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Questo nuovo album, Memphis, mi ricorda in parte quel disco. Blues, soul, qualche ballata … Cosa ne pensi? Questa è una bella domanda. Sì è vero, hai ragione. Ma questo vale anche per Silk Degrees, Down Two Then Left, Come On Home ed altri dei miei dischi, dove puoi trovare rock, blues e ballate. Questo disco, Memphis, ha un suono ancora migliore, grazie ai musicisti, alla produzione ed al suono che abbiamo trovato in studio. Un suono molto bello, profondo, che Steve Jordan ha saputo recuperare dai musicisti che mi hanno affiancato. E questo dà ulteriore colore alle canzoni, le rende migliori. Recentemente ho riascoltato Boz Scaggs, il disco del 1969, ed in particolare Loan Me A Dime, il lungo blues. Ed ho trovato delle analogie con Dry Spell ed You Got Me Cryin’, i due brani blues di Memphis. Ti capisco, tu lo vedi dal punto di vista del Blues. Anche questo è vero. Brani blues così intensi come questi, li ho fatti di rado, molto di rado. Boz Scaggs Y Memphis mi sembra più focalizzato. E’ vero, ci sono brani rarefatti, ma il suono è più coinciso, diretto, meno dispersivo. Sono d’accordo. Questo è il merito di Steve Jordan che ha reso tutto più reale e meno sofisticato. A proposito di Loan Me A Dime, in quella canzone c’era Duane Allman alla chitarra. Cosa ti ricordi di lui? Era un uomo serio, competente, preciso. Amava moltissimo il suo lavoro e suonava per il piacere di suonare. Era un leader ma era anche umile, non parlava mai a voce alta, non alzava la voce, suonava, quella era la sua parola. Quieto, silenzioso, intelligente, attento a quello che faceva: poche parole, molti fatti. E poi suonava in modo meraviglioso. In questo disco, Memphis, ci sono due canzoni di Mink DeVille: Mixed Up Shoock Up Girl e Cadillac Walk. Dopo che ci ha lasciato, nessuno, a parte te e Peter Wolf, ha mai ricordato Willy DeVille. Come mai, secondo te? Bella domanda. In primo luogo, amavo la sua voce, una delle voci migliori della mia generazione. Willy aveva uno stile, era un personaggio, uno che metto nella stessa categoria di gente come Ray Charles, Howlin’ Wolf e Bobby Blue Bland. Per me era uno dei grandi. Un suono ed uno stile che a mio parere erano unici. In secondo luogo, il suo primo disco (ndr: Cabretta), aveva un suono formidabile ed era prodotto da uno dei grandi, Jack Nitzsche. Un disco frugale, early New York rock and roll, rhythm and blues, street music of New York: quel disco, la voce di Willy, sono stati una delle cose che mi hanno maggiormente colpito. Sono assolutamente concorde con te. Ma continuo a non capire come mai, dopo la sua morte (Agosto 2009), nessuno lo ha più ricordato. Proprio nessuno, eccetto Boz Scaggs e Peter Wolf. Molto dipende dal fatto che, dopo i primi anni di carriera, Willy si è spostato a vivere in Europa, dove si è conquistato un pubblico. Ma questo fatto lo ha sempre più allontanato dall’America, dal pubblico americano. Ed è stato dimenticato. Io penso dipenda da questo. E’ vero, però i dischi rimangono, la musica anche. Hai ragione, ma nulla è come pensiamo o come vogliamo. Tutto dipende dalle persone, dal gusto del singolo. Nel corso della tua carriera hai suonato con molti musicisti, anche grandi musicisti. Quali ricordi hai? Chi sono stati i migliori? Una domanda difficile. Di Duane Allman ti ho già detto. Marcus Miller è un bassista formidabile, un musicista a trecento sessanta gradi, capace di essere anche un solista. Steve Jordan che suona ed ha prodotto Memphis, è un altro grande musicista: poi lui conosce i suoni, li sa modellare, rendere in modo diversificato, tanto che possano essere alla tua portata. David Paich, ho suonato con lui in due dischi (uno è Silk Degrees, l’altro Dig): Paich è un musicista formidabile, uno che ha il senso della musica, che trova soluzioni di ogni genere. Che sa tramutare in oro anche un sasso. Forse lui è il più importante. Un grande pianista, un vero stilista. Ma poi ce ne sono anche altri, molti altri. In diverse canzoni di Memphis c’è una forte influenza, sopratutto nel suono, da parte di Al Green. Sì è vero. Molto dipende anche dal fatto che abbiamo registrato negli stessi studi di Memphis dove registrava Al Green. Quelle mura sono imbevute con quei suoni. I Royal Studios di Memphis, dove Willie Mitchell ha messo su nastro quasi tutti i successi di Al Green. E poi i musicisti: alcuni erano