LA SCATOLA E GLI SPECCHI
Da Mente e cervello, del 11/2014
Daniele Ovadia, La scatola e lo specchio
Lo chiamano il Marco Polo delle neuro-scienze Vilayanur Subramanian Ramachandran e si è
meritato l'appellativo per le sue rivoluzionarie scoperte nel campo del funzionamento del cervello.
Nato nel 1951 nella regione del Tamil Nadu, figlio di un ingegnere e diplomatico delle Nazioni
Unite che portò con sé la famiglia nelle missioni in India e in Thailandia, Ramachandran ha potuto
studiare nelle migliori scuole di Madras e Bangkok, tanto da conseguire un dottorato di ricerca
presso il prestigioso Trinity College di Cambridge. E’ negli Stati Uniti, però, che ha trovato la
propria strada nel settore delle neuroscienze moderne, affrontando tematiche di frontiera, come il
rapporto tra corpo e mente, e la coscienza:
“Forse perché vengo da una cultura in cui il misticismo è parte della vita quotidiana, non ho mai
pensato che esistessero fenomeni non sufficientemente seri da essere studiati con gli strumenti della
scienza”, ha spiegato Ramachandran a chi gli ha fatto notare come, pur definendosi un
neurofisiologo, abbia scelto di occuparsi di fenomeni cognitivi rari o curiosi, come l'arto fantasma.
Le premesse
Agli inizi degli anni ‘90, quando diventa direttore del Center for Brain and Cognition
dell'Università di San Diego, lo scienziato indiano, che fino a quel momento si è occupato
soprattutto di percezione e visione, comincia a interessarsi di patologie che compromettono
l'integrità dello schema corporeo: sindromi neurologiche come quella di Capgras - che porta chi ne
soffre a pensare che una persona cara è stata sostituita da un impostore di eguale aspetto - disturbi
dell'identità corporea e, appunto, arti fantasma:
“Circa il 90% di coloro i quali hanno subito un’amputazione percepisce l'arto mancante come se ci
fosse”, racconta Ramachandran. “In due terzi dei casi la percezione si manifesta con dolori che
nessuno sa come curare: come si può eliminare qualcosa che colpisce una parte del corpo che non
esiste?”.
Il fenomeno dell'arto fantasma non è una scoperta recente: lo segnalarono già medici militari
durante le campagne napoleoniche e poi chirurghi sui campi di battaglia della prima guerra
mondiale. E non riguarda solo gli arti: si segnalano casi di “seno fantasma” dopo una mastectomia e
persino di “visceri fantasma”, come accade ad alcune donne isterectomizzate che continuano a
provare i dololori uterini che hanno portato all'intervento.
Prima degli esperimenti di Ramachandran, l'ipotesi interpretativa più accreditata si basava sulla
presenza dei cosiddetti neuromi, irritazioni delle terminazioni nervose recise che avrebbero dovuto
spiegare la persistenza delle sensazioni provenienti da una parte del corpo ormai inesistente. Tutti i
trattamenti messi in atto sulla base di questo presupposto eziologico si erano però rivelati inefficaci
e talvolta i medici si trovavano obbligati a rcidere le terminazioni sensitive dei nervi pur di liberare
il paziente dal dolore.
In un lavoro del 1989 lo psicologo canadese Ronald Melzack ipotizza che il disturbo possa avere
origine a livello del sistema nervoso centrale, non della periferia Melzack propone l'esistenza di una
sorta di neuromatrice, una rete di connessioni neurali generata a livello della corteccia cerebrale
dalle esperienze corporee. Anche quando le informazioni dalla periferia cessano di arrivare, la
neuromatrice rimane attiva e genera l'illusione di persistenza della parte mancante. Due anni dopo
un gruppo di neurofisiologi del National Institues of Health di Bethesda, negli Stati Uniti, guidati da
Tom Pons, dimostra che la corteccia somatosensoriale primaria - quella a cui arrivano le
informazioni sensoriali dalla periferia - va incontro a fenomeni di riorganizzazione quando lo
stimolo periferico scompare. In sostanza, qualcosa cambia a livello cerebrale quando il corpo
subisce una modificazione importante.
In quello stesso periodo Ramachandran incontra un paziente che gli suggerisce una possibile
soluzione. In una lettera pubblicata su Science nel novembre 1992, il neurofisiologo espone
un'elegante teoria sui fenomeni di rimodulazione della corteccia cerebrale che si fonda su un
esperimento condotto su un paziente di nome Victor e poi verificato su una casistica più ampia:
“Victor aveva subito l'amputazione del braccio sinistro. Un mese dopo, nell'ambito di una
valutazione neurologica, faccio prove di percezione tattile. Quando tocco il volto con un bastoncino,
Victor sente lo stimolo sul braccio e sulla mano che non ci sono più”. Seguendo un protocollo
d'esame preciso, Ramachandran scopre che sul volto e sulla guancia sono presenti le strutture del
braccio e della mano persi dal paziente mentre tentava di attraversare clandestinamente il confine
tra il Messico e gli Stati Uniti. Le dita sono rappresentate singolarmente e nello stesso ordine con
cui si trovano su una mano normale. “Il paziente non aveva perso la sensibilità tattile della guancia,
ma percepiva due sensazioni distinte: una relativa al volto e una relativa al braccio che non c'è più”.
È la prova che le intuizioni di Melzack e Pons sono corrette e che il cervello umano procede a una
rimappatura delle rappresentazioni corporee quando viene a mancare l'apporto delle sensazioni dalla
periferia. “Con studi di imaging pubblicati nel 1994 abbiamo dimostrato che l'area di
rappresentazione di una parte del corpo che viene amputata viene a sua volta ‘invasa’ per prossimità
dalla rappresentazione adiacente. Nel caso specifico, mano e viso sono contigui sulla corteccia, e
ciò genera una nuova ipotesi interpretativa per l'arto fantasma”.
