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Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Dipartimento scienze aziendali e sociali
Centro competenze tributarie
Novità fiscali
L’attualità del diritto tributario svizzero
e internazionale
N° 2 – Febbraio 2012
Politica fiscale
Robin Hood o Alice nel Paese delle meraviglie?
Diritto tributario internazionale e dell’UE
La cosiddetta “Tobin Tax”: un prelievo possibile?
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Diritto tributario svizzero
Inasprimento della prassi dell’AFC nell’ambito della procedura
di notifica sui dividendi
Diritto tributario italiano
La cedolare secca sugli affitti
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Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero
Le spese legali sostenute da un libero professionista
per avviare un procedimento giudiziario sono deducibili a titolo
di spese professionali?
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Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano
La responsabilità penale della società holding
nel processo di internazionalizzazione d’impresa e pianificazione
tributaria internazionale
Offerta formativa
Seminari e corsi di diritto tributario
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Politica fiscale
Robin Hood o Alice nel Paese delle meraviglie?
Sergio Rossi
Professore ordinario
di macroeconomia ed economia
monetaria
nell’Università di Friburgo
Miti e realtà delle tasse sulle transazioni
nei mercati finanziari
1.
Introduzione
La crisi globale e sistemica che attanaglia molti Paesi occidentali, e che ha già attraversato varie fasi dopo lo scoppio, nel
2007, della bolla immobiliare legata ai mutui “subprime” negli
Stati Uniti, ha rilanciato la discussione sull’opportunità di prelevare una tassa sulle transazioni nei mercati finanziari per
raggiungere una serie di obiettivi coerenti tra loro sul piano
macroeconomico. Vale dunque la pena di considerare la questione per quanto riguarda l’insieme del sistema economico,
nel quale interagiscono diverse categorie di soggetti (famiglie,
imprese, istituzioni finanziarie, enti pubblici e autorità monetarie), con riferimento all’etica sociale che dovrebbe indirizzare
qualsiasi decisione politica presa nell’interesse generale del sistema economico cui è applicata.
In questo contributo analizzeremo dapprima il contesto macroeconomico nel quale si giustifica il prelievo di una tassa sulle transazioni finanziarie (di seguito TTF) che potrebbe essere
introdotta nell’Unione europea (di seguito UE). Discuteremo
poi la proposta di prelevare una tassa sulle transazioni nei
mercati valutari con riferimento alla notevole e progressiva
rivalutazione del saggio di cambio del franco svizzero dopo lo
scoppio della crisi in Eurolandia all’inizio del 2010.
2.
Analisi macroeconomica della tassa sulle transazioni
finanziarie nell’UE
La profonda crisi che sta scuotendo le fondamenta della costruzione monetaria europea ha fatto risorgere dalle ceneri la
proposta, ispirata al pensiero di Tobin (1974), di tassare le transazioni di carattere finanziario attuate all’interno o a cavallo
della giurisdizione territoriale considerata. Per la verità, Tobin
(1974) caldeggiava il prelievo di una tassa sulle transazioni nei
mercati valutari, allo scopo di “gettare un po’ di sabbia negli ingranaggi dei nostri troppo efficienti mercati monetari internazionali”
(Tobin 1978, pagina 154, nostra traduzione). La sua proposta
era volta a calmare la frenesia che già allora, tendenzialmente,
stava crescendo nell’ambito delle transazioni con cui gli ope-
ratori finanziari vendevano e acquistavano, più volte nell’arco
di una sola giornata, somme importanti di monete diverse attraverso il mercato dei cambi, sottoponendo i saggi di cambio
alle oscillazioni erratiche che erano (e sono) sia la causa sia la
conseguenza delle attività speculative nei mercati valutari.
Contrariamente alla visione della scuola monetarista capeggiata da Friedman (1953), che considerava le variazioni dei
saggi di cambio come la risposta ottimale “del mercato” nella
transizione da un equilibrio all’altro per i rapporti valutari conseguenti ai movimenti di natura commerciale (esportazioni e
importazioni di merci e servizi), Tobin (1974; 1978) riconosceva
che la libera circolazione dei capitali espressi in monete diverse
induce delle oscillazioni nei saggi di cambio che possono essere destabilizzanti per l’intero sistema economico – a maggior
ragione quando sono di carattere speculativo e non hanno alcun legame con il commercio internazionale (cfr. Rossi 2009).
Con la liberalizzazione finanziaria e la crescente globalizzazione delle attività e delle istituzioni nei mercati finanziari di
ogni tipo (monete, titoli, materie prime, prodotti derivati, e via
dicendo), il numero e il volume delle transazioni di compravendita di monete diverse sono aumentati in modo vertiginoso,
fino a raggiungere, nel corso del 2010 e secondo le statistiche
tenute dalla Banca dei regolamenti internazionali (2010, pagina 7), un importo totale giornaliero equivalente a circa 4’000
miliardi di dollari statunitensi, vale a dire che nell’arco di un
anno intero (supponendo 240 giorni lavorativi) sui mercati valutari sono scambiati degli strumenti finanziari pari a 960’000
miliardi di dollari. Questo importo supera nettamente il prodotto mondiale lordo, che nel 2010 era di 74’385 miliardi di
dollari statunitensi (valutato in base alla parità dei poteri di acquisto) secondo il Fondo monetario internazionale (2011, pagina 178). Anche considerando che queste diverse statistiche
comportano degli errori e delle omissioni che si rinnovano nel
tempo, appare evidente come la maggioranza delle transazioni nei mercati valutari siano in realtà totalmente scollegate dai
flussi di merci che attraversano le frontiere monetarie.
Le operazioni finanziarie sono preminenti in termini sia di importi sia di frequenza non soltanto nel mercato dei cambi, ma
pure in quello dei prodotti derivati, il cui valore nozionale ha
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
raggiunto, alla fine di giugno 2011, la cifra di 708’000 miliardi
di dollari statunitensi secondo la Banca dei regolamenti internazionali (2011, pagina 23).
Questa “finanziarizzazione” dei nostri sistemi economici è
indubbiamente una delle cause della crisi globale e sistemica nella quale si trova tuttora il mondo occidentale (Rochon e
Rossi 2010). Non stupisce pertanto che gli appelli (non ultimo
quello del Papa) e le iniziative istituzionali siano sempre più
frequenti per riportare la finanza moderna al proprio ruolo ancillare rispetto alle attività che producono reddito per l’insieme
dell’economia.
È in questo contesto che l’idea di prelevare una modica tassa
sulle transazioni finanziarie (la cui aliquota potrebbe essere
di 0.01% dell’importo della transazione, con l’eccezione delle
operazioni che ne saranno esentate perché servono l’interesse generale del sistema economico) ha riscosso una crescente
adesione negli ambienti politici e della società civile dopo lo
scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti con riferimento alla crisi dei mutui “subprime” nel 2007.
Se la società civile è ormai animata dalla consapevolezza che
la distribuzione del reddito e della ricchezza è tendenzialmente
sempre più iniqua a causa del regime di “finanziarizzazione” che
si è imposto a seguito della liberalizzazione, deregolamentazione e globalizzazione delle attività di natura finanziaria, rivendicando dunque l’introduzione di una tassa “Robin Hood” che
consenta di ridistribuire una parte del reddito e della ricchezza
dal settore finanziario verso l’economia “reale”, le istituzioni politiche sono consapevoli che la stabilità finanziaria è una condizione essenziale per promuovere la crescita economica.
Questa stabilità non può essere raggiunta soltanto attraverso gli strumenti (macro-prudenziali) di cui dovranno disporre
rapidamente le banche centrali, ma va resa possibile anche
mediante una corretta imposizione fiscale, distribuendo equamente il carico fiscale sui redditi da lavoro e su quelli da capitale. In questa prospettiva macroeconomica, nasce fra l’altro
la proposta della Commissione europea (2011) di istituire sul
piano comunitario una TTF che permetta di raggiungere tre
obiettivi strettamente legati fra loro:
◆◆ disincentivare le transazioni nei mercati finanziari che rappresentano una minaccia per la stabilità di questi mercati e
per l’insieme dell’economia globale;
◆◆ fare in modo che le istituzioni finanziarie contribuiscano
equamente alla copertura dei costi della crisi indotta dalla
“finanziarizzazione” del sistema economico;
◆◆ evitare la frammentazione del mercato per i servizi finanziari all’interno dell’UE, alla luce delle misure di imposizione fiscale adottate unilateralmente in questo ambito da un
crescente numero di suoi Paesi membri (Commissione europea 2011, pagina 2).
Vista l’elevata mobilità dei capitali finanziari (che contrasta
con la scarsa mobilità dei lavoratori e l’assoluta immobilità
delle costruzioni di ogni tipo), l’imposizione di una TTF andrebbe coordinata sul piano globale, vale a dire che dovrebbe
essere attuata ugualmente nelle principali piattaforme attraverso cui si svolge la maggior parte delle transazioni finanziarie, evitando in questo modo di creare delle distorsioni causate
dal dislocamento di queste transazioni verso “paradisi fiscali”
veri o presunti tali.
In realtà, il prelievo di una TTF non deve essere necessariamente attuato da tutte le maggiori piazze finanziarie né coordinato tra di esse: il Paese (o il gruppo di Paesi, nel caso di
Eurolandia) che, per primo, introdurrà una TTF calibrata allo
scopo di garantire la propria stabilità finanziaria, disporrà di
un “vantaggio competitivo” rispetto al resto del mondo, anche
quando la situazione macroeconomica globale si sarà stabilizzata dopo aver superato definitivamente la crisi attuale. Come
la storia (anche recente) ha insegnato a chi ha la volontà di
studiarla, non va dimenticato che una situazione apparentemente stabile è potenzialmente destabilizzante (Minsky 1982,
pagina 95). Data la natura essenzialmente instabile dei mercati e in particolare dei mercati finanziari, nei quali l’aumento
del prezzo di un attivo qualsiasi induce un aumento della domanda di questo attivo in una spirale autorinforzante (contrariamente a quanto succede per la maggior parte dei beni e
dei servizi non-finanziari, escludendo gli oggetti di lusso o che
rappresentano uno “status symbol”), né lo Stato né gli agenti
nell’economia privata possono fare affidamento alle apparenze di stabilità nelle loro scelte di politica economica o di
allocazione delle risorse tra usi diversi. Le diverse autorità di
sorveglianza e regolamentazione dei mercati finanziari, come
pure le autorità monetarie, devono perciò attuare un dispositivo per la stabilità macroeconomica e fare uso a questo fine
dell’insieme degli strumenti fiscali, monetari e normativi di cui
possono disporre – la cui elaborazione deve essere orientata alla creazione di un sistema finanziario resiliente alle crisi di
ordine “sistemico” anziché al contenimento dei rischi di varia
natura dei prodotti finanziari considerati singolarmente o nel
loro insieme, dato che questi prodotti evolvono continuamente
e sfuggono pertanto a qualsiasi tentativo di classificazione a
scopi regolamentari (cfr. Rossi 2012).
Da questa prospettiva macroeconomica, il prelievo di una TTF
all’interno di Eurolandia acquisisce maggiore importanza considerando la necessità – evidenziata dalle pressioni in questo
senso dei mercati finanziari soprattutto dopo che la crisi del
“debito sovrano” si è estesa, nell’estate 2011, a Italia e Francia
– di giungere a una maggiore integrazione economico-finanziaria nella zona euro. Similmente a una tassa sulle emissioni
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Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
di monossido di carbonio o di un prelievo fiscale per l’uso delle
energie di origine fossile o nucleare, una TTF può costituire
una fonte importante e fondata eticamente per finanziare il
bilancio dell’UE (che oggi rappresenta soltanto circa l’1% del
prodotto interno lordo nell’UE). Se la spesa pubblica finanziata da Bruxelles per realizzare le infrastrutture necessarie nel
territorio dell’UE (in particolare ma non solo nei suoi Paesi
membri periferici) permetterà di rilanciare e sostenere la crescita economica e così facendo di ridurre a lungo termine le
uscite dei bilanci pubblici nazionali all’interno della zona euro
rispetto al prodotto interno lordo (alleggerendo pertanto il
carico fiscale che incide negativamente sulle spese di consumo delle famiglie europee), gli “spread” e le agenzie di “rating”
che dal mese di agosto 2011 hanno mandato in fibrillazione
numerosi governi nazionali, la società civile e una variegata
moltitudine di operatori finanziari, smetteranno di fungere da
“braccio armato” per i vari “mercati” finanziari che, in maniera
parossistica, stanno esercitando la loro tirannia sulla politica
e sull’economia dei Paesi membri di Eurolandia (cfr. Rossi e
Dafflon 2012).
Gli argomenti contrari al prelievo di una TTF, secondo i quali
essa ridurrebbe la liquidità e farebbe aumentare la volatilità
nei mercati sottoposti a questa tassa, dislocando una quota
importante dei contratti di compravendita – e i relativi posti di lavoro – verso le giurisdizioni che non prelevano la TTF,
possono essere facilmente invalidati attraverso un’accurata
definizione del perimetro delle transazioni e degli operatori
sottoposti a questa tassa a favore della stabilità finanziaria.
Nel caso dell’UE, per esempio, la Commissione europea (2011,
pagine 4–5) ha già rilevato le condizioni principali da rispettare
per garantire che la TTF sia prelevata in modo efficace e senza
danneggiare le attività che riguardano la produzione di beni e
servizi non-finanziari:
◆◆ la base imponibile dovrà includere una gamma molto ampia di prodotti, contratti, transazioni e operatori finanziari, contemplando pure le operazioni svolte all’interno di un
singolo gruppo finanziario e soprattutto nelle istituzioni finanziarie di importanza sistemica sul piano globale;
◆◆ l’imposizione della TTF dovrà rispettare il principio di residenza del soggetto fiscale, anziché considerare il luogo in
cui avviene o è registrata la transazione finanziaria su cui è
dovuta la tassa;
◆◆ l’aliquota fiscale per il prelievo della TTF dovrà essere fissata a un livello tale da evitare ogni possibile impatto di
questa tassa sui costi di finanziamento per gli investimenti
produttivi nel sistema economico;
◆◆ le transazioni sui mercati primari (nei quali i prodotti finanziari sono emessi) saranno esentate dalla TTF, affinché né
le imprese né le istituzioni pubbliche siano in difficoltà per
raccogliere il capitale necessario per i loro investimenti;
◆◆ le operazioni di credito e deposito che riguardano le famiglie, le imprese o gli istituti finanziari non dovranno essere
soggette alla TTF, al pari delle transazioni finanziarie che
concernono la politica monetaria svolta dalla Banca centrale europea o dalle banche centrali nazionali.
