Viaggio musicale attraverso l`Europa con il violino di Janine Jansen

Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (Bologna) - Bimestrale n.2/2014 – anno XXIII/BO - € 2,00
marzo/maggio 2014
Primavera di stelle con il klezmer
della Mahler, la Russia di Bashmet
e il pianoforte di Lupu e Volodos
Musica Insieme COntemporanea
fra Schoenberg, Maderna
e nove prime esecuzioni
Viaggio musicale attraverso l’Europa
con il violino di Janine Jansen
SOMMARIO n. 2 marzo - maggio 2014
Musica a Bologna - I programmi di Musica Insieme
9
Editoriale
Parole, parole, parole… di Fabrizio Festa
Musica Insieme in Ateneo
Fra Russia e Germania di Elisabetta Collina
12
MICO - Musica Insieme COntemporanea
14
Le mille voci dell’oggi di Fulvia de Colle
Interviste
18
20
22
Il profilo
24
I luoghi della musica
26
Il calendario
29
Per leggere
50
Jaan Bossier di Anastasia Miro
Itamar Golan di Cristina Fossati
Arcadi Volodos di Alessandro Di Marco
Leoš Janáček di Fabrizio Festa
Dalla scena al dipinto di Maria Pace Marzocchi
I concerti marzo / maggio 2014
Musica in catalogo: Berio, Beacco, Murakami
di Chiara Sirk
Da ascoltare
L’intellettuale leggerezza di Jansen, Volodos, Lupu
e Romanovsky di Lucio Mazzi
6
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MUSICA INSIEME
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In copertina: Janine Jansen
EDITORIALE
PAROLE, PAROLE, PAROLE…
Foto Francesco Mammarella
È davvero singolare osservare la disparità che
esiste tra la centralità del dibattito sulle vicende culturali (cittadine e nazionali) e la
marginalità che le medesime rivestono dal
punto di vista dell’impegno delle risorse.
Prendiamolo come un dato di fatto. Così
si discute anche con una certa quale durezza
su una mostra-grande evento, ma in un contesto in cui parrebbe proprio che nessuno
in realtà voglia sfruttare tale “evento” per
le potenzialità che potrebbe avere. Certo,
che Bologna non riesca a valorizzare i suoi
tesori (tanti e importanti), e si sia costretti a importare un quadro celebre per attrarre
visitatori non può non lasciare una qualche
perplessità. Si tratta, però, di un dejá-vu.
Quante volte, infatti, su queste stesse pagine abbiamo scritto che la programmazione
musicale bolognese non ha nulla da invidiare a quella delle altre capitali europee della musica, e che anzi, considerando il rapporto tra il numero degli abitanti (e quindi della possibile utenza) e la qualità/quantità della programmazione medesima, Bologna primeggia in Europa (e non solo).
Dunque, quel dibattere sembra non voler
andare al punto: valorizzare al meglio le risorse in campo. E ora che anche la nostra
ventisettesima stagione volge verso la sua
conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione su un semplice, ma significativo
dato: chi sarà di scena al Manzoni da marzo a maggio. Ovvero chi saranno i nostri
ospiti. Si comincia coi Solisti della Mahler
Chamber Orchestra, poi Yuri Bashmet
con il suo ensemble, il violino di Janine Jansen accanto alla tastiera di Itamar Golan,
ed infine due straordinari pianisti: Radu
Lupu e Arcadi Volodos. Si tratta di alcuni
tra i maggiori protagonisti della scena
musicale internazionale, che Musica Insieme
mette a disposizione della città, inserendoli
in un quadro di attività formative e informative articolato e coerente. Ed è proprio
tale coerenza e tale articolazione a sostenere
la nostra affermazione: cioè che mettiamo
a disposizione della città il nostro impegno
di operatori culturali. Abbiamo coinvolto
il pubblico dei comuni della provincia e gli
studenti degli istituti secondari superiori.
Quelli dell’Università, anche, e quelli che
amano la contemporanea. Sempre tenendoli informati grazie proprio a questa rivista,
le cui pagine sono state più volte offerte a
chi opera come noi nella musica, ma senza ottenere risposta. Che il nostro modo di
procedere, le nostre scelte programmatiche
e persino il nostro tipo di comunicazione
spesso vengano copiati non lo consideriamo un titolo di merito. Al contrario, preferiremmo, e senza neppur pensare alla tanto invocata cabina di regia, che ci si accingesse tutti a collaborare animati dal medesimo spirito: valorizzare concretamente
il frutto di tanto impegno.
Fabrizio Festa
MI
MUSICA INSIEME
9
MUSICA INSIEME IN ATENEO
Fra Russia e Germania
V
Si conclude il viaggio di Musica Insieme in Ateneo con uno straordinario talento
pianistico al suo debutto a Bologna, e con un trio di esperti cameristi, ospiti
di un ideale salotto in casa Schumann di Elisabetta Collina
incere una, o magari più, importanti competizioni internazionali
è a tutt’oggi la maniera di acquisire la chiave d’accesso per una significativa carriera internazionale. Leonardo
Colafelice, oggi poco più che diciottenne,
ha già collezionato un palmarès di tutto
rispetto. Marta Argerich lo ha premiato
alla “YAMAHA USASU Piano Competition”. Dal Giappone agli Stati Uniti,
dove vince lo “Hilton Head”. Ed infine
– per il momento – eccolo tornare nel
vecchio continente, in Danimarca per
l’esattezza dove conquista il primo premio
al Concorso di Aarhus. Dunque, Leonardo Colafelice approda a Musica Insieme in Ateneo già forte di un riconoscimento oseremmo dire planetario, che ci fa
credere sia solo l’inizio di una brillantissima carriera. Che sia un virtuoso, e cioè
ami presentare in pubblico brani impegnativi, attraverso i quali mettere in luce
tutto il suo talento, lo dimostra il programma, sotto il segno della musica russa,
che ha scelto per questo suo recital bolognese, che lo vedrà esibirsi all’Auditorium
dei Laboratori delle Arti giovedì 20
marzo. In apertura troviamo quel vero e
proprio tour de force pianistico che sono
le Variazioni su un Tema di Corelli op. 42
composte da Sergej Rachmaninov. Il
tema in oggetto è quello della celebre
Follia (nella dodicesima tra le Sonate di
Corelli), danza che peraltro si avvale di
un altrettanto celebre basso ostinato. Rachmaninov è ormai nel pieno della sua
maturità quando porta al debutto questa, che diverrà presto una delle sue pagine più eseguite ed amate dal pubblico.
A seguire Prokof ’ev, le Visions Fugitives
op. 22, e quella che da molti è considerata tra le più impervie pagine pianistiche dell’intero repertorio: i Tre Movimenti da Petruška di Igor Stravinskij.
Dunque Novecento russo, un Nove-
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MUSICA INSIEME
cento in cui il pianoforte viene portato
ancora oltre i limiti. L’ultimo degli appuntamenti di Musica Insieme in Ateneo, realizzato lunedì 7 aprile in collaborazione con il Centro la Soffitta,
braccio produttivo del Dipartimento
delle Arti dell’Università di Bologna,
vedrà invece in scena tre esperti cameristi, in un programma dal titolo “Nel
salotto di Clara Schumann”: il clarinettista Andrea Massimo Grassi, il violoncellista Michael Flaksman e la pianista Anna Quaranta. Una formazione
la loro che ha trovato nell’Ottocento
riscontri importanti, e che seguendo il
fil rouge di quest’edizione di Musica
Insieme in Ateneo rivolgerà le sue attenzioni al repertorio tedesco. Concluderà
la loro esibizione l’intenso Trio in la
minore op. 114, frutto di un Brahms
nel pieno di quella straordinaria maturità, in cui videro la luce molti tra i
suoi capolavori. Del compositore di
Amburgo anche la pagina che verrà presentata in apertura di concerto, tratta
sempre da quella splendida maturità. Si
tratta, infatti, della Sonata in mi bemolle maggiore op. 120 n. 2 per clariL’ingresso a tutte le manifestazioni della rassegna è gratuito per gli
studenti ed il personale docente e
tecnico amministrativo dell’Università di Bologna; gli inviti possono essere ritirati presso la sede
dell’URP in Largo Trombetti n. 1
la settimana precedente ciascun
concerto (Lunedì, Martedì, Mercoledì e Venerdì dalle 9 alle 12,30;
Martedì e Giovedì dalle 14,30
alle16,30). Il giorno del concerto, tutti i cittadini potranno ritirare
gli inviti ancora disponibili, recandosi all’URP negli orari di apertura.
CALENDARIO
MARZO - APRILE 2014
Laboratori delle Arti /Auditorium
(Piazzetta Pier Paolo Pasolini 5/b) ore 20,30
2014 giovedì
20 marzo
Leonardo Colafelice pianoforte
2014 lunedì
7 aprile
Andrea Massimo Grassi clarinetto
Musiche di Rachmaninov, Prokof’ev, Stravinskij
Michael Flaksman violoncello
Anna Quaranta pianoforte
Musiche di Schumann, Brahms
in collaborazione con
Centro La Soffitta – Dipartimento delle Arti
netto e pianoforte. Tre anni all’incirca
separano queste due opere: il Trio data
1891, nel 1894 debutta invece la Sonata. Che il clarinetto sia il filo conduttore tra questi due pezzi è più che
una singolare coincidenza. Brahms già
nell’estate del 1890, dopo aver portato a
termine il Quartetto op. 111, sembrava
deciso a chiudere la sua carriera. A fargli
cambiare idea un incontro casuale:
quello col clarinettista Richard Mühlfeld, che ovviamente cercò di convincerlo a comporre per il suo strumento,
quel clarinetto che proprio nel contesto
della musica tedesca ed austriaca aveva
conquistato uno spazio di primo piano.
Ecco allora il Trio, poi il Quartetto op.
115 e le due Sonate op. 120. Coerentemente tra le due opere brahmsiane troviamo l’omaggio a chi Brahms lo aveva
scoperto e lanciato sulla scena: Robert
Schumann. Suoi i Fantasiestücke op. 73,
originariamente composti (nel 1849)
proprio per clarinetto e pianoforte, e
dei quali poi Schumann stesso preparò
una versione per violoncello; ed è appunto quest’ultima che ascolteremo.
MICO - Musica Insieme COntemporanea 2014
Si completa con numerose prime esecuzioni e col Pierrot Lunaire – di cui ci parla
Marco Angius – il progetto “Paesaggio Voce” di Musica Insieme COntemporanea,
per concludere il cartellone sulle note gioiose di Bruno Maderna di Fulvia de Colle
Le mille voci dell’oggi
T
re concerti in tre mesi completeranno la nona edizione di
Musica Insieme COntemporanea, nell’ormai più che rodata – e
ideale – sede dell’Oratorio di San Filippo Neri, sotto i riflettori quello che
è oggi a tutti gli effetti l’ensemble residente della rassegna: il FontanaMIX.
Scorrendo dunque i tre appuntamenti
conclusivi, troviamo il completamento
di quel “Paesaggio Voce” che si è aperto
lo scorso febbraio con il concerto dedicato a due capolavori della vocalità
‘popolare’ come Folk Songs di Berio e
Kantrimusik di Kagel. Il 25 marzo,
affidato al soprano Livia Rado e sotto
la direzione di uno specialista riconosciuto della contemporanea qual è
Marco Angius, ecco proposto infatti
per “Paesaggio Voce II” quel Pierrot
Lunaire di Arnold Schoenberg, stravolgente opera pionieristica della vo-
calità da camera del Novecento; accanto al Pierrot, ascolteremo poi la
prima esecuzione italiana di abroad
(per voce, strumenti ed elettronica, su
testi di Pessoa) del giovane compositore Daniele Ghisi, il cui lavoro si è già
fatto strada nei teatri di tutta Europa.
Su questo impaginato torneremo fra
poche righe, raccogliendo le riflessioni
dello stesso Angius, mentre ricordiamo
per il terzo appuntamento dell’itinerario “Paesaggio Voce”, il 16 aprile, le
prime esecuzioni assolute di opere di
Nicola Evangelisti e Andrea Sarto, e le
prime italiane di Stefano Gervasoni e
Francesco La Licata, tutti brani caratterizzati dal rapporto fra la voce e un
particolare strumento solista. Sarà invece dedicata a Bruno Maderna, di
cui ricorrevano nel 2013 i quarant’anni dalla morte, la serata conclusiva del 16 maggio, che vedrà il Fon-
Marco Angius
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MUSICA INSIEME
tanaMIX affiancato all’ensemble Accroche Note di Strasburgo, dove il progetto ha visto la luce.
Tornando per così dire alle origini della
vocalità contemporanea, abbiamo
chiesto a Marco Angius di parlarci del
capolavoro di Schoenberg che ascolteremo il 25 marzo, e le sue parole si
sono estese ad una più ampia ed esaustiva panoramica sulla contemporaneità.
Proprio lo scorso ottobre è uscita
per Stradivarius una sua incisione
del Pierrot Lunaire di Schoenberg,
con la stessa Livia Rado nel ruolo
di voce narrante/cantante: su quali
elementi in particolare si è concentrato per questa nuova lettura?
«Con Livia abbiamo lavorato su questa
straordinaria partitura maturando delle
scelte specifiche per ciascun brano.
