I tratti della politica La politica a tratti in forma di raccolta e conclusioni con pretesa-tentativo di coglierne le direzioni in corso. 2. diritti nella transnazionalità, metafore e dimensione pubblica Schema 1. Le relazioni della società contemporanea sono sempre più di carattere internazionale in rete mondiale. 2. Le metafore e le immagini della politica (antica, moderna, contemporanea) 3. Le trasformazioni in atto del volto della democrazia e la dimensione pubblica Ripresa dell’osservazione – allarme già proclamato. «Che noi lo vogliamo o no, signor ministro, è notte, notte fonda, avvertiamo che sta succedendo qualcosa che va ben oltre la nostra comprensione, che eccede la nostra povera esperienza, ma stiamo agendo come se si trattasse della stessa zuppa, fatta con gli ingredienti di sempre sul solito fornello, e invece non è così…» (Saramago José 2004 Saggio sulla lucidità, Einaudi, Torino 2004, 91) 1. Le relazioni della società contemporanea, economiche, politiche e culturali, sono sempre più di carattere internazionale, in rete mondiale. La cosiddetta globalizzazione, l’internazionalismo e la transnazionalità diventano la sede operativa dello stato, della politica, dell’uomo in una varietà sempre più numerosa di settori della vita individuale e sociale. Ciò che si impone in termini di comprensione e programmi è la riflessione sugli aspetti nei quali siamo già inclusi e operativi in un contesto segnato dall’internazionalismo e dalla cosiddetta globalizzazione e, di conseguenza, occorre ripensare e ridefinire la nostra capacità individuale e collettiva di ragionamento, scelta, azione e programma all’interno di nuovi scenari. La consapevolezza, spesso non confortante, che deve tener desta l’attenzione, è la convinzione che non sia più possibile ragionare intorno a problemi sociali, sia quelli nuovi che quelli storicamente antichi (i classici settori: economia, politica, etica, comunicazione, arte, religione, linguaggio, diritti, costumi… condizione femminile, minoranze, famiglia, minori, malattia…) con strumenti finora utilizzati, operativi in un mondo non segnato da legami e interazioni così ampi e pervasivi quali oggi si realizzano e si impongono anche al di là di scelte e decisioni personali. È utile, in proposito, riprendere un passaggio del romanzo di José Saramago, Saggio sulla lucidità: «Che noi lo vogliamo o no, signor ministro, è notte, notte fonda, avvertiamo che sta succedendo qualcosa che va ben oltre la nostra comprensione, che eccede la nostra povera esperienza, ma stiamo agendo come se si trattasse della stessa zuppa, fatta con gli ingredienti di sempre sul solito fornello, e invece non è così…» (Saramago 2004, 91) Scrive Aristotele nella Metafisica: «… la causa della difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi. Infatti, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte.» (Metafisica II, 993 b 8-11) 1.1. Siamo già internazionali, transnazionali, globalizzati, mondializzati, cosmopoliti... 1 Si tratta di aspetti messi in evidenza con ricchezza di dati e di teorie da tutti gli studi sociali economici e politici sulla società contemporanea. Variano i concetti forniti per fissare i legami che attualmente definiscono le relazioni di carattere mondiale, sono diversamente documentati su basi storiche geopolitiche, economiche e sociali gli scenari empiricamente ricostruiti, non sempre coincidono le valutazioni dei livelli di opportunità nuove e di rischio collegato che segnano i flussi mondiali che intrecciano e ridefiniscono le gestioni territoriali un tempo considerate autonome e sovrane, ma viene confermata da tutti la consapevolezza di vivere in società che non possono più prescindere, per capire e agire, al di fuori di legami di estensione globale. Si possono qui richiamare, scandendoli per ambiti di studio e di tesi, alcuni degli studi della contemporaneità considerati classici; le loro tesi sono un passaggio obbligato. 1.1.1. Bauman Zygmunt 2000 Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002 La natura “liquida” della società contemporanea, la dialettica tra corpi solidi e corpi fluidi che pone in situazione precaria qualsiasi ordine costituito (quindi solo momentaneamente costituito) «Detto in parole povere, tutte queste caratteristiche stanno a significare che i liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo. Laddove i corpi solidi hanno dimensioni spaziali ben definite ma neutralizzano l’impatto — e dunque riducono il significato — del tempo (resistono con efficacia al suo scorrere o lo rendono irrilevante), i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla; cosicché ciò che conta per essi è il flusso temporale più che lo spazio che si trovano a occupare e che in pratica occupano solo «per un momento». In un certo senso, i corpi solidi annullano il tempo, laddove, al contrario, il tempo è per i liquidi l’elemento più importante. Nella descrizione dei corpi solidi, il tempo è un elemento che si può tranquillamente ignorare; fare altrettanto con i fluidi sarebbe, viceversa, un grave errore. Le descrizioni dei fluidi sono tutte delle istantanee sul cui retro occorre sempre apporre la data. […] Sono questi i motivi per considerare la «fluidità» o la «liquidità» come metafore pertinenti allorché intendiamo comprendere la natura dell’attuale e per molti aspetti nuova fase nella storia della modernità. […] Queste e simili obiezioni appaiono del tutto giustificate, e ancor più lo saranno quando rammentiamo che la famosa espressione «fondere i corpi solidi», allorché fu coniata, un secolo e mezzo fa, dagli autori del Manifesto del Partito comunista, si riferiva al trattamento che l’esuberante e baldanzoso spirito moderno riservava a una società considerata troppo stagnante per i propri gusti ed eccessivamente refrattaria al cambiamento e alla manipolazione per le proprie ambizioni, imbolsita com’era nelle sue consuetudini. […] La «fusione dei corpi solidi», la caratteristica permanente della modernità, ha dunque acquisito un nuovo significato, e soprattutto è stata reindirizzata verso un nuovo obiettivo; e una delle principali conseguenze di tale reindirizzamento è stata la distruzione delle forze capaci di far mantenere nell’agenda politica la questione dell’ordine e del sistema. I corpi solidi per i quali oggi — nell’epoca della modernità liquida — è scoccata l’ora di finire nel crogiolo ed essere liquefatti sono i legami che trasformano le scelte individuali in progetti e azioni collettive: i modelli di comunicazione e coordinamento tra politiche di vita condotte individualmente da un lato e le azioni politiche delle collettività umane dall’altro. […] Quella oggi in atto è, per così dire, una ridistribuzione e riallocazione dei «poteri di fusione» della modernità. Tale fenomeno interessò inizialmente le istituzioni esistenti, le cornici normative che circoscrivevano i campi delle possibili scelte operative, come immobili ereditari con la loro inoppugnabile ascrizione per legge. […] In realtà, il modello rotto venne prontamente sostituito da un altro; la gente venne liberata dalle vecchie gabbie solo per essere redarguita e censurata qualora mancasse di risistemarsi, con strenui, incessanti e perenni sforzi, nelle nicchie prefabbricate del nuovo ordine: le classi, le cornici che inglobarono (in modo altrettanto ferreo dei defunti estates) la totalità delle condizioni e prospettive di vita e stabilirono la gamma realisticamente possibile di progetti e strategie di vita. Il compito che gli individui liberi dovettero assolvere consistette nell’impiegare la nuova libertà acquisita per trovare la nicchia appropriata e sistemarvisi in modo confortevole: seguendo alla lettera le regole e le norme di condotta identificate come corrette e appropriate per quella ubicazione. […] Significa però che stiamo attualmente 2 passando dall’epoca dei «gruppi di riferimento» preassegnati a quella del «raffronto universale» in cui la destinazione dei singoli sforzi di autocostruzione è endemicamente e incurabilmente sottodeterminata, non è data in anticipo e tende a subire numerosi e profondi cambiamenti prima che tali sforzi raggiungano il loro unico fine reale: la fine della vita dell’individuo. Oggigiorno modelli e configurazioni non sono più «dati», e tanto meno «assiomatici»; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione. Hanno inoltre mutato natura e sono stati riclassificati di conseguenza: come voci nell’inventario dei compiti individuali. […] Oggi tali modelli sono malleabili in una misura mai sperimentata o finanche immaginata dalle generazioni passate, ma al pari di tutti i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma. È molto più facile plasmarli che mantenerne la foggia. […] Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l’avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana. La lontananza e l’irraggiungibilità della struttura sistemica, associata allo stato fluido, non strutturato, dello scenario prossimo e immediato della politica della vita, cambiano radicalmente tale condizione e impongono un ripensamento delle vecchie nozioni che ne caratterizzavano la descrizione. Come tanti zombie, tali nozioni sono oggi al contempo morte, ma ancora viventi. La questione pratica è se la loro resurrezione, sebbene in una nuova forma o incarnazione, sia possibile o meno, e — qualora non lo sia — come ordinarne una dignitosa ed efficace sepoltura. […] Ho scelto di analizzare cinque delle nozioni di fondo intorno alle quali le esplicazioni ortodosse della condizione umana tendono a ruotare: emancipazione, individualità, tempo/spazio, lavoro e comunità.» (Zygmunt Bauman 2000 Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002 pp. V-XIV) 1.1.2. L’internazionalismo della finanza, dei capitali, delle tecnologie, delle merci, della manodopera e gli effetti sociali in termini di libertà e uguaglianza. In apertura e allarme, un rischio: «… non avendo i cittadini di questo paese la salutare abitudine di esigere il regolare rispetto dei diritti che la costituzione concedeva loro, era logico, anzi, era naturale che non fossero arrivati a rendersi conto che glieli avevano sospesi.» (Saramago José 2004 Saggio sulla lucidità, Einaudi, Torino 2004, 49) 1.1.2.1. Castells Manuel, 1996, 2000 L’Età dell’informazione: economia, società, cultura, Università Bocconi Editore 2002, UBE Paperback, Milano 2008. L’obiettivo e il progetto: «…proporre alcuni elementi per una teoria esplorativa e comparativa (cross-cultural) dell’economia e della società nell’età dell’informazione, in quanto si riferisce specificamente alla nascita di una nuova struttura sociale. L’ampio raggio della mia analisi è dovuto alla pervasività dell’oggetto di tale analisi (l’informazionalismo) in tutti i domini sociali e le espressioni culturali. […] …non condivido una visione della società tradizionale, costituita da livelli sovrapposti, con la tecnologia e l’economia alle fondamenta, il potere all’ammezzato e la cultura all’attico. Tuttavia, per maggiore chiarezza, sono costretto a una presentazione sistematica e alquanto lineare delle tematiche che, pur collegandosi reciprocamente, non possono integrare pienamente tutti gli elementi finché questi non saranno esaminati a fondo attraverso il viaggio intellettuale che il lettore è invitato a intraprendere. Questo primo volume riguarda fondamentalmente la logica di ciò che io definisco la Rete, mentre il secondo (Il potere dell’identità) analizza la struttura dell’io e l’interazione tra la Rete e l’io nella crisi delle due istituzioni centrali della società: la famiglia patriarcale e lo stato-nazione. Il terzo volume (Nuovo millennio) tenta di fornire un’interpretazione delle trasformazioni storiche dell’ultima parte del XX secolo, come risultato della dinamica dei processi studiati nei primi due volumi. […] Questo approccio origina dalla convinzione che siamo entrati in un mondo realmente multiculturale e interdipendente, che può essere compreso, e cambiato, solo da una prospettiva plurale che faccia convergere identità culturale, networking globale e politica multidimensionale.» (Castells Manuel 1996 La nascita della società in rete, UBE Paperback, Milano 2008, 27-28) 3 1.1.2.2. Stiglitz E. Joseph 2012 Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013 [Joseph E. Stiglitz è premio Nobel 2001 per l’Economia] Dobbiamo essere internazionali, transnazionali, globalizzati, mondializzati, cosmopoliti... L’internazionalismo più che un dato di fatto comporta una passaggio continuo dall’essere al dover essere; è un progetto, una prospettiva, un impegno, un futuro che attende di essere avvertito e gestito. In sé l’internazionalismo (e assimilati o assimilabili come globalizzazione…) conserva una certa neutralità o per lo meno una ambivalenza. «Il problema tuttavia non è se la globalizzazione sia buona o cattiva, ma che i governi la stanno gestendo molto male, per lo più a beneficio di interessi particolari. L’interconnessione tra i popoli, i paesi e le economie del pianeta è uno sviluppo che può essere usato in modo efficace tanto per promuovere la prosperità quanto per diffondere avidità e sofferenza. Lo stesso vale per l’economia di mercato: il potere dei mercati è enorme, ma essi non hanno alcuna caratteristica morale intrinseca. Dobbiamo decidere noi come gestirli. Nei loro momenti migliori, i mercati hanno avuto un ruolo cruciale, per gli straordinari aumenti di produttività e la crescita del tenore di vita degli ultimi due secoli, incrementi di gran lunga superiori a quelli dei precedenti duemila anni. Ma anche i governi hanno avuto un ruolo importante in questi avanzamenti, un fatto che i sostenitori del libero mercato solitamente mancano di riconoscere. D’altra parte, i mercati possono lavorare altrettanto bene a favore della concentrazione di ricchezza, possono trasferire i costi ambientali sulla società e abusare di lavoratori e consumatori. Per tutte queste ragioni è chiaro che i mercati vanno domati e temperati, se si vuole essere sicuri che lavorino a beneficio della maggioranza dei cittadini. E occorre ripetere tali interventi più volte, per garantire la continuità dei risultati.» (Stiglitz 2012, XIII-XIV) [1] il disagio recente ma strutturale dell’economia avanzata «Negli Stati Uniti, tuttavia, le proteste spinsero ben presto lo sguardo oltre Wall Street, fino a concentrarsi sulle più marcate iniquità della società americana. Il loro slogan divenne «il 99 per cento». I manifestanti che lo scelsero riprendevano il titolo di un articolo che avevo scritto per la rivista «Vanity Fair», Dell'1 per cento, per l’1 per cento, dall’1 per cento, e che descriveva l’enorme crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti e un sistema politico che sembrava dar voce in misura sproporzionata a quanti si trovavano in cima alla scala sociale. Tre temi rimbalzavano in giro per il mondo: che i mercati non funzionavano come avrebbero dovuto, perché non erano evidentemente efficienti né stabili; che il sistema politico non aveva corretto i fallimenti del mercato; e che il sistema economico e quello politico erano fondamentalmente iniqui. Concentrandosi sull’eccessiva disuguaglianza che oggi segna gli Stati Uniti e alcuni altri paesi industrialmente avanzati, questo libro spiega come i tre temi siano intimamente legati fra loro: la disuguaglianza è causa, nonché conseguenza, del fallimento del sistema politico e contribuisce all’instabilità del nostro sistema economico, il quale a sua volta contribuisce ad aumentare la disuguaglianza, in un circolo vizioso che è come una spirale discendente in cui siamo caduti e da cui potremo riemergere soltanto attraverso le politiche concertate che mi accingo a descrivere. Prima di focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza, vorrei dunque dipingere un quadro del contesto descrivendo i più evidenti fallimenti del nostro sistema economico.» (Stiglitz 2012, XI) [2] contrariamente a slogan che si definiscono liberisti, la diseguaglianza non è un fattore di stimolo e impulso dell’economia (o comunque un fattore inevitabile e teoricamente costituente) ma un ostacolo alla crescita, visto il legame che questa ha con l’intera coesione sociale. «Di fatto, stiamo pagando cara la nostra crescente e smisurata disuguaglianza: non soltanto con una crescita più lenta e un Pil inferiore, ma anche con una maggiore instabilità. Per non dire degli altri costi della disuguaglianza: una democrazia indebolita, un ridotto senso di equità e giustizia oltre che, come ho suggerito, una messa in crisi del nostro senso di identità.» (Stiglitz 2012, XXV) « Uno dei lati più oscuri dell’economia di mercato venuti alla luce è stata l’ampia e crescente disuguaglianza che ha sfilacciato fino all’orlo il tessuto sociale dell’America e la sostenibilità economica del paese: i ricchi stavano diventando più ricchi, mentre gli altri affrontavano difficoltà che apparivano in contrasto 4 con il sogno americano. […] Vari paesi nel mondo offrono esempi spaventosi di ciò che accade a una società quando raggiunge il livello di disuguaglianza verso il quale ci stiamo dirigendo. Non si tratta di una bella immagine: sono paesi in cui i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito; sono sistemi politici instabili, dove il populismo promette alla gente una vita migliore soltanto per disilluderla. La cosa più grave, forse, è proprio la mancanza di speranza. In questi paesi i poveri sanno che le loro prospettive di uscire dalla povertà, per non parlare di arrivare in alto, sono scarsissime. Non è qualcosa a cui dovremmo aspirare.» (Stiglitz 2012, 4,6) « In realtà accade l’opposto: come abbiamo osservato, nel periodo in cui la disuguaglianza aumentava, la crescita è stata più lenta e la dimensione della fetta distribuita alla maggioranza degli americani è andata diminuendo. […] Vedremo più avanti che, mentre la teoria dell’effetto a cascata non funziona, un’economia al contrario (tricke-up) potrebbe farlo: tutti, anche coloro che stanno in alto, potrebbero beneficiarne se dessimo di più a chi sta in fondo o a metà della scala sociale.» (Stiglitz 2012, 10-11) «… disuguaglianza che caratterizza le società disfunzionali» (Stiglitz 2012, 29) E in sintesi globale: «Stiamo pagando un prezzo elevato per quest’ampia e crescente disuguaglianza e dal momento che, se non facciamo qualcosa, la disuguaglianza probabilmente continuerà a crescere, è facile che anche il prezzo da pagare aumenti. Chi sta in mezzo, e soprattutto chi sta in basso, ci rimetterà di più, ma anche il paese nel suo insieme — la nostra società, la nostra democrazia — pagherà moltissimo. Le società caratterizzate da una diffusa disuguaglianza non funzionano in modo efficiente e le loro economie non sono né stabili né sostenibili nel lungo periodo. Quando infatti un gruppo di interesse ha troppo potere, riesce a fare in modo che la politica operi a suo vantaggio, più che a beneficio dell’intera società.» (Stiglitz 2012, 143) Puntare sulla crescita senza affrontare il problema delle diseguaglianze ha l’effetto di incrementarle (un effetto etico) e di indebolire di conseguenza il mercato (un effetto economico); è allora utile (anche utilitaristico; cfr. Amartya Sen) coniugare etica ed economia. Più in generale, manchiamo di una antropologia economica e di una filosofia sociale (cfr. John R. Searle). [3] la situazione di disuguaglianza ha sempre una specificità storica (non è compreso se non viene specificato); nel passaggio di crisi economica di fine ‘900 si caratterizzata per due aspetti: [3.1.] ha subito una forte polarizzazione: «L’America ha sempre pensato a se stessa come a un paese della classe media. Nessuno vuole vedersi come un privilegiato e nessuno vuole annoverare la propria famiglia tra i poveri. Ma negli ultimi anni la classe media si è svuotata… La polarizzazione della forza lavoro ha fatto sì che oggi, mentre più denaro va a chi sta in alto, più persone stiano scivolando verso il basso.» (Stiglitz 2012,12-13) [3.2.] è la crisi della classe media: «… lo svuotamento della classe media e l’aumento della povertà» (Stiglitz 2012, 65) « È opinione ampiamente condivisa che la classe media sia l’ossatura della nostra democrazia. […] … la polarizzazione del nostro mercato del lavoro ha svuotato la classe media, che mentre si assottiglia sta perdendo ogni illusione rispetto a un procedere politico che evidentemente non fa i suoi interessi.» (Stiglitz 2012, 216) Un tratto proprio della società contemporanea a sviluppo economico avanzato, considerata dal punto di vista dello stile di vita e di consumo, è caratterizzata dalla forte riduzione quasi scomparsa del proletariato (della classe operaia o in generale, sociologicamente e politicamente, delle classi) e dal formarsi tendenziale di una universale classe media (una infinita e indistinta "middle class"); resta sullo sfondo una società degli esclusi che ha peraltro il cinico effetto sociale di trasmettere alla classe media la sensazione di “avercela fatta”. A parte una ristretta élite al vertice, e coloro che "non hanno retto il gioco" e sono finiti così ai margini della società, la struttura sociale appare caratterizzata da una grande middle class, alla quale sembrano approdare insieme, ormai, ceti medi e operai, resi più simili da capacità di spese in crescita, relativamente più uniformate e stabili, dunque da livelli e stili di consumo proprio di paesi considerati a sviluppo medio alto. Area sociale vasta, non gruppo, non classe… appare più come una classe di consumo che come classe produttiva; si tratta della "società dei due terzi" (o dei quattro quinti): una maggioranza sociale sostanzialmente compatta e soddisfatta di sé che non si preoccupa delle condizioni di vita del terzo 5 restante, confinato in condizioni di insignificanza politica, di subalternità o esclusione culturale e di acuto disagio sociale; o se ne occupa solo in quanto avverte il pericolo e vive l’insopportabile paura di entrare a farvi parte piombando in fondo, ai margini o all’esterno del sociale, fuori da uno stile di vita faticosamente costruito e finora fruito. È questa “classe” ad essere maggiormente colpita dalle diseguaglianze emergenti dalla recessione economica di fine ‘900 e spaventata dal