coreografia Sasha Waltz musica Tristan Honsinger Quintett Jean-Marc Zelwer (Le tourment de Vassilissa la Belle) danza Davide Camplani, Maria Marta Colusi, Edivaldo Ernesto, Mamajeang Kim, Florencia Lamarca scene Barbara Steppe disegno luci Tomski Binsert, André Pronk la pièce è stata creata da e con i danzatori Nasser Martin-Gousset, Ákos Hargitay/ Thomas Lehmen, Charlotte Zerbey, Takako Suzuki, Sasha Waltz tecnico luci Martin Hauk tecnico suono Lutz Nerger sartoria Emily Abel preparatore Takako Suzuki assistente alla regia Steffen Döring tour manager Karsten Liske SASHA WALTZ A FERRARA co-produzione Sasha Waltz & Guests, Grand Theatre Groningen, NL con il gentile supporto di Senatsverwaltung für Kulturelle Angelegenheiten/ Berlin, Fond Darstellende Künste e.V., Initiative Neue Musik Berlin e.V. PRIMA ASSOLUTA BERLINO 1993 PRIMA ITALIANA FERRARA1996 Sasha Waltz & Guests si avvale del sostegno di Hauptstadtkulturfonds Travelogue I – Twenty to Eight 7 marzo 1996 prima nazionale Allee der Kosmonauten 12 marzo 1998 prima nazionale Zweiland 13 marzo 1998 prima nazionale Impromptus 4 dicembre 2004 prima nazionale spettacolo presentato in collaborazione con durata dello spettacolo: 70’ senza intervallo Dido & Aeneas 16, 17 giugno 2006 prima nazionale nobody 2, 3 novembre 2007 prima nazionale TRAVELOGUE: SURREALISMO E VERITÀ. IL VIAGGIO DI SASHA WALTZ NELL’UNIVERSO DOMESTICO di Marinella Guatterini Con il debutto, nel 1996, di Sasha Waltz il Teatro Comunale di Ferrara approfondiva il suo originale “progetto Germania” e lo rendeva, se possibile, ancor più eclatante. In quell’occasione, infatti, si incaricava di lanciare un’artista ancora totalmente sconosciuta in Italia, tenendo a battesimo Travelogue I ‑ Twenty to Eight, lo spettacolo che l’aveva rivelata in Europa e in America. Sasha Waltz era stata scoperta dalla critica tedesca e internazionale, e il suo lavoro mostrava senza ombra di dubbio una maestria compositiva (e sarebbe stato poco: molti creatori tedeschi possedevano questa qualità) che andava di pari passo con un’innovazione linguistica tale da far scattare, in chi, come noi, aveva seguito negli anni le vicende della danza contemporanea, un campanello d’allarme. All’epoca non sapevamo ancora dire se il suo suono avrebbe avuto la potenza d’urto e soprattutto la durata del tintinnio che avevamo udito molti anni prima, nel 1980, in occasione del debutto italiano di Pina Bausch con Café Müller al Teatro Due di Parma, né se la Waltz sarebbe stata in grado di equiparare l’insondabile genialità della regina del Tanztheater di Wuppertal, ora purtroppo scomparsa, e anzitempo. Ma di una cosa eravamo certi: che grazie a una manciata di spettacoli quella giovane tedesca schietta e volitiva, nata nel 1963 a Karlsruhe, aveva già spostato di centottanta gradi la prospettiva di lettura del Tanztheater indicandone nuove modalità e disvelando un respiro poetico in grado di tradurre gli umori delle giovani generazioni, in specie in quella delicata sfera dei rapporti interpersonali e di coppia di cui la Bausch ci aveva restituito un suo spaccato d’epoca, segnato dalle disillusioni, dalle angosce e dalla frustrazione di una Germania ancora cocentemente ferita dall’or- rore dell’Olocausto. Inoltre: nel 1996 il segno di Sasha Waltz ci era apparso più “allegro” e al tempo stesso meno universale di quello dei campioni e delle campionesse del Tanztheater anni Ottanta. Sebbene l’umorismo (spesso nero) dei suoi primi pezzi e la vorace sensualità della sua danza, si schiantassero volentieri, come avremo modo di constatare questa sera, contro l’alienazione, l’horror vacui e il solipsismo, l’alito della sua coreografia, sgorgante da una gestualità ancora inedita, era fresco; vi serpeggiava la speranza costruttiva di chi non è ancora del tutto provato dal faticoso mestiere di vivere, né intendeva abbandonarsi a quella Sehnsucht