Ogni volta che si presenta l’occasione
di dirigere il Pierrot lunaire, mi trovo a
scoprire aspetti e dettagli sempre nuovi
e sorprendenti. Per questo sono felice
di affrontarlo ora con FontanaMIX,
un ensemble che conosco da tempo
per l’impegno nella musica contemporanea ma con cui non avevo mai
collaborato prima. Sono dunque particolarmente entusiasta di immergermi
in questa nuova avventura, nonché
onorato dell’invito dell’amico Francesco La Licata. Le mie scelte di lettura si
basano sul rovesciamento del rapporto
tra voce ed ensemble e sulla riscoperta
di un diverso modo di materializzare
musicalmente le visioni contenute nei
testi, ispirandomi peraltro a quanto
Schoenberg stesso immaginava. Ho voluto evidenziare come siano gli strumenti a parlare, urlare, sussurrare
quelle stesse immagini poetiche evocate dalla voce in una logica discorsiva
che non la pone al centro degli eventi
ma a lato di essi (anche fisicamente)
ovvero la fagocita in una rete implacabile tessuta dal gruppo strumentale.
Senza dubbio la forza comunicativa del
Pierrot risiede anche nella ghirlanda di
forme brevi e talvolta aforistiche in cui
è articolato, quasi degli incipit piuttosto che pezzi veri e propri, miniature da
cui scaturisce un’energia emotiva (e sonora) deflagrante. Il flusso di coscienza
della Sprechstimme (voce parlante), schizofrenico o allucinato che sia, segue una
traiettoria imprevedibile e di fatto dissociata dall’ensemble. Da un lato abbiamo questo gruppo agguerrito di cinque esecutori (con cambi strumentali di
volta in volta diversificati) e dall’altro il
corpo assente della voce, lo Sprechgesang
(canto parlato), come se i brani fossero
il risultato di un montaggio fittizio tra
due dimensioni distinte, la cui collisione genera una materia rappresentativa di grande impatto psicologico, dalle
infinite implicazioni sonore. È una partitura irrinunciabile per chiunque voglia
accostarsi alle avanguardie artistiche del
Novecento e al senso più autentico del
comporre. In fondo l’aneddoto di Puccini che ascolta il Pierrot a Firenze nel
1924 risulta in tal senso emblematico e
quasi fatale (per Puccini, intendo)».
Alla voce di Livia Rado è affidata
una delle novità più sconvolgenti
della scrittura di Schoenberg: lo
Sprechgesang, appunto, sul quale
l’autore era assai preciso e prescrittivo: come lo spiegherebbe ad
un ascoltatore non ‘tecnico’?
«Schoenberg è stato preciso e prescrittivo su ciò che non va eseguito spiegandolo nella celebre prefazione alla
partitura. Egli ricorre a una X su ogni
gambo di nota dello Sprechgesang,
come se volesse cancellarne il contenuto e la consistenza. Si fa spesso riferimento allo stile da cabaret che
avrebbe ispirato in qualche modo le
intuizioni di Schoenberg per un recitar
cantando così deformato e anti-natura-
Musica Insieme COntemporanea
CALENDARIO
marzo - maggio 2014
Oratorio di San Filippo Neri
(Via Manzoni 5) ore 20,30
25 FONTANAMIX ENSEMBLE
marzo 2014 martedì
Livia Rado soprano
Valentino Corvino violino
Marco Angius direttore
PAESAGGIO VOCE II
Musiche di Ghisi, Maderna, Schoenberg
16 FONTANAMIX/Solisti
aprile 2014 mercoledì
Iris Lichtinger voce e flauti dolci
Chiara Telleri oboe
Eva Zahn violoncello
Walter Zanetti chitarra
PAESAGGIO VOCE III
Musiche di Evangelisti, Maderna,
Sarto, Gervasoni, La Licata
16 ENSEMBLE ACCROCHE NOTE
maggio 2014 venerdì
FONTANAMIX ENSEMBLE
Françoise Kubler voce
Giovanni Hoffer corno
Francesco La Licata direttore
MADERNA SÉRÉNADE
Musiche di Maderna, Aralla, Perez Ramirez,
Cappelli, Ballereau
listico. Le note cantate sono infatti rarissime in tutta l’opera e la novità risiede proprio qui. La dissociazione tra
voce e strumenti di cui parlavo avviene
in funzione dello Sprechgesang in
quanto questa modalità recitativa
tronca il legame armonico in modo surreale o drammatico. Penso all’ultimo
numero, O alter Duft, in cui il profumo di un’armonia trapassata – percepibile nel mi maggiore mancato dell’inizio – sembra attraversato dalla voce
in un abbraccio impossibile perché appunto privo d’intonazione fissa. Le relazioni melodiche tra linea vocale ed
ensemble sopravvivono però come imitazione astratta quando gli strumenti
fanno il verso alla voce tentando grottescamente di recitare al suo posto».
Lei ha pubblicato anche un’importante monografia su Salvatore
Sciarrino e numerosi saggi ed articoli su compositori viventi o vissuti
nel secolo scorso. Quanto è importante secondo lei ancora oggi far
conoscere l’opera dei musicisti del
XX e XXI secolo?
«Nel mio caso è una ragione di ricerca
artistica ed esistenziale strettamente
connessa ai miei interessi di interprete
e studioso. La musica contemporanea,
inoltre, ha una forte valenza didattica e
formativa ancora sottovalutata; se è
vero, citando Bloch, che nel far musica
cerchiamo noi stessi, un repertorio che
si evolve e rinnova continuamente può
offrire spunti di studio e maturazione
inesauribili. Ne è prova che chi dirige
Boulez può affrontare il repertorio classico ma non è così scontato il contrario, se non a prezzo di cadere nell’orrida e perniciosa routine. Il discorso è
in realtà più ampio e complesso perché
riguarda anche la coscienza di saper
comprendere e trasmettere un repertorio che solo in apparenza si presenta
ostico. Di recente ho proposto, proprio
con Livia Rado, un programma
Bach/Ferneyhough nella stessa serata
constatando – come prevedevo – che
esistono troppi preconcetti sugli orientamenti e i gusti del pubblico. Che il
pubblico cerchi o non cerchi questo
tipo di esperienze d’ascolto non riguarda l’essenza delle opere contemporanee (o del Novecento storico) ma
aspetti più inerenti alla società e al
tempo presente, di cui non compete
certo a noi artisti farci carico. Il nostro
compito, da un punto di vista etico e
morale, è semmai quello di far conoscere questo genere di produzione musicale rendendola interessante e significativa, ma anche esprimendo attraverso
di essa convinzioni e idee che possono
cambiare o migliorare la società stessa
in modo più o meno indiretto».
Lei è un direttore di riferimento per
la musica contemporanea, come è
nata la sua passione per questo
repertorio?
MI
MUSICA INSIEME
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MICO - Musica Insieme COntemporanea 2014
Livia Rado
«L’attitudine è subito emersa da quando
mi occupo di musica, cioè da sempre. La
maturità interpretativa invece è altra cosa,
richiede applicazione costante e occasioni continuative di esperienze sul
campo. Faccio qualche esempio: l’opera
Die Schachtel di Franco Evangelisti, contenuta nello stesso cd del Pierrot lunaire
cui lei faceva riferimento sopra, l’ho scoperta quando avevo quindici anni ma
l’ho incisa solo venticinque anni dopo.
Così per la musica di Sciarrino che ho cominciato a studiare intorno ai diciott’anni ma che ho diretto per la prima
volta a trenta: quando Sciarrino mi ha
proposto di dirigere al suo posto Studi
per l’intonazione del mare (2000), si è
presentata un’opportunità salvifica e decisiva per dare una svolta ad anni di apprendistato e gavetta e di ciò gli sono
senz’altro grato».
Il programma del 25 marzo si completa con una prima esecuzione italiana di Daniele Ghisi, dove una
sorta di contrappunto fra acustico ed
elettronica rappresenterebbe l’alternarsi di realtà e ‘altrove’: c’è un particolare motivo per cui a suo avviso
il brano di Ghisi ben si sposa al Pierrot di Schoenberg?
«Trovo che sia un ottimo accostamento
per la scelta della programmazione e l’originalità della proposta. Il dato comune
più esterno è il numero sette di cui si
compongono entrambi i lavori (nel caso
di Schoenberg è una connotazione esoterica di ventuno componimenti raggruppati in «tre volte sette» poesie di Giraud,
così come il primo motivo musicale che si
compone di sette diverse note). Forse anche l’aspetto onirico, di memoria subliminale – che nella composizione di Ghisi
viene suggerito dall’interazione tra una
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MI
MUSICA INSIEME
meta-dimensione elettronica e una acustica strettamente correlate – può accostare abroad agli affascinanti deliri acustici
del Pierrot lunaire. Comunque le saprò rispondere meglio dopo aver effettivamente
concertato e diretto il brano di Ghisi, in
quanto tra una partitura e la sua realizzazione corrono molti altri stadi intermedi.
Quando si analizza una composizione
non bisogna dimenticare che ci si occupa
di un sistema di segni e non di suoni, la
FontanaMIXensemble
cui esegesi ci saluta ai margini dell’evento
musicale in senso stretto. Le note sono segni immobili e muti mentre i suoni sono
corpi che vibrano e in tal senso credo che
la partitura rappresenti un progetto che
attende letture a oltranza. Ogni partitura
è incompiuta finché un interprete non
prova a offrirne una possibile, ulteriore
messa in opera (per completarla solo momentaneamente, diciamo)».
Il concerto del 25 marzo si inserisce
in un trittico di appuntamenti che
MICO dedica al “Paesaggio Voce”.
Come definirebbe, in sintesi, il nuovo
utilizzo della voce nella musica contemporanea?
«È una domanda che richiederebbe molteplici risposte vista la situazione attuale
estremamente differenziata e al tempo
stesso globalizzata. Dalla voce possiamo
aspettarci ancora molte sorprese e scoperte ma è sul concetto di nuovo – così
come su quello di contemporaneo – che
dobbiamo intenderci. Cos’è che rende at-
tuale e necessaria un’opera? Penso che vada
fatta una distinzione specifica per la produzione di teatro musicale, che costituisce un luogo elettivo d’invenzione intorno alle possibilità espressive della voce.
Inoltre le potenzialità di trattamento elettronico in tempo reale hanno profondamente inciso sul modo di percepire il
canto e i fenomeni vocali rispetto, per
esempio, all’epoca di Schoenberg. Secondo me l’innovazione non è più insita
nell’uso vecchio o nuovo della voce ma si
misura su altri livelli e parametri (e men
che meno a livello di scrittura): nel rapporto col testo, con la drammaturgia, in
un lavoro di concertazione che agisca sul
suono, sullo spazio e sul tempo di emissione/percezione. La vocalità di Monteverdi, ad esempio, è antica o sempre attuale? Voglio riferirmi a un caso per me
significativo: recentemente ho ascoltato
l’Orfeo orchestrato da Respighi (1934) e
sono rimasto sconcertato non solo dal risultato musicale, di una bellezza dirompente, mai retorica o scontata, ma soprattutto da una carica inventiva che mi
ha fatto scoprire un Monteverdi a colori
come nessuna stitica ricostruzione filologica avrebbe mai potuto. Dico questo
perché non si tratta di rifugiarsi in un passato ormai inesistente e irraggiungibile
(Respighi mantiene intatti gli unici reperti
rimasti: il canto e la linea del basso), ma
di reinventarlo di sana pianta per arricchire il presente reagendo all’imperante
inutilità estetica che ci accerchia. Del futuro, però, non parlo proprio».
ACQUISTO BIGLIETTI
I biglietti per i concerti di MICO
si possono acquistare online
collegandosi al sito:
www.musicainsiemebologna.it
o www.vivaticket.it e nei punti
vendita del Circuito Vivaticket.
Il giorno del concerto inoltre
i biglietti saranno in vendita
a partire dalle 19 presso
l’ORATORIO DI SAN FILIPPO
NERI (Via Manzoni, 5).
PREZZI: Posto unico € 10.
Abbonati Musica Insieme, studenti
Università e Conservatorio € 7.
L’INTERVISTA
JAAN BOSSIER - MAHLER CHAMBER SOLOISTS
L’anima della musica
Con un affascinante programma dalla classica al klezmer, debutta
a Musica Insieme l’ensemble formato dalle prime parti
della Mahler Chamber Orchestra di Anastasia Miro
I
Mahler Chamber Soloists, i cui
membri provengono da quattro
paesi diversi, hanno fatto del dialogo interculturale uno dei loro scopi
principali. Jaan Bossier, arrangiatore e
clarinettista, ci racconta del suo rapporto
con il pubblico, dell’interesse per la musica klezmer e delle attività della Mahler
Chamber Orchestra, in seno alla quale si
è formato l’ensemble.
La Mahler Chamber Orchestra è stata
fondata sotto gli auspici di un grande
Maestro come Claudio Abbado, recentemente scomparso: come, e a
quale scopo, è nata l’Orchestra?
«Tutti i fondatori della Mahler Chamber
Orchestra erano membri della Gustav
Mahler Jugend Orchester. Questa era,
ed è ancora, un luogo in cui i giovani
musicisti provenienti da tutta Europa,
durante il periodo di studio, hanno la
grandissima opportunità di lavorare con
i principali direttori d’orchestra del
mondo. Io ero uno di quei fortunati. Nel
1997 alcuni di noi presero l’iniziativa di
formare un’orchestra da camera e di continuare a fare musica insieme. Così è
nata la Mahler Chamber Orchestra, con
il grande supporto di Claudio Abbado».
Quanto è influenzato il vostro modo
di lavorare dal fatto che i membri
dell’ensemble provengono da diversi
paesi europei?
«Sono convinto che accostare varie culture, grazie alle influenze reciproche, sia
un arricchimento della società e che porti
la nostra musica ad un livello differente!
Questo è uno dei nostri pilastri. Nei nostri programmi voglio presentare i diversi background dei musicisti, mostrare
come si integrano passioni ed opinioni
diverse, e come questo sia un grande contributo per la creatività e l’ispirazione».
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MI
MUSICA INSIEME
La Mahler Chamber Orchestra ha lavorato, e lavora tanto in Italia: come
percepite il pubblico italiano e il panorama musicale in generale del nostro paese?
