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di Paolo Carù
42 | BUSCA
N
MADE IN
MEMPHIS
el 1969 hai registrato un disco, intitolato semplicemente Boz Scaggs.
Questo nuovo album, Memphis, mi
ricorda in parte quel disco. Blues,
soul, qualche ballata … Cosa ne pensi?
Questa è una bella domanda. Sì è vero, hai ragione. Ma questo vale anche per Silk Degrees,
Down Two Then Left, Come On Home ed altri
dei miei dischi, dove puoi trovare rock, blues
e ballate. Questo disco, Memphis, ha un suono ancora migliore, grazie ai musicisti, alla produzione ed al suono che abbiamo trovato in
studio. Un suono molto bello, profondo, che
Steve Jordan ha saputo recuperare dai musicisti che mi hanno affiancato. E questo dà ulteriore colore alle canzoni, le rende migliori.
Recentemente ho riascoltato Boz Scaggs, il
disco del 1969, ed in particolare Loan Me
A Dime, il lungo blues. Ed ho trovato delle
analogie con Dry Spell ed You Got Me Cryin’,
i due brani blues di Memphis.
Ti capisco, tu lo vedi dal punto di vista del
Blues.
Anche questo è vero. Brani blues così intensi
come questi, li ho fatti di rado, molto di rado.
Boz Scaggs
Y
Memphis mi sembra più focalizzato. E’ vero, ci sono brani rarefatti,
ma il suono è più coinciso, diretto, meno dispersivo.
Sono d’accordo. Questo è il merito di Steve Jordan che ha reso tutto
più reale e meno sofisticato.
A proposito di Loan Me A Dime, in quella canzone c’era Duane Allman alla chitarra. Cosa ti ricordi di lui?
Era un uomo serio, competente, preciso.
Amava moltissimo il suo lavoro e suonava per il piacere di suonare. Era
un leader ma era anche umile, non parlava mai a voce alta, non alzava
la voce, suonava, quella era la sua parola. Quieto, silenzioso, intelligente, attento a quello che faceva: poche parole, molti fatti.
E poi suonava in modo meraviglioso.
In questo disco, Memphis, ci sono due canzoni di Mink DeVille: Mixed
Up Shoock Up Girl e Cadillac Walk. Dopo che ci ha lasciato, nessuno, a parte te e Peter Wolf, ha mai ricordato Willy DeVille. Come
mai, secondo te?
Bella domanda. In primo luogo, amavo la sua voce, una delle voci migliori della mia generazione. Willy aveva uno stile, era un personaggio, uno
che metto nella stessa categoria di gente come Ray Charles, Howlin’
Wolf e Bobby Blue Bland. Per me era uno dei grandi. Un suono ed uno
stile che a mio parere erano unici. In secondo luogo, il suo primo disco
(ndr: Cabretta), aveva un suono formidabile ed era prodotto da uno
dei grandi, Jack Nitzsche. Un disco frugale, early New York rock and
roll, rhythm and blues, street music of New York: quel disco, la voce di
Willy, sono stati una delle cose che mi hanno maggiormente colpito.
Sono assolutamente concorde con te. Ma continuo a non capire come mai, dopo la sua morte (Agosto 2009), nessuno lo ha più ricordato. Proprio nessuno, eccetto Boz Scaggs e Peter Wolf.
Molto dipende dal fatto che, dopo i primi anni di carriera, Willy si è spostato a vivere in Europa, dove si è conquistato un pubblico. Ma questo
fatto lo ha sempre più allontanato dall’America, dal pubblico americano. Ed è stato dimenticato. Io penso dipenda da questo.
E’ vero, però i dischi rimangono, la musica anche.
Hai ragione, ma nulla è come pensiamo o come vogliamo. Tutto dipende dalle persone, dal gusto del singolo.
Nel corso della tua carriera hai suonato con molti musicisti, anche
grandi musicisti. Quali ricordi hai? Chi sono stati i migliori?
Una domanda difficile. Di Duane Allman ti ho già detto. Marcus Miller è un bassista formidabile, un musicista a trecento sessanta gradi, capace di essere anche un solista.
Steve Jordan che suona ed ha prodotto Memphis, è un altro grande
musicista: poi lui conosce i suoni, li sa modellare, rendere in modo diversificato, tanto che possano essere alla tua portata.
David Paich, ho suonato con lui in due dischi (uno è Silk Degrees, l’altro
Dig): Paich è un musicista formidabile, uno che ha il senso della musica,
che trova soluzioni di ogni genere. Che sa tramutare in oro anche un
sasso. Forse lui è il più importante. Un grande pianista, un vero stilista.
Ma poi ce ne sono anche altri, molti altri.
In diverse canzoni di Memphis c’è una forte influenza, sopratutto
nel suono, da parte di Al Green.
Sì è vero. Molto dipende anche dal fatto che abbiamo registrato negli
stessi studi di Memphis dove registrava Al Green. Quelle mura sono imbevute con quei suoni. I Royal Studios di Memphis, dove Willie Mitchell
ha messo su nastro quasi tutti i successi di Al Green.