Senza entrare nei dettagli tecnici, l’imposizione di una TTF
dovrebbe essere attuata in maniera inversamente proporzio-
nale alla durata del possesso dei prodotti sottoposti a questa
tassa, così da colpire più duramente la speculazione svolta
mediante il cosiddetto “trading” algoritmico, vale a dire che
avviene a frequenza elevata e in maniera automatica (“high
frequency trading”). Come accade in Svizzera per il prelievo di
un’imposta sugli utili conseguiti sulla sostanza immobiliare,
la cui scala delle aliquote è decrescente con l’aumentare della
durata durante la quale il soggetto fiscale è stato proprietario
del bene in questione, questo principio può facilmente essere
applicato alle transazioni finanziarie in maniera tale da frenare la speculazione al rialzo o al ribasso delle quotazioni di
mercato o nelle operazioni “over the counter” (cioè quelle transazioni che non sono sottoposte alle regole e ai meccanismi
dei mercati nei quali avviene la compravendita di prodotti finanziari standardizzati).
Nell’ottica della Commissione europea (2011, pagina 8), la
libertà di movimento dei capitali esige l’esenzione del pagamento della TTF nelle operazioni sui mercati valutari (assoggettando tuttavia alla TTF i prodotti derivati che riguardano
queste operazioni). Alla luce delle pressioni esorbitanti esercitate sulla valorizzazione del franco svizzero nel mercato dei
cambi, che sono aumentate in modo evidente e progressivo
subito dopo lo scoppio della crisi in Eurolandia all’inizio del
2010, la tassa originariamente proposta da Tobin (1974; 1978)
potrebbe invece svolgere efficacemente la sua funzione di freno all’apprezzamento forte e insostenibile per l’economia svizzera della propria moneta nazionale nel mercato dei cambi.
Analizziamo questa proposta nella prossima sezione.
3.
Una “tassa Tobin” per le transazioni in franchi svizzeri
nei mercati valutari
Contrariamente alle affermazioni dei numerosi autori che
confondono la “tassa Tobin” con la TTF, la proposta originale di Tobin (1974) riguardava esclusivamente le transazioni
nei mercati valutari (compravendita di monete diverse). Tobin (1978, pagina 153, nostra traduzione) partiva dalla sua
osservazione empirica, che già allora era caratterizzata dalla
“eccessiva mobilità internazionale – o, meglio, intervalutaria – del
capitale finanziario privato”. Osservando le “serie e frequentemente
dolorose conseguenze economiche reali della speculazione sui saggi
di cambio, siano esse nella forma di abbondanti trasferimenti di debiti e riserve ufficiali o nella forma di ampie fluttuazioni nei saggi di
cambio” delle monete nazionali, Tobin (1978, pagine 154–155,
nostra traduzione) ebbe l’idea di prelevare “una tassa uniforme
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
a livello internazionale su tutte le conversioni a contanti di una moneta in un’altra moneta, proporzionale all’importo della transazione”.
Nelle sue intenzioni, questa tassa “scoraggerebbe in particolare le
triangolazioni finanziarie a corto termine aventi per oggetto una determinata moneta” (Tobin 1978, pagina 155, nostra traduzione).
La “tassa Tobin” avrebbe dunque un impatto minore per le
conversioni permanenti nei mercati valutari come pure per le
transazioni a lungo termine, riducendo quindi la sua influenza
sugli investimenti diretti da e verso l’estero, che sono effettuati
per ragioni imprenditoriali anziché per la speculazione (Tobin
1978, pagina 155).
Nell’ottica di Tobin (1978, pagina 159, nostra traduzione), “la
tassa sarebbe prelevata su tutti gli acquisti di strumenti finanziari
espressi in una moneta straniera – dalle banconote e le monete in
metallo fino ai titoli di capitale proprio o di capitale dei terzi”. Allo
scopo di evitare che numerose transazioni finanziarie siano
svolte sotto la finta copertura di movimenti commerciali, Tobin (1978, pagina 159, nostra traduzione) propose di applicare
la medesima tassa anche “a tutti i pagamenti in moneta straniera
per i beni, i servizi e gli attivi reali venduti da un residente in una
diversa zona monetaria”. Nonostante “le difficoltà di ordine amministrativo e per l’applicazione” della sua tassa, come pure i costi e
le possibili distorsioni derivanti da questo prelievo fiscale, Tobin (1978, pagina 159, nostra traduzione) riteneva che questi
aspetti negativi “sono di poco conto se confrontati ai costi macroeconomici mondiali del regime [liberale] attuale”, ai quali devono
poi essere aggiunti i costi delle diverse misure protezionistiche
introdotte in reazione alle conseguenze negative degli choc internazionali causati dal settore finanziario (ibidem).
Come abbiamo osservato per la TTF nella sezione precedente,
anche la “tassa Tobin” sulle varie transazioni nei mercati valutari può essere attuata unilateralmente da un Paese (o da un
gruppo di Paesi) senza temere di subire uno “svantaggio competitivo” nei confronti del resto del mondo, quando l’introduzione di questo prelievo fiscale è giustificata dalle pressioni (al
rialzo o al ribasso) osservate sul saggio di cambio della moneta
nazionale. La situazione del franco svizzero dopo lo scoppio
della crisi in Eurolandia (inizio 2010) rappresenta un caso significativo a questo riguardo e merita di essere analizzata in
termini macroeconomici.
Senza entrare nei dettagli dell’analisi (cfr. Rossi 2011), il forte, rapido e notevole apprezzamento del franco svizzero nel
mercato dei cambi (in particolare rispetto all’euro e al dollaro statunitense) ha suscitato numerose preoccupazioni negli
ambienti politici, economici e sindacali in Svizzera e soprattutto nelle regioni di frontiera (in maniera speciale nel Cantone
Ticino), data la concorrenza dei prodotti e dei lavoratori che
provengono dai Paesi confinanti o dal resto dell’UE.
Considerando la tradizione liberale della politica economica
elvetica come pure i tempi lunghi che caratterizzano i dibattiti
parlamentari necessari per decidere delle misure di intervento
nel sistema economico nazionale, l’urgenza con cui si è posto il problema della valorizzazione del franco nel mercato dei
cambi ha indotto la Banca nazionale svizzera (di seguito BNS)
a decidere e attuare diverse strategie operative, dapprima per
frenare, poi per contrastare, infine per scoraggiare gli acquisti
di svariati miliardi di franchi svizzeri nel mercato dei cambi da
parte di soggetti economici residenti in Svizzera o all’estero (i
quali cercano un porto sicuro in cui ripararsi dalla tempesta finanziaria o delle occasioni di facile e immediato guadagno con
la speculazione valutaria). La BNS ha perciò azzerato il tasso di
interesse di riferimento per la propria politica monetaria, prima di iniziare ad acquistare molte decine di miliardi di euro in
cambio di franchi svizzeri emessi dalla stessa banca centrale,
cercando così di frenare la forza della moneta nazionale nel
mercato dei cambi. Visti i risultati insoddisfacenti sul mercato
valutario generati con l’aumento (da 30 a 200 miliardi di franchi) delle riserve di liquidità di cui possono disporre le banche
nei loro conti presso la BNS, quest’ultima ha allora deciso di
mostrare ai mercati il “bazooka finanziario” di cui può far uso
quando “rien ne va plus” nel suo armamentario convenzionale:
il 6 settembre 2011, una data che resterà per sempre nella
storia svizzera, il Presidente della Direzione generale della BNS
ha dunque dichiarato solennemente che l’autorità monetaria
elvetica “è pronta ad acquistare delle monete straniere in quantità illimitata” affinché il saggio di cambio non sia inferiore a un
franco e venti per un euro (Hildebrand 2011, pagina 1, nostra
traduzione). La BNS ha deciso di mettere in gioco in questo
modo la propria credibilità e indipendenza (cfr. Rossi 2010;
2011) nel tentativo di ottenere degli effetti stabilizzatori sulla
congiuntura economica svizzera a breve termine, sebbene “i
costi associati a tale decisione potrebbero essere molto elevati” nel
lungo periodo per l’insieme dell’economia elvetica (Hildebrand
2011, pagina 2, nostra traduzione).
Nonostante gli evidenti benefici di corto termine ottenuti grazie alla stabilizzazione del saggio di cambio del franco rispetto
alle principali monete straniere, permettendo così di ridurre il
grado di incertezza delle imprese svizzere orientate all’esportazione (che però continuano a minacciare di licenziare numerosi collaboratori se la BNS non innalzerà la soglia minima di
cambio del franco a 1.30 o 1.40 con riferimento all’euro), la fissazione (arbitraria) di un saggio di cambio minimo per il franco
svizzero da parte dell’autorità monetaria elvetica rappresenta
un’arma a doppio taglio, i cui effetti negativi per l’economia
nazionale potrebbero manifestarsi con due modalità diverse:
(i) il “bazooka finanziario” della BNS funzionerebbe come una
cerbottana, facendo perdere credibilità all’autorità monetaria
elvetica nei mercati finanziari, se la crisi in Eurolandia si aggravasse tanto da far aumentare in modo assolutamente incontenibile il volume di franchi svizzeri richiesti dagli agenti economici al fine di convertire i loro averi espressi in euro per evitare
la dissoluzione dei patrimoni privati e istituzionali (si pensi, per
esempio, agli istituti di previdenza professionale); (ii) lo stesso
“bazooka finanziario” sarebbe una “arma finanziaria di distruzione di massa” nel caso in cui la BNS mantenesse a ogni costo
la propria promessa di “acquistare delle monete straniere in quantità illimitata” (Hildebrand 2011, pagina 1, nostra traduzione) al
fine di impedire che il saggio di cambio del franco sia inferiore
al livello minimo annunciato il 6 settembre 2011 (o a qualsiasi altro livello che la BNS decidesse di fissare esplicitamente).
La “distruzione di massa” avrebbe il proprio epicentro nel mercato immobiliare svizzero, che è già in fase di evidente surriscaldamento nelle principali città elvetiche come pure in diverse località rinomate sul piano turistico. Dato che, per loro
natura, tutti i depositi bancari espressi in franchi svizzeri non
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Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
possono essere altrove che nel sistema bancario elvetico (cfr.
Rossi 2007, pagina 100), gli istituti di credito situati in Svizzera,
e per i quali i prestiti ipotecari rappresentano un’importante fonte di guadagno, sarebbero indotti ad aumentare considerevolmente l’importo totale dei mutui che concedono per
l’accesso alla proprietà abitativa, con il conseguente rigonfiamento di una gigantesca bolla immobiliare che coinvolgerebbe rapidamente l’insieme del territorio elvetico, soprattutto
dopo che questa bolla si sarà gonfiata al punto tale da scoppiare, provocando allora dei danni enormi tanto nei bilanci del
settore finanziario quanto nella cosiddetta economia “reale”
della Svizzera.
È in questa prospettiva che la decisione di prelevare una “tassa Tobin” sugli acquisti di franchi nel mercato dei cambi permetterebbe di raggiungere diversi obiettivi minimizzandone i
costi sia diretti sia indiretti. Oltre al cosiddetto “effetto di annuncio” che, già prima del prelievo di questa tassa sui mercati
valutari, potrebbe ridurre la pressione al rialzo sul saggio di
cambio del franco svizzero, la “tassa Tobin” eviterebbe: (i) alla
BNS di aumentare i rischi finanziari nel proprio bilancio legati alle operazioni con cui acquista delle somme miliardarie di
monete straniere e/o dei prodotti finanziari espressi in queste
monete; (ii) alle banche di aumentare i rischi di credito indotti
dall’espansione eccessiva dei loro prestiti ipotecari; (iii) al mercato immobiliare di soffrire per il rigonfiamento e il successivo
scoppio di una bolla tale da pregiudicare per numerosi anni
la stabilità economica e finanziaria in Svizzera; oltre a evitare
(iv) che il settore pubblico elvetico (Confederazione, Cantoni
e Comuni) debba ridurre la qualità e/o il volume delle proprie
prestazioni a seguito del mancato versamento da parte della
BNS della quota di utile netto usata per finanziare una parte
di queste prestazioni. A questo riguardo, la “tassa Tobin” permetterebbe di sostituire una fonte impropria di entrate dello
Stato (la politica monetaria non va confusa con la politica fiscale del settore pubblico per evitare qualsiasi conflitto di interesse fra loro) con una fonte di entrate fiscali giustificate tanto
dall’etica sociale quanto dall’obiettivo di assicurare la stabilità
finanziaria del sistema economico.
Considerando le somme di franchi svizzeri che giornalmente
sono scambiate nei mercati valutari – equivalenti a 238 miliardi di dollari statunitensi, di cui 72 miliardi per la compravendita
di franchi in cambio di euro, secondo le statistiche della Banca
dei regolamenti internazionali (2010, pagina 46), prima che la
crisi in Eurolandia facesse registrare un picco che per la coppia
euro/franco fu pari a 247 miliardi di dollari statunitensi in una
singola giornata di transazioni nell’agosto 2011 –, la Confederazione potrebbe prelevare una “tassa Tobin” con un’aliquota insignificante per gli scambi commerciali (per esempio, un
centesimo per ogni 100 franchi acquistati nei mercati valutari)
al fine di finanziare un fondo cui potrebbero attingere le imprese che sono realmente in grave difficoltà a causa della forte
rivalutazione del franco svizzero e che rispettano una serie di
condizioni a questo riguardo, tra le quali dovrebbero figurare i
seguenti requisiti:
◆◆ la garanzia da parte della direzione dell’impresa di non
versare degli stipendi in euro o in altre monete straniere ai
propri collaboratori nell’anno durante il quale l’impresa ottiene un aiuto da parte dello Stato (nella forma di un sussidio o di un incentivo fiscale mirato a questo scopo);
◆◆ l’assunzione o la permanenza nell’organico dell’impresa
di collaboratori formati in Svizzera e con un premio per la
quota di lavoratori “senior” (che accompagnano le nuove
leve in azienda allo scopo di trasmettere loro il “capitale
umano” accumulato dai lavoratori più anziani);
◆◆ la dimostrazione da parte dell’impresa che ha sviluppato
dei materiali, dei prodotti e/o delle tecniche di produzione
innovative e favorevoli all’ambiente, con un premio per l’uso di fonti energetiche rinnovabili e/o per l’approvvigionamento di materie prime “a chilometro zero”.
Se, per esempio, la Confederazione avesse prelevato nel 2011
una “tassa Tobin” di 0.01% – ammettendo un importo medio
giornaliero di 220 miliardi di franchi scambiati nei mercati valutari (cfr. supra) – il gettito annuale (calcolato per 240 giorni lavorativi) di questa tassa sarebbe stato di 5.28 miliardi di
franchi. Questo importo avrebbe potuto essere diviso in modo
tale da: (i) sostituire la parte dell’utile netto che la BNS versa
annualmente alla Confederazione e ai Cantoni (ripristinando
così durevolmente il versamento di 2.5 miliardi di franchi nelle
casse pubbliche); (ii) indennizzare il settore bancario per i costi
legati al prelievo di questa “tassa Tobin” (con inoltre la possibilità di remunerare questo settore per il servizio reso in questa
fattispecie); e (iii) alimentare di anno in anno il suddetto fondo
riservato alle imprese bisognose e che soddisfano i requisiti da
predisporre a tal fine.
