Etica dell'organizzazione: una introduzione - Italo De Sandre ETICA DELL'ORGANIZZAZIONE: UNA INTRODUZIONE Italo De Sandre 1. Cambiamenti nel modo di pensare e di conoscere. E' sempre problematico aprire un percorso soprattutto in un ambiente di esperienze e di idee in cui sono presenti professionisti diversi e molto qualificati, quindi diversi linguaggi, diversi modi di pensare, per cui - essendo altamente improbabile che tutti diano lo stesso significato alle cose alcune volte si preciseranno dei termini, senza voler fare lezione, ma puntualizzare meglio le questioni in gioco, tutte piuttosto delicate. La prima cosa che vorrei ricordare, ancor prima di parlare di organizzazione, e pur solo di passaggio perché non mi ci soffermerò, è il fatto per cui negli ultimi 50-60 anni è cambiata l’epistemologia, la consapevolezza su come si costruisce la conoscenza, cioè la maniera di guardare e pensare alle cose. Devo sottolineare che si tratta di una questione importante e tutt'altro che astratta, perché non si è passati soltanto da un modo di conoscere ad un altro. Si è percepito che per secoli il modo di costruire conoscenza era stato fondamentalmente uno: scoprire; si riteneva cioè che le leggi fossero dentro alla natura e il compito degli studiosi fosse quello di tirarle fuori, di portarle a galla. Questo tipo di atteggiamento conoscitivo è stato chiamato positivismo, una logica assolutamente importante e presente in tutte quelle regioni disciplinari, in quelle aree di conoscenza in cui effettivamente si tratta di scavare di continuo. Ma già all’interno delle scienze fisiche basta evocare ciò che avvenne immediatamente dopo Einstein, quando si è andati più a fondo nella fisica, un altro studioso (che ugualmente ha avuto il premio Nobel per la fisica), Niels Bohr, ha capito che, al di là del fatto che ci sono delle realtà che non si possono misurare contemporaneamente - come aveva già teorizzato Einstein - quello che era fondamentale era il principio di complementarietà tra fatti simultaneamente non conoscibili, ed il carattere probabilistico delle "leggi" della meccanica quantistica (cosa fortemente criticata da Einstein). Forse è più conosciuto il principio di indeterminazione di Heisenberg (allievo di Bohr): da questi nuovi orientamenti scientifici si è cominciato a capire che - come dirà più tardi un E.Morin - la realtà è complessa, non è o bianca o nera perché è normalmente bianca e nera, ordinata-e-disordinata, le differenze si evidenziano ed inter-feriscono, interagiscono reciprocamente, inducendo a migliorare attivamente l’organizzazione precedente. Quelli sono stati anni in cui già all’interno delle cosiddette scienze "dure" si è cominciato a vedere che non necessariamente delle contraddizioni erano tali ma ci doveva essere una nuova maniera per conoscere la realtà. Con lo sviluppo rapido nel tempo delle ricerche ha preso forma una svolta conoscitiva enorme: si è cominciato a capire che nel costruire conoscenza, non si tratta soltanto o tanto di 1 portare alla luce delle cose che sono già dentro il tessuto della realtà, ma che le persone, i gruppi, le società, contribuiscono a costruire la conoscenza secondo il proprio linguaggio, attraverso rappresentazioni sociali, in rapporto alle cornici storico-culturali, alle sensibilità del tempo, ecc.. Possiamo mettere allora l'uno accanto all'altro due termini: scoprire e costruire. Ci sono di fatto ancora molti tra i ricercatori ed i professionisti che continuano a sentirsi legati allo scoprire, conoscere come uno scoprire a partire dalla "realtà"; altri, filosofi psicologi e sociologi, che parlano piuttosto del processo di costruzione sociale della realtà (titolo di un testo fondamentale di P.Berger e T.Luckmann). I sociologi parlano di costruzione sociale della realtà analizzando la società, le relazioni, le organizzazioni, gli psicologi parlano di costruzione delle conoscenze, delle rappresentazioni sociali, come percorso degli individui. Abbiamo una doppia ottica nel guardare la realtà: un’ottica dello scoprire, un’ottica del costruire; ed infine un’ottica che di fronte alla complessità della realtà (vanno ricordati nomi come Gregory Bateson, anche se personalmente ritengo metodologicamente più rigoroso Edgar Morin), proprio perché essa è frutto di tutta una serie di interazioni alcune volute molte non volute ecc., decide di aprire una strada nuova, rifiutando - cosa su cui Morin insiste nettamente - di essere riduzionisti, di essere semplicisti: non bisogna ridurre la complessità della realtà a misura delle nostre limitazioni, o peggio, convenienze conoscitive e decisionali. Bisogna cercare di guardare alla