dove n = 1, 2, 3, · · · è detto numero quantico. Bohr impose poi che l’elettrone accomodato su una tale orbita non irraggiasse energia elettromagnetica. Per questo motivo, furono chiamate orbite stazionarie e i corrispondenti stati furono detti stati stazionari. Quando un elettrone si trova su un’orbita stazionaria permessa, esiste perfetto bilanciamento tra la forza centrifuga legata alla sua rotazione e la forza di attrazione elettrostatica mv 2 1 e2 = r 4π0 r2 . (5.8) Combinando questa equazione con la regola di quantizzazione del momento angolare data dall’eq.(5.7), si ottiene immediatamente l’espressione per il raggio delle orbite stazionarie: r= h2 0 2 n = a0 n2 πme2 (5.9) a0 = h2 0 = 0.529 Å πme2 (5.10) dove abbiamo posto CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 25 Figura 5.5: Struttura dei livelli energetici degli stati stazionari dell’atomo di idrogeno secondo il modello di Bohr. detto raggio di Bohr. Questo risultato dimostra in modo naturale che, come conseguenza del primo postulato, le orbite elettroniche sono quantizzate per quanto riguarda il loro raggio, a0 essendo il valore di tale raggio nello stato n = 1. Questo particolare stato stazionario è chiamato stato fondamentale. Tutti gli altri stati, cioè quelli corripondenti ad n > 1, sono chiamati stati eccitati. La condizione limite di n → +∞ corrisponde allo stato non legato: l’atomo di idrogeno è stato ionizzato, ovvero l’elettrone ed il protone sono stati portati a distanza infinita. Il primo postulato determina un’altra importante regola di quantizzazione: quella sull’energia dell’atomo. Calcoliamo, infatti, l’energia totale ET elettronica come somma di un contributo cinetico Ecin ed uno potenziale Epot : 1 e2 1 (5.11) ET = Ecin + Epot = mv 2 − 2 4π0 r dove il segno negativo dell’energia potenziale elettrostatica tiene conto del fatto che elettrone e nucleo hanno carica opposta. Ricavando il valore di v dalla (2.7) ed utilizzando l’espressione quantizzata per r otteniamo me4 1 1 ET = − 2 2 2 = −13.6 eV 2 . (5.12) 80 h n n Questo risultato è di fondamentale importanza: seguendo il modello di Bohr abbiamo dimostrato in modo ovvio che le energie degli stati stazionari sono distribuite discretamente. In particolare, l’energia dello stato fondamentale risulta essere pari a -13.6 eV (corrispondente al valore n = 1), in eccellente accordo con i dati sperimentali: essa, infatti, coincide con l’energia di ionizzazione dell’atomo di idrogeno. La struttura dei livelli energetici è rappresentata in Fig.5.5. Il modello è completato dal secondo postulato: la radiazione elettromagnetica viene emessa o assorbita da un atomo di idrogeno quando l’elettrone compie una transizione da uno stato stazionario ad un altro. Inoltre, la frequenza ν della radiazione è legata alle energie elettroniche nello stato iniziale Ei e finale Ef secondo la semplice relazione: Ei − Ef ν= . (5.13) h Ovviamente, risulta che: • se Ei > Ef si ha emissione di radiazione, • se Ei < Ef si ha assorbimento di radiazione. Seguendo il concetto di quanto di luce introdotto da Einstein, diremo che ogni transizione elettronica tra due stati stazionari comporta l’emissione o l’assorbimento di un fotone di energia pari alla differenza tra le energie degli stati interessati alla transizione. Tenuto conto che tali energie sono negative (perchè corrispondono a stati legati), allora si ha emissione di un fotone quando si passa da uno stato più eccitato ad uno meno eccitato. Il viceversa vale per l’assorbimento di radiazione. La Fig.5.6 rappresenta schematicamente i due casi. CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 26 Figura 5.6: Transizioni tra stati stazionari che comportano emissione (a sinistra) o assorbimento (a destra) di un fotone. Figura 5.7: Orbite stazionarie, livelli energetici e transizioni permesse (emissione) per l’atomo di idrogeno secondo il modello di Bohr. CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 27 Se facciamo uso dell’eq.