Ai critici che si opporranno all’introduzione di una “tassa Tobin” sugli acquisti di franchi svizzeri, in base al pretesto che
questo prelievo fiscale dislocherebbe una serie importante di
transazioni e di attività finanziarie verso il resto del mondo,
facendo perdere centinaia (se non migliaia) di posti di lavoro
all’insieme dell’economia elvetica, si potrà facilmente obiettare facendo rilevare come sia il fondo costituito con i proventi della “tassa Tobin”, sia la pressione al ribasso sul saggio
di cambio del franco svizzero indotta dal prelievo di questa
tassa, permetteranno di sostenere le attività che producono
reddito in Svizzera, con degli ovvi benefici anche per l’industria
finanziaria nazionale e per il livello di occupazione nell’insieme dell’economia elvetica. La stabilità finanziaria sarà quindi
rafforzata, a tutto vantaggio anche delle finanze pubbliche e
della prosperità economica in questo Paese.
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
4.
Conclusione
In conclusione, come si evince da questa breve analisi macroeconomica, la politica fiscale deve essere considerata (al pari
della politica monetaria) senza alcun preconcetto ideologico,
per non essere vittima degli errori concettuali e metodologici
che si nascondono nelle numerose pieghe dei ragionamenti
con cui, da destra come da sinistra nello spettro politico, si cerca di invalidare o avvalorare una tesi per dei motivi partigiani
o di opportunismo, sottacendo o dimenticando che il pensiero
economico deve essere al di sopra delle parti per informare
delle scelte politiche capaci di realizzare il bene comune e migliorare così le sorti dell’insieme della popolazione nel rispetto
di valori primordiali, quali la coesione sociale e la sostenibilità
ambientale. Le raccomandazioni per la gestione delle risorse
comuni che sono valse a Elinor Ostrom il “premio Nobel” per l’economia nel 2009, in effetti, si applicano mutatis mutandis anche
alla finanza “globalizzata”. In assenza di regole, condivisione
delle responsabilità, e coinvolgimento di tutti gli attori economici nei processi di gestione collettiva del settore finanziario,
si osserverà inevitabilmente la progressiva riduzione della possibilità di utilizzare questo settore per soddisfare gli interessi
di ciascun agente in esso coinvolto. La “tragedia dei comuni”
di Hardin (1968) dovrebbe convincere anche gli “integralisti”
dei mercati finanziari sulla necessità di trovare una “terza via”
fra lo statalismo e il neoliberismo, superando la contrapposizione immaginaria tra Robin Hood e Alice nel Paese delle
meraviglie. Ne va della perennità del nostro sistema economico – fondato sul capitalismo e la responsabilità personale –,
che ha contribuito alla prosperità e al benessere nei “trenta
gloriosi” anni dopo la Seconda guerra mondiale, ma che è stato
progressivamente sgretolato dal proprio interno con l’avvento
e l’esaltazione del regime di crescita economica basata sulla “finanziarizzazione” del sistema e dei propri elementi costitutivi.
La crisi epocale in cui versa il mondo occidentale offre una sola
alternativa: il ritorno alle origini del capitalismo benigno attraverso una “terza via” ancora da scoprire e apprezzare, oppure
il progressivo sfaldamento delle conquiste sociali e del livello
di benessere nel corso del prossimo ventennio. L’UE appare
purtroppo sempre più nel secondo caso, a seguito delle misure di austerità draconiane imposte in un contesto recessivo
e che continua ad aggravarsi in una dinamica autorinforzante
per l’interazione negativa tra il debito sovrano insostenibile, la
drastica riduzione della spesa pubblica, l’aumentata disoccupazione e il calo dei consumi e degli investimenti privati. Ce n’è
abbastanza per far rivoltare il povero James Tobin (1918–2002)
nella sua tomba.
Per maggiori informazioni:
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http://ec.europa.eu/taxation_customs/resources/documents/taxation/
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Elenco delle fonti fotografiche:
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http://tarpley.net/images/Assorted_international_currencies.jpg
[20.02.2012]
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Diritto tributario internazionale e dell’UE
La cosiddetta “Tobin Tax”: un prelievo possibile?
Daniele Russetti
Avvocato
Studio Marino & Associati, Milano
Un’analisi del tributo che sta attualmente
dividendo l’UE
1.
La ratio del tributo sulle transazioni finanziarie
L’UE, in data 28 settembre 2011, ha proposto l’introduzione
di una nuova misura fiscale, cosiddetta FTT ovvero Financial
Transaction Tax, applicabile ad ogni transazione finanziaria realizzata nell’UE, con la finalità ultima non solo di contrastare la
speculazione nel breve termine, ma soprattutto di stabilizzare
i mercati e, quindi, di colmare il gap esistente tra l’economia
reale e quella finanziaria. Tale imposta è stata definita il grimaldello di una riforma ad ampio respiro che la Commissione
europea, di concerto con il Parlamento e il Consiglio dell’Unione, stanno portando avanti con l’obiettivo di arginare la perdurante crisi che sta attanagliando sia l’euro-zona che le realtà
nazionali extra-UE. Secondo la Commissione[1] , tale imposta
contribuirebbe a rinsaldare la stabilità dei mercati finanziari,
ossia a ridurne la volatilità e gli effetti nocivi relativi all’assunzione di eccessivi rischi[2]. Orbene, l’imposizione di uno specifico prelievo per il settore finanziario sarebbe giustificato dalla
necessità di assicurare le giuste condizioni per una crescita sostenibile, giacché il gettito ottenuto garantirebbe un parziale
risanamento dei conti pubblici, la creazione di risorse ausiliarie
e, non da ultimo, una maggiore efficienza economica del sistema Europa. Inoltre, atteso che la maggior parte dei servizi
finanziari nell’UE risulta esente dall’imposta sul valore aggiunto, il suddetto tributo colmerebbe un “vuoto impositivo” a cui
mai si è fatto fronte. Essendo un’imposta di matrice europea,
i.e. armonizzata, la FTT avrebbe l’effetto, quindi, non solo di
evitare la frammentazione del mercato interno dei servizi finanziari – circostanza che potrebbe verificarsi a seguito del
crescente numero di misure fiscali, introdotte dai Paesi membri, tra loro non coordinate – ma anche quello di prevenire
ed evitare distorsioni causate da regolamentazioni tributarie
promosse unilateralmente dagli Stati membri dell’UE, misure
che potrebbero creare possibili fenomeni di doppia imposizione internazionale o, addirittura, di non imposizione.
È importante rilevare che tale forma di tassazione non costituisce un’assoluta novità.
Lo schema della FTT mutua le proprie linee-guida dal modello
della cosiddetta Tobin Tax, ossia quella forma di prelievo fiscale
ideata nel 1972 dal “premio Nobel” per l’economia James Tobin,
volta ad incidere esclusivamente sul mercato dei cambi per scoraggiare le operazioni a brevissimo termine, con effetti destabilizzanti per il sistema valutario. In particolare, nel disegno dell’economista di matrice keynesiana, la tassa avrebbe riguardato
tutte le transazioni valutarie, scontando queste ultime un’imposizione con un’aliquota compresa tra lo 0.05 e lo 0.1%, al fine
di penalizzare le posizioni a breve, puramente speculative.
Della possibile introduzione di una Tobin Tax si era già ampiamente discusso nel 1992, in occasione dello smembramento
del sistema monetario europeo, senza, però, giungere a nessun risultato concreto per la mancanza di accordo raggiunto in
seno alle Istituzioni europee.
Allo stato attuale, il suddetto progetto normativo, oltre ad essere al centro di un acceso dibattito politico in seno all’UE, è al
vaglio di una commissione tecnica, ma è d’uopo sottolineare
che il malcontento e lo scetticismo manifestato da alcuni Paesi membri sulla necessità di un’imposizione delle transazioni
finanziarie, nonché l’assenza di un provvedimento a carattere
internazionale che assicuri un’applicazione globale del tributo,
ostano all’attuazione della FTT.
2.
L’ambito soggettivo di applicazione della proposta
di direttiva
La Commissione europea, con la proposta di direttiva[3] in
parola, ha esplicitato gli elementi fondanti il suddetto prelievo, anche se non mancano, ad oggi, passaggi normativi poco
chiari che lasciano spazio a dubbi ed interrogativi.
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
Ai sensi dell’articolo 1 della bozza dell’atto europeo, il tributo
inciderebbe su tutte le transazioni finanziarie a condizione che
(i) almeno una delle parti coinvolte nell’operazione sia stabilita
in uno Stato membro dell’UE e che (ii) un ente finanziario stabilito sul territorio di uno Stato membro dell’UE sia parte coinvolta nella transazione, agendo per conto proprio o per conto
di altri soggetti, ovvero a nome di una delle parti della transazione posta in essere. A corredo di questa prima disposizione, il
legislatore europeo ha cercato di chiarire due elementi caratterizzanti la suddetta novella normativa, i.e. la nozione di ente
finanziario e quella di stabilimento.
L’inciso “ente finanziario” ricomprenderebbe: i) le imprese di
investimento; ii) gli enti creditizi; iii) i mercati regolamentati; iv)
le imprese di assicurazione e di riassicurazione; v) gli organismi
di investimento collettivo nonché i loro gestori; vi) i fondi pensioni e i loro gestori; vii) le società di partecipazione; ed infine
viii) le società di leasing.
Tale elencazione – non tassativa – è compendiata da una
clausola di effettività che attribuisce rilevanza all’attività svolta in concreto dal soggetto di riferimento, a prescindere dalla
definizione giuridica che ne individua il settore economico di
appartenenza. In particolare, saranno considerati enti finanziari tutte le imprese la cui attività si estrinsecherà: a) nella negoziazione di strumenti finanziari; b) in acquisizione di
partecipazioni in imprese; c) nella partecipazione di strumenti
finanziari o loro emissione; d) nella fornitura di servizi relativi
alle attività di cui alla lettera c), “purché tali attività rappresentino
una quota significativa della sua attività complessiva, in termini di
volume o di valore delle transazioni finanziarie”.
Se il commento operato dal legislatore sul punto in questione può essere considerato adeguato – sebbene si dovrà chiarire, da un punto di vista pratico e numerico, quando
l’attività realizzata da un’impresa possa rappresentare una
quota considerevole del proprio core business –, medesimo
giudizio positivo non può esprimersi con riferimento al concetto di “stabilimento”.
A tal proposito, un ente finanziario sarà considerato stabilito
in uno Stato membro dell’UE se, alternativamente: o è stato
autorizzato dalle Autorità nazionali ad agire in tale veste per le
transazioni incluse nell’autorizzazione; o ivi ha la propria sede
legale; ovvero ha il suo indirizzo permanente o la propria residenza abituale in tale Stato membro dell’UE; o quivi detiene
una succursale; oppure partecipa, agendo per conto proprio
o per conto di altri soggetti o prende parte, a nome di uno
dei partecipanti all’operazione, con un altro ente finanziario in
tale Stato stabilito, o partecipa con un soggetto che sebbene
non sia un ente finanziario risulti, comunque, stabilito nel territorio di siffatto Paese membro dell’UE.
Da quanto riportato emerge, ictu oculi, l’opacità dell’inciso
“indirizzo permanente”. Se è vero che la nozione di residenza abituale potrebbe essere ricollegata al concetto di sede
dell’amministrazione, ovvero alla nozione di oggetto principale caratterizzante l’attività dell’ente, non si comprende
che cosa il legislatore abbia voluto intendere con siffatta perifrasi, poiché, senza alcuna delucidazione a riguardo, il suddetto richiamo, oltre a non assumere una precisa valenza
giuridica, potrebbe creare non pochi problemi soprattutto
per stabilire se la transazione sia stata conclusa o meno nel
territorio dell’UE.
3.
L’ambito oggettivo di applicazione della proposta
di direttiva
Il legislatore ben definisce la dimensione oggettiva dell’imposizione.
In primis, per transazione finanziaria si dovrà intendere ogni
operazione economica che si palesa come[4]:
a) acquisto e vendita di uno strumento finanziario prima della
compensazione e del regolamento, compresi i contratti di
vendita con patto di riacquisto e di acquisto con patto di
rivendita, nonché i contratti di concessione e assunzione di
titoli in prestito;
b)trasferimento tra entità dello stesso gruppo del diritto di
disporre di uno strumento finanziario a titolo di proprietario e qualsiasi operazione equivalente che implica il trasferimento del rischio associato allo strumento, se non soggetta alla lettera a);
c) stipula o modifica di contratti derivati.
In secondo luogo, le transazioni finanziarie che rileveranno ai
fini della richiamata disciplina saranno solo ed esclusivamente
quelle realizzate sul cosiddetto mercato secondario[5], ossia
quelle relative a strumenti finanziari principali, derivati e strutturati – come azioni, obbligazioni, quote o azioni di organismi di
investimento collettivo (compresi gli Organismi d’investimento
collettivo in valori mobiliari [di seguito OICVM]), contratti swap,
contratti future, contratti di opzione, valori mobiliari negoziabili
o altri strumenti finanziari offerti tramite cartolarizzazione –,
negoziati sia nell’ambito di mercati dei capitali organizzati o
regolamentati, sia al di fuori degli stessi, con riferimento, quindi, ad operazioni fuori borsa. La FTT non troverà applicazione, invece, per tutte quelle operazioni realizzate sul cosiddetto
mercato primario[6], nonché per quelle intercorse con soggetti
sovranazionali (i.e. la Banca Centrale Europea o il Fondo Monetario Internazionale) e con le banche centrali nazionali, al fine
di prevenire ed evitare effetti negativi sulle eventuali operazioni di rifinanziamento delle istituzioni (finanziarie) nazionali.
Tutto ciò premesso, ne consegue che, stante l’esclusione dei
mercati primari, la maggior parte delle attività finanziarie quotidiane che coinvolgono cittadini ed imprese non rientreranno
nel campo di applicazione del tributo. Non sconteranno l’imposta, quindi, la stipula di contratti assicurativi, i prestiti ipotecari, i crediti al consumo, i servizi di pagamento[7], nonché
le transazioni su valute sui mercati a pronti. Tuttavia, è d’uopo
evidenziare che i contratti derivati basati su transazioni su valute rientreranno nel campo di applicazione della FTT, poiché
non integrano di fatto transazioni su valute.
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Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
4.
La territorialità dell’imposta, la base imponibile
e le aliquote della proposta di direttiva
Con riferimento all’esigibilità dell’imposta, atteso che quest’ultima troverà applicazione nel momento in cui la transazione
sarà posta in essere[8] , il momento impositivo si materializzerà nello Stato membro dell’UE sul cui territorio è stabilito l’ente
finanziario che partecipa alla transazione agendo o per conto
proprio o per conto di altri soggetti, oppure a nome di una
delle parti coinvolte nell’operazione stessa.