rischio dell’esclusione sociale. Vista la sua consistenza numerica e rilevanza sociale è la crisi e la paura di un sistema di società quale era prodotto dalla precedente crescita produttiva; va in scena la condanna all’espulsione dal sistema di chi è disoccupato (il vasto mondo di chi entra nella precarietà, negli ammortizzatori sociali, che presto si scoprono non infiniti, o altro: precari, cassintegrati, esodati, pensioni ridotte, assistiti da enti caritativi...), verso un tenore di vita in declino, un destino di povertà e di esclusione sociale [il concetto sociale di povertà, cfr. Amarthya Sen]. «I poveri, in America, vivevano sull’orlo del precipizio anche prima della crisi, ma con la Grande recessione questo è diventato sempre più vero anche per la classe media.» (Stiglitz 2012, 14) Ed è soprattutto la fine di fiducia in un sistema cui si pensava con orgoglio storico di poter appartenere: «La fiducia nell’equità di fondo dell’America, nel fatto che viviamo in una terra di pari opportunità, contribuisce a unirci. Questo, per lo meno, è il mito americano, potente e durevole. Ma sempre di più è soltanto un mito. […] Il declino delle opportunità è andato di pari passo con la nostra crescita di disuguaglianza. Di fatto, si tratta di un modello osservato in vari paesi: le nazioni che presentano una disuguaglianza superiore offrono sistematicamente opportunità meno paritarie. […] È a livello dei primi e ultimi gradini della scala sociale che gli Stati Uniti dànno i risultati peggiori: chi sta in fondo ha buone possibilità di rimanervi, chi sta in cima pure, e questo molto più che in altri paesi.» (Stiglitz 2012, 24-25) E la novità sta anche nella rapidità della trasformazione: «Si diceva un tempo della disuguaglianza che tentare di coglierne le variazioni era come osservare l’erba che cresce, nel senso che in entrambi i casi è difficile accorgersi dei cambiamenti nel corso di un breve intervallo di tempo. Ma oggi questo non è più vero.» (Stiglitz 2012, 53-54) [4] tra le cause gestionali che possono essere indicate come dinamiche di crisi economica vi è la concezione liberistica (falsamente liberistica come già Adam Smith denunciava) dell’economia come sistema dotato di autonomia di regolamentazione e garantito da automatismi interni di correzione: «l’inesorabile funzionamento dell’economia di mercato» (Stiglitz 2012, 425); presupposto che porta a sostenere la necessaria esclusione di controlli esterni, sociali o politici, definiti come attacchi alla libertà e attacco al massimo profitto che le libertà in economia sono in grado di garantire per “mano invisibile”. La «convinzione che i mercati fossero sempre efficienti.» (Stiglitz 2012, 150) Presupposto che legittima l’esclusione di regole (in nome della libertà di iniziativa e della efficacia della creatività) e che fa chiudere gli occhi sulle condizioni di monopolio, di privilegio, di protezione politica e di costi sociali che di fatto sorregge e garantisce l’autonomia rivendicata ed esibita. Presupposti che si autoalimentano in quanto vengono trasformati in mantra dell’economia, veri e propri miti posti in sentenze, valide in quanto ripetute, trasformate in leggi indubitabili, capaci di produrre cecità e irresponsabile superficialità di fronte ai crolli economici e sociali delle ricorrenti crisi; addirittura confermate dai fallimenti che quelle sentenze avallano e giustificano. Ne consegue che l’autonomia dell’economia di fatto è diventata la priorità dell’economia, così come storicamente strutturata (cioè con la prevalenza di settori garanti del massimo profitto a breve, come il settore bancario-finanziario) sul sociale e sul politico. (Sul tema dei “miti”, sentenze, luoghi comuni e tragici paradossi delle presunte teorie economiche: Stiglitz 2012, 357-367) «A coloro i quali, nell’infuriare della Grande depressione, sostenevano che alla fine le forze del mercato avrebbero vinto e riportato l’economia al pieno impiego, Keynes rispondeva che sì, nel lungo periodo i mercati potrebbero funzionare, ma che nel lungo periodo saremo tutti morti.» (Stiglitz, 2012, 427) [5] la globalizzazione dell’economia e i suoi veloci ritmi hanno visto impreparate o assenti la politica e la società ad esaminare i processi in atto, esercitare i controlli. L’economia globale ha 6 tratto enormi vantaggio da questa assenza (nella circolazione libera di capitali all’insegna della evasione fiscale e della speculazione finanziaria) e ora chiede e fruisce di protezione politica (ad alti costi sociali) per risolvere i disastri provocati, adducendo le ragioni del rigore come condizione di salvezza non di un sistema economico ma dell’economia tout cour. [6] in questo quadro il risveglio politico nella forma dell’indignazione (gli indignados) e della controproposta. [cfr. Castells Manuel 2012 Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, EGEA, Università Bocconi editore, Milano.] E la consapevolezza, in un’ipotesi di bilancio e sintesi: «Per la maggior parte delle persone, la fonte di reddito più importante è il salario. Le politiche macroeconomiche e monetarie che portano a un aumento della disoccupazione — e a salari inferiori per i cittadini — sono oggi una delle principali fonti di disuguaglianza nella nostra società. Nell’ultimo quarto di secolo le politiche e le istituzioni macroeconomiche e finanziarie non sono riuscite a creare stabilità; non sono riuscite a creare crescita sostenibile e, cosa più importante di tutte, non sono riuscite a creare crescita a vantaggio della maggior parte dei cittadini della nostra società. Alla luce di questi drammatici fallimenti, ci si sarebbe potuti aspettare una ricerca di modelli macroeconomici e monetari alternativi. Ma proprio come le banche — per le quali nessun sistema è a prova di accidente, dunque loro sono rimaste vittima di un cataclisma che si verifica una volta ogni secolo e la nostra recessione attuale non è motivo sufficiente per cambiare un sistema che funziona — sono riuscite a resistere con successo a un ritorno alla regolamentazione (o reregulation), molti di quanti nutrivano le convinzioni macroeconomiche sbagliate che hanno portato a politiche monetarie difettose sono rimasti su posizioni irriducibili. Si sono mostrati riluttanti a modificare le loro opinioni. La teoria era giusta, sostengono: ci sono stati soltanto alcuni errori di attuazione. La verità è che i modelli macroeconomici non prestavano sufficiente attenzione alla disuguaglianza e alle conseguenze delle politiche distributive. Le politiche basate su questi modelli difettosi hanno contribuito a creare la crisi e al tempo stesso si sono dimostrate inefficaci al momento di gestirla. Non è escluso che stiano contribuendo a far sì che, nel momento in cui l’economia si riprenderà, sarà senza occupazione. Ma la cosa per noi più importante è che le politiche macroeconomiche hanno contribuito all’elevato livello di disuguaglianza a cui stiamo assistendo in America e altrove. Anche se i difensori di tali politiche potrebbero sostenere che siano le migliori per tutti, non è così. Non esiste un’unica miglior politica.» (Stiglitz 2012, 413- 414) «In questo libro ho sottolineato come a contare non sia soltanto la crescita, ma il tipo di crescita (o, come a volte si dice, la qualità della crescita). Una crescita nonostante la quale la maggior parte delle persone se la passasse male, dove la qualità dell’ambiente ne risentisse, dove la gente vivesse nell’ansia e con un senso di alienazione, non è il genere di crescita che dovremmo perseguire. La buona notizia è che talvolta possiamo plasmare le forze del mercato per il meglio e ricavarne entrate che possono essere usate per promuovere la crescita e rinforzare il benessere della collettività.» (Stiglitz 2012, 447) [un’appendice a margine della crescita e della decrescita: tendenza e controtendenza. a. la tendenza « Le nostre società tendono per propria natura ad accentuare lo sviluppo della produzione attraverso l'aumento dei consumi.» (Violante Luciano 2013 Politica e menzogna, Einaudi, Torino, 100) b. la controtendenza: l’ipotesi che esista un tetto, un limite; come per ogni fenomeno evolutivo esiste un punto massimo altre il quale non è possibile un incremento, forse come accade alla velocità della luce, velocità limite che struttura la realtà nota. La crisi è dunque un aver raggiunto, in alcuni processi, quel tetto e non resta che la possibilità o di conservarlo, ad alti costi, o di tornare sul sistema per sanare le discontinuità enormi che stanno sotto quei picchi di crescita e li mantengono nel loro stare al limite. Il punto massimo del profitto (finanziario o di pochi) si regge su scompensi economici ed esclusioni sociali (nelle società locali tra le aree del mondo), le diseguaglianze sono all’origine di quello che viene chiamata crisi (Stiglitz), non è contro la logica dello sviluppo immaginare una ipotesi di arresto nella volontà di incremento dei beni (Rawls). Questa ipotesi del 7 tetto, limite, cielo-tetto presentata in forma di romanzo (all’interno di un romanzo): « Si chiama Hector Grant e vive con la sua ragazza Josephine che fa anche lei la giornalista e si occupa di società e cultura. Una sera invitano Fil a cena e parlano di Economia tutto il tempo. Hector gli racconta di una ricerca che stanno facendo al giornale, sul benessere delle famiglie dal dopoguerra in poi, su quale livello abbiano raggiunto le varie generazioni, più o meno dal 1960 al 2010. Lui ha accesso all'UK Data Archive, una marea di dati, più di settecentomila famiglie. Se vuole, può passargli il file. Il giorno che Fil li ha sotto gli occhi, quei preziosi dati, non ci può credere. Guarda i grafici, estasiato. Osserva il procedere ora zigzagante ora lineare del percorso di ogni generazione. È esattamente come aveva pensato, i numeri gli danno ragione. Le ultime due generazioni sono cresciute meno, anzi, adesso non crescono affatto, perché. .. sono partite altissime! Semplice, si vede dalla linea. L’ultima generazione, la sua, la generazione detta dei precari, i cosiddetti giovani senzafuturo, non può muoversi non solo per la crisi, ma perché parte dal livello massimo raggiunto dalle generazioni precedenti. E certo che non si muove: per muoversi davvero dovrebbe forare il cielo. Bisogna mettere un cielo-tetto alla crescita. Non si può continuare così, a dismisura. Chiaro. È come per i pesci: i tonni devono smettere di mangiare troppe acciughe, se no finiscono. Sono costretti ad accontentarsi. Gli Stati uguale. Ogni Stato deve imparare a dire: bene, io sono partito di qui e arrivo fin qui, grazie, mi basta, gli altri arrivino dove possono arrivare, essendo partiti da dove son partiti. Certo che se partono da più in basso fanno più strada. Se io parto dall’arrivo, sono già arrivato, e quindi di strada non ne faccio neanche mezzo metro. Ovvio. Per una persona come per uno Stato. Che poi, a ben vedere, gli Stati sono abbastanza uguali alle persone. Se uno è già arrivato, dove deve ancora andare? Magari si ferma un po’. Magari gli viene quella voglia di smettere di correre… Arrivare, il segreto sta tutto nel significato etimologico di questo verbo: se uno ha già toccato la riva, ovvio che poi sta fermo. Sono gli altri che navigano ancora a vele spiegate. È una verità così evidente… Fil se li vede come in una gara di corsa campestre, gli Stati Arrivati, chiamiamoli così. Compresa la vecchia Europa. Belli seduti in cerchio ai bordi della pista, lì dove comincia il prato, esausti, sudati, ognuno con la pettorina numerata un po' sgualcita; sotto lo striscione del traguardo, all’ombra, dopo la gara, a strimpellare una canzone, bersi un’aranciata, sbocconcellarsi un panino, o anche appisolarsi, se quello è in quel momento il loro massimo piacere, aspettando con fiducia che gli altri Stati del mondo a poco a poco arrivino, e si siedano anche loro lì al fresco, in modo che alla fine tutti diventino Stati Arrivati e si crei un colossale ammucchio, una specie di globale Déjeuner sul l’herbe collettivo, planetario. È una visione un po’ semplice, certo, per un economista. Anche piuttosto... immaginifica, d’accordo. Surrealista, astratta. Fil se ne rende conto, non è così ingenuo. Ma vorrebbe davvero che la crisi dei Paesi ricchi non fosse considerata una tragedia. È solo un arrivo, secondo lui. Certo non gli sfugge che essere arrivati ponga qualche non piccolo problema: l’arresto della crescita in un Paese, comunque lo si voglia chiamare (decrescita, arrivo, stagnazione o picnic sull’erba), è un guaio. E non perché si smetta di arricchirsi, ma perché se la torta non cresce più, la gente comincia a strapparsi di mano le ultime fette rimaste. Invidia sociale, odio di classe, violenza. Il problema sta tutto lì, Fil lo vede con chiarezza: far vivere tutti bene, nonostante una crescita zero. È una sfida nuova: non solo far crescere i Paesi emergenti, ma far sopravvivere i Paesi già emersi, non farli sprofondare. Forse si può cercare di farli avanzare in qualche altro modo, o far sì che accettino di non avanzare più, continuando però a stare bene a galla. Non c’entra la decrescita. L’idea è di prevedere uno «stato sereno di non avanzamento»: come continuare a essere degli Stati Arrivati, insomma, come far proseguire quella condizione di arrivo, renderla in un certo senso perpetua… Perpetuare l’Arrivo, ecco. Un fermo immagine fisso sull’atleta che taglia il filo del traguardo, che non torna indietro e nemmeno si mette in un angolo, a riposare. Sopravvivere alla propria ricchezza. Rimanere abbastanza ricchi senza più smaniare e sgomitare, anzi, aspettando gli altri, magari aiutandoli. Si tratta d’inventare una nuova vita, niente meno! Prevedere un altro tipo di progresso, in questa era di post-progresso. Forse, non porselo nemmeno, il problema di un progresso. A tutto questo arriva Filippo Cantirami, sul finire di quel 2011: all’idea 8 di un tetto, all’immagine rilassante e utopicamente equa di un «cielo economico» che abiti stabilmente sopra di noi e ci faccia un po' da tetto, protezione e limite allo stesso tempo, sotto il quale provare a vivere, e a progredire, in modo nuovo. Che poi a questo pensiero arrivi leggendo nuovi economisti o i classici che nessuno legge più, o guardando pascolare pecore, o pensando ai tonni e alle acciughe, o consultando i dati dell’archivio britannico, importa poco. Ci arriva, e proprio nel momento in cui Jeremy sta per finire il dottorato a Stanford al posto suo, e tutti pensano che lui sia lì, e invece lui se ne sta sui prati intorno a Oxford, dove nessuno sa chi è e che cosa fa, e studia, e pensa, e prende placidamente appunti per quella sua nuova teoria economica, che di lì a qualche anno sarà nota come Ceiling Theory.» (Mastrocola Paola 2013 Non so niente di te, Einaudi, Torino 2013, 291- 293) Per il tema un indiscusso classico contemporaneo: Ivan Illich. Il testo: Illich Ivan 1973 La convivialità, red!, 2005. Dalla quarta di copertina. «LA CONVIVIALITÀ Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo. In questo libro Illich sostiene che lo strumento industriale ha oggi superato in molti casi quella soglia critica oltre la quale diviene controproduttivo; si allontana cioè da quegli scopi per cui era stato progettato e genera impotenza. Per esempio, la diffusione dei mezzi di trasporto riduce la velocita degli spostamenti; l’iperproduttività produce crisi economiche. L’alternativa a questo stato delle cose e rappresentata da quella che Illich chiama «società conviviale». Lo strumento conviviale permette un controllo personale e diretto, genera efficienza senza ridurre l’autonomia, non crea rapporti di dipendenza ed estende il raggio d'azione individuale.» «La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l’uomo è rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. L’affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l’azione. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell’uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale. […] Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile, e l’idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli e servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al mito del buon selvaggio. Ma se vogliamo ampliare il nostro angolo di visuale, adeguandolo alle dimensioni della realtà, dobbiamo ammettere che non esiste un unico modo di utilizzare le scoperte scientifiche, ma per lo meno due, tra loro antinomici. C’è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l’uomo diviene l’accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Ma c’è un secondo modo di mettere a frutto l’invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio d’iniziativa e di produttività agli altri. […] Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni.» (Illich 1973 La convivialità, 13, 14-15) Osserva operativamente Umberto Galimberti: « Ma là dove l’efficienza rappresenta di per sé una ragione sufficiente per l’agire umano, l’inefficienza diventa uno dei modi per sabotare la tirannia dell’efficienza, una sorta di “etica” adottata per protestare contro lo smarrimento di senso e di fini (causa finale), contro lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali (causa materiale), contro l’abolizione dell’etica e dell’estetica in ogni processo di produzione e consumo (causa formale). Pensare esclusivamente in termini di “costi e benefici” secondo il principio che prescrive di ottenere il massimo dando il minimo “non è giusto,” scrive Hillman, “non è etico, è antisociale, è abusivo, forse è il male”. […] Tutti i numeri in ascesa, che ogni forma di potere ostenta con spirito 9 ottimistico, nascondono quell’aspetto oscuro che manda segnali di declino, quando non di pericolo, fino a quel limite che è l’estinzione. A questo punto “la crescita assume una coloritura cancerosa”, come accade al nostro organismo quando le cellule si moltiplicano oltremisura. È allora che la crescita, questo ideale ottocentesco così radicato nel nostro inconscio, acquista un significato sinistro, “vuoi che a crescere sia il debito pubblico, oppure la popolazione, i disoccupati, le dimensioni della città, l’inquinamento dell’aria, l’aliquota di imposta, il costo della vita, il tasso di colesterolo, e persino i numeri quando saliamo sulla bilancia del nostro bagno”. Oltre un certo livello, “crescere” è dunque sintomo di problemi, quando non addirittura di declino. La psicologia evolutiva, che per Hillman “proviene dagli armadi vittoriani del darwinismo sociale, non si accorge quanto sia cambiato il valore dell’idea di sviluppo …» (Galimberti Umberto 2009 I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 116-118] 1.1.2.3. Beck Ulrich, La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003 2. Le metafore della politica (antica, moderna, contemporanea) Si sa che non tutto si presta come metafora adatta (l’aquila è un exemplum assai più adatto della gallina per designare la sfera delle cariche e delle funzioni del potere) e il contesto debitamente costruito gioca una parte centrale. «Nella maggior parte delle cariche cittadine si avvicendano chi comanda e chi è comandato (infatti si ritiene che tutti i cittadini siano uguali per natura e che non ci sia alcuna differenza), ma tuttavia quando alcuni comandano e altri obbediscono, si cerca di introdurre una differenza e nella figura esteriore e nel linguaggio e nei titoli di onore, come diceva Amasi parlando del catino per i piedi.» (Aristotele, Politica 1259b4-9) Narra Erodoto (II, 172) che il re egiziano Amasi aveva difficoltà a farsi apprezzare dai sudditi, perché era di umili origini. Egli allora prese un bacile d’oro, che lui stesso e i suoi convitati usavano per lavarsi i piedi, lo fece a pezzi e ne ricavò la statua di una divinità, che fu onorata da tutti. Allora disse ai sudditi che quella statua era stata un bacile nel quale un tempo si era urinato e vomitato e ci si era lavati i piedi; eppure ora quello stesso materiale era venerato. La stessa cosa era accaduta a lui, che era stato un popolano; ma ora, come re, doveva essere onorato. 2.1. Il ruolo della metafora/immagine nella concettualizzazione e nella programmazione, e il ruolo del mito come sede operativa prima della metafora «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore» Aristotele, Retorica, 1410b15. «Per proseguire veloci conservando la precisione, niente è più essenziale di un mito.» (Latour Bruno 1999 Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina editore, Milano 2000, p.2) «… ogni metafora «agisce direttamente sui sensi e soprattutto su quello della vista, che è il più acuto [...]; le metafore che si riferiscono alla vista sono molto più efficaci perché pongono al cospetto dell’animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere». La metafora, se particolarmente forte, finisce per trasformarsi in un dispositivo di autorità e diventare una sorta di dogma a cui tutti fanno fede.» (Aime Marco 2013 Cultura, Bollati Boringhieri, Torino, 75) «Una metafora, possiamo tradurre così la domanda iniziale, genera realtà, non svanisce nel grande mare dell’espediente letterario, si costituisce come strumento, ma anche come nuovo oggetto, come tema, come questione. Se però un metafora crea un orizzonte di senso che prima non c’era, se oltre a cercare soluzioni genera nuove domande, ciò significa che può organizzarsi in tradizione, che si rende disponibile ai vari autori e dunque in un certo senso produce una questione che non è più eludibile. Al di là del significato puntuale che essa assume nel singolo autore, che è il momento di partenza dell’analisi e che ne rivela in pieno le potenzialità, essa va vista nel flusso storico in cui è immersa e che contribuisce a determinare e connotare.» (Briguglia Gianluca 2006 Il corpo vivente dello Stato, Bruno Mondadori, Milano p. 9) 10 2.1.1. … e ricorda in contesto psicanalitico: «L’azione morfogena dell’immagine […] La ripresa della funzione costitutiva del narcisismo nell’analisi freudiana dell’Io come formazione immaginaria orienta il primo ritorno di Lacan a Freud. La meditazione sul narcisismo costituisce infatti il nerbo della sua teorizzazione del registro dell'Immaginario. Al centro è l’incidenza dell’immagine nella costituzione del soggetto, è quello che egli denomina come l’azione “morfogena dell’immagine”. Si tratta, in altri termini, di ripensare tutta la problematica freudiana dell’identificazione come un “nuovo oggetto psichico”, di mostrare come l’azione identificatoria dell’immagine operi una vera e propria plasmazione del soggetto. Per Freud, infatti, l’identificazione non indica né l’effetto di un semplice condizionamento esterno, né un rapporto di imitazione in esteriorità del soggetto nei confronti di un’immagine situata come ideale. Secondo Lacan la grande novità del concetto freudiano di identificazione consiste nel suo configurarsi come il luogo di una inedita causalità psichica inconscia. L’inconscio appare come potenza causale dell’identificazione, strutturato come una serie di identificazioni. Per questa ragione l’azione morfogena dell’Imago viene eletta da Lacan alla dignità dell’oggetto specifico della teoria psicoanalitica in quanto tale, così come Galileo ha potuto fondare scientificamente la fisica sul “punto materiale inerte”. (Recalcati Massimo 2012 Jacques Lacan. Volume I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffello Cortina editore, Milano. 