complessità dell'organizz-azione del sociale, generata dalle interazioni tra attori, relazioni, eventi voluti e non voluti, partendo da strutture ed azioni ordinate e disordinate, da cui gli attori traggono altre azioni, che costruiscono maggior ordine o maggior disordine, trasformazioni che subito retro-agiscono sull'organizzazione stessa, nella quale "il tutto dev'essere nella parte che è nel tutto", come si diceva sopra. Morin ha fatto un tentativo (in numerosi volumi, sviluppando importanti applicazioni pedagogiche e culturali) che convince ed oggi è ampiamente accreditato. Non interessa qui fare una mini-lezione sulla complessità, ma indicare che nella nostra mente, nelle nostre pre-comprensioni, qualcuno di noi è più legato allo scoprire, qualche altro è più legato alle implicazioni psico-sociali del conoscere, e tutti dovremmo riuscire a districarci nella complessità senza semplificazioni indebite. Ci si deve ascoltare a vicenda proprio perché ci sono diversi modi di costruire le conoscenze. Questo andava detto in premessa perché conoscere non è una cosa da dare per scontata. Più specificamente dobbiamo prestare molta attenzione al fatto che parlando delle organizzazioni i nostri punti di vista possono essere diversi: qualcuno può guardarle come dei dati, delle cose oggettive, dei sistemi di interazioni più o meno formalizzate, che esistono e di cui si tratta di fare per così dire l’anatomia, ed altri, tra cui colloco anche me stesso, che invece la vedono come una cooperazione tra soggetti che normalmente è anche conflittuale, che è razionale ma anche a densità emotiva molto forte ecc.. 2 Etica dell'organizzazione: una introduzione - Italo De Sandre 2. Cambiamenti nel modo di fare e pensare l’organizzazione. Detto questo, è interessante notare che l’idea di organizzazione ha percorso una sua storia, pur se la sociologia è nata "solo" 100-150 anni fa, mentre la medicina e la filosofia hanno una tradizione di ben più di 2000 anni. L’idea di organizzazione è stata fin dall’inizio un fenomeno importante ma l’idea di divisione del lavoro di Marx nel campo scientifico ha attecchito solo in parte, perché la sua impostazione si è trasferita immediatamente in una visione filosofico-politica macro-sociale di tipo conflittuale, di cui abbiamo conosciuto gli sviluppi. Invece, dal punto di vista di una sociologia più classica due idee sono state particolarmente importanti, e rilevanti per la presente riflessione (in questa sede a me interessano le idee piuttosto che gli autori che le hanno proposte e sviluppate, comunque la prima risale a Durkheim, la seconda a Weber). Una prima analisi vedeva la società moderna come una cooperazione tra individui che perseguono interessi particolari però complementari tra di loro, che hanno interesse a cooperare. Su cosa si basa questa cooperazione di interessi individuali, improntata e regolata da una coscienza collettiva: su di una matrice culturale, definita dal suo autore solidarietà (organica), un'idea più ampia della accezione più comune legata piuttosto all'altruismo ecc. La solidarietà così intesa è una "matrice", cioè è l'insieme dei valori che generano le relazioni sociali: Durkheim, da antesignano della metodologia della ricerca, ha affermato una cosa importante, che va anche oggi tenuta presente: la solidarietà può essere colta, analizzata, osservando le regole che produce, il diritto che ne scaturisce, le opere che ne nascono. Potremmo dire, correttamente, che la solidarietà si vede non solo né tanto dai valori evocati e dalle parole che si dicono, ma guardando accuratamente ai frutti sociali che ne vengono concretamente generati. Quindi la cooperazione ha alla base una matrice etica. Un’altra idea importantissima è stata quella che ha messo a fuoco il processo di razionalizzazione, il concetto di razionalità "secondo uno scopo" misurabile: si è capito che l’anima della società moderna che stava crescendo era (ed è ancora) basata su di un tipo particolare di razionalità, la razionalità secondo scopi controllabili, con mezzi calcolabili. E questa razionalità ispira un particolare tipo di organizzazione, governata mediante uffici, ruoli formali ed anonimi, regole stabili e conosciute, da cui il termine ed il concetto di buro-crazia, che è stato ed è tuttora potente proprio perché lega razionalità materiale e regole (riguarda amministrazioni pubbliche, ma anche banche, aziende, ecc.). Adesso quando parliamo di burocrazia parliamo di una cosa rigida, distorta, che non funziona, perché effettivamente le disfunzioni riscontrate nel tempo sono state tante, ma quando è stata pensata come tipo teorico aveva questa valenza