DIRITTO e PROCESSO - Le Strade dell`Informazione

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Rivista mensile telematica di diritto per l'aggiornamento e la formazione professionale
DIRITTO e PROCESSO
formazione
N.9
Anno II
DIRITTO E PROCESSO Civile
La responsabilita’ disciplinare del notaio
Sentenze del giudice di pace in materia civile e loro appellabilita’
DIRITTO E PROCESSO del Lavoro
La nuova disciplina delle dimissioni dopo la legge 92/2012
DIRITTO E PROCESSO Penale
L’impossibilita’ sopravvenuta di ripetizione degli atti nel dibattimento penale, deroga o violazione del contradditorio?
Estorsione: occorre la presenza contestuale ed istantanea di tutti gli estorsori per integrare l’aggravante più persone riunite
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DIRITTO e PROCESSO Formazione
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Fondatore e Direttore
Luca D'Apollo
Comitato scientifico e di redazione
Giuseppe Buffone – Elena Brandolini - Nicola Fabiano – Sara Farini – Francesco Carmine Follieri – Luigi Levita – Massimo Marasca – Raffaele
Plenteda – Manuela Rinaldi – Rocchina Staiano – Dario Immordino – Serafino Ruscica – Mario Tocci – Elena Morano Cinque – Maria Cristina Iannini
– Anna Larussa – Pasquale Morelli – Lina Conte.
Hanno collaborato a questo numero:
Antonio Torre, Elena Napolitano, Michele Di Iesu, Elena Guerri, Bruno Olivieri, Gianna Rossi, Mauro Giarrizzo, Valentina Zinzio, Daniele Pomata,
Gianmarco Miele, Diego Conte
DIRITTO E PROCESSO FORMAZIONE, si cita Dir. Proc. Form.
Anno II, n. 9 chiuso in redazione il 24 settembre 2012
DIRITTO E PROCESSO FORMAZIONE è l’approfondimento mensile di Diritto e Processo - Notiziario giuridico telematico - quotidiano
giuridico telematico iscritto dal 22 marzo 2010 nel registro dei giornali e dei periodici del Tribunale di Lucera al n. 144, ISSN 2038 - 2030.
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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le
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Le riproduzioni diverse da quelle sopra indicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, commerciale, economico o professionale – e/o
oltre il limite del 15%) potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da Diritto e Processo, e-mail
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Mensile di approfondimento ed informazione scientifica
SOMMARIO
Focus
DELITTI CONTRO L’ONORE (A. Torre)…………...5
L’IMPRESA FAMILIARE (M. Giarrizzo) …………………………………………………………….12
LAVORO DI PUBBLICA UTILITÀ: DALLA LETTERA DELLA LEGGE AI PROBLEMI
APPLICATIVI (D. Pomata) ………………………………………………………………………..……15
Diritto e Processo Civile
LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE DEL NOTAIO Cassazione, sez. unite, 31 luglio 2012, n.
13617 (M. Giarrizzo)……………………………………………………………………………………...22
SENTENZE DEL GIUDICE DI PACE IN MATERIA CIVILE E LORO APPELLABILITA’
Cassazione, sez. III, 11 giugno 2012, n. 9432 (E. Guerri)………………………………………...………25
SOCIETA’ A RESPONSABILITA’ LIMITATA A CAPITALE RIDOTTO parere 182223 del
30/08/2012 del mise: (art. 44 d.l. 83/2012, convertito con modificazioni, dalla legge 134/2012) –
integrazioni del proprio parere del 31/07/2012, prot. n. 170741 (M. Giarrizzo).………………………..29
Diritto e Processo del Lavoro
LA NUOVA DISCIPLINA DELLE DIMISSIONI DOPO LA LEGGE 92/2012 (B. Olivieri)………31
Diritto e Processo Penale
L’IMPOSSIBILITA’
SOPRAVVENUTA
DI
RIPETIZIONE
DEGLI
ATTI
NEL
DIBATTIMENTO PENALE, DEROGA O VIOLAZIONE DEL CONTRADDITORIO? (M. Di
Iesu)………………………………………………………………………………………………………..32
L’UTILIZZO COSTANTE E REITERATO NEL TEMPO DELL’AUTO PUBBLICA È
PECULATO D’USO O PER APPROPRIAZIONE? Cassazione, sez. VI, 30 maggio 2012, n. 20922 (L.
Grande)……………………………………………………………………………………………………38
ESTORSIONE: OCCORRE LA PRESENZA CONTESTUALE ED ISTANTANEA DI TUTTI GLI
ESTORSORI PER INTEGRARE L’AGGRAVANTE PIÙ PERSONE RIUNITE Cassazione,
Sezione Unite Penali, 5 giugno 2012, n. 21837 (V. Zinzio)………………………………………………41
Diritto e Processo Amministrativo
RESPONSABILITA' PER “USO IMPROPRIO” DEL BILANCIO SOCIALE (D. Immordino)….44
ORDINANZE COMUNALI CONTINGIBILI ED URGENTI IN MATERIA DI RIMOZIONE
RIFIUTI TAR Campania - Napoli Sez. V, 26 luglio 2012, n. 3635 (G. Miele)…………………………..47
Diritto e Processo Tributario
IL CREDITO D’IMPOSTA TEMPESTIVAMENTE DICHIARATO È SOGGETTO ALLA SOLA
PRESCRIZIONE DECENNALE (D. Conte)…………………………………………………………...48
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DIRITTO e PROCESSO Formazione
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Focus
DELITTI CONTRO L’ONORE
Antonio Torre
Come è noto “agli addetti ai lavori” i delitti contro l’onore costituiscono un gruppo di reati classificati
dal codice penale italiano nel Libro secondo: Dei delitti in particolare, al Titolo XII: Dei delitti contro la
persona – Capo II: Dei delitti contro l’onore, artt. 594-599, per la comune caratteristica di offendere
attingendo il valore sociale della persona offesa.
In particolare, secondo l’Antolisei, l’offesa all’onore consiste nell’aggressione al <<complesso delle
condizioni da cui dipende il valore sociale della persona1>>, individuabili nelle rispettive doti morali,
intellettuali, fisiche o comunque capaci di costituire un <<pregio dell’individuo nell’ambiente in cui
vive2>>, cioè la reputazione.
Tuttavia secondo la Corte di Cassazione, vi è l’esigenza di considerare la reputazione secondo criteri di
oggettiva rilevanza effettivamente riscontrati nell’opinione sociale.
<<La reputazione non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor
proprio, ma con il senso della dignità professionale in conformità all’opinione del gruppo sociale,
secondo il particolare contesto storico. Non costituiscono, pertanto, offesa alla reputazione le
sconvenienze, l’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza3>>.
I delitti contro l’onore sono l’ingiuria e la diffamazione. Si tratta di un tema di grande attualità perché in
qualsiasi talk show, in qualsiasi programma televisivo dal più erudito al più popolare (da Porta a Porta ad
Anno zero, da Ballarò a Matrix),spesso si sentono termini di diffamazione.
Che cos’è l’onore?
Secondo una prima elaborazione della dottrina la ricerca dell’onore andava fatta nel mondo,cioè la
ricerca doveva essere empirica, tant’è che questa concezione veniva definita concezione fattuale4.
In particolare concepiva l’onore in due sensi:1) onore in senso soggettivo cioè come la percezione che
ciascun soggetto ha di se stesso; 2) onore in senso oggettivo come l’insieme dei valori quindi come la
reputazione che la società attribuisce a un determinato soggetto, individuo.
Questa era la concezione fattuale considerata <<relativamente empirica5>>; se si guarda a fondo più che
di concezione empirica si tratta di una concezione soggettiva, psicologica, perché si va a vedere che cosa
un soggetto prova di se stesso, e di una concezione oggettiva che invece va a vedere il pensiero che la
collettività, la società, ha di un determinato soggetto.
In dottrina ci si è resi conto che questa teoria non andava bene e infatti si è cercato di trovare
immediatamente dei correttivi. Si dice: è vero che c’è la concezione fattuale,del mondo empirico,però c’è
un onore minimo che va garantito ed assicurato a tutti6. Questo correttivo (onore minimo) è risultato
contraddittorio. Perché la dottrina considera contraddittorio il concetto di onore minimo?
Perché prima si dice che l’onore va cercato nel mondo empirico, e poi si dice che c’è una cosa
astrattissima (che appartiene al “mondo delle idee”) che è l’onore minimo7.
Un secondo correttivo della concezione fattuale sostiene che è vero l’onore in senso soggettivo, è vero
anche l’onore in senso oggettivo però riconosce che i delitti di ingiuria e di diffamazione non sono delitti
1
Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Giuffrè, 1986.
Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale, Giuffrè, 1986.
3
Cassazione penale, n. 3247, ud. 28/02/1995, in Cass. pen., 2536/1995.
4
Bellagamba Filippo; Guerrini Roberto, Dei delitti contro l’onore, Giappichelli, 2010.
5
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
6
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
7
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
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di danno ma sono delitti di pericolo, quindi se si anticipa la tutela, non c’è bisogno che l’onore si offenda
davvero però ci può essere il pericolo e in questo modo si cerca di tutelare anche il minore,la prostituta, la
tossicodipendente ovvero categorie di soggetti che per antonomasia sono sempre stati considerati soggetti
deboli, bisognosi di una adeguata protezione8.
Cosa prevede l’art 594 del codice penale? Prevede che <<chiunque offende l’onore e il decoro di una
persona presente è punito>>. Che tipo di fattispecie abbiamo? Si tratta di una fattispecie di pericolo o di
danno? È chiaramente una fattispecie di danno. Quindi questa concezione che è stata criticata e anche
scardinata dalla dottrina maggioritaria, venne accolta dal codice Rocco; se si prende l’art 594
<<chiunque offende l’onore e il decoro di una persona presente>> ci sembra proprio che il legislatore
voglia tutelare l’onore inteso in senso soggettivo , e se la persona è presente si offende l’onore e il
decoro.
Se si guarda invece all’ art. 595 del codice penale sulla diffamazione <<chiunque fuori dei casi previsti
dall’articolo precedente (cioè in assenza della persona offesa) offende l’altrui reputazione>>,
sembrerebbe che il codice Rocco voglia tutelare in questo caso l’onore inteso in senso oggettivo, come
l’insieme dei valori che una collettività attribuisce ad un soggetto. Qualsiasi sia stata la scelta del codice
Rocco è una scelta desumibile e non dichiarata9.
La seconda teoria, la seconda concezione che ha preso corpo in dottrina, è la concezione normativa. In
realtà ogni persona ha una dignità e va tutelata in quanto tale,ogni soggetto ha una dignità morale,sociale
che va tutelata solo per il fatto che il soggetto esiste.
Le accuse anche a questa concezione sono state tantissime. Però nel frattempo, è intervenuta nel 1948, la
nostra Costituzione che ha dato struttura a questa tesi rafforzandola notevolmente.
Con l’avvento della Costituzione vi è stata,poi attraverso le idee di Bricola, una rilettura del diritto penale
alla luce della Costituzione10.
Il prof. Bricola diceva <<se noi con il diritto penale priviamo l’individuo della libertà fondamentale
prevista dall’art 13 della Costituzione, allora questa forma di punizione deve essere bilanciata dalla
lesione di una altro bene costituzionale11>>.
Si può aderire o no alla teoria del prof. Bricola però una cosa è certa ,il diritto penale ha cercato un
ancoraggio nella Costituzione. Cioè i beni non sono più quelli scelti dal legislatore come si faceva
all’epoca nei regimi totalitari (nazismo, fascismo), cioè i beni non sono più il frutto dall’ intenzione del
legislatore,ma devono essere comunque ancorati alla Costituzione.
Quindi si è presa la concezione normativa, cioè quel concetto di dignità attribuito alla persona, e si è
cercato l’ancoraggio costituzionale. La Costituzione dove va a proteggere l’onore?
Il prof. Fiandaca ha trovato il punto di risoluzione nel combinato disposto dell’art 2 e 3 della
Costituzione,cioè l’onore è proprio tutelato dalla Costituzione nel momento in cui tutela ogni diritto
individuale e assicura la pari dignità sociale12.
Questa soluzione è estremamente importante perché vengono risolte una serie di problemi rispetto al
soggetto passivo evidentemente, in questo caso soggetto passivo potrà essere anche colui che è
disonorato, pensiamo alla prostituta (a quei soggetti che per definizione sono considerati deboli), perché
l’onore va assicurato a ogni individuo in quanto assicurato dalla Costituzione.
Come si è detto all’inizio di questa trattazione, si distingue l’onore in senso soggettivo (la concezione che
ognuno ha della propria dignità) dall’altra forma di onore che è però chiamata reputazione, che era la
concezione collettiva.
Nella concezione fattuale, si avevano due tipi di onore praticamente, poi attraverso la concezione
normativa, poi costituzionalizzata c’è né uno solo. Anche se il codice Rocco parla nel 594 di onore e nel
595 di reputazione, il concetto è unico ed è un concetto costituzionale di dignità sociale dell’individuo13.
Fatta questa breve premessa di carattere storico-giuridico, si può passare a procedere all’analisi delle due
fattispecie.
La prima è l’art 594c.p. <<Chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con la
reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516>>.
Che cos’è il decoro? Nella concezione fattuale, (che divideva l’onore in senso soggettivo e in senso
oggettivo), si diceva che il decoro era un’altra cosa rispetto all’onore.
Mentre l’onore è il valore morale, il decoro è tutto l’insieme di altri valori che un soggetto può avere
(valore sociale, valore intellettuale, valore professionale…).
8
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
10
Franco Bricola, Teoria Costituzionale del bene giuridico, 1970.
11
Franco Bricola, Teoria Costituzionale del bene giuridico, 1970.
12
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
13
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
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Questa tesi chiaramente non può essere condivisa nel momento in cui si dice che onore e reputazione
sono la stessa cosa, il concetto di decoro separato dal concetto di onore non ha più rilievo14, addirittura il
prof. Fiandaca dice che dovrebbe essere caducato15, è una questione lessicale, ma
<<L’onore noi adesso sappiamo che cos’è, è tutelato dalla Costituzione, non c’è bisogno di fare
differenziazioni morale, sociale, professionale non ci interessa questo16>>.
Quindi tornando alla fattispecie dell’art. 594 c.p., la caratteristica essenziale dell’ingiuria che la
differenzia per altro dalla diffamazione è la presenza della persona offesa.
Nella diffamazione quella parte iniziale, si esprime nei termini <<fuori dai casi indicati dall’articolo
precedente>> e quindi dobbiamo tradurre <<in assenza della persona offesa>>, perché è l’unico
elemento differenziale17.
Quindi nell’ingiuria c’è la presenza della persona offesa. Perché la diffamazione è punita più gravemente
dell’ingiuria? L’elemento di differenza maggiore, più rilevante è che nell’ingiuria c’è la persona offesa,
nella diffamazione non c’è.
Nell’ingiuria c’è una possibilità di autodifesa della persona offesa, che comunque viene accettato
dall’ordinamento, questo ovviamente manca nella diffamazione perché la persona offesa non può
difendere il suo onore (in quanto assente al momento della diffamazione) e quindi è punita più
gravemente.
La presenza di più persone nell’ingiuria costituisce un aggravante. Invece nella diffamazione la presenza
di più persone oltre che l’assenza della persona offesa è elemento del reato. Cioè è necessario che la
comunicazione nella diffamazione vada fatta a più persone.
L’ingiuria è un tipico delitto di manifestazione del pensiero che richiede per la consumazione la
percezione da parte del soggetto passivo della dichiarazione lesiva. Percezione che non va tuttavia intesa
in senso fisico ma in senso astratto di mera percepibilità18.
L’art 595 <<Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente (cioè in assenza della persona
offesa), comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un
anno o con la multa fino a euro 1.032>>.
E’ evidente dalla fattispecie che l’ingiuria e la diffamazione non sono puniti a titolo di colpa ma solo a
titolo di dolo generico, non c’è un dolo specifico. A proposito del dolo, qualcuno ha sostenuto (sia per
l’ingiuria che per la diffamazione) che in effetti ci dovrebbe essere anche l’animus iniurandi19.
Che significa?
L’intenzione di offendere (intentio), cioè la consapevolezza, la voglia di offendere. Oltre alla
consapevolezza di tutti gli elementi classici del dolo (la consapevolezza della condotta e la
consapevolezza dell’idoneità offensiva), ci dovrebbe essere secondo alcuni, anche l’animus iniurandi,
cioè la voglia di offendere con quelle parole; e quindi, dice questa dottrina, vista la necessità di un animus
iniurandi, <<se ho un altro animo, ad esempio un animus corrigendi o l’intenzione di scherzare, allora
non è diffamazione20>>
Nelle fattispecie, nell’ars di creare fattispecie incriminatici, quale può essere uno dei mezzi per
restringere il campo di applicazione? Il dolo specifico, cioè quando si vuole restringere si inserisce un
dolo specifico cosicché, oltre alla coscienza e alla volontà della fattispecie, il pubblico ministero deve
andare a ricercare nei fatti anche un’intenzione, che poi non si è concretizzata necessariamente nei fatti21.
Nell’art. 595 c.p. c’è dolo specifico? Nel testo dell’articolo è scritto “Chiunque offende l’altrui onore al
fine di offenderne”…? Non c’è “al fine di” quindi un’intenzione diversa dal fatto non è descritta dal
legislatore perché <<noi la dobbiamo introdurre restringendo l’ambito di applicabilità
arbitrariamente22?>>.
Non vi è quindi il dolo specifico ma generico, e quindi non si include l’animo di cui si parlava prima e
visto che non si tratta di dolo intenzionale, potrà essere diretto o potrà anche essere dolo eventuale.
Sono reati a forma libera o a forma vincolata?
Sono reati a forma libera perché si può usare qualsiasi mezzo per ingiuriare o diffamare. Se il legislatore
Rocco avesse voluto introdurre una fattispecie di ingiuria a forma vincolata, che cosa avrebbe potuto
fare? Avrebbe potuto scrivere “Chiunque con parole o gesti23…”.
14
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
16
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
17
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
18
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
19
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
20
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
21
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
22
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
23
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
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Ma a parte le parole - perché l’ingiuria verbale è facile da comprendere, è quella a cui tutti noi pensiamo
quando dobbiamo fare un esempio di ingiuria o di diffamazione - in che altri modi ci può essere
l’ingiuria? In che altri modi qualcuno può offendere l’ onore, la dignità di una persona?
Ad esempio, con lo scritto e in questo caso avremo la diffamazione a mezzo di stampa, che è un’ipotesi
aggravata e comunque sono sempre parole. Si può offendere l’onore con i gesti, ad esempio dando uno
schiaffo. Però ci sono delle ipotesi limite: se Tizio da uno schiaffo a Caio, sarà ingiuria?
In effetti anche uno schiaffo può ledere la dignità. È evidente che se il gesto lederà la persona nella sua
fisicità, senza provocare per forza malattie, sarà percossa. Se invece lo schiaffo non andrà a ledere la
fisicità di Tizio che sarà rimasta intatta, ma la dignità, anche lo schiaffo può essere ingiuria, si tratta in
questo caso di ingiuria reale24.
Anche un bacio può essere una forma di ingiuria, un bacio in alcuni contesti può essere ingiurioso, può
essere anche violenza sessuale secondo alcuni. È chiaro che se c’è una volontà, un’intenzione che va a
ledere la libertà sessuale, è reato sessuale; ma nel momento in cui il bacio è chiaramente voluto ad
offendere la dignità, non sotto un profilo intenzionale ma di fatto, in quel caso potrà essere un’ipotesi di
ingiuria25.
Si è detto che nella diffamazione l’offesa alla reputazione deve essere realizzata, <<fuori dai casi previsti
dall’articolo precedente>>, e cioè in assenza dell’offeso.
Questo requisito della fattispecie (che costituisce attualmente il criterio discretivo con l’ingiuria) sta ad
indicare che al momento dell’aggressione lesiva il soggetto passivo debba essere assente.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza dominante l’assenza non va intesa in senso rigorosamente fisicospaziale, ma come impossibilità di percezione fisica dell’offesa da parte del soggetto passivo: per cui si ha
diffamazione anche nell’ipotesi in cui, per qualsivoglia ragione, il soggetto passivo pur presente non è in
grado di percepire l’offesa26.
A questo punto della trattazione, dopo aver descritto il fatto tipico, affinché un fatto concreto sia punito
deve essere tipico, antigiuridico e colpevole. Che significa antigiuridico? Assenza di cause di
giustificazione, tra di esse c’è la legittima difesa, c’è il consenso dell’avente diritto, c’è l’adempimento di
un dovere, l’esercizio di un diritto27.
Però si deve dire che possono essere scriminate anche altre cause: immaginiamo l’adempimento di un
dovere, <<se Tizio è chiamato a testimoniare ha l’obbligo di dire la verità, poi magari dicendo la verità
proferisce affermazioni ingiuriose che offendono comunque l’onore di una persona28>>. Le affermazioni
ingiuriose non sono solo la volgare parolaccia ma anche frasi indirette, qualsiasi cosa possa offendere la
dignità.
Ci sono degli obblighi: immaginiamo l’obbligo del giudice di scrivere una motivazione in una sentenza,
egli potrebbe offendere la dignità dell’imputato però è scriminata quella persona perché sta adempiendo
ad un dovere, egli ha l’obbligo di motivare una sua scelta.
Quindi ci sono tante ipotesi però quella su cui la dottrina ha concentrato i suoi scritti è l’esercizio di un
diritto. Il diritto che riesce a scriminare una condotta lesiva dell’onore sarebbe l’art. 21 della Cost., libertà
di manifestare il proprio pensiero.
L’art. 21 della Cost. prevede che <<Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero
con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione>>. E’ possibile anche attraverso la cronaca
televisiva.
La conclusione è che manifestare il proprio pensiero è un diritto costituzionalmente tutelato come lo è
anche l’onore.
Quando si usa la scriminante si opera un bilanciamento, le cause di giustificazione sono un bilanciamento
però per due beni così il bilanciamento non può essere fatto solamente dal legislatore29.
Questo è il problema.
Con due beni costituzionali come l’onore e la libertà di manifestare il proprio pensiero, che è letta dai
costituzionalisti anche come <<libertà di informare e di essere informati30>>, quale può essere scelta?
Praticamente non verrebbe tutelato mai l’onore! È proprio questo il problema; infatti Tesauro, che è uno
studioso della diffamazione, ha detto che <<l’ingiuria e la diffamazione sono delle fattispecie a tipicità
24
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
26
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
27
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
28
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
29
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
30
Paolo Caretti, I diritti Fondamentali, Giappichelli, 2011
25
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mobile31>> proprio perché questo bilanciamento è continuo, non può essere fatto una volta, ex ante, in
astratto dal legislatore ma bisogna valutare i fatti concreti così come avvengono32.
Ed è per questo che la giurisprudenza ha cercato di individuare dei meccanismi attraverso cui decide di
scriminare o no delle condotte, cioè dei mezzi di ragionamento, elaborando il diritto di cronaca, il diritto
di critica e poi anche il diritto di satira.
I tre diritti citati derivano dall’art. 21 Cost., che è richiamato dall’art. 51 c.p., cioè se Tizio esercita un
diritto e quindi si sente scriminato dall’art. 51, il diritto che esercita è quello dell’art. 21 Cost. e i mezzi
attraverso cui potrà essere scriminato sono invece indicati dalla giurisprudenza: diritto di cronaca, di
critica e di satira33.