così tipicamente tedesca, che affiora persino dalle rovine dei “paesaggi Bausch”. La poetica della Waltz, a metà anni Novanta, si sviluppava invece in un qui e ora del tutto contiguo a una generazione – quella dei giovani nati negli anni Sessanta – e cavalcava la loro voglia di riscatto, recupero e fantasia. Del resto Sasha Waltz aveva alle spalle una formazione e una storia personale ideologicamente positive. La nostra ospite, come gran parte dei coreografi quasi cinquantenni o già approdati al mezzo secolo d’età, non ha seguito un iter di studi regolari: la “regolarità” nella costruzione di un coreografo era, già all’inizio degli anni Novanta, quasi del tutto in estinzione… Occorreva, invece, accumulare esperienze diverse e la Waltz, rifuggendo le Scuole dei grandi maestri del contemporaneo come, a esempio, Merce Cunningham, aveva gettato il suo corpo e il suo cuore nell’avventura sperimentale dei Postmoderni ancora radicali (come Pooh Kaye), convinti della necessità di una danza semplice, naturale, lontana dagli intellettualismi: un’arte “di contatto”. E si vedrà quanta Contact Dance in cui i partner di una coppia rivelano la loro personalità “pelle a pelle” (una modalità nata soprattutto dalla sperimentazione del postmoderno Steve Paxton) emerge dai movimenti inventivi di Travelogue I ‑ Twenty to Eight. Con rinnovata fiducia nelle potenzialità dell’arte interdisciplinare, Waltz aveva inaugurato, proprio a New York, le sue prime collaborazioni creative con pittori, musicisti, generici artisti visivi, performer e naturalmente ballerini. Al ritorno in Germania, nel 1988, la sua biografia si infittiva di scambi, di suggestioni letterarie, poetiche e cinematografiche tradotte in teatrodanza grazie a uno scambio diretto con gli interpreti: ballerini ma anche co-autori. La serie delle improvvisazioni intitolate Showing (I, II, III, IV e V), che inaugurava la residenza della Waltz al centro artistico Bethanien di Berlino (1993), manteneva l’immediatezza degli eventi performativi. La danza nasceva da improvvisazioni di artisti in parte coinvolti nella successiva trilogia Travelogue, come il raffinato compositore e violoncellista Tristan Honsinger, a capo di un suo sestetto, e i versatili danzatori Takako Suzuki e Nasser Martin‑Gousset. Era singolare, e tuttavia esemplificativo di una tendenza ancora attualissima, il fatto che l’artista non avesse creato una sua compagnia fissa, ma preferito la formula dell’invito a “guests”, cioè a ospiti di volta in volta anche diversi, scelti in base alla necessità di un dialogo dal quale scaturissero, auspicabilmente, danza e coreografia diverse. Waltz firmava le idee, i progetti, l’impostazione narrativa: il resto nasceva dal dialogo, e si sa quanto muti il nostro modo di comunicare se mutano i nostri interlocutori... Anche l’espandersi dei ruoli – da coreografa a regista –, era una novità dell’epoca, ora assodata: sempre più spesso ci imbattiamo in metteur en danse che collaborano con registi, e in coreografi che diventano anche registi: il caso esemplare di Alain Platel (l’autore di Out of context - For Pina atteso anche al Comunale di Ferrara) indica come la danza abbia perso la sua centralità “tecnica” a favore di una coreografia tanto onnicomprensiva da definirsi regia tout court. Ma indica anche che dalla seconda metà degli anni Novanta la danza contemporanea ha vissuto una ennesima rivoluzione di cui ancora in parte risente l’influsso. Lo spettatore se ne avvedrà proprio immergendosi nella visione del primo Travelogue. Il titolo innanzitutto – una crasi di travel (viag- gio) e dialogue (dialogo) – indica l’idea di un viaggio che Waltz e compagni compiranno nell’universo, pensate quanto fantastico, della vita domestica. Una cucina (Travelogue I), una stanza da bagno, retro di un equivoco bar (Travelogue II), una camera sovrastante una strada (Travelogue