(5.120 possiamo quantificare in modo esplicito la lunghezza d’onda λ dei fotoni emessi o assorbiti: 1 1 ν Ei − Ef me4 1 − (5.14) = = = λ c ch 80 h3 c n2f n2i dove ni ed nf sono i numeri quantici che definiscono, rispettivamente, lo stato stazionario iniziale e finale coinvolti nella transizione elettronica. Questo risultato è notevole per due ragioni: (i) esso fornisce una giustificazione formale per la legge empirica di Rydberg; (ii) il valore della costante è me4 = 109737 cm−1 80 h3 c (5.15) in ottimo accordo con il valore sperimentale della costante di Rydberg R. In altre parole, il modello di Bohr non solo spiega qualitativamente il meccanismo di emissione/assorbimento di radiazione da parte di un atomo, giustificando pienamente la natura discreta degli spettri atomici, ma prevede quantitativamente in modo esatto la posizione delle righe spettrali delle diverse serie di Lyman (nf =1), Balmer (nf =2), Paschen (nf =3), Brackett (nf =4) e Pfund (nf =5). Il quadro concettuale che abbiamo fin qui sviluppato è graficamente riassunto in Fig.5.7. 5.3 Estensioni del modello di Bohr Il modello di Bohr si presta a due semplici estensioni che lo rendono idoneo a spiegare gli spettri atomici di atomi più complessi dell’idrogeno ed a migliorare l’accordo con i dati sperimentali sulla costante di Rydberg. Consideriamo, infatti, quella classe di atomi detti idrogenoidi. Essi sono, come l’atomo di idrogeno, formati da un solo elettrone in orbita attorno ad un nucleo di carica atomica +Ze, con Z > 1. Con riferimento alla tabella periodica degli elementi è facile convincersi che gli ioni He+ , Li++ , ... rientrano in questa definizione. Per gli atomi idrogenoidi il problema dell’interazione elettrone–nucleo può essere trattato in maniera analoga a quanto fatto nel precedente paragrafo, con l’unica accortezza di considerare la carica nucleare +Ze. Ne segue immediatamente che le formule per i raggi delle orbite stazionarie e per le relative energie sono dati, rispettivamente, da: r= a0 n2 Z (5.16) e Z2 . (5.17) n2 All’aumentare, quindi, del numero atomico Z le orbite stazionarie risultano sempre più “strette” (a parità di numero quantico n) e di maggior energia di legame. Ciò indica che, fissato n, più il nucleo è carico, più fortemente è legato l’elettrone, come è ragionevole aspettarsi. L’ipotesi fino ad ora implicitamente assunta è che la massa del nucleo (sia per l’atomo di idrogeno, che per gli atomi idrogenoidi) fosse talmente maggiore di quella dell’elettrone, da poter essere considerata a tutti gli effetti pratici infinita. Un’analisi più rigorosa, invece, attribuisce al nucleo una massa pari a Amp , dove A è il numero di massa per l’atomo considerato, mentre mp = 1.67 × 10−27 Kg rappresenta la massa del protone. In questo caso, il moto di rivoluzione dell’elettrone non è più quello di una particella in orbita attorno ad un centro fisso. Piuttosto, come previsto dalla meccanica classica, si deve parlare del moto di rotazione di nucleo ed elettrone attorno al centro di massa del sistema atomico. È relativamente facile dimostrare che in questo caso la costante di Rydberg data nelle eq.(5.14) e (5.15) deve essere riscritta come: 1 me4 R= 2 3 (5.18) me 80 h c 1 + Am p ET = −13.6eV dove, per maggior chiarezza, abbiamo chiamato con me la massa dell’elettrone. Se consideriamo l’atomo di idrogeno (cioè A = 1), allora otteniamo per la costante di Rydberg il valore di 109678 cm−1 in praticamente perfetto accordo col dato sperimentale di eq.(5.1). CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 28 Figura 5.8: Schema dell’apparato sperimentale di Davisson e Germer per la diffrazione di un fascio di elettroni da parte di un cristallo. 5.4 L’ipotesi di de Broglie ed il dualismo onda–corpuscolo Terminiamo sul concetto di dualismo onda–corpuscolo già anticipato a proposito dell’effetto fotoelettrico. L’introduzione dell’ipotesi di fotone permise ad Einstein di spiegare mirabilmente le risultanze sperimentali ed introdusse un importante concetto: la radiazione elettromagnetica può essere equivalentemente descritta in termini ondulatori (elettromagnetismo classico) od in termini corpuscolari (fotoni) a seconda della specifica fenomenologia che si consideri. Tutto il capitolo della spettroscopia atomica è, per esempio, sotteso dal concetto di fotone che diventa la particella scambiata durante l’interazione tra la radiazione e la materia. Questa idea di dualità è davvero molto suggestiva ed efficace e fu ripresa da L. de Broglie nel 1924 che la estese anche alle particelle materiali. L’idea di base fu semplice: se la luce può manifestarsi come onda (in accordo alla nostra esperienza quotidiana) o come corpuscolo (come in fisica atomica), perchè questa cosa