Francesca Fontanarosa Dottoranda in Diritto pubblico dell`economia

 RIVISTA N°: 4/2012
DATA PUBBLICAZIONE: 23/10/2012
AUTORE: Francesca Fontanarosa
Dottoranda in Diritto pubblico dell’economia – Facoltà di Economia
Università degli Studi ‘Sapienza’
LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO TRA FLESSIBILITÀ E SICUREZZA: COME CAMBIA LA
TUTELA GIURIDICA DEL LAVORATORE NELLA LEGGE 28 GIUGNO 2012 N. 92
1)Premessa: il quadro normativo di riferimento 2) Il progetto di riforma in discussione 3)Misure per la
flessibilità in entrata 4)Misure per la flessibilità in uscita 5)Ammortizzatori sociali 6) Riflessioni conclusive:
come cambia la tutela del lavoratore, dal lavoro al mercato.
1. Premessa: il quadro normativo di riferimento
La riforma del mercato del lavoro contenuta nella legge n. 92/2012 “Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” rappresenta una delle leve che il Governo in carica intende
muovere per far ripartire l’economia italiana, attualmente in fase recessiva a seguito della crisi economica e
finanziaria del 2008. Nelle intenzioni dei suoi proponenti, infatti, l’introduzione di una serie di disposizioni
normative volte a rendere il sistema produttivo in grado di “adattarsi rapidamente a cicli economici e a
fenomeni competitivi dai ritmi molto più veloci di un tempo”, consentirebbe all’economia italiana di “realizzare
un mercato del lavoro dinamico e inclusivo, idoneo a contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione
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di qualità” . D’altro canto, la riforma si propone di intervenire sul sistema vigente degli ammortizzatori sociali,
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al fine di eliminare quei differenziali di accesso agli istituti di tutela più volte denunciati da diversa dottrina e
di garantire una protezione sociale adeguata a coloro che sperimentano una situazione di perdurante
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disoccupazione e di precarietà sociale .
Come dimostrano alcuni dati statistici, la recente crisi economica e finanziaria ha condotto la regolazione del
mercato del lavoro italiano a una drammatica verifica: la flessibilità nei rapporti di lavoro si è
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progressivamente tradotta in una generale instabilità economica e sociale dei lavoratori . Più
specificamente, l’evoluzione del mercato del lavoro italiano verso forme più flessibili di regolazione sembra
aver aggravato la situazione sociale degli individui e, in specie, di quelli impiegati con forme contrattuali a
termine o c.d. “atipiche”; questi ultimi si trovano, infatti, in una condizione di non occupazione che risulta
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Così si esprimeva il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero, nella relazione introduttiva al disegno di legge S.3249
“Disposizioni per la riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, presentato il 5 aprile 2012.
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P. Ichino, “Il lavoro e il mercato”, Milano, 1996; G. Bronzini, “Come evitare la segmentazione del mercato del lavoro: la filosofia
europea della flexicurity e i contratti a termine”, consultabile presso: www.europeanrights.eu; M. Raitano,“Ammortizzatori sociali: una
riforma solo annunciata”, in (a cura di) AA.VV., “La riforma Fornero non contrasta il precariato, non estende gli ammortizzatori, riduce le
tutele. Il lavoro com’è e come potrebbe essere”, consultabile presso: www.sbilanciamoci.info/ebook.
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Laddove si intenda la precarietà “come il rischio per il lavoratore di non riuscire a provvedere nel medio periodo al proprio
sostentamento attraverso il mercato del lavoro o la protezione sociale”. Cfr. M. Berton Richiardi, S. Sacchi, “Flex-insecurity. Perché in
Italia la flessibilità diventa precarietà”, Bologna, 2009, 13.
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Le statistiche ufficiali informano di una caduta drastica dell’occupazione nel 2009 e nel 2010 e di un contestuale aumento del tasso di
disoccupazione totale, che si attesta ad un valore del 10,9% per il primo trimestre del 2012. Nel dettaglio, la crisi “ha colpito” in prima
battuta le figure più deboli dell’economia reale: l’occupazione temporanea dipendente e in collaborazione, i professionisti e i lavoratori
autonomi meno attrezzati e, in seconda battuta, anche il lavoro dipendente standard che in un primo momento aveva beneficiato della
copertura della Cassa integrazione guadagni. A ciò si aggiunga che, secondo le rilevazioni effettuate nel primo semestre 2011, le
prospettive di debole ripresa economica sembrano essere appannaggio soltanto delle posizioni a tempo determinato, mentre il lavoro
standard continua a registrare una flessione. Cfr. IRES, “Un mercato del lavoro sempre più “atipico”: scenario della crisi”, Rapporto
novembre 2011, n. 8. Consultabile presso: www.ires.it. Fonte dati: ISTAT, “Indagine trimestrale sulle forze di lavoro”, statistiche
aggiornate al primo trimestre 2012.
aggravata dalla limitata disponibilità di trattamenti economici di sostegno al reddito, nonché dalle scarse
possibilità di reimpiego nel breve termine.
In questo scenario particolarmente critico e, per certi versi, straordinario, l’esame della legge n. 92/2012
inserisce il tema della regolazione del mercato del lavoro in una riflessione più ampia che riguarda la
trasformazione cui è stato sottoposto il diritto del lavoro a seguito di alcuni mutamenti economici, sociali e
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politici . In questa prospettiva, la necessità di un nuovo intervento di riforma del mercato del lavoro sembra
avere origini ben più lontane dell’attuale congiuntura economica negativa, in parte risalenti ad un processo di
cambiamento globale che ha investito negli ultimi decenni la giuslavoristica nazionale, modificandola nel
profondo. Il diritto del lavoro, scienza particolarmente sensibile alle trasformazioni economiche, sociali e
politiche, sembra allontanarsi progressivamente dal modello costituzionale, mettendo a dura prova lo stesso
principio costituzionale che vede nel lavoro stabile ed a tempo indeterminato il principale paradigma di
riferimento per l’erogazione dei diritti, nonché lo “strumento” principale attraverso cui garantire a tutti
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sicurezza e libertà . La globalizzazione dei mercati, la terziarizzazione dell’economia, l’innovazione
tecnologica hanno determinato nel mondo del lavoro un processo di cambiamento che ha inciso fortemente
sulla struttura delle imprese, sulla tipologia dei rapporti di lavoro, sulle tecniche di gestione del personale, sul
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ruolo degli attori sociali e sulla stessa concezione sociale e antropologica del lavoratore , spingendo una
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parte degli studiosi a parlare di “fine del lavoro” e dello stesso diritto del lavoro . Invero, l’impatto di questi
fattori sulle istituzioni della regolazione del lavoro e della sicurezza sociale nazionale è stato considerevole
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ed ha contribuito a ridimensionare la prospettiva costituzionale del diritto al lavoro (ex art. 4 Cost.) , nonché
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l’ambito di applicazione dello Statuto dei lavoratori e, di conseguenza, a far emergere una serie di nuove
istanze di protezione sociale di alcune particolari categorie di individui: i disoccupati e gli inoccupati
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(soprattutto i giovani alla ricerca della prima occupazione) . D’altra parte, l’avanzamento del diritto
comunitario ed, in particolare, il processo di devoluzione di quote crescenti della sovranità dello Stato
nazionale (in primis, la moneta) all’Unione europea ha influenzato sensibilmente l’evoluzione della
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Sul tema si rinvia, da ultimo, a E. Paparella, “Il lavoro e la sua dimensione costituzionale” in Atti del Convegno, “Il diritto costituzionale
alla prova della crisi economica”, Roma, 26-27 aprile 2012, Facoltà di Economia “La Sapienza”, Napoli (in corso di pubblicazione).
6
C. Mortati, “Commento all’art. 1 della Costituzione”, in (a cura di) G. Branca, “Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali 112”, Bologna-Roma, 1975, 12 ss; U. Romagnoli, “Il lavoro in Italia: un giurista racconta”, Bologna, 1991; L. Mengoni, “Fondata sul
lavoro: la Repubblica tra diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà” in (a cura di) Napoli M., “Costituzione, lavoro,
pluralismo sociale”, Milano, 1998, 3 ss; G. Ferrara, “Il lavoro come fondamento della Repubblica e come connotazione della democrazia
italiana” in (a cura di) G. Casadio, “I diritti sociali e del lavoro nella Costituzione italiana”, Roma, 2006, 199 ss; G. Loy, “Una Repubblica
fondata sul lavoro”, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2009, vol. 2, 197 ss; G. U. Rescigno, “Lavoro e Costituzione”, Dir. pubbl., 2009, 21 ss; M.
Benvenuti, “Lavoro (principio costituzionale del)”, in Enc. giur. Treccani, Roma, Agg., 2009, vol. XVIII, 1-19; M. Luciani, “Radici e
conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro”, in Arg. dir. lav., n. 3, 2010, 628 ss.
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Si è parlato, al riguardo, di passaggio “storico” dal Lavoro ai lavori, dal lavoro alla cittadinanza; dal cittadino – lavoratore al cittadino –
consumatore. Per approfondimenti, si rinvia a: U. Romagnoli, “Dal lavoro ai lavori”, in Lav. dir., 1997, 3 ss; R. Del Punta, “Statuto dei
lavori e processo di riforma del diritto del lavoro”, in Dem. dir., 2004, vol. 3, 11 ss; Z. Bauman, “Consumo, dunque sono”, Bari-Roma,
2008, 3 ss; R. Bin, “Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi” in (a cura di) G. Balandi, G. Cazzetta, “Diritto e lavoro nell'Italia
repubblicana”, Milano, 2009, 279 ss.
8
Cfr. Darhedorf, “Per un nuovo liberalismo”, Roma-Bari, 1990; A. Gorz, “Metamorfosi del lavoro”, Torino, 1992; J. Rifkin, “La fine del
lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento del post-mercato”, Milano, 1995; U. Beck, “Il lavoro nell’epoca della fine del
lavoro”, Torino, 2000; M. D’Antona, “Il diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità?”, in (a cura di), D’Antona M., “Opere”, vol. I,
Milano, 2000, 221 ss.
9
Specie se si rileva nell’art. 4 Cost. una norma di principio e di programma, che vincola il legislatore futuro a rendere effettiva la
“pretesa” dei cittadini ad essere occupati. Al riguardo di ampio respiro è l’analisi condotta da V. Crisafulli, “Appunti preliminari sul diritto
al lavoro nella Costituzione” in Riv. giur. lav., 1951, vol. I, 154. Si rimanda inoltre a C. La Macchia, “La pretesa al lavoro”, Torino, 2000,
112.
10
Nelle parole del giuslavorista da più parti considerato il padre dello Statuto dei diritti dei lavoratori: “la tutela del posto di lavoro è di
fatto l’unico profilo normativo in cui si sia realizzata una forma di tutela del diritto al lavoro”. Cfr. G. Giugni, “Il diritto al lavoro e le
trasformazioni dello Stato sociale” in (a cura di) M. Napoli, “Costituzione, lavoro, pluralismo sociale”, Milano, 1998, 47.
11
Di fatto alla luce della disattesa realizzazione del “pieno impiego”, specie nell’accezione di occupazione stabile ed a tempo pieno, a
risultare è oggi l’amplissimo prevalere di casi di disoccupati di lungo periodo, di inoccupati di disoccupati “parziali” o saltuari, nonché di
una concentrazione della disoccupazione in determinate fasce della popolazione (giovani anziani donne) ed in alcuni contesti territoriali
(il Mezzogiorno). Cfr. ISFOL “Il punto su … flessciurezza”, in (a cura di) Ministero del lavoro e della previdenza sociale, “Monografie:
temi ed argomenti”, 2007, consultabile presso: www.isfol.it.
2
giuslavoristica nazionale, sia da un punto di vista normativo, sia nelle condizioni materiali di base sulle quali
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il diritto del lavoro è stato costruito nel suo divenire storico , ponendolo, s’è detto, “di fronte al presente
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dell’Europa, ma anche di fronte al suo passato” .