«È vero, io personalmente ho suonato
molto in Italia, e ho davvero avuto esperienze notevoli. Ovunque abbia suonato,
ho notato un grande interesse per andare ai concerti, per vivere la musica. A
Ferrara, la città in cui ho sicuramente
suonato di più in Italia, il pubblico è un
po’ speciale. Ricordo situazioni in cui
persone che non avevo mai visto prima
(ad esempio una signora che lavora in
una biblioteca, i gestori di un ristorante,
il proprietario di un negozio) hanno cominciato a parlarmi di uno degli ultimi
concerti in cui ho suonato, o di una
prova aperta a cui hanno assistito. Questo dimostra che le nostre facce sono conosciute in città, che le persone vengono
spesso a teatro e ci ascoltano! Il che ovviamente crea un contatto con il pubblico anche da parte nostra. Noi cominciamo a conoscere le persone e poco alla
volta ci sentiamo a casa nelle città del
Nord Italia. Lasciatemelo dire, questo
non succede ovunque! Naturalmente all’estero sentiamo anche parlare del disastro politico nei confronti della cultura in
Italia (ma non solo in Italia)! Credo che
la cultura sia sempre stata il fondamento
di ogni società. Sottrarre poco alla volta
ogni pietra da questo muro, alla fine distruggerà l’intera società».
La Mahler Chamber Orchestra ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il
suo impegno nel sociale e soprattutto per l’educazione. Ci parla del
progetto “MCO Landings”?
«Penso che l’educazione sia una delle nostre attività principali. Non si tratta solo
di suonare nelle scuole o rendere accessibile una prova ai giovani. È la responsabilità di ogni singolo musicista di prendersi cura della prossima generazione.
Sul palcoscenico voglio ‘rivoltare’ i cuori
dei giovani ancora alla ricerca di se stessi.
Voglio mostrar loro come le emozioni
siano per me la linea guida nella vita.
Non dobbiamo essere spaventati dalle
emozioni, al contrario, dobbiamo aprirci
completamente agli altri e volare in libertà, persi nella musica. So che questo
non è possibile per tutti, ma credo di
dover mostrare alle persone che così accade a me. I nostri programmi educativi
con la Mahler Chamber Orchestra sono
troppo vari per essere descritti qui brevemente. Posso dire che “landings” significa che siamo sempre un’orchestra in
viaggio. Ovunque noi ci fermiamo proviamo a offrire qualcosa di più di un
concerto. Veniamo a contatto con gli
studenti del luogo in tanti modi. Lavoriamo insieme alle giovani orchestre, seguiamo progetti di musica da camera,
diamo lezioni individuali, facciamo prove
aperte per le classi, ecc. Ma abbiamo anche un progetto in tutto il mondo che
coinvolge i bambini non udenti! A Ferrara cooperiamo anche con un ospedale
che utilizza la musica come terapia».
Come avete concepito il programma
del concerto per Musica Insieme e
perché avete deciso di suonare la
musica klezmer alternata al repertorio cameristico?
«Come dicevo, il mio obiettivo è mostrare i diversi background e le diverse
culture dei musicisti, proprio come accadrà nel concerto per Musica Insieme.
Essendoci incontrati tutti all’interno
della Mahler Chamber Orchestra, io e il
gruppo che ascolterete a Bologna suo-
navamo insieme musica classica, ma avevamo tutti una passione per il klezmer.
La nostra fisarmonicista ed io suoniamo
anche molta musica contemporanea. Io
uso nella mia musica klezmer questi
suoni provenienti da differenti scenari
musicali. A volte si presentano come
melodie arrangiate o come suoni inseriti
nelle improvvisazioni. Il pubblico può
comprendere queste connessioni musicali proprio grazie all’inserimento di musica classica e moderna nel programma.
Prima dell’intervallo suoneremo un Trio
di Mozart e uno di Max Bruch, un repertorio classico ovviamente adatto ai
due strumenti melodici del nostro ensemble: il clarinetto e la viola. Non sono
inoltre il tipo di persona che fa solo una
cosa nella vita. Non sopravvivrei solo
suonando in un’orchestra, o insegnando,
o qualunque altra cosa. Ho bisogno di
una combinazione di tutto… amo la
musica, amo suonare in orchestra e fare
musica da camera! Sento il bisogno di
aiutare i giovani, per questo insegno. Lo
stesso avviene con il klezmer. È una cosa
che è cresciuta negli anni. Ho sempre
avuto in qualche modo bisogno di esprimere me stesso in questa musica, così ho
cominciato a studiarla. In un concerto
del genere, infatti, mostro le molte passioni che condivido con gli altri».
Secondo lei in che modo le opere di
Stravinskij e Bruch sono state influenzate dalla musica popolare?
«Penso che ad un certo punto quasi ogni
compositore mostri interesse per la musica popolare, come alla ricerca delle origini della musica. Il popolare è stato integrato in così tante composizioni
classiche da Mozart, Schubert, Dvořák,
Brahms, Bartók… Un esempio relativo a
Bruch possiamo trovarlo nel quinto dei
suoi Otto Studi op. 83, dove integra nella
musica un canto popolare rumeno. La
composizione forse più nota di Stravinskij, Le Sacre du Printemps, proviene da
semplici elementi etnici e rurali, trascritti
in puro ritmo. Questo è chiaramente visibile nella sua coreografia originale del
1913. Un altro esempio sono le sue Liriche giapponesi, sempre del 1913. Nel
1917, insieme a Ferdinand Ramuz, Stravinskij lavorò su un concetto, una performance flessibile, con meno mezzi possibili, da realizzare in luoghi diversi, senza
la necessità di una grande sala da concerto. Dopo la fine della guerra i due
elaborarono un’opera da camera, basata
su una combinazione di elementi etnici,
e concettualmente senza tempo: Histoire
du Soldat. Il testo, una fiaba popolare, è
basato su un racconto di Afanas’ev. Le influenze musicali derivano da melodie popolari russe, dal tango, dal valzer, dal
ragtime… Essendo questa opera da camera concepita per essere rappresentata
ovunque, egli portò la musica alle persone, al “popolo”. Come un dono al clarinettista Werner Reinhard, che collaborò con Stravinskij per Histoire, egli
scrisse questi brevi pezzi solistici [Tre
pezzi per clarinetto solo, ndr], di cui il
primo movimento è basato su una melodia popolare russa».
Come descriverebbe il Kegelstatt Trio
di Mozart?
«Non ci sono testimonianze sulle circostanze in cui Mozart ha scritto il suo Trio.
Possiamo leggere molte spiegazioni e tentativi di ricostruzione, ma nessuno sa realmente perché quest’opera abbia quel
sottotitolo (che in italiano suona come
“Trio dei birilli”). Sappiamo che Mozart
compose un duo per due corni (forse di
bassetto?) mentre giocava una partita a birilli. Così gli appassionati di musica
amano ipotizzare e seguire la stessa teoria
per il Trio. Ma non siamo sicuri, e, a conti
fatti, per me non ha nessuna importanza.
Direi che sono un amante della musica
“poco concreto”, nel senso che amo semplicemente questo brano, cui poi può far
seguito un qualsiasi altro brano che amo.
Questo approccio potrebbe dare luogo a
una lunga discussione a proposito della
prassi storica, dei dettagli della partitura e
di ciò che veramente conta in una performance e sul modo in cui assemblo il
programma per un concerto. Ma forse ne
parleremo la prossima volta!».
Che cosa rappresenta il klezmer per
Jaan Bossier?
«Gli arrangiamenti che eseguiremo per
Musica Insieme sono nati da una passione che da sempre mi anima nel fare
musica. Anche nell’ambito della musica
classica sono sempre alla ricerca della libertà all’interno di una cornice stilistica.
Ho allargato i confini di questa libertà
raccogliendo e rielaborando io stesso i
canti ebraici e lasciando che le diverse
provenienze dei vari musicisti dell’ensemble si fondessero insieme in una musica klezmer molto individuale».
MI
MUSICA INSIEME
19
L’INTERVISTA
ITAMAR GOLAN
Un pianista per amico
Il partner più richiesto dai migliori solisti internazionali
– Musica Insieme lo ospiterà accanto a Janine Jansen il 14 aprile –
si racconta, svelando una vera e propria passione per il nostro Paese di Cristina Fossati
L
ituano di nascita, ma israeliano
di adozione, Itamar Golan giovanissimo viene ripetutamente premiato dall’American-Israel Cultural
Foundation con borse di studio che gli
consentono di studiare con il Maestro
Emmanuel Krasovsky. Trasferitosi al
New England Conservatory of Music
di Boston, esordisce come solista, arrivando a esibirsi con la Israel Philharmonic Orchestra e i Berliner Philharmoniker, sotto la direzione di Zubin
Mehta, oltre che con l’Orchestra Sinfonica del Teatro alla Scala, sotto la direzione di Riccardo Muti. Pianista fra i
più seguiti della sua generazione, calca i
principali palcoscenici del mondo, ma
ben presto si consacra letteralmente alla
cameristica, per divenire uno dei pianisti più ricercati da colleghi come Mischa
Maisky, Vadim Repin, o Shlomo Mintz,
fino a Janine Jansen, che accompagnerà
nel suo debutto a Bologna per Musica
Insieme il prossimo 14 aprile. Cosi parlava di lui Julian Rachlin, in un’intervista concessa al nostro magazine in occasione di un concerto per la Stagione
2007/08 di Musica Insieme: «Potrei dire
che Golan è una sorta di Bruno Canino
da giovane. A lui non interessa fare il solista, pur avendolo fatto e con successo.
Itamar si è specializzato nella cameristica, e di conseguenza si dedica a questa con una passione davvero profonda.
Inoltre, passiamo insieme molta parte
dell’anno. Viaggiamo moltissimo insieme, e stiamo negli stessi alberghi ov-
“
20
MI
viamente. Insomma, siamo on the road.
Ebbene, per poter esserlo senza problemi, oltre alla passione ci dev’essere
un’amicizia vera. Tra Itamar e me, e mi
ritengo perciò davvero fortunato, esiste
quest’amicizia, e influisce positivamente
sul nostro modo di suonare assieme.
Ormai, potrei dire che anche durante le
prove non abbiamo più bisogno delle
parole: cresciamo insieme, sentiamo assieme, respiriamo assieme».
Da solista richiesto e apprezzato
dalle più prestigiose orchestre a livello internazionale, è passato a dedicarsi esclusivamente alla cameristica. A cosa è dovuta questa scelta?
«La scelta si è profilata come una vera e
propria svolta esistenziale. Da giovanissimo studiavo ovviamente il repertorio
solistico, tenevo concerti e recital, ma in
seguito attraversai una crisi, non posso
certo definirla di mezza età, ma piuttosto di gioventù: smisi del tutto di suonare per un lungo periodo, e quando fui
pronto a ritrovare me stesso, la mia vocazione, incontrai i miei compagni d’infanzia e cominciammo a fare musica da
camera, con violini, violoncelli e clarinetti… così in qualche modo ho intrapreso quel percorso, e da allora ho trovato sempre più difficile affrontare
ancora il repertorio solistico. Sentivo
che esso non mi apparteneva completamente, non possedendo fra l’altro quel
che si dice ‘cuore e nervi saldi’. Certo,
sono qualità necessarie a qualsiasi interprete, in qualsiasi genere si cimenti;
tuttavia la carriera solistica, la solitudine sul palco richiedono doti particolari. Così mi è capitato di suonare assieme a molti diversi strumenti, è
accaduto in maniera del tutto naturale;
ma non la definirei una scelta decisa,
piuttosto una debolezza…».
Lei è oggi senza dubbio il pianista
da camera più richiesto dai migliori
solisti; quale è il segreto di questo
successo?
«Semplicemente il fatto è che sono stato
davvero fortunato negli anni a lavorare
con artisti incredibili. I miei incontri
sono solitamente dettati dal caso e non
programmati; mi piace andare incontro a quello che decide il destino nel
prendere molte decisioni e spero di continuare a suscitare l’interesse degli artisti anche negli anni a venire».
Suonare i più grandi repertori con
colleghi diversi, la porta in qualche
modo a cambiare la sua interpretazione di ciascun pezzo in maniera
consistente? O meglio, come si accosta alle differenti idee dei suoi differenti partner?
«Con ogni partner il tipo di lavoro che
faccio è differente, con alcuni è più
spontaneo e istintivo, con altri è un lavoro più preciso e attento ai dettagli. Ci
sono quindi tanti modi e percorsi di
fare musica e ricercare la verità artistica.
Anche il mio ruolo cambia da un momento all’altro, a volte mi ritrovo nel
ruolo di colui che guida, altre volte in
quello di chi segue. Si tratta di una co-
Sono felice di ritornare a Bologna con la mia amica Janine Jansen,
una musicista unica, oltre che un'artista fra le più versatili
MUSICA INSIEME
“
stante rotazione dei ruoli in cui il proprio ego non deve preoccuparsi del
ruolo che riveste, ma mirare a raggiungere il miglior risultato possibile».
L’anno scorso ha suonato per i
Concerti di Musica Insieme al
fianco di Vadim Repin. Che ricordo
ha di quel concerto?
«Ho un ricordo molto bello di Bologna dal momento che ho suonato
spesso nella vostra città, l’ultima volta
fu appunto l’anno scorso con Repin.
Sono dunque molto contento di ritornarci con la mia amica Janine Jansen, che, secondo il mio punto di vista,
è una musicista unica, oltre che una
delle artiste più versatili nella sua abilità di affrontare sempre nuove sfide artistiche e mettere a confronto compositori diversi con stili differenti.
Davvero pochi artisti sono in grado
di farlo. Siamo inoltre molto contenti
che Bologna sia parte di un lungo tour
italiano, dal momento che l’Italia ha
da sempre un posto speciale nel nostro
cuore; la nostra passione per il cibo, i
paesaggi e la cultura italiana è davvero
immensa».