Breve cenno sul diritto di cronaca. La giurisprudenza ha stabilito che affinché possa essere scriminata una
condotta diffamatoria (perché nel diritto di cronaca si parla più che altro di diffamazione) è necessario che
il fatto raccontato sia vero o verosimile, che vi sia pertinenza, cioè che il fatto abbia un interesse pubblico
e che sia continente, cioè l’uso della terminologia non deve essere sproporzionato al fatto che si sta
raccontando, non ci devono essere delle affermazioni offensive tout court34.
Cosa si intende per vero? Un fatto vero, si intenderà sempre come vero soggettivo, quello che un soggetto
ha percepito, se Tizio ha guardato un fatto, lo racconterà sempre attraverso i suoi occhi, non c’è il vero
oggettivo. Nella vita è difficile individuare il vero oggettivo35. Qualche esempio: se Tizio dice che il Caio
ha fatto un determinato fatto e lo scrive sul giornale, è scriminato?
Scrivere è un interesse pubblico molto importante a livello nazionale, c’è continenza nel senso che Tizio
racconta il fatto senza usare espressioni aggressive, senza debordare da quei limiti della proporzione che
la continenza gli impone.
In pratica l’art. 59 c.p. ultimo comma stabilisce che anche quando una causa che esclude la pena sia solo
per errore ritenuta esistente (scriminante putativa) è valutata a favore di colui che commette il fatto.
Quindi in teoria Tizio potrebbe avvalersi della cd. verità putativa.
Ma cosa ha detto la giurisprudenza? Può esserci anche la verità putativa ma si impone al giornalista, in
maniera un po’ arbitraria (perché non è previsto dall’art. 59 c.p.), un obbligo di diligenza; il giornalista
può utilizzare in sede processuale questa verità putativa solo se si è adoperato al fine di accertarsi
dell’attendibilità dell’informatore, praticamente s’impone un obbligo di diligenza al giornalista36.
Alcuni penalisti dicono che l’informazione non è colposa, quindi in base all’art. 59 c.p. se l’errore è
determinato da colpa (cioè da assenza di diligenza) è punito a titolo di colpa, se il reato è previsto come
colposo. Ma l’informazione non è prevista come colposa però la giurisprudenza per motivi equitativi, ha
detto che è necessario comunque un obbligo di diligenza, se questo obbligo di diligenza non c’è allora si
viene puniti.
Quindi verità o verosimiglianza, continenza e pertinenza.
Per la critica possiamo applicare, mutatis mutandis, questi tre concetti? Per rispondere a questo
interrogativo si riporta un noto caso di cronaca37: un cittadino di Trieste scrive 4 lettere ad un giornale
locale, esprimendo il suo malcontento perché di lì a 15 giorni Forza Nuova avrebbe fatto un raduno a
Trieste e questa città è storicamente famosa per aver ospitato un campo di concentramento in Italia.
Egli ha detto che questa associazione è nazista e neonazista e che non era contento e che non voleva
questo raduno. Il coordinatore di Forza Nuova denuncia dicendo che questa affermazione è diffamatoria
perché vuole attribuirci una qualifica di discriminazione razziale associandoci ai nazisti, in realtà noi
siamo fascisti e i fascisti sono ben diversi dai nazisti.
Che cosa succede? Viene scriminato o no? Il signore fa critica politica perché afferma di non voler questo
raduno e li qualifica come nazisti. La critica è una valutazione, non potrà mai essere vera o falsa,
ontologicamente una critica non potrà mai essere vera o falsa.
La critica è espressione di giudizio e di razionalità. Si concretizza nella presa di posizione motivata e
argomentata su accadimenti, fatti o circostanze dei più vari settori della vita sociale.
In realtà la critica è una cosa soggettiva. La sentenza n. 19449 del 2010 ricostruisce innanzitutto il fatto
che è vero che il nazismo e il fascismo erano diversi, è vero che sono partiti con principi completamente
diversi e sono finiti con principi diversi però è anche vero che c’è stato un momento, nel 1943, che per
motivi di alleanza politica il fascismo ha dovuto adottare delle leggi razziali. E poi dice: <<Questo
incontestato aspetto della storia dello Stato italiano, che dà evidente base di verità alle affermazioni
31
Alessandro Tesauro, la diffamazione come reato debole e incerto, Giappichelli, 2005.
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
33
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
34
Fiandaca Giovanni; Musco Enzo, Diritto penale parte speciale, volume II, tomo I, Zanichelli, 2011.
35
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
36
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
37
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
32
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critiche del Campana, è del tutto trascurato dalla sentenza impugnata38>> (che dà invece ragione al
coordinatore di Forza Nuova).
Quello che è sottolineato è questa base di verità, cioè la giurisprudenza dice che una critica non è vera o
falsa ma non deve portarsi fino ad allontanarsi completamente dal fatto vero, la critica la si può fare ma su
un fatto che sia vero: quindi la critica deve partire da una base di verità.
Quanto alla continenza la Corte dice: <<Sotto il profilo della continenza formale dell’intera critica del
Campana (il soggetto che aveva mandato le lettere), va rilevato che è pienamente giustificato l’uso delle
espressioni, da parte di un cittadino di Trieste – sede dell’unico lager nazista nel nostro paese – nel
momento in cui manifesti una particolare attenzione nei confronti di una riedizione – sia pure in un
contesto di democrazia e di libertà di manifestazione del pensiero – di esaltazione collettiva di uomini. La
vis polemica (questo è importante) che caratterizza le sue espressioni critiche è pienamente
proporzionata all’oggetto della critica. Continenza significa proporzione, misura e continenti sono quei
termini oggettivamente offensivi, ma che non hanno equivalenti e non sono sproporzionati ai fini del
concetto da esprimere. La continenza formale non equivale a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e
anodino, ma consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della
polemica, ai fatti narrati e rievocati39>>.
Questo è il concetto, cioè la continenza nel diritto di cronaca e nel diritto di critica è diversa, ed è chiaro
che la critica dovrà essere più sferzante, l’importante è che non sia completamente sproporzionata ma la
vis polemica ci deve essere.
Nella critica politica e sindacale la giurisprudenza ha detto che la critica è più forte, le espressioni sono
più aggressive ed è ammesso perché è una critica particolarmente caratterizzata dal linguaggio verbale,
l’importante è che poi non si trasformi in una critica ad hominem, cioè se quella vis polemica arriva poi
ad attribuire una valenza negativa a un determinato politico, insultandolo, qui non siamo più nell’ambito
della critica perché il discorso è ad hominem40.
Queste sono solo delle direttive che la Cassazione ha dato, è una strada che serve per coordinare ma poi
bisogna vedere il fatto concreto, è il fatto concreto che va deciso, il giudice è sempre un po’ equitativo
anche perché opera un continuo bilanciamento tra i diversi beni giuridici che entrano in gioco.
Passiamo a trattare seppure in maniera sintetica al diritto di satira. Altro fatto noto41: Sandro Mayer nella
sua rivista pubblica una foto di Gabriella Carlucci, una foto di una sfilata in cui lei stava presentando la
sua collezione. Riesce a prendere delle immagini di parti fisiche un po’ scoperte.
Pubblica queste foto e, siccome Gabriella Carlucci stava per candidarsi come consigliere comunale, dice:
<<Questa è la trasparenza! Abbiamo scoperto le sue doti politiche!>>. Chiaramente viene esposta
denuncia. E Mayer si difende dicendo che <<quella è satira! La satira è scherzosa!>>.
Che cosa ha detto la Cassazione? <<La satira può avere certo intenti polemici, ma deve essere comunque
intesa a sferzare i vizi, le abitudini e le concezioni delle persone, in quanto manifestazioni di ricorrenti
debolezze umane, ovvero a disvelare l’incongruenza o il ridicolo dei valori costituiti nella cultura
ufficiale…ma non può essere considerato esercizio di satira un banale insulto fondato su luoghi comuni e
privo di qualsiasi aggancio con la reale condotta della persona criticata42>>.
Anche la satira non potrà essere vera, anzi la satira è una trasfigurazione della realtà, dovrà sempre avere
un interesse pubblico, quello è imprescindibile ma anche sotto il profilo della continenza è molto più
libera della cronaca, è libera di per sé però, lo dice espressamente questa sentenza, in questo caso
diventava un insulto, peraltro anche un po’ maschilista.
<< Mentre è certamente espressione di un maschilismo becero e ormai fuori tempo quello che pretende di
determinare esclusivamente in termini sessuali il valore di una donna43>>.
Non siamo più nella satira, non stiamo prendendo in giro un suo modo di fare ma le abbiamo fatto una
foto e abbiamo detto che questa è la sua capacità politica.
Quale può essere la conclusione quando si parla di delitti contro l’onore? Sicuramente, per rispondere a
questa domanda, si deve considerare il cambiamento e la continua evoluzione della nostra società.
L’attuale società è certamente diversa rispetto a quella di 20 o 30 anni fa. Lo scorrere del tempo,
“aggiunge e toglie” valori, tradizioni, usi e costumi. Nell’attuale contesto storico politico, segnato dal
sistema dei valori introdotto con l’entrata in vigore della Costituzione, l’onore viene percepito come un
38
Corte di Cassazione, Sentenza n. 19449 del 2010.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 19449 del 2010.
40
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
41
Di Giovine Ombretta, Università degli Studi di Foggia.
42
Cass. pen., sez. V, sent. 3 novembre 2004, n. 42643.
43
Cass. pen., sez. V, sent. 3 novembre 2004, n. 42643.
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bene altamente personale che trova il suo fondamento nelle scelte di valore contenute nella Costituzione
medesima.
Il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo e l’eguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini
dinnanzi alla legge, sono obiettivi di primaria importanza a cui uno Stato democratico come il nostro, non
può di certo rinunciarvi.
Ma di fronte ai continui cambiamenti sociali, al degrado mentale e alla perdita dei valori a cui assistiamo
inermi tutti i giorni, si può ancora affermare che esiste un onore inteso nell’accezione più aulica e
raffinata del termine come dono divino che appartiene a ciascun uomo?
Oggi, tutto è superficiale, tutto appare scontato, ingiusto. Non si sa più cosa sia il rispetto, la famiglia, il
coraggio, l’amore, la fedeltà, l’amicizia.
Gli uomini sono cambiati. Non si muore più per l’altro, non si fanno più scelte coraggiose, non si rispetta
più la parola data ad un amico, non si rispetta più l’amore e la famiglia.
Se è vero che, la società è sostenuta da valori che si trovano nel profondo del cuore di ogni uomo, allora
perché mai dovremmo meravigliarci di fronte al collasso strutturale delle nostre società?
Il collasso delle fondamenta delle nostre società, non corrisponde forse al crollo delle nostre coscienze?
Dei nostri valori?
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L’IMPRESA FAMILIARE
di Mauro Giarrizzo
La disciplina dell’impresa familiare ha trovato riscontro a seguito del dibattuto e sofferto varo della legge
sul diritto di famiglia (L. 151/1975).
Norma incastonata nel codice civile del 1942, nel Libro I, delle persone e della famiglia, Titolo VI, del
matrimonio, Sezione VI dell’impresa familiare, art. 230bis.
Il Legislatore del 1975, dopo aver abrogato dieci articoli del codice civile (dal 220 al 230, che
disciplinavano rapporti inerenti i beni della coppia, amministrazione della comunione, locazioni,
amministrazione affidata alla moglie, obblighi gravanti sui beni della comunione, obblighi contratti dal
marito e dalla moglie, scioglimento della comunione, separazione giudiziale dei beni, divisione dei beni
della comunione, prelevamento di beni mobili, ripetizione del valore in caso di mancanza delle cose da
prelevare, limiti al prelevamento nei riguardi dei terzi), ha voluto tutelare il lavoro familiare.
Frutto di sollecitazioni provenienti dalla dottrina civile, giuslavorista e notarile, il suddetto Legislatore è
riuscito a consegnare, all’interprete, un articolo interessante anche se con velate ombre. Dunque, un
articolo, che appare “un ente regolato per la vita e lo sviluppo dei suoi membri44”.
La riforma del diritto di famiglia, legge 151/75, è una trasformazione dei parametri sociali trattenuti fino
al suo varo. La stessa riforma indica il “dover essere45” della famiglia che da subito cambiò abitudini con
la parità di trattamento tra i coniugi. Parità avvenuta solo con la lenta metamorfosi del tessuto sociale e
culturale.
L’impresa familiare, secondo autorevole Dottrina, si configura come impresa individuale, che ha
sormontato l’altra opinione che riteneva l’impresa familiare una impresa collettiva46.
Ratio della norma è la tutela del lavoro familiare. Il primo inciso del 1° comma dell’art. 230bis, evidenzia
e tutela il lavoratore “salvo che sia configurabile un diverso rapporto”.
Il Legislatore ha sempre pensato di mettere in primo piano la figura lavorativa. Subito vengono in mente
alcune figure simili a quella in commento, con le norme poste a tutela del lavoratore nel Libro V Del
Lavoro: si pensa, ad esempio, al prestatore di lavoro subordinato. Questi si obbliga mediante retribuzione
a prestare la propria collaborazione (art. 2094 C.C.). Altra figura simile che si può immaginare è la
costituzione di società semplice (art. 2251 C.C.). In essa, non essendo necessaria alcuna forma per la
sottoscrizione del contratto sociale, si tutelano sempre i soggetti coinvolti. Si può pensare anche al
contratto di associazione in partecipazione, ove l’associante attribuisce all’associato una partecipazione
agli utili verso il corrispettivo di un determinato affare.
Esempi che il Legislatore della riforma del Diritto di Famiglia non trascurò. L’art. 230bis elabora
qualcosa in più rispetto agli esempi fatti, e presi in considerazione. E’ il termine “Il familiare” a dare
quella aggiunta in più.
In detto termine, (familiare) si racchiude una intensa e non esaustiva relazione parentale, capace di
ampliare la sola immaginazione di uomini illustri che in detto termine si sono cimentati, affermando che il
diritto (di famiglia) è un’isola che si può solo lambire.
Anche il fattore temporale, nell’art. 230bis, è importante:l’opera di lavoro deve essere prestata senza
soluzione di continuità. In merito, la Cassazione ha affermato ed ha ammesso alla retribuzione la nonna di
un meccanico che prestava la propria opera lavorativa a casa; nella fattispecie lavava le tute e gli altri
indumenti di lavoro. Parente che è stata ammessa a percepire la retribuzione. In passato, tra gli anni 1938
e 1970, la medesima Corte di Cassazione ha sentenziato in tema di lavoro familiare gratuito, quanto
segue: “Il lavoro prestato nell’abitazione o nell’azienda del capofamiglia fra persone legate da stretti
rapporti di parentela o coniugio, conviventi, si presume normalmente gratuito; tale presunzione è iuris
44
A. TRABUCCHI, Natura, legge, famiglia, in Rivista di Diritto Civile , 1977, I , pag. 14.
M.C. ANDRINI, Azienda coniugale e impresa familiare , in Trattato di Diritto Commerciale e Pubblico
dell’Economia, F. Galgano, XI, Cedam, 1989, pag. 53.
46
AA.VV. Compendio di istituzioni di diritto privato (diritto civile) XV Ed. Napoli 2012, pag. 100.
45
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tantum e l’accertamento giudiziale del rapporto subordinato deve essere eseguito caso per caso e sorretto
da adeguata e rigorosa dimostrazione47”
Altro termine, da non sottovalutare, nell’art. 230bis, è il diritto del familiare che presta il proprio lavoro al
mantenimento, secondo le condizioni patrimoniali.
L’intellegibilità del Legislatore del 1975, si spinse, dunque, a bilanciare valori diversi: da una parte
l’obbligo del proprietario dell’impresa a dover mantenere il parente che presta la propria opera, dall’altra
parte il limite (il termine usato dal legislatore è ”secondo la condizione patrimoniale”) della stessa
obbligazione che non può superare le condizioni patrimoniali. Bilanciamento, che resta ancorato a
soluzioni extra codicistiche, quali gli usi o anche i costumi.
Savigny, fu maestro nel cercare di capire che ogni norma proviene dal popolo. Poi gli intellettuali la
catturano e la raffinano per consegnarla allo stesso popolo come norma ideale e da rispettare.
Attenta dottrina si è posto il quesito se tra le condizioni patrimoniali potessero rientrare anche le
donazioni, le vincite et similia, stante il termine letterale di ” secondo la condizione patrimoniale” .
In vero dubbi che potrebbero restare ed essere ampliati, ma che potrebbero scontrarsi con altre norme
codicistiche, (si pensi, ad esempio, all’art. 2740 C.C.).
Descrive, lo stesso articolo 230bis, la partecipazione agli utili, ai beni acquistati (con gli utili), “nonché”
agli incrementi dell’azienda.
Il legislatore della riforma, nel tutelare il lavoro familiare, ha cercato di prediligere e di confermare, in
capo ai parenti dell’impresa, situazioni giuridiche solo attive: il diritto agli utili agli incrementi, ai beni.
Situazioni solo positive, per i familiari che prestano la propria opera nell’impresa familiare, restando in
capo all’imprenditore ogni situazione negativa.
Il Legislatore ha tutelato le persone che prestavano la propria opera nell’impresa familiare, cercando
colmare e di togliere l’ingiustizia sociale esistente prima della stessa riforma. Infatti e come già detto,
prima il lavoratore doveva provare il rapporto di lavoro per avere diritto di credito verso l’imprenditore
stesso. Prova non facile da dimostrare, giacchè non è semplice fornire nesso di casualità tra il lavoro
casalingo e quello aziendale.
Anche sull’avviamento48, cioè il valore aggiunto che l’impresa ha nel proprio patrimonio (l’art. 2424 c.c.,
prescrive detto avviamento, tra le parti attive del bilancio, tra le immobilizzazioni immateriali. Siamo,
però, nelle S.p.A.). Esso va in parte a familiari, secondo le qualità e quantità del lavoro prestato.
Nel bilanciare i valori in gioco, il Legislatore della riforma, ha tutelato, quasi in ogni aspetto, i lavoratori
che con l’impresa familiare cercano di collaborare.
Sulla gestione dell’impresa, i collaboratori dell’imprenditore hanno diritto ad essere sentiti.
Descrive, la norma, che nell’impiego di utili e nella gestione dell’impresa familiare, le decisioni sono
prese a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa stessa.
Ma cosa succede se dopo aver adottato a maggioranza una decisione, l’imprenditore non ottemperi ad
essa (decisione)? Quali le conseguenze che possono accadere; quale la tutela dei deliberandi?
Sicuramente un diritto di credito derivante dal mancato ottemperamento della delibera presa a
maggioranza, nonché il risarcimento dei danni49 subiti, essendo le delibere solo atti interni non opponibili
ai terzi, perché nell’impresa di famiglia risponde solo il titolare della stessa verso i terzi. L’impresa
familiare fu creata con l’intento di tutelare il lavoro dei familiari ed avere vantaggi fiscali. Al titolare resta
in quota il 51% dell’impresa, mentre il 49% della stessa impresa viene distribuito agli altri familiari. La
norma fiscale prevede che entro il 31/12 di ogni anno si comunichino all’Agenzia delle Entrate i
nominativi per lo sgravio fiscale.
Sul punto (indirizzo gestionale) la dottrina si dibatte: c’è chi sostiene che esso rientra tra i compiti di
ordinaria e/o straordinaria amministrazione, con conseguenze diverse per il primo tipo e per il secondo
tipo; altra dottrina discute sul diritto di continuare l’attività, previo i requisiti formali, in caso di
cessazione.
Il Legislatore ha previsto la possibilità di partecipare all’impresa di famiglia per i soggetti non pienamente
capaci di agire. Essi sono rappresentati da chi esercita la patria potestà.
La dottrina notarile si è dibattuta sul punto, evidenziando il combinato disposto di cui agli artt. 316,
comma 2°, con il primo comma ultimo periodo dell’art. 230bis. A chi spetta, quindi, la patria potestà in
47
L. BONARETTI, Il lavoro a titolo gratuito secondo la giurisprudenza, Milano, 1978, pag. 88 segg.
Vedasi anche: A. MAZZOCCA, Prestazione di lavoro “affectionis vel benevolentiae causa” fra persone conviventi
“more uxorio”, in Giustizia Civile, 1977, I , pag. 1191 e segg.; A. LUCIANI, Il lavoro familiare, in Rivista di Diritto del Lavoro,
1962, I , pag. 109-118; F. SANTORO-PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, 14° ed., Napoli, 1962, pag. 86; F.
MATTIUZZO, A. PELLARINI, G.G. PETTARIN, L’impresa familiare. Aspetti di diritto commerciale, finanziario e previdenziale,
Milano 1990, pag. 24.
48
Avviamento è l’attitudine del complesso aziendale a produrre un reddito, cioè la capacità di profitto dell’azienda. Così in START
UP, IPERCOMPENDIO DI DIRITTO COMMERCIALE, Napoli 2012, Pag. 233
49
Cassazione Sezione Unite, 1 luglio 1997, n. 5895, in Vita notarile, 1998, pag. 908.
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caso di divergenze di opinioni da esprimere nella deliberazione da prendere a maggioranza dei familiari
lavoranti nell’impresa di famiglia?
Secondo la lettera dell’art. 316 C.C., ad entrambi i genitori. Nel caso di disaccordo sarà il Giudice (ex art.
38 disp. att.) a prendere la giusta decisione. Ma chi è il giudice che autorizza? E’ il giudice delle imprese;
quello tutelare; quello civile? In teoria il giudice è quello Tutelare.
Si potrebbe ipotizzare ex art. 321 c.c., la nomina di un curatore speciale per dirimere il conflitto di
interessi sorto tra i genitori.
Il secondo comma dell’art. 230bis, dispone la parità di lavoro tra uomo e donna. Già con norma
costituzionale (art. 37 Cost.) la parità del lavoro è stata descritta, almeno sulla carta. Parità doverosa,
essendo già implicita negli artt. 2 e 3 Costituzione. Ma, la parità di lavoro tra uomo e donna, disposta
dall’art. 230bis, avendo avuto una lunga e lenta trasformazione nello stesso Ordinamento, poteva essere
non prevista.
Il terzo comma dell’art. 230bis, descrive le qualità di familiare e di collaboratore. Il Legislatore è stato
generoso nel prevedere la partecipazione di molte persone per la creazione dell’impresa familiare. Attenta
dottrina notarile (PATTI) ha evidenziato l’importanza e l’impatto della norma. Lo stesso legislatore se da
una parte apre agli affini entro il secondo grado, dall’altra vieta l’intrasferibilità a terzi (quarto comma
stesso articolo), se non a favore dei familiari, col consenso di tutti gli altri familiari. Si comprime così il
diritto di voler disporre in piena libertà e di voler far circolare i beni con ampia scelta. Compressione che
non può che essere sopportata essendo la stessa ratio della norma la tutela del lavoro dei familiari
dell’impresa.
La norma continua con il disposto del diritto di credito in caso di cessazione o di alienazione di azienda,
con la possibilità di pagamento pluriennale.
Il quinto comma art. 230bis, dispone della possibilità, voluta dal legislatore, del diritto di prelazione nel
caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda da parte dei familiari.