Nel complesso e mutevole rapporto tra costruzione del mercato comune ed evoluzione delle politiche sociali
a livello comunitario trova, infatti, origine quel percorso di riforma del mercato del lavoro nazionale, iniziato
nel 1997 (con la l. n. 196) e proseguito fino ai nostri giorni. Nel dettaglio, a partire dall’inserimento nel
Trattato di Amsterdam del titolo VIII (artt. 125-130) sull’occupazione, si è assegnato alla Comunità europea
un ruolo di coordinamento e valutazione delle politiche nazionali sull’occupazione, nonché di stimolo per
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l’adozione di politiche nazionali convergenti . Da lì in poi, prima nell’ambito della procedura del
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coordinamento aperto e, a seguire, con il Libro verde del 2006 e la successiva Comunicazione della
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Commissione europea , si fa sempre più spazio l’idea che sia possibile realizzare crescita economica e
occupazione agendo da un lato sulla flessibilità del lavoro, ossia adottando tipologie contrattuali flessibili che
facilitino le transizioni tra i posti di lavoro e, dall’altro lato, sulla sicurezza, la quale nella definizione promossa
a livello comunitario sembra superare l’obiettivo del mantenimento del proprio posto di lavoro e dirigersi
verso una tutela più ampia, da realizzarsi principalmente nel mercato del lavoro e, pertanto, fortemente
dipendente dalla capacità economica e burocratica degli Stati membri di predisporre politiche attive e
passive del lavoro.
Come già rilevato, tuttavia, rispetto alle indicazioni comunitarie per l’implementazione di una strategia di
flessibilità nella sicurezza (c.d. “flessicurezza”), in Italia l’evoluzione del mercato del lavoro verso forme più
flessibili di regolazione (avvenuta prima con il c.d. “pacchetto Treu”, l. 196/1997 e, successivamente, con la
pubblicazione del Libro bianco del 2001 e con la l. 30/2003) non è stata affiancata da una ridefinizione delle
forme di protezione sociale, di sostegno al reddito, di accompagnamento al reimpiego del lavoratore
momentaneamente fuori dal mercato del lavoro. L’introduzione di numerose tipologie contrattuali c.d.
“flessibili” ha, all’opposto, messo in discussione alcuni dei principali elementi di stabilità che caratterizzavano
il lavoro nei tempi, nei luoghi, nelle retribuzioni, nei percorsi professionali, provocando un’alterazione dei
fattori che garantiscono la sicurezza del lavoratore nel mercato e nel rapporto di lavoro.
Di fronte a questa situazione, aggravata dal perdurare della fase recessiva attualmente in atto, si è tornati
quindi a discutere di una riforma del mercato del lavoro, che avvicini l’attuale modello di regolazione italiano
agli orientamenti comunitari in materia. A conferma di quanto detto, l’orientamento di politica economica dei
più importanti Paesi dell’Unione europea e, in misura maggiore, la lettera della Banca centrale europea
dell’estate 2011 hanno esercitato una forte pressione sulla politica economica italiana in materia, arrivando
financo a “raccomandare” dettagliatamente un intervento di riforma strutturale volto a “rafforzare le misure
intese a combattere la segmentazione del mercato del lavoro, anche rivedendo aspetti specifici della
legislazione a tutela dell’occupazione, comprese le norme e le procedure che disciplinano i licenziamenti, e
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Si è parlato di infiltrazione del diritto della concorrenza nel diritto del lavoro. Cfr. A. Lyon – Caen, “L’infiltration du Droit du travail par le
Droit de la concurrance”, in Droit Ouvrier, 1992.
13
Cfr. S. Sciarra, “Di fronte all’Europa. Passato e presente del diritto del lavoro” in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 12, 2003.
Consultabile presso: www.lex.unict.it. Sul punto, si veda anche G. M. Garofalo, “Unità e pluralità del lavoro nel sistema costituzionale” in
Giorn. dir. lav. rel. ind, 2008, vol. 1, 21 ss; G. Azzariti,“Brevi notazioni sulle trasformazioni del diritto costituzionale e sulle sorti del diritto
del lavoro in Europa” in (a cura di) E. Ghera, A. Pace, “L’attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro”,
Napoli, 2009, 150 ss.
14
La promozione di una maggiore flessibilità è presente, infatti, nella procedura di coordinamento delle politiche del lavoro, la c.d.
Strategia europea per l’occupazione, inaugurata nel novembre del 1997 con il Consiglio europeo di Lussemburgo e sancita nel Titolo
VIII del Trattato di Amsterdam; essa si articola, infatti, attorno a quattro obiettivi o pilastri fondamentali (occupabilità, imprenditorialità,
adattabilità e pari opportunità), sulla base dei quali gli Stati membri sono invitati a programmare i propri interventi in materia di politiche
dell’occupazione; tra questi, il pilastro dell’adattabilità delle imprese e dei lavoratori ai cambiamenti dell’economia e del mercato del
lavoro richiama esplicitamente la necessità di promuovere una maggiore flessibilità nel mercato e nel rapporto di lavoro.
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Inserito formalmente nell’ordinamento comunitario nel Trattato di Amsterdam del 1997 e, in particolare, come strumento da utilizzare
nell’ambito delle politiche sociali e del lavoro, così come stabilito dal titolo VIII sull’Occupazione e dal titolo XI dedicato alla Politica
sociale, istruzione, formazione professionale e gioventù.
16
COM(2006)708, “Libro verde: modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”, Bruxelles, 2006, consultabile
presso: www.europarl.europa.eu.
17
COM(2007)359, “Verso principi comuni di flessicurezza. Posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza”,
Bruxelles, 2007, consultabile presso: http://eurlex.europa.eu.
3
rivedendo il sistema di indennità di disoccupazione, attualmente frammentario, tenendo conto dei vincoli di
18
bilancio” . Si tratta di “suggerimenti” fatti propri dall’Esecutivo attualmente in carica, che nel predisporre il
testo della riforma ha più volte fatto riferimento alle indicazioni comunitarie.
2. Il progetto di riforma in discussione
Sul piano degli obiettivi, la legge n. 92/2012 si propone di ridurre la segmentazione attualmente presente nel
mercato del lavoro, creare occupazione di qualità, garantire la crescita economica e ridurre la
disoccupazione. Tali obiettivi, riconducibili tanto alle indicazioni comunitarie sulla flessicurezza, quanto a
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note analisi che contrappongono insiders ed outsiders , costituiscono il Leitmotiv di questa come di altre
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precedenti proposte di riforma del mercato del lavoro nazionale , con le quali l’attuale legge condivide la
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necessità di agire strutturalmente sul versante dell’offerta di lavoro . In questo senso vanno lette le
disposizioni che, in tema di flessibilità, puntano a contrastare l’uso improprio e strumentale dei contratti
atipici (che sembra aver aumentato la “precarietà” sociale e il dualismo del mercato del lavoro italiano),
nonché ad eliminare le eccessive rigidità che limiterebbero l’uscita dal mercato del lavoro di quanti risultano
22
impiegati con contratti a tempo indeterminato . In tema di sicurezza, d’altra parte, la maggiore mobilità della
forza lavoro derivante dagli interventi sulla c.d. flessibilità in uscita verrebbe bilanciata dalla predisposizione
di un sistema di protezione sociale più ampio, in grado di coinvolgere anche quanti, per l’intermittenza
temporale della loro attività lavorativa, non riescono a maturare il minimo contributivo necessario per
l’accesso al sussidio di disoccupazione, ordinario o straordinario. Analogamente, la definizione di uno
schema di riqualificazione professionale che si affianchi al sostegno reddituale (intervento rimesso ad un
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24
successivo intervento governativo ), svolgerebbe quel ruolo di raccordo tra politiche passive ed attive ,
funzionale ad un passaggio della tutela sociale del lavoratore dal rapporto al mercato del lavoro.
3. Misure per la flessibilità in entrata
In linea con l’articolazione del disegno di legge, le prime misure affrontano la disciplina dell’ingresso nel
mercato del lavoro. All’art. 1, commi da 9 a 36, della l. n. 92/2012 si colloca, infatti, l’intervento di “restauro”
delle principali tipologie contrattuali di impiego, con il dichiarato obiettivo di favorire “l’instaurazione di
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rapporti di lavoro più stabili” . A tal fine, dopo aver ribadito il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo
18
Raccomandazione del Consiglio, del 12 luglio 2011 sul programma nazionale di riforma 2011 dell’Italia, che formula un parere del
Consiglio sul programma di stabilità aggiornato dell’Italia, 2011-2014. Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. C 215 del 21.07.2011, 4 ss,
consultabile presso: http://eur-lex.europa.eu.
19
P. Ichino, “Il lavoro”, op. cit. 3.
20
In ordine cronologico: il d.d.l. n. 1481 presentato al Senato il 25 marzo 2009, “Disposizioni per il superamento del dualismo del
mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili
e la garanzia di pari opportunità nel lavoro per le nuove generazioni”; la p.d.l. n. 2630 presentata alla Camera dei Deputati il 22 luglio
2009, “Disposizioni per l’istituzione di un contratto unico di inserimento formativo e per il superamento del dualismo nel mercato del
lavoro”; il d.d.l. n. 2000 presentato al Senato il 5 febbraio 2010 “Istituzione del contratto unico di ingresso”; il d.d.l. n. 1873 presentato al
Senato il 24 febbraio 2010, “Codice dei rapporti di lavoro. Modifiche al Libro V del codice civile”.
21
L’intervento di riforma del mercato del lavoro risulta coerente con un orientamento di tipo supply side economics che sembra
riguardare l’intera politica economica del governo attualmente in carica. In altre parole si vuole enfatizzare il ruolo dell’offerta nello
stimolare la crescita economica attraverso l’effetto–incentivo di una minore tassazione; nel caso di specie, la legge n. 92/2012, così
come le precedenti proposte, ritiene che un intervento di riduzione del costo del lavoro conseguente alla riduzione del costo del
licenziamento possa favorire gli investimenti economici, nonché il numero delle assunzioni.
22
In questo senso si è espressa, nel tempo, gran parte della dottrina economica; tra i vari contributi sul tema sia consentito un rinvio a
OECD, “Jobs study: evidence and explaination”, Parigi, 1994; OECD, “Employment outlook”, Parigi, 1999. Entrambi i contributi sono
consultabili presso: www.oecd.org.
23
Art. 4, comma 50, della l. 92/2012. Al riguardo pare opportuno evidenziare che la disposizione interviene riducendo il termine
temporale della delega (da 24 a 6 mesi), quest’ultimo già differito dalla l. n. 183 del 2010 che di fatto spostava il termine per l’attuazione
della delega di cui all’art. 1, comma 30 ss. della l. 247 del 2007 al novembre 2012. Per quanto concerne i contenuti, tra i criteri direttivi
della delega una novità di rilievo è costituita dalla previsione del “diritto all’apprendimento permanente”, di cui al comma 51 dell’art. 4
della l. n. 92/2012.
24
Sul punto, si veda anche E. Paparella,“Riforma del mercato del lavoro e ‘livelli essenziali delle prestazioni’ in materia di politiche attive
del lavoro e servizi per l'impiego”, in questa Rivista, n. 2/2012.
25
Art. 1, comma 1, lett. a) della l. n. 92/2012.
4
26
indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro, il Governo ha, da un lato, accolto la proposta delle
parti sociali di far diventare l’apprendistato (figura contrattuale a tempo indeterminato) il “canale privilegiato”
di accesso al lavoro dei giovani; dall’altro, ha previsto una serie di disposizioni volte a contrastare l’abuso di
determinate figure contrattuali in funzione c.d. “precarizzante”, a causa del dumping sui costi delle diverse
tipologie di contratti.