Janáček ha elaborato la Sonata
per violino J 7/7 all’inizio della
prima guerra mondiale, e di questa opera disse: «Guizzavano nella
mia mente i bagliori dell’acciaio
affilato…». Quanto è importante
conoscere la storia compositiva di
un’opera per suonarla al meglio?
«Sicuramente da una parte è importante sapere quando e perché un’opera
è stata composta, dal momento che la
conoscenza di questi particolari è cultura e coscienza artistica; dall’altra
parte la sola conoscenza intesa come
possedere certi tipi di informazioni è
una cosa di poco conto; tu puoi essere
intelligente e colto ma essere povero
come interprete e non avere certe abilità artistiche. A volte inoltre è anche
bello imbattersi in una nuova opera lavorando come se si avesse davanti una
pagina bianca, quindi senza alcun tipo
di pregiudizio che possa influenzare la
tua visione artistica e il tuo sentire il
brano. Quindi, in conclusione, secondo me l’ideale sarebbe la combinazione della conoscenza e della ricerca
dell’anima della musica».
MI
MUSICA INSIEME
21
L’INTERVISTA
ARCADI VOLODOS
Una profonda passione
A
Chiare, mature, meditate le opinioni e le posizioni estetiche del pianista russo
che debuttò a Bologna per Musica Insieme nel 2001, protagonista in questi
anni di una carriera strepitosa di Alessandro Di Marco
rcadi Volodos, ovvero del pianismo brillante, ma profondo.
Di quel pianismo capace, cioè,
di farci provare il brivido del trapezista,
ed al tempo stesso di far risuonare le
corde più intime del nostro animo. Musica Insieme è lieta di tornare ad ospitarlo sul suo palcoscenico, tanto più che
lo ascolteremo in un programma impegnativo e ricco di suggestioni. Basterebbe leggere i nomi dei compositori:
Schubert, Schumann, Brahms. Come a
dire il cuore pulsante della produzione
pianistica, il nucleo anche emotivo di
quella passione romantica che farà proprio del pianoforte – e del pianista naturalmente – il suo motore più efficiente
ed efficace. Di tutto questo Volodos è
epigono modernissimo, come lui stesso
del resto ci racconta nell’intervista che
segue. Dalle sue parole apprendiamo la
fatica degli esordi e l’importanza di un
incontro, che gli ha cambiato la vita. E
apprendiamo anche giudizi interessanti,
la voce di Volodos emergendo qua e là,
è il caso di dirlo, fuori dal coro.
Quali sono stati i suoi più importanti
maestri (non soltanto in ambito musicale)?
«Galina Egiazarova, la mia insegnante di
pianoforte, è stata per me anche una
guida spirituale. È stata la prima persona
che mi ha fatto credere in me stesso
come musicista in generale, e nello specifico come pianista. Ho cominciato ad
interessarmi al pianoforte all’età di 15
anni, davvero assai tardi per poter anche
solo immaginare di intraprendere una
“
carriera come virtuoso. Nella scuola dove
ho incominciato c’era un corso di pianoforte complementare. Quindi non un
corso principale, perché in quella scuola
gli studi erano concentrati sulla direzione corale. Molti mi dicevano che era
troppo tardi, che mi sarebbero mancate
le basi per suonare professionalmente il
pianoforte. Ed è in questo ambiente che
l’incontro con Galina è stato determinante: mi ha aiutato non solo a formarmi come pianista, ma anche come
persona e come musicista. Non mi ha
insegnato soltanto la tecnica. La sua era
educazione nel senso più ampio del termine. Mi faceva ascoltare, ad esempio, le
sinfonie di Beethoven e di Mahler e ne
discutevamo a lungo. I suoi giudizi
erano importanti per me allora come lo
sono adesso, anche se non sempre siamo
stati d’accordo su tutto».
mia disciplina preferita. In più nella
scuola che ho frequentato studiavamo
principalmente direzione corale, ma non
la tecnica vocale vera e propria. Certo ho
cantato nel coro, ma è stato molto noioso, perché, oltre al repertorio classico
corale, dovevamo studiare molte canzoni sovietiche di qualità musicale mediocre. Insomma non posso dire che il
canto abbia avuto un ruolo principale
nel mio avvicinamento al pianoforte.
Quello che mi ha aiutato sono da un lato
gli studi musicali interdisciplinari che
mi sono stati impartiti in quella scuola,
e dall’altro l’atmosfera generale che vi regnava, i musicisti che vi lavoravano e i
miei compagni appassionati di musica».
I suoi primi ricordi musicali?
«Con l’età si dà meno importanza ai giudizi, alle critiche, ai premi. Per me persino gli applausi e le lodi del pubblico
dopo un concerto non sono molto significativi, perché queste manifestazioni
sono spesso dovute ad abitudini culturali, piuttosto che ad un vero e consapevole apprezzamento. C’è un pubblico
caloroso e un altro piuttosto freddo, ma
questo non ha niente a che vedere con
l’impatto che la musica ha avuto su di
loro. Quello che conta per me è la qualità di ascolto nella sala durante il recital,
il silenzio, il feedback immediato che ricevo dal pubblico, quell’energia che si
sente quando si comunica con la gente
attraverso la musica».
«Il mio patrigno è un grande intenditore
di musica e un collezionista di dischi. In
casa avevamo anche incisioni rare di pianisti del passato. Rachmaninov così è
stato il mio grande maestro. Ammiravo
il suo modo di suonare, la sua personalità musicale. Adoravo pure Sofronitski,
Cortot, Feinberg».
Entrambi i suoi genitori erano cantanti, e lei stesso ha iniziato come ci
diceva frequentando una scuola corale: che importanza ha nella sua
attività la capacità di far ‘cantare’ il
pianoforte?
«Mi fanno spesso questa domanda. Ma
devo dire che il canto non è mai stato la
Quali sono, fra i tanti premi e riconoscimenti (anche personali) ricevuti
nella sua carriera, quelli che considera i più significativi?
Per me conta la qualità di ascolto nella sala, il silenzio, quell’energia
che si sente quando si comunica con la gente attraverso la musica
22
MI
MUSICA INSIEME
“
C’è un compositore del passato (o
del presente) che meriterebbe di essere scoperto, o rivalutato?
«Attualmente suono molta musica di
Federico Mompou. L’anno scorso ho inciso un cd interamente dedicato a questo grande compositore catalano [il lettore lo troverà recensito nella rubrica Da
ascoltare di questo numero, ndr]. Mi dispiace di non ascoltare la sua musica piu
spesso nelle sale. Certo questa musica
non è di facile reperibilità. Devo dire
che io stesso ho impiegato molto tempo
a scoprire la sua immensa dimensione
metafisica. Però sono rimasto subito affascinato dalle sue armonie, dalle sue sonorità nostalgiche. Per Mompou il silenzio è tanto importante quanto i
suoni, il che richiede una speciale concentrazione nell’ascolto. Forse per questa
ragione è difficile suonare questa musica
nelle grandi sale. Ma una volta percepito, questo silenzio nella musica di
Mompou ci rimanda a noi stessi, ci fa vivere in maniera acuta la nostra solitudine, le nostre vibrazioni interiori, ci fa
perdere la nozione del tempo».
Come ha scelto il programma che eseguirà per Musica Insieme?
«Sotto l’urgenza di un bisogno creativo
di comunicare qualcosa al pubblico in
un dato momento. Devo ‘essere innamorato’ di un compositore, conoscere la
totalità delle sue opere (per pianoforte,
musica da camera e pezzi orchestrali) e il
suo linguaggio musicale. Per esempio,
suono a casa tutte le sonate di Schubert,
i suoi Lieder, i pezzi da camera, le sinfonie, sebbene in recital presenti solo poche delle sue opere. Bisogna essere sicuri
di poter dare qualcosa di speciale al pubblico, altrimenti non vale la pena dedicare così tanto impegno a questo nostro
mestiere».
Che cosa lega le due composizioni di
Schubert che eseguirà nel suo recital
bolognese?
«Semplicemente, la Sonata D 279,
come molte opere giovanili di Schubert, è incompleta, manca il finale. Di
conseguenza, l’Allegretto in do maggiore,
composto più tardi, la completa perfettamente».
Parlando ancora del suo programma: sia i Sei Pezzi op. 118 di Brahms
che le Kinderszenen di Schumann
sono dedicate alla stessa persona,
ossia Clara Schumann. A suo avviso,
c’è in queste opere qualche relazione con la personalità, o con il pianismo di Clara, di cui abbiamo numerose testimonianze dell’epoca?
«Non conosco la personalità di Clara
Schumann né il suo modo di suonare il
pianoforte. Penso che questi pezzi non
abbiano relazioni tra di loro, a parte appunto il fatto, come lei ha rilevato, che
sono dedicate alla stessa persona...».
Oggi la musica classica – come la cultura in generale – soffre di una diffusa mancanza di supporto economico,
e d’altro canto è sempre più difficile
conquistare i giovani alla frequentazione ‘regolare’ dei concerti: quali
operazioni promozionali o educative
si potrebbero intraprendere per migliorare la situazione?
«Credo che il problema sia la mancanza
di volontà politica. Con la crisi si ridu-
cono le sovvenzioni per la cultura e
l’educazione. Un grande sbaglio! Nel
lungo periodo, l’esito sarà privare dell’avvenire uomini e nazioni. Degradare il
livello culturale della popolazione è facile, ma per rieducarla occorreranno generazioni. Certo, la musica classica,
come l’arte in generale, non è mai stata
patrimonio del grande pubblico. La sua
fruibilità richiede un certo livello di educazione. Ma il sogno dei musicisti classici è proprio quello di condividere la
loro arte con il un pubblico il più vasto
possibile. Credo che sia possibile ‘rendere popolare’ la musica classica, così
come ogni arte in generale».
Parlando di giovani, che suggerimenti darebbe a chi si appresta ora
ad intraprendere la difficile carriera
di musicista ‘classico’?
«Non credo di poter dare consigli.
Ognuno cerca la propria strada e deve
imparare dai propri errori...».
MI
MUSICA INSIEME
23
IL PROFILO
LEOŠ JANÁČEK
Tra folklore e ideologia
Tra i più sensibili interpreti della modernità, il compositore moravo è sempre stato
legato alle tradizioni popolari della sua terra, che risuonano fra l’altro nella Sonata
per violino in cartellone per Musica Insieme il 14 aprile di Fabrizio Festa
Q
uando ci si avvicina a compositori come Leoš Janáček si comprende immediatamente come
la storiografia della musica – cioè le basi
teoriche sulle quali poi si è fondata l’interpretazione della storia dell’arte dei suoni –
contenga troppo spesso elementi di natura
ideologica fortemente fuorvianti. La mia
personale esperienza di studente rimanda
alle “tesine” di storia della musica (la vertiginosa lista che caratterizzava l’esame di
storia della musica in Conservatorio), nelle
quali si alludeva alla formazione di mai
ben delineate “scuole nazionali”. Queste
avrebbero preso vita nel secondo Ottocento, per poi confluire nel mare magnum
della fine dell’epoca romantica all’incirca
all’inizio del XX secolo. In questa cornice,
tra i protagonisti stava Leoš Janáček. Vuoi
perché vide la luce in Moravia, all’epoca,
insieme alla Boemia, parte integrante dell’Impero Asburgico, in quella Brno che ancora oggi ne è la città capoluogo; vuoi
perché nacque nel 1854 (il 3 di luglio),
quindi a metà del secolo, e la sua vita pe-
Leoš Janá ček (1854-1928)
24
MI
MUSICA INSIEME
raltro terminerà in tempi moderni, il 12
agosto del 1928, quando la sua Moravia
già non sarà più asburgica, essendosi formata dopo la fine della prima guerra mondiale la Repubblica Cecoslovacca. Inoltre,
che Janáček abbia dimostrato un interesse
particolare per le tradizioni musicali popolari della sua terra è un fatto acclarato.
Per molti anni si è dedicato agli studi musicologici, focalizzati sulla tradizione folklorica morava, e certamente tali studi
– che lo portarono nel 1906 a pubblicare
un’ampia silloge dei Canti nazionali cechi
in Slesia e in Moravia – hanno avuto una
specifica influenza sulla sua estetica compositiva. Ma accanto a questi andrebbero
considerati altri elementi, altrettanto importanti. Come l’incontro con Dvořák
negli anni della formazione praghese
(1874-1875). Gli anni trascorsi in seguito
a specializzarsi presso il Conservatorio di
Vienna. E poi gli studi di psico- e fisioacustica, che Janáček approfondì in quel
medesimo periodo, affrontando le ricerche
di Wundt e Helmholtz. Infine, da non
sottovalutare è la sua adesione al movimento politico fondato dal filosofo Tomas
Masaryk, figura centrale nella vita politica
non solo morava prima e cecoslovacca poi,
ma più in generale europea proprio nei
cruciali primi trent’anni del Novecento.
Un movimento d’ispirazione socialista,
con forti venature progressiste, nel quale
trova ampio spazio una delle variazioni
sul tema del “popolo”, architrave del pensiero filosofico (ed estetico) romantico.