Ciò detto, si evidenzia che se i luoghi in cui sono stabiliti i diversi enti finanziari interessati dalla transazione si trovano sul
territorio di diversi Stati membri dell’UE, siffatti Paesi avranno
la competenza ad assoggettare la transazione all’imposta, applicando le relative aliquote. Inoltre, la bozza di direttiva, proprio alla luce della supra menzionata nozione di “stabilimento”,
introduce una presunzione di “stabilimento o di residenza” che
amplia, di fatto, l’ambito di applicazione dell’atto normativo in
questione anche per le operazioni finanziarie che transitano
per Paesi extra-UE. Difatti, così come esplicato nella relazione integrativa alla proposta, “se i relativi luoghi di stabilimento
sono ubicati sul territorio di uno Stato che non fa parte dell’Unione,
la transazione non è assoggettata all’ITF [i.e. FTT, secondo l’acronimo
inglese, n.d.r.], a meno che una delle parti coinvolte nella transazione
sia stabilita nell’UE e la transazione diventa imponibile nello Stato
membro interessato. Le transazioni effettuate in sede di negoziazione al di fuori dell’UE saranno assoggettate all’imposta se il luogo di
stabilimento di almeno uno degli enti che effettuano la transazione
o vi intervengono si trova nell’UE”. Tale interpretazione, in punto
di territorialità dell’imposta, ha un effetto dirompente. Emerge, per tabulas, che, grazie all’inciso “a meno che una delle parti
coinvolte nella transazione sia stabilita nell’UE”, tutte (o quasi) le
transazioni poste in essere saranno attratte nel campo di applicazione della direttiva. Difatti, utilizzando il termine “parti”,
si è voluto ricomprendere non solo gli enti finanziari coinvolti,
ma anche e soprattutto tutti quei soggetti, i.e. persone fisiche
ed imprese, che pongono in essere operazioni di tal genere
per il tramite dei suddetti enti. Quindi, nel momento in cui un
soggetto diverso da un ente sia stabilito nell’UE e l’operazione
materialmente risulti conclusa da enti finanziari collocati al di
fuori dell’UE, l’imposta troverà applicazione e sarà prelevata
dallo Stato in cui è localizzato il soggetto che ha partecipato
all’operazione per il tramite dell’ente, sebbene quest’ultimo risulti stabilito in un territorio extra-UE. Invero, solo nel caso in
cui la transazione intercorra tra parti che non possono essere individuate, anche indirettamente, nell’euro-zona, il tributo
non sarà esigibile.
La forza attrattiva della disciplina europea potrebbe essere
contenuta. È proprio lo stesso legislatore che, al paragrafo
3 dell’articolo 3, prova a definire una clausola di esclusione
dell’imposta, utilizzando, però, una formulazione che non
brilla per chiarezza. Al riguardo, la bozza di direttiva stabilisce
che “un ente finanziario non si considera stabilito sul territorio di
uno Stato membro […] se il soggetto responsabile del versamento
dell’ITF [i.e. FTT, n.d.r.] dimostra che non vi è alcun collegamento
tra la sostanza economica della transazione ed il territorio di qualsiasi Stato membro”. Dal dettato normativo si evince che solo
l’assenza di un nesso eziologico tra l’operazione realizzata e
il territorio europeo potrà garantire l’esenzione dall’imposizione, ma nulla è specificato su che cosa si debba intendere per “sostanza economica della transazione”, né soprattutto si
ragguaglia su come la prova dovrà essere fornita per usufruire
del suddetto beneficio.
Con riguardo alla base imponibile su cui calcolare l’imposta,
sarà necessario distinguere a seconda che la transazione finanziaria abbia avuto ad oggetto un contratto derivato o
meno. Per la prima, la base imponibile sarà costituita dall’ammontare nozionale[9] desumibile dal contratto derivato al
momento in cui si realizzerà la transazione e, nel caso in cui
sia possibile identificare più ammontari, si dovrà prendere in
considerazione quello maggiore; per la seconda, la base imponibile sarà data dal quantum di corrispettivo pagato o dovuto,
a fronte del trasferimento dalla controparte, ovvero dal prezzo (o valore) di mercato, qualora quest’ultimo sia superiore al
suddetto corrispettivo o in caso di operazioni infragruppo.
Altro fondamentale punto del progetto legislativo è quello
concernente le aliquote da applicare per ogni singola operazione realizzata. Sebbene ciascuno Stato membro UE sia libero di decidere le percentuali di tassazione – in ottemperanza ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità –, tuttavia
sono previsti limiti minimi invalicabili. In specie, le transazioni
finanziarie relative a strumenti finanziari principali dovranno
essere assoggettate ad un’aliquota non inferiore allo 0.1%; diversamente, le transazioni concernenti i contratti derivati dovranno essere tassate con un’aliquota minima pari allo 0.01%.
Tale differenziazione di rate è stata giustificata in ragione delle
peculiarità che differenziano gli strumenti finanziari principali
da quelli derivati.
È doveroso sottolineare che, rispetto al modello della cosiddetta Tobin Tax del 1972, non è identificata una forbice di minimo e di massimo entro cui calibrare la percentuale d’imposta.
La scelta di individuare tassativamente solo la soglia minima
del tributo trova la propria ratio nell’esigenza di evitare un eccessivo livellamento verso il basso dell’imposizione, al fine di
non renderla quasi nulla. È evidente che, per evitare distorsioni
interne all’UE, si dovrebbe realizzare un livellamento automatico delle aliquote d’imposta che i singoli Paesi membri dell’UE
potrebbero adottare discrezionalmente.
5.
L’assolvimento dell’imposta e gli obblighi procedurali
della proposta di direttiva
La responsabilità del versamento graverà su tutti gli enti finanziari coinvolti, ma, nel caso in cui un ente agisca per nome o
per conto di un altro ente, solo quest’ultimo sarà responsabile
del versamento. Inoltre, è prevista anche una clausola per cui
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
i soggetti coinvolti saranno obbligati in solido in caso di mancato pagamento di quanto dovuto. Difatti, ai sensi dell’articolo
9 paragrafo 3, si precisa che “ogni partecipante a una transazione,
compresi i soggetti diversi dagli enti finanziari, è responsabile in solido del versamento dell’imposta dovuta da un ente finanziario con
riferimento a tale transazione, qualora l’ente finanziario non abbia
versato l’imposta dovuta”. Tale disposizione si pone a tutela del
tributo: in caso di mancato assolvimento dell’imposta da parte
del soggetto obbligato in via principale, i.e. l’ente finanziario,
il quantum richiesto sarà, comunque, corrisposto, lasciando ai
rispettivi diritti nazionali il compito di disciplinare il diritto di
rivalsa tra le parti coinvolte.
Infine, la bozza di direttiva lascia piena libertà agli Stati membri dell’UE di definire gli obblighi procedurali di registrazione,
di contabilità e di rendicontazione, al fine di assolvere correttamente il tributo. In particolare, il soggetto obbligato al versamento dovrà rendere edotta l’Amministrazione finanziaria
delle transazioni realizzate, attraverso la presentazione di una
specifica dichiarazione attestante tutte le informazioni necessarie per il calcolo dell’imposta. La suddetta comunicazione
dovrà essere inviata con cadenza mensile, ossia entro la prima
decade del mese successivo a quello in cui l’imposta è divenuta
esigibile.
6.
Considerazioni conclusive
Il progetto normativo de quo, qualora definito ed approvato,
troverà applicazione a decorrere dal 1. gennaio 2014, ma, ad
oggi, sembra particolarmente difficile che quest’imposta possa trovare spazio nell’euro-zona.
In primis, sarà necessaria una consistente operazione di miglioramento dell’impianto normativo al fine di chiarire le molteplici imperfezioni e le zone d’ombra che caratterizzano la
suddetta proposta. Inoltre, a livello politico, lo schema di direttiva non è pienamente condiviso.
Sebbene molti Stati membri dell’UE, su tutti Germania, Francia
ed Italia, abbiano espresso il loro consenso all’introduzione del
tributo in parola, il Regno Unito, la Svezia e il Lussemburgo, si
sono fermamente opposti a questa nuova misura fiscale.
In occasione della riunione del Consiglio europeo dell’8-9 dicembre 2011, se il portavoce dei sostenitori della FTT, i.e. Nicolas Sarkozy, Presidente della Repubblica francese, ha definito il
suddetto prelievo “tecnicamente possibile, finanziariamente indispensabile, moralmente inaggirabile”, di converso, il Governo inglese e quello del Granducato del Lussemburgo hanno evidenziato che, se la FTT fosse introdotta, questa potrebbe avere,
verosimilmente, il “devastante” effetto di contrarre in maniera sensibile il volume delle transazioni finanziarie sui mercati
europei, generando un preoccupante fenomeno di delocalizzazione delle stesse transazioni verso Paesi non europei. A tal
proposito, la Commissione europea ha sottolineato che, per
scongiurare tale rischio e per evitare che il suddetto tributo
non rimanga un mero progetto legislativo, sarebbe necessario prevederne un’applicazione a livello internazionale e non
limitata al mercato finanziario europeo. Solo in questo modo
si eviterebbe il fenomeno per cui le transazioni, che finora si
sono realizzate sui mercati finanziari europei, si spostino altrove, con palesi rischi per la stabilità e per il funzionamento
dei mercati stessi.
Orbene, proprio la mancanza di un consenso in seno all’UE
costituisce il vero problema del progetto di direttiva. Come si
evince dalla relazione allegata alla proposta, la Commissione
europea individua l’articolo 113 del Trattato sul funzionamento dell’UE come base giuridica su cui incardinare il nuovo prelievo. Ma dalla lettera del richiamato articolo si comprende, de
plano, che, allo stato attuale, non ci potrà essere futuro per la
FTT, almeno a livello europeo. La suddetta disposizione normativa, inserita nel Capo 2 – Disposizioni Fiscali del Trattato
sul funzionamento dell’UE, stabilisce che “il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa
consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e
sociale, adotta le disposizioni che riguardano l’armonizzazione delle legislazioni nazionali […] nella misura in cui detta armonizzazione
sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del
mercato interno ed evitare le distorsioni di concorrenza”. Ora, atteso
che la direttiva potrà essere promulgata solo con il consenso
unanime degli Stati membri dell’UE e che l’auspicato incontro di volontà e di interessi nazionali è ben lontano dall’essere
raggiunto, quella che comunemente è definita Tobin Tax, difficilmente vedrà la luce. A tal proposito, il Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy, in occasione della riunione
del Consiglio europeo del 30 gennaio 2012, ha annunciato che,
a partire dal mese di agosto, sarà introdotta una FTT francese
sulle transazioni finanziarie realizzate in Francia, con un’aliquota pari allo 0.1%. La creazione della suddetta imposta a
carattere nazionale sarebbe giustificata dalla necessità di “dare
un colpo forte” e trascinare gli altri Paesi europei nella stessa
direzione. Sulla scia della Francia, anche il Parlamento italiano,
nella sessione del 29 gennaio 2012, ha discusso tre proposte di
legge relative alla possibilità di introdurre un’imposta domestica sul modello della Tobin Tax. Sebbene tali iniziative nazio-
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Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
nali palesino, da un lato, la ferma intenzione di voler arginare
la crisi dei mercati finanziari, dall’altro, invece, sottolineano la
difficoltà a livello UE di definire un programma comune di intervento che possa condurre tutti gli Stati membri dell’UE al
raggiungimento di uno scopo di importanza sostanziale, i.e. la
stabilizzazione del settore finanziario, non lasciando spazio a
singoli slanci nazionali che potrebbero rivelarsi sterili per il fine
in questione.
Alla luce di ciò, sembra estremamente difficile, almeno per ora,
che l’imposta sulle transazioni finanziarie possa trovare applicazione pratica a livello europeo, rimanendo, dunque, solo un
progetto normativo di belle speranze, senza futuro.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.france24.com/en/files/imagecache/aef_ct_wire_image_lightbox/images/afp/photo_1327970453412-1-0.jpg?1327996093
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[1] COM(2010) 549 definitivo, Bruxelles 7 ottobre 2010 – Comunicazione della Commissione
al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato
economico e sociale europeo e al Comitato delle
Regioni: “La tassazione del settore finanziario”, in:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.
do?uri=COM:2010:0549:FIN:IT:PDF [20.02.2012]
[2] In particolare, l’assunzione dei rischi eccessivi
da parte del settore finanziario potrebbe essere
dovuta a una serie di fattori come la prospettiva
di un sostegno statale, effettivo o atteso, le asimmetrie informative e le strutture retributive che
insieme agli sviluppi macroeconomici hanno contribuito all’attuale crisi.
[3] COM(2011) 594 definitivo, Bruxelles 28 settembre 2011 – Proposta di direttiva del Consiglio
concernente un sistema comune d’imposta sulle
transazioni finanziarie e recante modifica alla Direttiva n. 2008/7/CE, in:
ht t p://e c .europ a .eu/t a xat ion_cus toms/resources/documents/taxation/other_taxes/financial_sector/com(2011)594_en.pdf [20.02.2012]
[4] Articolo 2 paragrafo 1, rubricato “Definizioni”.
[5] Il mercato finanziario secondario è il luogo
dove sono scambiati i titoli già in circolazione.
[6] Il mercato finanziario primario è il luogo su
cui sono trattati gli strumenti finanziari di nuova
emissione.
[7] Si precisa che la loro successiva negoziazione
all’interno dei prodotti strutturati è sempre imponibile.
[8] Si sottolinea che l’articolo 4, rubricato “Esigibilità della FTT” prende in considerazione, per la
rilevanza dell’operazione, solo la materiale esecu-
zione della stessa. Difatti, quanto detto è confermato dal paragrafo 2 ai sensi del quale “il successivo
annullamento o la rettifica di una transazione finanziaria non hanno alcun effetto sull’esigibilità, fatti salvi i
casi di errori”.
[9] L’ammontare nozionale (o nozionale capitale o
valore nozionale) su uno strumento finanziario è
l’importo nominale o del viso che viene utilizzato per calcolare i pagamenti effettuati su questo
strumento.
Diritto tributario svizzero
Inasprimento della prassi dell’AFC nell’ambito
della procedura di notifica sui dividendi
Massimo Bianchi
Esperto fiscale diplomato
Titolare di uno studio
di consulenza fiscale a Lugano
[email protected]
Una sentenza del Tribunale federale del 19 gennaio 2011
ha causato un netto inasprimento della prassi dell’AFC
nell’ambito della procedura di notifica
1.
La procedura di notifica per dividendi all’interno
di un gruppo
I dividendi versati da una società svizzera, sono assoggettati all’imposta preventiva del 35%. L’imposta deve di principio
essere dedotta dai dividendi e versata all’Amministrazione
federale delle contribuzioni (di seguito AFC) entro 30 giorni.
Per i dividendi distribuiti tra società di un gruppo, l’obbligo ai
fini dell’imposta preventiva può essere assolto, a determinate
condizioni, con la procedura di notifica. Attraverso la procedura di notifica è possibile evitare la trattenuta e il versamento dell’imposta all’AFC, con un conseguente importante beneficio per la liquidità del gruppo.