In questa prospettiva si inserisce l’iniziativa volta all’abrogazione del contratto di inserimento, prevista
dall’art. 1, commi 14 e 15, della legge in parola, cui segue la promozione ed incentivazione
dell’apprendistato. L’art. 1, commi da 16 a 19, di fatto, modifica quanto previsto dal d.lgs. n. 167/2011 (Testo
unico sull’apprendistato) in materia di durata minima del contratto (ora fissata in 6 mesi) e di assunzioni,
inserendo la regola secondo cui un’azienda può assumere nuovi apprendisti solo se almeno il 50 per cento
delle precedenti assunzioni sono confluite, nell’ultimo triennio, in contratti a tempo indeterminato. Lo scopo di
un intervento in tal senso è quello di riportare l’istituto dell’apprendistato alla sua originaria funzione di
“trampolino di lancio” verso posizioni lavorative stabili, considerate una naturale conseguenza della
conclusione di una prima fase dell’esperienza lavorativa basata sull’addestramento e sull’apprendimento del
lavoratore.
Ad una prima lettura, il focus sull’apprendistato che emerge nel disegno di legge in oggetto sembra riflettere
quelle ipotesi di contratto unico avanzate dalla dottrina giuslavoristica negli ultimi anni; invero, l’opportunità di
inserire nell’ordinamento italiano un modello analogo al contratto unico di inserimento disegnato dagli
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economisti T. Boeri e P. Garibaldi ha effettivamente animato la discussione con le parti sociali precedente
la disposizione del d.d.l., salvo poi essere accantonata nel testo definitivo, non avendo raggiunto un
consenso condiviso tra le parti sociali. Rispetto alla predisposizione di un’unica forma contrattuale di
ingresso al mercato del lavoro che contenga una “valvola” di flessibilità nella fase di ingresso nel mercato del
lavoro, il Governo ha, infatti, preferito salvaguardare un certo livello di flessibilità in entrata, preoccupandosi
più che altro di scoraggiare eventuali incentivi “perversi” all’abuso di queste forme contrattuali. Di
conseguenza, la riforma ha modificato in senso restrittivo l’utilizzo delle tipologie contrattuali atipiche e, in
particolare, del contratto a tempo determinato, del contratto di lavoro a progetto e delle partecipazioni
lavorative rese in regime di lavoro autonomo.
L’art. 1, commi 9, 10, 11, 12 e 13, e l’art. 2, commi da 25 a 39, della legge in esame apportano notevoli
modifiche alla fattispecie del contratto a tempo determinato, così come attualmente disciplinata dal d.lgs. n.
368/2001. In primo luogo, in analogia con quanto previsto all’art. 1, comma 1, lett. a), si riafferma la
preminenza del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rispetto alle altre tipologie contrattuali.
Tale disposizione, posta in apertura alla norma che riforma il contratto a termine, suggerisce una lettura di
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questa tipologia contrattuale molto fedele alla ratio che per prima ne ha giustificato la previsione :
l’apposizione del termine al contratto di lavoro standard è possibile solo se sussistono determinate
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Quest’ultima affermazione è, del resto, in linea con quanto previsto nell’agenda europea “Europa 2020”.
Il contratto unico di inserimento, nel modello predisposto dagli economisti T. Boeri e P. Garibaldi, intende ricondurre le diverse
tipologie contrattuali di impiego ad un’unica figura contrattuale alla quale si applicano tutele e garanzie diverse a seconda che si tratti
della fase di ingresso al mercato del lavoro o della fase successiva. La flessibilità richiesta dal mutato contesto economico sarebbe
concentrata, nelle intenzioni dei suoi proponenti, nella prima fase, laddove è possibile “sperimentare” il lavoratore, nonché “formare” il
medesimo per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Per approfondimenti, si veda: T. Boeri, P. Garibaldi, “Un nuovo contratto per tutti.
Per avere più lavoro, salari più alti e meno discriminazione”, Milano, 2008.
28
Cfr. M. D’Antona, “Occupazione flessibile e nuove tipologie del rapporto di lavoro” in (a cura di) M. D’Antona, R. De Luca Tamajo, G.
Ferraro, L. Ventura, “Il diritto del lavoro negli anni ‘80”, Napoli. 1988, 111 ss. L’A. ritiene che la regolamentazione fortemente restrittiva
del contratto a termine, desunta dalla l. n. 230 del 1962, sia dettata dalla volontà di “promuovere la massima espansione
dell’occupazione stabile, vietando l’uso del contratto a termine come strumento ordinario di integrazione dell’organico aziendale” (prassi
largamente diffusa e documentata, per l’operare dell’art. 2097 cod. civ.). È, tuttavia, noto come da lì in poi il modello “restrittivo” della l.
n. 230 del 1962 sia stato progressivamente abbandonato; in particolare, prima nel 1977, in quella fase del diritto del lavoro nota come
“legislazione d’emergenza” a seguito dell’approvazione del decreto legge n. 876 (in seguito convertito nella legge n. 18 del 1977) che
definisce una disciplina speciale del rapporto di lavoro a tempo determinato relativamente ai settori del commercio e del turismo; in
seguito, negli anni ’80, quando la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato viene estesa a tutti i settori produttivi caratterizzati
da punte ricorrenti di attività (l. n. 79 del 1983) e nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali
o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (l. n. 863 del 1984 e n. 56 del 1987). Da ultimo,
è opportuno segnalare che con il recepimento della direttiva comunitaria n. 70 del 1999 (con d.lgs. n. 368 del 2001) si è resa possibile
l’assunzione tramite questa forma contrattuale laddove si manifestino ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo.
27
5
condizioni (si parla al riguardo di esigenze produttive, organizzative, sostitutive che l’impresa manifesta in
particolari contingenze). La ribadita “eccezionalità” del contratto a termine, tuttavia, sembra attenuarsi a
seguito dell’inserimento dell’art. 1-bis, nel quale si dispone sostanzialmente la “liberalizzazione” del primo
contratto a termine di durata non superiore a 12 mesi. La possibilità di non allegare le causali richieste per
l’apposizione del termine al primo contratto (non superiore a 12 mesi) stipulato tra datore di lavoro e
29
lavoratore è comprensibile alla luce della necessità del datore di lavoro di “provare” il lavoratore prima di
assumerlo, ma appare quanto meno controversa rispetto alla volontà, più volte manifestata dai riformatori, di
scoraggiare l’abuso di questa tipologia contrattuale. La previsione normativa potrebbe, infatti, creare un
“circolo vizioso” che, specie per le mansioni a bassa qualifica, per le quali si suppone non sia necessario un
elevato investimento in formazione del lavoratore né un periodo di “prova” così lungo, incentiverebbe il
datore di lavoro ad assumere, per la stessa posizione, un nuovo lavoratore ogni 12 mesi.
Il verificarsi o meno di una situazione di questo tipo, chiaramente foriera di precarietà, dipende dalla capacità
deterrente di altre e contestuali disposizioni presenti nello stesso testo di legge. Il riferimento è qui ai commi
28, 29 e 30 dell’art. 2 della legge in esame, laddove si prevede un sensibile aumento dell’aliquota
contributiva (fino all’1,4 per cento) per tutte le forme contrattuali diverse dai rapporti di lavoro subordinato a
30
tempo indeterminato , che potrà essere restituito al datore di lavoro solo se, al termine del periodo di prova
o nei successivi 6 mesi, il precedente contratto a termine venga “trasformato” in rapporto di lavoro a tempo
indeterminato.
Sempre in una logica di contrasto all’uso precarizzante del contratto a tempo determinato, vanno lette le
disposizioni che modificano i tempi e le procedure della prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il termine
prefissato, oggi di fatto possibile entro determinati limiti temporali, qualora sussistano determinate esigenze
organizzative delle imprese. La modifica legislativa interviene nel senso di un maggiore controllo sulla prassi
che vede la continuazione dei contratti di lavoro a tempo determinato oltre il termine prefissato, nonché
sull’eccessiva reiterazione degli stessi. Al riguardo, in primo luogo, è prevista l’implementazione di una
procedura che obbliga il datore di lavoro a comunicare al Centro per l’impiego territorialmente competente la
31
durata dell’eventuale prosecuzione del rapporto di lavoro oltre la scadenza ; in secondo luogo, l’iniziativa
legislativa ha inteso prolungare l’intervallo di tempo minimo da rispettare prima di procedere alla
32
riassunzione a termine . Nessuna modifica riguarda, invece, il meccanismo sanzionatorio in caso di
violazione dei termini o delle procedure previste, che comporta l’automatica trasformazione del contratto a
termine in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, alcune modifiche alla l. n. 183/2010
sono intervenute nella disciplina dei termini per l’impugnazione di un contratto di lavoro ritenuto illegittimo
per nullità del termine apposto, ovvero per mancanza di specificazione o di “vera” temporaneità dell’esigenza
dell’impresa nel ricorso a questa forma contrattuale. Nello specifico, i termini per l’impugnazione previsti
all’art. 32, comma 3, lett. a), sono stati prolungati fino a 120 giorni, per i contratti di durata inferiore ai 12
mesi, e fino a 180 giorni, per i contratti di durata superiore. Resta, ad ogni modo, in vigore il c.d. “doppio
binario” che, ai sensi del comma 5 dell’art. 32, l. n. 183/2010, prevede la “conversione” del contratto a
termine in contratto a tempo indeterminato e il riconoscimento di un importo risarcitorio, ogniqualvolta il
giudice abbia dichiarato l’illegittimità del contratto. In proposito, l’unica modifica prevista riguarda la
precisazione che l’indennità disposta come risarcimento del pregiudizio subìto dal lavoratore, nel periodo
compreso tra la scadenza del contratto e l’ordine giudiziario di ricostituzione del rapporto, deve essere
33
compresa tra 2,5 e 12 mensilità retributive e “ristora per intero le conseguenze retributive e contributive” .
Va rilevato che le disposizioni analizzate si dimostrano coerenti con le indicazioni tracciate dalla direttiva
europea n. 99/70/CE sul contratto a tempo determinato e, in particolare, con quei principi volti ad evitare che
l’utilizzo di forme contrattuali a termine determini situazioni di precarietà per i lavoratori.
29
Detta disposizione si applica anche nel caso in cui si tratti di “prima missione” di un lavoratore nell’ambito di un contratto di
somministrazione a tempo determinato, modificando in tal senso anche il d.lgs. n. 276/2003.
30
Ad esclusione dei lavoratori impiegati con contratto a tempo determinato in sostituzione di lavoratori assenti, ovvero dei lavoratori
stagionali e degli apprendisti.
31
Ai sensi dell’art. 1, comma 9, lett. e) della l. n. 92/2012, il contratto a tempo determinato prosegue fino a 30 giorni (invece dei 20
previsti dalla disciplina vigente) nel caso in cui abbia durata inferiore a 12 mesi; fino a 50 giorni, se il contratto a termine abbia durata
superiore.
32
Ai sensi dell’art. 1, comma 9, lett. g) della l. n. 92/2012, il periodo di tempo minimo da rispettare viene ampliato da 10 a 60 giorni, per i
contratti di durata inferiore a 12 mesi, da 20 a 90 giorni, per quelli di durata superiore.
33
Art. 1, comma 13, della l. n. 92/2012.