Insomma, più che di scuole nazionali, si
dovrebbe parlare di variazioni sul tema di
“popolo”. In questo Janáček è tra i più originali. Il “popolare” nella sua musica non
è presentato come un mero contributo
coloristico. Anzi, spesso è riletto e filtrato
attraverso la sua personalissima concezione non solo della composizione, ma
anche dell’armonia, di cui troviamo puntuale ed illuminante descrizione nel Trattato completo di armonia, dato alle stampe
nel 1913. Dunque, Janáček – seguendo
quella linea che quasi un secolo prima era
stata tracciata da Schiller – costruisce il
suo pensiero musicale intrecciandolo con
riflessioni di tipo estetico, politico, ideologico, la cui somma trova esito concreto
nelle sue partiture. Basterebbe pensare alla
matura Messa Glagolitica. Oppure, all’opera satirica Il viaggio del signor Bruček
sulla Luna, pagine che, pur nel loro porsi
ai due estremi dell’esperienza artistica di
Janáček, ben ne esemplificano la sostanza
ideologica. Peraltro, da sincero epigono
del romanticismo, Janáček è convinto che
le forme musicali vadano piegate alle esigenze dell’espressione e del sentimento.
Ecco il secondo Quartetto d’archi Lettere
Intime. E naturalmente l’opera lirica:
Jenu° fa, Kát’a Kabanová, L’Affare Makropulos, dove Janáček non esita ad omaggiare persino il gotico, che del romanticismo è venatura intensa e potente.
Insomma, i temi patriottici, l’elemento
popolare, non sono pertinenza di una presunta (ma inesistente) scuola nazionale,
ma s’inseriscono nel contesto di quella
lunga onda romantica, la cui schiuma ancora bagna persino i nostri giorni. In questa prospettiva, Janáček è tra i più sensibili
interpreti della modernità, qui intesa
come la transizione tra Otto- e Novecento. Il suo è un contributo fortemente
innovativo, pur innestandosi nelle robuste
radici di quanto era venuto sviluppandosi
nei primi cinquant’anni del XIX secolo.
Potremmo inserirlo in quel novero di innovatori, i Mahler, i Korsakov, i Respighi,
il cui contributo poi troverà eco nella seconda metà del XX secolo, magari in ambiti del tutto o in parte diversi, come
quello della musica per film.
I LUOGHI DELLA MUSICA
Dalla scena al dipinto
Nell’ambito della mostra dedicata ai dipinti dell’Ottocento a Bologna, ospitata presso la
Pinacoteca Nazionale fino al 27 aprile, spicca il ritratto della tragica eroina donizettiana
L
di Maria Pace Marzocchi
’11 novembre 1834 al Teatro Comunale di Bologna
andò in scena Anna Bolena, tragedia lirica di Felice Romani musicata da Gaetano Donizetti. Una serata trionfale anche per l’eccellenza della primadonna Giuditta Pasta, che
rinnovò il successo del 1830 alla ‘prima’ di Santo Stefano al Teatro Carcano di Milano. Il giovane Donizetti, nell’ottobre di
quell’anno ospite della cantante nella villa di Blesio sul lago di
Como, in poco più di un mese ultimò lo spartito, tracciando un
ruolo appositamente ritagliato sulle doti vocali del soprano, e ad
un tempo perfettamente consequenziale con il nuovo libretto di
Romani, che per la storia dell’infelice moglie di Enrico VIII aveva
attinto soprattutto all’omonima tragedia del conte bolognese
Alessandro Pepoli edita a Venezia nel 1778, fondata sulla tematica della tirannide a quel tempo molto in voga.
Tra gli spettatori del Teatro Comunale vi era anche il pittore
russo Karl Brjullov – allora ospite dello scultore Cincinnato Baruzzi – che restò folgorato dall’interpretazione della cantante. Ne
sortì il Ritratto di Giuditta Pasta nella scena della pazzia dell’“Anna
Bolena” di Donizetti: un’immagine a grandezza naturale che a Bologna fece molta impressione, contribuendo alla nomina di Accademico d’onore del pittore pietroburghese. Solo dopo qualche
anno il ritratto fu consegnato a Giuditta Pasta, che lo conservò
nella villa di Blesio fino alla morte nel 1865, destinandolo poi
al Teatro alla Scala nel cui museo si trova tuttora.
Ma quello di Brjullov non fu l’unico dipinto ‘bolognese’ dedicato alla tragica eroina donizettiana. Nel 1843 Alessandro Guardassoni vinse il Piccolo premio Curlandese di pittura (riservato
agli allievi dell’Accademia bolognese) con la tela Anna Bolena
forsennata sentendosi priva del diadema reale, organizzata privilegiando un punto di vista fortemente ravvicinato e fissando,
come in uno scatto fotografico avanti lettera, il momento in cui
la regina, rinchiusa nella torre di Londra prima della condanna
a morte, vaneggia sulla sua sorte. Privata dell’emblema regale, ma
ancora regalmente abbigliata come indicano l’abito arabescato
d’oro, la sopravveste di velluto rosso bordata di ermellino e la collana con il ritratto del re, Anna Bolena è preda di un turbamento
estremo, tradotto nel gesto esasperato e negli occhi sbarrati, che
fissano lo spettatore senza vederlo. I colori sono accesi, quasi violenti, accentuati da quel fascio di luce che investe la regina. Rispetto al dipinto di Brjullov, che lascia spazio alla messinscena
della prigione e all’impeto dell’azione, Guardassoni ha inquadrato lei sola: buio tutt’intorno, se non fosse per il poco lume che
filtra dalla stretta finestra…
Vera primadonna da melodramma, l’Anna Bolena di Guardassoni concentra il gesto della follia bloccandolo in un’istantanea
che è per sempre la scena XII del secondo atto, quando l’azione
precipita verso la catastrofe tragica secondo la poetica manzo26
MI
MUSICA INSIEME
Alessandro Guardassoni (1819-1888), Anna Bolena forsennata (1843)
niana, e l’eroina appare nel delirio e nel vaneggiamento tra un
sogno ingannevole di felicità e l’improvvisa coscienza della realtà:
È questo giorno di nozze. Il re m’aspetta…
…manca a compiere il delitto d’Anna il sangue, e versato sarà.
La tela, di proprietà dell’Istituzione Galleria d’Arte Moderna di
Bologna, è ora esposta in Pinacoteca, insieme ad altri dipinti ottocenteschi scelti da un corpus di parecchie centinaia, per permettere la visione, seppur temporanea, di una parte delle opere
delle raccolte statali e civiche che sono ancora in attesa di quel
‘Museo dell’Ottocento’ da collocare in un luogo che verrà…
L’Ottocento a Bologna nelle collezioni
del MAMbo e della Pinacoteca Nazionale
Pinacoteca Nazionale – Bologna, via delle Belle Arti 56
fino al 27 aprile 2014
I CONCERTI marzo/maggio 2014
Lunedì 10 marzo 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
MAHLER CHAMBER SOLOISTS
JAAN BOSSIER................................................clarinetto
ANNA PUIG TORNÉ......................................viola
ULRICH ZELLER...............................................contrabbasso
AN RASKIN.........................................................fisarmonica
SIMON CRAWFORD-PHILLIPS...........pianoforte
Musiche di Mozart, Bruch, Stravinskij, tradizionale/Jaan Bossier
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Lunedì 17 marzo 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
I SOLISTI DI MOSCA
YURI BASHMET..........................................viola e direttore
Musiche di Britten, Paganini, Čajkovskij
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”
Martedì 8 aprile 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
RADU LUPU.....................................................pianoforte
Musiche di Schumann, Schubert
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Lunedì 14 aprile 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
JANINE JANSEN........................................violino
ITAMAR GOLAN...........................................pianoforte
Musiche di Chausson, Janáček, Schubert, Ravel
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”
Lunedì 12 maggio 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
ARCADI VOLODOS...................................pianoforte
Musiche di Schubert, Brahms, Schumann
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme:
Galleria Cavour, 2 - 40124 Bologna - tel. 051.271932 - fax 051.279278
[email protected] - www.musicainsiemebologna.it
Lunedì 10 marzo 2014
Da Mozart alla musica
klezmer: questo l’originale
percorso dei Mahler
Chamber Soloists,
l’ensemble che ha fatto del
dialogo interculturale uno
dei suoi principali obiettivi
di Luca Baccolini
Rarità sonore
I
An Raskin
ncrociare le date dei compositori regala sempre sorprese. E do come un abuso. In fondo, persino l’ottantaseienne Vaughan
fa sembrare la storia della musica, in apparenza così dilata- Williams, in Inghilterra, scrive ancora la sua Nona Sinfonia quanta, un salotto dalla genealogia ristretta. Max Bruch (1838- do i futuri Beatles si stringono la mano per le presentazioni, al
1920) è segnalato compositore di sicuro avvenire da Ignaz Mo- tramonto degli anni Cinquanta. Quella di Bruch, però, è un’espescheles (1794-1870), a sua volta allievo di Salieri, il cui coevo è rienza da non sacrificare frettolosamente al totem del modernismo.
quasi offensivo specificare. Mentre il placido e barbuto tedesco E chi lo ricorda solo per il suo Concerto per violino op. 26 (mencompone i suoi Otto Studi op. 83 per clarinetto, viola e pianoforte, delssohniano fino al parossismo) gli rende cattiva giustizia quaIgor Stravinskij ha già compiuto 28 anni: sembrano pochi, ma si come se lo dimenticasse del tutto. La sua musica è onestamente
a quell’età ha appena lasciato la Russia per la priromantica dall’inizio alla fine: non ha un pema volta. Destinazione fatale: Parigi. È il 1910.
riodo pre, né un periodo post, né una fase di
Dalle parti di Berlino si fa musica intima e cretransizione. Il suo conservatorismo legato a
puscolare, dall’altra fermentano idee che di lì a
Mendelssohn e Schumann, unito alla lontapochi mesi daranno tre manrovesci alle abitunanza antipode da Liszt e Wagner, può sugdini musicali del vecchio continente ormai prongerirci in apparenza il ritratto di quel sinfonito alla guerra: L’oiseau de feu, Petruška e Sacre du
smo tedesco involuto e stantio che, dopo Beeprintemps. Mondi reciprocamente alieni battothoven e Schumann, non seppe trovare fino a
no la stessa terra, respirano la medesima aria, si
Brahms un nuovo e altrettanto valido epigoguardano, si voltano le spalle, ma convivono. È
no. Quella generazione, tra gli anni Venti e i
il destino dei longevi trovarsi prima o poi proTrenta del XIX secolo, crebbe una lunga e diaiettati nel futuro, forse vivendolo loro malgra- Simon Crawford-Phillips
fana nomea: Gernsheim, Fuchs, Draeseke, Die-
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MUSICA INSIEME
Foto Deniz Saylan
LUNEDÌ 10 MARZO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
MAHLER CHAMBER SOLOISTS
JAAN BOSSIER clarinetto
ANNA PUIG TORNÉ viola
ULRICH ZELLER contrabbasso
AN RASKIN fisarmonica
SIMON CRAWFORD-PHILLIPS
pianoforte
Wolfgang Amadeus Mozart
Kegelstatt Trio in mi bemolle maggiore KV 498
per clarinetto, viola e pianoforte
Max Bruch
Otto Studi op. 83 per clarinetto, viola e pianoforte
Igor Stravinskij
Tre Pezzi per clarinetto solo
Tradizionale/Jaan Bossier
arrangiamenti per ensemble klezmer
Anna Puig Torné
trich, Goetz, Bronsart. Virtuosi alcuni, ma spesso compositori
di terz’ordine. Bruch, invece, se ne stacca vistosamente ancor oggi,
perché è illuminato da una vena melodica genuina, subito riconoscibile, come ebbe in dono l’europeizzato Anton Rubinstein
in Russia. «Quello è Bruch», si potrà dire dopo averne ascoltato i tre concerti per violino, le tre sinfonie (magistralmente incise da Kurt Masur), la Scottish Fantasy o il celebre Kol Nidrei
ebraico per violoncello e orchestra. O ancora, la musica corale
e certe forme cameristiche talmente desuete già ai loro tempi (un
Settimino del 1849 e un Ottetto del 1920!) da ispirare tenerezza.
Non meno inconsueto è l’organico degli Otto Studi in programma. La formazione per clarinetto, viola e pianoforte appare
di rado nella storia della musica, benché percorra trasversalmente
i secoli da Mozart (che sarà in programma con il Kegelstatt Trio)
a Françaix. Ciò che importa, all’ascoltatore, è l’impasto timbrico molto più morbido e levigato rispetto ai trii con la tradizionale presenza del violino primadonna. E questo insolito amalgama regala finezze espressive inaspettate, oltre che un suono generalmente più pastoso, che appaga il palato senza mai pungerlo.
Introduce Giuseppe Fausto Modugno, concertista e docente
di pianoforte principale presso l’Istituto “Orazio Vecchi” di Modena
Il modello degli Otto Studi, per quanto raro, non è
tuttavia nuovo, e giunge a
Bruch dalle Märchenerzählungen op. 132 di Schumann, scritte per lo stesso
organico e capaci di ispirare in epoca contemporanea
l’Hommage à Robert Schumann op. 15 di Kurtág, ancora con clarinetto, viola e
pianoforte. Si ascolterà dunUlrich Zeller
que una pagina intima e
calda, segnata da tinte crepuscolari (tutti gli otto pezzi, tranne
il settimo, sono in tono minore), come un momento di cantabile riflessione di un compositore di 72 anni che, saltata la parabola wagneriana, rimane inevitabilmente immune anche al dibattito post-wagneriano. Verrebbe persino da assemblare un quadro di famiglia, pensando che il figlio di Bruch, Max Felix, era
I protagonisti
L’ensemble è costituito dalle prime parti della Mahler Chamber Orchestra, nata su iniziativa di Abbado nel 1997 e formata da
45 membri provenienti da 20 paesi diversi. L’orchestra si prefigge fra i suoi scopi la promozione del dialogo interculturale e la
mobilità delle arti e della musica attraverso le frontiere, e, grazie all’origine plurinazionale dei suoi membri, nel 2011 è stata nominata Ambasciatrice Culturale dell’Unione Europea. I musicisti della Mahler Chamber Orchestra si riuniscono regolarmente in
diverse formazioni cameristiche – tutte note con il nome di Mahler Chamber Soloists – per intensificare, nella pratica della
musica da camera, quello che considerano l’elemento fondamentale della loro orchestra: il reciproco ascolto e la comunicazione all’interno di un gruppo di personalità musicali consapevoli e autonome. Nel concerto per Musica Insieme saranno impegnati Jaan Bossier, clarinettista e arrangiatore belga, nella Mahler Chamber Orchestra fin dalla fondazione, la spagnola
Anna Puig Torné alla viola, che collabora con le principali compagini europee, e il pianista Simon Crawford-Phillips. Negli arrangiamenti klezmer si uniranno a loro il tedesco Ulrich Zeller al contrabbasso e la belga An Raskin alla fisarmonica.