La prelazione (istituto caro a G. DI ROSA50) è il diritto di essere preferito a terzi alle stesse condizioni.
La prelazione si distingue in prelazione legale, agraria e volontaria51.
La prelazione52 prevede il diritto di retratto, (riscatto), cioè il diritto di sequela sul bene oggetto
dell’istituto stesso.
Il legislatore ha voluto, con il rinvio all’art. 732 C.C. previsto dallo stesso art. 230bis, tutelare i familiari a
mezzo della notifica della dichiarazione di alienazione.
La mancata notifica da diritto di sequela sui beni alienati.
L’ultimo comma dell’art. 230bis, prevede le comunicazioni tacite53 familiari nell’esercizio
dell’agricoltura54 sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.
Il legislatore della riforma nel prevedere il meccanismo di rinvio agli usi se non contrastanti con lo stesso
articolo 230bis, ha voluto tutelare altro settore debole della produzione: l’agricoltura.
Lo stesso Legislatore forse nello scrivere detto comma aveva in mente il “Maso chiuso”. Esso è istituto in
vigore in alcune zone dell’Italia Settentrionale, e che fa si che si trasmetta ad un solo figlio la conduzione
di impresa agricola.
L’impresa di famiglia, ha avuto diffusione solo per gli sgravi fiscali. Il suo potenziale, inesploso, deve
ancora essere ricercato dagli studiosi, come l’eldorado.
50
G. DI ROSA, La prelazione legale e volontaria, in I contratti in generale, III in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P.
CENDON, Torino 2000, pagg. 213-216.
51
R. SACCO, La preparazione del contratto, in R. SACCO- G. DE NOVA, Il contratto, II, in Trattato di diritto civile diretto da R.
SACCO, Torino, 1993, pagg. 3330-342.; A. NATUCCI, Prelazione e prenotazione, in V: ROPPO, Trattato del contratto, I,
Formazione, a cura di C. GRANELLI, Milano 2006, pagg. 401-434.
52
Vedasi: Sul diritto potestativo all’acquisto quale situazione giuridica soggettiva del preferito: Cassazione, 9 giugno 1994, n. 5616,
in Vita notarile, 1994, pag. 1333 e segg.; Cassazione SS. UU., 4/12/1989, n. 5357, in Nuova Giurisp. Civ. e comm, 1990, I, pag.
520m con nota di S. GIOVE, Immobili ad uso urbano non abitativo – prelazione – Denuntiatio.
53
F.D. BUSNELLI, L’impresa familiare e l’azienda gestita da entrambi i coniugi, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura
Civile, 1976, pag. 1397. Così anche G. TAMBURRINO, L’impresa familiare e la comunione tacita familiare in agricoltura a seguito
della riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), in Giurisprudenza Agraria Italiana, 1976, I , pag. 200. In
giurisprudenza Trib. Milano, 23 maggio 1977, in Foro Italiano, 1978, Voce Famiglia, n. 68.; G. OPPO, Dell’impresa familiare, in
Commentario alla riforma del diritto di famiglia sub art. 89, diretto da L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, 1977, Pd, Cedam, pag.
518-519; C.A.GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in Nuovo Diritto Agrario, 1975,
pag. 219-221.
54
Sulla denuntiatio in tema di prelazione agraria vedasi Cassazione 20 aprile 2007, n. 9519, in Riv. Not. 2008, pag. 387 e segg.
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LAVORO DI PUBBLICA UTILITÀ: DALLA
LETTERA DELLA LEGGE AI PROBLEMI
APPLICATIVI
di Daniele Pomata
A quasi due anni dall’introduzione, avvenuta ad opera della L. n. 120 del 2010, della possibilità di far
luogo, anche per i reati - di competenza del tribunale - di cui agli artt. 186 ss. D.lgs. n. 285 del 1992,
all’istituto del lavoro di pubblica utilità, la recentissima sentenza della Sez. IV, 7 giugno 2012, n. 22048,
resa dalla Suprema Corte, nonché i numerosi problemi posti dalla prassi applicativa e le differenti
soluzioni adottate dagli operatori del diritto sollecitano riflessioni quanto mai opportune.
Sullo sfondo, si collocano due distinti quesiti che hanno accompagnato l’istituto fin dalla sua
introduzione; il più risalente e dotato di maggiore rilevanza pratica di essi è l’interrogativo se il lavoro di
pubblica utilità possa essere iniziato fin dalla fase delle indagini preliminari, con l’autorizzazione del
Pubblico Ministero, o, comunque, prima dell’emissione del Decreto Penale di condanna, esito naturale
della stragrande maggioranza dei procedimenti per violazione degli artt. 186 ss. D.lgs. n. 285 del 1992.
Altro interrogativo, di minore impatto nella prassi ma ugualmente imprescindibile nel contesto di un
tentativo di delineare esaustivamente la disciplina applicativa dell’istituto de quo, è se la sostituzione
della pena irrogata con il lavoro di pubblica utilità, non richiesta davanti al Giudice di prime cure, possa
essere disposta anche dal Giudice dell’impugnazione e, in caso affermativo, se detta sostituzione possa
essere disposta anche d’ufficio.
Al quesito (o meglio, ad entrambi i quesiti) sollevati, già dalle prime applicazioni della L. n. 120 del
2010, dalla dottrina e dalla prassi, i Giudici di merito (e, nel caso del secondo quesito, la recentissima
Cass. n. 22048 del 2012) hanno da non molto cominciato a fornire soluzione affermativa.
La rilevanza pratica della prima questione è evidente: poiché, a mente dell’art. 186, comma 9-bis, D.lgs.
n. 285 del 1992, al positivo esperimento del periodo determinato di lavoro di pubblica utilità (istituto,
peraltro, come vedremo in seguito, tutt’altro che sconosciuto al nostro ordinamento penale) consegue,
oltre a quello della revoca della confisca e a quello, rilevantissimo - trattandosi non di rado di soggetti
incensurati - dell’estinzione del reato, l’effetto di dimidiare la durata della (sanzione accessoria della)
sospensione della patente di guida, tanto più quest’ultima conseguenza premiale risulterà efficace, quanto
prima il programma di lavoro di pubblica utilità verrà iniziato (e terminato).
In questo senso, è la stessa prassi applicativa, nel contempo, a porre il problema e fornirne la soluzione.
Occorre, però, per evitare di confrontarsi unicamente con il mero dato astratto, muovere da
un’esemplificazione operativa concreta: è dato di dominio comune, infatti, che in caso di violazione degli
artt. 186 ss. D.lgs. n. 285 del 1992, spetti alla Prefettura emanare, come normalmente avviene, un primo
provvedimento cautelare di sospensione della patente di guida, per un periodo determinato ma
generalmente ancorato in maniera piuttosto rigorosa ai tre “scaglioni” (0,5-0,8; 0,8-1,5; oltre 1,5 g/l)
previsti dall’art. 186.
Peraltro, ma su ciò torneremo in seguito, non mancano interpretazioni giurisprudenziali55 più “garantiste”
e, a sommesso avviso di chi scrive, maggiormente conformi al tenore letterale della disposizione
richiamata da ultimo e dell’art. 2 L. n. 241 del 1990, che ritengono applicabile la sospensione cautelare
disposta dalla Prefettura solo nel caso di violazioni dell’art. 186 costituenti reato (quindi, con esclusione
Note:
55
In questa direzione, ribadendo la natura cautelare del provvedimento prefettizio: Cass., Sez. II, n. 21447/10
www.cortedicassazione.it; nonché, nella medesima direzione: Giudice di Pace di Monopoli 10 ottobre 2011, n. 329 R.G., Utet Pluris
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della “fascia” fino a 0,8 g/l) e/o in presenza di motivi concreti a sostegno di una misura che, giova
ricordarlo, rivestendo natura (puramente) cautelare deve necessariamente riposare non solo su un fumus
(commissi delicti) ma altresì su un periculum in mora rappresentato dal concreto pericolo che la
disponibilità della patente di guida potrebbe costituire per il trasgressore/ indagato56.
Ciò, come rilevato da alcuni Autori, in analogia a quanto avviene in materia di sequestro del mezzo, ove
si richiede un «… nesso strumentale tra la res e la perpetrazione del reato …»57.
L’opportunità di un inizio “anticipato” dei lavori di pubblica utilità
Tornando alla vicenda penale e alla possibilità di far luogo fin dalle primissime battute del procedimento
penale al lavoro di pubblica utilità, costituisce dato di esperienza comune come normalmente i soggetti
denunciati per violazione degli artt. 186 ss., D.lgs. n. 285 del 1992 affrontino l’intera fase delle indagini
(e, spesso, anche la fase successiva al giudicato del decreto penale, più difficilmente della Sentenza di
condanna) nel pieno vigore della sospensione amministrativa- cautelare della patente disposta dalla
Prefettura.
Ebbene, la logica - e un criterio in grado di coniugare favor rei e comune buon senso- suggerirebbero di
iniziare proprio in questa prima fase di sospensione cautelare della patente di guida il programma di
lavoro di pubblica utilità, con molteplici e rilevantissimi benefici.
In primo luogo, infatti, tanto prima verrà portato a termine il programma concordato, quanto prima si
potrà chiedere la fissazione della relativa udienza davanti al Gip procedente al fine di ottenere la
declaratoria di estinzione del reato; in secondo luogo, ed è quest’ultimo, spesso, il profilo di maggior
interesse per gli indagati, anticipare l’inizio del programma di lavoro significa anche guadagnare diversi
mesi di sospensione della patente, scontando nel medesimo periodo, contemporaneamente, la sospensione
amministrativa/ cautelare che andrà detratta, come “presofferto”, dalla sanzione accessoria comminata dal
Giudice.
Infine, e rappresenta dato di tutta evidenza, l’utile decorso dei lavori di pubblica utilità consente
addirittura di revocare la già pronunciata confisca del veicolo.
Al fine di anticipare notevolmente (parliamo di mesi) gli anzidetti benefici premiali previsti dall’art. 186,
comma 9-bis, D.lgs. n. 285 del 1992, occorrerà, fin dal primo momento successivo alla denuncia e al
contestuale verbale di identificazione/ elezione di domicilio, prendere al più presto contatto con uno degli
Enti che hanno stipulato apposite convenzioni (possibilità prevista dal D.M. 26/3/2001) con il Tribunale
nel cui circondario è stato commesso il reato (ad es., l’A.R.C.A.T.) ovvero con Enti che non abbiano in
essere una convenzione con il Tribunale – d’altronde, non espressamente prevista dall’art. 186, comma 9
bis- ma che possano nondimeno rivestire concreto affidamento e, comunque, previa autorizzazione del
Pubblico Ministero procedente (così, tipicamente, la Croce Verde, Bianca, O.N.L.U.S., ecc…).
Attenzione, però; occorre considerare fin dalle prime battute che il programma deve necessariamente
svolgersi, ex art. 54 D.lgs. n. 274 del 2000, nella provincia di residenza e che esso ha da essere
sufficientemente dettagliato, recando, oltre ai dati imprescindibili (l’indicazione dell’Ente, gli estremi
dell’indagato, ecc…) l’indicazione del soggetto incaricato di vigilare sull’osservanza del programma
stesso, le mansioni che saranno svolte dall’indagato- istante, nonché, per rendere più agevole al Pubblico
Ministero prestarvi il consenso, l’indicazione di un numero di ore presuntivo che andranno scontate (è
prudente eccedere leggermente rispetto al minimo della sanzione irrogabile, attesochè in questa fase
preliminare non conosciamo ancora la richiesta del Pubblico Ministero), con l’apposizione della «clausola
di salvaguardia» «… ovvero il diverso numero di ore che la S.V. Ill.ma Vorrà disporre …».
Ovviamente, nell’ipotesi, poco più che teorica, in cui ci si fosse mossi con tale anticipo da precedere
addirittura l’assegnazione del procedimento al Pubblico Ministero, la richiesta andrà indirizzata al
Procuratore Generale.
Nell’ipotesi migliore e più auspicabile, dunque, la richiesta di lavori di pubblica utilità con l’allegato
programma e la dichiarazione di disponibilità immediata dell’istante/indagato, viene accolta e
provvisoriamente autorizzata già dallo stesso Pubblico Ministero, con possibilità di anticipare, anche di
diversi mesi, i benefici premiali previsti dall’art. 186, comma 9-bis, D.lgs. n. 285 del 1992.
Si badi, non si tratta di cosa di poco conto, poiché la disposizione citata da ultima riserva «… al
giudice…» l’autorizzazione del programma.
Un’interpretazione letterale della norma, tuttavia, rischierebbe di svuotare di gran parte del loro
significato premiale (e, in definitiva, della loro stessa ratio) le previsioni introdotte dall’art. 186, comma
56
Evidenzia l’imprescindibilità di tali caratteristiche della misura cautelare L. Tramontano, Guida in stato di ebbrezza, Giuffrè,
2010, 153-154; cfr. anche Cass. n. 19646 del 30 aprile 2010.
Così L. Tramontano, cit., 143.
57
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9-bis, nonché di creare evidenti paradossi applicativi, essendo ben possibile che l’indagato sconti l’intera
sospensione cautelare (che spesso assorbe interamente la sanzione accessoria) ben prima di vedersi
autorizzare il programma di lavoro di pubblica utilità che tale sospensione dovrebbe dimezzare (!).
Un’interpretazione teleologicamente orientata della norma e nondimeno rispettosa del tenore letterale
della stessa, costituisce la base argomentativa su cui può riposare un’altra considerazione a favore
dell’inizio “anticipato” del programma di lavoro di pubblica utilità.
Il tenore letterale della norma richiamata, infatti, riserva, alternativamente «… al giudice dell’esecuzione
…» o al «…giudice che procede…» il potere di revocare, in caso di violazione delle prescrizioni del
programma di lavoro, la misura sostitutiva.
Orbene, va da sé che in tanto detto potere può spettare al giudice che procede in quanto lo svolgimento
dell’attività abbia luogo prima del passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale,
diversamente essendo la questione rimessa al giudice dell’esecuzione. Detta impostazione rinviene un
condivisibile avvallo giurisprudenziale in numerose pronunce di merito58.
La risposta fornita dalla prassi e dalla giurisprudenza
Giova segnalare come l’opportunità di riservare al Pubblico Ministero, nonostante l’infelice formulazione
dell’art. 186, comma 9-bis, un potere di autorizzazione “provvisoria” del programma di lavoro,
analogamente a quanto avviene, d’altronde, in materia di ricorso contro il sequestro ex art. 321, comma 3,
c.p.p., era stata fin da subito colta dalla prassi e dalla dottrina più attenta59.
Essa ha, però, finalmente ricevuto un autorevole avvallo ad opera del Tribunale di Torino60.
Nell’ipotesi di autorizzazione ed inizio anticipato dei lavori di pubblica utilità, pertanto, ben sarà possibile
che l’indagato, anche beneficiando della possibilità, prevista ex artt. 54, commi 3 e 4, D.lgs. n. 274 del
2000, e che deve essere espressamente richiamata nella richiesta di autorizzazione avanzata al Pubblico
Ministero, di svolgere il programma per un periodo di ore giornaliere superiore a sei (fino a otto), “sconti”
in poche settimane l’intera “pena” (peraltro, non ancora quantificata né irrogata in seguito, trattandosi di
causa estintiva del reato!).
In quest’ultima ipotesi, pertanto, l’indagato si troverà a richiedere al Gip (magari non ancora assegnatario
del fascicolo), per il tramite del Pubblico Ministero procedente, la fissazione dell’apposita udienza per la
declaratoria di estinzione del reato nonché per la dimidiazione del periodo di sospensione della patente
(che, a questo punto, è probabile sia stato interamente assorbito, tanto più all’esito del predetto
dimezzamento, operato in udienza iussu iudicis, dell’espletato programma di lavori di pubblica utilità) e
per l’eventuale revoca della confisca.
In materia di art. 186, D.lgs. n. 285 del 1992, pertanto, giocare di anticipo in fase di indagini anziché
serbare un atteggiamento attendista rispetto all’emissione del decreto penale di condanna può riservare
enormi benefici.
Le altre ipotesi applicative
Ovviamente, il limite di operatività fisiologico del meccanismo anticipatorio così come sopra delineato è
che esso presuppone l’immediata attivazione dell’indagato a seguito della denuncia riportata, laddove
invece l’esperienza quotidiana offre esempi non certo sporadici di trasgressori/indagati che, anche a
seguito della redazione a loro carico del verbale di identificazione/elezione di domicilio, rimangono inerti
per lungo tempo, convinti che le conseguenze sanzionatorie dell’episodio si esauriscano nella sospensione
cautelare/amministrativa della patente di guida, fino a che non viene loro notificato il decreto penale di
condanna.
L’ipotesi più ricorrente, come spesso avviene, è quella mediana tra l’eccezionale solerzia di chi si
presenta dal proprio difensore, il giorno successivo alla denuncia, con un programma (insolitamente)
completo di tutti i suoi elementi, con la determinazione delle ore da scontare e quant’altro anzidetto, e
l’inerzia di chi attende di apprendere dalla notifica del decreto penale di condanna che la sospensione
cautelare della patente non ha esaurito il trattamento sanzionatorio riservato dall’ordinamento per le
ipotesi di guida in stato di ebbrezza e/o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
58
Così Trib. Massa, Sent. 22 febbraio 2011, proc. n. 591/10 R.G.; nonché, nella medesima direzione: Gip Trib. Chiavari 6 luglio
2011, proc. n. 2318/10 R.G., Utet Pluris Archivio
59
Così F. Cozzi e R. Navarra in Nuova Giurisprudenza Ligure, 2011, III, 81 ss.
60
Trib. Torino 20 gennaio 2011, in Corr. mer., 2011, 7, 716; nonché, nella medesima direzione, Trib. Monza, Dott.ssa Renda, 17
gennaio 2011, Utet Pluris Archivio, ; contra, però: Trib. Milano, 17 febbraio 11, in Corr. Mer. 2011, 7, 714.
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Non foss’altro per l’evidente ricorrenza statistica della categoria mediana, è (anche) ad essa che dobbiamo
necessariamente riferirci in materia di lavori di pubblica utilità ed inizio “anticipato” degli stessi,
nonostante l’argomento sia già stato oggetto di attenzione da parte della più attenta dottrina61.
Ebbene, la citata giurisprudenza di merito torinese e un’interpretazione dell’art. 186, comma 9-bis, D.lgs.
n. 285 del 1992 che non si arresti al mero dato letterale (peraltro affatto inequivoco) della disposizione,
facendosi carico, al contrario, di preservare la ratio della norma, consentono di estendere i benefici
premiali introdotti dalla L. n. 120 del 2010 anche alla categoria “mediana” di soggetti indagati, di gran
lunga la più ricorrente.
In detta ipotesi, allorché l’indagato si presenti al difensore dopo qualche settimana dal fatto, sarà
necessario indirizzarlo entro strettissimi termini (onde evitare che il Pubblico Ministero, emessa la
richiesta di emissione di decreto penale di condanna, si sia spogliato del merito del fascicolo) ad uno degli
Enti contraenti apposita convenzione con il Tribunale ovvero, previa autorizzazione del Pubblico
Ministero (va dato atto alle Procure, peraltro, di essersi fatte carico della ratio della norma e di mostrare
pertanto una certa elasticità al riguardo) ad Enti (Pubbliche Assistenze, Onlus, ecc…) che pur non avendo
stipulato apposita convenzione (peraltro, affatto richiesta dall’art. 186, comma 9 bis, D.lgs. n. 285 del
1992 ai fini dell’individuazione degli Enti presso i quali svolgere il lavoro di pubblica utilità) presentino
un livello adeguato di affidabilità.
Presso detti Enti, infatti, come già accennato, dovrà essere preventivamente (ovvero, già in sede di
richiesta di autorizzazione del programma) individuato un responsabile dell’osservanza del programma
stesso che, all’uopo, terrà un apposito registro presenze del soggetto affidato.
Non va dimenticato come nel momento esecutivo della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità
l’Ufficio penale di esecuzione esterna (più comunemente: U.E.P.E.) sia altresì incaricato di controllare
l’osservanza del programma di lavoro; il che avviene, normalmente, tramite accessi delle Forze
dell’Ordine nei luoghi ove, in base al programma autorizzato, dovrebbe svolgersi l’attività, onde
verificare la presenza dell’affidato.
Nell’ipotesi in cui, come spesso accade, tra il fatto-reato e la redazione del programma completo sia
decorso un periodo di tempo (poche settimane), che abbia consentito comunque al Pubblico Ministero di
orientarsi in direzione della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, non certo per ciò solo
bisogna rassegnarsi ad attendere (per settimane, se non mesi) la notifica del decreto penale emesso dal
Gip e ripiegare successivamente su un patteggiamento con richiesta di sostituzione della pena con i lavori
di pubblica utilità, ma è ben possibile, anche in questo caso, precorrere i tempi, con notevoli benefici.
Anche in quest’ultima ipotesi, dunque, occorrerà avanzare al Pubblico Ministero, ovviamente, prima della
notifica del decreto penale di condanna, l’allegata richiesta di autorizzazione del programma di lavori di
pubblica utilità con espressa istanza di inizio provvisorio dello stesso per un numero di ore
predeterminato, con un prudente margine, dallo stesso istante.
In tal modo, ove il programma venga ritenuto idoneo dal Pubblico Ministero, quest’ultimo emetterà
richiesta di decreto penale con contestuale conversione della sanzione irroganda in lavoro di pubblica
utilità e consenso all’inizio dello stesso anche prima del sopravvenire del giudicato.
Al Gip, pertanto, non resterà che emanare, ove la conversione della pena appaia congrua e il programma
idoneo, decreto penale disponendo già nello stesso decreto la conversione della pena irrogata (rectius:
applicata su richiesta di parte) in lavoro di pubblica utilità, con autorizzazione, anche in questo caso, ad
iniziare, addirittura prima dell’intervento del giudicato, previa rinuncia all’impugnazione, il programma
già recepito nel Decreto stesso come “prescrizioni” (e, così, iniziando ben prima a scontare il periodo di
lavori socialmente utili, con i benefici di cui sopra).
Per un’ulteriore accelerazione dell’iter procedimentale, ben potrà, pertanto, l’imputato, a seguito
dell’emissione del decreto penale di condanna che preveda la sostituzione della pena, depositare
immediatamente presso la Cancelleria Gip atto di rinuncia all’impugnazione (ovviamente, con adesione
del difensore), sì da far decorrere dallo stesso giorno del deposito della rinuncia il conteggio del periodo
di lavoro utile ai fini della sostituzione.
Ulteriore problema applicativo, per vero veicolato dal tenore non univoco del nuovo art. 186, comma 9bis, è quello, che si sta timidamente affacciando nella prassi, incontrando soluzioni non sempre condivise,
della situazione conseguente all’utile svolgimento del periodo di lavori di pubblica utilità; ovvero,
terminato utilmente il programma di lavoro prestabilito, qual è il Giudice competente a pronunciare, con
evidente valenza dichiarativa, l’estinzione del reato (ex art. 129 c.p.p.), la revoca della confisca e,
conseguenza premiale in assoluto più ambita dagli interessati, la dimidiazione del periodo di sospensione
della patente di guida?