E poi i musicisti: alcuni erano gli stessi.
Rispettavano quel suono, quei fraseggi melodici.
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Jordan ha usato lo stesso metodo di Mitchell, ha
costruito il suono attorno alla voce, cercando di
ritrovare quella magia.
Credo ci sia riuscito.
Lo credo anche io, il suono è proprio quello.
Jordan ha costruito un suono intorno alla tua
voce.
E’ un uomo di studio, in passato ha lavorato con
John Mayer, Keith Richards, Buddy Guy, Robert
Cray, John Scofield, Herbie Hancock ed altri.
Turnista, session man, produttore. Jordan è un
vero uomo di musica, a trecento sessanta gradi.
Memphis mi ricorda, anche se la musica è diversa, il nuovo di Aaron Neville, My True Story.
Grandi canzoni, grande suono: ma tutto fatto in modo molto semplice, senza particolari arzigogoli. Musica, grande musica, e basta.
Il ritorno alla semplicità paga.
Aaron Neville è uno dei miei primi eroi e Allen
Toussaint, scrittore, produttore, arrangiatore.
Una figura eccezionale, un grande musicista.
Ti ringrazio per questo suggerimento, il paragone mi fa onore, andrò a cercare il disco di Neville, non l’ho sentito.
Ci sono diverse canzoni molto belle in Memphis. Corrina Corrina, Love on A Two Way Street, Gone Baby Gone e Pearl of The Quarter, che
è degli Steely Dan.
Una settimana prima di andare a Memphis, ero
a New York. E ho visto Donald Fagen con la sua
band, suonava in un club. Sono andato a sentirlo
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ed ha suonato alcune canzoni degli Steely Dan, tra
cui Pearl of The Quarter. Non la sentivo da anni e
mi è piaciuta molto, così quando sono andato a
Memphis l’ho proposta a Steve Jordan ed agli altri musicisti, è piaciuta subito a tutti.
Le canzoni da interpretare le hai scelte tu?
Sì, le ho scelte io.
Negli ultimi due anni hai lavorato, hai suonato
dal vivo, con The Dukes of September Rhythm
Revue, una band formata da te, Donald Fagen
e Michael McDonald.
Ci sarà mai un disco di questa band?
Sì, probabilmente in futuro.
In questo momento siamo tutti impegnati a livello personale: io con questo disco, Donald con il
suo album recente ma anche con gli Steely Dan
e Michael pure. Ma, probabilmente in futuro, faremo qualche cosa. Abbiamo registrato un concerto, lo scorso Dicembre a New York.
Questo concerto verrà trasmesso alla radio ed in
televisione e lo stanno mixando anche per fare un
disco che uscirà, penso, alla fine di questo anno.
Abbiamo anche parlato di scrivere delle canzoni e
di pubblicarle su un disco nostro, ma è tutto allo
stadio della sola parola, eccetto il disco dal vivo.
Con la pubblicazione di Memphis, farai un tour
per supportare il disco?
Solo in Usa o anche in Europa?
Si, iniziamo a Marzo ed il tour va avanti sino a
questa estate. Ma solo negli Stati Unti.
Sei più popolare negli Stati Uniti.
E’ vero, in Europa ho suonato poco.
Che cosa ricordi del periodo in cui hai suonato con la Steve Miller Band?
Non molto. In quel periodo si chiamava Steve
Miller Blues Band, io sono entrato al posto di
un altro musicista e, proprio con Miller, sono entrato per la prima volta in uno studio.
In Inghilterra. Ho avuto anche la possibilità di cominciare a scrivere canzoni ed ho affinato il mio
modo di suonare la chitarra. Gli spettacoli erano
brevi a quell’epoca e noi mischiavamo blues con
qualche tocco di psichedelia. La scena era confusa, un mucchio di band, e forse la band era più popolare in Inghilterra che in America, almeno all’inizio. Io e Miller ci eravamo già incontrati alla fine
degli anni cinquanta, quando frequentavamo la
scuola, ed avevamo messo su una band assieme.
Nel corso della tua vita ti sei preso qualche vacanza dalla musica: so che hai aperto un night
club a San Francisco ed hai anche una azienda
vinicola a Napa County.
Nel corso degli anni ottanta avevo perso un po’
di interesse nei riguardi della musica, avevo due
figli giovani e mi sono dedicato a loro.
Ho staccato per alcuni anni. Ho aperto un ristorante (The Blue Light Bar and Restaurant, San
Francisco), poi mi sono accorto che era un errore, non avevo tempo di stargli dietro, non era la
mia vita. Quindi ho aiutato un amico ad aprire
un night club (Slim’s), ma l’ho solo aiutato, io non
c’entro per niente.
Boz Scaggs
Mia moglie ha una Winery (Scaggs Vineyards),
ma la cura lei, anche in questo caso io non faccio niente. L’azienda è a Napa Valley, un ettaro di
terreno coltivato a vigneti, produciamo poco, 300
bottiglie all’anno, buon vino, ma non diventeremo mai ricchi con quello.