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MUSICA INSIEME
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Lunedì 10 marzo 2014
un brillante clarinettista e fu, come il padre che insegnò al bolognese Ottorino Respighi, un brillante docente di composizione.
In questo romanticismo schietto e schierato, si colgono tutte le
fascinazioni etniche che ispirarono altri e più ascoltati brani bruchiani: dalla Fantasia Scozzese alla Suite su temi russi, passando
per le sette Danze Svedesi, composte in origine proprio per clarinetto (con pianoforte) e solo successivamente orchestrate. Negli Otto Studi però, il filone nordico vira a meridione, per concedere echi della musica popolare balcanica, forse suggeriti dalla principessa Sophie zu Wied, futura regina d’Albania, nonché
dedicataria dell’opera.
C’è invece un altro dedicatario con meno sangue blu in corpo,
ma ben più ingombrante per la storia della musica. La sua ombra si staglia nei Tre Pezzi per clarinetto solo di Igor Stravinskij,
che piace immaginare come prodromi di Preghiera per un’ombra di Giacinto Scelsi. Sembra incredibile che queste brevi pagine siano state scritte nel 1919, solo nove anni dopo gli Studi di Bruch. Ma la loro contiguità cronologica rientra volutamente nel suggestivo accostamento di questo programma. Il clarinetto di Stravinskij, ora ombroso ora acutissimo, ora serrato
ora meditativo, nasce da Werner Reinhart, l’amico clarinettista dilettante, fondamentale nel finanziare la prima esecuzione de L’Histoire du soldat diretta a Losanna da Ernest Ansermet.
È per gratitudine, forse non disinteressata, che l’autore occhieggia
così il suo mecenate arricchito dal commercio di cotone e caffè: «Volevo ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me.
Perciò ho scritto questi pezzi, sapendo che voi volentieri suonate lo strumento per la vostra cerchia di amici». Sono pensieri
musicali in libertà in cui vengono convogliati richiami di canzoni dell’epoca prebellica e sonorità giapponesi, ma anche schizzi di tango e di jazz. Un concentrato di suoni in meno di cinque minuti di ascolto, che nel programma di Musica Insieme
presenterà un’originale serie di interludi con improvvisazioni klezmer. Le stesse, poi, che ispirarono Stravinskij nella locanda “Der
Golem”, a Winterthur, in Svizzera, dove Reinhart aveva allestito
anche una libreria musicale stravinskiana. Storie tra mecenatismo e amicizia il clarinetto ne ha fornite parecchie, forse per la
sua capacità innata di legare e sedurre. E anche il Kegelstatt Trio
di Mozart, con lo stesso organico bruchiano, nasce da un’amicizia prima ancora che da una committenza. L’agiografia mozartiana sostiene che le note siano state scritte durante una partita estiva a birilli (da qui il nome dell’opera, che in tedesco suona appunto come Trio dei birilli). Più prosaicamente, sono i primi d’agosto a Vienna in un anno, il 1786, che per Mozart segna l’inizio della fine sul piano economico, poi morale e infine fisico. In quell’anno turbolento, dopo il contrastato debutto delle Nozze, e con introiti sempre più magri dall’attività concertistica, Mozart trova un momento di pace in compagnia di
qualche amico fidato. Tra questi, in particolare, vi è Anton Stadler, che si ripresenterà fino all’ultimo, e non senza chiacchiericcio postumo, nella vita di Mozart. In quella partita di bowling
DA ASCOLTARE
Dopo un’incisione per Sony Classical del Primo e del Terzo Concerto di Beethoven, solista e direttore Leif Ove
Andsnes, che ha fatto incetta di premi (Prix Caecilia
2013, Gramophone Awards 2013, iTunes Best of
2012), la Mahler Chamber Orchestra ha appena concluso la seconda, attesissima tappa del suo Beethoven
Journey, uscita nel febbraio di quest’anno e contenente il Secondo e il Quarto dei suoi Concerti. Fra le sue
ultime fatiche discografiche va poi segnalata quella che
è stata definita «la più emozionante interpretazione d’insieme degli ultimi anni»: ossia il sodalizio con Steven
Isserlis e quello rodatissimo con Daniel Harding (che la
MCO l’ha per così dire ricevuta direttamente dalle mani
di Abbado), impegnati nei Concerti per violoncello di
Dvořák. Se il Sunday Times ha paragonato l’esecuzione di Isserlis ai più audaci abbandoni di Jacqueline du
Pré con in più la maturità e la saggezza dell’esperienza, l’ultima registrazione della MCO (Nimbus Records 2013) è stata acclamata come un’incisione-guida
verso l’opera del futuro: si trattava della prima mondiale
di Written on Skin, scritta e diretta da George Benjamin
e vincitrice dell’International Opera Award 2013.
ante litteram è lui il clarinettista che suggerisce di comporre le
prime note in giardino. E cinque anni dopo sarà il dedicatario di quel miracolo musicale che è il Concerto per clarinetto
KV 622. Ma la sua presenza non si esaurisce alle intestazioni
sullo spartito, alle quali s’aggiunge quella del Quintetto KV 581
e di una parte concertante per clarinetto nella Clemenza di Tito.
Anton Stadler, fratello massone, è anche il discusso depositario di alcune partiture mozartiane. Avute per gretto opportunismo, si legge in qualche letteratura: spartiti in cambio di soldi, giri di cambiali tra affratellati della stessa loggia, debiti non
onorati, commerci sottobanco. Ma la scena bucolica ispirata
dal Trio dei birilli fa pensare ad altro. C’è una malinconica serenità campestre in questo lavoro, privo di forzature esterne,
che abdica ai doveri del virtuosismo salottiero e ai contrasti
espressivi, in favore di un immediato fluire domestico. Singolare
l’organico, ma pure la struttura, con l’Andante che dal centro
si sposta all’inizio, per lasciare il campo al Minuetto e all’Allegro finale; e l’impasto sonoro che rifugge il contrasto dei solisti, cercandone la fratellanza. Così nacque questo divertimento
estivo, e Stadler stesso si accinse a suonarlo al clarinetto, mentre l’autore attaccava alla viola. Di quella partita a birilli non
sapremo mai il risultato, ma sappiamo che fu uno degli ultimi squarci non angosciosi nella vita di Mozart. Per questo è
facile scorgere nel clarinetto il timbro caldo e dolente di una
nostalgia mal curata nel passato, eppure già impellente nel futuro. Presaga ma sorridente. La consapevolezza malinconica della finitezza del mondo. Quindi, perché strepitare ancora?
Lo sapevate che...
Priva di una sede fissa, la Mahler può definirsi un’orchestra ‘nomade’, i cui membri,
provenienti da diverse nazionalità, ne fanno un’ambasciatrice del dialogo interculturale
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MUSICA INSIEME
Lunedì 17 marzo 2014
Ricordi d’Italia
Il violista più apprezzato sulla scena internazionale, legato
a Musica Insieme da un duraturo sodalizio, guida i suoi
Solisti di Mosca in un omaggio all’Italia di Daniele Follero
R
elegata ad un ruolo subalterno
rispetto al violino, più adatto,
per le sue caratteristiche timbriche e la maggiore estensione verso il registro acuto, a sostenere le parti solistiche
in orchestra, la viola trovò la sua piena
realizzazione solo a partire dal XIX secolo. Fu nel Novecento, però, che l’interesse per le sue potenzialità espressive e
drammatiche contribuì a dare vita ad
un vero e proprio repertorio dedicato
allo strumento, grazie anche a virtuosi
del calibro di Primerose, Tertis e Paul
Hindemith, il quale dedicò alla viola
quattro concerti e varie sonate, che eseguiva egli stesso come solista. E violista
era stato anche Benjamin Britten, di cui
Bashmet e i Solisti di Mosca eseguiranno
una delle più intime e intense partiture
dedicate allo strumento: Lachrymae –
Reflections on a Song of John Dowland. La
genesi compositiva di Lachrymae risale al
I protagonisti
1949, quando Britten, per convincere il
celebre violista e amico William Primerose a partecipare al festival di Aldeburgh,
promise di scrivere un pezzo appositamente per lui. La prima esecuzione, infatti, avvenne esattamente un anno dopo,
il 20 giugno 1950, con Primerose alla
viola e lo stesso Britten al pianoforte.
Scritte originariamente per pianoforte e
viola, queste variazioni su un song di
John Dowland, furono poi riarrangiate
per orchestra d’archi dal compositore inglese nel 1976, poco prima di morire,
per un altro illustre violista, Cecil Aronowitz. Prima ancora che il carattere
compositivo di Britten, Lachrymae mette
in risalto due caratteristiche del suo universo musicale: il forte interesse per i
compositori del Cinque-Seicento inglese
e l’amore per la viola, suo primo strumento, che qui diviene indiscussa protagonista. Le undici parti di cui si com-
L’Orchestra dei Solisti di Mosca è stata fondata da Bashmet nel 1984, ed è composta da strumentisti che sono tutti vincitori di concorsi internazionali. Riconosciuta
dalla critica come una delle migliori formazioni cameristiche del momento, ha tenuto tournées in tutto il mondo ed è stata protagonista delle celebrazioni per il
centenario del Concertgebouw di Amsterdam e della Carnegie Hall di New York.
Con un repertorio molto ampio, che si estende dal barocco ai contemporanei, è
spesso dedicataria di nuove opere per viola e orchestra di importanti compositori, tra cui va ricordato Alfred Schnittke. La strepitosa carriera internazionale di
Yuri Bashmet inizia nel 1976, dopo la vittoria del Primo Premio al Concorso internazionale di Monaco. La prodigiosa sonorità e il magistrale dominio dell’arco
ne fanno uno dei solisti più apprezzati al mondo. Ha collaborato con i nomi più
prestigiosi del panorama internazionale, tra cui Sviatoslav Richter, Natalia Gutman, Gidon Kremer, Mstislav Rostropovič, Viktor Tretiakov, il Quartetto Borodin.
Dal 1997 è direttore artistico del Festival internazionale “Elba Isola Musicale d’Europa”, e dal 2000 è sua la direzione artistica della “Stagione Musicale a Villa
Abamelek”,residenzaitalianadell’AmbasciatoreRusso.Dal2003ricoprel’incarico
di direttore principale ed artistico dell’Orchestra Sinfonica “Nuova Russia”.
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MUSICA INSIEME
pone la partitura sono intese come ‘riflessioni’, più che variazioni, sulla melodia di If my complaints could passion
move, lirica scritta da Dowland nel
1597. Fatta eccezione per l’ultima, in cui
la linea melodica del brano compare per
intero, l’elaborazione del tema principale
riguarda solo alcune note, in particolare le prime quattro. Questo tetracordo
ascendente, lamento languido e doloroso come una ferita d’amore, rappresenta le fondamenta di tutta la composizione e il suo utilizzo ne determina il
profilo sia armonico che melodico. Britten lo utilizza per costruire frammenti
musicali alla base dei quali il timbro
della viola infonde un carattere scuro,
malinconico ma anche spettrale, come le
atmosfere rarefatte del Lento iniziale, in
cui il tema compare per la prima volta
con valori molto lunghi, per poi perdersi nel dialogo tra il solista e il resto degli archi. I riferimenti alla melodia principale diventano sempre più opachi e si
disperdono nella materia musicale, fino
a riaggregarsi nel movimento finale. Presentare il tema per intero solo alla fine
capovolge la struttura classica del Tema
con variazioni. In questo caso, la presentazione della melodia principale non
è più un punto di partenza, ma diventa
il momento della ricostruzione di tutti i
frammenti, delle ‘riflessioni’ presentate
in precedenza. Tra le quali non mancano citazioni da altre opere dello stesso
Dowland, come nel caso della sesta variazione, in cui compare un accenno ad
un’altra sua lirica, Lachrymae (Flow my
tears) che dà il titolo alla composizione.
Se Britten sfrutta la cupezza timbrica
LUNEDÌ 17 MARZO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
I SOLISTI DI MOSCA
YURI BASHMET viola e direttore
Benjamin Britten
Lachrymae op. 48a
per viola e archi
Niccolò Paganini
Concertino in la minore
per viola e archi
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Souvenir de Florence
in re minore op. 70 per archi
Introduce Marco Beghelli, docente nel
Dipartimento delle Arti dell’Università di
Bologna, dove coordina l’Archivio del Canto
della viola, in Souvenir de Florence Čajkovskij ne esalta le potenzialità melodiche. Al di là, infatti, di uno stile inconfondibilmente russo, nel suo esplicito
omaggio al Bel Paese è proprio con le
melodie ariose e cantabili che il compositore russo identifica il ricordo dell’Italia e, in particolare, di Firenze, città dove
soggiornò più volte. Per nulla preoccupato di apparire anacronistico agli occhi
(e, soprattutto, alle orecchie) di chi, negli stessi anni, tentava di affrancarsi dallo
stereotipo che associa la musica italiana
unicamente al belcanto e alle melodie
orecchiabili, Čajkovskij chiarì la sua posizione in poche righe: «Non mi piace
che Busoni faccia violenza alla propria
natura e che si sforzi di apparire tedesco
ad ogni costo. Qualcosa di simile appare anche in Sgambati. Entrambi si verMI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 17 marzo 2014
gognano di essere italiani e hanno paura
che nelle loro composizioni appaia qualcosa che possa anche solo somigliare ad
una melodia». I quattro movimenti del
sestetto d’archi Souvenir de Florence potrebbero considerarsi la traduzione in
musica dello stesso concetto. Čajkovskij
arrivò per la prima volta in Italia il 20
novembre 1887, ospite di Nadežda von
Meck, sua ammiratrice e benefattrice.