fondamentale: le regole dovevano essere 3 basate sulla razionalità, gli scopi stabiliti con razionalità, le informazioni dovevano essere scritte, archiviate, regolate, le persone assunte in forme qualificate. Se l’idea di organizzazione razionale è di fine ‘800 primi ‘900, ed è, al presente, ancora potentissima, è utile evocare due orientamenti che ne sono l'affinamento e l'applicazione industriale: il Taylorismo e il Fordismo. La razionalità con F.Taylor si applica al processo di produzione in maniera da scomporne i movimenti e i tempi, rendendo predefinite tutte le parti che compongono il processo per far diventare più produttivi i lavoratori. Pochi anni dopo che Taylor aveva definito questi principi, H.Ford li ha applicati nella catena di montaggio dell'auto ed è iniziata la produzione industriale di massa, che ha cambiato la mentalità del produrre aprendo all'economia dei consumi di massa. Quindi: cooperazione basata su di una matrice culturale, etica, razionalità regolata applicata all’organizzazione, sviluppata industrialmente dalla divisione scientifica del lavoro: scientifica perché basata su di un processo definito da tecnici specialisti (ed applicata anche ai giorni nostri ad es. nelle contrattazioni alla FIAT Mirafiori): nonostante, per altri versi, si siano sviluppate culture organizzative post-fordiste, in alcuni settori siamo tuttora in epoca fordista, dove per fordismo si intende appunto una burocratizzazione-tecnicizzazione specialistica sostanzialmente definita da esperti in cui i lavoratori - alla C.Chaplin - sono delle braccia che eseguono gesti in modo "meccanico" e alienato. Pure già all'inizio degli anni '30 si era arrivati, dopo lunghe ricerche che alcuni psicologi avevano fatto in un’azienda USA, a capire che i lavoratori continuando a ripetere gli stessi gesti non solo si annoiavano, si affaticavano, senza essere considerati persone umane, senza "relazioni umane" si sentivano spersonalizzati e producevano meno e peggio (una delle regole della burocrazia è che un dipendente deve lasciar fuori i suoi problemi perché quando è al lavoro è solo un "funzionario", deve fare quel lavoro e basta). Pensando che questa consapevolezza dell’importanza vitale del fattore umano, delle relazioni umane, è di 80 anni fa, si capisce che sarebbe bene avere un po’ più presente la genealogia di queste problemi dell'organizzare. Molte cose sicuramente si sono maturate ma assolutamente non in modo e misura adeguati, perché la sordità è stata enorme. 3. Etica dal riconoscimento dell'integrità del corpo della donna e di chi lavora. Dopo che nel dopoguerra queste idee sono arrivate in Italia, sono successe molte cose importanti sul piano dello sviluppo economico, ed ancora più dal punto di vista socio-culturale, soprattutto per la trasformazione dell'etica dell’organizzazione spinta dalle rivendicazioni nel campo della salute-sanità. Da pochi anni sono stati celebrati (e vituperati, anche da alti prelati 4 Etica dell'organizzazione: una introduzione - Italo De Sandre cattolici) gli “anni del ’68”. Va ricordato che in quegli anni ci sono stati due tipi di movimenti sociali rilevanti ai nostri fini, quello dei lavoratori e quello delle donne, sorti quindi in ambiti sia interni che esterni al lavoro di fabbrica, in cui il riconoscimento dell’esperienza, la valorizzazione della vita degli individui è emersa in pieno. Erano stati preceduti negli Stati Uniti dall’esperienza antiautoritaria contro la guerra del Vietnam ma anche da quella dei "figli dei fiori", che si deve ricordare perché per il movimento hippy il problema era: La mia esperienza libera prima di tutto, a prescindere da come si sono sposati i miei, da che lavoro vorrebbero farmi fare ecc.. Quindi la messa al centro della libertà espressiva degli individui, con altro linguaggio parleremmo di una attenzione post-materialista alle persone, ando un senso più pieno al termine "individuo". Lì negli anni ’60 era emersa la centralità dell’individuo, in Europa è esplosa diversamente con i movimenti sociali perché entrambi i movimenti, quello dei lavoratori e quello delle donne, hanno messo al centro (o in uno dei fuochi) della loro presa di coscienza e di analisi il problema della originaria dignità del corpo di ogni donna e di ogni lavoratore, e contemporaneamente la responsabilità collettiva nel tutelarne concretamente l'integrità. Le organizzazioni operaie - in questa prospettiva - hanno incominciato a ragionare partendo da evidenze di fatto circa la (non) tutela della salute: c’è molta gente che si ammala, anche gravemente, o muore. Perché la gente si ammala o muore? Ci sono stati dei professionisti