non potrebbe essere vera anche per una particella? In altre parole, possiamo ammettere che ad una particella di quantità di moto p ed energia E sia possibile associare una lunghezza d’onda di de Broglie λ data dalla h (5.19) λ= p cui corrisponde una frequenza E . (5.20) h Un modo alternativo di esprime queste due relazioni è quello che fa uso del vettor d’onda k = 2π/λ e della frequenza angolare (o pulsazione) ω = 2πν: ν= p = ~k E = ~ω . (5.21) In questo contesto spesso si parla di onde di materia associate ad una certa particella. L’ipotesi di de Broglie fu confermata da un esperimento condotto da Davisson e Germer secondo lo schema illustrato in Fig.5.8. Un fascio di particelle (elettroni) viene emesso da un’opportuna sorgente e collimato su un bersaglio costituito da un pezzo di cristallo. Il fascio diffratto viene, invece, raccolto da un rivelatore posto simmetricamente alla sorgente. Le risultanze sperimentali dimostrarono che il fascio diffratto presentava una serie di massimi di intensità quando fosse verificata la seguente relazione tra la lunghezza d’onda di de Broglie λ degli elettroni e la separazione d tra i diversi piani reticolari del cristallo: 2dsinθ = nλ (5.22) dove θ è l’angolo formato dal fascio di elettroni e la superficie del cristallo, mentre n è un numero intero. La spiegazione di questo esperimento risulta semplice se si considera cosa avviene a livello microscopico quando il fascio di elettroni interagisce col cristallo. La situazione, illustrata in Fig. 5.9, corrisponde ad un fascio di particelle che, riflesse dai diversi piani reticolari, finiscono col creare un fenomeno di CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 29 Figura 5.9: Spiegazione della condizione di interferenza costruttiva per il fascio di elettroni diffratto (condizione di Bragg). interferenza sul rivelatore. Come noto dall’ottica geometrica, quando due fasci luminosi emessi da due sorgenti coerenti (cioè a differenza di fase costante e stessa lunghezza d’onda) compiono, per arrivare ad un rivelatore, dei cammini ottici che differiscono per un numero intero di lunghezze d’onda, allora si manifesta il fenomeno di interferenza costruttiva. Sul rivelatore, cioè, si osservano dei massimi di diffrazione4 . Analizzando il cammino ottico persorso dai diversi fasci di elettroni (si veda la Fig.5.9) si deduce immediatamente che la condizione di massimo fascio diffratto osservata nell’esperimento di Davisson e Germer corrisponde proprio a quella di interferenza costruttiva nota in ottica (condizione di Bragg). In altre parole, l’esperimento in questione dimostra che un fascio di particelle (elettroni) si comporta esattamente come un’onda luminosa, di lunghezza λ data dalla relazione di de Broglie. Questo esperimento, quindi, è la migliore dimostrazione pratica che l’ipotesi ondulatoria espressa anche a proposito di particelle materiali è vera. In conclusione, sommando l’ipotesi di Einstein sui fotoni (dimostrata dall’effetto fotoelettrico) e quella di de Broglie sulle onde materiali (dimostrata dalla diffrazione di elettroni) possiamo enunciare compiutamente il concetto di dualismo onda–corpuscolo: ogni fenomeno naturale si manifesta, a seconda dei casi, o in modo ondulatorio, o in modo corpuscolare. Nel mondo macroscopico (quello legato alla nostra esperienza quotidiana) le particelle massive sono ben descritte da corpuscoli che seguono la meccanica classica, mentre i fenomeni di propagazione del campo elettromagnetico sono efficacemente descritti dalle leggi dell’ottica (geometrica o fisica). Al contrario, spesso il mondo microscopico (che sfugge alla nostra diretta esperienza sensoriale) si manifesta in modo opposto: la radiazione elettromagnetica è efficacemente descritta come fascio di corpuscoli o fotoni, mentre le particelle obbediscono alle leggi tipiche delle onde (come, ad esempio, la diffrazione). 5.5 Il principio di indeterminazione di Heisenberg Una volta introdotto il concetto di dualismo onda-corpuscolo e quello di onda di materia, possiamo chiederci che tipo di onda rappresenti matematicamente una certa particella. La risposta è semplice e immediata nel caso di una particella libera: in questo caso l’onda materiale a essa associata sarà un’onda piana di tipo armonico5 che, in una dimensione, è rappresentata nella Fig.5.10 (destra). Un’onda piana ha ampiezza costante. Essa correttamente descrive un’onda di materia (associata a una particella libera) che deve essere simile in tutti i punti dello spazio. Ciò è consistente col fatto che, essendo la particella libera, non esiste un potenziale di interazione il quale, agendo sulla particella, possa distorcerne l’onda associata. 