6
Per quanto concerne la disciplina del contratto di lavoro a progetto, la riforma oggetto d’analisi modifica
alcuni articoli del d.lgs. n. 276/2003. L’obiettivo è, ancora una volta, quello di invertire la tendenza che vede i
datori di lavoro assumere il lavoratore con un contratto di collaborazione in luogo di un rapporto di lavoro, di
fatto, subordinato e duraturo. Al riguardo, l’azione di riforma ha eliminato il concetto ritenuto fuorviante del
“programma di lavoro”, lasciando in vigore soltanto il contratto “a progetto”. Quest’ultimo, ai sensi del
novellato art. 1, commi da 23 a 25, deve essere sempre collegato ad un determinato risultato finale e tale
risultato deve essere necessariamente diverso dall’oggetto sociale del committente. La riforma ha poi
ristretto ulteriormente l’ambito di applicazione del contratto di collaborazione, prevedendo che
l’individuazione di un contenuto specifico del progetto costituisca un elemento essenziale di validità del
contratto, pena la “conversione” del medesimo in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Da ultimo, l’analisi delle disposizioni di riforma della c.d. “flessibilità in entrata” si sofferma sulla nuova
disciplina relativa alle prestazioni lavorative rese da soggetti in regime di lavoro autonomo, generalmente
note come “partite Iva”. La riforma modifica il d.lgs. n. 276/2003, aggiungendo allo stesso l’art. 69-bis, nel
quale si afferma che, qualora il rapporto di lavoro soggetto a partita Iva presenti determinate caratteristiche,
questo debba essere considerato come forma di collaborazione coordinata e continuativa. Ciò si presume
ogniqualvolta la prestazione lavorativa di un individuo rientri in almeno due delle seguenti condizioni: il
contratto risulta avere una durata superiore ad almeno 8 mesi nell’arco di un anno solare; il contratto
prevede un corrispettivo pari ad almeno l’80 per cento dei corrispettivi percepiti dal lavoratore; il contratto
dispone la fruizione di una postazione di lavoro presso una delle sedi del committente. La presunzione di tali
caratteristiche, di cui non sia stata fornita prova contraria da parte del committente, è tale da comportare, ai
sensi dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276/03, l’automatica trasformazione in contratto di lavoro a tempo
indeterminato.
4. Misure per la flessibilità in uscita
La disciplina di riforma delle principali forme contrattuali di ingresso al mercato del lavoro è accompagnata
dalla contestuale modificazione della disciplina dei licenziamenti individuali, così come definita dalla l. n.
604/1966 e dalla l. n. 300/1970.
L’intervento sulla c.d. “flessibilità in uscita” rappresenta, come già evidenziato, il naturale completamento di
una strategia di riforma volta a rendere il mercato del lavoro nazionale maggiormente dinamico e
rispondente ai cambiamenti ciclici del sistema economico. Nelle intenzioni del legislatore, la “manutenzione”
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ha l’obiettivo di eliminare quelle rigidità connesse alla tutela del
lavoratore nel rapporto di lavoro che si ritiene ostacolino il normale meccanismo di aggiustamento del
sistema produttivo nelle diverse fasi del ciclo economico. L’assunto da cui sembra muovere l’iniziativa
34
legislativa del Governo è quello, per la verità mai dimostrato empiricamente , secondo cui rendere l’uscita
dal mercato del lavoro più “facile” normativamente, nonché meno costosa economicamente, incentiverebbe i
datori di lavoro ad assumere un numero maggiore di lavoratori quando le condizioni economiche lo
35
richiedano . Le modifiche contenute all’art. 1, commi da 37 a 43 della l. n. 92/2012 riflettono questa linea di
pensiero, in quanto intendono intervenire sia sulle causali poste alla base del licenziamento, sia sugli aspetti
34
L’assunto secondo cui una riduzione dei costi di licenziamento porterebbe ad una riduzione generalizzata della disoccupazione,
originariamente sostenuto dall’Ocse, è oggi è messo in discussione anche da economisti e grandi istituzioni internazionali che in
passato l’avevano sostenuto. Questi studi hanno portato a concludere che non sussiste una relazione significativa tra grado di
flessibilità del mercato del lavoro e riduzione della disoccupazione, o meglio che l’effetto della diminuzione dei costi di licenziamento
sulla disoccupazione sarà positivo se prevale la tendenza delle imprese ad assumere, mentre potrà ragionevolmente essere negativo
se a predominare è la tendenza a licenziare. Cfr. OECD, “Employment outlook”, Parigi, 2007, consultabile presso: www.oecd.org.
35
Il dibattito sul tema è sterminato. Tra tutti si segnalano: A. Ichino, P. Pinotti, “La roulette russa dell'articolo 18”, del 3.3.2012,
consultabile presso: www.lavoce.info. Per contro, M. Franzini, M. Raitano,“Rigido, flessibile o “liquido”? Il mercato del lavoro e il rischio
di riforme inutili”, del 24 febbraio 2012, consultabile presso: www.nelmerito.com. Nel primo caso gli autori sottolineano che l’eccessiva
durata dei processi in materia di lavoro, che si aprono a seguito della possibilità per il lavoratore di contestare l’atto di licenziamento al
fine di essere reintegrato nel posto di lavoro, causa un aggravio dei costi che, in caso di accertata illegittimità del licenziamento,
dovrebbero sostenere datori di lavoro e lavoratori (in termini di mancate retribuzioni). Nel secondo caso, gli Autori ritengono che
l’assunto alla base della riforma dell’art. 18, ovvero quello di voler favorire una maggiore mobilità/flessibilità della forza lavoro impiegata
con contratti a tempo indeterminato, non trova evidenza empirica, in quanto studi condotti su un campione di lavoratori c.d. standard
dimostra, al contrario, un’elevata mobilità nelle posizioni lavorative coperte dagli stessi nel medio periodo.
7
più propriamente procedurali, al fine di rendere maggiormente prevedibili e, per ciò solo, più bassi i costi di
licenziamento. In primo luogo, l’art. 1, comma 37, modifica l’art. 2 della l. 604/1966, inserendo l’obbligo per il
datore di lavoro di specificare i motivi che hanno determinato il licenziamento contestualmente alla sua
comunicazione; per contro, il lavoratore licenziato che intenda presentare ricorso al tribunale competente,
ovvero che manifesti la volontà di ricorrere alla procedura di conciliazione o arbitrato, deve maturare la
propria azione in un termine ridotto da 270 a 180 giorni. La procedura di conciliazione obbligatoria
preventiva, prevista dal comma 40 dell’art. 1 della legge in parola, si attiva nel caso in cui il datore di lavoro,
avente i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 St. lav., intenda procedere al licenziamento del prestatore per
un giusto motivo oggettivo ed è finalizzata a risolvere il rapporto di lavoro dietro l’indicazione di una strategia
di ricollocazione del lavoratore. Le parti, eventualmente assistite dalle organizzazioni di rappresentanza o da
un avvocato e da un consulente del lavoro, sono tenute ad esaminare anche soluzioni alternative al recesso;
tuttavia, soltanto nel caso in cui la conciliazione si concluda con la risoluzione consensuale del rapporto, il
lavoratore ha diritto a percepire l’indennità prevista al comma 5 dell’art. 2 della legge in oggetto.
L’inserimento della conciliazione obbligatoria preventiva ha, pertanto, lo scopo di limitare nel numero le
controversie giudiziarie in materia di lavoro e, inoltre, quello di “responsabilizzare” il datore di lavoro che
intende licenziare un suo prestatore d’opera per motivi inerenti a ragioni economiche, produttive,
36
organizzative dell’impresa . Attraverso la conciliazione si vuole, infatti, incentivare il datore di lavoro a
valutare la convenienza economica di una decisione in tal senso, contemperandola con le ragioni sindacali
volte alla tutela sociale e alla ricollocazione professionale del lavoratore, che si potrebbero attivare anche ai
sensi del comma 1 dell’art. 4, del d.lgs. n. 276/2003 (in tema di Agenzie del lavoro).
A questa iniziativa legislativa si affianca la modifica dell’art. 18 della l. n. 300/1970, relativo alla
“reintegrazione nel posto di lavoro”, ovvero del sistema di risarcimento che si attiva a seguito del
licenziamento individuale ritenuto illegittimo. Rispetto alla disciplina precedente, l’innovazione legislativa
prevede l’erogazione di un indennizzo economico nel caso in cui il datore di lavoro disponga un
licenziamento per giustificato motivo e tale “giustificato” motivo sia accertato come illegittimo e limita l’ordine
di reintegrazione alla valutazione discrezionale del giudice, solo in alcune ipotesi determinate. Mentre la
disciplina precedente prevedeva lo stesso risarcimento, da applicarsi nelle ipotesi in cui la necessaria
motivazione a base del licenziamento fosse ritenuta invalida dal giudice, il testo di legge novellato, invece,
introduce due diversi regimi, a seconda delle motivazioni addotte dal datore di lavoro. Nello specifico, la
riforma lascia immutata la disciplina sanzionatoria prevista per i licenziamenti c.d. “discriminatori”; di
conseguenza, il giudice che abbia dichiarato la nullità del licenziamento accertato come discriminatorio
condanna il datore di lavoro a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a risarcire al medesimo i danni
37
subiti . Del resto, permane la possibilità che il lavoratore richieda al datore di lavoro il pagamento di
un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione in sostituzione della reintegrazione effettiva nel posto di lavoro
e del versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, cui fa seguito la risoluzione del rapporto di
lavoro.
La situazione cambia nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, per giusta causa o per
giustificato motivo oggettivo. La riforma, al riguardo, introduce una doppia previsione. Per un verso, se il
giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, perché
ad esempio i fatti contestati non sussistono oppure rientrano tra le condotte punibili con sanzioni
36
L’intenzione del legislatore ha senz’altro un precedente nel d.d.l. n. 1481/2009, noto come progetto di sperimentazione della
“flessicurezza”; in quella sede, tuttavia, nel caso di licenziamento per motivo oggettivo la “responsabilizzazione” del datore di lavoro
avrebbe sostituito completamente sia il controllo giudiziale, sia la conciliazione; per contro, i lavoratori licenziati per motivo economico
avrebbero potuto “beneficiare” di un generoso sussidio di disoccupazione, corrisposto in parte dallo stesso datore di lavoro e di uno
schema di riqualificazione professionale modellato sulla falsariga dei modelli di workfare danesi.
37
Ai sensi della precedente versione dell’art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970, il giudice dispone un risarcimento commisurato
all’ultima retribuzione globale al netto di quanto eventualmente percepito nello svolgimento di altre attività lavorative, con un minimo di
almeno 5 mensilità di retribuzione cui si aggiunge il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, maturati dal giorno del
licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione. Il nuovo testo dell’art. 18, comma 2 (modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della l.
n. 92/2012) prevede la stessa tutela anche nel caso in cui il licenziamento sia intimato in violazione dei divieti posti a tutela della
maternità e della paternità (così come previsto dal D.lgs. n. 151/2001), in concomitanza del matrimonio, per motivo illecito, ai sensi
dell’art. 1345 del cod. civ., in tutti i casi di nullità previsti dalla legge e, infine, nel caso in cui sia dichiarato inefficace perché intimato in
forma orale.
8
38
conservative (ovvero non incidenti sulla continuità del rapporto di lavoro) , annulla il licenziamento e
condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al risarcimento del danno comprensivo sia
della retribuzione non percepita (con un tetto massimo di 12 mensilità) sia dei contributi previdenziali. Da tale
ammontare, però, va dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione per lo
svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe potuto percepire
39
dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione . Per contro, “nelle altre ipotesi” in cui il
giudice ritiene che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal
datore di lavoro, questi non applica la c.d. “tutela reale”, ma dispone la risoluzione del rapporto di lavoro e
condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva. In particolare, il
giudice dispone un risarcimento economico compreso tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità, in
relazione ad alcune variabili come l’anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni
40
dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti . Il sistema c.d. “firing cost”, ossia il
versamento di un’indennità risarcitoria in luogo della reintegrazione, si applica alle ipotesi in cui il
licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito della motivazione, della procedura
disciplinare, ovvero della procedura formale di comunicazione preventiva (così come disposto dall’art. 1,
commi da 37 a 41, della legge in commento); in questi casi, tuttavia, a differenza delle ipotesi su
menzionate, il giudice può condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità omnicomprensiva
variabile tra le 6 e le 12 mensilità di retribuzione, in relazione alla gravità della violazione formale o
41
procedurale commessa . Analogamente, la riforma prevede la stessa doppia previsione anche nel caso in
cui il licenziamento sia stato intimato per motivo oggettivo. Nello specifico, è possibile applicare la tutela
reale nel caso in cui il giudice accerti che le ragioni alla base del licenziamento riguardino, di fatto,
42
l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore , intervengano prima che sia decorso il periodo di assenza dal
43
lavoro spettante per legge al lavoratore , siano accertate come “manifestamente insussistenti”; per contro,
“nelle altre ipotesi in cui [il giudice] accerti che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo
44
oggettivo” , questi è tenuto ad applicare la tutela obbligatoria, di cui al comma 5 dell’art. 18, così come
modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92/2012. In altre parole, il giudice può (non deve)
discrezionalmente sanzionare il licenziamento illegittimo con la c.d. tutela reale, invece di ordinare il
pagamento di un’indennità omnicomprensiva, qualora si verifichino le fattispecie descritte; in tutti gli altri casi,
lo stesso potere discrezionale del giudice è limitato alla dichiarazione della risoluzione del rapporto di lavoro
e alla determinazione dell’importo dell’indennità che il datore di lavoro dovrà elargire al lavoratore licenziato.