qualificati, studiosi e ricercatori esperti, biologi, chimici, medici, psicologi, ecc., che si sono attivati per capire i problemi e cercarne delle soluzioni. Anche nella vita delle donne sono state messe in primo piano delle evidenze. Delle donne muoiono di tumore, le donne soffrono in maniere specifiche. Perché soffrono così? Ci sono stati degli specialisti/e, delle ginecologhe che hanno lavorato con le donne, per capire meglio il corpo delle donne, che non ha soltanto una funzione biologico-riproduttiva. In questo percorso di collaborazione per una conoscenza scientifica della realtà, va quindi tanto smitizzata la rappresentazione per cui i lavoratori avevano capito tutto subito, che le donne sapevano già tutto, tanto superata la vecchia contrapposizione, i lavoratori, le donne da una parte e gli intellettuali dall’altra. La società nel suo insieme ha potuto capire perché c'è stata una vera, diffusa, non retorica cooperazione di conoscenza e coscienza. Alla domanda di conoscenza si è accompagnata una domanda etica, e subito anche politica. Lavoratori e donne soffrono così perché succedono queste cose: ma è giusto che sia così? E’ un’interrogazione fondamentalmente etica (filosofica), etica e scientifica, perché pone un problema, se ne cercano le evidenze empiriche, e si pone anche una questione-decisione: da adesso in poi non bisogna più morire così, non bisogna ammalarsi così. Io credo che questa svolta sia stata fondamentale e piena di effetti concreti perché la realtà è stata affrontata e capita in maniera pragmatica (e quando dico 5 pragmatico non voglio dire il contrario di teorico). Pragmatica signifca che passa attraverso le pratiche, le prassi delle persone, delle organizzazioni. Si è capito che l’etica non è una teoria - prima e dopo i filosofi teorizzano - ma l’etica è un’esperienza pratica-e-di senso che io vivo non (tanto) quando faccio una riflessione sull’etica ma che vivo tutti i giorni: in parte contribuisco a generarla con il codice generativo della solidarietà (di cui parlava Durkheim in fondo) ed in parte ne subisco le conseguenze, i vantaggi o i pesi, dato che ogni organizzazione per una propria parte regola i rapporti in maniera tale che diventano vitali o dannosi, giusti o ingiusti. Questo è un passaggio fondamentale perché non è emerso il problema della salute "soltanto" dei lavoratori e delle donne, ma i problemi delle persone con handicap, la ridefinizione delle malattie della mente e di nuovi modi per capirle e curarle, e via via. E’ stato un grande cambiamento che in termini scientifici si può davvero definire un cambiamento di paradigma, cioè un mutamento complessivo nel modo di organizzare le conoscenze ma anche le pratiche, del modo di dar senso alle pratiche. In questi passaggi di quegli anni la centralità della dignità delle persone, la consapevolezza socializzata del valore della giustizia in termini di salute ma anche di rapporti sociali, secondo me, sono potute emergere perché è stato creato un intreccio tra persone con le loro esperienze dirette alla base del vivere quotidiano, esperti solidali, da cui sono nate cognizioni empiriche e alla fine anche condizioni e valutazioni politiche che ne hanno fatto, rubando parole di T.Terziani, un vero e proprio "giro di giostra", particolarmente importante. E' del ’72 la "Lettera al Presidente dell’Ordine dei Medici di Milano" del noto biometrista G.Maccacaro, ma basta prendere in mano i testi di sociologia della medicina e della salute da allora ad oggi. La coscienza ed anche la cognizione diversa di questi processi è arrivata quindi a chiarire che stava cambiando, appunto, il paradigma in sé della salute. 4. Trasformazioni turbolente nelle relazioni tra persone ammalate e medici. Qui il discorso deve essere sintetico ma dal punto di vista organizzativo ha implicazioni molto forti che val la pena mettere in evidenza. Nei corsi di sociologia, per schematicità ricordiamo innanzitutto il (precedente) paradigma centrato sulla malattia e sul medico, sulla medicina: negli anni ’50-60 è stato oggetto di importanti analisi sociologiche: la centralità viene posta del ruolo del medico e della medicina che fronteggia la malattia, ma anche al paziente veniva riconosciuto un vero e proprio ruolo sociale. Come ha visto con intelligenza un sociologo americano classico, T.Parsons, il medico non ha solo la capacità o la qualificazione per guarire ma ha anche una capacità molto importante, un'autorità socialmente legittimata: fare in modo che, se uno lavora e si ammala, per il periodo della malattia possa fare a meno di lavorare. E’ un’autorità sociale strategica 6 Etica dell'organizzazione: una