Nel caso di distribuzione di dividendi tra società svizzere la
notifica deve essere fatta all’AFC per il tramite del formulario
106. Nel caso di distribuzione di dividendi da una società svizzera ad una società estera del gruppo, la procedura di notifica
deve essere preventivamente autorizzata dall’AFC (formulari
823/823B/823C) e può poi essere assolta attraverso il formulario 108.
La notifica all’AFC (formulari 106 e 108) deve avvenire entro
30 giorni dalla scadenza del dividendo.
tiva e degli interessi di ritardo del 5%. Nel caso di dividendi
importanti, gli interessi possono raggiungere facilmente cifre
considerevoli.
L’applicazione del termine perentorio di 30 giorni appare
particolarmente inopportuno, in particolare nei casi dove la
procedura di notifica à già stata preventivamente autorizzata
dall’AFC (formulari 823/823B/823C).
Questo delicato cambiamento di prassi avviene inoltre in un
momento economico difficile, durante il quale la liquidità disponibile è fondamentale per la continuità di un’azienda.
In considerazione degli effetti gravosi sui contribuenti sarebbe inoltre stato auspicabile, da parte dell’AFC, la pubblicazione preventiva del cambiamento di prassi.
2.
La sentenza del Tribunale federale del 19 gennaio 2011
4.
Come minimizzare il rischio legato alla procedura di notifica
Nell’ambito di una vertenza tra l’AFC ed un contribuente sui
requisiti per l’applicazione della notifica, il Tribunale federale ha stabilito che il termine di 30 giorni per l’inoltro della notifica è un termine perentorio. In base alla sentenza n.
2C_756/2010, l’AFC ha pertanto modificato la propria prassi.
Con lo scopo di ridurre i rischi legati alla procedura di notifica
si consiglia di:
3.
Il cambio di prassi dell’AFC
In passato l’AFC accettava anche notifiche inoltrate in ritardo.
Con riferimento alla predetta sentenza del Tribunale federale,
nel corso degli ultimi mesi, l’AFC ha iniziato a respingere le
notifiche inoltrate dopo il termine dei 30 giorni, richiedendo
nel contempo il versamento integrale dell’imposta preven-
◆◆ poter sempre comprovare una data certa di spedizione
all’AFC della notifica, in tal caso utilizzando l’invio raccomandato;
◆◆ decidere una distribuzione di dividendo ad una società del
gruppo estera, solo dopo aver ricevuto la necessaria autorizzazione preventiva alla notifica, assicurandosi inoltre
che l’autorizzazione ricevuta sia ancora valida e che i rapporti di partecipazione non siano cambiati dopo la data
dell’autorizzazione;
◆◆ assicurarsi che i requisiti per la notifica siano adempiuti, in
13
14
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
particolare in caso di distribuzioni tra società svizzere, dove
l’autorizzazione preventiva da parte dell’AFC non è prevista;
◆◆ evitare che la data di scadenza del dividendo coincida con
la data dell’assemblea generale, prevedendo una scadenza dopo qualche settimana, così da avere più tempo per
redigere il verbale, preparare la modulistica per la notifica
e raccogliere le firme legali della società che distribuisce e
della società che riceve il dividendo.
5.
Conclusioni
L’applicazione incondizionata del termine perentorio di 30
giorni da parte dell’AFC può avere conseguenze gravose per
le aziende, in particolare in un periodo di crisi.
È auspicabile che il legislatore intervenga al fine di (i) annullare il termine perentorio stabilito dal Tribunale federale e (ii)
ristabilire un termine di 30 giorni solo ordinario, con eventualmente una multa di lieve entità da comminare ai ritardatari, peraltro già prevista dall’articolo 61 lettera b della Legge
federale sull’imposta preventiva.
Per maggiori informazioni:
Tribunale federale, sentenza del 19 gennaio 2011, n. 2C_756/2010, pubblicata
in: ASA 79, pagine 855-862, e in:
http://jumpcgi.bger.ch/cgi-bin/JumpCGI?id=19.01.2011_2C_756/2010
[20.02.2012]
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.cdt.ch/files/images/s_6ffd0912ce63ba0656bf4258731b4
ce4.jpg [20.02.2012]
Diritto tributario italiano
La cedolare secca sugli affitti
15
Gianluca Bolelli
Dottore Commercialista
e Revisore Contabile
Luca Marinelli
Dottore Commercialista
e Revisore Contabile
Angela Sabatino
Dottoressa
in Economia Aziendale
Studio Bolelli-SportelliDe Pietri-Tonelli, Milano
Studio Bolelli-SportelliDe Pietri-Tonelli, Milano
Studio Bolelli-SportelliDe Pietri-Tonelli, Milano
Disciplina e opportunità del nuovo regime
per le locazioni abitative
1.
Introduzione
L’articolo 3 del Decreto legislativo n. 23 del 14 marzo 2011,
attuativo del federalismo municipale, ha previsto la facoltà per
il contribuente di poter optare per il regime fiscale della cosiddetta “cedolare secca sugli affitti”.
L’intento del legislatore è quello di configurare un sistema di
tassazione alternativo alla tassazione progressiva del reddito,
sottraendo i redditi da locazione immobiliare e sottoponendoli
ad una tassazione separata. L’obiettivo di politica fiscale, neanche troppo celato dalla stessa Amministrazione finanziaria,
è inoltre quello di favorire l’emersione dei contratti di locazione non dichiarati, mirando a bilanciare la perdita di gettito dovuta all’introduzione della nuova agevolazione con il recupero
di imposte (dirette e indirette) connesso all’emersione dei contratti cosiddetti “in nero”.
◆◆ 21% del canone di affitto per i canoni a mercato libero;
◆◆ 19% per i contratti a canone concordato nelle città ad alta
intensità abitativa.
È espressamente previsto dalla norma istitutiva che l’aliquota
della cedolare sostituisce l’Imposta sul Reddito delle Persone
Fisiche (di seguito IRPEF) e l’addizionale regionale e comunale,
l’imposta di registro e l’imposta di bollo sui contratti di locazione.
Non va però dimenticato che, in via preventiva, è opportuno
che il contribuente valuti la propria convenienza, in relazione
al suo personale profilo reddituale e patrimoniale, eseguendo
alcune semplici considerazioni, che vedremo nel seguito.
3.
La platea degli interessati
A livello soggettivo, potranno scegliere il regime sostitutivo
della citata “cedolare secca” solo le persone fisiche che non
agiscono nell’esercizio dell’impresa o della professione.
A livello oggettivo, rientrano nell’ambito della cedolare le sole
locazioni ad uso abitativo e pertinenze (ad esempio il box) se
locate congiuntamente al bene principale.
Non vi rientrano pertanto:
◆◆ le sublocazioni poiché esse danno luogo a redditi diversi e
non a redditi fondiari;
◆◆ le locazioni di immobili a uso abitativo effettuate nell’esercizio di attività di impresa, arti o professioni;
◆◆ le locazioni relative ad immobili strumentali (per esempio
uffici, capannoni, eccetera).
2.
La misura della nuova tassazione
In luogo delle imposte ordinarie – di carattere progressivo –
sul cumulo dei redditi imponibili, il nuovo regime opzionale
della “cedolare secca” in vigore a partire dal periodo di imposta
2011, prevede un’imposta sostitutiva pari al:
4.
Il confronto con la tassazione progressiva IRPEF
A titolo esemplificativo, onde comprendere a pieno la portata
della norma sul piano della misura fiscale, di seguito si riporta
una tabella che pone a confronto le imposte dovute con il regime ordinario IRPEF con l’aliquota prevista dalla cedolare secca,
andandone a valutare gli effetti su un valore ipotizzato di mille
euro annui di canone per la durata di quattro anni[1].
16
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
Fascia
di reddito
(in migliaia
di euro)
Regime
attuale
Regime
attuale
Regime
attuale
Cedolare
Cedolare
Cedolare
Differenza
Introito
Tasse
Introito netto
Introito
Tasse
Introito netto
fino a 15
4’122
911
3’211
4’000
840
3’160
(51)
15 – 28
4’122
1’051
3’071
4’000
840
3’160
89
28 – 55
4’122
1’437
2’685
4’000
840
3’160
475
55 – 75
4’122
1’542
2’580
4’000
840
3’160
580
oltre 75
4’122
1’612
2’510
4’000
840
3’160
650
fino a 15
4’122
642
3’480
4’000
760
3’240
(240)
15 – 28
4’122
740
3’382
4’000
760
3’240
(142)
28 – 55
4’122
1’010
3’112
4’000
760
3’240
128
55 – 75
4’122
1’084
3’038
4’000
760
3’240
202
oltre 75
4’122
1’133
2’989
4’000
760
3’240
251
Canone
libero
Canone
concordato
Dalla tabella emerge che:
◆◆ per la casistica relativa agli affitti a canone libero, il regime
ordinario IRPEF continua ad essere conveniente (seppur
di poco) solo per i contribuenti che dichiarano un reddito
complessivo fino a 15’000 euro annui;
◆◆ per la casistica relativa agli affitti a canone concordato, vi è
invece un vantaggio fiscale per i contribuenti con un reddito superiore ai 28’000 euro annui.
Ai fini del calcolo relativo alla propria convenienza fiscale, va tenuto ben presente che, optando per l’applicazione
della cedolare secca, il contribuente non potrà più utilizzare la quota parte del proprio reddito assoggettato a cedolare secca per la fruizione di eventuali oneri deducibili e
detrazioni di imposta per tutta la durata dell’opzione (per
esempio le spese mediche). A tal proposito rimanendo
all’interno del regime ordinario, gli oneri deducibili vengono
portati a riduzione della base imponibile; invece, con l’esercizio dell’opzione per la cedolare secca, tale possibilità
di deduzione viene a ridursi, in quanto l’assoggettamento a
tassazione separata dei redditi immobiliari rende minore il
reddito imponibile complessivo.
Ma vi è di più. Condizione per la validità dell’opzione per la
cedolare è che il locatore rinunci – per tutta la durata del contratto – ad applicare:
◆◆ qualsivoglia aumento del canone di affitto, anche con riferimento ad esempio ad eventuali manutenzioni straordinarie sull’immobile sostenute dal locatore;
◆◆ gli adeguamenti annuali ISTAT del canone di locazione.
Pertanto, come visto poc’anzi, la scelta del contribuente tra
regime IRPEF ordinario e cedolare secca deve essere sempre
il risultato e la sintesi di una serie di calcoli di opportunità
che tengono in considerazione molteplici aspetti, presenti
e futuri.
5.
L’esercizio dell’opzione
L’opzione per la tassazione con il nuovo meccanismo della cedolare secca può essere esercitata liberamente dal contribuentelocatore per ogni singola unità locata ad uso abitativo e relative
pertinenze. Tutti i contratti relativi ad immobili locati ad uso
abitativo registrati, prorogati o risolti nel corso dell’anno 2011
possono essere oggetto di opzione per il nuovo regime della
cedolare secca. Come detto, l’applicazione della nuova norma
è assolutamente facoltativa. L’opzione deve essere esercitata
con riferimento a ciascun contratto, che riveste pertanto ruolo
autonomo ai fini dell’applicazione del nuovo regime. L’opzione,
pena la sua inefficacia, dovrà essere effettuata mediante lettera raccomandata A/R da inviare all’inquilino; il locatore che
non comunica alcunché al proprio locatario, rimarrà pertanto
assoggettato all’attuale regime IRPEF ordinario.
Va poi eseguito l’ultimo adempimento procedimentale, di
carattere telematico, tramite cui il contribuente effettua la
registrazione del contratto e comunica all’Agenzia delle Entrate che ha optato per l’applicazione della cedolare secca.
Tale comunicazione si concretizza tramite invio telematico
del modello Siria. Oltre al modello appena citato può essere
utilizzato anche il modello 69 in alternativa al modello Siria;
il modello 69 deve essere presentato in qualunque Ufficio
dell’Agenzia delle Entrate dal soggetto che chiede la registrazione del contratto di locazione. Si ricorda che per i contratti
stipulati a partire dal 7 aprile 2011, l’opzione per la cedolare
secca deve essere esercitata necessariamente in sede di stipula di nuovo contratto o di rinnovo.
6.
L’acconto previsto dalla cedolare secca
Per quanto riguarda l’acconto dovuto, se l’importo è inferiore a
257.52 euro, il contribuente ha la facoltà di versarlo in un’unica
rata entro il 30 novembre, in sede di secondo acconto IRPEF.
Qualora, invece, l’acconto risulti di importo pari o superiore a
257.52 euro, il contribuente è tenuto al versamento:
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
◆◆ della prima rata, entro il 6 luglio (ovvero entro il 5 agosto
con la maggiorazione dello 0.40% a titolo di interesse) nella
misura del 34% (40% dell’85%);
◆◆ della seconda rata, pari alla nuova misura del 34% (68%
meno 34%) del dovuto, entro il 30 novembre in un’unica
soluzione.
Il nuovo regime della cedolare prevede per il contribuente
l’onere di versare acconti di imposta in misura pari all’85%
dell’imposta cedolare dovuta in quel dato periodo di imposta.
Il Decreto del Consiglio dei Ministri del 21 novembre 2011 ha
previsto la riduzione del 17% della misura degli acconti IRPEF
2012 relativi al 2011. In via di armonizzazione fiscale il comunicato stampa dell’Agenzia delle Entrate del 25 novembre
2011 ha precisato che tale riduzione si applica anche al versamento dell’acconto sulla cedolare, che porta pertanto la misura degli acconti dall’originale 85% all’attuale 68%.
7.
Le sanzioni
La normativa dispone una serie di modifiche al regime sanzionatorio applicabile alle locazioni immobiliari ad uso abitativo.
In particolare, nel caso di mancata indicazione nella dichiarazione dei redditi del locatore del canone di affitto, le sanzioni dovute sono state inasprite, passando dal 200 al 400%
dell’imposta non versata.
Ancora più elevate sono le sanzioni previste in caso di mancata registrazione del contratto o di indicazione nello stesso
di un canone inferiore a quello reale o ancora di stipulazione
di comodati fittizi. In tali ipotesi è previsto un incentivo all’emersione dell’indebito da parte del locatario. Se quest’ultimo,
infatti, provvede per sua iniziativa alla registrazione del contratto (o alla sua integrazione e con i dati economici veritieri)
si produrranno i seguenti effetti giuridici:
[1] L’ultima colonna a destra in tabella indica la
differenza tra il reddito netto assicurato dal nuovo regime della cedolare secca e quello previsto
dalla tassazione progressiva IRPEF al termine dei
quattro anni. Tale effetto considera anche il venir
meno, qualora si optasse per la cedolare, dell’adeguamento annuale ISTAT del canone.
◆◆ la durata contrattuale di quattro anni inizia a decorrere
dalla data di registrazione, con diritto al rinnovo automatico per altri quattro anni;
◆◆ il canone di affitto viene rideterminato in misura pari al triplo della rendita catastale (sempre a decorrere dalla registrazione), con evidente risparmio da parte del locatario.