III). Gli ambienti non sono supposti, e neppure trasfigurati: gli oggetti che li ingombrano e servono alle azioni sono del tutto reali e… banali. Ma le luci che li investono (di Thomas Binsert e André Pronk, collaboratori ricorrenti nei primi progetti della Waltz, come la scenografa, Barbara Steppe), emanano un sapore esagerato, artificiale. L’artificio, lo chiarirà anche la danza dello spettacolo di stasera, nasce da una potente suggestione cinematografica. I cinque protagonisti della prima tappa di Travelogue, creata nel 1993, sono del tutto simili a noi (“ogni uomo è un danzatore”: torna qui a risuonare il più nobile motto labaniano) ma spesso giocano un ruolo (eine Rolle spielen, interpretare una parte, o to play a role: in tedesco come in inglese il verbo “interpretare” significa anche “giocare”) caricato di enfasi filmiche. Ep- pure parlano, rispondono al telefono, tentano di mangiare anche se l’egoismo umano – quanti sentimenti spiccioli si riflettono nella piccola cucina! – porta qualcuno a impossessarsi della pagnotta e gli altri ad accontentarsi delle briciole... Il sopruso non è, però, fonte di conflitti esasperati: nella cucina si vivono solo microdrammi che si perdono in un parossismo surreale. C’è spazio per la fantasia di ciascuno, per un sogno d’amore che diventa palpabile scena dei sensi (e di parti del corpo) accarezzati sulle note di un tango milonga, restituito solo con gli arti inferiori, e contro lo spigolo di un tavolo. E c’è tempo per una gimkana liberatoria tra le bottiglie vuote… Attrazione, repulsione, sensualità, aggressività ma anche tenerezza sono i colori delle danze di coppia e di un delicato assolo “bonbon” che rivela pudore. Il viaggio non è grandioso ma minimale: il linguaggio è pero una geniale sintesi di gestualità mimicoacrobatica, di danza di sala, e di musical, con ripetizioni battenti che potrebbero essere ricondotte all’influenza di certa danza fiammin- ga (Anne Teresa De Keersmaecker), lasciata però alle spalle nell’urgenza espressiva che assegna all’ossessione ripetitiva una valenza di scatto musicale, di ritmo orgasmico crescente e decrescente, ma non si interrompe mai, come nell’eruzione vulcanica e rumoristica del finale. Spiace, ieri come oggi, non poter assistere anche alle altre tappe di Travelogue (le due pièce restanti, a loro volta, fanno serata a sé, e non sono mai approdate in Italia) perché l’insieme del viaggio rivela come Waltz si sia mossa, nella prima tappa, sul terreno della commedia, nella seconda del genere noir (è una pièce con delitto) e nella terza in quell’ambito di fiction semifiabesca e infantile che include i Walt Disney e Mary Poppins. La diversità d’umore, di paesaggio e d’espressione di questa sorprendente trilogia comportò, negli anni Novanta, una diversa riflessione sul teatrodanza. Il genere stava infatti progressivamente perdendo lo specifico di denuncia sociale, tipico degli anni Ottanta, per adattarsi a obbiettivi più ecelettici. Ma non aveva ancora trovato coreografi di spicco. L’incontestabile genialità compositiva dei tre Travelogue sarebbe stata per Sasha Waltz una prova certa dei suoi futuri primati. Ma già Travelogue I, con i suoi calibratissimi e speciali interpreti, era un primo, importante biglietto da visita. Al termine dello spettacolo è possibile percepire un vago senso di sospensione: non abbiamo assistito, tuttavia, a una pièce non finita, bensì a un’eclatante messa in scena di tempi inconsistenti più che drammatici, e di talune comiche, più che laceranti, nevrosi. Restano i bisogni primari: mangiare, amare, dormire, ma come soddisfarli nella cucina, metafora di turbamenti giovanili, microconflitti generazionali e delicatissimi orrori umani? Ecco il quesito che arrovellava e ancora arrovella Travelogue I - Twenty to Eight. Una breve postilla In questo scritto, ricamato una seconda volta da un calco pre-esistente, mancano