61
Per una disamina schematica e mirabilmente lineare delle opzioni processuali conseguenti alla notifica del decreto penale di
condanna cfr. Benedetta Bocchini Nuovo Codice della Strada e processo penale, Experta, 2010, 309-332.
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Nel silenzio dell’art. 186, comma 9 bis, pare opportuno fare riferimento alle regole generali e, in
particolare, a quanto sancito dall’art. 666 c.p.p.; così, la relativa istanza andrà indirizzata al Giudice che
ha emesso la pronuncia di condanna con sostituzione della pena con lavori di pubblica utilità
(normalmente, ma non necessariamente, il Gip), in funzione di Giudice dell’Esecuzione: all’istanza, per
un più celere decorso dell’iter procedimentale, sarà opportuno allegare una dichiarazione del responsabile
dell’Ente presso il quale l’interessato ha svolto il periodo di lavoro di pubblica utilità che dia atto
dell’esito positivo della misura, nonché una copia del registro presenze obbligatoriamente tenuto
dall’Ente.
All’esito dell’incidente di esecuzione (di ciò trattandosi), il Tribunale trasmetterà copia dell’ordinanza
resa dal Gip in qualità di Giudice dell’Esecuzione alla Prefettura (che custodisce la patente sospesa) per le
determinazioni del caso (emissione di una nuova ordinanza prefettizia che disponga, o meglio recepisca,
la dimidiazione del periodo di sospensione, disponendo per l’eventuale residuo); anche in questo caso,
risulterà opportuno precorrere i tempi, procurandosi immediatamente copia conforme della declaratoria
del Giudice dell’Esecuzione e facendola pervenire in Prefettura.
Esclusioni (oggettive e soggettive) dall’applicazione dei l.p.u.
Se, come si è provato a dimostrare nella presente sede, la “nuova” disciplina introdotta dall’art. 186,
comma 9-bis d.lgs. n. 285 del 1992, trasuda intenti premiali (e forse anche deflattivi), proprio dette
intenzioni paiono tuttavia tradite da alcune discutibili esclusioni dell’applicazione dell’istituto de quo.
Così, da un lato pare giustificata la previsione di non poter beneficiare per più di una volta della
sostituzione della pena, pur ponendosi conseguentemente l’interrogativo di determinare dove consti (sul
certificato del casellario?) la già avvenuta concessione della sostituzione.
Molto meno giustificata, soprattutto in considerazione del finalismo marcatamente premiale dell’istituto,
risulta invece l’esclusione della sostituzione nei casi di cui all’art. 186 lett. a e comma 2-bis, ovvero,
rispettivamente, l’ipotesi di guida con tasso compreso tra 0,5 e 0,8 g/l e quella in cui il conducente in stato
di ebbrezza abbia provocato un incidente.
Esclusione, peraltro, resa ancor meno attuale e giustificabile dalla recentissima pronuncia della Corte
Costituzionale62 che ha dichiarato infondata, con percorso argomentativo invero ispirato a mirabile
pragmatismo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186-bis, comma 6, D.lgs. n. 285 del 1992
(che, ricordiamolo, contempla sanzioni più severe per conducenti neopatentati, infraventunenni e
conducenti professionali) sollevata dal Gip del Tribunale di Bolzano con riferimento agli artt. 3, 27,
comma 3, Cost.
Ora, se nel primo caso citato, ovvero quello dell’ipotesi costituente semplice illecito amministrativo,
l’esclusione è in re ipsa, atteso che l’art. 186, comma 9 bis, limita il suo ambito applicativo a «… la pena
detentiva e pecuniaria …», mentre l’ipotesi di guida con tasso compreso tra 0,5 e 0,8 g/l integra, appunto,
proprio a seguito della novella operata dalla L. 120/2010, solamente una violazione di natura
amministrativa, pare, invece, francamente incomprensibile l’esclusione della sostituzione della pena in
tutte le ipotesi in cui vi sia stato un incidente.
In quest’ultima ipotesi, infatti, paiono al contrario, ancora più intense le esigenze rieducative che lo
svolgimento di idoneo periodo di lavoro di pubblica utilità è in grado di soddisfare.
Così, se in ipotesi l’esclusione dell’applicabilità della sostituzione potrebbe, al limite, fondarsi, per le sole
ipotesi di revoca obbligatoria della patente di guida (pertanto: guida con tasso oltre 1,5 g/l e incidente),
sull’impossibilità di applicare la dimidiazione della sospensione della patente di guida previsto dall’art.
186, comma 9-bis, risulta francamente arduo dotare di idoneo sostegno giuridico l’esclusione dall’accesso
al lavoro di pubblica utilità nelle altre ipotesi di guida in stato di ebbrezza con incidente (ovvero, di guida
con tasso al di sotto di 1,5 g/l).
Ciò vieppiù ove si consideri la concezione latissima che la giurisprudenza, pressochè univocamente,
adotta dell’espressione «… provoca un incidente stradale …» richiamata dall’art. 186, comma 9-bis, sì da
ricomprendervi, (e dunque escludere l’applicabilità della sostituzione della pena con il lavoro di pubblica
utilità) anche i piccoli urti in cui nessuno sia rimasto ferito, ovvero addirittura alla «...mera fuoriuscita del
veicolo dalla sede stradale…»63.
La questione dell’esclusione dall’alveo applicativo dell’istituto del lavoro di pubblica utilità delle ipotesi
in cui vi sia un incidente condurrà, con tutta probabilità, a generare prossimamente eccezioni di
incostituzionalità ex art. 3 Cost., potendosi qui solamente rilevare come paia riduttivo relegare, nei casi
62
Corte cost., Sent. 27 giugno 2012, n. 167, Pres. Quaranta in www.cortecostituzionale.it
Emblematica di quest’orientamento (forse eccessivamente) rigoroso è Cass., Sez. IV, 16 febbraio 2012 (ud. 21 dicembre 2011), n.
6381, Utet Pluris Archivio.
63
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esclusi dall’applicabilità del lavoro di pubblica utilità, un volontario tentativo rieducativo o risarcitorio
nei confini, piuttosto angusti, dei criteri per la quantificazione della pena ex art. 133 c.p.
Applicabilità ex officio della sostituzione con l.p.u.?
Di minore impatto pratico ma di non inferiore rilevanza teorica, invece, è il quesito cui ha cercato di
fornire adeguata soluzione la recentissima pronuncia della Sez. IV Penale della Suprema Corte, Sent. n.
22048 del 2012, ovvero se la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità possa essere disposta
anche dal Giudice dell’impugnazione e, in caso affermativo, se questi possa provvedere in questo senso
anche d’ufficio.
Va da sé, l’interrogativo, che pure riveste un’incidenza pratica piuttosto limitata, si intreccia
inevitabilmente con quello dell’applicazione retroattiva della norma più favorevole per fatti, ancora sub
judice, antecedenti al 29 luglio 2010; tuttavia, non risulta agevole individuare, in concreto, quale sia la
normativa più favorevole, atteso che ove si abbia riguardo alla sola cornice edittale, le uniche ipotesi che
hanno subìto ad opera della L. n. 120 del 2010 un aggravamento della cornice edittale sono quelle di cui
agli artt. 186, lett. c e 187 D.lgs. n. 285 del 1992; in tal senso, dunque, si sarebbe portati a ritenere che la
lex mitior sia la precedente. Così, peraltro, ha ritenuto una parte della giurisprudenza di merito64 e della
dottrina più attenta65.
Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Avendo riguardo, come pare più aderente a quanto richiesto dalla
giurisprudenza prevalente in subiecta materia, al trattamento sanzionatorio complessivo applicato in
concreto, non può non tenersi conto del fatto che la L. n. 120 del 2010 ha introdotto un istituto, quello,
appunto, del lavoro di pubblica utilità, che, oltre a determinare un’espressa abolitio criminis per la fascia
compresa tra 0,5 e 0,8 g/l, consente nientemeno che la sostituzione di una sanzione detentiva e/o
pecuniaria con una misura sostitutiva delle stesse la cui osservanza comporta né più né meno che
l’estinzione del reato.
In quest’ottica, pertanto, si comprende come a favore della tesi che individua la nuova normativa come la
più favorevole si sia schierata altra parte della (più recente) giurisprudenza di merito66.
Ciò detto, la recentissima (e peraltro estremamente sintetica) pronuncia della Corte di Cassazione prende
in specifica considerazione il problema dell’ammissibilità dell’applicazione del lavoro di pubblica utilità
in sede di gravame, da parte del Giudice dell’impugnazione, nonché quello della possibilità di disporre
d’ufficio la misura de qua.
La Corte di Appello di Lecce, infatti, aveva confermato la Sentenza di primo grado che aveva ritenuto
responsabile l’imputato del reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b, condannandolo alla pena di mesi
due di arresto ed euro 900 di ammenda.
Veniva rigettata dalla Corte di Appello la richiesta, avanzata, però, si badi, non nei motivi di appello né
nei motivi aggiunti ex art. 585 c.p.p., di sostituzione della pena irrogata con il lavoro di pubblica utilità.
Ora, a sommesso avviso di chi scrive la portata della richiamata pronuncia (peraltro stringatissima ai
limiti dell’ermetismo) non sta tanto nella declaratoria di inammissibilità della richiesta sostituzione così
come formulata, poiché ciò dovrebbe essere, in realtà, principio piuttosto pacifico.
Pare, infatti, coerente con il generale principio devolutivo consacrato dall’ art. 597 c.p.p. che il Giudice
dell’impugnazione sia investito dei soli motivi di gravame, calando sui restanti il giudicato, e che ulteriori
motivi (aggiunti) possano farsi valere nei soli limiti di cui all’art. 585 c.p.p.; e, nel caso dedotto, si badi
bene, non era stato impugnato il Punto di Sentenza concernente la pena, bensì il solo Capo afferente
l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato.
Ex adverso, è pur vero, potrà dedursi il tenore dell’art. 7 C.E.D.U. che postula la possibilità di far valere
in ogni momento le cause estintive del reato, ma le norme processuali penali, più ancora di quelle
sostanziali, si coniugano molto difficilmente con i principi di diritto internazionale, collocandosi in un
ambito, quello della disciplina del processo penale, che costituisce la più pura espressione della sovranità
del singolo Stato.
Si può recuperare una valenza più rilevante (e controversa) alla recentissima pronuncia della Suprema
Corte nella misura in cui si prenda in specifica considerazione, invece, il principio ivi affermato per cui,
ove venga (correttamente) impugnato il Punto della Sentenza concernente la pena (e la sua eventuale,
64
Tra le altre: Gip Trib. Genova, proc. n. 7352/10 R.G., in cui, peraltro, si ribadisce la necessità di applicare integralmente la
disciplina (quale che sia) ritenuta più favorevole, senza la possibilità di praticare discutibili frammentazioni di disciplina applicando
gli istituti più favorevoli al reo della nuova disciplina al trattamento sanzionatorio contemplato dalla vecchia; nella medesima
direzione: Trib. Sanremo 30 settembre 2011, n. 1183; Trib. Monza 17 gennaio 2011 in Info Utet, mass. Red.
65
Così B. Bocchini, Nuovo Codice della Strada e processo penale, Experta, 2010, 7 ss. e 122- 126.
66
Così Trib. Torino 20 gennaio 2011, cit.; Gip Genova, 20 dicembre 2010, n. 1449/10 R.G., nonché, per quanto concerne
l’intervenuta abolitio criminis, Cass., Sez. IV, n. 38692 del 2010, in Utet Pluris Archivio.
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negata sostituzione) e ciò venga fatto ritualmente, nell’osservanza dei termini di cui all’art. 585, comma
4, c.p.p., la sostituzione possa essere concessa anche dal Giudice dell’impugnazione e addirittura
d’ufficio.
Quest’ultima ipotesi costituisce l’approdo finale di un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato che è
andato, con argomentazioni non sempre convincenti, progressivamente sminuendo la valenza della
volontà dell’interessato- istante al fine dell’attivazione del lavoro di pubblica utilità, arrivando a
teorizzare - facendo uso di un’argomentazione letterale- la sufficienza ai fini della concessione della
sanzione sostitutiva de qua, della mera «… non opposizione …» da parte dell’interessato67.
Se sulla concessione da parte del Giudice dell’impugnazione nulla quaestio- anche in adesione ad
esigenze “garantistiche” di tutela dell’imputato- pare molto meno condivisibile, invece, riconoscere al
giudice il potere di applicare anche di ufficio la predetta sostituzione.
Ciò quantomeno sulla scorta di un’interpretazione letterale (e sistematica) della L. n. 274 del 2000
istitutiva del lavoro di pubblica utilità che, a differenza di quanto avviene, ad esempio, per la concessione
della sospensione condizionale della pena ex artt. 163 ss. c.p., condiziona la possibilità di disporre la
sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità al consenso dall’indagato/imputato; detta
soluzione, infatti, se da un lato può sanare - analogamente, appunto, a quanto previsto per la sospensione
condizionale - errori o (gravi) dimenticanze defensionali consumati davanti al Giudice di prime cure,
dall’altro, alla luce del tenore letterale (e concettuale) della L. n. 274 del 2000, non può che destare più di
una perplessità.
67
Così Cass. n. 4927 del 2012 in Utet Pluris Archivio; tuttavia, contra: Cass. n. 31145 del 7 luglio 2011, ivi.
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Diritto e Processo Civile
LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE DEL
NOTAIO
Cassazione, sez. unite, 31 luglio 2012, n. 13617
Mauro Giarrizzo
La sentenza che si commenta, la n. 13617 delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, ha il
pregio di esaltare la procedura civile. Sentenza che si condivide solo in parte, avendo potuto i Giudici di
Legittimità maggiormente orientare gli interpreti del diritto.
I Giudici di Legittimità e l’interpretazione costituzionalmente orientata di una delle tante leggi dello Stato
Italiano che è frutto del pensiero dei Giuristi del Regno d’Italia. Legge che, pur essendo completa per i
suoi aspetti strutturali, è sempre frutto di un pensiero storico che dovrebbe essere posto a riposo per limiti
di età.
Non che i fini giuristi dei primi del novecento non furono abili ed esperti nell’essere lungimiranti, ma
certo è che oggi occorrerebbe una disposizione di legge frutto del pensiero dei Giuristi della Repubblica
Italiana.
Si è tanto parlato di voler riformare molti settori, e si sta arrivando a scardinare tempi di potere che non
vogliono essere privati delle tante loro rendite. Rendite che oggi giorno si scontrano con una economia
che certamente non è tra le migliori e che sicuramente anche le professioni protette, (oggi regolamentate)
hanno contribuito a creare.
La sentenza decide sul caso di un notaio che non ha adempiuto ai dovere disposti dalla legge notarile68.
Un notaio del Consiglio Notarile di Brescia, con decisione del 24 maggio 2010 della Co.re.di.
(Commissione amministrativa regionale di disciplina) della Lombardia, era stato incolpato per aver
violato:1) l'art. 47 della legge 16 febbraio 1913 n. 89 (Legge Notarile), come modificato dal D. lgs. 1
agosto 2006 n, 249, per avere omesso di indagare la volontà delle parti e di curare, sotto la propria
direzione e responsabilità, la compilazione integrale dell'atto; 2) l'art. 58, punto 6 della medesima legge
notarile, per non aver dato lettura dell'atto alle parti, con conseguente violazione dell'art. 28 della legge
notarile; 3) l'art. 147 punto a) della legge notarile, per aver compromesso con la propria condotta e
nell'esercizio delle proprie funzioni, la propria dignità e reputazione, nonché il decoro e prestigio della
classe notarile.
Il detto Notaio fu prosciolto dei primi due addebiti e incolpato del terzo. Il procedimento era stato
promosso dal Consiglio Notarile di Brescia in seguito a un esposto del Consumatore, il quale aveva
segnalato: - di aver avuto intenzione di trasferire un mutuo dall'istituto di credito da cui l'aveva ottenuto a
un altro; - di essersi rivolto a questo scopo allo studio del notaio, e di aver avuto contatto soltanto con
impiegati, che gli avevano presentato un preventivo per 600,00 Euro; - di aver visto il notaio soltanto al
momento della firma dell'atto; - di aver ricevuto allora la richiesta di 2.000,00 Euro; - di non avere avuto
con sé tale maggiore somma; - di aver dovuto lasciare al notaio, a garanzia del pagamento, la propria
carta di identità.
68
G. CASU (a cura di) NOTARIATO E ARCHIVI NOTARILI, Roma 2010.
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Prima di commentare la sentenza nel merito, vorrei soffermarmi sull’importanza della professionalità di
un libero professionista, riconosciuto69, ad opera di un’iscrizione presso un Ordine.
Professionalità che sicuramente non deriva dalla semplice iscrizione ad un Ordine. Occorre porsi una
domanda: ma la professione regolamentata serve? E la detta professione regolamentata garantisce
all’utente finale, tante volte consumatore e parte debole del contratto, la professionalità della categoria?
Non è detto, e la sentenza in commento ci da ragione, che i liberi professionisti regolamentati siano
sempre eccellenti. Tante volte resta il dubbio se essi siano in grado di poter veramente consigliare i
consumatori!
Dubbio, che si rafforza anche grazie al decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2012, n. 137,
rubricato:<< Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell'articolo 3,
comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14
settembre 2011, n. 148>>, che all’art. 2, (Accesso ed esercizio dell'attivita' professionale), comma 3,
dispone:<< Non sono ammesse limitazioni, in qualsiasi forma, anche attraverso previsioni
deontologiche, del numero di persone titolate a esercitare la professione, con attivita' anche abituale e
prevalente, su tutto o parte del territorio dello Stato, salve deroghe espresse fondate su ragioni di
pubblico interesse, quale la tutela della salute. E' fatta salva l'applicazione delle disposizioni
sull'esercizio delle funzioni notarili.>>
La scure, dunque, non si applica a tutte le professioni regolamentate. Restano sempre salvi i soggetti che
detengono, (e conservano), il potere.
La Corte di Legittimità, quindi, nell’espletare il proprio compito, si è voluta soffermare, per poi entrare
nel merito, visto che il codice di rito descrive i comportamenti e cioè: <<…ovvero decide la causa nel
merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.70 >>
La riflessione che si sta per affrontare, e che non è in sintonia con la decisione in commento, è la
seguente:
Il diritto amministrativo, e la legge sul procedimento amministrativo71, descrive i passaggi che le
Pubbliche Amministrazioni devono fare per non incorrere in un procedimento illegittimo.
Mentre i TAR e il Consiglio di Stato, decidono e cercano di creare giurisprudenza72 anche sull’avvio del
procedimento, contro le amministrazioni che omettono ogni principio di partecipazione del cittadino, la
sentenza in commento, forse, anzi sicuramente, ha voluto cancellare, d’un tratto, ciò che la lenta e
parsimoniosa giustizia amministrativa, ha confermato. Ora, sappiamo tutti bene che la Cassazione è anche
giudice nomofilattico. A dire della sentenza in commento, quindi, si apre lo spiraglio pericoloso per le
tante pubbliche amministrazioni che non amano la partecipazione dei cittadini al giusto procedimento
amministrativo.
69
https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:bjh9QDF3BckJ:www.cna.it/content/download/92970/1212708/file/V%2520Rappor
to%2520di%2520monitoraggio%2520sulle%2520professioni%2520non%2520regolamentate.pdf+rapporto+sulle+professioni+prote
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1.2 Lo scenario quantitativo: il numero dei professionisti riconosciuti
Sono definibili come “professionisti riconosciuti” quei lavoratori autonomi che per esercitare la loro professione devono essere
iscritti agli Albi professionali delle rispettive categorie di appartenenza. Per iscriversi ad un Albo e’ necessario innanzitutto
conseguire l’abilitazione professionale che consente l’esercizio dell’attività, previo conseguimento del titolo di studio richiesto
(diploma di media superiore o laurea). I liberi professionisti hanno generalmente contratti di prestazione d’opera intellettuale
(regolati dall’art. 2229 del Codice Civile e successivi), basati sul particolare legame bidirezionale e fiduciario che si instaura con il
cliente e che richiede una prestazione di alto contenuto tecnico - scientifico. Si tratta di professioni che producono reddito di lavoro
autonomo e non quindi di impresa, anche quando sono organizzate prevalentemente con beni strumentali e lavoro dipendente.
Questo perché la struttura organizzativa è meramente strumentale all’espletamento dell’attività intellettuale. Gli Ordini con il
maggior numero di iscritti sono quelli attinenti alle professionalità sanitarie: medici (340 mila) e infermieri (240 mila); aggiungendo
anche farmacisti, odontoiatri, ostetriche e tecnici di radiologia medica, l’area sanitaria raggiunge circa i 720 mila iscritti.
Comprendendo poi anche le professioni attigue relative al sociale (assistenti sociali, psicologi) il dimensionamento complessivo
sfiora le 800.000 unità, pari a quasi la metà del totale degli iscritti ai vari Ordini e collegi. Altri tre Ordini hanno una consistenza
superiore ai 100 mila iscritti: si tratta dei 153 mila ingegneri, dei 130 mila avvocati e procuratori, dei100 mila architetti. Esistono
pure Ordini con pochi aderenti: decine, come gli agenti di cambio, o centinaia come gli attuari e i consulenti industriali. Il totale
degli iscritti ad Ordini e Collegi, nell’anno 2003, è pari a circa 1.600.000 professionisti, in leggero aumento (1,6%) rispetto all’anno
precedente, (nota 5 del rapporto: Complessivamente l’indice di femminilizzazione è attorno al 36% ed è perfettamente allineato a
quello medio dell’occupazione complessiva. Enorme è peraltro la varietà della quota di donne a seconda degli Ordini: si va dal
massimo del 98,1% delle ostetriche al minimo del 5,8% degli ingegneri.5. Peraltro, come è stato anche evidenziato6, non c’è
corrispondenza tra iscritti agli Ordini e liberi professionisti attivi. Infatti, mentre possono essere iscritti agli Ordini anche soggetti
non attivi nel mercato del lavoro, possono (debbono) essere iscritti agli Ordini anche lavoratori dipendenti.
La Fonte: elaborazione CNEL su dati CENSIS e ISTAT.
70
E. FAZZALARI-F. P. LUISO, Codice di procedura civile, Milano 2010, art. 384, comma 2, ultimo inciso.
71
F. CARINGELLA – M.A. SEMPREVIVA, Il procedimento amministrativo. Commento organico alla legge 7 agosto 1990, n. 241,
VI ed. Napoli, 2005.
72
F. CARINGELLA – M.A. SEMPREVIVA, op. cit., in varie note.
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Perché, dunque, la Cassazione ha avallato il mancato avvio del procedimento quale atto non necessario.
Così si legge nella motivazione della sentenza :<<Nella specie, in effetti, non sono necessari ulteriori
accertamenti di fatti essendo incontroverso che il Presidente del Consiglio notarile di Brescia, ricevuto
l'esposto di F.S. e sentito costui, senza dare alcuna previa comunicazione ai Dott. F..S. , ha investito il
Consiglio stesso del promovimento del procedimento disciplinare. In ciò non può essere ravvisata una
violazione dell'art. 7 della legge n. 241/1990, il quale limita il proprio ambito di operatività,
escludendone il caso dell'esistenza di “ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di
celerità del procedimento”: esigenze che nella materia di cui qui si tratta sono legislativamente
presupposte dall'art. 153 della legge 89/1913, come sostituito dall'art. 39 del decreto legislativo
249/2006, il quale dispone che “il procedimento è promosso senza indugio, se risultano sussistenti gli
elementi costitutivi di un fatto disciplinarmente rilevante”. Decidendo nel merito, pertanto, deve essere
rigettato il motivo del reclamo proposto dal Dott. F..S. avvero la decisione della Commissione
amministrativa regionale di disciplina per la Lombardia, relativamente alla dedotta violazione dell'art. 7
della legge 7 agosto 1990, n. 241.>>
Occorre, confrontare l’articolo 153, legge notarile con l’art. 7 legge 241/90 e capire perché o quali cause
possono escludere la comunicazione dell’avvio del procedimento.