introduzione - Italo De Sandre perché, al di là ad es. del magistrato che può far imprigionare uno se ha commesso un reato, il medico è l’unico che può dire a qualcuno che per quel certo periodo non solo non può ma neppure deve lavorare, né deve svolgere i suoi ruoli sociali, ma come paziente deve seguire le procedure richieste per tornare abile. Un modello organizzativamente molto semplice: di fronte ad un segnale di malattia c’è un unico dominus, un unico esperto che coordina l’organizzazione della salute che è il medico, gli altri sono degli aiutanti, ed il primo facilitatore deve essere il paziente ovviamente, perché il malato deve curarsi seguendo le prescrizioni mediche, non può fare a meno di farlo altrimenti non rispetta il suo ruolo legittimato di paziente. Da questo modello centrato sulla malattia e sul medico, che dagli anni '70 è stato fortemente criticato e solo in parte oggi superato nella pratica, si è passati al paradigma che ha posto al centro la persona e la sua salute, con una concezione della salute stessa come benessere bio-psico-sociale (OMS 1948), per cui non si tratta di aspettare che la malattia "accada" ma bisogna prevenirla e quindi - soprattutto - promuovere la salute con percorsi molto più complessi, in cui ovviamente il medico è ancora centrale, ma con una mission sociale ben più ampia di prima, ha un compito qualificato fondamentale che deve esercitare dialogando con le persone ammalate e sane, con le comunità locali. Non più un modello meccanico, stimolo-risposta (prescrizione-esecuzione), in cui di conseguenza - il paziente è ridotto alla parte malata del suo corpo, ad un numero di corsia: càpita la malattia im-prevista, il medico fa la diagnosi sull'organo malato, dà la terapia cui si deve obbedire dato che egli solleva il malato dai propri ruoli sociali. L'impostazione nuova è radicalmente diversa anche se il medico è sempre co-protagonista, perché al centro sono le persone, sia dell'ammalato che del medico. Questo secondo modello ha portato alle riforme sanitarie degli anni '70, che hanno aperto programmi di promozione della salute, prevenzione delle malattie, centralità del paziente, interazione-alleanza con il medico ecc., in realtà purtroppo ha portato anche a costruire una retorica sulla salute. Retorica in senso ideologico, perché ha prodotto un linguaggio, delle rappresentazioni sociali persuasive, per cui si dichiara sempre la "centralità del paziente" (da notare che si continua ancora a chiamarlo paziente come nel precedente modello medico-malattia, non lo si chiama ancora persona ammalata), anche se poi le pratiche mediche ed organizzative non risultano spesso conseguenti ma le cui manchevolezze vengono nascoste dalle parole. Il grande risultato delle riforme è stato quello di rendere uguale per tutti il diritto alla salute, standardizzate le nuove strutture sanitarie nel territorio: sono state organizzate in ogni parte d'Italia le Unità Sanitarie Locali, sono stati rivisti in qualche modo gli ospedali, successivamente trasformati in "aziende" (passaggio criticato da molti). Uso frequentemente ideologico di tanti discorsi standard su valori, su 7 criteri etici, su nuove regole di efficienza e di eccellenza, continuamente iterati anche di fronte a palesi contraddizioni pratiche fino ad irritare le persone che non sono più sempre pazienti. Nella storia recente questo secondo modello ha subito una ulteriore trasformazione, osservabile dai molti conflitti, anche giudiziari, che ne emergono quotidianamente, e dai conseguenti problemi di assicurazione dei professionisti e delle aziende sanitarie. Le attese di guarigione, di successo della cura, sono diventate per molti utenti delle "pretese" di esito, all'interno di un rapporto quasi di scambio: il cittadino paga le tasse, il ticket, e se la guarigione non arriva nel modo previsto denuncia il medico, l'ospedale, pretende "giustizia" e quando possibile rimborsi di danni. Per prevenire questi danni giudiziari, che si traducono anche in danni di immagine, di reputazione, i medici possono essere indotti a ricorrere a quella che viene definita esplicitamente "medicina difensiva", con la moltiplicazione anche inappropriata di test diagnostici e di interventi di cura, dispendiosi, che appesantiscono l'attività sanitaria corrente ma che servono a "mettere le mani avanti" e depotenziare le eventuali delusioni degli utenti. Questa trasformazione della relazione ammalato-famigliari-medico in scontro piuttosto che in alleanza, è basata su di una rozza e dura concezione mercantile di rapporto tra le prestazioni, pur se criticata da molti degli stessi medici. 