◆◆ Inoltre viene ribadito che i contratti non registrati sono
nulli, ai sensi della Legge n. 311/2004.
8.
Conclusioni
Il nuovo regime della cedolare secca ha sicuramente introdotto nell’ordinamento fiscale italiano notevoli novità in termini di
segmentazione della tassazione IRPEF in capo al singolo contribuente. È pregevole il tentativo di semplificazione posto in
essere dal Legislatore in ordine alla tassazione dei contratti di
locazione immobiliare ad uso abitativo.
Tuttavia, i buoni propositi dei disegni di legge susseguitisi nel
tempo si sono scontrati in sede attuativa con alcune tematiche legate alla tenuta del gettito erariale pubblico, che hanno
imposto l’introduzione di cospicue misure di acconti.
Pare pertanto che tale anticipo finanziario, unito alla rinuncia
– lungo tutta la durata contrattuale – delle rivalutazioni ISTAT
legate al canone e agli aumenti eventualmente riconnessi
all’ammodernamento di un parco immobiliare talvolta obsoleto, riservi il beneficio dell’applicazione della nuova norma in
esame solo a contribuenti con un livello di reddito imponibile
largamente superiore al reddito medio.
Tale dinamica rischia di giocare a sfavore del successo della
nuova previsione di legge, anche in considerazione del costo
degli adempimenti telematici necessari al perfezionamento e
alla comunicazione all’Amministrazione finanziaria della scelta
effettuata.
Per maggiori informazioni:
Agenzia delle Entrate; Circolare n. 26/E del 1. giugno 2011, Cedolare secca
sugli affitti – Articolo 3 del Decreto legislativo del 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) – Primi chiarimenti, in:
http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/79052d80471151
42a7fbbf3e920074ed/circ+26e+del+1+giugno+2011.pdf?MOD=AJPERES&
amp;CACHEID=79052d8047115142a7fbbf3e920074ed [20.02.2012]
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.investireoggi.it/fisco/wp-content/uploads/2011/05/cedolare-secca-affitti.jpg [20.02.2012]
h t t p : // w w w . s o l d i e l a v o r o . i t /n e t w o r k / f i s c o - t r i b u t i / f i les/2011/05/109164841.jpg [20.02.2012]
17
18
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero
Le spese legali sostenute da un libero
professionista per avviare un procedimento
giudiziario sono deducibili a titolo di spese
professionali?
Rocco Filippini
Avvocato, Master of Advanced
Studies SUPSI in Tax Law
Vicecancelliere della Camera
di diritto tributario del Tribunale
d’appello del Cantone Ticino
Sentenza della Camera di diritto tributario, del 19 ottobre 2010,
numero d’incarto 80.2009.116, in:
RtiD I-2011 n. 6t, e in: http://www.sentenze.ti.ch [20.02.2012]
Articoli 27 e 34 lettera a LIFD, 26 e 33 lettera a LT – Reddito
dell’attività lucrativa indipendente: spese professionali, costi per
un processo penale, legame con attività professionale
1.
Considerazioni introduttive
Sia secondo l’articolo 24 della Legge tributaria del Cantone
Ticino (di seguito LT), sia secondo l’articolo 25 della Legge federale sull’imposta federale diretta (di seguito LIFD), il reddito
netto corrisponde ai proventi lordi meno le spese di acquisizione (le cosiddette deduzioni organiche) e le deduzioni generali
(le cosiddette deduzioni anorganiche, espressamente previste
dagli articoli 32 LT e 33 LIFD). Tra le deduzioni organiche, un
posto di rilievo è certamente occupato dalle spese professionali dei salariati e degli indipendenti. Le prime sono esaurientemente disciplinate dagli articoli 25 LT e 26 LIFD, secondo cui
sono deducibili, oltre alle spese di trasporto dal domicilio al
luogo di lavoro (lettera a) e alle spese per pasti fuori domicilio
o in caso di lavoro a turni (lettera b), “le altre spese necessarie
per l’esercizio della professione” (lettera c). Le seconde sono disciplinate dagli articoli 27 LT e 28 LIFD, secondo cui sono deducibili tutte le spese generali giustificate dall’uso commerciale
o professionale. Oltre alle spese aziendali in senso proprio,
sono per esempio tali anche i costi supplementari sopportati
nell’interesse della ditta o della professione per vitto e alloggio
fuori casa, per particolari abiti di lavoro, per assicurazioni, per
pubblicità oppure ancora per viaggi.
In definitiva, così come le spese professionali dei dipendenti,
anche le spese degli indipendenti devono essere direttamente
imputabili all’attività aziendale. Non a caso l’attuale tendenza è
quella di prediligere una concezione omogenea e causale di spese generali. Indipendentemente dalla fonte del reddito, sono di
principio deducibili non soltanto le spese che il contribuente sostiene per conseguire tale reddito, ma anche tutte quelle che
vengono occasionate dalla sua realizzazione. In questo particolare contesto, oggetto di litigio è spesso la qualifica delle spese
processuali e dei risarcimenti dei danni. Si tratta di spese professionali necessarie al conseguimento del reddito oppure più sem-
plicemente di spese per il mantenimento del contribuente e della
sua famiglia, in quanto tali non deducibili dal reddito imponibile?
In una recente sentenza del 19 ottobre 2010, la Camera di
diritto tributario del Tribunale d’appello del Cantone Ticino (di
seguito CDT) ha avuto modo di approfondire tale problematica, con particolare riguardo ai costi sostenuti da un libero
professionista per intentare una causa penale contro un suo
socio in affari, nei confronti del quale rivendicava il versamento di un cospicuo importo.
2.
La fattispecie sotto esame
A margine di un’importante operazione immobiliare, l’architetto X., titolare di uno studio di progettazione e direzione lavori, avviava una causa penale nei confronti del suo socio in
affari Y., per titolo di ripetuta appropriazione indebita. Al socio
veniva in particolare contestato di avere ripetutamente impiegato in modo indebito l’utile residuo dell’intera operazione
immobiliare, utilizzandolo essenzialmente per scopi personali.
Il procedimento penale si concludeva nel 2006, con una sentenza di assoluzione dall’imputazione. Contrariamente a
quanto sostenuto dal denunciante, i giudici penali non avevano potuto appurare l’esistenza di un rapporto di società semplice fra i due soci né tanto meno un “affidamento” degli averi
patrimoniali conseguiti con la vendita dell’immobile.
Nella dichiarazione fiscale del medesimo anno, il contribuente
chiedeva comunque di poter dedurre dal reddito della sua attività indipendente tutte le spese processuali sostenute (tasse di
giustizia e onorari del legale). A comprova della giustificazione
commerciale di questo particolare costo, l’architetto produceva una dichiarazione scritta del suo legale, nella quale confermava lo stretto legame esistente tra la causa penale e la sua
attività professionale. Di parere contrario era invece l’autorità
di tassazione, che ancora in sede di reclamo sottolineava come
tale spesa potesse essere considerata solo indirettamente in
rapporto con l’edificazione dello stabile e, più in generale, alla
professione di architetto del contribuente. Con tempestivo ricorso alla CDT, l’architetto sosteneva nuovamente che le prestazioni del legale si erano rese necessarie per cercare di ottenere il versamento di un importante importo direttamente
legato all’operazione immobiliare in discussione.
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
3.
Il trattamento fiscale delle spese processuali
Le spese processuali – tra cui rientrano in particolare le tasse
di giustizia e gli onorari versati al proprio difensore – rappresentano di principio delle spese per il mantenimento del contribuente e della sua famiglia, in quanto tali non deducibili dal
reddito imponibile (articoli 33 lettera a LT, 34 lettera a LIFD).
Esse possono essere qualificate quali spese generali deducibili
solo se esiste uno stretto legame con il reddito professionale che
tendono a salvaguardare.
La giurisprudenza ha per esempio ammesso in deduzione i costi di una procedura intentata da un dipendente nei confronti
del suo datore di lavoro per pretese salariali, mentre ha negato
la deduzione delle spese legali sostenute da un contribuente
per difendere il proprio posto di lavoro. Con particolare riguardo ai liberi professionisti, il Tribunale federale ha più volte ribadito che il rischio di incorrere in costi processuali (ma lo stesso
discorso vale anche per l’obbligo di risarcire eventuali danni)
deve essere così strettamente legato all’attività lucrativa da
apparire come un “effetto collaterale” della stessa professione.
Deve cioè trattarsi di un rischio d’impresa ordinario, tale da
incidere sulla capacità contributiva del soggetto.
Nell’ambito della responsabilità civile, un simile nesso di natura
professionale viene normalmente negato quando vi è negligenza grave (colpa grave) o addirittura intenzionalità nell’agire
del contribuente. In questi casi, le spese processuali (e soprattutto gli eventuali obblighi di risarcimento) non risultano tanto
dalla stretta relazione con i rischi della prestazione professionale, quanto piuttosto da “difetti personali” del professionista.
Medesimo discorso vale a maggior ragione in materia penale:
i costi sostenuti in un processo penale possono essere considerati spese generali deducibili dal reddito dell’attività lucrativa – sia essa dipendente oppure indipendente – solo quando
il contribuente è stato accusato di un reato commesso per
negligenza e che rientra nel rischio d’impresa ordinario. Non
sono in nessun caso tali i costi assunti a tutela della propria
persona e del proprio patrimonio privato.
4.
La critica della dottrina
La succitata giurisprudenza è invero criticata da una parte della dottrina, per la quale il problema non sarebbe tanto da ricercare nella gravità della colpa dell’atto illecito quanto piuttosto
nel rapporto di causalità esistente tra l’attività professionale e
le spese generali rivendicate in deduzione.
Sia come sia, ancora recentemente il Tribunale federale ha
avuto modo di ribadire che la gravità della colpa costituisce
in ogni caso un importante indizio al fine di determinare lo
stretto legame delle spese legali e di risarcimento con l’attività professionale (cfr. la sentenza del Tribunale federale n.
2C_819/2009 del 28 settembre 2010, in: RDAF 2010 II pagina 605 e seguenti). Di fronte ad una violazione grossolana
di una disposizione civile o penale, che presuppone se non
l’intenzionalità almeno una grave negligenza, appare infatti
estremamente difficile sostenere che i costi processuali, così
come l’obbligo di risarcire eventuali danni, rientrino ancora nel
rischio d’impresa ordinario.
5.
Le conclusioni della CDT
Nel caso in esame, come detto, il contribuente ha avviato una
causa penale nei confronti del suo socio in affari, accusandolo
sostanzialmente di essersi appropriato indebitamente dell’utile residuo di un’importante operazione immobiliare.
La semplice constatazione che le pretese rivendicate dal ricorrente riguardavano la sua partecipazione agli utili dell’operazione immobiliare nel suo complesso, e non invece le prestazioni eseguite nel cantiere come architetto e direzione lavori,
già imponeva di negare ai costi processuali da lui assunti il carattere di spese generali deducibili. Come osservato dalla CDT,
un architetto non ha infatti nessun diritto alla deduzione delle
spese legali sostenute per avviare un procedimento a tutela
del proprio patrimonio privato, tanto più se l’epilogo giudiziario fa sorgere interrogativi in merito alla legittimità della sua
condotta e di quella del suo socio in affari.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://sullozero.myblog.it/media/02/01/734922217.jpg [20.02.2012]
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Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario italiano
La responsabilità penale della società
holding nel processo di internazionalizzazione
d’impresa e pianificazione tributaria
internazionale
Michele Gentile
Fiduciario Commercialista
Fondatore e Presidente
della G & J System SA,
Lugano, Società di consulenza
aziendale
Cassazione penale, Sez. V, 20 giugno 2011, n. 24583
La società capogruppo può essere chiamata a rispondere, ai sensi del Decreto Legislativo n. 231/2001, per il reato commesso
nell’ambito dell’attività di una controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della
società holding, perseguendo anche l’interesse di quest’ultima
1.
Introduzione
Con questa sentenza, per la prima volta nella giurisprudenza della Corte di legittimità italiana, vengono delineate ed
affermate le condizioni necessarie per estendere alle società
holding, la responsabilità amministrativa dell’Ente, prevista
dal Decreto Legislativo (di seguito D. Lgs.) n. 231/2001.
La sentenza, mostra le due facce della moneta. Evita che
detta responsabilità possa essere affermata per generiche
presunzioni, ma la riconosce in casi specifici. Pertanto afferma l’applicazione della responsabilità “penale” alla società
holding, risolvendo a livello interpretativo, il vuoto legislativo
previsto nel D. Lgs. n. 231/2001.
Questa sentenza è rilevante per la presenza della società
holding nelle costruzioni di ingegneria societaria internazionale, ove quasi sempre, insieme al processo d’internazionalizzazione delle imprese, si persegue anche l’obiettivo della
pianificazione fiscale.
La responsabilità amministrativa degli enti, “cerbero” del
diritto commerciale penale, è l’eccezione che conferma la
regola. In gergo viene definita come responsabilità “penale”
degli enti e società, ma è essenzialmente una corresponsabilità amministrativa dell’ente, a cui vengono applicate delle
sanzioni amministrative, piuttosto importanti.
Ovviamente deriva dalla commissione di un reato specificamente previsto dal D. Lgs. n. 231/2001. Infatti nei principi
generali la responsabilità penale è personale, cioè del soggetto che agisce con “animus crimini”, ristretta alla persona
fisica, in grado di intendere e volere, che compie l’azione criminosa.
Se tale azione è prevista come reato ex D. Lgs. n. 231/2001,
il rapporto funzionale di tale soggetto con l’ente, determina
la responsabilità “penale” di quest’ultimo, ai sensi del D. Lgs.
n. 231/2001.
Proprio per la sua natura amministrativa, l’adozione da parte
dell’Ente di un codice di comportamento con l’istituzione di
un organo di vigilanza per la sua corretta applicazione, possono limitarla.
La responsabilità penale degli enti è oggi una realtà giuridica
ben precisa, di cui, nonostante gli oltre dieci anni di vigenza
in Italia e qualche anno meno in Svizzera, non conosciamo
ancora la reale applicazione. Da tempo la giurisprudenza
di merito italiana, con argomentazioni varie e presunzioni
semplici, non sempre legittime sotto il profilo del diritto, ha
esteso tale responsabilità alla capogruppo.
Coloro che si occupano di internazionalizzazione d’impresa,
in particolare di diritto tributario internazionale, negli ultimi
dieci anni hanno assistito ad un complesso e sempre crescente sistema di norme tributarie “ultra vires”, emanate dai
Paesi dell’area OCSE. Il loro obiettivo, non è solo quello di
colpire la capacità contributiva dei propri contribuenti, ma di
catturare qualsiasi attività svolta in ambito internazionale,
loro presunta, direttamente od indirettamente.