Statuisce l’art. 153, legge notarile, così come sostituito dall’art. 39 del Decreto Legislativo 1 agosto 2006,
n. 249, quanto segue: << 2. Il procedimento e' promosso senza indugio, se risultano sussistenti gli
elementi costitutivi di un fatto disciplinarmente rilevante>>.
L’art. 7 legge 241/90 descrive le condotte che le Pubbliche Amministrazioni devono seguire in merito
all’apertura di un procedimento amministrativo. In esso si prescrive: << 1. Ove non sussistano ragioni di
impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento
stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi.
Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa
derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento.
2. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell'amministrazione di adottare, anche prima
della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari73.>>.
Stante il combinato disposto delle due norme, non si ravvisa alcuna ragione per non aver comunicato
l’avvio del procedimento al notaio. Avvio che non bloccava l’iter che poi sfociò nella censura.
Il fatto giuridico della violazione di norme relative alla legge 89/1913 era ormai commesso. I presupposti
per l’azione disciplinare erano consolidati da fatti narrati nell’esposto del consumatore. Non è che se si
fosse avviato la comunicazione dell’avvio del procedimento, poteva cambiare qualcosa. La celerità dei
fatti non potevano che essere supportati dalla mancata esposizione del Presidente del Consiglio Notarile
di Brescia alla censura del notaio ricorrente, e che successivamente la Corte ha dovuto motivare.
Motivazione che, in astratto, pur restando in linea con la descrizione della norma, non convince lo
scrivente a potersi capacitare che in una società basata sul diritto non si possa avere la comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Ne, la comunicazione di avvio del procedimento, avrebbe potuto far perdere tempo al Consiglio Notarile
di Brescia, visto che successivamente il detto notaio fu censurato.
L’avvio del procedimento non è altro che una civiltà giuridica che tante volte si dimentica per negligenza
imprudenza e imperizia.
73
http://www.altalex.com/index.php?idnot=550
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SENTENZE DEL GIUDICE DI PACE IN
MATERIA CIVILE E LORO APPELLABILITA’
Cassazione, sez. III, 11 giugno 2012, n. 9432
di Elena Guerri, Avvocato del Foro di Siena e Diplomata in Professioni legali
Sommario: 1. Quaestio Iuris; 2. L’impugnazione delle sentenze del Giudice di pace: la posizione della
dottrina; 2.1. L’impugnazione delle sentenze del Giudice di pace: la giurisprudenza si allinea alla dottrina;
2.2. Segue: Cassazione, sez. III, 11 giugno 2012, n°9432 conferma la giurisprudenza precedente.
1. Quaestio Iuris.
La presente questione giuridica prende le mosse da una vicenda in cui era stata appellata la sentenza del
Giudice di pace che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno in esito ad un sinistro stradale.
L’appello era dichiarato inammissibile perché la causa, di valore inferiore ad Euro 1.100, si era, a detta
della Corte, conclusa con sentenza pronunciata secondo equità e nell’appello non era stata denunciata la
violazione dei principi informatori della materia, essendo un appello a cd. rime obbligate, ai sensi dell’art.
339, comma terzo, cpc.
La sentenza veniva impugnata.
Prima di argomentare la soluzione adottata dalla Suprema Corte, è necessario soffermarsi sulla
posizione di dottrina e giurisprudenza in merito alle impugnazioni delle sentenze pronunciabili dal
Giudice di pace.
2. L’impugnazione delle sentenze del Giudice di pace: la posizione della dottrina.
L’art. 1 del D. Lgs. 40 del 2006, in vigore dal 2 marzo 2006, ha sostituito il terzo comma dell’art. 339
cpc. introducendo il principio per cui le sentenze del Giudice di pace ora sono “appellabili anche se
pronunciate secondo equità per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme
costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia”. Secondo la precedente
formulazione non erano appellabili le sentenze pronunciate dal Giudice di pace secondo equità, ma solo
ricorribili per Cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, cpc.
Adesso, per le sentenze del Giudice di pace pronunciate secondo equità l’appellabilità è consentita,
anche se solo per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o
comunitarie e per violazione dei principi regolatori della materia.
Trattasi di una forma di appello sui generis, a critica vincolata, che ha recepito quanto disposto dalla
sentenza della Consulta n°206 del 2004, che stabilì che il Giudice di pace, anche quando decide secondo
equità, deve rispettare le norme processuali, costituzionali, comunitarie ed i principi ispiratori della
materia. Inoltre, il Tribunale che deve decidere l’appello deve emettere una pronuncia nel merito della lite
secondo diritto. Potrà decidere secondo equità in presenza di un accordo delle parti ai sensi dell’art. 114
cpc.74
La norma di riferimento che abilita il Giudice di Pace a decidere secondo equità, è il secondo comma
dell’art. 113 c.p.c.: “Il Giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede 1.100
Euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui
all'articolo 1342 del codice civile”.
74 Cfr. CONSOLO C., Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume III, Torino, 2010, p. 288.
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Come illustre dottrina rammenta75, il giudizio secondo equità riguarda solo l’individuazione della regola
sostanziale secondo cui risolvere la controversia e non le regole processuali, che restano inalterate.
Quindi, salvo il limite dei contratti conclusi su moduli o formulari con le modalità di cui all’art. 1342 cc.,
il Giudice decide sempre secondo equità se la causa è inferiore al valore di 1.100 Euro.
La prevalente dottrina76 sostiene che, ai fini della appellabilità o ricorribilità in Cassazione, è
determinante solo la circostanza che la domanda sia di valore superiore o inferiore ad Euro 1.100, a nulla
rilevando che la sentenza sia stata pronunciata secondo equità o diritto. Il mezzo di impugnazione
dipende, infatti, dal ritenere o meno la causa oggettivamente tra quelle devolute alla cognizione
equitativa del Giudice di pace e non dall’essere stata decisa in concreto secondo equità o secondo
diritto77.
Alcuni Autori78 sottolineano come, rendendo appellabili tutte le sentenze pronunciate secondo equità
per violazione della Costituzione, del diritto comunitario, dei principi informatori dell’ordinamento e
delle norme processuali, non deve tacersi l’obiettiva difficoltà di trovare sentenze che non saranno
“appellabili” perché non violano tali norme, anche se pronunciate secondo equità. Una delle poche
eccezioni, dovrebbe riferirsi ai giudizi di opposizione alle sanzioni amministrative ex Legge 689/1981,
per i quali espressamente non può applicarsi il giudizio di equità e che sono ricorribili esclusivamente per
Cassazione. Conseguentemente, potrebbe dirsi che “sono appellabili tutte le decisioni del Giudice di pace,
a nulla rilevando se sono pronunciate o meno secondo equità, tranne quelle di opposizione alle sanzioni
amministrative”. Tale interpretazione è data anche dal fatto che non può adottarsi un giudizio
“preventivo” sulla eventuale violazione che giustifica l’appello.
2.1. L’impugnazione delle sentenze del Giudice di pace: la giurisprudenza si allinea alla dottrina.
La Sezione III Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4061 depositata il 21 febbraio
2007, riguardando l’art. 339 cpc. nella formulazione antecedente alla modifica di cui al D.L. 40/2006, si
allinea alla posizione della dottrina: il mezzo di impugnazione proponibile deve essere individuato in
relazione al valore della domanda proposta, e non alla somma liquidata dal Giudice di pace, che
rappresenta il contenuto concreto della decisione. In altre parole, al fine di stabilire se una sentenza del
Giudice di pace sia appellabile o ricorribile in Cassazione si deve fare riferimento al valore della domanda
e non al modo in cui il giudice ha deciso.
Con ciò è stato ribadito il principio già espresso con la sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, n.
13917/06, con cui si era risolto il contrasto esistente tra due orientamenti della giurisprudenza in relazione
all’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile avverso le sentenze del Giudice di pace79, così
stabilendo: “al fine di stabilire se una sentenza del Giudice di pace sia appellabile o ricorribile in
Cassazione si deve fare riferimento, infatti, al valore della domanda e non al modo in cui il giudice ha
deciso, onde nella specie resta irrilevante che la liquidazione del danno nella misura riconosciuta sia
stata fatta espressamente equitativamente, dovendosi qualificare questa liquidazione come avvenuta ai
sensi dell’art.1226 c.c. in causa da decidersi secondo diritto (in termini, da ultimo, per tali principi si
veda Cass. S.U. n.13917 del 2006). È sufficiente, del resto, osservare, che riconoscendo il danno per un
ammontare inferiore a quello richiesto, il Giudice di pace ha deciso anche sulla parte di domanda
relativa alla somma non riconosciuta, ritenendola in ordine ad essa infondata”.
Nel caso di specie, il Giudice di pace ha deciso secondo equità ex art. 1226 cc., ai sensi del quale se il
danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione
75 Si veda PROTO PISANI A., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, p. 209.
76 Cfr. CONSOLO C., op. cit., pp. 287-288.
77Tutte le sentenze del Giudice di pace sono ora appellabili, senza limiti, se pronunciate in cause di valore superiore a 1.100 Euro.
Si veda MANDRIOLI C., Corso di diritto processuale civile. Il processo di cognizione, Volume II, Editio minor, Torino, 2010, p.
241. Scompare così, opportunamente, l’assoggettamento al ricorso per cassazione di controversie bagatellari e, con gli indicati
limiti, se di valore inferiore. Già Cass. 23 settembre 1998 n°9493, aveva ritenuto le sentenze su cause di valore inferiore agli allora
due milioni di lire, impugnabili solo col ricorso per Cassazione, anche se pronunciate secondo diritto o su questioni di rito, mentre le
sentenze in cause di valore superiore erano sempre appellabili, anche se pronunciate secondo equità
78 Cfr. CRAPANZANO C., Brevi considerazioni sulla nuova appellabilità delle pronunce secondo equità emesse dal Giudice di
pace, su www.altalex.com.
79 Si veda DE MARCO G., Appellabilità delle sentenze del giudice di pace: riferimento al valore della domanda. Cassazione
civile, sez. III, sentenza 21.02.2007 n°4061, su www.altalex.com. Il primo orientamento riteneva che il mezzo di impugnazione
dovesse essere determinato in base al contenuto, al valore della domanda. Tale posizione si fondava a sua volta su alcune decisioni
delle S.U. della Cassazione Civile, tra cui le sentenze nn. 9493/1998 e 12542 del 14.12.1998; quest’ultima in particolare aveva
stabilito che la sentenza del Giudice di pace sarà appellabile qualora abbia deciso una controversia di valore superiore a lire due
milioni (oggi, Euro 1.100,00) e ciò anche nell’ipotesi in cui abbia erroneamente pronunciato secondo equità e non secondo diritto.
Lo stesso criterio era stato ribadito nelle sentenze S.U. Cassaz. Civ. n. 803/1999; n. 16162/2002; n. 11701/2005 (quest’ultima
ribadiva lo stesso principio relativo al solo contenuto della domanda, sia essa principale che riconvenzionale). Il secondo
orientamento faceva riferimento al c.d. principio dell’apparenza, secondo cui la scelta del mezzo di impugnazione dipendeva dalla
qualificazione giuridica data dal giudice all’azione.
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equitativa. A questo riguardo va tenuto presente che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il
danno in via equitativa è espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cpc. e dà luogo non ad un
giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto, caratterizzato dalla c. d. equità correttiva od integrativa e
non sostitutiva come quella ai sensi dell’art. 113, comma secondo cpc80. Il giudice, in questo caso, applica
una norma di legge: solo una parte della liquidazione del danno è rimessa al giudizio equitativo del
giudice e non l’intera fattispecie81.
2.2. Segue: Cassazione, sez. III, 11 giugno 2012, n°9432 conferma la giurisprudenza precedente.
La sentenza del Giudice di pace era appellata lamentando la non corretta riconduzione della domanda in
quella che il Giudice di pace decide secondo equità, dovendosi, invece, ritenere la domanda di
risarcimento proposta senza precisazione di quantum e, quindi, nei limiti della competenza per valore del
giudice adito (Euro 15.493,71, ex art. 7, secondo comma, cpc., applicabile ratione temporis), ai sensi
dell'art. 14 cpc.
La Cassazione ritiene che la domanda sia stata erroneamente ricondotta tra quelle che il Giudice di pace
decide secondo equità, accogliendo il ricorso sulla base delle argomentazioni che seguono.
Preliminarmente, la dichiarazione per il contributo unificato non ha incidenza nella determinazione del
valore della causa ai fini della competenza. La Suprema Corte (Cass.13 luglio 2007, n. 15714), infatti, ha
affermato che la circostanza che il comma 2 dell'art. 14 del D.P.R. n. 115 del 2002 escluda la rilevanza
degli interessi per la individuazione del valore ai fini del contributo unificato, mentre essi siano
considerati, dall'art. 10, secondo comma, cpc., rilevanti ai fini dell'individuazione del valore della
domanda ed il fatto che la dichiarazione della parte in funzione della determinazione del contributo
unificato sia indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo, escludono
decisamente ogni possibile partecipazione di tale dichiarazione di valore alle conclusioni della citazione,
cui allude il n. 4 dell'art. 163 e, quindi, la possibilità di considerare la dichiarazione come parte della
"domanda", nel senso cui vi allude il primo comma dell'art. 10 citato, quando dice che “il valore della
causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti” e fra
queste dell'art. 14 cpc.
In secondo luogo, rammenta i principi, elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, in tema
d’impugnazione delle sentenze del Giudice di pace, non appellabili, ma ricorribili per Cassazione, in base
al combinato disposto dagli artt. 339, terzo comma, e 113, secondo comma, cpc., prima della modifica
operata con il D.Lgs. n. 40 del 2006.
La Corte di Cass. 18 gennaio 2005, n. 899, ha affermato, che “sono da ritenersi inappellabili tutte le
sentenze pronunciate dal Giudice di pace in controversie non eccedenti il valore previsto, a prescindere
dal fatto che esse siano pronunciate secondo diritto o secondo equità, a tal fine dovendo considerarsi non
il contenuto della decisione ma, solamente, il valore della controversia, da determinarsi applicando
analogicamente le norme di cui agli art. 10 e segg. cpc. in tema di competenza” .
Ne consegue che, quando la controversia abbia ad oggetto una somma di denaro non determinata ma
orientativamente indicata in “quella maggiore o minore conforme a giustizia”, essendo indeterminata la
domanda, si presume, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 14 cpc., pari al limite massimo della
competenza per valore del giudice adito, rimanendo escluso che essa possa considerarsi resa in base ad
equità (es. Cass. n. 899 del 2005;“In caso di domanda di risarcimento del danno da circolazione stradale
proposta davanti al Giudice di pace, il valore della causa, per stabilire se la stessa debba essere decisa
secondo equità va individuato applicando le norme relative alla competenza per valore, con la
conseguenza che, se la parte, oltre ad indicare una somma specifica non superiore, abbia anche
richiesto, in via alternativa o subordinata, una somma maggiore, da determinarsi in corso di causa, il
valore della causa, in forza del principio stabilito dall'art. 14 cpc., si deve presumere, in difetto di
tempestiva contestazione, nei limiti della competenza del giudice adito, (ai sensi dell'art. 7 cpc.)”, Cass.
20 settembre 2002, n. 13795) e, cioè, in ragione della natura della domanda, in misura al di sopra del
limite della giurisdizione equitativa82.
La dottrina83 ricorda come le sentenze pronunciate nelle cause di valore indeterminato ed in relazione
alle quali l’attore non abbia dichiarato inequivocabilmente di voler contenere il valore entro il limite di
80 Si veda DE MARCO G., cit.
81 Cfr. PROTO PISANI A., op. cit., p. 210.
82 Nel caso di specie, nell'atto introduttivo il danno all'autovettura veniva quantificato in Euro 900,00 e nelle conclusioni dello
stesso atto venivano chiesti tutti i danni (compreso quello di fermo tecnico, quantificato in Euro 150 in sede di precisazione delle
conclusioni), oltre interessi e svalutazione, comunque nella misura quantificata secondo giustizia. Che la clausola “secondo
giustizia” non sia di stile (Cass. 26 luglio 2011, n. 16318) si desume dalle risultanze di causa; basti considerare la richiesta di
interessi e rivalutazione sull'importo quantificato nella domanda.
83 Cfr. MANDRIOLI C., op. cit., p. 241.
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1.100 Euro, nelle quali perciò il valore è presunto nei limiti della competenza per valore del Giudice di
pace, sono appellabili senza limiti.
In conclusione, il principio di diritto enunciato dalla Corte è il seguente:
“Ai fini della ammissibilità dell'appello a rime obbligate, previsto, per le sentenze pronunciate dal
Giudice di pace secondo equità (art. 113, secondo comma cpc.), nei limiti di cui all'art. 339, terzo
comma, cpc., (come novellato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile ratione temporis), non rileva
se le suddette sentenze siano pronunciate secondo diritto o secondo equità, ma il valore della
controversia, da determinarsi - indipendentemente dal valore dichiarato per il contributo unificato applicando analogicamente le norme di cui agli art. 10 e segg. cpc. in tema di competenza. Di
conseguenza, in presenza di una domanda determinata nell'ammontare, inferiore al limite quantitativo
previsto per la giurisdizione di equità, che si accompagni ad una richiesta generica di maggior somma
conforme a giustizia (salvo che quest'ultima possa considerarsi mera clausola di stile sulla base delle
risultanze di causa), essendo indeterminata la somma richiesta, la domanda, in difetto di tempestiva
contestazione, si presume, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 14 cpc., pari al limite massimo della
competenza per valore del giudice adito in ragione della natura della domanda (art. 7 cpc.) e, quindi,
nella misura al di sopra del limite della giurisdizione equitativa. Consegue l'appellabilità secondo le
regole generali e non nei limiti di cui all'art. 339 cit.”.
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SOCIETA’ A RESPONSABILITA’ LIMITATA A
CAPITALE RIDOTTO
Parere 182223 del 30/08/2012 del mise: (art. 44 d.l. 83/2012,
convertito con modificazioni, dalla legge 134/2012) –integrazioni del
proprio parere del 31/07/2012, prot. n. 170741
Mauro Giarrizzo
Il decreto legge 83/2012, all’art. 44, ha disciplinato altro tipo di società a responsabilità limitata. In detto
articolo si dispone, come descritto nella medesima norma, che il capitale sociale deve rientrare tra un
minimo di 1 euro ed un massimo di 9.999,99 euro, e la dizione di S.R.L. a capitale ridotto (d’ora in poi
S.R.L.C.R.).
Nell’articolo 44 del Decreto Legge, si intravedono analogie con l’art. 2463-bis (società a responsabilità
limitata semplificata) del Codice Civile, già disposta dal Legislatore Societario. Norma che fece alterare i
Notai84 per aver disposto, il Legislatore, la mancanza di onorari a carico di questi e di altri costi spalmati
sul tessuto sociale.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, (d’ora in poi MISE), è già intervenuto sulla materia, con due
pareri, al fine di dirimere i problemi tecnici che le varie Camere di Commercio hanno segnalato, visto
che, come al solito, si pensa a fare le riforme e a non aggiornare i software in uso e possesso dei vari Enti
Pubblici.
Punto interessante dello stesso parere reso per la seconda volta e ad integrazione del primo, appare il
limite di età. La norma che ha disposto la S.R.L.C.R., aveva introdotto il limite di età, a trentacinque anni,
così come già disciplinato per l’art. 2463-bis.
Limite che, a parere del MISE, è <<decettivo>>, e che incoraggia coloro che si vogliono avventurare in
una nuova attività commerciale.
La norma descrive il criterio oggettivo per identificare i soggetti ammessi ai benefici disposti dal
Legislatore. In detta norma, al comma 1, si dispone: <<Fermo quanto disposto dall’articolo 2463-bis del
codice civile, la società a responsabilità limitata a captale ridotto può essere costituita con contratto o
atto unilaterale da persone fisiche che abbiano compiuto i trentacinque anni di età alla data della
costituzione.85>>
Il Legislatore della conversione, aggiungendo un ulteriore comma, il 4-bis, ha voluto concedere ulteriori
benefici ai giovani di età inferiore a 35 anni, ammettendoli al credito agevolato.
Il parere reso alla Camera di Commercio di Cosenza, amplifica la portata della norma ed estende
l’iscrizione ed i benefici di natura anche economica, a mezzo dell’<<accordo con l’Associazione
bancaria italiana per fornire credito a condizioni agevolate86>>, anche ai giovani di età superiori a 35
anni. Così si legge nel secondo parere << Se, infatti, ai sensi di detto comma, la s.r.l. a capitale ridotto
"può essere costituita (... ) da persone fisiche che abbiano compiuto i trentacinque anni di età alla data
della costituzione"; e se, ne contempo, ai sensi del c. 4-bis, i giovani di età inferiore a trentacinque anni
possono intraprendere "l'attività imprenditoriale attraverso la costituzione di una società a
responsabilità limitata a capitale ridotto"; sembra doversene dedurre che il primo comma, seppure
attraverso una formulazione francamente decettiva, intende esprimere il concetto che la s.r.l. a capitale
84
http://www.notariato.it/export/sites/default/it/notariato/sala-stampa/comunicati-stampa/archive/pdfcomunicati/CoS_SRLS_new.pdf Il Consiglio Nazionale del Notariato, ha affidato, a un Comunicato stampa del 29/08/2012, la
propria decisione.
85
www.senato..it
86
Vedasi parere 182223 DEL 30/08/2012 Ministero dello Sviluppo Economico.
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ridotto può essere costituita sia da persone fisiche di età inferiore, sia da persone fisiche di età superiore
ai 35 anni.>>
La costituzione della S.R.L.C.R., può essere costituita, con i normali costi che si sopportano per la S.R.L.
ordinaria, visto che la nuova norma introdotta dall’art. 44 del D.L. 83/2012 come convertito in legge
134/2012, non ha previsto i benefici di cui all’art. 2463-bis, in merito all’esenzione degli onorari notarili
e di quelli da imposta di bollo e di diritti di segreteria87. Lo stesso primo parere n. 170741 del 31/07/2012
del MISE, al penultimo capoverso, ne afferma la mancanza.
La novità apportata dall’art. 2643-bis codice civile, per la costituzione della SRL semplificata, impone
l’obbligo di attenersi al modello, di atto costitutivo, stabilito dal Ministero della Giustizia, di concerto
con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, e con il Ministero dello Sviluppo Economico. Statuto
emanato con circa tre mesi di ritardo.