5. L'organizzazione come sistema complesso vs come somma di mini-sistemi. Nella nostra realtà sociale, se il secondo modello è teoricamente e formalmente quello accreditato, esso convive quotidianamente con il primo e il terzo. Dal punto di vista delle rappresentazioni sociali cambiano i modelli salute-sanità, i tipi di interazioni sociali tra persone sane, che devono essere le prime attive nel prevenire le malattie, ed i medici che le curano, che interagiscono con loro, con cui viene stabilita normalmente un’alleanza ma tutt'altro che di rado uno scontro: in che modo tutto questo è vissuto dal punto di vista organizzativo? La questione forte è questa: formalmente è stata costruita una organizzazione più razionale degli ospedali, della medicina generale nel territorio, ma in concreto, nel territorio, ciascun medico come è organizzato, e ciascun ospedale come si è di fatto trasformato, con quale cultura (e quindi etica) organizzativa? Tenendo sul sfondo le teorizzazioni etico-scientifiche, dato che si tratta comunque di persone che curano altre persone, quali sono le pratiche diversamente funzionali, che a loro volta chiaramente non possono non essere co-generate anche da scelte etiche. Dovremmo pensare la forma di una struttura in cui le persone, i pazienti, gli ammalati interagiscono con fiducia, e dovrebbero costituire un sistema intrecciato in tutti i diversi reparti ecc.: nella realtà, immaginando graficamente l'organizzazione di un ospedale, viene piuttosto in mente la figura di un "otto", con la parte superiore piccola che rappresenta il management, e la parte 8 Etica dell'organizzazione: una introduzione - Italo De Sandre inferiore grande con i diversi reparti e servizi, con una intersezione tra le due parti stretta e corta, dato che nella maggior parte dei casi i reparti non comunicano facilmente con la direzione. Problema ulteriore è che non comunicano bene nemmeno tra di loro, perché di fatto sono vissuti prevalentemente come "isole", come "silos", nel senso che operano sostanzialmente in modo autoreferenziale, o comunicano tra di loro per vie materiali: il paziente che fisicamente passa da un reparto all’altro ma dove non passano tutte le informazioni possibili di quel paziente. In molti casi potremmo disegnare la classica figura di "piramide" tipica del sistema burocratico, che rispecchierebbe l’immagine di ciascun reparto legato, secondo una netta gerarchia, essenzialmente al proprio primario. In più, nelle Aziende in cui c’è l’Università, questa ha delle scuole, e quasi sempre gli apicali dei reparti sono o essi stessi docenti o legati a una di quelle scuole, per cui quello che emerge con notevole rilevanza è che se l’ospedale è di per sé un sistema, cioè una unità complessa costruita di elementi che interagiscono per realizzare l'obiettivo globale della cura che dovrebbero avere un unico ordinatore centrale, un governo interno unitario, in realtà vari reparti (se isole) fanno riferimento a capi-scuola universitari che hanno propri obbiettivi di ricerca e di controllo dell'autorità. L’organizzazione globale dà delle regole di fondo ma in realtà con due o più "ordinatori" le situazioni conflittuali si moltiplicano, ognuno di quei sotto-sistemi tratta le regole generali come mera cornice e si struttura con modalità proprie, stili propri che dipendono molto dal dirigente-primario e dal maestro di riferimento, con una riduzione dell'efficienza, efficacia, ma anche reputazione della struttura nel suo insieme. In più, pur essendo stati fatti miglioramenti, ma non un vero consapevole cambiamento organizzativo, questo va ri-pensato rispetto alle policentralità dei soggetti oggi ritenuta essenziale: il modello basato sulla persona, la sua salute, la promozione della salute stessa, con le contraddittorie prese di coscienza che ne sono emerse, è diventato ulteriormente complesso perché dalla retorica della centralità del paziente si è passati ad un discorso per cui se la persona malata è centrale bisogna contemporaneamente aver cura anche delle persone che operano, dei medici, degli infermieri, dei familiari, dei volontari. Nell’ospedale, nella medicina di base nella realtà è giusto che altrettanto centrale venga riconosciuto come persona anche il medico, l'infermiere: se un medico, un infermiere sta male organizzativamente non è possibile umanamente che riesca a gestire, aver cura di un paziente nella globalità della sua considerazione personale. Quella che è cresciuta, dagli anni ’60 in poi, è appunto la dimensione del "riconoscimento", per tutti, per ciascuno (non riguarda soltanto gli "stranieri" e le loro condizioni). La persona ammalata vuol essere riconosciuta appunto come