Ad onor del vero, sul tema dei poteri discrezionali del giudice era già intervenuta la l. n. 183/2010 (c.d.
“Collegato lavoro”), prevedendo che, laddove le disposizioni legislative in materia di lavoro contenessero
clausole generali (anche in tema di “instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali,
trasferimento di azienda e recesso”), il controllo giudiziale dovesse limitarsi, in conformità ai principi generali
dell’ordinamento, ad accertare esclusivamente il presupposto di legittimità, non potendo estendersi “al
sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o
45
al committente” . Rispetto a questa disposizione, l’art. 1, comma 43 della l. n. 92/2012, prevede
l’inserimento di un ulteriore periodo al comma 1 dell’art. 30, in cui si afferma che “l’inosservanza, da parte del
giudice, delle disposizioni in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e
produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione della sentenza per
violazione di norme di diritto”. In questo modo, si traccia una linea di continuità tra le due disposizioni di
riforma, in merito alla volontà di circoscrivere e ridimensionare gli ambiti di intervento del giudice sulle
controversie di lavoro, in luogo di un progressivo sviluppo delle procedure arbitrali e conciliative, nonché di
38
Ai sensi dell’art. 7 della l. 300/1970, si rileva, inoltre che le “norme disciplinari” devono applicare “quanto è stabilito in materia da
accordi o contratti collettivi, ove esistano”. Per approfondimenti si rinvia a G. Amoroso, V. Di Cerbo,“Commentario allo Statuto dei
lavoratori e alla normativa sui licenziamenti”, Milano, 1993, 16 ss.
39
Art. 18, comma 4, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della l. n. 92/2012.
40
Art. 18, comma 5, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della l. n. 92/2012.
41
Art. 18, comma 6, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della l. n. 92/2012.
42
Anche ai sensi dell’art. 4, comma 4, e 10 comma 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68.
43
Ai sensi dell’art. 2110, comma 2, del cod. civ.
44
Art. 18, comma 7, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della l. n. 92/2012.
45
Art. 30, comma 1 della l. n. 183 del 2010. Cfr. E. Olivito, “Il collegato lavoro alla finanziaria. Alcune osservazioni sulle controversie di
lavoro e sull’ambito del sindacato giurisdizionale”, in questa Rivista n. 1/2011.
9
46
un’analoga evoluzione dei poteri dispositivi e regolamentari delle parti contrattuali . L’operare di queste
disposizioni potrebbe aprire scenari inediti per l’ordinamento italiano, in quanto si assisterebbe, con tutta
probabilità, ad una progressiva limitazione del potere di controllo sulla giustiziabilità del licenziamento e, di
47
conseguenza, del valore del lavoro come diritto e come principio costituzionale . La scelta datoriale di “fare
a meno” del lavoratore per “giusta causa o giustificato motivo” sarebbe, infatti, insindacabile nel merito dal
giudice, il quale verrebbe privato del potere di valutare non soltanto l’effettiva situazione aziendale, ma
anche e soprattutto se vi sia quel “nesso di causalità” necessario e diretto con il licenziamento effettuato. In
altre parole, si tenderebbe a “slegare” la libertà d’organizzazione d’impresa – che comprende la libertà di
48
49
licenziare, ex art. 41, comma 1, Cost. – dall’“utilità sociale”, di cui al comma 2 dello stesso articolo , dal
momento che risulterebbero limitati gli strumenti attraverso cui individuare i motivi del licenziamento e
50
respingerli, ripristinando la situazione pregressa, se tali motivi sono ritenuti illegittimi .
Vale rilevare, in conclusione, che la riforma della disciplina dei licenziamenti individuali è stata “l’osservato
speciale” dei legislatori che negli ultimi venti anni si sono proposti di riformare, in tutto o in parte, il mercato
del lavoro nazionale. Fin dalla pubblicazione del Libro bianco del 2001, la proposta di rivedere l’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori con lo scopo di consentire al datore di lavoro di scegliere tra il risarcimento del
51
dipendente illegittimamente licenziato e l’obbligo al reintegro ritorna nei vari progetti di legge predisposti .
L’intervento sulla c.d. “flessibilità in uscita” costituisce, infatti, il punto più o meno centrale di quelle strategie
di riforma che hanno finora tentato, senza riuscirci, di ridurre il divario presente tra insiders ed outsiders –
invero avvicinando i secondi ai primi – e di implementare un modello di “flessicurezza” anche
nell’ordinamento italiano. Da un punto di vista prettamente politico, l’introduzione di una nuova disciplina dei
licenziamenti individuali è stata spesso presentata come “merce da scambiare” con una riforma del sistema
46
Emblematica è al riguardo la disposizione di cui all’art. 8 del decreto legge n. 138 del 2011, che consente ai contratti aziendali o
territoriali (contratti di prossimità) di derogare ai contratti collettivi nazionali, ma anche ai disposti di legge (e che permette dunque anche
di derogare alla l. n. 300 del 1970, Statuto dei lavoratori). Vale rilevare, inoltre, che l’art. 8 del decreto legge n. 138 del 2011 (poi
convertito in l. n. 148/2011) non è stato abrogato dalla riforma in commento, determinando una sostanziale “rivisitazione del principio
generale di inderogabilità delle norme di legge del diritto del lavoro, salvo a favore del lavoratore e salvo specifiche deleghe legislative
tassativamente indicate (peraltro a favore della contrattazione nazionale e non aziendale) e di una gerarchia delle fonti che faceva
prevalere la legge sul contratto collettivo ed individuale, sulla tendenziale previsione di uguali diritti dei lavoratori indipendentemente dal
territorio e dall’azienda”. Aldilà dei rilievi che nell’economia di questo lavoro non è possibile sviluppare esaustivamente, pare opportuno
rilevare come la l. n. 92/2012 non intervenendo sulla l. 148/2011, di fatto, potrebbe esprimere un’“indicazione” su quello che è (o sarà) il
modello “partecipativo” delle relazioni industriali cui mira la riforma del 2012, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. h). Cfr. G. Cannella, “La
persistenza dell'art. 8 l.148/2011 e le prime applicazioni giurisprudenziali”, di maggio 2012, facilmente reperibile su
www.dirittisocialiecittadinanza.org. Tra i tanti contributi sul tema si veda: M. Rossi, “Le nuove forme di accordi tra sindacati e impresa:
una cronaca a partire dal caso Fiat” del 14.9.2011, in questa Rivista n. 3/2011. Da ultimo, si segnala che larghissime voci di dissenso si
sono alzate nei confronti di questa misura tanto da condurre numerosi giuristi a proporre un appello per un referendum abrogativo
dell’art. 8 del decreto n. 138 del 2011. Per approfondimenti, si veda P. Alleva, L. Gallino, S. Rodotà, U. Romagnoli, M. Tronti, et al.,
“Appello contro l'art.8 del decreto 138/2011 sulla manovra finanziaria”, del 6.9.2011, www.dirittisocialiecittadinanza.org.
47
Si veda, M. Benvenuti,“Lavoro”, op. cit., 3 ss. ed anche da ID “La funzione costituzionale del lavoro come diritto di prestazione e come
diritto di partecipazione”, intervento al Convegno “Democrazia economica e beni comuni: cooperazione, partecipazione, sussidiarietà”,
Dipartimento di Economia e Diritto, Facoltà di Economia, “La Sapienza”, Roma, 30.3.2012.
48
Sul tema è doveroso fare riferimento a M. D’Antona,“La reintegrazione nel posto di lavoro”, Padova, 1979, spec. 64. Egli afferma che
“il licenziamento non è più tanto un negozio o un diritto potestativo, quanto piuttosto un atto autoritativo, un esercizio di potere privato, di
cui il datore di lavoro si avvale in quanto imprenditore. Di conseguenza, le limitazioni alla facoltà di recesso non sono più così limiti alla
libertà negoziale o deroghe al principio secondo cui i vincoli obbligatori non possono essere perpetui, ma sono rivolte all’imprenditore
come organizzatore dei mezzi di produzione e responsabile di un preciso organismo socio-economico”.
49
Sul punto, cfr., da ultimo, F. Angelini, “L’iniziativa economica privata”, in Atti del Convegno, “Il diritto costituzionale alla prova della
crisi economica”, Roma, 26-27 aprile 2012, Facoltà di Economia, Napoli (in corso di pubblicazione).
50
S. Niccolai, “Il licenziamento oggettivo per motivo economico nel nuovo art. 18 dello Statuto dei lavori: prime riflessioni”, in questa
Rivista 1/2012, 5 ss.
51
Oltre a costituire una delle principali proposte di intervento del Libro bianco del 2001, la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori
era presente anche nel referendum abrogativo dell’art. 18 St. lav., proposto nel 2000 (dichiarato ammissibile dalla Corte Cost., sent.
46/2000) nonché nell’art. 10 del d.d.l. S.848/2001; tuttavia, in quella sede la proposta di riforma è stata, poi, abbandonata in seguito ad
un imponente sciopero generale che aveva coinvolto circa 3 milioni di lavoratori aderenti alle diverse sigle sindacali; a questa iniziativa
segue, infine, nel 2003 la proposta da parte dei sindacati, di un referendum per l’abrogazione dei limiti di applicazione dello stesso art.
18 (dichiarato ammissibile dalla Corte Cost., sent. 41/2003) al fine di estendere la tutela prevista anche alle imprese con meno di 15
dipendenti; referendum che fallisce per il mancato raggiungimento del quorum.
10
degli ammortizzatori sociali in chiave universale. Tuttavia, il legame che tiene assieme gli interventi sulla
flessibilità in uscita e quelli sul sistema di protezione sociale è solo ad una prima lettura il frutto di uno
scambio tra forze politiche contrastanti. Un’analisi più approfondita e ad ampio raggio permette, infatti, di
evidenziare come i due aspetti costituiscano un percorso obbligato verso l’implementazione di un modello di
mercato del lavoro non segmentato. La riforma seppur parziale dell’impianto tradizionale della tutela del
lavoratore nel rapporto di lavoro – che si ritiene derivi dal diritto alla reintegrazione, ex art. 18, l. 300/1970 –
e la conseguente eliminazione dei differenziali di accesso agli strumenti di tutela nel mercato del lavoro, che
deriverebbe dall’introduzione di uno schema universale di protezione sociale, permetterebbe, da un lato, di
espandere la domanda di lavoro delle imprese ed il livello occupazionale generale e, dall’altro, di ridurre
effettivamente la segmentazione del mercato del lavoro tra insider ed outsider. È, però, facile immaginare
che, nell’attuale contesto di generale ristagno economico, la maggiore flessibilità in uscita potrebbe ampliare
il numero dei disoccupati allargando la platea di quanti risultano inoccupati, anche perché alla ricerca della
prima occupazione. Di conseguenza, alla luce di quanto affermato fino a questo punto, fondamentale
importanza acquistano le disposizioni di riforma di cui all’art. 2 della l. n. 92/2012 in tema di ammortizzatori
sociali. L’intervento sul sistema di protezione sociale a fronte di un evento di disoccupazione in chiave
universale consentirebbe, infatti, nelle intenzioni dei suoi proponenti, di costruire un modello di regolazione
52
del mercato del lavoro in grado di garantire tutela a fronte di tutte le possibili situazioni di disoccupazione e
di realizzare, da ultimo, un modello di regolazione del mercato del lavoro fondato sul paradigma
53
dell’“occupabilità” , che nella strategia c.d. di flessicurezza rappresenta lo strumento per eccellenza di
protezione sociale per realizzare la sicurezza nel mercato.