In base al primo comma dell’art. 44 della Decreto Legge 83/2012, la S.R.L.C.R. può essere costituita,
<<fermo quanto previsto dall’art. 2643-bis, C.C.>>, cioè con il modello standard che è stato elaborato, di
concerto tra i Ministri della Giustizia, dell’Economia e delle Finanze, e dello Sviluppo Economico,
nell’allegato 1, al Decreto 23 giugno 2012, n. 138, (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14-82012), e che sicuramente dovrà essere rivisto per vestire bene anche alla S.R.L.C.R..
Mi chiedo: ma cosa si poteva iscrivere nel Registro di cui all’art. 11, comma 6, D.P.R. 581/95, se l’atto
costitutivo per la S.R.L. semplificata, richiamato dall’art. 44, comma 1, del D.L. 83/2012, (e cioè
<<fermo quanto previsto dall’art. 2643-bis, C.C.>> ), è stato emanato il 14/08/2012? Forse una S.R.L.
ordinaria, con il requisito minimo del 25% del capitale sottoscritto e versato (cioè 2.500,00 euro), come
disposto dall’art. 2464, comma 4, C.C., o infine una SRLCR inesistente per mancanza dei requisiti
formali.
Il secondo comma dell’art. 2643-bis descrive il seguente comportamento:
<<L'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico in conformità al modello standard
tipizzato con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle
finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, e deve indicare88:…omissis…>>
Dal combinato disposto delle due norme, si può osservare, prudentemente, che per la costituzione della
S.R.L.C.R., occorre atto costitutivo, simile o uguale, a quello disposto dai Ministeri, in data 14/08/2012.
87
88
Vedasi la nota n. 1.
http://datastorage02.maggioli.it/data/docs/moduli.maggioli.it/027.pdf
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Diritto e Processo del Lavoro
LA NUOVA DISCIPLINA DELLE DIMISSIONI
DOPO LA LEGGE 92/2012
Bruno Olivieri
La Legge 92/2012 (Legge Fornero) ha stabilito che, con decorrenza dal 18 Luglio 2012, i lavoratori che
vorranno dimettersi o di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro con il proprio datore di
lavoro dovranno confermare le dimissioni attraverso varie procedure che possano dare contezza della
data effettiva di dimissioni e della volontà del lavoratore nel voler risolvere il rapporto di lavoro al fine di
eliminare l’ormai diffuso fenomeno delle “dimissione in bianco”. La convalida, in definitiva, viene
considerata quale “conditio sine qua non” per rendere efficace la risoluzione del rapporto di lavoro, che
nel frattempo rimane sospesa all’adempimento convalidativo.
I soggetti abilitati alla convalida delle dimissioni sono:
1. Direzione territoriale del lavoro, competente per territorio;
2. Centro per l’impiego, competente per territorio;
3. Sottoscrizione di apposita dichiarazione apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della
comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro (COT).
Il datore di lavoro deve verificare che il lavoratore adempia alla convalida aspettando la consegna
delle dimissioni convalidate dalla DTL o dal CPI.
In caso di dimissioni prive di convalida sarà obbligato a convocare, entro 30 giorni dalla data delle
dimissioni, il lavoratore attraverso un invito scritto e recapitato presso il domicilio del lavoratore stesso
o nelle sue proprie mani. L’invito dovrà contenere la ricevuta di trasmissione della comunicazione di
cessazione al Centro per l’Impiego.
A questo punto il lavoratore ha 7 giorni di tempo, dalla ricezione dell’invito, per recarsi presso il proprio
datore di lavoro o altro soggetto abilitato alla convalida. Nel caso non provveda, entro il suddetto termine,
non potrà più far valere la mancata attuazione delle procedure previste dalla nuova norma per invalidare
la cessazione del rapporto di lavoro.
Entro questo stesso termine di sette giorni il lavoratore avrà anche il DIRITTO AL RIPENSAMENTO,
comunicando verbalmente o per iscritto la propria volontà di non voler più volontariamente
rescindere il rapporto di lavoro.
Il datore di lavoro che utilizzerà le dimissioni in bianco simulerà le dimissioni o la risoluzione
consensuale del rapporto, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 30.000 euro.
L’accertamento e l’irrogazione della sanzione sono di competenza esclusiva degli ispettori del Ministero
del lavoro.
.
DIRITTO e PROCESSO Formazione
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Diritto e Processo Penale
L’IMPOSSIBILITA’ SOPRAVVENUTA DI
RIPETIZIONE DEGLI ATTI NEL
DIBATTIMENTO PENALE, DEROGA O
VIOLAZIONE DEL CONTRADDITORIO?
L’ASSOLUTA INDISPENSABILITA’ DELLA CASSAZIONE DI AFFERMARE
I PRECETTI COSTITUZIONALI
di Michele Di Iesu, avvocato penalista,dottorando di ricerca in comparazione e diritti della
persona,giudice onorario di tribunale.
L’art. 512 c.p.p. già nella sua formulazione originaria, evidenziava un meccanismo di operatività
estremamente delicato, perché la lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione, costituiva (e
costituisce) una evenienza che rompe lo schema della normalità, essendo rappresentato dal verificarsi di
“fatti o circostanze imprevedibili” che, arrestano la messa in opera della formazione orale della prova che
viene proprio, perciò, surrogata dalla lettura. Una attenta giurisprudenza di merito aveva avvertito che il
concetto di imprevedibilità ex art. 512 c.p.p. non deve costituire un mezzo attraverso il quale
surrettiziamente si sostituisce l’esame con la lettura. Infatti, in caso contrario, poiché attraverso il
meccanismo delle letture le dichiarazioni rese al pubblico ministero dai testi entrano tra le prove
“legittimamente acquisite nel dibattimento”, prove che il giudice “può utilizzare ai fini della
deliberazione” ex art. 526 c.p.p. ,verrebbe sovvertito il principio fondamentale del codice di procedura
penale che prevede la formazione della prova in dibattimento89. Tale regola è stata, però in alcuni casi
intaccata poiché l’elenco degli atti leggibili si è gradatamente allungato nel corso degli anni grazie anche
ad interpretazioni giurisprudenziali che ne hanno stravolto l’effettiva portata: così ai soli atti del pubblico
ministero sono andati ad aggiungersi, nel testo definitivo del codice, gli atti assunti dalla polizia
giudiziaria, la cui lettura inizialmente non era consentita90. L’ampliamento è coerente con maggior peso
che la nuova normativa ha voluto complessivamente attribuire all’attività di indagine della polizia
giudiziaria. Tuttavia, quest’ultima previsione aveva suscitato forti dubbi, perché introdotta senza
ripristinare il divieto inizialmente posto dal comma 4 dell’art. 195 c.p.p. e successivamente censurato
dalla sentenza n.24 del 1992, con la conseguenza di rendere utilizzabile la testimonianza dell’ufficiale o
89
90
Pret. Torino, ord. 29 gennaio 1991, in Dif. Pen., 1992, n. 34, p. 87, n. 250.
Trib. Torino, ord. 14 maggio 1991, in Dif. Pen., 1992, n. 34, pp. 86-87, n. 249.
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agente di polizia anche se l’impossibilità di escutere il teste diretto fosse stata ex ante prevedibile91. A
tutto ciò ha posto rimedio la legge 63/2001 che ha ripristinato il parte il divieto, operante, adesso, quante
volte la deposizione sia stata formalmente raccolta. L’art. 512 c.p.p., come già detto in precedenza, ha
subito interpretazioni tendenti dilatare oltremodo il raggio applicativo, fino a ricomprendervi tutti gli atti
di polizia giudiziaria, pure la “Chiamata di correo… in considerazione della situazione di eccezionalità
che si viene a creare” in vista “dell’accertamento della verità, ogni qualvolta si sia verificato un caso di
subentrata non reiterabilità”. Secondo la Cassazione, non vi sarebbero “validi motivi per discriminare e
ridurre la categoria degli atti utilizzabili in chiave probatoria, poiché… lo stesso legislatore non ha inteso
specificare quali siano gli atti assunti dalla polizia giudiziaria suscettibili di essere acquisiti”92. Dal canto
suo, la Corte Costituzionale seguendo un opinabile orientamento giurisprudenziale e dottrinale, non ha
esitato a far rientrare fra gli atti “assunti” dalla polizia giudiziaria, e quindi leggibili ai sensi dell’art. 512
c.p.p., il verbale contenente la denuncia- querela in caso di decesso imprevedibile del querelante o di sua
irreperibilità93. Può essere utile ricordare che la stessa Corte ha risolto in senso favorevole alla lettura ex
art. 512 c.p.p. il caso delle dichiarazioni rese in precedenza alla polizia giudiziaria da un testimone, che
poi non potè essere interrogato in dibattimento per una sopravvenuta amnesia94. Sulla scorta di tale
indirizzo, si era venuto formando in dottrina un orientamento tendente ad ampliare il concetto di
irripetibilità sopravvenuta fino ad estenderlo al caso del testimone che in dibattimento si fosse avvalso
della facoltà di non rispondere o avesse eccepito di non ricordare95. Orientamento reso del tutto privo di
fondamento della già citata legge 63/2001 che in tema di “contestazioni dell’esame testimoniale” ha
ripristinato la regola del metodo dialogico, con la nostalgia di quanti non si rassegnavano all’idea che le
dichiarazioni rese nella fase delle indagini potessero essere del tutte escluse dal patrimonio valutativo del
giudice in virtù di una pressoché libera scelta del dichiarante di rendere in dibattimento dichiarazioni
anche soltanto “difformi” rispetto a quelle rese in precedenza. Finalmente, il difensore dell’indagato, con
la legge 7 dicembre 2000, n.397 vede delineati e riconosciuti quei poteri investigativi solamente abbozzati
nell’abrogato art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice: ed ecco così leggibili, ai sensi dell’art.
512 c.p.p., i risultati delle indagini difensive96( anche se ad oggi la legge in esame, non consente ad avviso
di chi scrive, di rispondere allo scopo per la quale è stata promulgata cioè: parità tra accusa e difesa). Un
riferimento particolare va fatto alla posizione dei prossimi congiunti che hanno diritto di astensione,
91
Faceva notare P. Ferrua, Anamorfosi del processo accusatorio, in Id., Studi sul processo penale. II.
Anamorfosi del processo accusatorio, cit., p. 160, come la Corte, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 195 comma 4 c.p.p.,
fosse inconsapevole di “consentire la testimonianza indiretta non solo nei casi di irripetibilità della testimonianza diretta, ma anche
in aggiunta a questa, anzi prima di questa”. In tal caso, all’esame del testimone diretto, accompagnato dall’eventuale contestazione
delle precedenti dichiarazioni contenute nel verbale, poteva aggiungersi l’esame del verbalizzante, che era autorizzato a servirsi del
medesimo documento in aiuto alla memoria: dando luogo, in sostanza, ad una lettura, destinata però ad avere lo stesso valore delle
dichiarazioni orali del testimone. A suo parere, sarebbe stato “assai meno sconvolgente dichiarare l’illegittimità dell’art. 512 c.p.p.”,
nella parte in cui non prevedeva la lettura degli atti di polizia giudiziaria “imprevedibilmente irripetibili”.
92
S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, cit., 99. 90-91.
93
Corte Cost., ord. 12 aprile 1996 n.114, in Giur. Cost., 1996, p. 993. Per l’orientamento giurisprudenziale v., Cass., sez. II, 15
maggio 1996, Vassiliev, in Arch., n. proc. Pen. , 1997, 1997, p. 76, (“dopo la novella… del 1992… della querela- denuncia
presentata alla polizia giudiziaria da persona poi resasi irreperibile, può essere data lettura da parte del giudice a norma dell’art.
512”) e, analogamente, Cass., sez. V, 18 maggio 1993, Vitalizi, in Arch., n.. proc. Pen., 1993, p. 780. Ove si evidenzia “che la
norma in questione costituisce anche deroga al disposto” dell’art. 511 comma 4 c.p.p. Condivide queste decisioni anche G. Garuti,
Utilizzabilità delle dichiarazioni orali di querela, in Riv. it , dir. Proc. Pen., 1996, p. 864, il quale afferma che gli artt. 511 comma 4
e 512 c.p.p. “anche se riferibili entrambi al regime delle letture, continuano ad avere ambiti di applicazione… distinti”.
94
Corte Cost., ord. 19 gennaio n. 20, in Cass. Pen., 1995, p. 1145, m. 689: “la questione sollevata si fonda sull’assunto, propugnato
dal giudice a quo, in base al quale l’art. 512 c.p.p. non comprenderebbe tra i fatti o circostanze prevedibili che comportano
l’impossibilità di ripetizione dell’atto anche l’alterazione patologica determinante nel teste un’assoluta amnesia sui fatti del giudizio.
Tale interpretazione non può assolutamente essere condivisa quanto da una piana lettura dell’art. 512 c.p.p. emerge che, ai fini della
legittimità della lettura, la norma postula la sola condizione della impossibilità di ripetizione degli atti a motivo di fatti o circostanze
imprevedibili, fra i quali nulla autorizza ad eludere una infermità del teste (da verificarsi sulla base di accertamenti che spetta al
giudice del dibattimento valutare) determinante l’assoluta amnesia dei fatti di causa. Tale conclusione è ulteriormente suffragata dal
coordinamento sistematico dlel’art. 512 c.p.p. con il comma terzo dell’art. 195 c.p.p., il quale espressamente prevede lo strumento
della testimonianza indiretta in caso di infermità del teste diretto che ne renda impossibile l’esame”.
95
G. Illuminati , La Giurisprudenza costituzionale in tema di oralità e contraddittorio, in I nuovi binari del processo penale tra
giurisprudenza costituzionale e riforme, Milano, 1996, p. 74. Di diverso avviso C. Castellani, sub art. 462, in Commentario breve al
codice di procedura penale, a cura di G. Conso -V. Grevi, Padova, 1987, p. 1226, il quale sosteneva che per potersi procedere
all’acquisizione integrale delle pregresse dichiarazioni, ai sensi dell’art. 512 c.p.p., l’amnesia andava intesa come inabilità a deporre,
ovvero come “situazione patologica irreversibile da dimostrare sulla base di certificati medici equipollenti”; e in giurisprudenza,
Cass., sez. III, 2 febbraio 1995, De Tutti, in Cass. Pen. 1996, p. 2623, m. 1502, secondo la quale, nel caso in cui il teste avesse
eccepito di non ricordare, continuava ad applicarsi l’art. 500 comma 2 bis c.p.p., poiché “si trattava sempre di una totale o parziale
mancanza di risposta e di una divergenza rispetto alle risultanze delle indagini preliminari”. Mentre per S. Buzzelli, Le letture
dibattimentali, cit.,p. 94, su tale delicato tema era raccomandabile un atteggiamento dettato da maggiore prudenza, onde evitare di
ridurre il valore del disposto di cui al comma 2 bis dell’art. 500 c.p.p.
96
Prima dell’entrata in vigore della legge 397/2000, la maggioranza della dottrina concordava sul fatto che l’art. 512 c.p.p. inibiva
la lettura delle dichiarazioni assunta dal difensore ai sensi dell’art. 38 norme att. c.p.p.
DIRITTO e PROCESSO Formazione
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perché è da segnalare un primo intervento della Consulta con cui si era stabilito che si poteva dare lettura
delle dichiarazioni rese da persona che aveva diritto di astenersi e che, ritualmente avvertiva a pena di
nullità di questa sua facoltà in sede predibattimentale (art. 199 comma 2 c.p.p.)97, aveva deciso di deporre
in quella sede98. Se la stessa persona in sede dibattimentale, nuovamente avvertita della facoltà di
astensione, dichiarava di non voler rendere la deposizione con l’esercizio di tale suo diritto, si poneva il
problema dell’eventuale utilizzabilità dei quelle sue dichiarazioni antecedenti. Ebbene, va detto che la
Consulta, anche alla luce delle sentenze nn. 254 e 255 del 1992 e del principio di non dispersione dei
messi di prova in essere affermato, aveva ritenuto che si poteva dare lettura di quelle dichiarazioni
nell’ambito della regola posta nell’art. 512 c.p.p., affermandosi che quella ipotesi rientrava tra quelle ivi
considerate, non essendo possibile in quel momento anteriore prevedere quale sia stato, poi, il
comportamento del testimone. “L’acquisizione della prova testimoniale legittimamente assunta non può
essere condizionata dall’eventualità di una successiva astensione: non esiste nell’ordinamento una
disposizione che autorizzi una interpretazione del genere”. Così la Corte aveva motivato la propria
decisione99. Non sarebbe stato, invece, possibile fare ricorso al sistema della c.d. lettura per le
contestazioni (precedente art. 500 comma 2 bis c.p.p.) in quanto con la dichiarazione di astensione il
prossimo congiunto non assumeva nemmeno la qualità di testimone100. La premessa della tesi era nella
esatta individuazione delle regioni per le quali il legislatore ammette il diritto del prossimo congiunto
all’astensione, nella considerazione, cioè, di quella che il Carnelutti sin dal 1960 ebbe per primo ad
indicare come tutela “segreto familiare”101. L’art. 512 c.p.p. fu così ritenuto idoneo a comprendere tra i
fatti (o le circostanze) imprevedibili che rendono impossibile la ripetizione dell’atto anche quelli che, pur
se dipendenti dalla volontà del dichiarante (come nel caso disciplinato dall’art. 199 c.p.p.), di fatto
determinano comunque l’impossibilità di procedere all’esame dibattimentale. Orbene, la Corte,
discostandosi dal proprio precedente orientamento, ha ritenuto che, alla luce della nuova formulazione
dell’art. 111 Cost., l’art. 512 c.p.p. deve essere interpretato nel senso che non è consentito dare lettura
delle dichiarazioni in precedenza rese dai prossimi congiunti dell’imputato che in dibattimento si
avvalgono della facoltà di astenersi dal deporre a norma dell’art. 199 c.p.p., in quanto tale situazione non
rientra tra le cause di natura oggettiva di impossibilità di formazione della prova in contraddittorio102. E
quanto precede perché, a parere della Consulta, i novellati commi 4 e 5 dell’art. 111 Cost., ammettono la
deroga al principio generale esclusivamente qualora l’impossibilità di ripetizione dipenda da fatti
indipendenti dalla volontà del dichiarante103. Circostanze oggettive, quindi104. Invero, onde fornire
97
L’omesso avvertimento darebbe luogo “a nullità soltanto relativa, che come tale, non è rilevabile d’ufficio e può essere dedotta, a
pena di decadenza, esclusivamente nei termini previsti dall’art. 181 c.p.p., risultando comunque sanata nel caso in cui l’imputato
abbia accettato gli effetti della deposizione”( Cass., sez., V, 17 novembre 1998, Bonotti, in Gazz. Giur., 1999, n. 13, p. 29). Per
quanto concerne le modalità ed il contenuto dell’avviso, si ritiene tuttora valido quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui,
pur non richiedendosi l’uso di espressioni sacramentali, esso deve essere rivolto all’interessato in forma esplicita ed univoca, in
modo da focalizzare l’attenzione del teste sulla possibilità di avvalersi del diritto di astensione e di evitare l’alternativa tra il
danneggiare un congiunto col riferire la verità o dire il falso richiamando l’incriminazione per falsa testimonianza, G. Ichino, La
facoltà di astensione dei prossimi congiunti, in Cass. Pen., 1993, p. 1588, n. 950.
98
La Corte Costituzionale con la sent. 16 maggio 1994 n. 179, in Giur. Cost., 1994, p. 1589 ss., ha dichiarato non fondata la
questione di legittimità degli artt. 500 comma 2 bis e 512 c.p.p., nella parte in cui non consentono di contestare o di dare lettura delle
dichiarazioni rese, nelle fasi antecedenti il dibattimento, da prossimi congiunti, citati come testi, che si siano avvalsi nel giudizio
della facoltà di non rispondere. A proposito di tale sentenza, c. in dottrina Pitton, Segreto domestico, facoltà di astensione e
utilizzazione dibattimentale, in Giur. Cost., 1994, p. 1595; Cenci, Contestazione dell’esame testimoniale e facoltà di attenzione dei
prossimi congiunti, ivi, p. 1601; Giarda, Le leggi della fisica e quelle del processo, in Il corr. Giur., 1994, p. 963. In tema di facoltà
di astenersi dal testimoniare dei prossimi congiunti, v. Di Martino, Prove testimoniale (II d.p.p.), in Enc. Giur. Treccani, 1991;
Ichino, La facoltà di astensione dei prossimi congiunti, cit., p. 1587; Spangher, in Commento al nuovo codice di procedura penale,
coordinato da Chiavario, vol. II, Utet, 1990, p.455.
99
Per S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, cit., pp. 96-97, la Corte Cost., con questa decisione, oscurava “il canone della non
rinviabilità al dibattimento fondante la richiesta di incidente probatorio e quello dell’art. 512 c.p.p. che permette di leggere quanto
divenuto imprevedibilmente irripetibile: è sulla base di questi criteri che va acquisito il dictum del prossimo congiunto, dopo aver
controllato che le dichiarazioni siano state assunte nelle sedi predibattimentali con il rispetto delle regole probatorie”.
100
Così Cass., sez. I, 23 ottobre 1996, Mauro e altro, in Riv. Pen., 1997, p. 340
101
F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 198. Per la Corte Costituzionale “si tratta di ragioni consistenti nella
tutela del sentimento familiare (latamente inteso), e nel riconoscimento del conflitto che può determinarsi, in colui che è chiamato a
rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto.
Nondimeno, nel riconoscere prevalenti, e quindi nel tutelare tali motivi di ordine affettivo, il legislatore non ha stabilito un criterio
assoluto- quale sarebbe stato, ad esempio, il divieto di testimoniare- ma ha accordato la facoltà di astenersi dal deporre solo se, e in
quanto, l’interessato reputi di non dovere, o non potere, superare quel conflitto”(Corte Cost., sent. 16 maggio 1994 m. 179, in Cass.
Pen., 1994, p. 2389, m. 1465).
102
Corte Cost., sent. 12-25 ottobre 2000 n. 440, Mirabelli-Neppi Modona, in Cass. Pen., 2001, p. 35, m. 12.
103
V. Bricchetti, Sull’attuazione del principio del contraddittorio la Corte Costituzionale lascia spazio al Parlamento, in Giuda dir.,
2000, n. 41, p. 107. L’autore afferma che la Consulta abbia risolto la questione postale dalla corte di merito “evitando affermazioni
che possano, in qualche modo, rendere ancora più difficoltoso il già travagliato iter parlamentare d’approvazione della legge
d’attuazione” del c.d. Giusto processo. Cfr., anche, Marzaduri, sub art. 1 della legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in Leg.