persona ma anche il medico e l'infermiere, e il funzionario 9 dell'amministrazione, vogliono essere riconosciuti come persone, pur questi in funzione del benessere dei malati. Negli anni '80-90 fa, lavorando in un gruppo di ricerca con le Direttrici delle Scuole di Servizio sociale di Venezia e Verona, si cominciò a parlare del burnout degli assistenti sociali. Si cominciava a prestare attenzione, a "scoprire" che gli operatori delle professioni di aiuto come persone possono "esaurirsi". Lo sviluppo di questo modello della salute centrata sulla persona perciò giustamente si è allargato ad una poli-centralità, alle persone ammalate, alle persone che curano professionalmente, alle persone che in maniera non esperta accompagnano gli ammalati, e che diventano interlocutori importanti delle cure. Avendo chiaro che è cambiato il modo di guardare a queste cose, è importante sottolineare che le dinamiche organizzative non sono cambiate in maniera congruente. La frammentazione, la eterogeneità dei fini globali, di reparto, individuali, la demotivazione, un carente senso di appartenenza alla struttura in cui si lavora, l'inadeguato passaggio di informazioni tra i soggetti in gioco, tra medici di base ed ospedale, all’ingresso e al momento delle dimissioni e via via, si misurano nei fatti, fanno parte dell’evidenza delle cose non appena si faccia un qualsiasi brainstorming sull’organizzazione ospedaliera. Ed anche tra i medici nel territorio, che hanno una quantità elevata di assistiti, sostanzialmente ognuno fa quello che può, lavora anche molto ma in modo autoreferenziale, e magari taglia le interazioni, riduce la formazione non obbligatoria, ha difficoltà a partecipare a gruppi di lavoro su problemi emergenti e così via. 6. La complessità organizzativa non è un modo di dire. Uno dei problemi sollevati dalla teoria del pensiero complesso è che un sistema sociale può funzionare solo se il "codice generativo" di quel sistema, il suo DNA culturale e relazionale, vive anche all’interno di ogni singolo soggetto che lavora in quel sistema: non basta che ci sia nel dirigente. E.Morin con un apparente gioco di parole diceva: il tutto è nella parte che è nel tutto. E’ come dire: uno che gioca in squadra con un certo ruolo deve sapere come giocano gli altri ancor prima che giochino materialmente, perché se no non può pensare dove lanciare la palla, perché il gioco di squadra non è nel capitano, non è nell’allenatore, ma deve essere dentro ogni giocatore. Morin lo chiama principio ologrammatico, dato che l’ologramma è un'immagine tridimensionale che contiene quasi tutta l’informazione in ognuna delle parti dell’ologramma. Se questa è la comprensione corretta dell’organizzazione, quando si constata che esistono ampie frammentazioni organizzative, forti difficoltà nei passaggi delle persone e delle informazioni, si capisce che non c'è una cultura organizzativa che accomuna, non c’è una matrice etica comune, se non in modo vago. Ad accomunare sono alcune regole (le più ferree sono quelle economiche, di 10 Etica dell'organizzazione: una introduzione - Italo De Sandre bilancio), in realtà si vive ancora molto sulla base della percezione della stratificazione del potere (anche quando non è formalizzata), la modernizzazione viene fatta discontinuamente, ogni tanto, dai dirigenti che emanano circolari, o istituiscono commissioni, anche se nella realtà queste cose non circolano né vengono interiorizzate a fondo. Un importante studioso francese diceva che "non si cambia la società per decreto": bisogna passare attraverso le pratiche e le teste delle persone, nei mondi della vita di lavoro. Nei migliori studi organizzativi si è capito che l’organizzazione vive perché coloro che lavorano nell’organizzazione costruiscono insieme il senso nelle pratiche, nelle comunicazioni, faccia a faccia, perché faccia a faccia "non possiamo non comunicare" (come ha spiegato dagli anni '60 la Scuola di Palo Alto). La matrice dei cambiamenti organizzativi, la "mente" del sistema, non può quindi essere solo nel dirigente, nelle decretazioni e nelle circolari, deve passare all’interno della cultura e dell’etica pratica delle persone perché è lì che si sperimentano, si generano empaticamente le comunicazioni, le relazioni, si risponde anche senza parole al perché uno deve comportarsi in un certo modo verso l’altra persona: io pretendo d’essere riconosciuto come persona e contemporaneamente devo riconoscere anche l’altro, il paziente, l'infermiere o il medico come persone. Mano a mano che si evidenziano una serie di elementi relazionali e crescono queste consapevolezze, si capisce che l’eticità di una organizzazione