4 La discussione del fenomeno di interferenza costruttiva tra onde luminose è descritto nel libro di R. Mazzoldi, M. Nigro e C. Voci, “Fisica II - Elettromagnetismo ed onde” (casa editrice EdiSES). 5 Ricordiamo che un’onda si dice piana quando il suo fronte d’onda - cioè il luogo geometrico dei punti nello spazio che vengono investiti allo stesso istante dall’onda che avanza - è rappresentato da un piano. Il carattere armonico di un’onda, invece, è legato alla legge matematica che esprime la variazione dell’ampiezza dell’onda nel tempo: quando tale legge è espressa da una funzione trigonometrica seno o coseno, allora l’onda è armonica. CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 30 Figura 5.10: Rappresentazione uno-dimensionale dell’onda materiale associata a una particella libera (destra) e a una particella confinata nella regione di spazio ∆x (sinistra). Più complesso, ma molto più interessante, è il caso di una particella confinata in una regione di spazio. Tratteremo il caso uno–dimensionale in cui la regione di confinamento ha spessore ∆x. Questo modello rappresenta il caso di una particella confinata in una buca di potenziale. L’onda di materia che descrive una tale sitazione non potrà avere in questo caso ampiezza costante: è ovvio, infatti, che nella regione ∆x l’intensità dell’onda (che, ricordiamolo, è legata al quadrato della sua ampiezza) sarà massima perchè ivi è localizzata la particella. Al contrario, fuori da tale regione l’onda dovrà avere ampiezza molto minore e, nel limite di grande distanza dalla regione ∆x o di profondità infinita della buca di potenziale, risulterà rispettivamente trascurabilmente piccola o rigorosamente nulla. Una buona rappresentazione matematica di questa onda è data nella Fig.5.10 a sinistra. Questo profilo di onda materiale è chiamato pacchetto d’onda di ampiezza ∆x. Il numero di lunghezze d’onda λ del pacchetto sarà ovviamente legato allo spessore ∆x della zona di confinamento della particella e, quindi, potremo scrivere ∆x ∼ nλ λ (5.23) dove nλ è il numero di lunghezze d’onda contenute in ∆x. Ricordando la relazione esistente tra la lunghezza d’onda λ e il numero d’onda k possiamo riformulare la precedente relazione come ∆x∆k ∼ 2π (5.24) dove abbiamo introdotto anche un intervallo finito ∆k per il numero d’onda in accordo all’analisi di Fourier6 . La relazione di de Broglie consente di riscrivere questo risultato nella forma ∆x∆p ∼ h (5.25) In generale, tuttavia, noi conosciamo la regione di localizzazione di un’onda materiale con ancor minore accuratezza di quanto assunto in questo ragionamento. Conseguentemente la precedente equazione non può rappresentare altro che un limite superiore di precisione nella determinazione delle incertezze ∆x e ∆p sulla posizione e sulla quantità di moto della particella. In generale, quindi, dovremo ammettere che ∆x∆p ≥ h (5.26) Questo risultato di importanza fondamentale è noto come principio di indeterminazione di Heisenberg. Le sue conseguenze concettuali sono molto profonde e scavano un ulteriore solco tra i concetti della fisica 6 In altre parole, secondo l’analisi di Fourier noi possiamo rappresentare il pacchetto d’onda di figura 2.10 (sinistra) tramite un’opportuna sovrapposizione di onde sinusoidali semplici (cioè di onde armoniche). Un pacchetto d’onda di ampiezza ∆x richiede la sovrapposione di tutte quelle onde armoniche il cui numero d’onda cada nell’intervallo ∆k definito dall’equazione (2.27). CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 31 Figura 5.11: Rappresentazione schematica di una riga spettrale di assorbimento in alta risoluzione. classica e quelli della fisica quantistica: a livello microscopico, infatti, risulta impossibile determinare contemporaneamente con precisione assoluta (cioè con incertezza nulla) la posizione e la quantità di moto di una particella. Questo risultato, che discende direttamente dal dualismo onda-corpuscolo, impedisce quindi che una certa misura sperimentale determini con assoluta accuratezza contemporaneamente