5. Ammortizzatori sociali
Il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali delineato dalla legge di riforma del mercato del lavoro si basa
sulla predisposizione di alcuni istituti di sostegno al reddito, che intervengono nelle fasi di disoccupazione
parziale o di temporanea sospensione e riduzione dell’attività di lavoro e sulla previsione di un nuovo
strumento di tutela contro la disoccupazione dalla portata tendenzialmente universale: l’Assicurazione
Sociale per l’Impiego (ASpI).
Relativamente ai primi istituti, la disciplina di riforma lascia in vigore la Cassa integrazione guadagni
ordinaria, ridimensiona quella straordinaria, ora prevista nel solo caso di ristrutturazione aziendale, e, infine,
dispone che siano garantite integrazioni salariali anche alle categorie che attualmente ne usufruiscono in
deroga alle vigenti previsioni normative. A tal fine, l’art. 3, comma 4, 5 e 6 della legge in parola disciplina la
costituzione, nell’ambito di accordi e contratti collettivi, di fondi di solidarietà bilaterali autofinanziati, da
avviare entro i 180 giorni successivi all’entrata in vigore della medesima riforma. I Fondi saranno istituiti
presso l’INPS con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, e saranno obbligatori per tutti i settori non coperti dalla normativa in materia di
integrazione salariale per le imprese che occupano mediamente più di 15 dipendenti. La ratio dell’intervento
è quella di assicurare a tutti i lavoratori le medesime tutele a fronte di un evento di disoccupazione, in
quanto, per la lettura combinata dell’art. 38, commi 1, 2, 3 e 4, Cost., spetta ad “organi ed istituti predisposti
dallo Stato” provvedere a garantire il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, alla previsione e
54
all’assicurazione di mezzi adeguati alle esigenze di vita, all’educazione e all’avviamento professionale . A
tali strumenti si andrà ad affiancare – ai sensi del’art. 2, comma 1, della legge – la nuova indennità di
disoccupazione: l’ASpI, dal carattere tendenzialmente universale. Di fatto, si tratta di un sussidio previsto per
tutti i lavoratori del settore privato, anche se impiegati con contratti c.d. “atipici” o di apprendistato, e per i
lavoratori del settore pubblico con contratto a tempo determinato, che possono far valere requisiti contributivi
52
Si rileva che una tutela universale a fronte di una situazione di disoccupazione, dovrebbe garantire anche una tutela c.d. assistenziale
a quanti sono alla ricerca di prima occupazione e, quindi, non possono rispettare alcun requisito contributivo. Per approfondimenti si
veda M. Raitano,“Ammortizzatori sociali: una riforma solo annunciata”, op. cit.
53
Per occupabilità si intende una strategia volta a migliorare l’accesso dei disoccupati al mercato del lavoro, attraverso la
predisposizione di politiche volte a migliorarne la formazione e la riqualificazione professionale; tali politiche si preoccupano di garantire
delle prestazioni sociali (economiche e formative) al fine ultimo di inserire (o reinserire) il beneficiario nel circuito lavorativo. Sul punto,
tra tutti, sia consentito un rinvio a P. Borioni, “Welfare scandinavo, welfare italiano”, Roma, 2005, 45 ss; D. Jacobi, K. Mohr, “Germania.
Il ruolo dell’attivazione nella strategia del lavoro al primo posto”, in Riv. pol. soc., 2005, I, 117 ss.
54
Cfr. M. Benvenuti, “Diritti sociali”, in Digesto delle discipline pubblicistiche, V Agg., 2012, Torino (in corso di pubblicazione).
11
pari a 52 settimane di contribuzione negli ultimi 2 anni e almeno una settimana di contribuzione prima del
biennio precedente il momento della disoccupazione. Questo istituto è finanziato da tutte le aziende, con un
aliquota dell’1,4 per cento che può salire fino al 2,7 per cento nel caso in cui i lavoratori risultino impiegati
con contratti flessibili; il sussidio percepito ha un tetto massimo pari a 1.119 euro, è elargito per 12 mesi (18
nel caso in cui si tratti di lavoratore ultracinquantenne) ed è sottoposto a due riduzioni del 15 per cento, ogni
6 mesi. Allo stato attuale, i requisiti previsti per beneficiarne potrebbero, tuttavia, lasciare senza copertura
larghe fasce del mondo del lavoro, in specie, quelle che risultano impiegate con contratti di lavoro di
55
brevissima durata . Al riguardo, l’art. 2, comma 11, prevede anche una “mini ASpI”, da applicarsi a quanti
non riescano a raggiungere i requisiti di cui all’art. 2, comma 1, della legge di riforma, ma che possano far
valere almeno 13 settimane di contribuzione nei 12 mesi precedenti l’evento di disoccupazione. L’indennità
risulta essere di importo pari a quanto previsto dall’art. 2, comma da 6 a 10, della legge in oggetto, ed è
corrisposta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione che si possono far
valere nell’ultimo anno, detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti. L’introduzione di uno schema
generalizzato di sostegno al reddito (così come disegnato dall’ASpI) comporta, per contro, l’abrogazione
56
graduale dell’istituto della mobilità . Quest’ultima disposizione, tuttavia, se letta in combinazione con
l’allungamento dell’età pensionabile precedentemente previsto dalla l. n. 214/2011, pone una serie di
problemi circa la platea dei beneficiari delle rispettive disposizioni. In particolare, coloro che inizierebbero a
percepire l’indennità di mobilità dal 2013 non subirebbero alcuna decurtazione nella durata; mentre
l’ingresso nell’area del sostegno al reddito dei disoccupati (ASpI) avviene già dal 2014 con durata sempre
più ridotta per i lavoratori in mobilità (art. 2, comma 46) e gradualmente elevata per le indennità di
disoccupazione (art. 2, comma 44 e 45); di conseguenza, l’incrocio di tali previsioni relativamente al numero
57
dei lavoratori coinvolti potrebbe lasciare una parte rilevante della popolazione senza alcun sussidio .
Da ultimo, si deve rilevare che la percezione dei sopracitati sussidi di disoccupazione è vincolata
all’attivazione e alla responsabilizzazione del lavoratore disoccupato. L’art. 4, comma 40, dispone, infatti, la
sospensione del trattamento di sostegno al reddito del lavoratore che abbia rifiutato di partecipare ad un
corso di formazione o di riqualificazione ovvero non lo abbia frequentato con regolarità. Analogamente,
decadono dai trattamenti, rispettivamente previsti, coloro che non accettano un’offerta di lavoro con
inquadramento in un livello retributivo non inferiore al 20 per cento rispetto all’importo lordo dell’indennità
percepita. Queste ultime misure evidenziano un primo avanzamento verso l’adozione di alcuni schemi volti a
connettere gli interventi c.d. passivi e quelli attivi, vincolando l’erogazione del sussidio di disoccupazione alla
58
partecipazione del soggetto indennizzato ad attività di formazione e riqualificazione professionale . Tuttavia,
la capacità di implementazione di un modello sulla falsariga del workfare (ampiamente diffuso nel nord
55
Scenario altamente suscettibile di verifica, alla luce della “liberalizzazione” del primo contratto di lavoro a termine, disposto ai sensi
dell’art. 1, comma 9 della l. n. 92/2012, di cui si è già detto. Si veda infra par. 2.
56
Art. 2, comma 46 della l. n. 92/2012. L’indennità di mobilità è una prestazione di disoccupazione introdotta con la legge n. 223 del
1991, riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto il posto di lavoro a seguito di un licenziamento e che risultano precedentemente
iscritti nelle c.d. “liste di mobilità”. Ai sensi dell’art. 16 della l. 223/1991, in particolare, il trattamento si rivolge ai soggetti in possesso di
un’anzianità aziendale di almeno 12 mesi, di cui almeno 6 di lavoro effettivamente prestato; l’importo è calcolato in rapporto al 100%
dell’integrazione salariale, per i primi 12 mesi di erogazione della prestazione e all’80% per i periodi di fruizione successivi, mentre la
durata è diversificata in ragione dei differenti contesti territoriali di riferimento e delle caratteristiche anagrafiche dei lavoratori beneficiari.
La durata massima dell’indennità, infatti, è correlata all’età del lavoratore e alla localizzazione territoriale dell’impresa: partendo da un
limite pari a 12 mesi per la generalità dei casi, fino a raggiungere i 24 ed i 36 mesi in caso di lavoratori che abbiano compiuto,
rispettivamente, i 40 ed i 50 anni di età, con una punta massima di 4 anni per gli ultracinquantenni del Mezzogiorno. Inoltre, con l’art. 6
del decreto legge n. 148 del 1993, convertito in l. n. 236/1993, a questo istituto si affianca la c.d. “mobilità lunga”, che prevede, in
presenza di particolari requisiti soggettivi ed oggettivi, un trattamento previdenziale prolungato fino al compimento dell’età pensionabile.
57
Gli “esodati”, ovvero i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro a seguito di una ristrutturazione aziendale, di un accordo sindacale o di
un accordo economico con il datore di lavoro, contando di poter accedere in breve tempo al trattamento pensionistico e che hanno visto
allungarsi il periodo di tempo di attesa con la riforma del sistema pensionistico, rappresentano, infatti, un rilevante costo di
aggiustamento della riforma governativa ed impongono alcuni interventi correttivi. Ad oggi, la questione è stata affrontata dal decreto
del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, del 5 giugno del 2012, ex art. 24,
comma 15 della l. n. 214/2011.
58
È opportuno rilevare che un primo tentativo di introduzione di un principio di condizionalità, che stabilisce l’interruzione dei trattamenti
di disoccupazione nel caso in cui il beneficiario rifiuti di partecipare a corsi di orientamento e formazione, risale all’art. 45 della legge n.
144 del 1999.
12
59
Europa e, in particolare, in Danimarca ) dipenderà dalla capacità di armonizzare tali misure con quanto
disposto in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego, formazione continua ecc.; competenze
che si intrecciano con la ripartizione delle competenze a livello regionale e locale e che risultano limitate
60
dall’assai ridotta capacità di predisporre risorse a tal fine .
6. Riflessioni conclusive.
Il percorso appena descritto permette di rilevare che la legge di riforma del mercato del lavoro rappresenta
una tappa senz’altro importante verso l’implementazione di un modello di regolazione del mercato del lavoro
coerente con le indicazioni comunitarie sulla “flessicurezza”. Nel dettaglio, le innovazioni proposte in materia
di flessibilità in entrata e in uscita, nonché la riforma del sistema di sicurezza sociale, mirano a costruire una
nuova relazione tra tutele interne al rapporto di lavoro e tutele esterne (che si attivano quando il rapporto
viene risolto), al fine di rendere il mercato del lavoro italiano ad un tempo inclusivo e dinamico.
Il primo profilo di interesse riguarda, dunque, la maggiore inclusività del mercato del lavoro che, nelle
intenzioni del legislatore, dovrebbe derivare dalla promozione del contratto di lavoro a tempo indeterminato
61
come “contratto dominante” e dal contestuale intervento di contrasto all’abuso di rapporti di lavoro flessibili .
In proposito, le disposizioni analizzate puntano a rendere più costose le tipologie contrattuali temporanee,
ma non prevedono un analogo incentivo all’utilizzo di contratti a tempo indeterminato, i quali continuano a
sperimentare un elevato costo del lavoro. Di conseguenza, la volontà di “rendere più stabili” i rapporti di
62
lavoro flessibili rischia di restare nell’alveo delle buone intenzioni o, peggio, di aprire un varco verso
63
l’economia sommersa , se tali misure non verranno affiancate da serie politiche macroeconomiche di
sostegno ai percorsi di stabilizzazione e di controllo. Sotto un’altra prospettiva, la razionalizzazione delle
convenienze relative dei diversi contratti atipici potrebbe effettivamente limitare l’uso di forza lavoro flessibile
all’esigenza dei datori di lavoro di rispondere repentinamente ai cambiamenti della domanda e, per questa
via, a rendere più dinamico il mercato del lavoro. Proprio quest’ultima prospettiva “positiva”, tuttavia, sembra
venir meno a causa dell’intervento parallelo del governo in tema di flessibilità in uscita e, in particolare, a
causa della riforma della disciplina dei licenziamenti individuali.