13) 2.1.2. … in generale, dal punto di vista storico, nelle relazioni politiche l’immagine svolge oggi il ruolo che un tempo era dell’ideologia. Semplifica, orienta, chiarisce, fa appello alle emozioni, convince o intellettivamente o emotivamente (demagogicamente); ha la stessa ambivalenza della retorica. È in opera, anche nell’immagine, la doppia deformazione possibile dei termini e la doppia astuzia: la complicazione (la solennità, il fasto, la ridondanza, strumenti inutili e retorici allo scopo di nascondere, disorientare e quindi pilotare politicamente), la semplificazione (sbrigativa, populista, a nascondere la complessità di un problema in un luogo comune condiviso e spiccio). 2.1.3. … in generale, dal punto di vista trascendentale, relativo al ruolo della immaginazione nel processo conoscitivo: «L’oggetto fenomenico non viene più immediatamente costituito con le categorie dell’intuizione e dell’intelletto, bensì attraverso un’operazione trascendentale riconoscibile nella sfera della sensibilità stessa: con la creazione di simboli ordinati sistematicamente, conferenti oggettività alle impressioni sensoriali. L’intelletto non può compiere da solo la sintesi dei fenomeni; ci vogliono i simboli per far sì che, nel dato, traspaia la traccia di un non-dato. Al soggetto conoscente il dato di fatto intramondano è presente solo nella misura in cui trae da se stesso forme capaci di rappresentare una realtà inaccessibile all’intuizione sensibile. È in quanto rappresentata che la realtà diventa fenomeno. La rappresentazione è la funzione fondamentale della coscienza trascendentale; e la sua opera non è decifrabile che indirettamente, in base alle relazioni grammaticali delle forme simboliche. La filosofia delle forme simboliche, nella quale si risolve la critica della ragion pura, intende tutto ciò nel senso di una analisi logica del linguaggio impostata in maniera trascendentale. […] Per mezzo dei mondi immaginari, che si articolano nelle forme simboliche, «noi scorgiamo e in essi possediamo ciò che chiamiamo la realtà» (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, 1961, vol I, p.48).[…] Benché i simboli, in quanto segni fisici, entrino a far parte della sfera del sensibile, essi non vanno equiparati ai fenomeni empirici coi quali hanno che fare le scienze della natura. Essi sono piuttosto la condizione trascendentale affinché possa manifestarsi a dei soggetti un mondo in generale.» (Habermas Jürgen 1967 Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1970, 11-14) 2.2. metafore in politica: per la politica, per i politici 2.2.1. per i politici: «L’ascesa al potere e la conferma nel ruolo dipendono anche dalla costruzione dell'immagine. È l'elaborazione di un personaggio. È una narrazione che a un certo punto si condensa intorno a un nucleo e si fa messaggio. Pensiamo alla campagna elettorale nei Paesi dove la scelta del leader avviene democraticamente.» E quando uno sguardo, una posa, un dettaglio ripresi e ripetuti in fotografia (o altro) rivelano aspetti inquietanti o agghiaccianti là dove si voleva trasmettere sicurezza e familiarità: « È lo squarcio nel velo dipinto. È la rivincita dell' occhio 11 meccanico guidato da quello umano. La fotografia racconta l’inespresso, la rappresentazione smaschera la volontà. Anche se il soggetto non guarda. Nel gennaio 1998 ero a Cuba e seguivo l'incontro tra il Papa e Fidel Castro. Fu pubblicata una foto che mi sembrò più forte di ogni altra: i due, di spalle, camminavano in un corridoio scuro, verso una luce al fondo, sorreggendosi. Scrissi che era l' immagine di due poteri condannati a durare fino alla morte, del sostegno reciproco che si davano per perpetuare un dominio. In conseguenza di quelle parole mi fu negato un successivo visto d’ingresso a Cuba: persona non grata. Lo stesso non accadde per il fotografo. Il potere, spesso, è così: non si accorge di che cosa lo mette veramente a nudo. Si dedica alla costruzione del proprio mito riproponendo collaudate tecniche di persuasione, propaga per immagini valori non più condivisi. Finisce per smarrirsi in un gioco di specchi riflessi frantumati da uno sguardo colmo di disincanto. E nessuno che abbia colto l’insegnamento più raffinato dell’Islam: il profeta non appare.» (Gabriele Romagnoli, Volti del potere, la Repubblica 3.07.2011) 2.2.1.1. … per gli effetti di massa, Gustave Le Bon, in Psicologia delle folle, scrive: «Le folle si lasciano impressionare soprattutto dalle immagini. Qualora non siano disponibili potranno essere suscitate con un sapiente impiego di parole e formule... queste infatti provocano nell' animo delle moltitudini le più formidabili tempeste. … il potere di una parola non dipende dal suo significato ma dall'immagine che suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere». «Governare è far credere» Niccolò Machiavelli, Il Principe 2.2.2. per la politica: gli antichi miti, come miti archetipi (archetipici) «il potere dei miti sulle idee» «Il valore del pensiero archetipico non consiste nel dare una sicura identificazione ai problemi. Il suo scopo è piuttosto quello di aprire la mente alla riflessione psicologica sulle posizioni e i progetti della mente. E anche se pensiamo che i miti sono ormai da lungo tempo dimenticati, e che gli Dei e le Dee sono morti, in realtà essi risorgono nelle passioni dell’anima. L’ipotesi che il nostro temperamento sia tracciato sulle linee di una griglia mitica è un’idea che merita maggiore spazio… » (Hillman James 1995 Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente, Garzanti, Milano 1996, 165, 82) «… nella consapevolezza che molto di quel materiale mnestico che costituisce il corpo dell’iceberg della cosiddetta «civiltà occidentale» torna ad acquistare una propria incandescenza. O, per usare un termine più sobrio, una sua problematicità attiva. » (Revelli Marco 2012 I demoni del potere, Laterza, Roma-Bari, XIII) «Quanto più la storia contemporanea accelera i propri ritmi, emancipandosi dal passato e rimuovendolo, tanto più questo, ad un tratto, sfonda la parete del presente per riapparirci in forma spettrale — come un fantasma della violenza senza limiti da cui proveniamo e che, nonostante tutti i salti di civiltà, non ci siamo mai del tutto lasciata alle spalle. Nel saggio di Revelli [I demoni del potere, Laterza, 2012], essa assume il volto, minaccioso e sinistro, di due miti fondativi, quello della Medusa, poi sconfitta da Perseo e quello delle Sirene, ingannato da Ulisse — forse mai indagati con una pari capacità di coglierne gli echi attualissimi. Sia il volto accecante della Gorgone sia il corpo ammaliante delle Sirene costituiscono una rappresentazione icastica dei demoni che non soltanto bussano alla nostra porta, ma nascono dentro di noi, come l'ombra lunga che sottende la nostra esperienza quotidiana.» (Esposito Roberto 2012 Civiltà barbarica. Perché l’Occidente non controlla più il lato selvaggio del potere, la Repubblica, 05.10.2012) 2.3. in ipotesi: la sequenza storica delle metafore programmatiche nel campo del pensiero e dei modelli politici, immagini mitiche. 2.3.1. volti antichi, classici e mitici: la Gorgone (Medusa) e le Sirene e i processi. In mappa: I demoni La difesa Il processo L’esito civile Gorgone Perseo – lo specchio Il diritto e la polis Nomos Sirene Ulisse – i vincoli La narrazione comunicativa Logos «Entrambe situate sul confine tra uomo e animale, entrambe simboli di un potere che schiaccia gli uomini sulla dimensione della cosa, la Medusa e le Sirene differiscono per lo strumento omicida che 12 usano — lo sguardo la prima e la voce le seconde. Se la Medusa pietrifica chi la guarda, proiettando sul suo viso l’immobilità della propria maschera, le Sirene prosciugano la soggettività di chi le ascolta, dissolvendola nel loro canto di morte. Eppure, in questa simmetria, già traspare una prima, significativa, differenza. Piuttosto che la violenza bruta della Gorgone, le Sirene esercitano un potere più sottile e seducente. Esse non pongono direttamente le mani insanguinate sulla vittima, ma la attirano da lontano nel gorgo. Proprio per questo Ulisse può sfuggire alla loro presa con un artificio tecnico, facendosi legare all’albero della nave senza perdere le note letali del loro canto. Come già per la Medusa, Revelli ripercorre le grandi interpretazioni del mito — da Adorno e Horkheimer, a Blanchot, a Kafka — cogliendone il nucleo di senso. Accettando, e vincendo, la sfida con le sirene, Ulisse fa della loro presenza mitica un racconto, traversando la soglia epocale che conduce dall’universo muto e barbarico del mito al mondo aperto e narrabile della storia. In questa prospettiva l'autore introduce un parallelo tra l’origine del racconto e quella del diritto, Del resto il processo di civilizzazione, coincidente con l’istituzione della polis, nasce nel doppio segno del Logos e del Nomos, della Parola e della Legge.» (Esposito Roberto 2012 Civiltà barbarica. Perché l’Occidente non controlla più il lato selvaggio del potere,la Repubblica, 05.10.2012) 2.3.1.1. La Gorgone. «Il volto di Medusa. Ovvero il potere e lo sguardo» «Hans Kelsen, in un testo del 1926, a un certo punto lascia cadere un’espressione inattesa per chi lo conosce soprattutto per il suo razionalismo giuridico rigorosissimo. Quasi gettando per un attimo lo sguardo oltre il confine ben presidiato del suo normativismo assoluto, nella zona tellurica dei nudi fatti, introduce un’espressione orrifica: «il volto di Gorgone del Potere». Vorrei prendere lo spunto da questa particolarmente brutale metafora del potere, perché ci introduce immediatamente in medias res. Val la pena di rileggere per intero la frase di Kelsen, il quale sta parlando specificamente della differenza tra approccio giusnaturalistico e positivismo giuridico e, nell’ambito di questo, della particolarità della sua «dottrina pura del diritto». Scrive appunto Kelsen: «La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di che cosa si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova, temo, non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia di un diritto naturale. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del Potere». La frase è diventata celebre. Ma pochi si sono posti a fondo la domanda: perché la Gorgone? Perché, tra le tante possibili, proprio questa metafora mitologica, per rappresentare la dimensione demoniaca che caratterizza il potere allo «stato naturale»? Il potere «nudo», senza veli, il «volto demoniaco del potere», per dirla con Gerard Ritter? Certo, è possibile che con essa Kelsen intendesse riferirsi, genericamente, al carattere selvaggio, belluino, del potere ridotto alla dimensione della pura forza, spogliato dell’involucro «civile» del consenso e della legge. Che il richiamo alla Gorgone implicasse un semplice riferimento al «mostruoso». Ma in realtà il simbolismo della Gorgone va molto al di là di questo livello superficiale. È più complesso. Per certi aspetti più inquietante, se interpretato più che come metafora come «allegoria» del potere.» (Revelli Marco 2012 I demoni del potere, Laterza, RomaBari, 3-4) Come se si vuole sollevare il velo dei fenomeni e della loro (umana e pietosa) composizione in forme razionali per vedere cosa c’è oltre, non troviamo un’essenza metafisica, tanto meno un ordine (a meno di dar realtà alle nostre costruzioni mentali e teoriche) ma un vuoto (un inconoscibile come indica Kant con la nozione di noumeno [per l’opportunità è forse utile richiamare l’ambiguità di quell’oltre che Kant prefigura o richiama: 1. fonte di smarrimento e denso di pericoli, quando ne parla nella Critica della Ragion pura: «…un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo.» (Kant, Critica della ragion pura, 243); 2. luogo ed esperienza del sublime, del sublime naturale, quando richiama quella situazione nella Critica del giudizio: «Lo stupore che 13 confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo; sono soltanto una prova ad abbandonarvisi con la nostra immaginazione, per sentire il suo potere di collegare l’emozione suscitata da tali spettacoli con la serenità dell’animo, e di essere superiore alla natura in noi stessi, e quindi anche a quella fuori di noi, in quanto può avere influenza sul sentimento del nostro benessere.» (Kant, Critica del Giudizio 122)], o caos e dolore (come accade alla Volontà di vita presentata da Schopenhauer), o macerie (come lo spettacolo che appare agli occhi dell’Angelus Novus di Benjamin), così «Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del Potere». È qui anche la fine (o l’assenza) della funzione del concetto di stato di natura formulato dal pensiero politico moderno, sia giusnaturalistico che contrattualistico. Mascheramento e pietrificazione, i due attributi della Gorgone-Medusa. «Dietro l’allegoria della Gorgone, dunque, sta la constatazione di una connotazione originaria patologica del potere nella sua forma elementare. Di una sua intrinseca minacciosità, pericolosità — diciamolo pure — mostruosità. Il suo collocarsi sul confine del disumano; e la sua tendenziale vocazione a provocare la disumanizzazione di chi vi entra in relazione, sia esso chi lo esercita o chi lo subisce; il titolare o il destinatario di esso.» (Revelli 2012 I demoni del potere, 9) 2.3.1.1.1. Perseo e lo specchio. «Lo specchio di Perseo. Perseo è celebrato come fondatore di città («i micenei lo ricordarono come il loro Eroe fondatore»). Soprattutto come «uccisore di mostri». Ma egli è anche l’uomo degli «artifici». L’Eroe che più di ogni altro ha utilizzato una strumentazione, diciamo così, «tecnica» (o «magica», che in questo contesto è sinonimo) nelle proprie imprese: calzari alati offerti da Hermes, la «cappa di Ades» che rendeva invisibili, la kibisis magica in cui riporre la testa mozzata della Gorgone, oltre naturalmente al «lucido scudo di Atena». Nell’immaginario degli antichi egli è colui che «doma» le potenze infere, la naturalità selvaggia degli elementi e delle passioni, riaffermando una ragionevole idea di ordine della Polis (non per nulla una delle ultime sue battaglie fu contro Dioniso e le sue milizie femminili, le Aliee). In Ovidio egli è rappresentato addirittura nel gesto delicato del prendersi cura dei fragili resti della Gorgone, del suo capo mozzo e mostruoso adagiato su un letto di foglie, perché la «ruvida sabbia» non abbia a rovinarlo impedendone l’uso postumo. Nella rappresentazione moderna Perseo incarna in qualche misura il ruolo, multiforme e cangiante, di ciò che «redime». Italo Calvino lo evoca nelle sue Lezioni americane come espressione di leggerezza, capace di «redimere» l’esistenza dalla «pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo»: «L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra». (Revelli 2012 I demoni del potere, 16); e cita Georges Didi-Huberman: «Perseo affronta malgrado tutto la Gorgone, e questo malgrado tutto – questa possibilità di fatto, a dispetto di una impossibilità di principio – si chiama immagine: lo scudo, il riflesso non sono soltanto la sua protezione, ma anche l’arma l’astuzia, il mezzo tecnico di cui egli dispone per decapitare il mostro». È esso, nel suo carattere di «artificium», a spezzare l’opaca ineluttabilità del destino («l’impotente fatalità dell’inizio») per introdurre e rendere possibile, come fattore di «redenzione», l’effetto liberatorio della risposta etica: «ebbene, affronterò comunque la Medusa, guardandola altrimenti». ». (Revelli 2012 I demoni del potere, 18) 2.3.1.1.2. Perseo e lo scudo del diritto. «Nel dispositivo giuridico-politico moderno, infatti, incentrato sulla dialettica tra Contratto e Legge, tra Consenso e Norma, e sul passaggio complesso ma tendenzialmente compiuto al «governo delle leggi», la dimensione originaria, naturale e selvaggia, del Potere non viene del tutto cancellata, ma scivola, per così dire, «sullo sfondo» (appare, appunto, come «riflessa») rispetto al «primo piano» occupato dalle «forme» e dagli «apparati» che ne esercitano la gestione e il controllo. Il moderno racconto sull’«Ordine» subisce, per così dire, un’apostrophé, uno «scarto laterale» spostando lo sguardo dall’ambito «disumano» 14 della violenza pura, primigenia e infera, come espressione di potere fine a se stesso, a quello della costruzione tutta «umana» di un ordine consapevolmente voluto attraverso l’elaborazione delle istituzioni ad esso preposte: della machina machinarum, appunto, che non rinuncia all’esercizio della Gewalt (della Forza-Violenza) ma la retrocede allo status di «mezzo» rispetto ai propri fini specificamente ed esplicitamente «umani» (l’extrema ratio al servizio e a garanzia della regola che recita: pacta sunt servanda; la minacciata possibilità della sanzione in caso di violazione della Norma). La incorpora al proprio «paradigma» in una posizione «strumentale», o, se si preferisce, per proseguire il parallelo col discorso sull’impresa di Perseo, in forma di immagine riflessa, e, per questa via, la «redime». Retrocedendola da fine-in-sé a «mezzo», strumento tecnico, assegnandole un carattere «strumentale», la asserve e, insieme, la «umanizza» (la pone al servizio di una funzione «umana»). La «umanizza asservendola», o la «asserve strumentalizzandola», esattamente come, nel testo di Kracauer, la rappresentazione di Medusa riflessa sullo scudo, sottraendo la violenza (orrifica) della Gorgone alla sua primordiale «purezza» (alla sua assenza di fini, al suo carattere esclusivamente «espressivo») e ri-assegnandole un carattere di «mezzo», finiva per «umanizzarla» (riportarla su un piede di parità rispetto all’uomo, renderle una natura paritariamente umana) e insieme per asservirla ad uno scopo a sua volta «umano» (l’impresa dell’eroe, la capacità di guardare e quindi di «capire» dello spettatore), redimendola. Non dimentichiamo che nel mito il potere della testa della Gorgone non finisce con la morte di Medusa, ma continua a esercitare la propria minacciosa funzione come arma, come «strumento», nelle mani dell’eroe (mostrando quell’orribile reperto Perseo pietrificherà di volta in volta Atlante, poi Fineo, fratello di Cefeo che voleva negargli Andromeda, poi Polidette che lo derideva e infine Preto… […] Nell’ordinamento normativo razionalmente elaborato come condizione e forma dell’ordine, in sostanza, si anniderebbe la «métis del riflesso» che permette, appunto, di «domare» la potenza infera della violenza utilizzando la sua stessa immagine; di eliminare il terrore reale insito nella belluina bellicosità dello «stato di natura» attraverso la minaccia del terrore potenziale utilizzato come instrumentum juris. […] Cosicché mentre il diritto, per un verso, si pone come limite della forza, per altro verso, e contemporaneamente, ne costituisce la giustificazione. Mentre la controlla, la legittima. » (Revelli 2012 I demoni del potere, 19-21) Sotto protezione e per interposto artificio dell’immagine, può sopportare vincere, sottomettere e gestire il volto della Gorgone, trasformandone la testa mozzata in strumento politico di controllo e vittoria su molti nemici, così solo attraverso il diritto (il velo del diritto, alla Kelsen) può sopportare e gestire il peso della violenza, trasformandola in strumento politico di ordine. Resta l’ambivalenza insuperata (e insormontabile?) del «ruolo esplicitamente «sovrano» dell’ordinamento giuridico internazionale, assurto a potenziale principio di ordine» (cfr. Kelsen) e dei «sintomi di una crescente difficoltà del dispositivo giuridico-politico a controllare la potenza distruttiva dei propri stessi mezzi coercitivi». (Revelli 2012 I demoni del potere, 24) 2.3.1.2. Le Sirene. Il canto delle Sirene. (Ovvero: il potere e la voce, la parola, il canto). «Nel repertorio primordiale dei «demoni del potere», tra le figure teriomorfe, subito dopo la Gorgone vengono le Sirene. Esse fanno irruzione nell’universo culturale novecentesco quasi contemporaneamente al richiamo kelseniano al «volto di Gorgone del potere», sempre in area tedesca, introdotte da due autori da Kelsen assai lontani, apparentemente agli antipodi. Horkheimer e Adorno le pongono al centro del capitolo introduttivo della loro Dialettica dell’Illuminismo, a simboleggiare la fine della preistoria (l’esaurimento del Mito) e il passaggio al tempo della ragione (al mondo del Logos). A segnare cioè il confine varcato nel trapasso all’«ordine patriarcale». […] Questa è dunque la promessa irresistibile fatta a Odisseo: il racconto di «tutto ciò che i Greci e i Troiani hanno sofferto intorno a Troia»; il canto delle vicende di un passato non ancora trapassato, che d’altra parte egli conosce perfettamente per averle vissute direttamente da protagonista. La trasposizione poetica (in forma appunto di «canto») di un passato noto di cui godere, in cui riconoscersi e, nel contempo, arrestarsi. Dunque, morire.» (Revelli 2012 I demoni del potere, 25,29) Che forza di attrazione può avere il sentirsi raccontare ciò che già si conosce per averlo vissuto di persona? Si tratta di passare a un canto della narrazione che diventa memoria epica, trapasso nel 15 tempo delle generazioni e possibilità così di sfuggire alla morte, alla morte della dimenticanza; è entrare nella gloria (kléos, gloria, fama). «L’eroe — scrive Hartog [François Hartog 1996 Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 2002] — accetta di morire in combattimento, di oltrepassare le porte dell’Ade e dell’oblio, pur di ottenere in cambio il kleos, pur di continuare a vivere nel canto degli aedi e nella memoria sociale del gruppo». Ora il canto delle Sirene contiene, nel proprio intimo, l’irresistibile promessa della rivelazione («precoce») del kleos. Ascoltandolo, «come se ascoltasse un poeta cantarlo dopo la morte», all’eroe è offerto l’assoluto privilegio di accedere, ancora vivente, al proprio kleos: di conoscere da vivo ciò che agli altri è permesso solo da morti. Si tratta — lo sappiamo — di una promessa fallace: le Sirene non sono le Muse che «grazie al canto degli aedi, conferiscono agli eroi morti una vita imperitura». Sono «muse di morte», l’unica eternità che offrono è quella del nulla. Ascoltandole, l’eroe perderà kleos e nostos [il ritorno tra i suoi]. Le sue ossa resteranno a imbiancare il prato solitario, senza nome, né storia, né gloria ricordata.» (Revelli 2012 I demoni del potere, 32-33) [Il canto delle Sirene, o il kleos in vita, per riscontrarlo come fatto politico, può essere messo in relazione alla tendenza e dedizione dello Stato a costruire in vita, quando si è al governo, la propria gloria, con celebrazioni e convegni. Ma è una gloria di morte, destinata a celebrare con menzogna una storia che ancora non può essere raccontata e che cadrà nella dimenticanza con l’estinguersi di quel governo, imploso nella sua narrazione, accaduto e finito nelle parole del suo autoracconto.] 