E’ solo perchè piace a lei.
Sono piccole cose.
Memphis si segnala, rispetto ad altri dischi del
genere, per la qualità del suono e per la produzione molto curata. Però è un po’ una sorta di
marchio di fabbrica tuo: quasi tutti i tuoi dischi si sono segnalati per la qualità del suono.
Mi sono fatto l’idea che quando tu fai un disco,
ci pensi molto a lungo, non affidi nulla al caso.
E’ vero, è proprio quello che faccio.
Apprezzo l’abilità e la concretezza, ma anche la
cura nel trovare il suono giusto, l’eleganza di certi strumentisti. E’ vero, non lascio nulla al caso.
Questa è l’ultima domanda: quale è il tuo disco favorito?
Kind of Blue. Il disco di Miles Davis l’ho ascoltato, e lo ascolto ancora, al punto che è diventato
indispensabile. Lo suono molto spesso, perchè, a
mio parere, quello è un disco perfetto.
Un disco in cui arte e mestiere sono uniti in modo
indissolubile; ma poi è l’arte a prevalere.
Un capolavoro.
Un ringraziamento speciale a Marco Denti, per
avermi aiutato nel trovare le domande.
Ì
Y
Soul Serenade
La magia dei Royal Recording Studio, Memphis
Insieme agli studi Stax, Ardent e
American, il Royal ha segnato la
storia del soul e r&b memphisiano, e qualcosa di più. La sua vicenda coincide in gran parte con
quella della Hi Records, e va oltre
perché lì hanno luogo anche numerose session per altre case discografiche. Tutto inizia nel 1957,
un paio d’anni prima che la Satellite (poi Stax) faccia lo stesso con
un altro teatro: Joe Cuoghi e alcuni soci provenienti dalla Sun di
Sam Phillips, utilizzando il Royal
Theatre di Memphis ricavano il Royal Recording Studio e fondano la Hi. Da lì, fino a metà dei
’60 ne escono dischi prevalentemente country, rockabilly, e strumentali vari tra cui Smokie Part
2 del Bill Back Combo (1959). A partire dal 1961 il trombettista e band leader Willie Mitchell,
produttore e arrangiatore anche per altre etichette, incide alcuni instrumentals che vanno a
influire sulla direzione stilistica dell’etichetta: fra questi, nel 1968, l’eccellente, policromatica
ballad Soul Serenade (scritta da King Curtis), suo più grande ed emblematico hit, e nel 1969 lo
scintillante r&b 30-60-90. Si va consolidando il sound caratteristico di quello studio-coloritura
che man mano prenderà il posto di quella Stax, più aspra e roots, forte di un gruppo di musicisti diretti da Mitchell e denominato Hi Rhythm: i fratelli Hodges, Mabon “Teenie” (chitarra),
Leroy (basso) e Charles (tastiere), cui si aggiungono, alternandosi, Howard Grimes (batteria e
percussioni) e quel Al Jackson Jr. che nel contempo prende il ruolo di batterista nel team Booker T. & The MG’s. Nel 1970 Cuoghi muore e la proprietà passa a Nick Pesce, con Mitchell vicepresidente e factotum che, mentre cerca di lanciare la carriera di Don Bryant, scopre tali Syl
Johnson e soprattutto Ann Peebles e Al Green(e), col successo e le qualità che sappiamo. Diventano di casa i Memphis Horns, in formazioni variabili,
con Wayne Jackson (tromba) e Andrew Love (sax) sempre presenti, come spesso il sassofonista James Mitchell
(fratello di Willie), mentre l’eccellente trio di vocalists (Sandra) Rhodes-(Charlie) Chalmers-(Donna) Rhodes, fa da
supporto vocale. A caratterizzare ulteriormente il “sound
mitchelliano” ci pensano le trame vellutate degli archi dei
Memphis Strings, arrangiati da James Mitchell e da Charles Chalmers (che è anche sassofonista). Nel tempo per la
Hi firmano altri interpreti importanti, fra questi Otis Clay,
O.V. Wright (coi quali Mitchell aveva già lavorato in quello
studio, oltre che per Bobby Bland e altri ancora), mentre
altre label di quell’area continuano a portare i loro artisti,
tra queste occasionalmente la Goldwax, anche il grande
James Carr. Negli anni, quel luogo e la conduzione di Mitchell, pure con le nuove formazioni ritmiche, attraggono
molti, anche dopo la chiusura dell’etichetta, come nel caso
di un ritorno di James Carr (1994) e, in tempi più recenti
per il team strumentale memphisiano Bo-Keys, per il grande Solomon Burke (2010) con un disco (purtroppo solo
discreto) prodotto da Mitchell, il quale muore all’inizio di
quello stesso anno, seguito mesi dopo dallo stesso Burke.
L’anno scorso una puntatina la fa anche Cody ChesnuTT
per il nuovo album, e infine il pregevole tocco caratterizza l’eccellente ritorno discografico di Boz Scaggs. La magia
dei Royal Recording Studio continua.
Gianni Del Savio
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