Sarà lei la fonte d’ispirazione del sestetto,
la cui idea e i primi abbozzi nacquero
proprio in quel primo soggiorno italiano, sebbene per una vera e propria
stesura il compositore attendesse poi tre
anni. Pensato per un’esecuzione in casa
della von Meck, Souvenir de Florence
esordì sì in forma privata, ma all’Hotel
de Russie di Pietroburgo, durante le
prove della Dama di Picche. La prima
esecuzione pubblica, invece, si tenne nel
novembre del 1892, sempre a San Pietroburgo, presso la Società di Musica da
Camera, cui il sestetto fu dedicato. Più
che nel profilo dei temi, inconfondibilmente legati allo stile del compositore
russo, è l’uso della melodia, nel Souvenir,
ad essere tipicamente “italiano”. Già nel
primo movimento, Allegro con spirito, in
forma-sonata, il tema dalle reminiscenze
popolari, energico e molto marcato ritmicamente, che si impone all’inizio, lascia il posto ad un secondo motivo melodico cantabile, quasi operistico.
Un’armoniosità che si ritrova anche nel
successivo Adagio cantabile e con moto, in
cui la viola e il violoncello si abbandonano a un dolce duetto, accompagnato
dal pizzicato degli altri archi e interrotto
da una breve sezione centrale, totalmente
contrastante, in cui gli strumenti si spostano, vibranti, ansiosi, sul registro alto.
Nell’Allegretto moderato le melodie di
ispirazione popolare riaffiorano, sostenute da un ritmo di danza e dalla viola
solista, piombata in un malinconico registro grave, seguito da un elegante Trio,
che rievoca più da vicino certe soluzioni
strumentali dello Schiaccianoci. Il finale
DA ASCOLTARE
Fra le ultime uscite del foltissimo catalogo discografico di Yuri Bashmet insieme
ai Solisti di Mosca, va annoverato il cd Onyx del 2007 dedicato a Stravinskij
e Prokof’ev, e vincitore di un Grammy Award, cui ha fatto seguito nel 2008 l’incisione di un’antologia ‘cinematografica’ di autori estremorientali come Tan Dun
(il Premio Oscar La Tigre e il Dragone) e Toru Takemitsu, in uno struggente omaggio (intitolato appunto Nostalghia) al regista russo Tarkovskij. Dalla sovietica
Melodija alla Deutsche Grammophon, sembra proprio che tutte le major abbiano
da sempre corteggiato quello che è ormai da decenni il violista più celebre della classica. Per restringere dunque il campo al programma del concerto per Musica Insieme, è da ricordare il remastering del 2000 dell’incisione che vedeva
Bashmet a fianco del leggendario Sviatoslav Richter, e che riuniva quelli che
sono con ogni probabilità i tre capolavori novecenteschi per viola e piano: le
Sonate di Šostakovič e Hindemith, e Lachrymae di Britten. Era il 1993, l’etichetta
era la mitica Melodija, appunto, declinata per l’esportazione extra-URSS come
MK, ossia Mezhdunarodnaja Kniga (letteralmente “Libro Internazionale”).
ha un carattere spiccatamente polifonico
e al suo interno contiene anche una
breve fuga, senza che ciò intacchi l’ampio respiro delle melodie.
Il repertorio da camera di Paganini presenta esattamente l’altra faccia del musicista avvezzo alla dimensione concertistica, acclamato e osannato genio del
violino e domatore di grandi platee. Nelle
partiture per piccoli ensemble emerge il
lato più intimo del musicista, una maggiore attenzione per una musica d’insieme che «non è però musica da consumare e da mettere in un canto; è musica
d’intrattenimento, certo, ma non d’occasione, e scritta con un’attenzione per i
particolari che rivela come Paganini la tenesse in alta considerazione» (Prefumo).
Se la fama di eccellente violinista attribuita a Paganini è conclamata ed ha rappresentato, nel tempo, uno degli elementi
che più hanno contribuito ad accrescere
il suo mito, è meno noto che il compositore ligure fu anche un virtuoso di altri
strumenti, tra i quali la chitarra e la viola,
che trovarono grande e importante spazio proprio nelle sue partiture cameristiche. Tra queste spiccano i quindici Quartetti, scritti tra il 1818 e il 1820, nei
quali la chitarra sostituisce il secondo
violino, dando vita ad una formazione
inedita rispetto al classico quartetto d’archi. Il Quindicesimo Quartetto in la minore, che i Solisti di Mosca eseguiranno
in una trascrizione per soli archi (denominata Concertino in la minore per viola
e archi), si distingue dagli altri poiché la
parte del solista non è affidata al violino,
bensì alla viola. Una scelta, questa, che
conferisce al colore di tutta la composizione un tono scuro, drammatico. In
equilibrio tra stile concertato e sonatistico, il Quartetto si apre con un Maestoso
dominato da un primo tema vigoroso,
energico, il cui sviluppo si impone sulla
dolcezza del secondo motivo, spaziando
nei diversi ambiti tonali dei quattro strumenti e sfruttandone sia le potenzialità
timbriche sia quelle virtuosistiche. Al
primo movimento segue un Minuetto a
canone in cui, nella versione originale, il
Trio è affidato alla sola chitarra. L’espressività della viola torna protagonista nel
successivo, intensissimo Recitativo (Andante sostenuto con sentimento), seguito
dallo spiccato lirismo dell’Adagio cantabile. Il finale, affidato a un Rondò (Allegretto) dai tratti popolareggianti e molto
lontano dalle atmosfere drammatiche dei
precedenti movimenti, sembra rompere
un incantesimo, riportando l’ascoltatore
dal sogno alla realtà del quotidiano.
Lo sapevate che...
Bashmet è il direttore artistico del Festival che si tiene in occasione delle Olimpiadi
di Sochi, con numerosi concerti e 9 prime assolute di opere per viola a lui dedicate
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MUSICA INSIEME
Martedì 8 aprile 2014
Sonata
vs miniatura
Un raffinato programma ottocentesco, fra Schumann
e Schubert, per l’atteso ritorno nel cartellone di Musica
Insieme del pianista rumeno di Maria Chiara Mazzi
È
una vera gara dialettica ed estetica
quella tra i compositori dell’Ottocento e le grandi forme ereditate
dalla tradizione del classicismo: la sonata,
la sinfonia, il concerto… Secondo la concezione estetica romantica, che affondava
le sue radici negli scritti dei grandi filosofi
apparsi sulla rivista berlinese Athenäum, la
forma prestrutturata doveva essere infatti
sostituita dal ‘frammento’ che, come dice
Schlegel, è «simile a una piccola opera
d’arte, deve essere completamente separato dal mondo circostante e perfetto in
se medesimo, come un riccio». Piccolo capolavoro essenziale ed autosufficiente, il
frammento (che in musica ci piace chiamare ‘foglio d’album’), prescindendo dall’apparente contraddizione che ce lo fa
immaginare come ‘parte’ di qualche cosa,
racchiude invece completo il mondo
espressivo dell’autore, non deve rispondere a nessuna forma precostituita, si
adatta ogni volta alle necessità espressive
Radu Lupu
e concretizza l’istantaneità dell’ispirazione
esaurendosi nello spazio di poche pagine
o, a volte, anche solo di poche battute. Se
nei casi migliori (ad esempio in Chopin)
il frammento era stato sublimato e idealizzato in un ambito quasi totalmente
astratto, Schumann, che aveva tra le sue
letture preferite proprio i testi dei letterati
tedeschi dei primi decenni del secolo,
compie un passo ulteriore e risolve il problema dell’apparente frammentarietà inserendo ogni brano all’interno di un pensiero di ben più ampio respiro. Da un
lato, attraverso l’invenzione del ‘ciclo’,
pagine di diversa natura e di diversa struttura e ampiezza raggiungono proprio nel
loro accostamento una superiore unità,
una logica e un senso, proponendoci la visione di mondi poetici lontanissimi dove
ogni piccolo brano nella sua originalità è
parte di un più vasto universo. Nel ‘ciclo’,
infatti, pagine di semplice forma bipartita
o tripartita, con strutture rigide o in di-
Nato in Romania nel 1945, Radu Lupu ha debuttato a soli dodici anni in un concerto con un programma interamente costituito da musiche da lui stesso composte. Dopo la vittoria in tre importanti concorsi internazionali, il “Van Cliburn”
nel 1966, l’“Enescu” nel 1967 ed il Concorso di Leeds nel 1969, ha dato inizio
a una lunga e straordinaria carriera che da oltre cinquant’anni lo vede esibirsi
regolarmente nelle sale più rinomate e con le più prestigiose orchestre europee
ed americane, tra cui Berliner Philharmoniker, Royal Concertgebouw Orchestra,
Wiener Philharmoniker, London Philharmonic Orchestra, Chicago Symphony
Orchestra e Orchestre de Paris. Ha collaborato con direttori del calibro di Daniel Barenboim, Riccardo Muti, Carlo Maria Giulini, Herbert von Karajan, Claudio Abbado. Si esibisce in tutti i più importanti festival e rassegne musicali ed è
ospite regolare dei Festival di Salisburgo e di Lucerna. Ha ricevuto il Premio “Arturo Benedetti Michelangeli” e, per ben due volte, il prestigioso Premio “Abbiati”, assegnato dall’Associazione dei Critici italiani.
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MUSICA INSIEME
Foto Mary Roberts
MARTEDÌ 8 APRILE 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
RADU LUPU
pianoforte
Robert Schumann
Bunte Blätter op. 99
Franz Schubert
Sonata in la maggiore D 959
Introduce Maria Chiara Mazzi, docente
al Conservatorio di Pesaro e autrice
di libri di educazione e storia musicale
suso (come scherzi o minuetti) o di singolarità senza antecedenti né eredi, vivono ciascuna di una perfetta autonomia, ma acquistano senso solo collegate
insieme, con uno sguardo allargato di
esplicito intento descrittivo o narrativo,
per raccontare storie (come accade ad
esempio in Carnaval o in Kinderszenen) o
per dare suono a contenuti letterari e filosofici (come in Davidsbündlertänze o
in Kreisleriana). Dall’altro lato stanno le
‘raccolte’, dove il compositore affianca
brani spesso preparati in epoche e con
motivazioni diverse, come accade nei
Bunte Blätter (composti da Schumann
per ragioni e in momenti diversi tra il
1836 e il 1849 e pubblicati nel 1852;
“Fogli multicolori” perché inizialmente
era sua intenzione far pubblicare ogni
brano su pagine di colori diversi), che
pur non pensati organicamente sono trasformati in pura espressione poetica coerente dal fatto di essere stati riuniti proprio in quel modo dall’autore stesso.
Quattordici pezzi, di forma varia, i primi
otto più brevi, gli ultimi sei più vasti, costituiscono la raccolta alla quale con una
buona quota di falsa modestia l’autore
voleva inizialmente dare il nome di Spreu,
letteralmente ‘pula del grano’, o, metaforicamente, come le ‘nugae’ catulliane,
cianfrusaglie, inezie, cose di poco conto.
Tuttavia, come i letterati non rinunciano
al romanzo, i musicisti non rinunciano
alla sonata, che pure esteriormente appartiene alla categoria delle forme ‘precostituite e rigidamente strutturate’. La affrontano a modo loro, non solo e non
tanto allontanandosi dai modelli (a quelli
aveva già rinunciato Beethoven!), ma trasferendovi le stesse istanze che trovavano
fulminea attuazione nel frammento.
Come scrive Rattalino proprio a proposito di Schubert, «la sonata non esprime
più la volontà di trasformare il mondo,
cioè la tendenza ad esercitare una pressione psicologica nei confronti dell’ascoltatore. Il tempo della musica non simbolizza più il tempo della coscienza: è un
tempo onirico nel quale l’attimo si dilata
e si riempie di una infinità di contenuti
psicologici senza condurre alla catarsi».
Paradossalmente, è proprio Schumann,
cioè colui che fa della ‘forma-frammento
ridotta alla sua originaria unità’ il suo caMI
MUSICA INSIEME
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Martedì 8 aprile 2014
DA ASCOLTARE
Riassumere in poche righe l’impegno discografico di un artista come Radu Lupu
è pressoché impossibile. Il suo percorso in vinile comincia negli anni Settanta
del secolo scorso ed ovviamente arriva ai file audio dei nostri giorni. Dunque,
più o meno quarant’anni di lavoro in studio, nei quali certi elementi sono però
sempre presenti. Beethoven, ad esempio. Ma anche e soprattutto Schubert. Per
la Decca incide una scelta delle Sonate già nel ’75 e nel ’77. Poi ancora nel
’91 e nel ’93 eccolo incidere un’antologia liederistica con Barbara Hendricks.