L’analisi delle disposizioni di riforma dell’art. 18 St. lav. permette di evidenziare che, nella maggior parte
delle ipotesi, il licenziamento accertato come illegittimo darebbe luogo ad un risarcimento economico, dal
momento che le ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione risultano di fatto limitate e di difficile e
64
stretta interpretazione . È altamente probabile, inoltre, che si verifichi un tendenziale aumento del ricorso al
licenziamento intimato per ragioni che, se pur ritenute illegittime, conducono al risarcimento meno oneroso; il
datore di lavoro in procinto di effettuare un licenziamento sarà, infatti, portato ad allegare quelle causali che
59
Per approfondimenti sul tema si rinvia a P. K. Madsen, “The Danish road to flexicurity: where are we and how did we get there?” in (a
cura di) T. Bredgaard, F. Larsen, “Employment policy from different angles”, Carma, 2005, 269 ss.
60
Si veda, sul tema: L. Olivieri, “Chi gestirà le politiche attive per il lavoro” del 11.4.2012, consultabile presso: www.lavoce.info.
61
Prassi che negli ultimi anni ha determinato l’eccessivo aumento di lavoratori “atipici” dalle scarse tutele sociali, nonché l’aumento del
dualismo presente nel mercato del lavoro.
62
Affermazione presente all’art. 1, comma 1, lett. a) della legge n. 92/2012.
63
Si tratta di un fenomeno ampiamente diffuso nell’economia italiana, da ultimo oggetto di una lettera aperta al Ministro E. Fornero, cui
si rimanda. Cfr. F. Pelos, “Il sommerso dilaga ma crollano ispezioni e incassi”, consultabile presso: www.eguaglianzaeliberta.it. Sia
consentito anche un rinvio a C. Tealdi, “La flessibilità non ferma il sommerso” del 8.5.2012, consultabile presso: www.lavoce.info.
64
Si rileva che si assisterebbe, quindi, ad una drastica riduzione della facoltà del giudice di ordinare la reintegrazione del lavoratore
illecitamente licenziato, nonché ad un aumento del potere discrezionale del giudice nel caso in cui sussistano quelle clausole che
legittimano la possibilità per il giudice di ordinare la reintegrazione del lavoratore illecitamente licenziamento. Del resto, tali clausole
risultano concettualmente ambigue (si pensi alle locuzioni “manifesta insussistenza” o alla generica formula “nelle altre ipotesi”) e
d’interpretazione variabile, tanto da ritenere fondato il rischio che la previsione normativa possa avere l’effetto di riprodurre sul territorio
nazionale una giustizia “a geometrie variabili”. Nonostante il paragone con la Germania, laddove il giudice del lavoro, pur godendo di
piena discrezionalità nel decidere la sanzione da comminare nel caso di licenziamento illegittimo, si basa su di un orientamento
giurisprudenziale consolidato, in Italia la predisposizione normativa di un modello simile potrebbe causare applicazioni giurisprudenziali
sostanzialmente diverse. Sul punto, tra i diversi contributi, sia consentito un rimando a P. Ichino, “La riforma dei licenziamenti e i diritti
fondamentali dei lavoratori”, Relazione introduttiva al Convegno promosso dal Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro “Domenico
Napoletano”, Pescara 11-12 maggio 2012, consultabile presso: www.pietroichino.it; A. Lettieri, “Lavoro, cosa manca al fine partita”, del
5.4.2012, consultabile presso: www.eguaglianzaeliberta.it; U. Romagnoli, “I diritti non sono marmellata”, del 22.3.2012, consultabile
presso: www.dirittisocialiecittadinanza.org; L. Zoppoli, “La riforma del mercato del lavoro vista dal Mezzogiorno: profili giuridicoistituzionali”, del 3.5.2012, consultabile presso: http://csdle.lex.unict.it.
13
non prevedono la reintegrazione. Analogamente, potrebbe verificarsi un uso fraudolento delle causali di
licenziamento, al fine di allontanare lavoratori “scomodi” per la gestione d’impresa, perché meno produttivi o
65
per semplice “arbitrio” .
Gli scenari che potrebbero aprirsi a seguito dell’introduzione della tutela obbligatoria per la maggior parte
delle ipotesi di licenziamento illegittimo sembrano influire direttamente sul valore del lavoro e, per questa via,
sul valore della stabilità. Come si è già in parte rilevato, sembrerebbe, infatti, che l’aver allargato il c.d. “firing
cost” alle ipotesi più frequenti di licenziamento che restano contra legem e l’aver introdotto una sostanziale
asimmetria nella sanzione da comminare al datore di lavoro, a seconda delle motivazioni allegate al
licenziamento (in seguito accertate come illegittime), potrebbe, di fatto, provocare una deminutio della
stabilità nel rapporto di lavoro, con gravi conseguenze su quella che è la tutela giuridica del lavoratore
sempre e comunque – lo si ripete – licenziato contra legem. Ciò sembrerebbe in contraddizione con quanto
più volte manifestato dagli stessi riformatori, che, da un lato, si propongono di favorire la stipulazione del
contratto a tempo indeterminato (il “contratto dominante”) in quanto contratto “più stabile” (art. 1, comma 1,
lett. a) e, dall’altro, intervengono per ridurre le tutele contro i licenziamenti, previste per il medesimo contratto
(art. 1, comma 42). La contraddizione è, però, solo in un primo momento evidente, in quanto un’analisi più
approfondita del testo di legge permette di avanzare qualche rilievo su quale sia la vera “stabilità” che il
Governo ha inteso promuovere.
Se si intende la stabilità del lavoro come garanzia circoscritta al diritto di non essere arbitrariamente
66
licenziati , allora si dovrà rilevare che il meccanismo sanzionatorio predisposto a fronte di un licenziamento
illegittimo potrebbe non essere adeguato a svolgere un effetto deterrente sul comportamento che si vuole
67
vietare ; d’altra parte, se il significato che si vuole dare alla stabilità del lavoro è quello che si ravvisa nella
65
Numerosi giuslavoristi ed economisti hanno fatto notare che i lavoratori che potrebbero essere espulsi dal mercato del lavoro
sarebbero in primo luogo i lavoratori anziani e meno efficienti, ma lontani dal raggiungimento dell’età di pensionamento che è stata di
recente spostata in avanti. Cfr. M. Raitano,“I mali d’Italia e i predatori dell’art. 18”, “L’Unità” del 16.04.2012; R. Romei, “Licenziamento,
precarietà, mercato del lavoro”, del 13.01.2012, consultabile presso: www.nelmerito.com; F. Schivardi, “Articolo 18 tra tabù ed
efficienza”, del 31.01.2012, consultabile presso: www.lavoce.info.
66
In questo senso, M. Napoli, “Elogio della stabilità” in (a cura di) ID, “Lavoro, diritto, mutamento sociale”, Torino, 2002, 164 ss; M.
D’Antona, “Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario” in Riv. giur. lav., 1999, 17. In questo senso sembra
dirigersi anche la giurisprudenza costituzionale. In particolare, la Corte Costituzionale, chiamata più volte a verificare la legittimità
dell’art. 2118 cod. civ. (sul potere di recesso del datore di lavoro) in relazione all’art. 4 Cost. ha, dapprima, affermato che “il potere
illimitato del datore di lavoro di recedere dal rapporto a tempo indeterminato non costituisce un principio generale del nostro
ordinamento” e che l’art. 4 Cost. non riconosce al lavoratore un diritto soggettivo alla conservazione del posto di lavoro (e, quindi, alla
stabilità del lavoro) in quanto esso può essere attribuito soltanto dalla fonte regolativa collettiva (Corte Cost. sent. 78/1958). In un
secondo momento, invece, pur non riconoscendo nell’art. 4 Cost. un diritto soggettivo alla conservazione del posto di lavoro
immediatamente azionabile, dal momento che “lo Stato non garantisce a ciascuno il diritto al conseguimento di un’occupazione” la
Corte ha ritenuto che l’art. 4 dovesse essere inteso come una “direttiva per il legislatore”, ovvero come “un orientamento generale” che
la Costituzione dà al Paese invitando il legislatore futuro “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale, ad adeguare,
sulla base delle valutazioni di sua competenza, la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, al fine ultimo di assicurare a
tutti la continuità del lavoro e circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario dar luogo a
licenziamenti” (Corte Cost. sent. 45/1965). In anni più recenti, la Corte ha poi dichiarato che il licenziamento “deve essere sorretto da
una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento” e che, se “dall’art. 4 Cost. discendono principi che esprimono
l’esigenza di un contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro e l’ampliamento della tutela del lavoratore quanto alla
conservazione del posto, ciò non esclude che l’attuazione di questi principi resti affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario
quanto alla scelta dei tempi e dei modi in rapporto alla situazione economica generale” (Corte Cost. sentt. 103 e 427 del 1989). Nello
stesso ordine di considerazioni si colloca anche la sent. 46/2000, laddove si afferma che “la progressiva garanzia del diritto al lavoro è
compito del legislatore al quale spetta anche la scelta dei modi adeguati di tutela contro i licenziamenti illegittimi”. Da ultimo, occorre
segnalare una presa di posizione “più netta” della Corte nell’ord. n. 56/2006, laddove si afferma che si deve riconoscere “garanzia
costituzionale al solo diritto di non subire un licenziamento arbitrario”. Cfr. sul punto, M. V. Ballestrero, “Il valore e il costo della stabilità”,
in Lav. dir., 2007, n. 3, 397 ss.
67
Così L. Zoppoli, “La riforma”, op. cit.
14
68
nozione di “employment security” , allora si dovrà spostare l’attenzione su quella che è (o sarà) la capacità
del nuovo sistema di ammortizzatori sociali e delle politiche di riqualificazione professionale di garantire la
protezione (sociale) della persona.
Nel primo caso, aver deciso un “prezzo” da pagare nel caso in cui il licenziamento venga accertato come
illegittimo incide direttamente sull’eventualità di ricorrere al licenziamento; è probabile, infatti, che i
licenziamenti aumenteranno se tale “prezzo” (in termini di retribuzioni da versare come indennità risarcitoria)
verrà ritenuto non così alto da scoraggiare la decisione del datore di lavoro di recedere da un contratto di
lavoro, finendo per incidere sullo stesso valore del lavoro. Quest’ultimo non risiede solamente nella sua
capacità retributiva, come sembrerebbe avvenire in questo caso, ma riguarda quei valori connessi alla
cittadinanza, all’identità, all’appartenenza ad un’organizzazione, all’essere parte integrante di una classe e di
un interesse collettivo e, tramite questo, avere la possibilità di esprimere la propria personalità ed ottenere
tutele e diritti. In quest’ordine di considerazioni, la protezione del lavoratore contro il licenziamento non può
limitarsi ad alleviare il danno economico derivante dalla perdita del posto di lavoro, qualunque sia stata la
motivazione posta alla base del licenziamento, ma deve comprendere anche il controllo sul presupposto
giustificativo del licenziamento da parte del giudice ed eventualmente la presenza di strumenti che
69
garantiscano l’effettivo mantenimento del posto di lavoro, qualora tali presupposti non sussistano .