è dentro alle pratiche quotidiane, non (sol)tanto negli organigrammi che possono predire ed orientare: le persone sono centrali non perché si mitizza l’individuo ma perché nell'interazione tra le persone si agisce in senso funzionale (perché devo risolvere la patologia X di una persona) e contemporaneamente lo si fa sapendo che entrambi si è persone, ed ogni cosa deve essere fatta valorizzando la dignità di entrambi. E' un et et, non un aut aut, un vita tua vita mea, e non mors tua vita mea. Sulla base di questa consapevolezza bisogna fare delle ricognizioni anche impietose dello strutturarsi dei processi organizzativi. I proclami etici francamente si sprecano. Chi è che non dice che il paziente è al centro, chi è che non dice che le comunicazioni sono importanti: ma come si fa a rendere coerente il discorso per cui tutte le persone sono importanti, e che le comunicazioni dipendono dalle relazioni che si hanno con le persone? Non è che ci si possa dedicarsi oggi alle "relazioni umane" e domani dedicarsi ad un intervento diagnostico, o chirurgico, perché se affronto il problema diagnostico o chirurgico devo capire le pratiche relazionali e comunicative implicate, capaci di generare dal loro interno azioni funzionali ed eticamente degne, al di là che ci sia o meno una specifica circolare di servizio. L’economista Amartya Sen vari anni fa parlava del valore etico del far crescere le capacità delle persone, perché qualsiasi sviluppo sociale possa realizzarsi nella libertà personale, la filosofa Martha Nussbaum ha approfondito la questione mostrando che tutto ciò non può che radicarsi nella 11 centralità del prendersi cura, nell'etica della cura (care). Il sociologo Z.Bauman, oggi molto citato, riferendosi alla risposta di Caino alla domanda di Dio: "Sono io il custode di mio fratello?", dice che se Caino ha detto di no, noi dobbiamo invece dire di sì. Ma in che termini siamo custodi l'uno dell'altro? Scopriamo che certi discorsi che si fanno a livello macro sono fondamentali nella vita quotidiana, nelle strutture di lavoro e di servizio, sono importanti non perché portano a dare delle risposte immediate, e in forma di giudizi, per sanzionare cosa è etico o non è etico: queste indicazioni di senso hanno una funzione di ricerca, di progetto, e come ogni buona teoria scientifica ci aiutano a porci delle domande serie. In una visione complessa della società non è corretto parlare prevalentemente o solo di ospedale perché la cura delle persone come sistema è nel territorio-e-ospedale, non ospedale da una parte e territorio dall’altra: questo iato esiste ed è una impostazione scorretta del problema di cui già ora vediamo le disfunzionalità, le diseconomie, e spesso la non eticità, perché rompe il sistema globale della vita in salute. Infatti constatiamo che l’Ordine dei medici avverte che non c’è comunicazione seria tra medici di medicina generale e dell'ospedale, per cui bisognerà attivare dei gruppi di lavoro per cambiare le cose. In questione comunque è la logica (l'etica) del sistema. Andiamo poi a guardare l’etica dell’organizzazione in ospedale e scopriamo che i reparti funzionano ad isole, perché ciascuno fa riferimento al proprio primario (ed eventualmente il primario al proprio maestro), e così via. Si deve favorire la comunicazione tra le parti, andranno utilizzate meglio tecnologie come internet o intranet, vi deve essere una prassi più cooperativa, interattiva, meno verticale, non ad isole, perché l’impianto "ad isola" è fuori da una visione moderna di organizzazione, e di etica organizzativa. Queste consapevolezze aiutano - come si è detto - non a giudicare moralisticamente ma a porsi delle domande non semplicistiche, a fare delle analisi e soprattutto ad essere convinti che una organizzazione non diventa etica per decreto, ma può rivedere le proprie pratiche emozionali e cognitive nelle relazioni, rispettando le persone che sono curate e che curano. Una integrazione molto complessa continuamente in trasformazione, su cui si può lavorare solo se la si riconosce, se non si è riduttivi. E' il difficile ma anche l’interessante di tutto questo, perché una delle cose non più sopportabili, da un punto di vista organizzativo ma anche scientifico, è il riduttivismo: credere che trovando una nuova formula pensata da un dirigente o un consulente, dando una nuova direttiva, si possa ritenere di aver risolto il problema dell’etica dell’organizzazione: sulla base delle conoscenze di cui noi oggi disponiamo, prima di essere un inganno per gli altri, per le persone ammalate, i famigliari, il pubblico che legge giornali e vede la TV, è un autoinganno. ids 2011 12