gli stessi. Rispettavano quel suono, quei fraseggi melodici. BUSCA | 43 Jordan ha usato lo stesso metodo di Mitchell, ha costruito il suono attorno alla voce, cercando di ritrovare quella magia. Credo ci sia riuscito. Lo credo anche io, il suono è proprio quello. Jordan ha costruito un suono intorno alla tua voce. E’ un uomo di studio, in passato ha lavorato con John Mayer, Keith Richards, Buddy Guy, Robert Cray, John Scofield, Herbie Hancock ed altri. Turnista, session man, produttore. Jordan è un vero uomo di musica, a trecento sessanta gradi. Memphis mi ricorda, anche se la musica è diversa, il nuovo di Aaron Neville, My True Story. Grandi canzoni, grande suono: ma tutto fatto in modo molto semplice, senza particolari arzigogoli. Musica, grande musica, e basta. Il ritorno alla semplicità paga. Aaron Neville è uno dei miei primi eroi e Allen Toussaint, scrittore, produttore, arrangiatore. Una figura eccezionale, un grande musicista. Ti ringrazio per questo suggerimento, il paragone mi fa onore, andrò a cercare il disco di Neville, non l’ho sentito. Ci sono diverse canzoni molto belle in Memphis. Corrina Corrina, Love on A Two Way Street, Gone Baby Gone e Pearl of The Quarter, che è degli Steely Dan. Una settimana prima di andare a Memphis, ero a New York. E ho visto Donald Fagen con la sua band, suonava in un club. Sono andato a sentirlo 44 | BUSCA ed ha suonato alcune canzoni degli Steely Dan, tra cui Pearl of The Quarter. Non la sentivo da anni e mi è piaciuta molto, così quando sono andato a Memphis l’ho proposta a Steve Jordan ed agli altri musicisti, è piaciuta subito a tutti. Le canzoni da interpretare le hai scelte tu? Sì, le ho scelte io. Negli ultimi due anni hai lavorato, hai suonato dal vivo, con The Dukes of September Rhythm Revue, una band formata da te, Donald Fagen e Michael McDonald. Ci sarà mai un disco di questa band? Sì, probabilmente in futuro. In questo momento siamo tutti impegnati a livello personale: io con questo disco, Donald con il suo album recente ma anche con gli Steely Dan e Michael pure. Ma, probabilmente in futuro, faremo qualche cosa. Abbiamo registrato un concerto, lo scorso Dicembre a New York. Questo concerto verrà trasmesso alla radio ed in televisione e lo stanno mixando anche per fare un disco che uscirà, penso, alla fine di questo anno. Abbiamo anche parlato di scrivere delle canzoni e di pubblicarle su un disco nostro, ma è tutto allo stadio della sola parola, eccetto il disco dal vivo. Con la pubblicazione di Memphis, farai un tour per supportare il disco? Solo in Usa o anche in Europa? Si, iniziamo a Marzo ed il tour va avanti sino a questa estate. Ma solo negli Stati Unti. Sei più popolare negli Stati Uniti. E’ vero, in Europa ho suonato poco. Che cosa ricordi del periodo in cui hai suonato con la Steve Miller Band? Non molto. In quel periodo si chiamava Steve Miller Blues Band, io sono entrato al posto di un altro musicista e, proprio con Miller, sono entrato per la prima volta in uno studio. In Inghilterra. Ho avuto anche la possibilità di cominciare a scrivere canzoni ed ho affinato il mio modo di suonare la chitarra. Gli spettacoli erano brevi a quell’epoca e noi mischiavamo blues con qualche tocco di psichedelia. La scena era confusa, un mucchio di band, e forse la band era più popolare in Inghilterra che in America, almeno all’inizio. Io e Miller ci eravamo già incontrati alla fine degli anni cinquanta, quando frequentavamo la scuola, ed avevamo messo su una band assieme. Nel corso della tua vita ti sei preso qualche vacanza dalla musica: so che hai aperto un night club a San Francisco ed hai anche una azienda vinicola a Napa County. Nel corso degli anni ottanta avevo perso un po’ di interesse nei riguardi della musica, avevo due figli giovani e mi sono dedicato a loro. Ho staccato per alcuni anni. Ho aperto un ristorante (The Blue Light Bar and Restaurant, San Francisco), poi mi sono accorto che era un errore, non avevo tempo di stargli dietro, non era la mia vita. Quindi ho aiutato un amico ad aprire un night club (Slim’s), ma l’ho solo aiutato, io non c’entro per niente. Boz Scaggs Mia moglie ha una Winery (Scaggs Vineyards), ma la cura lei, anche in questo caso io non faccio niente. L’azienda è a Napa Valley, un ettaro di terreno coltivato a vigneti, produciamo poco, 300 bottiglie all’anno, buon vino, ma non diventeremo mai ricchi con quello. E’ solo perchè piace a lei. Sono piccole cose. Memphis si segnala, rispetto ad altri dischi del genere, per la qualità del suono e per la produzione molto curata. Però è un po’ una sorta di marchio di fabbrica tuo: quasi tutti i tuoi dischi si sono segnalati per la qualità del suono. Mi sono fatto l’idea che quando tu fai un disco, ci pensi molto a lungo, non affidi nulla al caso. E’ vero, è proprio quello che faccio. Apprezzo l’abilità e la concretezza, ma anche la cura nel trovare il suono giusto, l’eleganza di certi strumentisti. E’ vero, non lascio nulla al caso. Questa è l’ultima domanda: quale è il tuo disco favorito? Kind of Blue. Il disco di Miles Davis l’ho ascoltato, e lo ascolto ancora, al punto che è diventato indispensabile. Lo suono molto spesso, perchè, a mio parere, quello è un disco perfetto. Un disco in cui arte e mestiere sono uniti in modo indissolubile; ma poi è l’arte a prevalere. Un capolavoro. Un ringraziamento speciale a Marco Denti, per avermi aiutato nel trovare le domande. Ì Y Soul Serenade La magia dei Royal Recording Studio, Memphis Insieme agli studi Stax, Ardent e American, il Royal ha segnato la storia del soul e r&b memphisiano, e qualcosa di più. La sua vicenda coincide in gran parte con quella della Hi Records, e va oltre perché lì hanno luogo anche numerose session per altre case discografiche. Tutto inizia nel 1957, un paio d’anni prima che la Satellite (poi Stax) faccia lo stesso con un altro teatro: Joe Cuoghi e alcuni soci provenienti dalla Sun di Sam Phillips, utilizzando il Royal Theatre di Memphis ricavano il Royal Recording Studio e fondano la Hi. Da lì, fino a metà dei ’60 ne escono dischi prevalentemente country, rockabilly, e strumentali vari tra cui Smokie Part 2 del Bill Back Combo (1959). A partire dal 1961 il trombettista e band leader Willie Mitchell, produttore e arrangiatore anche per altre etichette, incide alcuni instrumentals che vanno a influire sulla direzione stilistica dell’etichetta: fra questi, nel 1968, l’eccellente, policromatica ballad Soul Serenade (scritta da King Curtis), suo più grande ed emblematico hit, e nel 1969 lo scintillante r&b 30-60-90. Si va consolidando il sound caratteristico di quello studio-coloritura che man mano prenderà il posto di quella Stax, più aspra e roots, forte di un gruppo di musicisti diretti da Mitchell e denominato Hi Rhythm: i fratelli Hodges, Mabon “Teenie” (chitarra), Leroy (basso) e Charles (tastiere), cui si aggiungono, alternandosi, Howard Grimes (batteria e percussioni) e quel Al Jackson Jr. che nel contempo prende il ruolo di batterista nel team Booker T. & The MG’s. Nel 1970 Cuoghi muore e la proprietà passa a Nick Pesce, con Mitchell vicepresidente e factotum che, mentre cerca di lanciare la carriera di Don Bryant, scopre tali Syl Johnson e soprattutto Ann Peebles e Al Green(e), col successo e le qualità che sappiamo. Diventano di casa i Memphis Horns, in formazioni variabili, con Wayne Jackson (tromba) e Andrew Love (sax) sempre presenti, come spesso il sassofonista James Mitchell (fratello di Willie), mentre l’eccellente trio di vocalists (Sandra) Rhodes-(Charlie) Chalmers-(Donna) Rhodes, fa da supporto vocale. A caratterizzare ulteriormente il “sound mitchelliano” ci pensano le trame vellutate degli archi dei Memphis Strings, arrangiati da James Mitchell e da Charles Chalmers (che è anche sassofonista). Nel tempo per la Hi firmano altri interpreti importanti, fra questi Otis Clay, O.V. Wright (coi quali Mitchell aveva già lavorato in quello studio, oltre che per Bobby Bland e altri ancora), mentre altre label di quell’area continuano a portare i loro artisti, tra queste occasionalmente la Goldwax, anche il grande James Carr. Negli anni, quel luogo e la conduzione di Mitchell, pure con le nuove formazioni ritmiche, attraggono molti, anche dopo la chiusura dell’etichetta, come nel caso di un ritorno di James Carr (1994) e, in tempi più recenti per il team strumentale memphisiano Bo-Keys, per il grande Solomon Burke (2010) con un disco (purtroppo solo discreto) prodotto da Mitchell, il quale muore all’inizio di quello stesso anno, seguito mesi dopo dallo stesso Burke. L’anno scorso una puntatina la fa anche Cody ChesnuTT per il nuovo album, e infine il pregevole tocco caratterizza l’eccellente ritorno discografico di Boz Scaggs. La magia dei Royal Recording Studio continua. Gianni Del Savio BUSCA | 45