almeno due considerazioni importanti. La prima riguarda la fama conquistata da Sasha Waltz grazie a una serie di produzioni che hanno confermato il suo valore artistico. Pensiamo a una sua seconda trilogia, meno legata a elementi narrativi, e concentrata sul tema del corpo nell’era tecnologica, composta da Körper, S, e noBody else (2000-2002). Una tappa che, tra l’altro, ha visto la coreografa e la sua mobile compagnia, la Sasha Waltz & Guest, trasferiti alla Schaubühne am Lehniner Platz, per un progetto di co-direzione artistica dell’importante teatro berlinese conclusosi nel 2005, proprio l’anno di nascita di Dido & Aeneas. Precedente all’allestimento dell’opera di Henry Purcell, tra l’altro ospitata solo al Teatro Comunale di Ferrara, con grande risalto e merito, un’immersione nella musica di Franz Schubert per Impromptus (2004), coreografia (pure ospitata nel teatro estense) di gracidante malinconia, in cui la Waltz rinunciava all’andamento frantumato in azioni coreo-gestuali del suo precedente teatrodanza per ricercare una sinfonica unità compositiva, poi ulteriormente messa a punto nella lunga gestazione – oltre un anno di lavoro – di Dido & Aeneas. L’opera debuttò alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino grazie alla collaborazione con Attilio Cremonesi, esperto di musica barocca, qui direttore dell’Akademie für Alte Musik e del Vocalconsort di Berlino ma anche ricostruttore e compositore ex-novo delle musiche perdute di Purcell. Sapientemente integrati nell’opera dodici ballerini e cinquantun strumentisti, coristi e cantanti solisti. Il successo internazionale indusse la coreografa a proseguire il suo dialogo con la musica cantata in Medea (2007), nuova edizione dell’opera Medeamaterial del compositore francese Pascal Dusapins, su testo di Heiner Müller che debuttò al Grand Théâtre del Lussemburgo mentre il suo Roméo et Juliette, su musica di Hector Berlioz fu una creazione destinata al Balletto dell’Opéra di Parigi. Al debutto, nell’ottobre 2007, danzatori, coristi e cantanti furono diretti sul podio dal russo Valery Giergiev. Da quella data in poi il lavoro della Waltz si è concentrato su eventi site-specific, tra cui l’inaugurazione del Maxi, Museo di arte contemporanea di Roma, installazioni e agili improvvisazioni. Ma ha anche incluso il recupero delle sue coreografie anni Novanta. Ed eccoci giunti alla seconda considerazione di questa postilla. È in atto, da qualche tempo e in ambito internazionale, una considerevole tendenza a recuperare le più significative o riuscite coreografie del passato. Tale propensione – nel programma coreutico del Teatro Comunale di Ferrara ne è un esempio anche il Rosas danst Rosas, pièce del 1983 di Anne Teresa De Keersmaeker – investe soprattutto i maggiori creatori odierni di danza contemporanea (e non solo loro: pensiamo agli Early Works recuperati dalla settantenne Trisha Brown), probabilmente spinti a misurarsi con il valore della memoria, tante volte esaltato in rassegne, e fomentato da critici ed esperti. Non si tratta, crediamo, di colmare i vuoti dovuti a taluni momenti di stanchezza creativa o esistenziale, di cui peraltro anche gli artisti più sensibili e titolati possono essere preda. O del semplice passaggio di consegne a eventuali danzatori allievi di centri e scuole dirette dagli artisti in questione. Ma forse di una ragionata strategia: del riconoscimento di un atto dovuto alla storia della danza in sé, alla sua tradizione e soprattutto a un pubblico sempre cangiante e nuovo. Non possedere un repertorio, estasiante utopia, professata con ostinato rigore da molti artisti odierni, preclude alle giovani generazioni il piacere di assistere a taluni evergreen del contemporaneo, ma nega anche all’artista quello sguardo allo specchio necessario per trovare o ritrovare se stesso pur in rotte sempre cangianti e da scoprire.