2.3.1.2.1. L’astuzia di Ulisse (la sua metis) consiste nel non negarsi l’ascolto del canto e del suo incanto resistendo con decisione passiva e attiva (farsi legare) ai suoi effetti mortiferi. L’effetto è redentivo, da “katastrophé”. L’artificio di Ulisse provoca l’effetto di far uscire dal mito e far sorgere il racconto: Ulisse non accade nel canto delle Sirene ma è Ulisse che racconta; non è il canto delle Sirene a raccontare, fuori dal tempo, ma sono le Sirene ad essere raccontate nel tempo e nel viaggio di Ulisse. «… il racconto può cessare di essere «mitico», di condannare l’identità all’immobilità di un destino pietrificato e scritto una volta per tutte, per farsi (finalmente) «racconto storico»… È però soprattutto Blanchot [Maurice Blanchot, Le chant des Sirènes, in Id., Le livre à venir, Gallimard, Paris 2008] quello che per primo, esplicitamente, ricollega il mito delle Sirene, e l’astuzia di Ulisse, con la nascita del racconto.» (Revelli 2012 I demoni del potere, 42) 2.3.1.2.2. La politica come “storytelling”. O l’ambivalenza del racconto nel racconto politico. In termini più drammatici l’accadere delle storie nella comunicazione politica e la fine della storia (della possibilità di una narrazione responsabile). «A partire dagli anni Novanta, prima nel mondo delle imprese e poi in quello della politica, si è assistito alla diffusione di un nuovo paradigma del marketing e della comunicazione definito storytelling e sancito dal passaggio dalla brand image (immagine di marca) alla brand story (storia di marca). Improvvisamente il focus si spostava dal marchio alle narrazioni collegate al marchio, riscoprendo un metodo di consenso e di legittimazione antichissimo: «l’arte di raccontare storie è nata quasi in contemporanea con la comparsa dell’uomo sulla terra e ha costituito un importante strumento di condivisione dei valori sociali» [Salmon 2007]. Per Roland Barthes «il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti» [1969, 7]. Nella politica, d’altro canto, le ideologie politiche sono state sempre trasmesse di generazione in generazione, e dai leader ai cittadini, attraverso racconti [Westen 200]; trad. it. 2008, 139]. Come mai improvvisamente lo storyrelling è divenuto un approccio dominante nel marketing? Per due ordini di ragioni: da un lato un crescente successo nell’ambito delle scienze sociali, che ha fatto parlare di «svolta narrativa» e di «revival dello storytelling» [Salmon 2007]; dall’altro la necessità di trovare nuovi modi per catturare l’attenzione e conservare consumatori sempre più distratti e infedeli. [se ne fa ampio ricorso anche nella pubblicità e a illustrare uno specifico prodotto: vedi il mulino bianco e le illustrazioni dei suoi singoli prodotti… sono storie] Lo storytelling ha la funzione di mobilitare le emozioni attraverso la pratica di racconti condivisi, la capacità di coinvolgere il cittadino consumatore/elettore in una relazione durevole ed emozionale. 16 Vincent [2002] sottolinea come le campagne pubblicitarie diventino sequenze narrative, i consumatori audience, i loghi vengano sostituiti da personaggi. Un approccio non solo adatto alle campagne elettorali, ma che, secondo Cornog [2004], fa parte della storia delle elezioni presidenziali statunitensi da George Washington ai giorni nostri. Sin dalle origini della Repubblica americana i candidati hanno dovuto raccontare agli elettori delle storie convincenti sulla nazione, sui suoi problemi e, soprattutto, su se stessi.» (Cacciotto Marco 2011 Marketing politico. Come vincere le elezioni e governare, il Mulino, Bologna, 146) «‘Volete sapere come raddoppiare le vendite e quadruplicare il profitto?’ chiede Doug Stevenson, presidente delle Story Theater International, ‘Venderete molto di più utilizzando una success story, che descrivendo le caratteristiche e i vantaggi del vostro prodotto o servizio. Una storia, e il prodotto è venduto. La gente adora le storie’». Lo riferisce Christian Salmon, autore di un libro che ha fatto, a modo suo, epoca [Christian Salmon, Une machine à fabriquer des histoires (Una macchina inventa-storie, in il manifesto/Le monde diplomatique, novembre 2006), Christian Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi, Roma 2008]. E aggiunge: «Il successo dello storytelling non è rimasto confinato alle sole direzioni d’impresa e al marketing, in dieci anni si è imposto a tutte le istituzioni, tanto da apparire come il paradigma della rivoluzione culturale del capitalismo, una nuova norma narrativa che alimenta e vitalizza i più diversi settori di attività». […]… quando Ronald Reagan fu eletto Presidente degli Stati Uniti e inaugurò, oggi lo sappiamo, una nuova epoca. […] Era, in qualche misura, l’inizio dell’inarrestabile scivolamento della politica verso il marketing, anzi, della tendenziale identificazione tra politica e marketing, mentre il marketing a sua volta si spostava progressivamente dal prodotto al marchio, al logo, e, infine, alla story. […] Con lui compariranno, nel cuore del potere, gli spin doctors, gli specialisti nel «far girare» il racconto, nel girarlo e ribaltarlo a favore del committente, che poi con Bill Clinton occuperanno stabilmente la Casa Bianca per evolvere infine negli story doctors di George W. Bush, quando la story assumerà sempre più un carattere noir. E la narrative assorbirà, quasi senza residui, la politica, diventando la forma più evidente dell’esercizio del Potere. […] … quello che si materializza nell’ipermoderno storytelling non è il racconto redivivo, il «racconto salvato», è il racconto postumo. È il racconto dopo la morte del racconto… […] Lo storytelling percorre il cammino in senso inverso: incolla sulla realtà racconti artificiali, blocca scambi, satura lo spazio simbolico di sceneggiati e di stories. Non racconta l’esperienza del passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione». Lontana anni luce dai «percorsi del riconoscimento» di cui parlava Paul Ricoeur a proposito del récit, questa inedita «arte di raccontare storie» nasce con il fine esplicito di conformare i comportamenti collettivi all’immagine del mondo di chi controlla i flussi comunicativi. Di far precipitare i pezzi scomposti delle vite in frantumi dentro il calco predefinito di un’identità virtuale ricostruita altrove. In questo senso essa appare figlia di una doppia morte: morte della forma narrativa e, insieme, morte del soggetto narrato; estinzione del «racconto tradizionale», come si è visto, ma anche del protagonista «storico» di quel racconto. […] non sembra ricondurci puramente e semplicemente alla figura teriomorfa delle Sirene. Alla leggerezza del loro volo. Né alla consistenza soft del loro annientamento mnestico, pur avendo, questa nuova narrativa tecnicizzata, lo stesso potenziale di fascinazione del loro canto: la medesima capacità di abbattere le barriere protettive del sé, di cancellare le capacità di ascolto critico... Se un profilo emerge dietro quel canto postumo, esso sembrerebbe piuttosto quello di Medusa. La sua dura immobilità di maschera. La ferocia distruttiva delle cose che si ammantano di parole ma mantengono la loro inerte petrosità, la propria distanza abissale dall’umano. È la propria capacità di pietrificare. Il racconto che occupa la scena del mondo «dopo la fine del racconto», è, se vogliamo condurre fino in fondo l’allegoria, il canto della Gorgone fattosi, per una paradossale metamorfosi, Nomos della Terra.» (Revelli 2012 I demoni del potere, 63-72 passim) Insomma, ritorna la Gorgone, la mediazione del diritto non ha funzionato; quella violenza che era stata scongiurata ma non annullata, solo assorbita politicamente e affidata alle forme del diritto, sembra prendere il sopravvento e realizzarsi nella forma di uno stato in cui il potere totale è 17 diventato un diritto nella forma della persuasione narrata e della anarchia. Si capisce allora l’insistenza di Kelsen nel dare al diritto, e al diritto nella sua formalità, un tratto originario, dietro al quale non si può andare; non si può sollevare il velo del diritto, ne emergerebbe il volto della Gorgone; ma allora non è accettabile il contratto sociale di Hobbes che non annulla la violenza ma la consegna al Leviathan; il rischio è troppo alto perché quella violenza non torni rinnovata e magari potenziata nelle forme giuridiche di un potere che non deve dar conto di sé; un potere le cui narrazioni e la cui storytellig è costruzione senza passato, libera e arbitraria, della realtà momentanea, senza vincoli e con un inesorabile e progressivo annullamento della democrazia. [Appendice. Si apre qui il complesso tema della comunicazione politica, delle diverse forme storiche della sua costruzione tecnica e degli effetti politici sulla tenuta della democrazia. Per fare il punto sulla situazione alcuni riferimenti: Cacciotto Marco 2011 Marketing politico. Come vincere le elezioni e governare, il Mulino, Bologna; Cosenza Giovanna 2012 Spotpolitik. Perché la “casta” non sa comunicare, Laterza, Roma-Bari; Ricciardi Mario 2010 La comunicazione. Maestri e paradigmi, Laterza, Roma Bari] 2.3.2. volto moderno (classico e mitico): il Leviatano «La Modernità in politica, si può dire, nasce esattamente dalla rottura di questo rapporto con la Morale. Dallo sganciamento dell’ambito del Politico dal campo di controllo e di interferenza delle altre sfere; e dall’assunzione della dimensione tecnica (dell’adeguatezza dei mezzi ai fini) come unico criterio di giudizio sull’azione politica. Nasce, dunque, con l’affermazione di quella che è stata chiamata l’«autonomia della politica» (o «del Politico»): autonomia, appunto, del discorso del Potere dall’ordinamento morale corrente. Emancipazione della sfera del potere dalla sfera della Morale. […] Ma è soprattutto in Hobbes che il potere rivendica, anche nominalmente (e questa volta positivamente [nel senso del diritto positivo]), il proprio rapporto genetico con la dimensione del «mostruoso», senza ammettere limiti. Il Leviatano proviene dritto dritto dal Libro di Giobbe, il testo seminale sulla questione del male; ha il nome terrifico dell’«antagonista di Dio» in terra e la genesi tipica del «numinoso». Ma qui non è la sua qualifica di «antagonista» a contare, e neppure la sua origine «sacra» (almeno dal punto di vista letterario); è la sua connotazione in termini di Potenza. È l’affermazione che sta in quel versetto 41,24: Non est potestas super terram quae comparetur, la quale ne spiega l’assunzione come pilastro di un nuovo paradigma «autosufficiente». In cui il Politico si auto-fonda senza più mediazione con altre sfere valoriali. Ancora una metafora teriologica, dunque. Ancora il riferimento a un mostro «numinoso» per dare un corpo, una personificazione, al potere; ma ora neutralizzato, rispetto al potenziale di negatività implicito, non più dall’Etica bensì dalla Tecnica. Leviathan perde il proprio carattere selvaggio, ferino, infero, il proprio potenziale demoniaco, e può, per così dire, entrare «a servizio» degli uomini, anziché annientarli ciecamente, perché parte di un meccanismo. Anzi: perché meccanismo tout court. Machina machinarum, sottoposta al gioco di forze della fisica meccanica. Controllabile dal sapere ingegneristico: fattore di potenza «naturale» utilizzabile esattamente come lo sarà, di lì a poco, il vapore e l’energia elettrica. Natura selvaggia «messa al lavoro». Reificata. Medusa sottoposta essa stessa al potere pietrificante del proprio sguardo.» (Revelli Marco 2012 I demoni del potere, Laterza, Roma-Bari, 13, 14) Occorre ricordare la funzione del meccanicismo in Hobbes: si tratta di una funzione logica, non solo di incidenza e definizione nel campo della fisica; quindi determinante anche nella costruzione “meccanica” di un sistema politico di carattere assolutistico ma dotato di autocontrollo per l’atto di origine e per la motivazione, il fine, del suo esistere. Nella metafora assoluta presentata da Hobbes si fondono gli elementi del naturale-selvaggio, divinobiblico (Hobbes definisce lo Stato Dio terreno), tecnico-scientifico ai fini della autonomia del politico. 2.3.2.1. «Contro la violenza indifferenziata di Kratos— il volto bestiale e demoniaco del potere — le mura della città costituiscono una barriera protettiva che gli uomini si impegnano a non infrangere. Naturalmente ciò non vuol dire che la violenza scompaia. Essa viene assunta e incorporata dallo Stato, che si riserva di adoperarla solo contro coloro che dovessero contravvenire 18 al giuramento di ubbidienza al sovrano. L'immagine, non meno spaventosa, del Leviatano di Hobbes — un mostro marino, di origine biblica, protetto da una corazza fatta di scaglie umane — rappresenta questo passaggio dalla violenza scatenata alla violenza trattenuta e finalizzata al controllo sociale. La costruzione di quel ius publicum europaeum che per almeno quattro secoli ha garantito l’ordine all'interno degli organismi statali, ne costituisce l’esito insieme prezioso ed ambivalente. Prezioso perché ha consentito uno sviluppo senza precedenti alla civiltà occidentale. Ambivalente perché non solo è stato costruito al prezzo di infinite guerre che hanno rovesciato all’esterno degli Stati la violenza dominata al loro interno, ma soprattutto perché, nel cuore del Novecento, ha visto schizzare fuori dal suo fondale una violenza in camicia bruna più primitiva di quella mitica. È allora che, insieme alle trama del diritto, ha rischiato di spezzarsi anche quella della memoria storica, ripiegata su stessa in un incubo da cui è stato arduo risvegliarsi.» (Esposito Roberto 2012 Civiltà barbarica. Perché l’Occidente non controlla più il lato selvaggio del potere, la Repubblica, 05.10.2012) 2.3.2.2. La metafora del Leviatano conserva dunque aspetti inquietanti, incastonati nella ambivalenza dell’atto di nascita dello Stato Assoluto. Uno stato che ha il monopolio della forza e anche del diritto. Se è vero che il diritto costituisce il contesto di legittimazione dell’uso della forza è altrettanto vero che nella gestione ed emanazione del diritto il Leviatano non conosce superiori a sé; se è vero che la natura meccanica del potere politico (della macchina dello Stato) ne garantisce il funzionamento meccanico, cioè secondo regole e forme stabilite, la macchina resta pur sempre un prodotto umano, un risultato delle scienze poietiche. Una simile consapevolezza sta probabilmente all’origine dell’urgenza di proclamare sedi o momenti “politici” posti alle spalle dello Stato stesso: la natura come luogo dei diritti naturali, il contratto come atto di nascita dello Stato, la natura meccanica importata nello Stato stesso, la natura e il vincolo logico del diritto. In questa linea, a livello radicale e fondativo e nell’età contemporanea, si inserisce il progetto di Hans Kelsen di definire le linee per una teoria del diritto puro; diritto positivo, per la ribadita autonomia del potere politico, ma diritto puro, per l’urgenza di fondazione giuridica dello Stato secondo coordinate di giustizia; ciò proprio nel momento storico in cui si stanno formando i totalitarismi del ‘900 (Lineamenti di dottrina pura del diritto 1934). 2.3.3. volti / immagini contemporanee: Guernica, Rete, Telemaco «Mai come tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso i demoni del potere sono tornati ad affacciarsi, rendendo pietre, o polvere, decine di milioni di uomini. Che si sia trattato di una parentesi, richiusa una prima volta alla fine della guerra calda e una seconda alla fine di quella fredda, oppure dell'annuncio di qualcosa di ancora più devastante, resta per adesso incerto. Le pagine drammatiche scritte da Pasolini sul mutamento antropologico in atto non solo nel nostro Paese — come le immagini insostenibili di Salò-Sade — pongono forti dubbi sul nostro futuro. Ma ancora più problematica si presenta la condizione di quel mondo globale che ha sfondato le mura della politica moderna, aprendolo alla libera circolazione dei flussi demografici, tecnologici. Molti hanno puntato sulle sue potenzialità emancipative, prima che qualcosa di arcaico come i conflitti etnici e religiosi abbia prodotto uno sgradevole risveglio dalle prime illusioni.» (Esposito Roberto 2012 Civiltà barbarica. Perché l’Occidente non controlla più il lato selvaggio del potere, la Repubblica, 05.10.2012) «Che accadrà ora, nel punto storico in cui la solidità dei «luoghi» sembra vacillare e sciogliersi sotto la spinta travolgente dei «flussi»; e quelle linee di confine che avevano delimitato lo spazio del Logos e la signoria del Nomos farsi incerte e impermeabili? Avevamo tutti (o quasi) provato uno straordinario senso di sollievo, e di liberazione, al tempo del «crollo dei muri»: di quelli fisici (e politici), sotto la spinta delle rivoluzioni incruente di fine Novecento; e di quelli economici (e finanziari), per effetto di quella grande «rivoluzione spaziale» che è la globalizzazione. Avremmo dovuto sospettare che in quell’improvviso abbassamento delle mura della città, attraverso le brecce aperte nelle barriere che avevano circondato fino ad allora le nostre «sfere vitali», qualcosa sarebbe filtrato «dall’esterno» a decostruire la nostra domesticità faticosamente stabilizzata. E, simmetricamente, che qualcosa sarebbe fuoriuscito (si sarebbe «liberato») di quanto tra quelle mura 19 era stato posto sotto custodia, a cominciare da quella potenza assoluta — quella potestas superiorem non recognoscens, per dirla con i classici — che si chiama appunto «sovranità». E che costituisce l’alfa e l’omega della costruzione dell’ordine interno della civitas.» (Revelli Marco 2012 I demoni del potere, Laterza, Roma-Bari, X- XI) 2.3.3.1. La barbarie della civiltà. Guernica di Pablo Picasso (1937), un condensato di immaginisimboli e un evento artistico politico per «una violenza più primitiva di quella mitica»; la barbarie della civiltà, una barbarie raffinata, tecnicamente potente, senza controllo e senza limiti. «Nach Auschwitz». «Dopo Auschwitz» - dice a più riprese Adorno, nulla può restare come prima, esente dal contagio con l’orrore.» (Vercellone Federico 2008 Oltre la bellezza, il Mulino, Bologna, 132) L’opera di Picasso è vissuta come un simbolo, immagine del potere e del suo possibile volto anche molto tempo dopo la sua composizione e riceve conferma della sua forza dalla volontà esplicita di un suo occultamento strategico in una prassi di comunicazione politica che investe prioritariamente sul ruolo informativo e comunicativo dell’immagine. «La mattina del 5 febbraio 2003 nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il segretario di Stato Colin Powell mostra prove che si sarebbero rivelate false circa il possesso da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa. Poco prima della riunione qualcuno aveva provveduto a coprire con un telo blu l’arazzo che riproduce Guernica (l’opera di Picasso assurta a simbolo degli orrori della guerra), donato all’Onu da Nelson Rockefeller nel 1987. L’arazzo si trovava alle spalle del segretario di Stato ed era destinato perciò a essere ripreso dalle Tv di tutto il mondo durante il discorso di Powell. Si preferì oscurarlo nel timore che la sua visione rendesse i presenti più sensibili ai rischi della guerra, pregiudicando così l’esito dell’esposizione di Powell? È possibile, perché la menzogna politica ha bisogno di una scenografia che non contraddica il suo messaggio.» (Violante Luciano 2013 Politica e menzogna, Einaudi, Torino, p. 16-17) 2.3.3.1.1. Si tratta di una violenza sorda e spietata per la logica di normalità che la caratterizza; il principio di questa logica è infatti il “mito dell’efficienza. «Il mito dell’efficienza, che molti sembrano condividere applaudendo i leader politici che promettono di garantirla, fu sperimentato su larga scala come macchina di potere nei lager nazisti, dove il problema era di “sistemare” in ventiquattro ore i convogli dei deportati che quotidianamente arrivavano. […] la causa efficiente che — messe in ombra le altre cause che Aristotele chiamava “finale”, “formale”, “materiale” — diventa l’unica risposta alla domanda che chiede il perché di un determinato agire.» (Galimberti Umberto 2009 I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 115, 116) 2.3.3.2. Lo spazio senza limiti e senza gerarchie. La rete o la comunicazione universale nell’era dell’accesso; l’orizzontalità senza inizio né fine, senza guidatore, senza un disegno preordinato, in un futuro di pacifica anarchia garantita nel suo successo solo dalla tenuta del diritto, delle libertà, del bene comune e dalla legge, in termini di diritto internazionale. Il riferimento visivo artistico va all’opera di Manolo Valdes, Mappamundi; una mappa del mondo nella quale sullo sfondo geografico della terra sul quale compaiono tutti i continenti dall’America al Giappone…ha disegnato una rete costruita come le mappe guida per le reti metropolitane cittadine, immaginando un coordinamento orizzontale continuo e rapido tra tutte le zone del mondo, rete sulla quale i veicoli si muovono senza bisogno, ormai, di un guidatore, di una intelligenza motrice; e i movimenti avvengono senza scontri. 