Attraverso ibridi giuridici, come norme antiabuso, o peggio,
presunzioni semplici di esterovestizioni, black list, eccetera,
accertano presunte evasioni fiscali, che hanno il solo fine di
radicare l’imposizione tributaria nel proprio Paese, spesso
violando trattati firmati per evitare la doppia imposizione.
In alcuni Paesi il reimpiego delle somme evase, che derivano
da reati tributari penalmente rilevanti (da frode fiscale od
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
infedele dichiarazione oltre le soglie previste), è considerato
reato a monte del riciclaggio, con tutte le conseguenze penali che ne derivano, sia per il cliente sia per il professionista
consulente. In Italia la Legge n. 29 del 2006 ha inserito nel D.
Lgs. n. 231/2001 i reati di ricettazione e di riciclaggio, recependo la “terza direttiva UE antiriciclaggio”.
Così, oggi, quando eseguiamo un progetto d’internazionalizzazione d’imprese e pianifichiamo l’imposizione fiscale internazionale, entriamo in un labirinto, la cui via d’uscita appare
sempre più complessa e rischiosa, non solo per i nostri clienti,
ma anche per noi[1]. Spesso sottovalutiamo questi rischi derivanti dall’evoluzione che ha avuto il diritto penale societario,
fallimentare e tributario.
In questo contesto l’evoluzione giurisprudenziale in tema di
responsabilità amministrativa degli enti, applicati ai gruppi societari ed estesa alla società holding, cassaforte al vertice del
gruppo, potrebbe rappresentare l’anello mancante della catena per il definitivo azzeramento del progetto o, in caso di sua
esecuzione, l’elemento catastrofico di tutto il progetto stesso.
In tutto ciò la sentenza in commento è importante poiché
esclude la responsabilità in riferimento al generico vincolo di
gruppo, così come esclude che l’organo amministrativo della
società holding possa essere genericamente considerato amministratore di fatto delle controllate[2] , e quindi nega la pericolosa ammissibilità di “scorciatoie” per affermare la responsabilità penale della società holding.
Per altro verso vero è che la Suprema Corte, sempre nella sentenza in commento, conferma la possibile responsabilità della
società holding, però solo qualora sussista un determinato interesse o vantaggio della stessa, derivante dalla commissione del reato presupposto, ovviamente, verificate le condizioni
previste dal D. Lgs. n. 231/2001. In sostanza per affermare
l’assoggettabilità della società holding alle prescrizioni sanzionatorie del D. Lgs. n. 231/2001, il giudice deve accertare in
concreto se la società abbia ricevuto una potenziale o effettiva
utilità, non necessariamente di carattere patrimoniale. Inoltre
deve sussistere un rapporto funzionale fra la capogruppo ed il
soggetto che ha agito con “animus crimini”, anche se in concorso con altri soggetti. Estremamente puntuale e preciso risulta
l’esame della Suprema Corte Italiana che, in alcuni passi della
sentenza, afferma quanto segue:
“Perché si possa affermare la responsabilità di un Ente ai sensi della L.
n. 231/2001 sono necessarie alcune condizioni, che debbono ricorrere congiuntamente. È necessario, infatti, che sia stato commesso
uno dei reati di cui al D. Lgs. n. 231/2001; nel caso di specie il reato presupposto è il delitto di corruzione contestato al capo 82.e.) e,
quindi, si deve ritenere che la prima condizione sia stata soddisfatta.
Il secondo elemento necessario è che il reato presupposto sia stato
commesso da una persona fisica che abbia con l’Ente rapporti di tipo
organizzativo-funzionale; insomma è necessario che l’agente rivesta
una posizione qualificata all’interno dell’Ente. In effetti la holding o
altre società del gruppo possono rispondere ai sensi della L. n. 231,
ma è necessario che il soggetto che agisce per conto delle stesse concorra con il soggetto che commette il reato; insomma non è sufficiente un generico riferimento al gruppo per affermare la responsabilità
della società ai sensi della L. n. 231/2001.
Vero è, però, che, secondo l’Accusa, sarebbe l’A. G. l’amministratore di
fatto anche di tali società e, quindi, sarebbe soddisfatta la condizione
alla quale si è fatto prima riferimento […]. Ma su tale ultimo punto, in
verità, il GUP ha posto correttamente in evidenza che non vi era alcun elemento per ritenere che i soggetti in posizione apicale dell’ente,
fossero essi amministratori di fatto o di diritto, avessero agito oltre
che nell’interesse proprio o di terzi anche nell’interesse concorrente
dell’Ente; ebbene su tale punto di sicuro rilievo appare del tutto carente l’atto di ricorso.
Il terzo elemento richiesto è che il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente, interesse e vantaggio
che debbono essere verificati in concreto, nel senso che la società
deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del
reato presupposto. È su tale ultimo punto che si è soffermata l’attenzione del GUP e del Pubblico Ministero. Il GUP ha escluso che fosse
ravvisabile un vantaggio delle società per le quali non ha ritenuto di
disporre il rinvio a giudizio”.
2.
L’elusione fiscale, categoria penalmente rilevante?
L’elusione fiscale si colloca fra l’evasione fiscale ed il lecito risparmio d’imposta. L’elusione fiscale, di regola vietata dagli
ordinamenti tributari attraverso delle disposizioni generali o
specifiche, si sostanzia in un abuso del diritto, generalmente
riferito ad un comportamento non giustificato da valide ragioni economiche, ma solo dalla riduzione del carico fiscale.
Evasione, elusione e lecito risparmio d’imposta sono tre differenti categorie[3].
L’evasione fiscale si concretizza in un occultamento del presupposto d’imposta, che è l’imponibile, attraverso una violazione diretta di norme fiscali. Il lecito risparmio d’imposta
è un comportamento volto ad ottimizzare legittimamente il
carico fiscale, senza violare né la legge fiscale né il suo spirito.
Nel mezzo si colloca l’elusione fiscale, cioè un comportamento
conforme alla legge, ma contrario al suo spirito, volto ad ottenere esclusivamente un risparmio d’imposta.
Uno dei problemi attuali è quello di comprendere se l’elusione fiscale possa causare reati penalmente rilevanti, quali, ad
esempio, i reati di natura tributaria a monte del riciclaggio.
Cioè, nel caso in cui l’elusione fiscale determini una minore imposizione, oltre la soglia prevista per la responsabilità penale,
può configurarsi come infedele dichiarazione o peggio come
frode fiscale?
La problematica è aperta a livello europeo, in particolare in
Italia, ove una nota sentenza della Cassazione[4] , ritiene vigente, nell’ordinamento italiano, una clausola generale antielusiva non scritta, desunta dai principi costituzionali di capa-
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Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
cità contributiva e progressività dell’imposizione che accosta
l’elusione fiscale all’evasione fiscale. La questione è talmente
complessa con contrastanti orientamenti, sia da parte della
dottrina che dalla giurisprudenza, che potrà essere risolta solo
con un intervento del legislatore[5].
A parere di chi scrive l’elusione fiscale non comporta “una dichiarazione infedele” in quanto l’imponibile è dichiarato integralmente. L’eventuale abuso di diritto consegue all’accertamento di un comportamento “antieconomico” sotto il profilo
tributario, senza pero alcuna violazione di legge, tantomeno si
configura una frode fiscale.
Nelle ipotesi di “antieconomicità”, sindacate sotto il profilo fiscale, non sussistono gli estremi della dichiarazione infedele
o della frode penalmente rilevante, ma il compimento di atti
eventualmente finalizzati al solo risparmio d’imposta, quale
comportamento a monte che, al limite, potrebbe essere antigiuridico ma non penalmente rilevante.
Ovviamente, nel caso in cui sussistono anche valide ragioni
economiche, si rientra nel campo del lecito risparmio d’imposta.
3.
Il caso deciso dalla sentenza in commento
Il caso che ha dato origine al ricorso per Cassazione da parte
del Pubblico ministero nasce da un complesso procedimento,
che vedeva coinvolte diverse società controllate da una società holding, appartenenti al medesimo gruppo. Tutte le società
sono state accusate del reato di corruzione e di finanziamento
illecito ai partiti.
Il Giudice per l’udienza preliminare però stabiliva il rinvio a giudizio delle sole società operanti nel settore sanitario, perché
avevano tratto vantaggio dalle condotte corruttive poste in
essere dal dominus ed amministratore di fatto di tali società.
Il Giudice per l’udienza preliminare proscioglieva invece le altre società appartenenti al medesimo gruppo, in quanto, non
operanti nel settore sanitario e, per le stesse, non era stato dimostrato che avessero tratto alcun vantaggio dalle condotte
delittuose in contestazione.
Il Pubblico ministero presentava ricorso per cassazione, deducendo che, proprio nella fase dibattimentale sarebbe emerso
il vantaggio e, quindi, l’interesse delle società prosciolte. Inoltre il Pubblico ministero contestava che il Giudice per l’udienza
preliminare aveva erroneamente non considerato che, il dominus del gruppo, era amministratore di fatto di tutte le società
coinvolte.
La Corte di Cassazione ha ritenuto i motivi di ricorso infondati,
poiché non tutti i criteri di attribuzione della responsabilità ex
D. Lgs. n. 231/2001 erano soddisfatti. Infatti, sebbene il reato
commesso, ovvero il delitto di corruzione, rientrasse tra quelli
previsti dal D. Lgs. n. 231/2001, nel caso di specie mancava
l’interesse o il vantaggio e l’agente non rivestiva una posizione
qualificata all’interno dell’Ente capogruppo.
A quest’ultimo proposito, la Corte di Cassazione ha precisato
che la società holding o altre società del gruppo possono rispondere, ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001, per un reato commesso da società appartenenti alla medesima aggregazione,
ma “è necessario che il soggetto che agisce per conto delle stesse
concorra con il soggetto che commette il reato”.
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso, escludendo
la responsabilità della società holding, ai sensi del D. Lgs. n.
231/2001, perché non vi era prova che i soggetti, che avevano
agito per conto della capogruppo, avessero concorso con l’autore nella commissione dei reati accertati.
Coerentemente la sentenza, avendo escluso la ricorrenza dei
presupposti per ascrivere la responsabilità da reato alla società
holding, non si è soffermata sul tema della compliance di gruppo e del coordinamento degli organismi di vigilanza.
4.
Il concetto di gruppo nell’ambito del diritto penale
e del diritto societario
La sentenza della Corte di Cassazione, di cui non risultano
precedenti in tal senso, è (forse) la prima che si pronuncia
nell’ambito del sistema sanzionatorio degli illeciti amministrativi, dipendenti da reato, che riguardano l’ente singolarmente
considerato e non nell’accezione di gruppo. Infatti il D. Lgs. n.
231/2001 è silente sul fenomeno dei gruppi societari. Tale argomento è stato tuttavia affrontato dalla dottrina di merito,
che ha individuato la problematica[6].
Il legislatore della riforma del diritto societario italiano non ha
sviluppato il tema dei gruppi societari, ma si è limitato a fornire
un’indiretta nozione nell’articolo 2497, comma 1, Codice civile che individua il profilo centrale del fenomeno, nell’esistenza di un’attività di “direzione e coordinamento di società”. Questa
attività, oggetto di eterodirezione, deve essere esercitata nel
rispetto dei principi della “corretta gestione societaria ed imprenditoriale delle società”. Secondo la Cassazione, si è in presenza
propriamente di gruppo solo quando una pluralità di società
sia sottoposta alla guida unitaria che una di queste esercita
sulle altre. È altresì, opinione diffusa, sia nella dottrina sia nella
giurisprudenza[7] , che la veste di società holding, quale soggetto che in forza della propria partecipazione di controllo, di
diritto o di fatto, ovvero in forza di particolari vincoli contrattuali, svolge la funzione di guida unitaria, possa essere assunta
non soltanto da una persona giuridica (come di regola accade),
ma anche da una persona fisica.
Occorre anche tener presente che l’attività di direzione e coordinamento necessita della presenza di diverse società controllate, che svolgono attività similari e concorrenti fra loro. Pertanto non esiste una direzione e un coordinamento, nel caso
di unica partecipata o di controllate che svolgono attività del
tutto differenti (si pensi ad esempio ad una società controllata
con un’attività industriale e l’altra con un’attività di gestione
immobiliare).
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
In sede civile, in presenza di un gruppo sottoposto a direzione
e coordinamento, i creditori delle controllate, dopo aver escusso infruttuosamente il debitore principale, cioè la controllata,
possono rivolgersi alla controllante per il soddisfacimento del
proprio credito. La mancata pubblicità nel Registro delle imprese e negli atti della società, dell’attività di direzione e coordinamento, prevista dal Codice civile, determina la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori.
Il Codice civile prevede una presunzione semplice di direzione e
coordinamento, in presenza di partecipazioni di controllo, di diritto o anche di fatto. Ne consegue che spesso tale presunzione
semplice determini anche la semplice presunzione di gruppo.
La giurisprudenza penale, invece, adotta la nozione del gruppo
in modo differente, come unità economica e pluralità giuridica,
ovvero come unità meramente economica di regola irrilevante
per il diritto, salvo che espresse norme di legge non conferiscano, eccezionalmente, un rilievo unitario al gruppo.
Nella pratica, sovente, si trovano dichiarazioni di direzione e
coordinamento che non corrispondono all’effettiva realtà. Per
esempio si possono riscontrare che per il semplice fatto che
la società controllante detiene il 51% del capitale della società
controllata, alla società controllante viene indicata negli atti
l’attività di direzione e coordinamento, senza alcuna realtà di
eterodirezione. Alcuni professionisti ritengono che tale iscrizione al Registro delle imprese abbia una mera funzione cautelativa nei confronti degli amministratori della controllata per
gli effetti della responsabilità menzionata.
Tale prassi è quanto mai errata, in quanto, dichiarando una
direzione e coordinamento non reale, s’ingenera il falso affidamento nei creditori di poter ricorrere, in caso di negativa
escussione della società controllata, alla società controllante.
In questa ipotesi, non esistendo alcuna reale attività di direzione e coordinamento, la società controllante facilmente dimostrerà di non aver alcun obbligo nei confronti dei creditori della
partecipata. In tal caso i creditori potranno agire nei confronti
degli amministratori per la responsabilità derivante dal falso
affidamento derivante da tale pubblicità.
Inoltre, l’assoggettamento all’attività di direzione e coordinamento comporta l’estensione alla società per azioni della
normativa prevista in tema di società a responsabilità limitata, in ordine ai finanziamenti dei soci, eseguiti, sotto qualsiasi
forma, in stato di sottocapitalizzazione della società. Tali finanziamenti sono oggetto di postergazione legale, pertanto
potranno essere rimborsati solo dopo aver soddisfatto tutti i
creditori. Inoltre, nel caso di restituzione avvenuta entro un
anno dalla sentenza di fallimento, sono soggetti a ripetizione.
In questo scenario la sentenza in commento ha il pregio di disconoscere, sic e simpliciter, la traslata responsabilità “penale”,
dalle società controllate alla società controllante, solo per la
presunta esistenza di un gruppo. Ma esige, da parte del giudice di merito, l’accertamento di un interesse concorrente con
le società controllate, perseguito da un soggetto della società
holding agente, identico o in concorso con il soggetto agente
della società controllata che commette il reato.