la posizione e la velocità di un corpuscolo. Al più, infatti, potremmo misurare l’una e l’altra con un certo margine di errore per ciascuna grandezza, essendo gli errori di misura legati dalla relazione di cui sopra. Alternativamente, potremmo determinare precisamente l’una (incertezza nulla) senza tuttavia poter fare previsione alcuna sull’altra (incertezza infinita). È importante sottolineare che il principio di indeterminazione non è legato alla precisione degli strumenti di misura. In altre parole, esso non è dovuto al fatto che ogni misura sperimentale è in varia maniera afflitta da errore. Al contrario, l’indeterminazione che lega posizione e quantità di moto è la manifestazione di proprietà fondamentali della materia legate alla sua duale natura onda-corpuscolo. Il principio di indeterminazione ha numerose evidenze sperimentali, alcune delle quali molto spettacolari. Consideriamo, infatti, un sistema costituito da atomi di elio. È stato sperimentalmente dimostrato che, anche raffreddando questo sistema a una temperatura assoluta praticamente nulla, esso non solidifica. Se, infatti, il sistema solidificasse a T = 0 K noi potremmo conoscere con assoluta certezza e contemporaneamente la velocità di ciascun atomo di elio (che risulterebbe nulla) e la sua posizione nel sistema solidificato. Ciò violerebbe il principio di indeterminazione. È necessario, quindi, che anche a T = 0 K gli atomi siano animati da un flebile moto di vibrazione (detto moto di punto zero) che non ha analogo classico in teoria cinetica dei gas, ma che assicura quella indispensabile incertezza su posizione e velocità tale da rispettare l’equazione (2.29). Questo flebile moto di agitazione è sufficiente, nel caso dell’elio, a impedire la solidificazione. In altre parole, la temperatura cinetica associata a esso è superiore alla temperatura di fusione dell’elio. Il principio di indeterminazione di Heisenberg può essere esteso anche ad un’altra coppia di grandezze fisiche: l’energia E e il tempo t. In particolare, si può dimostrare che ∆E∆t ≥ h (5.27) estendendo anche a questa coppia tutte le considerazioni sviluppate per posizione e quantità di moto. Anche questa seconda versione del principio ha una convincente verifica sperimentale legata alla spettro di assorbimento di un atomo. Noi associamo l’assorbimento di un fotone da parte di un atomo alla transizione tra due stati stazionari di energia, rispettivamente, E1 (stato iniziale) e E2 (stato eccitato finale). Una misura spettroscopica segnala l’avvenuta transizione tramite una riga nello spettro di assorbimento alla frequenza ν definita dalla relazione ν = (E2 − E1 )/h. Quando la misura è condotta in condizioni di altissima risoluzione si osserva che la riga spettrale ha una struttura: in particolare, essa ha la forma rappresentata schematicamente nella figura 2.11 (destra). CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 32 La larghezza finita della riga corrisponde a un certo intervallo di frequenze ∆ν il cui inverso ∆t è interpretato come il tempo di vita medio dello stato eccitato. Se questo tempo di vita è finito, allora ci deve essere una corrispondente incertezza ∆E2 sull’energia dello stato eccitato raggiunto durante la transizione. Lo schema di Bohr per i livelli energetici degli stati stazionari è conseguentemente modificato come illustrato a sinistra nella Fig.5.11. Misure a alta risoluzione hanno effettivamente confermato questa interpretazione, fornendo una stima del tempo di vita di uno stato eccitato e del corrispondente intervallo di energie associate a uno stato stazionario perfettamente in accordo con il principio di indeterminazione di Heisenberg. 5.6 Momenti magnetici associati ai moti orbitali elettronici Consideriamo, nell’ambito del modello atomico di Bohr, il moto di rivoluzione di un elettrone attorno al nucleo sull’orbita stazionaria di raggio r. Poichè l’elettrone porta una carica −e, possiamo idealmente associare a tale moto una corrente i = −eω/2π, dove abbiamo introdotto la velocità angolare di rotazione ω. Come noto dalla teoria classica dell’elettromagnetismo, possiamo associare a questa corrente (che idealmente fluisce lungo un’orbita elettronica di raggio r) un momento di dipolo magnetico7 definito come segue: 1 ω (5.28) ML = −e πr2 = − eωr2 . 