Un gioco di specchi
A metà degli anni ‘90 Ramachandran studia il lavoro del neuroscienziato italiano Giacomo
Rizzolatti, che aveva scoperto l'esistenza dei neuroni specchio che si attivano nella corteccia non
solo quando una persona compie un'azione, ma anche quando ne vede un'altra compierla. Lo
scienziato indiano applica la teoria dei neuroni specchio al caso dell'arto fantasma: “Se i neuroni
specchio si attivano quando guardiamo un altro muoversi, allora la percezione visiva ha un ruolo nel
generare la sensazione di movimento”, scrive pochi anni dopo in un saggio.
Una delle caratteristiche che fanno di Ramachandran un grande scienziato è la capacità di mettere a
punto esperimenti semplici, eleganti e a bassissimo contenuto tecnologico. In un'epoca in cui le
neuroscienze sembrano destinate a dare risultati solo con l'uso di macchinari costosi, i suoi lavori
dimostrano che è possibile ottenere informazioni preziose sul funzionamento del cervello con
strumenti di uso quotidiano. È il caso del suo esperimento più noto, quello con la scatola a specchio.
È uno strumento semplice: una scatola a due scomparti, con due buchi sul davanti e uno specchio
come divisorio. Il paziente infila il braccio sano in uno dei due buchi e quello amputato nell'altro.
Per via del gioco di specchi, guardando la scatola il paziente ha la percezione visiva di due braccia
integre, poiché vede il braccio sano riflesso al posto di quello che non esiste più. Se muove il
braccio integro, la sensazione è che sia stato il braccio amputato a fare il movimento. “A metà degli
anni ‘90 arrivò da noi un paziente, Jimmy, che aveva subito l'amputazione del braccio sinistro. È
stato il primo paziente con cui ho sperimentato la scatola a specchio. Aveva un arto fantasma
estremamente doloroso, soprattutto perché sentiva la mano inesistente chiusa a pugno, con le unghie
conficcate nel palmo”. Ramachandran chiede a Jimmy di muovere simultaneamente la mano sana e
quella fantasma, mentre guardava nello specchio il riflesso di quella funzionante. “Appena vide il
riflesso della mano sana che si apriva, Jimmy senti il pugno fantasma aprirsi anch'esso e il dolore
sparire”. La spiegazione è lineare: lo specchio crea un conflitto sensoriale intenso. La vista dice “il
braccio si sta muovendo” mentre la corteccia cerebrale ‘sa’ che l'arto amputato è paralizzato o
talmente dolorante da essere immobilizzato.
Nel ripetere l'esperimento su altri volontari, i cui dati sono stati raccolti in un lavoro pubblicato su
Brain nel 1998, Ramachandran ottiene risultati analoghi nella quasi totalità dei casi: “Uno dei modi
con cui il cervello risolve il conflitto è nell'eliminare la sensazione dell'arto fantasma. Con
l'esperimento della scatola con lo specchio abbiamo realizzato la prima amputazione di un braccio
fantasma”. È nata così la Mirror Visual Feedback Therapy - o terapia dello specchio con feedback
visivo - applicata anche ad altre situazioni di arti dolorosi o paralizzati.
“Studi su pazienti con ictus dimostrano come la terapia sia utile per ridurre la spasticità del braccio
e per favorire la riabilitazione motoria. In questo caso non c'è la perdita dell'arto ma la perdita della
funzione, e l'illusione di movimento indotta dallo specchio aiuta i fenomeni di neuroplasticità. Lo
stesso effetto è stato dimostrato anche in alcune forme di artrosi della mano”.
Nuove Ipotesi
Con l'esperimento di Ramachandran la questione dell'arto fantasma sembrava risolta. Negli ultimi
vent'anni, però, sono state avanzate altre interpretazioni, che in parte inglobano la teoria di
Ramachandran e in parte la contraddicono. Oltre alla sua ipotesi del conflitto tra visione e
propriocezione - le informazioni provenienti dal nostro corpo -, l'effetto dello specchio è stato
spiegato come un cambiamento della corteccia sensoriale primaria dovuta a una maladattamento
dopo l'amputazione; in sostanza, a una neuroplasticità “negativa”, che non aiuta a recuperare la
funzione persa dato che manca lo strumento materiale che la esegue, ossia l'arto. Secondo una terza
teoria, l'arto fantasma sarebbe invece da attribuire alla memoria della postura: il nostro corpo non
riesce a dimenticare ciò che un tempo percepiva di continuo.
Nel 2013 una neurofisiologa dell'università di Oxford, Tamar Markin, ha pubblicato un esperimento
che smonterebbe la teoria della plasticità maladattativa. Grazie ai suoi studi ha dimostrato che la
rappresentazione dell'arto mancante sulla corteccia è più intensa dopo l'amputazione che prima,
quindi che non c'è un "rimappaggio negativo” dopo la perdita dell'arto. Nello stesso anno Marshall
Devor, della Hebrew University a Gerusalemme, ha condotto un esperimento con risonanza
magnetica su 32 amputati della gamba, iniettando anestetico locale a livello del midollo spinale,
ossia nel sistema nervoso periferico. La sensazione di arto fantasma è scomparsa, così come il
dolore, mentre il funzionamento delle mappe sensoriali a livello cerebrale non è cambiata.
Se il dato verrà confermato, sarà la prima volta che un trattamento periferico avrà successo nel
sopprimere l'arto fantasma, aprendo la strada a nuovi esperimenti che dovranno spiegare come mai
questo fenomeno può essere manipolato sia partendo dal “centro” - dal cervello, come ha fatto
Ramachandran - sia dalla periferia, come ha fatto Devor.