2.3.3.2.1. è rivoluzione dei flussi sociali: «La rivoluzione della tecnologia dell’informazione e della comunicazione e la trasformazione sociale che l’accompagna è secondo Castells una cesura epocale nel modo di sviluppo delle società umane. L’esperienza del tempo viene alterata, lo spazio riorientato e riorganizzato dalla logica dei flussi della società in rete, della società che comunica e consuma mediante la Rete, in base a processi che diffondono istantaneamente simboli e conoscenze, modificando in profondità le espressioni culturali e cambiando radicalmente le forme del potere politico e della mobilitazione sociale.» Presentazione dell’opera: Castells Manuel 1996, 2000 La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore (2002) UBE Paperback, Milano 2008 2.3.3.2.2. è il mutamento antropologico; tratti di una nuova antropologia. «Un nuovo archetipo umano ha fatto la sua apparizione. L’uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso 20 da coloro che l’hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell’era industriale: si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell’economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata). […] generazione «proteiforme» […] Vivono in un mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso rapido alle informazioni, hanno una soglia d’attenzione labile, sono più spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time e sono abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di frasi, ma superiori nell’elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri», considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra sovranità del consumatore e democrazia. Trascorrono con personaggi di fantasia, nei film, nei programmi televisivi e nel ciberspazio, tanto tempo quanto ne dedicano ai propri simili nella vita reale; anzi, arrivano perfino a inserire tali personaggi nella conversazione e nell’interazione, rendendoli parte della propria storia personale. Il loro mondo è più fluido, segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e partecipativa che lineare e obiettiva. Non si preoccupano della localizzazione geografica delle persone a cui abitualmente mandano e-mail, delle quali conoscono solo l’indirizzo virtuale. Pensano al mondo come a un palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni teatrali. Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda e dallo stile. Provano tutto e amano l’innovazione. D’altra parte, nel loro ambiente in rapido e costante mutamento, costumi, convenzioni e tradizioni sono quasi inesistenti.» (Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000, 249-250) 2.3.3.2.3. è un mutamento di orizzonti e relazioni: le sovrapposizioni tra reale e virtuale. Prende forma sociale, anche in un evidente gap generazionale, la progressiva inutilità e impossibilità di distinguere il reale dal virtuale. La realtà virtuale che per le generazioni del secondo ‘900 si presenta (se va bene) come mezzo, per le generazioni presenti è sede e contesto di vita e di relazioni del tutto e sempre più intrecciata al cosiddetto mondo reale fino a condurre alla inefficacia e inutilità di una distinzione tra reale e virtuale. Sono trasformazioni che pongono al centro il problema dell’accesso: non l’appropriazione (come nella tradizione dell’economia classica, da Locke a Marx) genera le relazioni sociali, economiche e politiche, ma l’accesso alla reti (alla rete mondiale ora dominante: world wide web) e la gestione delle condizioni che lo rendono possibile: «un mondo di reti, gatekeepers e connettività». L’accesso sta diventando un potente strumento concettuale per riformulare una visione del mondo e dell’economia, ed è destinato a diventare la metafora più efficace della nuova era: l’«era dell’accesso». 2.3.3.3. Telemaco o il diritto alla domanda di senso, pur nella consapevolezza della assenza di risposte; il complesso di Telemaco in sostituzione al complesso di Edipo e il costituirsi quotidiano della simbolizzazione nella cura. «Telemaco è infatti il "giusto erede" di un genitore vulnerabile che non si propone come un modello esemplare o universale, ma può rappresentare «una testimonianza etica, singolare, irripetibile» sulla possibilità di stare al mondo con qualche passione, sulla capacità di restituire fiducia nell’avvenire. E seppure la verità che trasmette si sia indebolita, non c'è nessuna nostalgia per il pater familias, il tiranno che una volta assicurava l’ordine più repressivo, «incarnazione normativa della potenza trascendente di Dio». L'icona un po' struggente di Telemaco, che non trasgredisce la Legge ma anzi la invoca, che non si crogiola nel nichilismo ma chiede al mondo adulto la restituzione di un senso alla vita, allontana dall’immaginario la figura di Edipo, del 21 figlio inconsapevole e colpevole. Su quel mito sofocleo, Freud ha costruito l’impianto della psicoanalisi per dire l’interdizione paterna al desiderio della "Cosa" materna. Ma se i padri non proibiscono l’incesto e anzi lo promuovono, annullando la differenza tra le generazioni, anche Edipo “evapora”, diventa una figura incapace di descrivere l'impoverimento dei legami familiari e sociali. Non basta più la sua colpa cieca per decifrare l'enigma delle identità giovanili, tanto meno l’egocentrismo di Narciso, con quel suo specchio che si rivela suicidario. Serve uno sguardo diverso sulla crisi profonda che attraversa l’Occidente e il rapporto tra le generazioni. Ci vogliono occhi ben aperti, come quelli di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, di un uomo capace di coltivare una dimensione etica della vita e di una donna che — a dispetto del corpo intaccato dagli anni — può contare su una figura maschile non titanica, ma profondamente umanizzata. «Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra», cosi scriveva Recalcati in un articolo di un paio di anni fa, uscito su queste pagine con il titolo In nome del figlio.» (Sica Luciana, La scomparsa di Edipo. Se negli anni della crisi i figli smettono di combattere il padre, la Repubblica 20.03.2013, p. 49 con riferimento all’opera di Recalcati Massimo 2013 Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano) 2.3.3.3.1. Alla radice si colloca la funzione formante del padre come colui che «porta la parola». La tesi è illustrata da Massimo Recalcati in presentazione dell’opera e del pensiero di Jaques Lacan: «Il padre che porta la parola. Più precisamente, il compito del padre come colui che porta la parola è innanzitutto quello di mantenere la vita associata al senso non perché la vita in se stessa abbia un senso — alla radice della vita, ci dice Lacan, non troviamo altro che la sua congiuntura con la morte —, ma perché la vita, prima ancora di essere riconosciuta dall’Altro, esige di essere riconosciuta, cioè insiste a entrare nell'ordine del senso come ordine umano. Un padre è colui la cui risposta alla domanda di riconoscimento del figlio sancisce innanzitutto il riconoscimento del carattere umano di questa domanda e del suo diritto assoluto; è colui che riconosce alla vita il diritto di appartenere all’ordine del senso, sebbene questo diritto non possa mai rendere la vita giustificata ontologicamente nel suo essere, ovvero cancellare l’assenza di senso della sua origine, la sua “congiuntura con la morte”.» (Recalcati Massimo 2012 Jacques Lacan. Volume I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffello Cortina editore, Milano, 149, 150-151) 2.3.3.3.2. Ancora alla radice si colloca la funzione formante del padre come colui che porta (con ricorrente ambivalenza) «la domanda di senso e il limite del senso». «La risposta del padre non può salvare la vita dall’ustione del non-senso, non può proteggerla dall’incontro con la scabrosità insensata e “senza legge ” del reale — non può rispondere a quella “passione della giustificazione" che, secondo Lacan, accomuna tutte le nevrosi —, insomma non può conferire all’esistenza alcun diritto di esistere. La funzione paterna si costituisce così come un atto che mentre introduce la vita umana nella dialettica simbolica del riconoscimento e del senso deve saper mostrare, nel medesimo tempo, tutti i limiti di quella dialettica, poiché l’azione del grande Altro come risposta della parola alla domanda di senso di cui si nutre la vita umana non salva questa vita dall’aleatorietà della contingenza, non la può sottrarre dall’incontro col reale come limite del senso, come impossibile da simbolizzare.» (Recalcati Massimo 2012 Jacques Lacan. Volume I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffello Cortina editore, Milano, 151-152) Insomma: assumersi la responsabilità di stare in una domanda e in una risposta che sostengono la ricerca e la costruzione del senso; (ricorda Heidegger: il domandare è la pietas del pensare). 3. Le trasformazioni in atto del volto della democrazia e la dimensione pubblica Si prendono in considerazione due processi su cui converge con notevole frequenza l’attenzione degli autori contemporanei che si dedicano alla definizione critica e propositiva di modelli politici: il mutamento delle forme di partecipazione e azione politica da parte del sociale, il declino della dimensione pubblica nelle relazioni sociali. 22 [1] Sul primo tema insistono, tra i tanti, gli studi (più volte richiamati) di Beck Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010; di Castells Manuel 2012 Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, EGEA, Università Bocconi editore, Milano; Stiglitz E. Joseph 2012 Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013; di Sloterdijk Peter 2010 La mano che prende e la mano che dà, Raffello Cortina editore, Milano 2012. Si prendono qui in considerazione in particolare, come di fronte ad un recente bilancio critico, le tesi espresse da Revelli Marco 2013 Finale di partito, Einaudi, Torino e, come lascito e monito, le analisi e le ipotesi di Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, con premessa di Marco Revelli. [2] Sul secondo tema intervengono, in particolare, due ampi studi: l’opera di Habermas Jürgen 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011 e l’opera di Sennett Richard 1974, 1976 Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006. Divergono le impostazioni dei due studi (Habermas si muove sul postulato di metodo secondo cui “la teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un potenziale razionale insito nella prassi comunicativa quotidiana”; Sennett ricostruisce le fasi e le dinamiche storiche che portano al declino della dimensione pubblica), comune è la tesi della crisi della dimensione sociale civile e, antropologicamente, del “declino dell’uomo pubblico”. Come sempre, un’analisi critica sorretta da passione politica si traduce in indicazioni e proposte per un recupero e una ricostruzione del vivere civile. 3.1. il mutamento delle forme di partecipazione e azione politica da parte del sociale; la crisi del partito e le alternative in ipotesi. Introduttivamente sono programmatiche le affermazioni di Urlich Beck: «Democratizzazione come spodestamento della politica» (Beck 1986, 265) «…la modernizzazione politica toglie alla politica il suo potere e i suoi confini e politicizza la società. Più precisamente, la modernizzazione politica offre ai centri e ai campi d’azione della sub-politica che essa rende possibile e fa gradualmente emergere l’opportunità di un controllo extraparlamentare affiancato o contrapposto alle altre istanze di controllo. In questo modo si differenziano ambiti e mezzi più o meno chiaramente definiti della politica cooperativa e alternativa parzialmente autonoma, basati su diritti conquistati e tutelati. […] In altri termini: accanto al modello della democrazia specializzata acquistano realtà forme di una nuova cultura politica, nelle quali centri eterogenei della sub-politica, in virtù di un esercizio effettivo dei diritti costituzionali, influenzano il processo di formazione e di applicazione delle decisioni politiche.» (Beck 1986, 269,270) «Quando non ci si attende più che i contorni di una società alternativa emergano dai dibattiti parlamentari o dalle decisioni dell’esecutivo, ma dalle applicazioni della microelettronica, dalla tecnologia dei reattori nucleari e dalla genetica umana, cominciano a crollare le costruzioni che hanno finora neutralizzato politicamente il processo di innovazione. Nello stesso tempo, l’agire tecnico-economico nella sua costituzione continua ad essere protetto contro le esigenze parlamentari di legittimazione. Perciò lo sviluppo tecnico-economico si situa tra le categorie della politica e quella della non-politica. Esso diventa una terza entità, acquistando lo status precario e ibrido di una sub-politica, nella quale l’ampiezza dei cambiamenti sociali provocati sta in rapporto inversamente proporzionale alla loro legittimazione. […] … il sistema politico rischia di essere esautorato mentre resta viva la sua costituzione democratica.» (Beck 1986, 259) A quelle tesi sulle «… forme di azione politica non convenzionale» fa esplicito riferimento Marco Revelli: «Con quella, cioè, che Ulrich Beck ha chiamato subpolitics (sub-politica) o «politica della seconda modernità», intendendo con questo termine «quella politica che si colloca all’esterno e al di là delle istituzioni rappresentative del sistema politico degli Stati» [Beck Urlich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, p. 52]. E che con quel prefisso «sub» — letteralmente riferito a un «abbassamento» del piano d’azione, e a un avvicinamento di esso al 23 terreno concreto delle relazioni vissute — allude, appunto, a una «configurazione della società dal basso» [ivi, 53] e a «una auto-organizzazione della politica che tende a mobilitare [orizzontalmente] tutti i settori della società» [idem]. Le caratteristiche tipiche di questo stile di comportamento collettivo sono contrassegnate — al contrario di quanto accadeva con la composizione antropologica e sociale novecentesca — dalla disseminazione, dalla riflessività (da una forte esigenza di autonomia) e dall’orizzontalità, con una mobilitazione orientata — è ancora Inglehart [Inglehart R. 1990 Valori e cultura politica nella società industriale avanzata, Liviana, Torino 1993] a ricordarcelo — «su specifici problemi», che richiedono «una competenza relativamente alta» e si affermano con un’azione puntiforme, strutturata su «gruppi ad hoc più che su stabili organizzazioni burocratiche» come appunto i sindacati o i tradizionali apparati dei partiti.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, Einaudi, Torino, 60). 3.1.1. Il disagio: «E ci troviamo oggi a viaggiare con mappe scadute e con coordinate mutevoli, in uno scenario liquido, in cui i grandi contenitori di ieri — i partiti politici, le loro strutture organizzative e le loro rappresentanze istituzionali, quelli che costituivano i punti di riferimento fissi — sono divenuti d’un colpo elastici e permeabili. Tendono a rilasciare nell’ambiente il loro contenuto fluido, attraversati da una patologica — e sempre incombente — «crisi di fiducia» (il vero mal du siècle). Da un ritrarsi delle fedeltà e da un senso insidioso di diffidenza. Condannati a costituire il fondamento pressoché unico della legittimazione politica, i partiti politici non riescono più a trattenere stabilmente i propri «mandanti» — a garantirsene la delega, a strutturarne con continuità l’appartenenza — trasferendo in misura preoccupante la propria crisi alle stesse istituzioni che dovrebbero, appunto, legittimare. Finendo per smarrire — e tradire — il proprio mandato.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, IX) 3.1.2. I motivi del disagio vengono da lontano: le ricorrenti e diffuse strategie “democratiche” per una disattivazione dei cittadini nella politica (nella democrazia) o per un coinvolgimento che ha l’intento e produce l’effetto di una disattivazione, annullamento di proposizioni, e di una disponibilità totale del cittadino al disegno politico esistente, in cerca di una formale conferma democratico-elettorale; 2. la residuale e sorprendente (non prevista ma mai del tutto sopita) ma poco ascoltata capacità politica reattiva del sociale di fronte ai tentativi della sua disattivazione; il ruolo dell’indignazione e del “movimentismo”; e si tratta di un’“ultima uscita”; così la definisce nel titolo il capitolo/saggio di Sloterdijk Peter 2010 La mano che prende e la mano che dà, Raffello Cortina editore, Milano 2012, dal potenziale imprevedibile. «A noi, dunque, abitanti della seconda res publica amissa (della collettività sacrificata), ancora una volta non resterebbe altro da fare che attendere i Cesari e le loro edizioni economiche, i populisti, in quanto oggi il populismo fornisce la dimostrazione che il cesarismo funziona anche con le comparse. […] Chi considera il panorama dei disordini politici in Europa, soprattutto nei focolai di crisi in terra tedesca, dovrà presto tenere presente una cosa: se oggi non si riesce a disattivare del tutto i cittadini, malgrado le numerose offerte di espertocrazia e di cultura del divertimento, è perché non si è tenuto conto del loro orgoglio. Tutto a un tratto torna sul palcoscenico il citoyen timotico, donna e uomo, il cittadino autocosciente, informato, disposto a condividere idee e decisioni. Questo cittadino denuncia al tribunale della pubblica opinione la rappresentazione malriuscita delle sue richieste e delle sue conoscenze nell’attuale sistema politico. Il cittadino è tornato ed è ancora in grado di indignarsi perché, nonostante tutti i tentativi di appiattirlo a fascio libidico, ha conservato il proprio senso di autoaffermazione e manifesta tale qualità portando la propria dissidenza nei luoghi pubblici. […] Disattivare i cittadini mediante la rassegnazione è come giocare col fuoco, perché può convertirsi in ogni momento nel suo contrario, ossia in aperta indignazione o manifesta ira civile. Se solo l’ira finisse per trovare il tema contro il quale dirigersi, non sarebbe più cosa facile deviarla.» (Sloterdijk 2010 La mano che prende e la mano che dà, 111122 passim) 3.1.3. Gli ambiti di una autonomia decisionale individuale e sociale. Con riferimento alla realtà italiana e al referendum sull’acqua e sul nucleare e al netto sì per la abrogazione del nucleare e, 24 soprattutto, della privatizzazione dell’acqua, Revelli osserva. «Si tratta — inutile negarlo — di una svolta epocale, perché segna con chiarezza la fine del monopolio del controllo della classe politica sulla «sfera pubblica». O, se si preferisce, la separazione tra sfera pubblica e sfera politica — fino a ieri strettamente identificate — stabilendo che la prima è in qualche misura più ampia della seconda. Che non può essere occupata monopolisticamente dal ceto politico, ma che conserva ambiti e spazi in cui l’ultima parola spetta direttamente al cittadino perché lì sono in gioco risorse, strutture, entità — «beni comuni», insomma, intendendo con questo termine «ciò che appartiene all’orizzonte dell’esistere insieme» […] E dalla sempre più esplicita separazione (e distanza) tra i luoghi e le figure delle «rappresentanze istituzionali» e i luoghi e le istanze «della vita» (in molti casi della «vita nuda» nel suo rapporto con l’ambiente, il territorio, i bisogni primari, le condizioni essenziali dell’esistenza). Separazione di linguaggi, di atteggiamenti, di sensibilità, di priorità, ma anche di stile di vita, di accesso a privilegi, di reddito, testimoniata da un’infinità d’indizi e registrata anche in un buon numero di sondaggi.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 21, 24) Dunque si tratta, in questi casi, di ambiti non decidibili da alcun potere “rappresentativo” ma di diretta competenza dei soggetti o del soggetto sociale se e quando quei settori vengono messi a rischio di esistenza, di disponibilità, di diritti e di libertà: 1. L’ambito dei “beni comuni”, 2. L’ambito della “nuda vita”. 3.1.4. Il contesto storico economico e produttivo più ampio e determinante per comprendere la trasformazione in atto nelle forme della rappresentanza e della partecipazione politica. Fase 1. «… nella affollata recherche sull’ascesa e caduta dei grandi contenitori politici novecenteschi, a molti — potremmo dire a quasi tutti — è sfuggito il banale fatto che essi dovettero la propria fortuna, nel corso del «secolo breve», alla pressoché perfetta identificazione con il modello organizzativo vincente nel lungo ciclo aperto dalla seconda rivoluzione industriale. […] Uno dei pochi ad aver colto la pressoché assoluta consonanza tra le forme organizzative della produzione di massa standardizzata e dell’amministrazione burocratica, da una parte, e il modello organizzativo delle grandi «macchine politiche» (il partito di massa o di «integrazione di massa» novecentesco) dall’altra, è stato proprio Inglehart.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 65,66) Nella stessa direzione Antonio Gramsci (paragrafo 70 del quattordicesimo Quaderno dal carcere, scritto tra 1932 e il 1935, dedicato alla struttura del partito politico «formato»; e con lui, ma del tutto separatamente: Lev Trockij, in uno dei pochissimi suoi testi di critica a Lenin, analizzando il modello di partito proposto da questi nel Che fare? (e plasmato sulla teoria di Karl Kautsky) traccia un «perfetto parallelismo tra struttura di Fabbrica e struttura di Partito» (ivi 71). Il rapporto strutturale tra relazioni produttive economiche e fisionomia delle rappresentanze politiche, il «parallelismo tra struttura di Fabbrica e struttura di Partito», è indicato sempre da Inglehart: «Nell’accomunare — nelle prime pagine de La società postmoderna — «la produzione di massa della catena di montaggio e la produzione di massa della burocrazia», e nel considerarli entrambi «strumenti organizzativi chiave della società industriale», sottolineava come essi avessero svolto «un ruolo enorme, rendendo le fabbriche capaci di produrre milioni di unità e i governi di trattare milioni di individui mediante routine standardizzate».» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 67) «Il fatto è che quella perfetta sovrapposizione di piani tra «governo della fabbrica», «governo dell’economia» e «governo delle masse», unificati, anzi identificati dalla medesima forma — dall’identica «formula organizzativa» — era parte integrante ex origine della concezione novecentesca della rivoluzione. O, più generalmente, dell’allora condivisa visione del processo di trasformazione della società, inteso come mastodontica costruzione artificiale di un nuovo ordine sociale, progettato secondo razionalità e mediante la stessa razionalità prodotto. […] la sociologia dell’organizzazione ha chiamato questo paradigma «razionale» e vi ha aggiunto la qualifica di «sistema chiuso»: perché dalla possibilità di «chiusura» del suo nucleo funzionale […] dipende la sua efficienza. E la sua stessa sopravvivenza come strumento adeguato al perseguimento dello scopo voluto. […] Le macchine organizzative novecentesche hanno tutte le stesse caratteristiche (siano esse Fabbriche o Eserciti, Partiti o Chiese. . .): una tendenza intrinseca al gigantismo (a incorporare masse ampie di uomini in modo stabile, sistemandoli in strutture solide e permanenti). 25 Una vocazione onnivora e centripeta, tesa ad attirare entro il proprio campo organizzativo quante più funzioni possibile, per sottometterle alla «mano visibile» dei propri livelli gerarchici e garantirsene l’assoluta prevedibilità di comportamento (a praticare la logica del make in contrapposizione a quella del buy direbbero gli esperti di management). Dunque un primato dell’«integrazione verticale», come si dice in gergo — rigida, «proprietaria» —, rispetto alle connessioni «in rete», flessibili e mobili. Un altissimo livello di formalizzazione di tutti i ruoli e delle funzioni, con scarsi margini di autonomia individuale, primato dei protocolli e delle procedure, affidamento privilegiato alle routine. Ora, questo «paradigma» ha funzionato benissimo per oltre un cinquantennio. Poi, di colpo, è imploso. Difficile dire quando con precisione, e perché.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 71-72, 74-75). Fase 2. «… emergere di un nuovo «paradigma socio-produttivo» […] segnato non più dai grandi processi di centralizzazione e di razionalizzazione ma dal decentramento e dalla delocalizzazione. Dalle esternalizzazioni e dalle reti lunghe di fornitura e subfornitura.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 65-66) «Un primo segnale fu dato dai mercati (da quelli dei prodotti tipici dell’epoca fordista, il mercato dell’auto, dei generi di consumo durevole) che si fecero a un tratto saturi, a crescita lenta, o vicina allo zero, e insegnarono che il vecchio trucco di Detroit — abbassare il prezzo delle proprie merci semplicemente accrescendone il volume e distribuendo i costi fissi su un numero maggiore di unità — non andava più. Che bisognava inventare qualcosa di diverso per competere in un mercato fattosi difficilissimo. Ma nello stesso periodo segnali di allarme venivano anche sul versante delle amministrazioni pubbliche, con i bilanci sempre più in rosso nonostante le alte tasse, e l’inefficienza oltre i limiti di guardia. Né si salvavano i partiti di massa, colpiti, come si è visto, da una crisi di confidence senza precedenti. Si trattava, com’è evidente, di una crisi «sistemica» (non certo di un cedimento settoriale): di quelle che richiedono un cambio di direzione. O, appunto, un «salto di paradigma». Che infatti ci fu.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito,76) 3.1.5. Le nuove attuali forme, restando nel parallelo fabbrica-partito. 3.1.5.1. Fabbrica: « Il primo pilastro a cedere fu il «gigantismo». … la crescita lineare degli apparati non era più prolungabile… Esternalizzare, dunque, tutto l’esternalizzabile. Delocalizzare. E poi smantellare tutti quegli apparati d’impresa che non intervenivano direttamente sul prodotto… fu inventato il just in time… Quella «catalitica» è l’organizzazione «minima», per così dire. Che si limita a decidere ma non a eseguire («che tiene il timone ma non rema»). In cui i funzionari — come dice il termine chimico stesso — si limitano a far combinare tra loro (a «catalizzare», appunto) i fattori necessari alla soddisfazione dei bisogni pubblici, traendoli dall’«ambiente», indirizzandoli e mobilitandoli, ma non «incorporandoli». È anche un’«organizzazione comunitaria», che coinvolge nella propria azione i destinatari dei suoi servizi — gli utenti, i cittadini — anziché confinarli in un ruolo passivo. Dunque che rinuncia a separare rigidamente gli «addetti ai lavori» dagli «estranei». A isolare e sigillare il campo organizzativo rispetto all’ambiente, anzi, che convive e si integra con il proprio ambiente, mescola interno ed esterno, produce sinergie e cooperazione. … «arreso al disordine», perché consapevole dell’impossibilità di segregarlo al di fuori dei propri «confini organizzativi» troppa complessità, troppe variabili da controllare, troppa soggettività da sterilizzare, troppe individualità irriducibili a norma. E quindi rassegnato a convivere con esso: ad attrezzarsi per gestire le inevitabili «contingenze esterne», per far fronte agli imprevisti non riconducibili a protocolli o routine, per «navigare a vista», insomma, intercettando flussi anziché strutturando spazi stabili e definiti, ricombinando set di risorse mutabili, cogliendo occasioni istantanee. Non più la metafora del diamante, con le sue geometrie perfette e irrigidite in una razionalità pietrificata — com’era stato per l’ideale organizzativo fordista —, ma quella del fumo, con le sue spire mobili, il suo proteimorfismo, la magmaticità e la flessibilità di ciò che fluttua nell’aria… «Paradigma naturale», verrà chiamato. A «sistema aperto», più simile all’organismo che sa adattarsi al proprio ambiente istante per istante, e che mantiene aperti tutti i varchi, e porosi tutti i confini tra ciò che è dentro e ciò che è fuori: esattamente l’opposto del precedente «meccanismo», che non casualmente aveva incarnato la visione del mondo nel secolo della meccanizzazione e della massificazione.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 76-80 passim) 26 3.1.5.2. Partito. «Naturalmente tutto ciò non poteva non coinvolgere la «forma partito». Che ne fu, infatti, frontalmente sfidata. … i tradizionali partiti di massa — anzi, di «integrazione di massa» — europei, in particolare quelli provenienti dalla tradizione socialista e comunista, ne furono colpiti in pieno. Erano un tipo di organizzazione per definizione «pesante», concepita e costruita non solo per gestire i processi istituzionali della rappresentanza (per concorrere alle elezioni), ma anche — e spesso soprattutto — per incorporare nelle proprie strutture (per «integrare», appunto) interi pezzi di società, aree ampie del proprio elettorato, per orientarne e formarne valori e cultura, strutturarne aspetti significativi della vita (il tempo libero, le letture, i gusti…), assicurandosene nel contempo la prevedibilità dei comportamenti politici ed elettorali. … Esattamente come le grandi corporation alle prese con mercati fattisi d’improvviso imprevedibili, anche i partiti di massa dovettero imparare a «navigare a vista». A intercettare flussi di voti mutevoli. A interpretare aspettative e domande inedite e imprevedibili, galleggiando, per così dire, su una massa «liquida», dai comportamenti sempre meno «standardizzati», o riconducibili ai grandi aggregati sociali (operai, ceti rurali, classi medie, ecc.), e sempre più individualizzati e personalizzati. Non più un «corpo elettorale» — secondo la vecchia dizione — ma piuttosto un «mercato politico» (è da pochi decenni che questo termine, in sé orribile, si è affermato anche tra i cultori della materia), con tutte le regole, tutti i rischi e tutta l’imprevedibilità del mercato. Alcuni non ce l’hanno fatta, e sono implosi scomparendo o quasi (è il caso dei partiti comunisti…) … Altri… il cosiddetto «partito pigliatutto», … Qualcuno … «si costruiscono volta a volta un’opportuna piattaforma elettorale popolare per guadagnarsi elettori»… Qualche altro … riorganizzando le appartenenze su basi etnico-regionali… Tutti, comunque, posti di fronte a un comune rischio di obsolescenza e di fragilità.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 80-83 passim) In ulteriore ipotesi, sempre in parallelo: «Una delle ragioni principali — forse la principale — all’origine dell’implosione del modello fordista era stata la crescente insostenibilità dei cosiddetti «costi organizzativi». … Ora, qualcosa di simile è accaduto anche ai partiti di massa, nel momento in cui la sempre meno sicura fedeltà dei seguaci, la crescente fluidità ed evanescenza delle rispettive «basi», ha reso incerto e sempre più esiguo il flusso di contributi e di risorse economiche (oltre che di prestazione gratuita di attività volontarie) fino ad allora fornite dal corpo militante.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 84-85) Su questo versante: « L’anomalia italiana. È però l’Italia la maglia nera in questa corsa alla rovescia alla dilatazione dei costi, attestata su un livello di spesa per i partiti e per le loro attività paragonabile a quello americano. Con una differenza sostanziale, tuttavia. E cioè che mentre negli Stati Uniti il crescente volume di «investimento» è concentrato in massima parte sui «costi di transazione» — si spende molto in occasione delle tornate elettorali, per «acquistare» sul mercato visibilità e immagine, mentre i «costi organizzativi» dei partiti sono minimi —, in Italia «costi di transazione» e «costi organizzativi» sono cresciuti insieme, parallelamente e di conserva, facendo letteralmente esplodere i bilanci delle diverse «imprese politiche». Nessuno in realtà sa con precisione a quanto ammonti la «spesa politica» italiana, a causa del peso consistente del «sommerso». Ma certamente essa si muove su dimensioni di molte lunghezze superiori alla media europea… » (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 90-91) 3.1.5.3. Più radicalmente, Simone Weil, già nel 1943, sull’onda della considerazione di come i partiti del primo Novecento siano precipitati (per repressione, per debolezza, per esplicita volontà…) nei totalitarismi che hanno distrutto nella guerra totale e totalitaria ogni forma di democrazia politica, sostiene la tesi di una inesorabile e intrinseca tendenza degenerativa dei partiti politici verso la demagogia e verso il totalitarismo. Il potere diventa in loro e attraverso di loro, negazione progressiva delle libertà individuali e dell’umanità sociale. «Su un versante, infatti, la struttura collettiva, il “partito”, appunto, occupa tutto lo spazio sociale disponibile, si afferma come unico, esclusivo strumento per incidere sul reale, per "agire pubblicamente", appunto, senza il quale — e al di fuori del quale — si è costretti all’impotenza, non si può perseguire nessun obiettivo, né concepire alcun risultato raggiungibile. E per questo da mezzo (da "strumento", appunto, costruito per perseguire un risultato) diventa esso stesso fine (fine a se stesso"), condizione per il perseguimento di tutti i risultati e dunque preoccupazione principale 27 di ogni aderente, oggetto di cura e di attenzione esclusiva, la cui forza e dimensione viene prima di tutto perché da queste tutto dipende. Lo dice benissimo l’autrice: «Il fine primo, e in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita senza alcun limite». E aggiunge — con un repentino passaggio dalla sociologia alla teologia —, che ci si trova nel campo di una forma di «idolatria, dato che solamente Dio è legittimamente un fine in se stesso». Accade così al partito politico quello che quotidianamente si osserva per l’intero sistema dei mezzi — il potere, il denaro, la tecnica — trasformatisi, rapidamente, in fini dentro una logica di potenza che vede nella crescita quantitativa la condizione del risultato e che sostituisce al valore del "bene" quello del "tanto". Così per la "tesi maggiore". Sull’altro versante del sillogismo (quello della "tesi minore") accade che l’esistenza stessa dell’organismo pubblico, la sua natura di “macchina” per produrre energie collettive ("passioni" dice Weil, per indicare il carburante principale con cui si produce mobilitazione e dunque forza pubblicamente esercitabile), finisca per imporre la propria azione "disciplinante". Cioè uniformante, imitatrice dell’autonomia intellettuale. Omologatrice, diremmo noi oggi. Accade che la logica "di partito” richieda, necessariamente, il sacrificio di quell’essenziale funzione — inevitabilmente individuale, di per sé sottratta a ogni disciplinamento esteriore — che è il pensiero. La ricerca della verità. L’interrogazione sul "bene", che per sua natura è "universale", non può essere spartito o immaginato per separazione e contrapposizione. Se vuole esistere come entità collettiva, dunque, il partito non può, come scrive Simone Weil, non «esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte». Non può porre se stesso come "oggetto di fede". In cui identificarsi, in una sorta di rito feticistico con cui al valore astratto (ma generale, valido per l’intero genere umano) del bene si sostituisce l’immagine concreta (ma di per sé vuota, e per sua natura "parziale") dello strumento che a quel bene dovrebbe servire. L’involucro, chiamato a rappresentare (ma in realtà a sostituire) il contenuto. Per questo — per effetto di questo gioco perverso dei due pezzi del sillogismo — il moderno partito è contemporaneamente particolare e totalitario: obbliga a pensare per contrapposizione e pretende il controllo assoluto sul pensiero dei propri aderenti. Opera per scissione verso l’esterno ed esercita una pressione uniformante verso l’interno. Chiede, in nome della "disciplina" — che è la condizione di esistenza del mezzo diventato fine — la rinuncia alla ricerca individuale. Pretende una delega totale a un sé vuoto (perché preoccupato solo del proprio continuare a esistere e non del fine che sarebbe chiamato a perseguire). Esso ricalca, alla luce della sociologia politica, un percorso non dissimile da quello compiuto dalla Chiesa…» (Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, Premessa di Marco Revelli, 11-13). (Simone Weil coglie la relazione tra un’alta diffusione di una religiosità, vissuta come appartenenza fedele e ubbidiente ad una chiesa, e la degenerazione delle forme di rappresentanza politica in strutture di controllo demagogico del sociale.) Nelle parole e nello stile diretto di Simone Weil: «Ovunque, senza eccezione, tutte le cose generalmente considerate come fini sono per natura, per definizione, per essenza e nel modo più evidente unicamente dei mezzi. Si potrebbero citare tanti esempi quanti si vuole in tutti i campi. Stato, potere, denaro, grandezza nazionale, produzione economica, diplomi universitari e via discorrendo. Solo il bene è un fine. Tutto ciò che appartiene al regno dei fatti rientra nell’ordine dei mezzi. Ma il pensiero collettivo è incapace di elevarsi al di sopra del regno dei fatti. È un pensiero animale, non ha nozione del bene se non in misura appena sufficiente per commettere l’errore di scambiare questo o quel mezzo per un bene assoluto. La stessa cosa avviene per i partiti. ln linea di principio il partito è uno strumento al servizio di una particolare concezione del bene pubblico. Questo è vero anche per quelli che sono legati agli interessi di una categoria sociale, poiché si tratta sempre di una certa concezione del bene pubblico in virtù della quale vi sarebbe coincidenza tra il bene di tutti e quegli interessi. Ma questa concezione è estremamente vaga. Tutto ciò è vero senza eccezione e quasi senza differenza di grado.» (Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, 24) 28 3.1.6. «Una democrazia «oltre» i partiti? … Ilvo Diamanti C’è democrazia senza i partiti?» «Poi, nel passaggio dalla riflessione colta alle retoriche politiche prevalenti, quelle che erano domande e individuazioni di rischi sono diventate perentorie certezze. La formula ha perso il punto interrogativo per assumere l’esclamativo: «Non può esserci democrazia senza partiti!».» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, 101,102) «In realtà non è così. Il nesso tra la democrazia e la «forma-partito» così come essa si è strutturata nell’ultimo sessantennio non è affatto così esclusivo e indissolubile. La democrazia dei moderni si è definita concettualmente e praticamente ben prima che comparisse all’orizzonte il «partito di massa» e che esso divenisse il monopolista quasi esclusivo del processo di partecipazione e di rappresentanza. Può sopravvivere alla fine di quel monopolio e di quella centralità, rinnovandosi nei contenuti e nelle procedure. Né l’attuale crisi dei partiti nella loro espressione storica ci pone di fronte alle alternative «terminali» e «assolute» che la retorica della «fine della democrazia» sembrerebbe richiamare: il «partito politico» non scompare istantaneamente in ogni forma e in ogni luogo. S’indebolisce, certo. Si modifica: può subire una metamorfosi selettiva, più profonda in alcune realtà geopolitiche e sociali, meno in altre. Per molti aspetti l’ha già subita. È mutato nel profondo, nei suoi stessi codici genetici.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p.103) 3.1.6.1. Le trasformazioni: alcune, poste in particolare evidenza (come direzioni del rischio). 3.1.6.1.1. Dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia del pubblico» (Manin Bernard 1997 Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010, in particolare dalle pp. 229-259; nella sequenza storica: democrazia parlamentare, democrazia dei partiti, democrazia del pubblico). «Nella «democrazia del pubblico», infatti, non si vota più in primo luogo il partito e il suo programma — come avveniva, appunto, nella «democrazia di partito» ma si torna a votare soprattutto la persona, come nel «parlamentarismo» delle origini. Con una differenza, tuttavia, sostanziale: … qui è il prodotto di un processo artificiale di costruzione dell’immagine nella quale il mezzo televisivo in particolare gioca un ruolo predominante. È una «personalità» fabbricata secondo una procedura tecnica di elaborazione mediatica.» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p. 108) 3.1.6.1.2. « La «democrazia istantanea». (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p.114) L’irrompere di proclami sulla democrazia diretta attraverso le comunicazioni in digitale (la rete, il web…) con la tanto proclamata e dubbia ostensione di democrazia; in realtà: 1) «Al di fuori delle retoriche pan-tecnologiche, infatti, è evidente che il meccanismo della decisione telematica tende a cancellare la fase necessariamente lenta, problematica, riflessiva, della discussione per selezionare e promuovere invece i fattori emotivi, le sensazioni immediate, le pulsioni istintive.»; 2) « E anche questo è un paradosso del nostro tempo: che a un’estensione dell’acculturazione e della conoscenza finisca per corrispondere un contemporaneo restringimento del tempo della discussione e della deliberazione argomentata, compresso fino alla dimensione puntiforme del fatidico click. Col quale, indubbiamente, può essere soddisfatta l’esigenza di interdizione e di controllo di questa nuova folla solitaria desiderosa di rompere l’isolamento e di irrompere «in remoto» nella sfera istituzionale riducendo le distanze tra luoghi della vita e luoghi della decisione. Ma difficilmente può essere restaurata la virtù della proposizione deliberativa mediante l’approfondita disamina dei problemi nell’arena reale parlamentare — come avveniva per l’esercizio del «potere legislativo» prima che la partitizzazione della vita pubblica ne segmentasse lo spazio e il campo — se non per settori limitati di pubblico capaci di accedere a sofisticate forme di software…»; 3) «rimane precario il tentativo dei protagonisti emergenti della «politica digitale» di emanciparsi dalla ferrea legge di Michels e dal destino oligarchico che incombe su di loro…» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p.120,121) 3.1.6.1.3. La comparsa della contro-democrazia in termini di sospetto e di sfiducia. « Controdemocrazia. Ovvero «la démocratie de la défiance». (Pierre Rosanvallon, “uno scienziato politico”) «…la crisi di fiducia. È il nucleo essenziale della «contro-democrazia», che non è la negazione della democrazia — non significa «antidemocrazia» — ma una forma diversa di democrazia. E non può essere ricondotta a semplice «antipolitica», ma costituisce una modalità diversa della politica. 29 La natura che essa assume quando il «popolo», finita l’illusione di poter esercitare il potere direttamente o tramite i propri rappresentanti, ripiega sull'esigenza — talvolta rancorosa — di controllarlo. […] La contro-democrazia, dunque, è in primo luogo una forma di «democrazia di sorveglianza» […] riprendendo la celebre distinzione di Isaiah Berlin tra «libertà positiva» e «libertà negativa» […] una «democrazia dell’interdizione» […] ma anche una «democrazia dell’imputazione».» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p. 122-124) Ma si fa largo anche una patologia della sorveglianza nelle forme di un populismo indignato ma rancoroso, semplificatore e falsamente inteso come corpo unico e organico, che all’unisono si muove in battaglia indistintamente contro corruzione, oligarchia, privilegio, casta, estraneo, straniero… noi contro loro (anche a questi aspetti rimandano le osservazioni di Rosanvallon e di Revelli, come di Elias Canetti, Ernesto Laclau, Slavoy Žižek). «Sono, queste folle solitarie post-moderne, «masse mute, disilluse, sconcertate e disgustate, con problemi a cui i populismi non forniscono un linguaggio, ma attraverso i quali essi sanno attizzare la collera, facendola grondare in modo sempre più sordo sul selciato delle città e nelle cabine elettorali». In esse, nella torsione populistica che le avvinghia, si intrecciano drammaticamente «la manifestazione parossistica dello smarrimento contemporaneo e l’espressione tragica dell’incapacità di superarlo». [citazioni da P. Rosanvallon 2006 Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012] (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p. 126-127) Si potrebbe dire, in formula, che si assiste alla continua e rabbiosa (ri)costruzione di una contrapposizione tra un “noi” e un “loro”; “noi-loro” in cui l’opposizione violentemente rivendicata e continuamente cangiante diventa il mezzo per esercitare il potere, quello stesso potere che si vuole criticare, assaltare, abbattere. 3.1.6.2. L’alternativa, la direzione verso un recente e necessario incontro. Il bivio è populismo vs cittadinanza attiva, che può essere il volto dei movimenti e della loro relazione con i partiti rinnovati nella forma e nella funzione di catalizzatori; a impedire che, per mancato incontro tra i due, i partiti restino macchine di potere e di governo esterno, i movimenti restino nuclei protestatari alla base incapaci di incidere o in attesa di poter accedere al ruolo di partiti e lì morire reiterando quell’oppressione (o distanza dal sociale, separatezza) contro la quale erano sorti. I “nuovi” luoghi del politico: «Nella formazione, appunto, di un «pubblico» esigente e partecipante alla sua base. Nelle reti orizzontali di mobilitazione e d’intervento, nelle molteplici forme di «presa di parola», di tutela delle precondizioni essenziali della vita biologica e sociale (nell’affermazione e difesa dei «beni comuni»). Nei circuiti di riaffermazione di cittadinanza attiva dal basso. Nelle stesse forme sperimentali di «democrazia locale », in territori delimitati ma densi, perché in essi è ben visibile l’implicazione tra azione collettiva e vita. Come in una sorta di gigantesco gioco di vasi comunicanti la sovranità verticale che si era concentrata in alto può rifluire in basso, nella «massa positiva» di micro-comunità interrelate che costituiscono quella che Ulrich Beck ha denominato la «sub-politica», non per sminuirne il valore ma per sottolinearne il carattere «basilare». Il suo muovere alla base della piramide, forte del fatto che le società sono capaci di meglio coordinarsi orizzontalmente, di auto-organizzarsi e di ricorrere in misura enormemente minore che nel passato a (ingombranti) «autorità tutelari». […] innescando un’interlocuzione dinamica tra le forme di auto-organizzazione della società — alimentate dai new media — e le forme sempre più leggere della rappresentanza. […] ai partiti «che raccolgono voti » si relazionano — non necessariamente si contrappongono — i movimenti «che mobilitano potenziali elettori e cercano di modificare i termini della raccolta dei voti». Con gli uni — i movimenti — finalmente in veste di cause (anziché di partner «incompiuti», in attesa di essere sollevati all’altezza del «primato della politica»). E gli altri — i partiti — considerati per quello che sono (o sono diventati): macchine. Strumenti leggeri, effimeri, «testimoni secondari» rispetto ai soggetti e ai luoghi «della vita» in cui si sperimentino e pratichino forme diverse di relazione e di socialità. [cfr. M. Walzer, Partiti e movimenti, diversi mestieri, in «Reset», 20 luglio 2012]» (Revelli Marco 2013 Finale di partito, p. 127-128, 136-137) 3.2. il declino della dimensione pubblica nelle relazioni sociali. 30 Due studi principali di riferimento: Sennett Richard 1974 1976 Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 1982 Habermas Jürgen 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011 In ottimismo. Come “provocazione” di apertura una società nell’orizzonte di un’etica del dono o visione generale di un vivere civile ispirata all’etica del dono (rimanda alla posizioni di Marcel Mauss [e alla rivista di Scienze sociali che in acronimo riprende il suo nome: la rivista del MAUSS (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali – Mouvement AntiUtilitariste dans les Sciences Sociales)] e di Alain Caillé, in particolare l’opera: A. Caillé, Théorie anti-utilitariste de l’action, La découverte, 2009, comparsa in Italia con il titolo Critica dell’uomo economico. Per une teoria antiutilitarista dell’azione, Il Melangolo, Genova), richiamata attraverso una riflessione dal già citato testo di Peter Sloterdijk: «Avevo parlato dell’importanza della generosità per la democrazia con lo scopo di indicare il cammino verso una collettività nuovamente capace di empatia. […] … garantire l’idea del bene comune non più unicamente attraverso la redistribuzione coatta, ma basandola su un’etica del dare dal fondamento più ampio possibile ... […] Vorrei chiarire ancora una volta la mia tesi foriera di conflitti, secondo la quale in una società democratica le tasse andrebbero trasformate da riscossioni forzose in donazioni a favore della collettività, versate dai cittadini in maniera volontaria: dapprima soltanto in piccola percentuale, in seguito in proporzioni progressivamente crescenti. Personalmente ritengo che solo una trasformazione del genere potrebbe rianimare una società irrigiditasi in routine che riflettono riluttanza e malumore nei confronti dello Stato e introdurre nuova linfa — sotto forma di responsabilità collettiva — nei sistemi funzionali, ormai autoreferenziali. […]… il motivo di una psicopolitica della generosità, onnipresente nei libri da me pubblicati nell’ultimo decennio, sia collocato fin dall’inizio nell’orizzonte di un’etica del dono. […] La donazione a vantaggio del bene comune potrebbe dunque trasformarsi, nel tempo, in un habitus psicopolitico consolidato, impregnando le popolazioni democratiche come una seconda natura e operando una conversione globale delle collettività nel senso dell’empatia e della solidarietà materializzata.» (Sloterdijk Peter 2010 La mano che prende e la mano che dà, Raffello Cortina editore, Milano 2012, p.11-16, 51) In pessimismo, il problema dell’assenza della dimensione pubblica nelle attuali società. L’argomento, la tesi e la situazione presentata da Sennett Richard 1974, 1976 Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 1982 sono contenuti nella frase in esergo, citazione classica che esprime con efficacia l’idea dominante dell’analisi di Sennett. «Ognuno di questi uomini, chiuso in se stesso, si comporta come se fosse estraneo al destino di tutti gli altri. I figli e gli amici costituiscono per lui l’insieme del genere umano. Quanto al resto dei suoi simili, capita che si confonda con loro, ma non li vede; li sfiora, ma non li sente. Non esiste che in se stesso e per se stesso. E se ancora la famiglia ha un qualche significato per lui, è la società a non averne più alcuno.» Ch.-A.C. de Tocqueville 1835 La democrazia in America. L’introduzione di Habermas al proprio studio parte da un analogo allarme, storicamente ricollocato: «… da circa un secolo, le sue [della «sfera pubblica»] basi sociali stanno per la verità nuovamente disfacendosi; la tendenza alla disgregazione della dimensione pubblica è inequivocabile: mentre la sua sfera si estende sempre più vistosamente, la sua funzione si va sempre più depotenziando.» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, 6) 3.2.1. Una breve definizione e l’origine storica della dimensione pubblica, o della sfera pubblica politica (che Sennett analizza in un ampio arco storico, ragionando in particolare sull’Ancien Régime e sulla sua crisi nel corso del XIX secolo, Habermas ricostruendo le dinamiche, le forme e i luoghi della nascita della sfera pubblica borghese fondata sulla affermazione del diritto privato e di stampo liberale fino a coglierne il mutare della logica di fronte al sorgere del contemporaneo Stato sociale e dei mezzi di gestione del consenso attraverso i mass-media: «concepita in un primo momento come la sfera dei privati riuniti come pubblico; costoro rivendicano subito contro lo stesso potere pubblico la regolamentazione della sfera pubblica da parte dell'autorità, per concordare con questa le regole generali del commercio nella sfera privatizzata in linea di principio, ma 31 pubblicamente rilevante, dello scambio di merci e del lavoro sociale. […] La sfera pubblica borghese si sviluppa nel campo di tensione fra Stato e società, ma in modo tale da rimanere essa stessa parte dell’ambito privato.» Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, 33, 163; e gli studi si pongono in parallelo con le ricerche di Foucault. In esame e sotto prospettive storiche diverse tre autori e tre paesi europei: Sennett , area inglese; Habermas, Germania; Foucault, Francia). In forma di preliminarmente occorre richiamare la doppia ipotesi di origine della “pubblicità”, come res publica, espressa da Searle R. John, 2010 Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, Raffaello Cortina editore, Milano 2010 (Making the Social World: The Structure of Human Civilization): associamento o costitutività ? [esposta in apertura a conclusione 1.] 3.2.1.1. «Una res publica rappresenta in genere i legami associativi e di reciproco impegno che esistono tra individui non uniti da vincoli di sangue o di amicizia: è il legame che unisce una folla, un “popolo”, uno Stato.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 3-4) Il riferimento “mitico” e originario va al mondo della Grecia antica, ricostruito dal classicismo (dall’immaginario classicistico) come un universo che tiene congiunti ethos e polis. «…la «sfera pubblica politica», come compendio di quelle condizioni di comunicazione nelle quali può effettuarsi una formazione discorsiva dell'opinione e della volontà di un pubblico di cittadini dello Stato, è appropriata come concetto fondamentale di una teoria della democrazia impostata normativamente. In questo senso, Jean Cohen definisce il concetto di «deliberative democracy» in questi termini: «L’idea di democrazia deliberativa è radicata nell’ideale intuitivo di un'associazione democratica in cui la giustificazione dei termini e delle condizioni di associazione procede mediante pubblico argomentare e ragionare tra cittadini eguali. In tale ordinamento i cittadini condividono l'impegno per la soluzione di problemi scelti collettivamente tramite pubblico ragionamento, e considerano legittime le loro istituzioni fondamentali nella misura in cui esse offrono un quadro per la libera deliberazione pubblica». Questo concetto discorsivo della democrazia fa assegnamento sulla mobilitazione politica e sullo sfruttamento della forza produttiva «comunicazione».» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, prefazione del 1990 XXXII-XXXIII) 3.2.1.2. Il momento storico del tracollo (ancora insuperato) della dimensione pubblica, dell’uomo pubblico: «Parlare dell’eredità ottocentesca del tracollo della vita pubblica significa parlare, da un lato, di forze di ampia portata, quali capitalismo e secolarizzazione; dall’altro, di quattro condizioni psicologiche: la manifestazione involontaria del carattere, la commistione tra pubblico e privato, l’astensione come difesa e il silenzio. Le ossessioni dell'Io sono un tentativo di risolvere gli intricati problemi del secolo scorso negandoli. Il rifugio nell’intimità è un tentativo di risolvere il problema del pubblico negando l’esistenza del pubblico stesso. Come accade per qualunque negazione, in questo modo gli aspetti più distruttivi del passato sono diventati quelli più difficili da scalfire. Il XIX secolo non è ancora stato superato.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 32) L’analisi storica diventa allora lo studio del «modo in cui il secolo scorso ha preparato il terreno per la cancellazione della res publica.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 155) I ruoli pubblici esibiti con evidenza corporea, di atteggiamenti, comportamenti, abbigliamento nell’età del cosiddetto Ancien Régime, scompaiono o vengono nascosti nelle società democratiche, sostituiti dall’affermazione del valore personale. Determinante in tal senso è l’impatto del capitalismo industriale sulla vita pubblica: il feticismo delle merci (di cui parla Marx) è anche perdita della dimensione pubblica in quanto anche il consumo delle merci standardizza, con il loro uso feticistico, la personalità; la singolarità, irrompe nella scena pubblica e si impone all’attenzione collettiva attivando processi di autopercezione emulativa per cui la funzione pubblica passa in secondo piano o si subordina al privato; viene posta cioè in secondo piano la sfera pubblica intesa come costruzione e definizione di sé secondo progetti e obiettivi che cooperano all’utilità e al bene pubblico operando in ruoli sociali. A descrivere con accurata abilità percettiva e raffigurativa l’irrompere narcisistico del privato nella dimensione pubblica sono le opere di Thomas Carlyle e soprattutto di Honoré de Balzac, cui Sennett dedica una dettagliata analisi sociologica. 32 3.2.2. I fattori e le dinamiche del declino dell’uomo pubblico: 1. Narcisismo personalistico, 2. comunità distruttiva, 3. la società (comunità) intimistica, 4. imbarbarimento del carisma. 3.2.2.1. narcisismo personalistico e crisi dell’uomo pubblico. «L’universalismo democratico si tramuta in un «particolarismo generalizzato».» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, XXXI). Per narcisismo si intende…: «Il significato clinico del narcisismo si discosta dall’accezione popolare di amore per la propria bellezza; in senso stretto, come disturbo caratteriale, denota un assorbimento in se stessi che impedisce di distinguere ciò che appartiene alla sfera dell'Io e dell’autogratificazione da ciò che è esterno. Ne consegue che il narcisismo è un’ossessione riguardante “il significato che questa persona o quest’evento hanno per me”. Tale interrogativo sull’importanza, per il soggetto, degli altri e degli avvenimenti esterni si ripete con tale insistenza da pregiudicare una percezione chiara delle persone e degli eventi. Stranamente, questo assorbimento in se stessi impedisce la soddisfazione dei propri bisogni; nel momento in cui sta per raggiungere uno scopo o comunicare con un altro, l’individuo è portato a pensare che, questo non era quel che voleva. Quindi, il narcisismo ha una doppia valenza: è al tempo stesso un assorbimento vorace nei bisogni dell’Io e un ostacolo al loro soddisfacimento.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 9) Gli effetti e la deriva: «L'attuale disturbo narcisistico nasce dal fatto che il nuovo tipo di società stimola la crescita delle componenti psichiche e cancella l’importanza dei contatti sociali — dei contatti in pubblico — al di fuori dei confini del singolo Io. […]… come l’aumento dell’importanza attribuita alle questioni psicologiche faccia diminuire il valore di un’azione sociale. […] L’attuale commistione d’interesse pubblico e privato… ha ridestato gli elementi più corrosivi dell’etica protestante in una cultura che non è più né religiosa né convinta che la ricchezza materiale costituisca un capitale etico. […] La visione intimista del mondo si sviluppa nella misura in cui la sfera pubblica è abbandonata in quanto vuota.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 9, 1314) «L’attore privato della sua arte. L'immagine del theatrum mundi mostra qual sia il potenziale espressivo della società, mentre il declino della vita pubblica mostra il destino subito da questo potenziale espressivo: nella società moderna, gli individui sono diventati attori senz'arte. Si può continuare a concepire astrattamente la società e i rapporti sociali in termini teatrali, ma gli uomini hanno smesso di recitare.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 383) «A poco a poco, quella forza misteriosa e pericolosa che è l’Io divenne il criterio con cui definire i rapporti sociali. A quel punto, la sfera pubblica dei valori e delle azioni impersonali cominciò a inaridirsi. La società nella quale viviamo oggi porta il peso delle conseguenze di questo processo storico: la convinzione che i valori sociali siano il prodotto dei sentimenti individuali ha cancellato la res publica.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 415) 3.2.2.2. comunità distruttiva; la Gemeinschaft distruttiva o l’enorme importanza attribuita alla comunità (Sennett richiama le tesi del sociologo Fernand Tönnies) e il formarsi di una personalità collettiva che assorbe in sé il bene pubblico, cioè lo annulla perché lo fa coincidere con il bene specifico della comunità di appartenenza, (o “L’imbarbarimento della comunità”) La logica della Gemeinschaft : «La logica della personalità collettiva è l’epurazione; ogni alleanza, ogni cooperazione, ogni “fronte unito” sono suoi nemici. ln generale, quando gli uomini oggi cercano di avere rapporti pieni e aperti, l'unico risultato che ottengono è ferirsi a vicenda. Questa è la logica conseguenza della Gemeinschaft distruttiva sorta con l'ingresso della personalità nella società.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 276) Nella costruzione della comunità e dei meccanismi di appartenenza rigorosa esclusiva ed escludente è di fondamentale rilevanza il ruolo del leader. Nel rappresentare emozioni in pubblico (Sennett richiama la differenza e il legame tra espressione e rappresentazione) il leader strategicamente costruisce comunità passive che portano ad escludere e annullare la dimensione dell’uomo pubblico nel cittadino. «…la comunità si formò gradualmente intorno a una personalità collettiva che divenne l’interesse principale dei membri della comunità stessa. […] Quando un gruppo di persone si riunisce per fini politici, adotta alcune posizioni comuni e poi assume un comportamento ad esse conseguente, comincia anche 33 gradualmente a credere e ad aggrapparsi alle proprie posizioni, così come a difenderle. Invece di una mossa in un gioco per il potere, queste posizioni finiscono per diventare la reale definizione dell'identità del gruppo.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 369, 374) È una strategia e un processo di “decodificazione” da ruoli politici attivi. «Da questi atti di decodificazione può nascere il senso di appartenenza a una comunità politica. Si osservano i dettagli del comportamento delle persone che hanno un determinato credo politico per decidere quali corrispondano meglio alla visione che si ha di sé. Questi dettagli diventano una rivelazione del vero carattere del conflitto, simboleggiandone la sostanza. […] Una simile comunità è ostile agli estranei, e al suo interno c’è una forte competizione su chi sia la “reale” incarnazione della personalità collettiva, su chi sia realmente un americano “leale”, un ariano “puro” o un rivoluzionario “genuino ”.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 295, 296) (Un noto caso storico di Gemeinschaft distruttiva è l’affare Dreyfus, che Sennett ricostruisce e analizza [297-310]; «L’affare Dreyfus implicò la formazione di un sentimento comunitario a livello nazionale» [324] ) Gli effetti della Gemeinschaft: essa induce «… una rigidità per sentirsi integrati in un gruppo, una sfida agli stridori della storia per il bene della comunità.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 315) annullando la natura politica e pubblica del cittadino che si ispira alla «… possibilità di agire insieme senza dover essere necessariamente identici.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 316) Di contro: «…il potere comunitario non può che essere un’illusione in una società come quella dell'Occidente industrializzato, in cui la stabilità è il frutto della progressiva espansione a livello internazionale delle strutture di controllo economico.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 415) 3.2.2.3. la società (comunità) intimistica (un legame tra personalità, comunità, intimismo). «La convinzione diffusa oggi è che l’intimità tra persone sia un bene morale, mentre l’aspirazione principale è lo sviluppo della personalità individuale attraverso esperienze d’intimità e cordialità. Il mito dominante è che i mali della nostra società siano il frutto dell’impersonalità, dell'alienazione e della freddezza. Questi tre elementi che caratterizzano il tempo in cui viviamo formano nel loro insieme un’ideologia intimista: i rapporti sociali — di qualunque tipo — sono reali, credibili e autentici quanto più si avvicinano alle intime problematiche psicologiche di ciascun individuo. Questa ideologia trasforma le categorie politiche in categorie psicologiche. […] La convinzione che l’intimità sia un bene morale è in realtà il risultato di una profonda distorsione […] … la storia della vita pubblica mette in discussione il mito dell’impersonalità come male sociale. […] L’impersonalità sembra delineare un paesaggio disumanizzato, una totale assenza di rapporti umani. Ma è questa stessa identificazione dell’impersonalità con il vuoto a creare la perdita dei rapporti. […] Il rifiuto di ogni trattativa e la costante espulsione degli estranei derivano dal desiderio, considerato umanitario, di cancellare l’impersonalità dai rapporti sociali. Questo mito dell'impersonalità porta all'autodistruzione: il perseguimento dell’interesse comune è impedito dalla ricerca di un’identità comune. […] Il timore dell’impersonalità che domina la società spinge la gente a concepire la comunità su una scala sempre più ridotta. Se l’Io si riduce alla pura intenzionalità, la condivisione dell’Io collettivo si restringe a un numero limitato di persone, escludendo coloro che, per classe sociale, opinione politica o stile, sono troppo diversi. Localismo e culto della motivazione sono le strutture di una cultura costruita sulla crisi del passato. Queste strutture ordinano la famiglia, la scuola, il quartiere, ma portano al disordine nella città e nello Stato.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 319, 321, 324) «È la perdita dell’espressione di certe capacità creative — le capacità ludiche — che tutti gli esseri umani possiedono potenzialmente, ma che esigono un ambiente distinto dalla sfera dell’Io per realizzarsi. È così che la società intimista rende l’individuo un attore privo della sua arte. L’ossessione narcisistica della motivazione e la localizzazione del sentimento comunitario svolgono un ruolo determinante in entrambi i traumi.