Nelle costruzioni tradizionali di internazionalizzazione d’impresa e conseguente pianificazione tributaria, la società holding rappresenta il pilastro del progetto e della sua fattibilità.
Ad ogni modo occorre essere molto attenti alle conseguenze
che certe costruzioni potrebbero causare. Per esempio in Italia, per vincere la presunzione semplice di esterovestizione
della società holding[8] , da “holding pura” che non esercita
alcuna attività commerciale[9] , la si trasforma in “holding mista” con un’attività di servizi, regolata dai “famigerati” contratti di “management fee”.
Le attività poste a capo della capogruppo devono essere attentamente valutate, la sentenza in commento ci offre una
valida guida di pensiero. Per esempio la gestione commerciale
centralizzata dalla società holding, a favore di diverse società
controllate, avente attività analoga o concorrente, determina
sicuramente l’attività di direzione e coordinamento. Pertanto,
la presenza dei contratti di “management fee”, non solo espone
la società holding al rischio di stabilimento d’impresa occulto nel Paese delle società controllate, e di presunta evasione
fiscale di elementi imponibili, così trasferiti in Paesi a minore fiscalità, ma inoltre conferma inequivocabilmente l’eterodirezione da parte della società holding stessa. Se poi, come
spesso accade, il beneficiario effettivo a monte del mandato
fiduciario per l’intestazione delle azioni della società holding
è contemporaneamente anche il soggetto agente, sia come
dipendente della società holding, che provvede alla direzione
della gestione commerciale centralizzata, sia come amministratore delle società controllate o di alcune di esse a cui viene
fornito il servizio, non solo si avranno le conseguenze di natura
civilistica sopra accennate, ma in caso di reati accertati ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001, sussisterà anche la responsabilità
penale (amministrativa) della società holding, con effetti devastanti e distruttivi per tutto il gruppo societario. Nell’esempio indicato si potrebbe profilare anche il rischio della società
holding persona fisica che, attraverso l’abuso della personalità giuridica, perde la responsabilità limitata. In questo caso
gli effetti traslativi della responsabilità coinvolgono la persona
fisica.
5.
La responsabilità penale della società holding
secondo la giurisprudenza di merito e la dottrina
dominante
La responsabilità della società capogruppo per illeciti penali
commessi dalle controllate è stata più volte affermata in alcune note pronunce della giurisprudenza di merito. L’estensione
della punibilità alla capogruppo trova essenziale fondamento
nella controversa nozione dell’interesse di gruppo, avvalendosi
di presunzioni non assolute. La traslazione della responsabilità
da reato, dalla controllata alla capogruppo, viene giustificata ai
sensi dell’articolo 5 D. Lgs. n. 231/2001, ricorrendo alla teoria di
un esistente interesse, che prescinde dalle particolari posizioni
delle diverse società che compongono il gruppo, per identificarsi in un interesse unitario, da riferirsi alla società holding o al
raggruppamento d’imprese, complessivamente inteso.
La giurisprudenza di merito, per sostenere la punibilità della
società holding, ha fatto spesso ricorso a delle argomentazioni che la dottrina ha stigmatizzato per la debole sostenibilità
in diritto. La sentenza in commento ha il pregio di respingere
presunzioni e “scorciatoie” non sostenibili in diritto che spesso
la giurisprudenza di merito ed i Pubblici ministeri hanno utilizzato per estendere tale responsabilità dalla società controllata
alla capogruppo.
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Nelle sentenze di merito si è spesso affermato quanto segue[10]: “la holding esercita, in modo mediato, la medesima attività
d’impresa che le controllate esercitano in modo immediato e diretto”;
“l’oggetto della holding in questo caso non è la gestione di partecipazioni azionarie come tali, ma l’esercizio indiretto di attività d’impresa”; “le controllanti hanno esercitato, attraverso le controllate, una
propria attività d’impresa ed hanno soddisfatto, sempre attraverso le
controllate, un proprio interesse”.
In tale prospettiva interpretativa, quando una persona fisica
che abbia un rapporto qualificato con una società controllata, commette un reato nell’interesse della stessa, l’interesse
o il vantaggio si riflettono sulla società holding, in quanto
il gruppo è un’unica impresa imputata ad una pluralità di
soggetti [11].
Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, la nozione di “interesse di gruppo” sarebbe ricostruibile attraverso la disciplina
dettata dal Codice civile in tema di bilancio consolidato e di
responsabilità gestoria della società holding nella direzione
e nel coordinamento del gruppo, nonché dagli orientamenti
della giurisprudenza commerciale, relativi alla revocatoria fallimentare delle cessioni gratuite e delle fidejussioni infragruppo.
Inoltre tale orientamento, per sostenere maggiormente la
propria tesi, ricorre anche ad un’altra presunzione: la figura
dell’amministratore della società holding come amministratore di fatto delle società controllate. Proprio nella vicenda di cui
alla sentenza in commento[12] si sono ravvisati i gravi indizi di
colpevolezza idonei a fondare la responsabilità della controllante ex D. Lgs. n. 231/2001 nella condotta dell’amministratore
di diritto della società holding che aveva, “di fatto”, concorso,
con gli amministratori delle società controllate nella corruzione dei funzionari che dovevano assegnare pubblici appalti di
servizi alle controllate.
In tale ordinanza si ribadisce l’idoneità a fondare la responsabilità della capogruppo nell’interesse di gruppo. Il medesimo
viene esplicitamente definito quale “interesse di più società, non
solo di quelle che hanno ottenuto l’aggiudicazione degli appalti, ma
anche delle controllanti nella prospettiva della partecipazione agli
utili. L’interesse di gruppo si caratterizza per non essere proprio ed
esclusivo di uno dei membri del gruppo, ma comune a tutti i soggetti
che ne fanno parte”.
Pertanto il pactum sceleris, pur inteso a far conseguire un’immediata utilità alle società controllate, produce i propri effetti
anche nell’interesse della capogruppo, che avrebbe beneficiato dell’attività illecita.
In una successiva pronuncia[13] si è affermato che a fondamento della responsabilità della capogruppo vi è l’esistenza di
legami o nessi tra gli enti coinvolti che, in considerazione degli
“inevitabili riflessi che le condizioni della società controllata riverberano sulla società controllante”, non consentono di ritenere l’ente
favorito come “terzo”.
Tali tesi sono state considerate inaccettabili dalla dottrina, e la
sentenza in commento ne conferma, autorevolmente, l’insostenibilità. Se si considera il diritto della società holding azionista di percepire gli utili delle società controllate, come interesse concorrente al reato, è ovvio che vi sarà sempre, in qualsiasi
caso, la responsabilità da reato della capogruppo. Sostenendo questa tesi, la responsabilità della capogruppo consegue
in ogni caso alla mera appartenenza al gruppo della società
coinvolta nella commissione del reato.
Una nozione così ampia dei criteri ascrittivi, peraltro, determina la propagazione della responsabilità da reato in capo a
tutte le società azioniste della società controllata, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di controllo, o di un’attività di direzione e coordinamento.
La sentenza in commento precisa che l’interesse o il vantaggio dell’azione criminis, per le altre società del gruppo, è anche
legato alla sussistenza di un rapporto qualificato tra la società
stessa e la persona fisica che ha posto in essere il reato.
Da parte della giurisprudenza di merito si è cercato di eludere
detto principio attraverso la presunzione che l’amministratore
della società holding sia, per effetto del controllo esercitato,
amministratore di fatto delle controllate . Tale asserzione deve
essere supportata da prove e fatti concreti. Occorre provare
come l’amministratore della società holding, esercitando un
vero e proprio dominio sulla società controllata, commetta
un’ingerenza continuativa e significativa, che sistematicamente esautori l’autonomia della controllata, asservendola
agli interessi della controllante.
Non è condivisibile nemmeno l’asserzione da alcuni fatta che
l’amministratore della società holding abbia il dovere e l’obbligo di impedire che, attraverso le società controllate, vengano compiuti reati penalmente rilevanti. L’opinione dominante
esclude che possa sussistere un tale obbligo in capo all’amministratore della società holding. L’articolo 2497 del Codice
civile, ispirato a profili di tutela dei soci e dei creditori sociali,
non consente di fondare un potere-dovere degli amministratori della società holding ad impedire l’attività gestoria, penalmente illecita dell’amministratore della controllata.
Occorre precisare che la direzione unitaria (direzione e coordinamento) non elimina l’autonomia gestionale dell’organo
amministrativo delle controllate, ma la comprime per ragioni
economiche. Detta limitazione trova la propria legittimazione nei vantaggi compensativi che la controllata ottiene dalla
stessa direzione unitaria. Pertanto, ciascuna società di cui si
compone il gruppo, ha una propria autonomia giuridica. Gli
amministratori della società holding, ove venissero a conoscenza di illeciti commessi nella gestione della controllata, non
avrebbero a loro disposizione alcuno specifico strumento giuridico per intervenire, diverso da quelli previsti in generale dalla
normativa penale.
Il dovere di diligenza dell’amministratore della società holding
capogruppo si realizza nella compliance di gruppo e del coordinamento degli organismi di vigilanza.
Novità fiscali / n.02 / febbraio 2012
6.
Conclusioni
Anche se una rondine non fa primavera, la sentenza in commento rappresenta un primo faro di orientamento per noi
operatori del diritto. Seppur non vengano affrontati tutti i problemi legati al fenomeno dei gruppi societari nel diritto punitivo degli enti, si rivela estremamente significativa, perché afferma la necessità della prova rigorosa di ciascun elemento della
fattispecie che compone la responsabilità da reato all’Ente.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.fiscoetributi.com/wp-content/uploads/2009/04/scudo-fiscale.jpg [20.02.2012]
http://www.isog.org/it/images/stories/no-tax.jpg [20.02.2012]
http://www.studiomaggesi.it/Immagini/cassazione3.jpg [20.02.2012]
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fs/1.4102245.1309184949!/httpImage/img.jpg [20.02.2012]
[1] Sono i rischi legali e reputazionali nell’ambito
delle prestazioni finanziarie e transfrontaliere.
Si veda Bernasconi Paolo, Banche e imprese nel
procedimento penale, Commissione ticinese per
la formazione permanente dei giuristi, Helbing &
Lichtenhahn, volume 28, Lugano 2011.
[2] Sulla figura dell’amministratore di fatto si veda:
Sandrelli Gian Giacomo, Il soggetto “di fatto” nei
reati societari e fallimentari e l’introduzione del
“nuovo” art. 2639 c.c., in: Fall., 10/2007, pagina
1169 e seguenti; Alessandri Alberto, Diritto penale e attività economiche, Il mulino, Bologna 2010,
pagina 233 e seguenti.
[3] Tesauro Francesco, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino 2011, pagina 241.
[4] Cassazione, 21 aprile 2008, n. 10257 e Id., 17
ottobre 2008, n. 25374. Per un approfondimento
si veda Contrino Angelo, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti
giuridici e connotati strutturali, in: Diritto e Pratica Tributaria, volume 80, n. 3, 2009, I, pagine
463-491.
[5] Il Sole24Ore, Abuso del Diritto in attesa di una
Legge, 2 gennaio 2012.
[6] Si sono occupati del tema: Alessandri Alberto,
Diritto penale e attività economiche, Il mulino,
Bologna 2010, pagina 233 e seguenti; Amodio
Ennio, Rischio penale di impresa e responsabilità
degli enti nei gruppi multinazionali, in: Riv. it. dir.
proc. pen., 2007, pagine 1287 e seguenti; Scaroina
Elisa, Societas delinquere potest. Il problema del
gruppo di imprese, Giuffrè, Milano 2006; Corsini
Lorenzo, Gruppo d’imprese e responsabilità degli
enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da
reato, in: Rivista Le Società, 2004, pagina 1354 e
seguenti; Pistorelli Luca, Brevi osservazioni sull’interesse di gruppo quale criterio oggettivo di imputazione della responsabilità da reato, in: Resp.
amm. soc. enti, 1/2006, pagina 11 e seguenti;
Santoriello Ciro, Gruppi di società e sistema sanzionatorio del D. Lgs. n. 231/2001, Resp. amm.
soc. enti, 4/2007, pagina 41 e seguenti; Astrologo
Anna Maria, Reciproca cointeressenza, compartecipazioni incrociate e D. Lgs. n. 231/2011, Resp.
amm. soc. enti, 4/2007, pagina 87 e seguenti.
[7] Ex plurimis: Cass. civ., 9 agosto 2002, n. 12113,
in: Giur. comm., 2004, pagina 15 e seguenti, con
nota di Giovannini Stefania, La holding persona
fisica e l’abuso della personalità giuridica; Cass.
civ., 13 marzo 2003, n. 3724, in: Giust. civ., 2003,
pagina 1198.
[8] Ciò che comporta la riqualificazione del soggetto estero in soggetto fiscalmente residente.
[9] Questo poiché si limita alla detenzione delle
partecipazioni con un’attività meramente gestionale-finanziaria.
[10] GIP Trib. Milano 20 settembre 2004, in: Guida dir., n. 47, 2004, pagina 57 con nota critica di
Lunghini Giacomo, Responsabilità amministrativa
degli enti: soggetti, interessi infragruppo e requisiti di idoneità e di attuazione dei modelli, in: Corr.
mer., 2005, pagina 89 e seguenti.
[11] Tale tesi, propugnata da Galgano Francesco,
L’oggetto della holding è dunque l’esercizio mediato e indiretto dell’impresa di gruppo, in: Contr.
e impr., 1990, pagina 401 e seguenti, e successivamente ripresa in numerosi scritti, è stata accolta
dalla sentenza della Cass. civ., 26 febbraio 1990, n.
1439, Caltagirone, rv. 465537, in: Riv. dir. comm.,
1991, pagina 515 e seguenti, con nota di Libonati
Berardino, Partecipazione in società ed esercizio
di attività economica in forma d’impresa.
[12] GIP Trib. Milano 14 dicembre 2004, in: Foro it.,
2005, pagina 539.
[13] Trib. Milano 20 dicembre 2004, in: Dir. prat.
soc., 2005, pagina 69 e seguenti, con nota di Cerqua Federico, Responsabilità degli enti: I criteri
oggettivi di attribuzione del reato.
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dei trasferimenti immobiliari
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sugli utili immobiliari e gli aspetti legati all’IVA.
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sulla fiscalità del risparmio tra Svizzera e Unione europea
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L’art. 15 dell’Accordo sulla fiscalità del risparmio tra Svizzera
ed Unione europea
Durata: 4 ore, Calendario: 30 marzo 2012,
Termine d’iscrizione: 28 marzo 2012
La Direttiva europea sulle ristrutturazioni
Durata: 4 ore, Calendario: 30 marzo 2012,
Termine d’iscrizione: 28 marzo 2012
La Direttiva europea madre-figlia
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SUPSI
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tributarie
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