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riscontro al proprio pensiero, la Corte riflette sul contenuto del comma 4 dell’art. 111 Cost., ove si
stabilisce che “il processo penale è regolato dal principio contraddittorio” e che “la consapevolezza
dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre
volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”. Da tale precetto i
giudici della Consulta fanno discendere che , il generico riferimento a “chi”, contenuto nella norma,
debba essere inteso come “chiunque” si sia sottratto ecc., con ciò significandosi che la volontà del
prossimo congiunto- dichiarante, a causa della particolarità della sua posizione processuale, integri, di
conseguenza, il contenuto del disposto costituzionale105. Uno dei casi ricorrenti, invece, ha avuto una sua
specifica disciplina, si tratta delle dichiarazioni rese da una cittadino straniero all’estero (si pensi
all’esempio di un turista francese che ne corso delle sue vacanze in Italia rimane testimone di un
omicidio). Ai fini dell’utilizzabilità probatoria di tali dichiarazioni, la creazione di una disposizione ad
hoc si rendeva necessaria, per la inidoneità allo scopo dell’art. 512 c.p.p. Del tutto grossolana sarebbe
stata l’interpretazione che avesse assunto la mancata presentazione del teste straniero nella categoria
dell’irripetibilità sopravvenuta. Ed infatti, l’irripetibilità del cittadino straniero residente all’estero e privo
di relazioni stabili con il territorio italiano sembrava porsi quale eventualità prevedibile sul piano
anzitutto logico, dal che derivava l’implausibilità di una riconduzione dell’ipotesi all’interno dei requisiti
di sopravvivenza ed imprevedibilità prescritti dall’art. 512 c.p.p. L’art. 512 bis c.p.p. introdotto dalle
legge 7 agosto 1992 n.356106, in stretta colleganza con l’art. 431 comma 1 lett. d) c.p.p. “al fine di evitare
l’usura ingiustificata dei testimoni”107, consentiva al giudice di disporre, a richiesta di parte, la lettura dei
verbali di dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all’estero, non citato per il dibattimento o, se
citato, non comparso. Tuttavia, l’inserimento di tale norma finiva con l’oltrepassare i limiti applicativi
propri dell’art. 512 c.p.p. Soprattutto nel caso di mancata citazione, ed in modo invero eclatante, la
disposizione si dispiegava in tutta la sua elasticità, consentendo la lettura dei verbali chiaramente al di
fuori del consueto determinarsi di una circostanza imprevedibile di rendere impossibile la ripetizione
dell’atto108. In altre parole, veniva ad introdursi una chiara presunzione di irripetibilità dell’atto109,
venendo concessa alla parte, e in particolare al magistrato del pubblico ministero, la possibilità di evitare
deliberatamente la citazione del teste nella consapevolezza della leggibilità dell’atto110. Vero è che i
criteri applicativi dell’art. 512 c.p.p. venivano parzialmente differenziati rispetto alle altre ipotesi di
lettura, anzitutto in ordine di potere e non all’obbligo in capo al giudice di disporre la lettura dei verbali,
da esercitare “tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti”. Una facoltà applicabile, dunque, dopo
aver valutato la necessità di acquistare il dato testimoniale sulla scorta della valutazione del materiale già
acquisito111. Ma è altrettanto vero che la formulazione dell’art. 512 bis c.p.p. rappresentava l’elemento
forse più deteriore della complessa operazione restauratrice operata dal riformatore del 1992112.
Nonostante ciò, la modifica della disposizione in esame ha derivato la propria origine dal dibattito intorno
alle modifiche apportate al fascicolo dibattimentale in materia di rogatorie113. Non vi è stata, quindi,
un’autonoma e ponderata analisi sulla necessità di modificare la norma in argomento, che necessitava di
una uniformazione al nuovo art. 111 Cost. La nuova formulazione del precetto costituzionale,
demandando alla legge ordinaria la previsione dei “Casi in cui la formulazione o per accertata
Pen., 2000, n.4, in merito ai pericoli a cui, a livello pratico, poteva esporre l’interpretazione della sentenza 179/94 della Corte
Costituzionale nell’attuazione dei principi enunciati con la legge costituzionale 2/99.
104
La Corte Costituzionale rifiuta la precedente-estensiva-interpretazione, che a ben vedere, non era comunque aderente ai principi
generali stabiliti dal codice di rito, poiché il rifiuto di deporre è sempre dipeso dalla volontà del prossimo congiunto- testimone,
cosicchè, a parere di L.G. Velani, Facoltà di astensione dei prossimi congiunti: il nuovo orientamento della Consulta limita la
possibilità di ricorrere all’applicazione dell’art. 512 c.p.p., in Cass. Pen., 2001, p. 793, nota 28, alla medesima conclusione a cui
sono giunti i giudici della Consulta con la sentenza in commento, si sarebbe potuti giungere ugualmente anche in precedenza.
105
L.G. Velani, Facoltà di astensione dei prossimi congiunti: il nuovo orientamento della Consulta limita la possibilità di ricorrere
all’applicazione dell’art. 512 c.p.p., cit., pp. 793-794.
106
Con questa norma il legislatore ha quindi individuato una nuova categoria di atti irripetibili, di cui è consentita l’utilizzazione in
dibattimento.
107
Intervento sottosegr. De Cinque, in Atti Sen., XI leg., Boll. Giunte e Comm., sed. 21 luglio 1992, p.7.
108
Così C. Taormina, Il processo di parti di fronte al nuovo regime delle contestazione e delle letture dibattimentali, in Giust. Pen.,
1992, III, c. 459.
109
In questo senso, A Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, III ed., Milano, 1992, p. 78.
110
Cfr. C. Taormina, Diritto processuale penale, vol. II, 1995 Torino, p. 665.
111
Si veda Cass., 7 gennaio 1993, Commisso, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1994, p. 1563, con nota di M. Montagna, Dialettica
dibattimentale, limitazioni all’oralità e processo giusto.
112
Per le numerose critiche intorno a tale norma v., C. Cesari, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, cit., p. 509; E.
Fassone, Le letture, cit., pp. 855-856; M. Caianello, Dubbi di costituzionalità sull’art. 412 bis c.p.p., in Gazz. Giur., 1998, n. 40, p.
9. Per F Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, p. 674, la norma è indecorosa; la cattiva coscienza trapela dall’inciso(tenuto
conto degli altri elementi di prova).
113
Per R. Bricchetti, L’accusa perde l’esposizione introduttiva, in Giuda dir., 2000, n. 1, p. LXXI, la “rigorosità della norma è in
linea con le modificazioni apportate” all’art. 431 c.p.p. “con specifico riguardo all’inclusione nel fascicolo del dibattimento dei
verbali degli atti assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale”.
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impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”, pur volendo far salvare le
ipotesi di lettura degli atti divenuti irripetibili per impossibilità sopravvenuta, purchè di natura oggettiva,
avrebbe verosimilmente precluso la leggibilità delle dichiarazioni rese dal cittadino stranieri, almeno
nell’ipotesi di omessa citazione114. La modifica costituzionale, cioè, non avrebbe lasciato spazio alcuno ad
ipotesi presuntive di irripetibilità, mancanti di qualsiasi caratterizzazione oggettiva. Oggi, l’art. 512 bis
c.p.p. (come modificato dalle legge n.479 del 1999) consente la lettura dei verbali di dichiarazioni rese da
persona residente all’estero ( anche se rese a seguito di rogatoria internazionale), che sia stata citata e non
sia comparsa, ma solo nel caso in cui l’esame dibattimentale sia assolutamente impossibile.
L’ammissibilità della lettura continua ad essere subordinata alla valutazione “degli altri elementi di prova
acquisiti”.
Le Sezioni Unite con una recente sentenza115 in materia di condizioni e limiti all’utilizzo in giudizio di
dichiarazioni rese nelle indagini da persone residenti all’estero, intervengono per “scolpire” i precetti
costituzionali presenti nel comma 5 dell'art. 111 della Carta Costituzionale, ostentando una necessaria e,
allo stesso tempo, indispensabile sensibilità al contesto giuridico di un processo penale che deve
obbligatoriamente calarsi nel sistema delle garanzie costituzionali. La norma probatoria in esame,appare
legittima solo se conforme alla regola del contraddittorio. Le letture dibattimentali in genere,
costituiscono di per sé espressione di una deroga all’oralità , si collocano al confine dell’area consentita
dalla Costituzione,devono trovare legittimazione in esigenze eccezionali, che il sistema processuale
penale protegge a determinate condizioni. Come già rilevato,la prima, richiede che il testimone residente
all’estero sia stato citato ma ciò nonostante non sia comparso. Tale indispensabile adempimento,impone
al giudice attraverso i suoi ausiliari una seria ed efficace ricerca affinché possa dirsi che il teste citato non
sia comparso per accertata impossibilità di natura oggettiva. In secondo luogo, continua la Corte,perché la
lettura sia legittima e le deposizioni utilizzabili, occorre che sia assolutamente impossibile l’esame
dibattimentale: il che significa che non sono sufficienti mere difficoltà logistiche per ritenere soddisfatta
la condizione voluta dalla legge, ma occorre che l’impossibilità dell’esame sia accertata e sia di natura
oggettiva, come richiesto dall’art. 111 comma 5 Cost. Altro punto discusso nella pronuncia è il problema
della volontarietà della sottrazione al confronto, che si riflette sul momento di valutazione della prova, ex
art. 526 comma 1-bis c.p.p., la regola, omologa al principio costituzionale, che sembra anche tradurre la
lettura che la Corte di Strasburgo da tempo offre dell’art. 6 par. 3 lett. d) della Convenzione, secondo cui
non è fair quel processo che permetta al giudice di condannare considerando determinante un elemento
sul quale l’accusato non abbia avuto un’occasione sufficiente per confrontarsi con l’accusatore.116 La
Suprema Corte, ha altresì osservato, che l’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. deve essere ritenuta
norma di chiusura così da imporsi come regola di valutazione della prova “ sempre applicabile anche con
riferimento a dichiarazioni che risultino legittimamente acquisite alla stregua della disciplina sulle letture
dibattimentali, le quali, quindi, non potrebbero, di per sè sole, fondare la dichiarazione di colpevolezza
dell'imputato». In sostanza in caso di dichiarazione predibattimentale legittimamente acquisita, deve poi
comunque trovare applicazione il principio ricavabile dall’art. 6, commi 1 e 3, lett. d), della CEDU, secondo cui «la dichiarazione accusatoria della persona offesa, acquisita fuori dalla fase processuale vera
e propria ed in assenza della possibilità presente o futura di contestazione del mezzo stesso in
contraddittorio con la difesa, per sostenere l'impianto accusatorio deve trovare conforto in ulteriori
elementi che il giudice, con la doverosa disamina critica che gli è richiesta dalle norme di rito, individui
nelle emergenze di causa».Ciò in linea con un’interpretazione dell’ art. 111 , comma quarto Cost. (
riprodotto dall’ art. 526 co. 1 bis c.p.p.).,idonea ad escludere ogni profilo di incompatibilità con quanto
disposto dall’ art-. 6 CEDU- che pone regole di valutazione della prova dichiarativa legittimamente
acquisita. Nella menzionata sentenza si legge , infatti , che “ l’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen.
(riproducendo l’art. 111, comma quarto, Cost.) pone un limite alla utilizzazione probatoria delle
dichiarazioni non rese in contraddittorio valevole per alcune determinate ipotesi. La norma convenzionale
pone una analoga regola di valutazione probatoria delle stesse dichiarazioni valevole anche per altre
ipotesi. Ora, la norma nazionale dice solo che in quelle ipotesi si applica quella regola, ma non dice anche
che in ipotesi diverse debba valere un opposto criterio, ossia non esclude che anche nelle altre ipotesi
possa applicarsi un analogo criterio di valutazione probatoria, ricavato in via interpretativa dalle norme o
dai principi in materia o anche posto da una diversa norma comunque operativa nell’ordinamento. La
114
In rapporto allo spazio che l’art. 111 comma 5 Cost. pare mettere a disposizione per le letture, V. Grevi, Dichiarazioni
dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio (dagli insegnamenti della Corte Costituzionale al
progettato nuovo modello di giusto processo”), cit., p. 846, sottolinea quanto sia delicato far rientrare in questa area costituzionale
proprio l’eventualità di “omessa citazione… come peraltro è previsto, nei riguardi degli stranieri residenti all’estero, dall’odierno
art. 512 bis. c.p.p.”.
115
Sul punto Cass., Sez. un., 25.11.2010 (dep. 14.7.2011), n. 27918, Pres. Fazzioli, Rel. Franco, ric. De F.
116
Sul punto cfr H. Belluta.,20 luglio 2011, “dibattimento e sentenza” in http:/ www. penalecontemporaneo.it
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norma nazionale, in applicazione del principio generale del giusto processo, pone una determinata tutela
per l’imputato, ma non esclude che una tutela più estesa possa essere posta o ricavata da norme diverse.”
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L’UTILIZZO COSTANTE E REITERATO NEL
TEMPO DELL’AUTO PUBBLICA È
PECULATO D’USO O PER
APPROPRIAZIONE?
Cassazione, sez. VI, 30 maggio 2012, n. 20922
Luca Grande
Il peculato si realizza se il pubblico ufficiale117 o l’incaricato di pubblico servizio non solo utilizzi i beni
offerti in dotazione dalla p.A. mancando di soddisfare le esigenze ricollegabili al proprio ufficio, ma
inoltre cagioni un rilevante danno economico alla p.A. . Pertanto il peculato non è un reato monoffensivo
bensì plurioffensivo poiché tutela non solo il regolare funzionamento della p.A. ma anche la sicurezza
patrimoniale della p.A..
Con riferimento alla tutela del regolare funzionamento della p.A., la norma incriminatrice ex art. 314 c.p.
intende sanzionare l’abuso dell’esercizio delle specifiche competenze e funzioni tramite le quali il
soggetto attivo qualificato accede “al possesso della res oggetto di appropriazione” sottraendole di fatto
alle esigenze istituzionali.
Con riferimento alla tutela della sicurezza patrimoniale della p.A. o di terzi, la medesima norma
incriminatrice intende sanzionare l’illecita appropriazione del denaro o di beni mobili da parte del
pubblico ufficiale, quale condotta integrante il disvalore perseguito dal legislatore; al contrario
nell’appropriazione indebita ex art. 646 c.p. il disvalore del reato coincide non con l’appropriazione ma
solo con l’ingiusto profitto. Ne consegue che mentre il peculato richiede il dolo generico, invece il
differente reato ex art. 646 c.p. richiede il dolo specifico118.
Il legislatore disciplina nei rispettivi primo e secondo comma dell’art. 314 c.p. ,il peculato per
appropriazione o continuato ed il peculato d’uso o momentaneo.
Il peculato “continuato” implica un’appropriazione ed un uso costante e reiterato della res, nonché una
mancata restituzione della res e quindi è prevista la pena della reclusione tra tre e dieci anni; al contrario il
peculato “d’uso” è sanzionato con la pena della reclusione ma quantitativamente inferiore rispetto a
quella prevista nella prima ipotesi di reato (da sei mesi a tre anni) poiché implica un’appropriazione della
cosa altrui per farne un uso solo momentaneo ed a cui segue un’immediata restituzione della medesima.
In particolare, l'elemento oggettivo del reato di peculato é, in ogni caso, costituito esclusivamente dall’
“appropriazione”, ossia da quella condotta antigiuridica che si verifica quando il soggetto compie, in
relazione alla cosa oggetto del reato (bene mobile o denaro altrui), un atto che è manifestazione della
volontà di considerarla come propria, comportandosi uti dominus ossia esercitando atti di dominio
incompatibili con il titolo che ne giustifica il possesso, ma non al fine di procurare un ingiusto vantaggio
patrimoniale per sé o per altri né per arrecare ad altri un ingiusto danno (come invece accade nel diverso
reato di “abuso di ufficio”). Dall’ illecita appropriazione deve derivare esclusivamente un’estromissione
117
La qualifica di pubblico ufficiale, secondo l'attuale formulazione dell'art. 357 cod. pen., va riconosciuta a tutti i soggetti che,
pubblici dipendenti o privati, possono e debbono, nell'ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la
volontà della pubblica amministrazione ovvero esercitare poteri autoritativi o certificativi.
118
Trattandosi di dolo generico è pertanto, sufficiente che il soggetto attivo abbia la coscienza e volontà di appropriarsi di denaro o
della cosa mobile altrui, non essendo necessario che lo faccia anche al fine di trame profitto.
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totale del bene dal patrimonio dell'avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte
dell'agente. E l’offensività dell’atto materiale di “appropriazione-estromissione” si deve manifestare in un
danno per la p.A. non solo funzionale (violazione del buon andamento e dell’imparzialità della p.A.) ma
anche economico (perdita della res e conseguente lesione patrimoniale a danno dell’avente diritto).
Sul piano dell'elemento soggettivo si realizza il mutamento dell'atteggiamento psichico dell'agente nel
senso che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri succede quella di
possedere per conto proprio.
Se gli elementi oggettivo e soggettivo rappresentano i punti in comune delle due ipotesi di peculato,
d’altra parte le due forme di peculato ex art. 314 c.p. presentano numerose differenze secondo la
giurisprudenza, a partire dall’ oggetto materiale del reato: infatti, il peculato d’uso differisce da quello
ordinario in quanto riguarderebbe esclusivamente beni mobili di specie e non anche generici né di
quantità poiché con riferimento a queste ultime categorie di beni non sarebbe possibile la restituzione
dell’eadem res, ma solo del tantundem119 che è irrilevante ai fini dell'integrazione del reato de quo in base
al quale si prevede che sia fatto un uso momentaneo della res.
Inoltre, il peculato d’uso differisce da quello ordinario o c.d. continuato poiché solo nel primo si realizza
un’appropriazione, melius un indebito uso della res solo momentaneo e precisamente connotato non da
istantaneità bensì da temporaneità la quale, pur se non estranea ad una condotta meramente episodica e
occasionale, deve caratterizzarsi per consistenza e durata tale da realizzare una "appropriazione" e da
compromettere la destinazione istituzionale della cosa (Cass. pen., sez. VI 09-03-2005 (01-02-2005), n.
9216 (Sez. VI, 10 marzo 1997, Federighi, rv. 207594)). Secondo il predetto arresto interpretativo si
ritiene rilevante ai fini della configurabilità del peculato d’uso un’appropriazione del bene pubblico per
scopi estranei a quelli dell’ufficio ed idonea ad arrecare un danno funzionale seppur solo modesto oltre ad
un apprezzabile danno patrimoniale; non è invece rilevante ai fini della configurabilità del peculato d’uso
un’appropriazione che arreca un danno patrimoniale di modesta entità e che non abbia cagionato alcun
danno funzionale alla p.A. (Cass. pen., sez. VI 24-02-2011 (27-10-2010), n. 7177).
In definitiva, anche alla luce dei suddetti arresti interpretativi in ordine al “peculato d’uso”, si può trarre la
seguente osservazione degna di rilievo: le due forme di peculato (per appropriazione/continuato e
d’uso/momentaneo) appaiono molto simili tra di loro in quanto entrambi implicano i medesimi elementi
costitutivi (oggettivo e soggettivo), la tutela dei medesimi interessi giuridici (la funzionalità ed il
patrimonio della p.A.) nonché una certa durata e consistenza dell’appropriazione illecita con la sola
differenza che il peculato continuato non garantisce alcuna restituzione del bene mobile altrui invece il
peculato momentaneo sì.
Poiché la restituzione contemplata nel peculato d’uso deve avere ad oggetto il medesimo bene mobile ne
consegue che si deve trattare di un bene di specie e non generico affinché si abbia restituzione della
eadem res e non del tandundem. Tuttavia, anche nel caso in cui si tratti di “bene di specie” come
l’autovettura utilizzata dal dirigente regionale per ragioni di pubblico ufficio non va escluso il peculato
ordinario nel caso in cui sussista un apprezzabile danno patrimoniale piuttosto che funzionale come
suggerisce la Cassazione, sez. VI, 30 maggio 2012, n. 20922 .
Nel caso di utilizzo uti dominus di bene pubblico con uso costante e reiterato nel tempo (nel caso di
specie di un’autovettura di servizio) da parte del pubblico ufficiale, non si integra il peculato d’uso, bensì
la più grave ipotesi del peculato per appropriazione.
È necessario che la condotta incriminata sia idonea ad arrecare un danno patrimoniale apprezzabile
all’amministrazione.
Nel corso del giudizio si era accertato che l’indagato ha fatto uso dell'autovettura anche nei giorni
prefestivi e festivi, per scopi estranei a quelli dell'ufficio: si è recato in luoghi che nulla hanno a che fare
con i suoi compiti istituzionali, è stato sorpreso a scaricare dall'auto buste e pacchi della spesa davanti
all'abitazione dei genitori, si è recato il giorno di Pasquetta presso una zona boschiva in compagnia di
parenti e amici per fare un picnic, ha parcheggiato l'auto nel garage privato del padre, circostanze queste
che giustificano la valutazione del Tribunale in ordine alla sussistenza dei gravi indizi del reato
contestato. Peraltro, è emerso, attraverso la verifica del chilometraggio che l'auto, nel periodo in cui è
stata nella piena disponibilità dell'imputato, ha percorso circa 3.300 chilometri, mentre dalla
documentazione dei fogli di percorrenza giornaliera risultano solo 997 chilometri, sicché i giudici hanno
119
Cass. pen., sez. VI 24-08-1993 (10-06-1993), n. 8009 e Cass. pen., sez. VI 06-07-2009 (21-05-2009), n. 27528. In senso
contrario: il peculato di uso di cui all'art. 314 comma secondo cod. pen. é configurabile anche in relazione a cose fungibili e quindi
anche con riferimento al denaro: la suddetta norma infatti non pone alcuna distinzione tra i tipi di "cosa" e d'altro canto la condotta
appropriativa in essa configurata é per intero motivata dal peculato ordinario che può avere ad oggetto anche beni fungibili. Perché
si realizzi tale ipotesi criminosa é peraltro necessario che l'agente subito dopo l'uso ponga in essere immediatamente l'attività diretta
a procurarsi il denaro ed operi quindi la restituzione senza soluzione di continuità. Cass. pen., sez. VI 19-04-1995 (14-03-1995), n.
4195
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desunto da ciò un ulteriore indizio circa l'uso improprio del mezzo, rilevando l'omessa compilazione dei
dati trimestrali riferibili ai tratti di strada complessivamente percorsi. Dei resto un ulteriore indice della
condotta illecita è stato individuato con riferimento all'uso dei buoni carburante, che avrebbe dovuto
essere giustificato dalla compilazione del libretto d'uso del veicolo, che invece è stata omessa.
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ESTORSIONE: OCCORRE LA PRESENZA
CONTESTUALE ED ISTANTANEA DI TUTTI
GLI ESTORSORI PER INTEGRARE
L’AGGRAVANTE PIÙ PERSONE RIUNITE
Cassazione, Sezione Unite Penali, 5 giugno 2012, n. 21837
Valentino Zinzio
Abstract
Con la pronuncia n. 21837 del 5 giugno 2012 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno composto
il contrasto interpretativo sorto in merito alla circostanza aggravante speciale delle “più persone
riunite” prevista dal codice penale per il delitto di estorsione. In particolare, il Supremo Collegio ha
individuato nella simultanea presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui vengono
esercitate la violenza o la minaccia tipizzate dall’articolo 629 c.p. la condizione necessaria per la
sussistenza dell’aggravante in esame. Nel sancire ciò, le Sezioni Unite hanno tracciato una netta linea
distintiva fra questa e il concorso di più persone nella fattispecie estorsiva, potendo quest’ultimo
manifestarsi in tutte le fasi della condotta criminosa, non necessariamente in quella esecutiva. A ciò,
secondo la Suprema Corte, consegue la compatibilità della circostanza aggravante sancita dall’articolo
628/3 n.1 c.p. così come richiamato dall’articolo 629/2 c.p. con la circostanza aggravante prevista in
ambito concorsuale dall’articolo 112 n.1 c.p., configurabile ove il numero dei partecipi eventuali sia pari
o superiore a cinque.