2π 2 Ricordando che classicamente il momento angolare vale in modulo L = mωr2 , possiamo riscrivere l’eq.(5.28) in forma vettoriale: e L . (5.29) ML = − 2m Questa relazione è valida sia nella fisica dei quanti (purchè si utilizzi l’opportuna espressione quantizzata del momento angolare), sia in meccanica quantistica (dove viene fornita la giustificazione più rigorosa e formale di questa relazione). Il concetto chiave è che ad ogni momento angolare orbitale elettronico è associato un momento magnetico. È proprio tramite tale momento magnetico che un atomo interagisce con un eventuale campo magnetico su di esso acceso. 5.7 Lo spin Supponiamo ora di considerare un atomo “preparato” in uno stato tale per cui il momento angolare L dell’elettrone sia nullo. In queste condizioni l’azione di un campo magnetico esterno sull’atomo è ovviamente nulla. Nel 1924 Stern e Gerlach condussero un esperimento esattamente in queste condizioni: l’idea era proprio quella di verificare quanto detto. Essi misero a punto un apparato schematicamente descritto in Fig.5.12: un fascio di atomi con L = 0 veniva emesso da una sorgente S e fatto passare attraverso i poli di un magnete M che generava un campo magnetico costante, ma non uniforme. Il fascio veniva poi raccolto da un opportuno rivelatore R. L’aspettativa di Stern e Gerlach era quella di osservare su R una sola impronta: il fascio non avrebbe dovuto essere deflesso, in base alle considerazioni fatte. Al contrario, le evidenze sperimentali dimostrarono che il fascio veniva separato in due componenti che risultavano deflesse in modo simmetrico rispetto alla direzione del fascio incidente. Questo risultato è sorprendente. Se ragioniamo in termini classici, avremmo dovuto aspettarci una traccia continua (e non solo due impronte), corrispondente a tutte le possibili orientazioni che classicamente un momento magnetico ML può assumere rispetto alla direzione del campo. Al contrario, ragionando in termini fisica dei quanti, avremmo dovuto aspettarci una sola impronta, perchè per L=0 non c’è interazione (e, dunque, deflessione) tra fascio atomico e campo magnetico. Insomma: l’esistenza di due traccie simmetriche non può essere spiegata nè classicamente, nè con la teoria dei quanti fin qui sviluppata. L’enigma fu risolto da Goudsmit e Uhlenbeck nel 1926: essi, infatti, ipotizzarono che l’elettrone possedesse un nuovo grado di libertà cui fosse associato un diverso momento magnetico, non nullo anche 7 Possiamo, infatti, applicare il principio di equivalenza di Ampere. CAPITOLO 5. LA FISICA DEI QUANTI 33 Figura 5.12: Schema dell’apparato sperimentale di Stern e Gerlach. per gli stati ad L = 0. Questo nuovo grado di libertà non ha analogo classico e venne chiamato spin8 . Ad esso, in analogia a quanto fatto per il momento magnetico orbitale ML , viene associato un momento magnetico di spin e S (5.30) MS = −g 2m dove g è una costante chiamata rapporto giromagnetico dell’elettrone il cui valore è circa 2. Fu, inoltre, postulato che il nuovo momento angolare di spin S avesse una caratteristica speciale, ovvero che la sua componente Sz lungo una direzione arbitraria potesse assumere sempre e solo due valori possibili Sz = 1 ~ stati con spin “up00 2 1 Sz = − ~ stati con spin “down00 2 . (5.31) In questo modo, si riesce a fornire una giustificazione (euristica) dell’esperimento di Stern-Gerlach: il fascio di atomi non interagisce col campo magnetico tramite i momenti magnetici orbitali (che sono nulli perchè è stato preparato in modo che L=0), bensı̀ tramite il momento magnetico di spin che può assumere solo i due valori e 1 MSz = ±g ~ . (5.32) 2m 2 L’importanza di questo risultato è fondamentale: l’elettrone dovrà d’ora in poi essere descritto da quattro gradi di libertà: tre spaziali ed uno di spin. 8 Per semplificare le cose, si può immaginare che questo grado di libertà sia associato al moto di rotazione dell’elettone attorno al proprio asse. Poichè l’elettrone è carico, anche questa rotazione assiale comporta l’esistenza di una corrente e, quindi, di un momento magnetico di spin. E’, tuttavia, doveroso osservare che questa immagine, anche se efficace, non è rigorosamente vera. In realtà, infatti, lo spin elettronico è un effetto relativistico: solo una trattazione quantistico– relativistica, infatti, consente in modo naturale di introdurre e giustificare pienamente questo nuovo grado di libertà.