Nel secondo caso, invece, la declinazione della stabilità sembra essere maggiormente conforme agli
orientamenti comunitari sulla flessicurezza; tuttavia, rispetto a questi, le innovazioni proposte non disegnano
schemi universali di protezione sociale (come da più parte auspicato relativamente all’adozione del reddito di
70
71
cittadinanza ), ma mantengono vivo un certo collegamento tra lavoro e protezione sociale . Questa scelta,
se da un lato appare coerente con i disposti costituzionali che vedono nel lavoro e nella sua conservazione il
72
73
fondamento dell’ordinamento italiano , nonché la condizione di effettività degli stessi diritti civili e politici ,
dall’altro sembra mettere in discussione gli obiettivi che la riforma si pone, nel senso del superamento della
segmentazione del mercato del lavoro. L’assenza di uno schema generalizzato di sostegno al reddito degli
individui e il contestuale aumento delle probabilità di recedere dai rapporti di lavoro (qualunque sia il
contratto di impiego) potrebbe avere l’effetto di moltiplicare la precarietà sociale già presente nel mercato del
lavoro italiano e, in ispecie, di aumentare la precarietà dei giovani inoccupati che rischiano di permanere in
68
Come sembra emergere dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Mario Monti, da ultimo rilasciate a margine del
convegno del Forum Nazionale dei Giovani a Roma, laddove ha esplicitamente invitato i giovani ad “essere più disponibili a cambiare
più lavori, accettando i cambiamenti”. In questo senso, si esprime anche l’European foundation for the Improvement of living and
working conditions in “The second phase of flexicurity: an analysis of practices and policies in the Member States”, Dublin, 2012,
consultabile presso: www.eurofound.europa.eu.
69
Sul tema, si veda: M. D’Antona, “La reintegrazione”, op. cit., 8 ss; A. Apostoli, “L’ambivalenza costituzionale del lavoro tra libertà
individuale e diritto sociale”, Milano, 2005; M. Benvenuti, “Lavoro”, op. cit.; C. La Macchia, “La pretesa”, op. cit.; M. Luciani, “Radici”, op.
cit., 628 ss.; O. Mazzotta, “La reintegrazione nel posto di lavoro: ideologie e tecniche della stabilità”, in Lav. dir., 2007, 537 ss.; S.
Niccolai, “Il licenziamento”, op. cit.; C. Salazar, “Alcune riflessioni su un tema démodé”, in Pol. dir., 1995, 3 ss.; G. Silvestri, “Il lavoro
nella Costituzione italiana”, in (a cura di) M. Carrieri, C. Damiano, A. Lattieri, U. Romagnoli, G. Silvestri, R. Terzi, “Il sindacato e la
riforma della Repubblica”, Roma, 1997, 76 ss.
70
Sul tema, ampliamente: G. Bronzini, “Il reddito di cittadinanza. Una promessa per l’Italia e per l’Europa”, Torino, 2011.
71
Prova ne sia l’aver mantenuto come requisito d’accesso al sussidio di disoccupazione (nella nuova veste dell’ASpI) la maturazione di
un certo periodo di contribuzione lavorativa. Sul punto si rinvia, in termini generali, a M. Benvenuti, “Diritti sociali”, op. cit.
72
Al riguardo indicative risultano le parole di C. Mortati, “Il lavoro nella Costituzione”, in (a cura di) L. Gaeta,“Costantino Mortati e ‘Il
lavoro e la Costituzione’: una rilettura”, Milano, 2005, 7 ss.“La Costituzione non ha scelto di dare alla sicurezza sociale carattere di
servizio pubblico prestato a tutti, ma ha concepito l’assistenza come un’integrazione del diritto al lavoro e non già come un corollario del
diritto alla vita. L’assistenza è la risposta che la società dà ai suoi membri in ragione di una solidarietà che trova nel lavoro il suo
principale canale di espressione”.
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In particolare, per la combinata lettura degli assunti dell’art. 4 Cost., con il dovere di lavorare che si evince al 2° comma dello stesso
articolo, nonché con l’art. 38, 1° comma, Cost., che prevede misure di assistenza sociale incondizionate, “soltanto” per quanti non
riescono a provvedere ai mezzi necessari per vivere, poiché versano in condizioni di inabilità al lavoro, o si trovano in situazioni di
disoccupazione involontaria (2° comma).
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una situazione generalizzata di incertezza, acuita dalla strutturale mancanza di lavoro e di occasioni di
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lavoro congrue ai titoli di studio perseguiti .
A questo punto, sorge spontaneo chiedersi quale tra le due ipotesi avanzate sembra essere la concezione
della stabilità cui la legge si ispira, alla luce della volontà, manifestata dai riformatori, di realizzare un
passaggio dalla tutela nel rapporto di lavoro alla tutela nel mercato (stabilità nel posto di lavoro vs assistenza
nel mercato). È possibile rispondere alla domanda trasferendo il confronto sul piano costituzionale e facendo
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riferimento alle due possibili accezioni del diritto al lavoro ex art. 4 Cost . La dottrina ha interpretato il diritto
al lavoro come diritto al mantenimento del posto di lavoro, per chi un lavoro ce l’ha, e pretesa ad ottenere un
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lavoro con l’aiuto pubblico, per chi un lavoro non ce l’ha o l’ha perso ; oppure, in senso più generico, come il
perseguimento di un obiettivo occupazionale più ampio, che prescinde dalla stabilità del singolo nel rapporto
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di lavoro .Quest’ultima declinazione, in particolare, offre una lettura dell’art. 4 e dell’art. 35 Cost. in linea con
gli artt. 15 e 30 della Carta di Nizza, laddove non vi è un diritto al lavoro che evochi l’idea di un impegno
della società europea e delle sue istituzioni a promuovere le condizioni affinché i cittadini dell’Unione
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possano avere un lavoro, ma semmai la tutela della libertà di lavorare ed il divieto di essere discriminati .
Suggestivamente, a parere di chi scrive, i numerosi richiami all’ordinamento comunitario presenti nella l. n.
92/2012 e, nello specifico, l’intenzione di voler “definire il diritto di ogni persona all’apprendimento
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permanente” sembrano indicare un orientamento politico sempre più volto a ridimensionare la concezione
del diritto al lavoro, come pretesa che i pubblici poteri “creino” occasioni di lavoro per tutti (diritto alla piena e
stabile occupazione), valorizzando, per contro la più generica libertà di lavorare, intesa come pretesa ad
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essere “attivo” ed “occupabile” nel mercato . Da ciò deriva un modello di tutela del lavoro che rivolge
l’azione dello Stato affinché i propri cittadini possano dotarsi di una “sicurezza attiva” contro i rischi e le
incertezze (attraverso interventi mirati, da un lato, sull’offerta di lavoro e, dall’altro, sul miglioramento della
qualità dei servizi per l’impiego), confidando che il mercato del lavoro, “finalmente” libero dalle “costrizioni
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normative” che tutelano il rapporto , possa (per ciò soltanto) generare una maggiore domanda di lavoro .
Come e se tale modello sia in grado di superare i vari problemi del mercato del lavoro italiano non è dato
saperlo prima dell’implementazione delle politiche passive e soprattutto delle politiche attive, che la legge
rimanda ad un secondo momento. Alla luce di quanto detto, ciò che appare certo è che, assieme all’“ultimo
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tabù ” dato dalla modifica dell’art. 18 St. lav., sembra cadere anche l’obiettivo della piena (oltre che stabile)
occupazione, per lo meno nella sua capacità di farsi obiettivo della politica economica. Il cambiamento è
rilevante se si considera che i “problemi” del mercato del lavoro italiano sono molteplici e, nella maggior
74
La letteratura internazionale identifica tale fenomeno con il concetto di “educational mismatch”, attraverso il quale si vuole
evidenziare che l’incontro imperfetto fra domanda e offerta di istruzione scolastica è un fenomeno sempre più frequente nel mercato del
lavoro dei Paesi industrializzati. Su tutti, P. J. Sloane, “Much ado about nothing? What does the over-education literature really tell us?”,
in (a cura di) F. Büchel, A. F. de Grip, A. Mertens, “Overeducation in Europe: Current Issues in Theory and Policy”, Nothtampton
Massachussetes, USA, 2003, 11 ss.
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Vale la pena segnalare come alquanto provocatorie siano parse al riguardo le parole del Ministro Elsa Fornero che in un’intervista
rilasciata al Wall street journal, commentando la recente approvazione della l. n. 92, ha dichiarato che “il lavoro non è un diritto”. Per la
lettura dell’originale si rimanda a: Italy Official Seeks Culture Shift in New Law”, consultabile presso http://online.wsj.com, del
27.06.2012.
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Cfr. M. V. Ballestrero, “Il valore”, op. cit., 388 ss.
77
In questo senso, principalmente, G. De Simone, “Il valore della stabilità nel diritto comunitario e il sistema nazionale di tutele
differenziate”, in Lav. dir., 2007, n. 4, 557 ss.
78
Sulle differenze della tutela anti–discriminatoria costituzionale rispetto a quella europea–statunitense si veda anche S. Niccolai, “Il
licenziamento”, op. cit.
79
Nella relazione illustrativa del d.d.l. S.3249 si afferma esplicitante che il Capo VII (Apprendimento permanente) “stabilisce norme
generali in tema di apprendimento permanente con l’obiettivo di definire il diritto di ogni persona all’apprendimento in ogni fase della
vita, nell’ambito di un sistema integrato che permetta il collegamento con le strategie per la crescita economica, per l’accesso al lavoro
dei giovani, per la riforma del welfare, per l’invecchiamento attivo e l’esercizio della cittadinanza attiva, anche da parte degli immigrati”.
Si veda, “Relazione illustrativa”, presso: www.lavoro.gov.it.
80
A. Cantaro, “Il diritto dimenticato: il lavoro nella costituzione dell’Unione”, Torino, 2007, 71.
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Il riferimento è qui soprattutto alle modifiche intervenute sulla c.d. flessibilità in uscita. Per approfondimenti, si veda infra par. 3.
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Cfr. M. Freedland, N. Countouris, “Diritti e doveri nel rapporto tra disoccupati e servizi per l’impiego in Europa”, in Giorn. dir. lav. rel.
ind., 2005, 582.
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Così aveva definito l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori il Ministro Elsa Fornero nelle dichiarazioni rilasciate al margine della
presentazione della Relazione illustrativa del S.3249 del 2012.
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parte dei casi, hanno origini ben più lontane rispetto all’attuale congiuntura economica negativa; di
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conseguenza, la questione principale da affrontare era ed è la mancanza di lavoro . La creazione di lavoro,
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ossia “interventi di sostegno alla domanda aggregata” , sembrano dunque rappresentare la parte mancante
di un disegno riformatore iniziato con la legge in commento; non si può non rilevare, infatti, che il
perseguimento di un obiettivo di piena occupazione risulta fondamentale anche in una prospettiva di
implementazione della strategia dell’occupabilità, dal momento che la creazione di posti di lavoro
determinerebbe un passaggio più agevole da un posto di lavoro ad un altro.
84
Su questa posizione, CNEL, “Audizione alla Commissione lavoro del Senato della Repubblica. Disegno di legge relativo a
‘Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro. AS.3249’”, del 17.4.2012, consultabile presso: www.senato.it; L. Gallino, “Un
new deal per il lavoro”, del 22.1.2012, consultabile presso: www.dirittisocialiecittadinanza.org; U. Romagnoli, “Dal lavoro”, op. cit. 3.
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In questo senso si era espressa anche l’OIL, “Superare la crisi. Un patto globale per l’occupazione”, Conferenza Internazionale del
Lavoro, Ginevra, 19.6.2009, consultabile presso: www.ilo.org. Sulla stessa linea si segnalano, tra i tanti, i contributi di: S. Cesaratto,
“Trecento economisti per politiche europee di sostegno alla domanda aggregata”, del 25.11.2011, consultabile presso:
www.nelmerito.com (per la consultazione del documento originale, si rinvia invece a: http://documentoeconomisti.blogspot.it); M. Pianta,
“Nove su dieci Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa”, Bari, 2012; J. Stiglitz, “Crisis mundial, proteccion social y empleo” in
Revista internacional del trabajo, 2009, vol. 128, OIL, nn. 1-2.
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