La soluzione proposta dalle Sezioni Unite appare infine confortata dalla giurisprudenza di legittimità
sviluppatasi in merito al concetto delle “più persone riunite” laddove questo operi o come elemento
costitutivo del reato (articoli 628 e 609-octies c.p.), ovvero come elemento circostanziale speciale
(articoli 339 e 385 c.p.).
Il contrasto giurisprudenziale
Secondo una prima impostazione ermeneutica, la circostanza aggravante citata richiede necessariamente
che almeno due persone si trovino simultaneamente nel luogo e nel momento in cui si realizza l’azione
tipica di violenza o minaccia prevista dall’articolo 629 c.p.. Essa individua nella maggiore intimidazione e
nella minore possibilità di difesa derivanti dalla riunione di più persone, la ratio dell’inasprimento di
pena. Inoltre differenzia il concetto di “più persone riunite” da quello di concorso di più persone nel reato,
potendo quest’ultimo manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa: sia in quella
ideativa, sia in quella più propriamente esecutiva. In base a tale impostazione l’aggravante in esame non
sarebbe ravvisabile allorquando il reato sia commesso mediante minacce formulate da singole persone in
momenti successivi, ovvero nel caso di interventi successivi da parte dei singoli correi, ovvero in caso di
minaccia esercitata per mezzo di uno scritto o per telefono (Cass., sez. VI, n. 41359/10).
Una diversa opzione interpretativa ritiene invece sufficiente la mera percezione da parte della vittima che
la minaccia provenga da più persone, facendo peraltro coincidere l’aggravante de qua con il concorso di
persone nel reato (Cass., sez. II, n. 25614/09).
Secondo l’orientamento ad oggi prevalente in giurisprudenza invece, l’aggravante in esame sarebbe
ravvisabile quando il soggetto passivo abbia avuto la sensazione, la percezione o la conoscenza che
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l’azione minatoria provenga da una pluralità di persone. Tale indirizzo, inizialmente formatosi con
riferimento alle fattispecie di estorsione cd. “a distanza”, ossia con minacce realizzate a mezzo lettera o
telefonata (Cass., sez. II, n. 16657/08), è stato poi applicato anche alle ipotesi di estorsione “diretta”
(Cass., sez. VI, n. 197/11). In base a quest’impostazione, l’espressione “più persone riunite” postulerebbe
la partecipazione all’azione criminosa di una pluralità di soggetti associati, ma non anche la compresenza
fisica dei correi e del destinatario dell’azione delittuosa, poiché si ritiene che la maggiore intensità
dell’intimidazione, posta alla base dell’aggravante in esame, si riscontrerebbe anche ove il programma
criminoso deliberato venga eseguito con azioni separate, in tempi diversi.
La soluzione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto interpretativo in esame affermando che “…per integrare
l’aggravante speciale delle più persone riunite nel delitto di estorsione è necessaria la contemporanea
presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui si eserciti la violenza o minaccia, posto che a
tanto inducono l’interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione
della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in
materia penale, e quella logico sistematica”. A sostegno di ciò, la Suprema Corte in primo luogo pone
l’interpretazione letterale imposta dall’articolo 12 delle preleggi. Secondo essa è necessario tenere conto
nell’interpretazione delle norme del significato lessicale delle parole utilizzate dal legislatore. Così
facendo, il verbo “riunire” nella sua comune accezione, significa “unire, radunare più cose o persone
nello stesso luogo”, ed il sostantivo “riunione” indica il “riunirsi di più persone nello stesso luogo allo
scopo di…”. Il termine “riunite” sta così ad indicare la compresenza in un luogo determinato di più
persone, ovvero di almeno due persone. In secondo luogo, le Sezioni Unite pongono l’attenzione sulla
struttura degli articoli 628, 629 c.p. e ritengono che il termine “riunione” risulti direttamente collegato
alla modalità commissiva della condotta violenta o minacciosa propria delle norme in esame e che
quest’ultima risulti connotata da una maggiore gravità ove esercitata simultaneamente da più persone. In
tal modo, ritiene la Suprema Corte “…il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva
necessaria che si distingue in modo netto dal concorso di persone nel reato poiché la fattispecie
circostanziale contiene l’elemento specializzante della riunione riferito alla sola fase esecutiva del reato
e, più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi invece il
concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa, ovvero
sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva”. Le Sezioni Unite finiscono in questo
modo per distinguere nettamente l’ipotesi del concorso di più persone nel delitto di estorsione da quella
aggravata delle “più persone riunite” nel luogo e nel momento ove venga esercitata la violenza o la
minaccia tesa a coartare la volontà della vittima, non potendo queste due essere identificate, come invece
talvolta erroneamente sostenuto sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità. A tale soluzione
consegue che quando i concorrenti nel reato siano più di cinque è configurabile altresì la circostanza
aggravante di cui all’articolo 112 n.1 c.p., compatibile quest’ultima con la circostanza delle più persone
riunite, essendo sufficiente ad integrare quest’ultima anche la contemporanea presenza nella fase
esecutiva del reato di sole due persone.
La soluzione proposta dalle Sezioni Unite appare inoltre confortata dall’interpretazione logico-sistematica
della norma e quindi, dalla ratio della stessa. La ragione del notevole inasprimento delle pene previste per
la fattispecie del reato-base del delitto di estorsione è infatti da rinvenirsi nel maggiore effetto
intimidatorio prodotto dalla partecipazione al delitto di più persone e nella minorata possibilità di difesa
della vittima che, trovandosi di fronte non ad un singolo ma bensì ad un gruppo, sarà sicuramente più
intimidita e conseguentemente incapace di reagire efficacemente. Nell’analizzare quest’ultimo profilo, la
Suprema Corte rileva come ad oggi, l’indirizzo maggioritario in giurisprudenza pur individuando la ratio
della disposizione nella maggiore efficacia intimidatoria derivante dalla partecipazione di più persone,
ritiene che tale effetto possa verificarsi anche nei casi di compartecipazione non contestuale, purchè
conosciuta o percepita dalla persona offesa. La pronuncia in commento tuttavia ritiene che tale ultimo
indirizzo non possa essere seguito. Affermano infatti le Sezioni Unite che con riferimento ai casi di cd.
estorsione indiretta o mediata una tale interpretazione non solo confligge col tenore letterale della norma
ma, i concetti di “sensazione” o “percezione” posti alla base della citata interpretazione “…sono
opinabili, del tutto evanescenti e privi di qualsiasi oggettività…” mentre per la “conoscenza” “…non si
comprende quale possa essere il livello di essa necessario per integrare l’aggravante in discussione…”.
Da ciò deriva che, nel caso di estorsione mediata ovvero di minacce fatte a mezzo lettera o telefono,
l’aggravante delle più persone riunite sarà ravvisabile solo nel caso in cui la lettera sia firmata da due o
più persone o se alla telefonata minatoria partecipino più persone, ma non anche nel caso in cui la parte
offesa abbia la sensazione che colui che ha spedito la lettera minatoria o ha fatto la telefonata minacciosa
sia in collegamento con più persone.
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Da ultimo, a conforto della tesi sinora illustrata, le Sezioni Unite introducono l’analisi dell’elaborazione
giurisprudenziale sviluppatasi con riferimento al concetto di più “persone riunite” all’interno di altre
norme penali, ove questo opera o come elemento costitutivo ovvero come elemento circostanziale
speciale.
In tema di rapina ex articolo 628 c.p. per esempio, l’aggravante delle più persone riunite secondo la
giurisprudenza rileva per la simultanea presenza di una pluralità di soggetti nel luogo e nel momento in
cui la violenza e la minaccia si realizzano (Cass., SU, n. 3394/92). Nell’ambito dei delitti contro la libertà
personale vi è invece l’articolo 609-octies c.p. che punisce la violenza sessuale di gruppo (la quale
consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’articolo
609-bis c.p.). Con riferimento a quest’ultimo delitto pur non essendo richiesto che tutti i componenti del
gruppo compiano atti di violenza sessuale, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale è
sufficiente e necessario che essi siano presenti nel luogo ove la vittima è trattenuta ed al momento in cui
gli atti di violenza sessuale sono compiuti da uno di loro poiché costui trae la forza dalla presenza del
gruppo (Cass., sez. III, n. 15089/10).
Infine, nello stesso senso, la giurisprudenza ha interpretato la locuzione “più persone riunite” impiegata
dal legislatore in talune fattispecie circostanziali. In particolare, ci si riferisce agli articoli 339 e 385 c.p.,
che disciplinano rispettivamente talune circostanze aggravanti speciali previste per i delitti contro la
pubblica amministrazione ovvero contro l’amministrazione della giustizia commessi con modalità
violente o minacciose da più persone riunite. A sostegno di quanto sinora esposto, anche con riferimento
a questa modalità operativa della locuzione in esame, secondo la dottrina e la prevalente giurisprudenza,
in entrambe le ipotesi menzionate, per la configurazione delle rispettive aggravanti è richiesta la
simultanea presenza sul luogo del reato di almeno due o più persone.
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Diritto e Processo
Amministrativo
RESPONSABILITA' PER “USO IMPROPRIO”
DEL BILANCIO SOCIALE
Corte dei conti sezione giurisdizionale per la Toscana, sentenza n.
217/2012
Dario Immordino
Il bilancio sociale costituisce uno dei principali strumenti di trasparenza, relazione, comunicazione ed
informazione, finalizzato a dar conto del complesso delle attività dell’Amministrazione ed a rappresentare
in un quadro unitario il rapporto tra visione politica, obiettivi, risorse e risultati, in modo che i cittadini,
destinatari dell'azione amministrativa, siano in grado di valutarne l'efficienza e l'efficacia, e di giudicare
come l’Amministrazione ha interpretato e realizzato la sua missione istituzionale ed il suo mandato.
Lo scopo di questa forma di rendicontazione è quello di attivare quel controllo democratico che
costituisce il fondamento per una gestione efficiente e rispondente alle esigenze della collettività
amministrata, attraverso la piena informazione dei cittadini sullo “stato di salute” degli enti in vista delle
elezioni. Alla base di questo modello relazionale si colloca una concezione ampia di controllo, non
limitata agli strumenti prettamente giuridici, ma estesa sino a ricomprendere il controllo sociale
sull'esercizio dei poteri pubblici, a partire da quelli più prossimi alla vita dei cittadini.
Tale impostazione riflette una rinnovata concezione della responsabilità dell’amministrazione pubblica,
identificabile nel significato espresso dal termine anglosassone accountability, e traducibile nella
necessità di misurare e rendere riconoscibile il “valore” prodotto nell'esercizio dell'attività di governo
rendendo conto alla collettività delle proprie azioni e degli effetti determinati. In tal senso il bilancio
sociale chiude un circuito che si attiva attraverso le elezioni, momento in cui la comunità conferisce agli
amministratori ossia il potere di governare.
In un simile contesto la definizione di adeguati strumenti di misurazione dei risultati della gestione
rappresenta una condizione essenziale affinché le relazioni tra tali soggetti siano sviluppate secondo la
logica della “rendicontabilità”, all’insegna della responsabilizzazione. L’assunto di fondo è quello per cui
il presupposto della gestione efficiente risiede nella implementazione di efficaci strumenti in grado di
garantire la conoscenza dei risultati conseguiti nell'esercizio dell'azione pubblica, affinché i cittadini
possano esercitare al meglio il diritto di voto e scegliere consapevolmente gli amministratori pubblici.
E proprio la conoscibilità e confrontabilità di questi dati ed informazioni costituisce la chiave di volta del
sistema. A tal fine il bilancio sociale “fa corpo” con una serie di strumenti diretti ad assicurare il completo
scambio di informazioni e la piena trasparenza nel monitoraggio di azioni e risultati; a verificare
l’attuazione delle azioni programmate e monitorare l’efficacia di tali azioni e l’eventuale insorgere di
squilibri, ed in tal caso intervenire per tempo con appropriate iniziative correttive. In particolare, il
rendiconto sociale si aggiunge agli altri strumenti approntati dal legislatore al fine di colmare le gravi
carenze cognitive sui dati reali di spesa e di bilancio, (ci si riferisce in particolare ai principi e alle regole
di armonizzazione dei bilanci funzionali a superare la proliferazione dei cd dialetti contabili, agli obblighi
di trasmissione dei dati finanziari più rilevanti al Ministero dell’Economia e alla Corte dei conti, alla
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previsione di una banca dati unitaria di tutte le informazione “sensibili” in materia finanziaria, alle misure
premiali e sanzionatorie a carico di enti ed amministratori locali e regionali).
Ciò posto l'accelerazione dei tempi necessari alla realizzazione del rendiconto sociale, quando sia dettata
non da giuste e legittime finalità istituzionali, ma da esigenze di promozione personale degli
amministratori, e specificamente da una mera finalità di propaganda politica, comporta un uso scorretto
delle risorse pubbliche causativo di danno erariale, e determina una responsabilità amministrativa, in
quanto “è configurabile una colpa grave che, con terminologia penalistica, si potrebbe definire colpa con
previsione”.
È il caso, ad esempio, affrontato dalla sentenza n. 217/2012 della Corte dei conti sezione giurisdizionale
per la Toscana, concernente la condotta di un Sindaco connotata da un interesse personale a far sì che le
brochure – aventi ad oggetto il rendiconto amministrativo del proprio mandato – contenessero le
variazioni progettuali da lui richieste e venissero distribuite ai cittadini prima delle “elezioni primarie”
(afferenti la elezione di un candidato in uno o più partiti politico coalizzati) anziché in occasione del
rinnovo delle cariche di governo dell'ente.
In merito il collegio ha rilevato che che il sindaco ha “accelerato” i tempi di pubblicazione del rendiconto
di fine mandato per una mera finalità personale di autopromozione quale candidato alle elezioni primarie
e non per giuste e legittime finalità istituzionali, cioè per informare in maniera chiara ed intellegibile i
cittadini ed i diversi interlocutori al fine di conoscere e formulare un proprio giudizio su come
l’Amministrazione ha interpretato e realizzato la sua missione istituzionale ed il suo mandato e
sviluppando in siffatto modo meccanismi di controllo sociale. Sicché le maggiori spese determinate da
tali esigenze extraistituzionali costituiscono un danno ingiusto a carico delle finanze del comune.
A fondamento della pronuncia si pone la considerazione che gli obiettivi di trasparenza ed accountability
alla base del bilancio sociale possono essere raggiunti nel rispetto dei tempi e delle modalità
normativamente definiti, mentre l'anticipazione della realizzazione del rendiconto ad un periodo
precedente la scadenza del mandato ed il rinnovo degli organi politici dell'ente prescinde l'interesse
pubblico, e come tale le risorse ulteriori necessarie per realizzare e divulgare il bilancio sociale in tempi
più ristretti non possono essere poste a carico della collettività.
Quanto al profilo soggettivo della responsabilità, il Collegio ha statuito che del danno erariale prodotto da
tale indebita anticipazione è responsabile, oltre al “regista politico”, anche il segretario dell'ente che, con
una condotta connotata da grave negligenza, abbia avallato il contenuto della decisione adottata
dall'organo politico (nella specie il funzionario aveva dichiarato di aver firmato il verbale della
deliberazione della Giunta Comunale senza preoccuparsi di leggerla).
Ciò in quanto, anche a seguito della soppressione del parere di legittimità su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio, il segretario mantiene la specifica funzione ausiliaria
di garante della legalità e correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale.
L’affidamento di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridico ed amministrativa finalizzate alla
salvaguardia della conformità dell’azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai regolamenti gli
impone, infatti, di esercitare il controllo di legittimità sugli atti adottati dagli organi politici dell'ente,
seppure non sia sufficiente la mera attività di verbalizzazione per la sussistenza dell’elemento soggettivo
della responsabilità.
Parimenti responsabile del danno deve considerarsi il funzionario responsabile di servizio che ha
consentito la indebita accelerazione della realizzazione del bilancio sociale, adottando i relativi atti e
rendendo il parere favorevole alla delibera di giunta, seppure si sia in seguito fattivamente adoperato al
fine di evitare un pregiudizio patrimoniale consequenziale all’accollo al bilancio comunale degli oneri
derivanti dall’ esecuzione di quanto deliberato.
L'assunto di fondo è evidente: se l’articolo 49 del 18 agosto 2000 n. 267 prevede la responsabilità
amministrativa e contabile del responsabile del servizio per i pareri resi in ordine alla regolarità tecnica
delle proposte di deliberazione degli organi collegiali, evidentemente il legislatore ha ritenuto i suddetti
pareri rilevanti nel procedimento di adozione dei provvedimenti degli organi dell’ente locale. In tal senso
la norma secondo cui “i soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei
pareri espressi” comporta l’obbligo di formulare rilievi sull’illegittimità della spesa oppure avvalorare la
legittimità delle decisioni in corso di adozione. In altri termini la funzione dell'attribuzione del parere di
regolarità tecnica è quella di evitare che le decisioni politiche comportino esborsi contra legem.
Ciò posto l’incidenza causale del parere sulla determinazione del danno non è sufficiente per pervenire
alla condanna chiesta dal requirente, dovendo sussistere anche l’elemento psicologico della colpa grave.
Diversa la posizione del Responsabile del Settore Servizio Economico Finanziario che abbia espresso
parere favorevole di regolarità contabile, ai sensi dell’ art. 49 D.Lgs. n. 267/2000.
Al riguardo il collegio richiama quell'orientamento secondo il quale il concreto significato del predetto
“parere” - di natura e contenuto ben diversi rispetto al “visto” di cui all’art. 151 TUEL – non può essere
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limitato all’aspetto formale, anche in relazione alla circostanza che l’estensore ne risponde, ai sensi del 3°
comma del citato art. 49, “in via contabile”; purtuttavia si tratta comunque di un atto differente dal parere
di regolarità tecnica, non idoneo ex se ad ascrivere la responsabilità amministrativa. Di conseguenza
l'apporto causale va accertato caso per caso.
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ORDINANZE COMUNALI CONTINGIBILI ED
URGENTI IN MATERIA DI RIMOZIONE
RIFIUTI
TAR Campania - Napoli Sez. V, 26 luglio 2012, n. 3635
Gianmarco Miele
La sentenza n. 3635/12 del TAR Campania - Napoli è stata pronunziata su ricorso proposto da ANAS
S.p.A. avverso un’ordinanza di necessità ed urgenza emessa dal Comune di Vairano Patenora (CE) in
materia di rimozione rifiuti, anche speciali (eternit), abbandonati da ignoti lungo aree di pertinenza
stradali.
L’ordinanza imponeva ad ANAS di procedere ad horas alla rimozione dei rifiuti e alla bonifica di un’area
lungo la S.S. 85 “Venafrana”, posta lateralmente ad una piazzola di emergenza e divisa da quest’ultimo
da un muretto in cemento avente un altezza di circa 60 centimetri.
Avverso tale provvedimento ANAS si rivolgeva al giudice amministrativo, che -con il richiamato
provvedimento- conferma ancora una volta il consolidato orientamento, che esclude la responsabilità
dell'Ente gestore della Strada in caso di abbandono illecito di rifiuti.
Il provvedimento de quo è in linea con altri precedenti del giudice amministrativo partenopeo (sent.
5114/11 e sent. 2800/11) e prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di
rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, in modo da garantire
l’osservanza delle regole poste a presidio della partecipazione dell’interessato all’istruttoria
amministrativa. All’intimato, cioè, deve necessariamente essere concessa la facoltà di poter dimostrare la
mancanza di ogni suo coinvolgimento, a qualsiasi titolo, nell’illecito ambientale contestato,
consentendogli di partecipare in contraddittorio agli accertamenti ed alle verifiche.
Ribadisce il Collegio che il ricorso allo strumento straordinario dell’ordinanza contingibile ed urgente (o
anche avente soltanto valenza “ambientale”), giustifica l’omissione della comunicazione di avvio del
procedimento unicamente in presenza di un’”urgenza qualificata”, in relazione alle circostanze del caso
concreto, che deve essere debitamente esplicitata in specifica motivazione sulla necessità e l’urgenza di
prevenire il grave pericolo alla cittadinanza, anche perché sussiste un rapporto di conflittualità e di logica
sovraordinazione tra l’esigenza di tutela immediata della pubblica incolumità e l’esigenza del privato
inciso dall’atto amministrativo di avere conoscenza dell’avvio del procedimento.
Sotto altro profilo, il TAR afferma la violazione dell’art. 192 del D.L.vo n. 152/2006 (Testo Unico
ambientale) in relazione all’art. 3 della L. n. 241/1990. Infatti, il proprietario, o comunque il titolare in
uso di fatto del terreno, non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del
dolo o della colpa.
La giurisprudenza, in sede applicativa del Codice Ambientale (ed in precedenza del Codice Rochi) ha
rilevato che: << Il dovere di diligenza, che fa capo al titolare del fondo, non può arrivare al punto di
richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l’area
e di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari
canoni della diligenza media (o del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa, quando
questa è indicata in modo generico, come nella specie, senza ulteriori specificazioni >>.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.
vo n. 152/2006 in tema di ambiente. In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità oggettiva, nel senso che - ai sensi dell’art.
192 - per essere ritenuto responsabili delle violazione dalla quale è scaturita la situazione di
inquinamento, occorre quantomeno la colpa.
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Diritto e Processo Tributario
IL CREDITO D’IMPOSTA
TEMPESTIVAMENTE DICHIARATO È
SOGGETTO ALLA SOLA PRESCRIZIONE
DECENNALE
Diego Conte
Capita spesso che per le ragioni più disparate un credito d’imposta venga correttamente evidenziato in
una dichiarazione ma sia poi riportato in quelle successive. In tali occasioni, non è raro che gli Uffici
contestino la violazione delle norme sull’esercizio del diritto di credito d’imposta e notifichino al
contribuente avvisi di accertamento ovvero neghino il diritto al rimborso.
Un caso simile è quello esaminato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 15229 depositata il 12
settembre 2012 in senso nettamente favorevole al contribuente.
Al di là delle peculiarità del caso concreto (si trattava, infatti, di un ente pubblico che aveva evidenziato il
credito in una dichiarazione rettifica depositata successivamente l’inutile decorso del termine previsto per
la presentazione della dichiarazione dell’anno successivo), i principi espressi dai giudici appaiono molto
importanti, sia perché ribadiscono l’irrilevanza dei “salti dichiarativi”, sia perché contestano
esplicitamente il diverso e minoritario indirizzo giurisprudenziale.
La Corte, infatti, ha dichiarato perentoriamente che il termine decadenziale biennale deve essere riferito
unicamente all’esercizio del diritto e, cioè, alla manifestazione di volontà dell’avente diritto (il
contribuente) di avvalersi del diritto di credito tempestivamente effettuata con la dichiarazione dei redditi.
Al contrario, sono del tutto irrilevanti i riporti formali nelle dichiarazioni successive così come la
compilazione dell’apposito modulo di rimborso, il quale rappresenta null’altro che un necessario
“adempimento per dar inizio al procedimento di esecuzione del rimborso”.
“Ne consegue che, una volta esercitato tempestivamente in dichiarazione il diritto esso non può
considerarsi assoggettato al termine biennale di decadenza previsto ora dall’art. 21 proc. trib. […] ma solo
a quello di prescrizione ordinario decennale”.
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