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 235 e cfr. p. 34) 34 «Per quanto riguarda l’inciviltà, il discorso va rovesciato. L'inciviltà consiste nel gravare il prossimo con il proprio Io; è la riduzione della socievolezza ad opera di questo peso. […] La prima è l’inciviltà dei dirigenti politici contemporanei, in particolare dei leader carismatici…. mettendo eccessivamente in mostra la vita privata del leader e oscurandone contemporaneamente le azioni concrete. […] La seconda forma d’inciviltà è la distorsione della fratellanza nell’esperienza comunitaria moderna. Quanto più è piccola la comunità formata da una personalità collettiva, tanto più distruttiva diventa l’esperienza del sentimento fraterno. Gli stranieri, gli estranei, i diversi, diventano persone da evitare; i tratti personali condivisi dalla comunità diventano sempre più esclusivi, e la condivisione si basa sempre di più su decisioni di appartenenza o esclusione.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 326-327) «Le uniche azioni che la comunità intraprende consistono nel disciplinare le emozioni, escludendo dalla comunità coloro che — avendo sentimenti diversi — non ne fanno realmente parte. La comunità non può accettare, assorbire o includere elementi esterni, perché comprometterebbe la propria purezza. La personalità collettiva si oppone quindi alle interazioni sociali, che costituiscono l'essenza della socievolezza. La comunità psicologica entra in conflitto con la complessità sociale.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 382) Siamo di fronte al diffondersi di un’etica (una rete di trame sociali di valori e azioni condivise e praticate) senza morale (incapace di riconoscere, difendere e promuovere i diritti e le aspirazioni universali dell’umanità e del vivente proprie di ogni singolarità) (cfr. le tesi di Avishai Margalit: Margalit Avishai 2004 L’etica della memoria, il Mulino, Bologna 2006). 3.2.2.4. imbarbarimento del carisma o « il significato dell'inciviltà di una personalità carismatica profana» (il riferimento è agli studi di Max Weber sul tema carisma e alle analisi di Sigmund Freud). « Chi subisce il fascino di una personalità forte diventa passivo e si dimentica dei propri bisogni. Il leader carismatico finisce così per controllare il proprio uditorio in modo più completo e più misterioso dell’antico rituale “civile” della Chiesa. […] Il carisma profano illustrato si presta molto bene alle modalità con cui una tipologia di politici si rapporta con una certa categoria di persone. Si tratta di politici di umili origini, che riescono a farsi strada istigando la gente contro l'Establishment, i poteri costituiti e il vecchio ordine, pur non ponendosi come ideologi, anche se in alcune versioni americane di questo modello rivelano tendenze populiste. Il loro non è un impegno per un nuovo ordine, ma puro risentimento contro l’ordine esistente. La loro è una politica conservatrice ed elitaria; la classe a cui si rivolgono detesta i privilegiati, ma non ha alcuna intenzione di eliminare i privilegi. Attaccando l’Establishment, sperano di aprire nelle sue mura una breccia in cui ciascuno possa farsi strada per conto proprio.[…] Il capo carismatico è il piccolo uomo che è diventato l’eroe di altri piccoli uomini. È un divo: accuratamente confezionato, sottoesposto e schietto nei sentimenti, domina su un regno in cui nulla cambia sostanzialmente finché non si giunge a una crisi insolubile. » (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 333, 341, 359-360) «…la maggior parte dei gruppi comunitari che cominciano a lottare in questi termini usano la loro autentica indignazione morale come un mezzo per autolegittimarsi. I codici di credenza dominanti nella società moderna li inducono a credere progressivamente che questa indignazione sia talmente preziosa da escludere ogni possibilità di compromesso o soddisfazione, dal momento che essa diventa una definizione della loro identità collettiva. A questo punto, alla politica si sostituisce la psicologia. […] …la gente iniziò a «credere in ciò a cui prima aveva fatto mostra di credere» […] La condivisione dell’indignazione aveva abituato — progressivamente e impercettibilmente — la gente a considerare questa ostentazione di rabbia come un legame comunitario. L'indignazione condivisa divenne il centro del dialogo all'interno della comunità, e chiunque non la condividesse era ritenuto sospetto.[…] La ragione di questa isteria non è l’innata distruttività dell’uomo in preda al sentimento comunitario, ma il fatto che la cultura moderna ha finito per assumere una struttura in cui, senza qualche sollecitazione e forzatura, i legami sociali appaiono innaturali. In una società in cui gli spazi sociali sono atomizzati, il timore costante della gente è l'isolamento. Gli strumenti che questa cultura mette a disposizione degli individui per “legarsi” agli altri sono simboli instabili d’impulsi e intenzioni. Data la problematicità di questi simboli, è inevitabile che la 35 gente che li usa sia sempre portata a saggiarne la forza.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 374, 379) 3.2.3. Indicazioni per l’uscita o per la ripresa: elogio dell’impersonalità, recupero del gioco. 3.2.3.1. Elogio dell’impersonalità. «La gente imparerà a perseguire con forza i propri interessi sociali nella misura in cui imparerà ad agire impersonalmente.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 416) (e riprendendo anche: Stiglitz E. Joseph 2012 Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013). «L’idea stessa di sconosciuto può sembrare un prodotto del capitalismo: così come l’uomo è distante dal suo lavoro, lo è altrettanto dai suoi simili. La folla è l’esempio più emblematico al riguardo: la folla è un male perché è formata da sconosciuti. Se si accetta questa idea, coerente dal punto di vista emotivo, se non addirittura logico, l’eliminazione dell’“ignoto”, delle differenze tra la gente, sembra coincidere con il superamento di alcuni mali fondamentali del capitalismo. Per cancellare questa estraneità, si cerca di ristabilire l’intimità dell'esperienza umana su scala locale: si cerca, cioè, di rendere moralmente sacro il territorio locale. Si ha così un’esaltazione del ghetto. Ciò che si perde in questa esaltazione è l’idea che la gente “cresce” solo attraverso processi d'interazione con l'ignoto. Oggetti e persone insoliti possono mettere in discussione le idee note e le verità assodate: l’ignoto svolge una funzione positiva nella vita degli esseri umani, abituandoli ad assumersi dei rischi. La passione per il ghetto, e in particolare per il ghetto borghese, toglie alla gente la possibilità di arricchire le proprie percezioni ed esperienze e di apprendere la più preziosa di tutte le lezioni umane: la capacità di mettere in discussione le condizioni usuali della vita quotidiana. […] … sperimentare quegli “choc” che possono verificarsi in un ambito ignoto. Questi choc sono indispensabili a un essere umano per avere quel senso di provvisorietà delle proprie idee che ogni persona civile deve possedere. La distruzione di una città ghettizzata è una necessità politica e psicologica.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 362, 363) «Una società che teme l’impersonalità favorisce fantasie di vita collettiva di natura limitata. L’immagine dell’identità del “noi” diventa sempre più selettiva: comprende solo il vicinato, i colleghi, la famiglia. […] Non si tratta d’indifferenza, ma di rifiuto; è una restrizione intenzionale dell’esperienza che l’Io collettivo permetterebbe. Pensare questo rifiuto in termini strettamente politici non coglierebbe il fenomeno in tutta la sua forza: l’elemento centrale in questione è il grado di rischio che una persona è disposta ad affrontare. Quanto più il suo senso di un Io comune è legato alla dimensione locale, meno rischi sarà disposta a correre. Da un certo punto di vista, il rifiuto di affrontare, assimilare e sfruttare la realtà al di fuori dei ristretti limiti della propria comunità è un desiderio umano universale: è semplicemente la paura dell’ignoto. Il sentimento comunitario che nasce dalla condivisione degli impulsi svolge un ruolo di rafforzamento della paura dell’ignoto, trasformando la claustrofobia in un principio etico. […] Sfiducia e solidarietà, apparentemente opposte, procedono di pari passo.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 381) 3.2.3.1.1. la città, il luogo storico della impersonalità e della vita civile: «Quest’ultima [la città] è lo strumento della vita impersonale, la struttura in cui la diversità e la complessità delle persone, degli interessi e dei gusti sono fruibili come esperienza sociale. […] Al riparo nei giardini ordinati di Highgate o Scarsdale, la gente evoca gli orrori di Londra o di New York: qui, perlomeno, conosciamo i nostri vicini, è vero che non succede quasi mai nulla, ma se non altro la vita è sicura. È un ritorno al tribale. I termini “urbano” e “civile” indicano oggi l'esperienza elitaria di una classe ristretta, accusandola di un certo snobismo. Sono proprio la paura di una vita impersonale e il valore attribuito all’esperienza intimista a rendere l'esistenza civile, in cui le persone si trovano a proprio agio tra le esperienze più diverse — delle quali, anzi, si nutrono — una prerogativa di un’élite ricca e colta. In questo senso, l'intimismo è il tratto distintivo di una società incivile. […] … per gran parte della storia della civiltà, la città è stata il centro della vita sociale attiva, dei conflitti e dei giochi d'interesse, dell’esercizio delle potenzialità umane. Quelle potenzialità “civili" che appaiono, oggi, assopite.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 416) «E qui deve istituirsi un nuovo equilibrio non già tra poteri dello Stato, ma tra diverse risorse di integrazione sociale.[…] La forza sociointegrativa dell'agire comunicativo ha il suo luogo anzitutto in quelle forme e quei mondi 36 particolari della vita che sono intrecciati con tradizioni e sfere d’interessi di volta in volta concreti.» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, prefazione del 1990, XXX) Agire nella società “impersonalmente” è richiamare e rilanciare una partecipazione in termini di assunzione di responsabilità civile secondo ruoli e possibilità; va ripreso il concetto di “professione” come risposta a una chiamata in contesto sociale (vocatio di carattere etico civile), concetto centrale nelle analisi e nelle proposte sociali e politiche di Max Weber. 3.2.3.2. Recupero del gioco o ripresa politica della capacità di mettersi in gioco: « Il gioco come energia per l’espressione pubblica» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 386). E si tratta di una dimensione antropologica, sociale e culturale (persona, società, cultura: i tre mondi espressione formalizzata e sempre formalizzabile del mondo vitale [Husserl, Habermas, Popper]). 3.2.3.2.1. Osservando il gioco dei bambini (gioco, regole e tempo). «Il gioco delle biglie è dunque un affare complesso. È solo costruendo delle regole che i bambini si mantengono liberi dal mondo esterno non ludico e, quanto più le regole sono complesse, tanto più a lungo i bambini si mantengono liberi. Ma lo scopo dei bambini non è prolungare all’infinito questa libertà: nelle partite di biglie spesso all’inizio le regole sono confuse, per poi complicarsi ulteriormente nel corso del gioco, ma alla fine c’è sempre una conclusione chiara. Le regole del gioco sono atti di distanziamento per due ragioni. In primo luogo, perché non si ha fretta di vincere. È incredibile quanto si arrabbino i bambini quando scoprono che qualcuno sta imbrogliando. Quando un bambino cerca di acquisire una rapida supremazia sugli altri contravvenendo alle regole, tutti i partecipanti ritengono che il gioco sia compromesso. Pertanto, le convenzioni del gioco rendono il bambino “distaccato” dal piacere di dominare, anche se si gioca per vincere e il desiderio di vincere è forte. In secondo luogo, le regole agiscono da fattori di distanziamento, compensando le disuguaglianze nelle abilità dei giocatori. Per esempio, il gioco delle biglie richiede una buona coordinazione muscolare per tirare con precisione la biglia che deve andare a colpirne una lontana. Ne risulta che un bambino di quattro anni e mezzo è fisicamente svantaggiato rispetto a uno di sei. Quando bambini di età differente si trovano a giocare a biglie da distanze lunghe, i bambini più grandi decidono subito di modificare le regole, per evitare l’eliminazione immediata dei più piccoli, escogitando un “handicap” per se stessi, in modo da mettere i giocatori tutti sullo stesso piano e prolungare di conseguenza il gioco. Anche in questo caso, le regole impediscono ai bambini un’autoaffermazione immediata, una vittoria rapida. Ancora una volta, è la distanza dall’Io a strutturare il gioco.» (Sennett 1976 Il declino dell’uomo pubblico, 390) In sintesi, un triplice distanziamento: distanziamento da un esterno (da un non-gioco; traducendo: dall’impolitico); distanziamento dalla volontà di dominare a tutti i costi (ed entrare nella logica del gioco che è accettazione di regole e coinvolgimento: volontà di giocare); distanziamento dall’Io come da un assoluto-personale, anzi la volontà di giocare spinge all’attenzione alle differenze fino allo stratagemma di creare un handicap per il più forte (e creare così una situazione comune, una “sfera pubblica” diversa nella sua specificità dall’affermazione di individualismi puri). 3.2.3.2.2. Come conclusione. Il tempo delle regole e la libertà partecipata nel gioco democratico. Contro la “personalizzazione” narcisistica, il fallimento del potere nel carisma personalistico e del sociale nel comunitarismo identitario arroccato in autodifesa la ripresa della dimensione pubblica. Una ripresa di Aristotele: la società è luogo antropologico per eccellenza (chi non vi fa parte è perché o è bestia o è dio) in quanto nel sociale e solo nel sociale si attua la scoperta e la valorizzazione della propria complessità e si acquisisce quella molteplicità di habitus, di virtù etiche che fanno perfezione etica. Perfezione storica variabile che emerge in un recupero dei ruoli (Sennett) e in un agire comunicativo (Habermas) finalizzato all’intesa, nei processi relazionali veicolati dal linguaggio rispettato e analizzato nella complessità delle sue forme quotidiane secondo regole e libertà. Come nel gioco: le regole e solo le regole rendono possibile il gioco, ma il gioco c’è solo se le regole impediscono che la partita risulti prevedibile nel suo realizzarsi e nel suo esito. 3.2.4. Progettare in apertura storica, sociale e antropologica (come conclusione generale). 37 3.2.4.1. Apertura storica. Osserva Habermas: «Ogni costituzione storicamente esistente ha un duplice riferimento temporale. Come documento storico essa ricorda — interpretandolo — l’atto della fondazione e indica così un punto d’inizio. Nello stesso tempo il suo carattere normativo ci ricorda che il compito d’interpretare e sviluppare il sistema dei diritti si pone daccapo per ogni nuova generazione. Come progetto di società giusta, una costituzione articola l’orizzonte d’attesa di un futuro che è ogni volta presente. Sotto questo aspetto — di un incessante processo costituente di lungo periodo — il procedimento democratico della produzione giuridica legittima acquista una posizione tutta particolare.» In questo cammino, il ruolo e il senso delle crisi: «Crisi di questo genere risultano sempre spiegabili, almeno sul piano storico. Esse non connotano intrinsecamente le strutture delle società funzionalmente differenziate, e neppure smentiscono a priori il progetto con cui una comunità di «liberi ed eguali» vorrebbe ascrivere a sé ogni potere vincolandosi al diritto. Tuttavia queste crisi sono rivelatrici di come un sistema politico regolato in Stato di diritto s’inserisca in maniera tipicamente asimmetrica dentro processi circolari altamente complessi. Di questi ultimi gli attori devono farsi un’idea precisa, se vogliono impegnarsi con successo e in atteggiamento performativo (in veste di cittadini, deputati, giudici, funzionari ecc.) nella realizzazione del sistema dei diritti. Siccome questi diritti devono essere interpretati in modi diversi col mutare dei contesti sociali, la luce che essi gettano su tali contesti si frange nello spettro di paradigmi giuridici mutevoli. Le varie costituzioni storiche si lasciano intendere come altrettante interpretazioni d’una sola e medesima prassi: quella con cui consociati giuridici liberi ed eguali si autodeterminano. Ma come tutte le altre prassi, anche questa è situata nella storia. Gli interessati non possono che partire dalla loro prassi determinata, se vogliono mettere in chiaro ciò che questa prassi significa in generale.» (Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, 456, 458) 3.2.4.2. Apertura antropologica sociale. L’incontro tra mondo della vita e sistema nell’agire comunicativo sociale. Osserva Habermas: «La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un potenziale razionale insito nella prassi comunicativa quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a una scienza sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in tutta la loro estensione i processi di razionalizzazione culturale e sociale, ripercorrendoli anche oltre la soglia delle società moderne; allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali normativi solo in una formazione specifica di un’epoca. […] … collegare il concetto di mondo della vita introdotto nella Logik der Sozialwissenschaften (1967; «Logica delle scienze sociali») col concetto di sistema che mantiene i confini. Da questo si sviluppa nella Theorie des kommunikativen Handels (1981; «Teoria dell’agire comunicativo») la concezione binaria della società come mondo della vita e come sistema. Questa comporta infine radicali conseguenze per il concetto di democrazia.» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, dall’Introduzione del 1990, XXVIII, XXIX) 3.2.4.3. Nei processi deliberativi, non nelle volontà, meno ancora nelle (demagogiche) emozioni; come le emozioni dei bambini nel gioco danno vita a regole frutto di deliberazioni e fonte di vincolo, fatti salvi i problemi della realtà che pongono nuovi aspetti, così il gioco democratico ha la propria validità nei processi deliberativi e non in generiche “volontà generali”; occorre sottoporre a critica «la «democrazia dell’opinione non pubblica» di Rousseau, perché egli concepisce la volontà generale più come «consenso dei cuori che degli argomenti». 3.2.4.3.1. La consapevolezza critica circa la debolezza democratica e i rischi plebiscitari demagogici di un consenso costruito sulla pubblica opinione intesa come richiamo alla volontà generale o alla buona volontà. «Con il doppio presupposto di una limitazione del pubblico ai privati borghesi e della limitazione del loro dibattere alle fondamenta della società borghese come sfera di disposizione privata, va in pezzi anche la vecchia base di convergenza delle opinioni e non ne sorge certo una nuova per il fatto che gli interessi privati che irrompono nella sfera pubblica ne mantengono la finzione. Al consenso generato nel segno di un fittizio public interest mediante raffinati opinion-molding services [servizi di formazione (fabbricazione, modellazione) d’opinione] mancano in generale i criteri della ragionevolezza. La critica avveduta che si esercita su questioni 38 pubblicamente discusse è sostituita dalla disposizione alla conformità con le persone o le personificazioni pubblicamente presentate; il consent coincide con il good will, prodotto dalla publicity. […] L'effetto immediato della pubblicità non si esaurisce in quell'effetto pubblicitario decommercializzato di una aura of good will che produce una disposizione al consenso. Questa pubblicità, oltre a influenzare le scelte dei consumatori, serve anche come pressione politica, perché mobilita un potenziale inarticolato di disposizione al consenso che, in caso di necessità, può tradursi in acclamazione di tipo plebiscitario.» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, 224,232) 3.2.4.3.2. La proposta: ripresa della comunicazione volta all’intesa come base del consenso e non il «consenso dei cuori» (si può notare, in proposito, come nelle kermesse dei partiti, marcatamente in quelli nei quali la leadership personalistica gioca un ruolo primario, nel momento della massima emozione, della emozione partecipativa, si canta l’inno [l’inno di appartenenza] con lo sguardo ispirato, rapito e perso e con la mano sul cuore). «In suo luogo, la morale che Rousseau pretende dai cittadini dello Stato e che egli colloca nelle motivazioni e nelle virtù del singolo, deve venire essa stessa ancorata nel processo della comunicazione pubblica. Bernard Manin concettualizza tale conclusione: «È necessario modificare radicalmente la prospettiva comune alle teorie liberali e al pensiero democratico: la fonte della legittimità non è la volontà predeterminata degli individui, ma piuttosto il processo stesso della sua formazione, vale a dire la deliberazione... Una decisione legittima non rappresenta il volere di tutti, bensì è una decisione che risulta dalla deliberazione di tutti. È il processo per cui è formato il volere di ciascuno quello che conferisce al risultato la sua legittimità, piuttosto che la somma di voleri già formati. Il principio deliberativo è individualistico non meno che democratico... Noi dobbiamo affermare, a rischio di contraddire una lunga tradizione, che il diritto legittimo è il risultato della generale deliberazione, non l’espressione della volontà generale». Con ciò l’onere della dimostrazione si sposta dalla morale dei cittadini a quei procedimenti della formazione democratica dell’opinione e della volontà che sono destinati a fondare la presunzione di raggiungere risultati razionali.» (Habermas 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, dall’Introduzione del 1990, XXXI-XXXII). 39