Nel mezzo, molto Beethoven, abbastanza Brahms, qualche Mozart (inclusa
la registrazione dei concerti per due e tre pianoforti realizzata assieme a Murray Perahia per la Sony ancora nel 1991). Scavalcato il millennio, Schubert
continua a trovare ampio spazio nella discografia di Lupu, mentre di Franck
e Debussy troviamo solo l’incisione delle Sonate per violino e pianoforte proposta nel 1988 in una compilation di cd. Fedele alla Decca, la casa discografica
inglese lo omaggia nel 2010 e nel 2011 di due fondamentali antologiche: The
Complete Decca Solo Recordings e The Complete Decca Concerto Recordings.
vallo di battaglia, ad apprezzare e a capire
forse per la prima volta la grandezza e il
coraggio delle sonate di Schubert. Schubert che con gli ultimi capolavori del
1828 (D 958, 959 e 960) aveva tentato
invano di conquistare una Vienna ostile
alla sua arte e che di lui aveva saputo apprezzare unicamente quei ‘fogli d’album’
che il compositore preparava quasi solo
per garantire la propria sopravvivenza.
Eppure è proprio in queste ultime composizioni, pubblicate postume da Diabelli nel 1839, che prende il via una
nuova strada per questa forma che dopo
Beethoven sembrava non avere quasi più
nulla di nuovo da dire. «Queste sonate mi
sembrano spiccatamente differenti dalle
altre sue» scrive Schumann proprio riferendosi ai tre ultimi capolavori, «specialmente per una molto più grande semplicità d’invenzione, per una volontaria
rinuncia a brillanti novità in cui egli altra
volta si compiaceva, per lo sviluppo di
certe generali idee musicali, mentre altra
volta sovrapponeva periodo su periodo.
Come se ciò non potesse aver mai fine,
non fosse mai in imbarazzo per proseguire, corre avanti di pagina in pagina
sempre musicale e ricco di canto, interrotto qua e là da singoli sentimenti violenti, ma che presto si calmano nuovamente». E continua: «Se volessimo
dimostrare nei particolari perché le sue
opere debbano essere dichiarate composizioni di altissimo valore occorrerebbero
dei volumi, cosi multiformi sono i pensieri e le azioni dell’uomo, altrettanto
molteplice è la musica di Schubert. Ciò
che egli vede con l’occhio e tocca con
mano, si trasforma in musica». Queste
composizioni costituiscono quindi un’alternativa alla funzione della musica per
pianoforte nell’epoca della Restaurazione,
della quale le Sonate di Beethoven sembrano totalmente dimenticarsi. Un’ipotesi
alternativa, ma anche una possibilità di
futuro di una forma che il romanticismo
non avrebbe rifiutato, nonostante i proclami sulla ‘libera ispirazione’. In esse
Schubert si libera del ‘fantasma di Beethoven’ e mostra al futuro come questa
forma avesse le potenzialità per esprimere
la nuova poetica, divenendo la migliore
risposta a chi si chiedeva quale stile sonatistico fosse possibile utilizzare dopo gli
ultimi capolavori beethoveniani in questo
campo. La risposta schubertiana è chiarissima, frutto di una genialità diversa da
quella del grande tedesco a lui contemporaneo: in un clima culturale e artistico
mutato, con uno strumento dalle possibilità espressive più avanzate, si può scrivere qualsiasi cosa, considerando Beethoven non come punto di partenza, ma
come esempio di una fase della storia ormai conclusa. Il sonatismo di Schubert
non è lo specchio di un’idealità eroica e
non possiede i messaggi di fratellanza universale e di impegno verso l’umanità della
musica beethoveniana, poiché questi
ideali erano crollati col Congresso di
Vienna. Esso è il ritratto dell’ambiente
culturale di una città stanca, in cui il messaggio si fa personale ed è rivolto ai pochi
amici del salotto o del circolo. Tuttavia
questa concezione musicale, lungi dall’essere di basso profilo e di poco impegno, possiede una ricchezza e un’originalità dalle quali è assente il virtuosismo
fine a se stesso, e che pone Schubert oltre
Beethoven, a costruire l’esempio di un
mondo ideale che vivrà per tutto l’Ottocento. Le ultime sonate per pianoforte,
poi, sono come parole che il compositore
non rivolge più a nessun altro che a se
stesso. E in particolare proprio questa Sonata in la maggiore sembra attingere a
una serenità lontana dalla quotidianità,
quasi nella consapevolezza dell’imminente
distacco. In questo modo si spiega l’energia, ma anche il vagare fantastico del
primo movimento, affiancati alla lancinante tristezza del secondo, da alcuni critici definito una “berceuse del dolore”. A
questa pagina si contrappone lo Scherzo,
che ha la semplicità danzante del mondo
viennese, prima del conclusivo Allegretto,
apoteosi di quella “divina lunghezza”
tanto apprezzata da Schumann. Si tratta
di un rondò dalla chiarezza e dalla luminosità quasi arcadica e che, pur velato a
momenti di una strana inquietudine, si
chiude con un vigore e una positività che
ricorda le decise affermazioni del movimento iniziale. Finisce, la Sonata (per leggere ancora Schumann) «di buon umore,
leggero e gentile, come se l’indomani potesse di nuovo cominciare. E se sul suo
epitaffio sta scritto che lì giacciono sotterrate “un prezioso possesso, ma ancor
più belle speranze”, noi vogliamo ricordarci riconoscenti soltanto del suo “prezioso possesso”. Arrovellarsi su che cosa
egli avrebbe potuto ancor raggiungere non
conduce a nulla. Egli ha fatto abbastanza
e sia venerato chi come lui ha vagheggiato e portato a compimento tante cose».
Lo sapevate che...
Radu Lupu inizia a studiare il pianoforte a 6 anni nella nativa Romania e debutta in
pubblico a soli 12 anni, con un intero programma di musiche da lui stesso composte
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MI
MUSICA INSIEME
Lunedì 14 aprile 2014
Padri e figli
Al suo debutto nel nostro
cartellone, la straordinaria
violinista olandese sceglie un
programma che attraversa
l’Europa fra Otto e Novecento
di Valentina De Ieso
C
habrier, Colette, Cortot, Debussy, d’Indy, Fauré, Mallarmé,
Monet. Potrebbe sembrare l’indice dei nomi in calce ad un volume sulla cultura francese del tardo Ottocento,
ma potrebbe anche verosimilmente essere
la lista degli invitati nelle mani del maggiordomo di casa Chausson, a Parigi, in
una sera qualunque. Nel suo salotto si
riunivano infatti artisti, compositori,
poeti, che in lui trovavano un amico e un
mecenate colto e generoso. Come segretario della Societé Nationale de Musique infatti, circondato dalle menti più
brillanti del suo tempo, Chausson ricreò
un mondo ideale, dove contemplare
opere d’arte, o ascoltare musica, sfuggendo alla depressione che lo tormentava già dalla più tenera età. Nato nel 1855,
unico sopravvissuto di tre fratelli, Amédée-Ernest Chausson si portò addosso il
fardello delle angosce materne, crescendo in un ambiente isolato, nelle mani di
severi precettori che ne fecero un uomo
di rara cultura e di ancor più rara insicurezza e fragilità (il destino avrebbe poi
dato ragione alla madre, quando una caduta in bicicletta lo avrebbe ucciso quarantaquattrenne). Il padre, collaboratore del Barone Haussmann, sognava per
lui la carriera politica, che Ernest non intraprese mai. Studiò invece al Conservatorio di Parigi con Massenet e Franck,
ma il momento decisivo per la sua formazione musicale fu il viaggio a Bayreuth, insieme a d’Indy, per assistere alla
prima di Parsifal, da cui fu completa-
mente folgorato. Fece della diffusione delle idee wagneriane una vera e propria missione, applicandole soprattutto nella sua
produzione teatrale. Insicuro e fortemente critico verso se stesso, Chausson
dubitava delle proprie abilità compositive, e a conti fatti anche Poème op. 25 è la
storia di una rinuncia. Nel 1896 il celebre violinista Eugène Ysaÿe gli commissionò un concerto per violino, ma Chausson, sostenendo di non sapere affrontare una forma così complessa, propose un
brano in forma libera. Vi lavorò per pochi mesi, ma non senza continui ripensamenti, tanto che l’opera ha cambiato titolo per ben tre volte: Le Chant de
l’amour triumphant, Poème symphonique
ed infine solo Poème. Il canto dell’amore
trionfante era un racconto di Turgenev, che
Chausson stimava profondamente. Si
vociferava che l’argomento dell’opera, un
triangolo amoroso nella Ferrara cinquecentesca, fosse ispirato alla relazione di Gabriel Fauré con la giovane figlia dei mecenati di Turgenev. Chausson, che conosceva tutti gli implicati nella vicenda,
aveva deciso di metterla in musica, per poi
rinunciarvi. Aveva approntata una versione con accompagnamento pianistico,
ma fu nella veste orchestrale che l’opera
fu presentata prima a Nancy e poi a Parigi da Ysaÿe, nell’aprile del 1897, con un
tale apprezzamento del pubblico da sconcertare lo stesso compositore. I cupi accordi iniziali del pianoforte lasciano spazio all’intervento del tema del violino: una
melodia struggente, sentimentale, poi
ripresa dal pianoforte. I due strumenti
continuano ad alternarsi: brevi interventi del pianoforte interrompono lunghe frasi appassionate del violino, sino al
finale, un climax di struggimento ed esasperazione. La forma estremamente libera
lascia fluire un sentimento debordante, ora
doloroso, ora pieno di passione: il mondo interiore turbato di un gentiluomo all’apparenza elegante e posato, che ha combattuto tutta la vita contro i suoi fantasmi infantili.
Chausson era appena nato quando Joseph
Ravel, dal collegio svizzero in cui studiava,
scriveva alla madre chiedendole il permesso di imparare a suonare la tromba.
A quanto pare l’autorizzazione non arrivò mai ed egli divenne uno stimato ingegnere. La passione per la musica rimase però intatta tanto che suo figlio Maurice sosteneva di aver ereditato da lui quell’inclinazione che lo avrebbe portato a diventare uno dei compositori più importanti della modernità. E proprio mentre
Poème incantava Parigi, Ravel si approcciava per la prima volta alla composizione di una sonata per violino. L’opera non
piacque, troppo influenzata dallo stile del
suo maestro Fauré (si diceva), troppo leziosa, completamente diversa dalla Sonata
in sol maggiore che trent’anni dopo, eseguita al pianoforte dall’autore stesso e da
George Enescu, fu presentata al pubblico della Sala Érard. La stesura dell’opera era iniziata nel 1923, ma fu completata solo nel 1927. Il compositore descrisse
la genesi della sonata dicendo: «Già ave-
LUNEDÌ 14 APRILE 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
JANINE JANSEN
ITAMAR GOLAN
violino
pianoforte
Leoš Janáček
Sonata JW 7/7
Franz Schubert
Fantasia in do maggiore D 934
Amédée-Ernest Chausson
Poème op. 25
Maurice Ravel
Sonata in sol maggiore
Introduce Giordano Montecchi. Saggista e
critico musicale per quotidiani e riviste, insegna
Storia della musica al Conservatorio di Parma
vo in mente la forma assai singolare, la
scrittura strumentale e persino il carattere
dei temi di ciascuna delle tre parti ancor
prima che l’ispirazione m’avesse suggerito uno solo di questi temi». L’Allegretto iniziale, dal carattere gentile e arioso, è introdotto da un grazioso tema al pianoforte
che prelude a quello del violino. Il secondo
movimento, Blues, è introdotto dai pizzicati del violino solo, che alludono al timbro del banjo, giocando sulle possibilità
timbriche e riproponendo stilemi ritmici tipici del jazz. La sonata è conclusa dal
Perpetuum mobile che si snoda tra scale
vorticose, doppie note e glissandi, che termina improvvisamente nello straniamento dei due strumenti ormai sovrapposti senza alcuna fusione, a dimostrare
quella che Ravel considerava la inconfu-
Janine Jansen
Dopo il debutto a Londra con la Philharmonia Orchestra diretta da Vladimir Ashkenazy nel 2002, Janine Jansen ha dato
inizio ad una brillantissima carriera che la vede collaborare con i più celebrati direttori quali Mehta, Maazel, Jurowski, Harding, Pappano, Jansons. Viene regolarmente invitata ad esibirsi con le più prestigiose compagini, tra cui Royal Concertgebouw Orchestra, Berliner Philharmoniker, London Symphony Orchestra, Orchestre de Paris e New York Philharmonic. Molto attiva anche nella musica da camera, cura l’annuale International Chamber Music Festival di Utrecht, ed è membro degli
Spectrum Concerts di Berlino. Suona un meraviglioso strumento “Barrere” di Antonio Stradivari (1727) messole a disposizione dalla Elise Mathilde Foundation.
Itamar Golan
Nato a Vilnius, ma emigrato giovanissimo in Israele, Itamar Golan è oggi uno dei pianisti più richiesti sulla scena internazionale: in più di vent’anni di carriera ha suonato con le maggiori orchestre, quali Israel Philharmonic e Berliner Philharmoniker diretti da Zubin Mehta, Royal Philharmonic con Daniele Gatti, Orchestra Filarmonica della Scala e Wiener Philharmoniker diretti da Riccardo Muti, oltre ad aver accompagnato solisti come Vadim Repin, Julian Rachlin, Mischa Maisky,
Shlomo Mintz, MaximVengerov, Martin Frost.
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MUSICA INSIEME
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Lunedì 14 aprile 2014
tabile incompatibilità tra i due.
Un secolo esatto prima della Sonata di Ravel, veniva data alle stampe la Fantasia in
do maggiore per violino e pianoforte D
934 di Franz Schubert. È l’ultimo anno
della breve vita di questo giovane, che era
divenuto un musicista quasi per caso, avviato alla musica dal padre, un maestro elementare di origini morave. Schubert ricomincia a comporre per il violino dopo
nove anni di silenzio dalle Sonate del 1816
e del 1817. È su richiesta dell’amico e virtuoso Joseph Slawyk che scriverà il Rondò brillante in si minore D 895 e a seguire
la Fantasia. In forma libera, e senza soluzione di continuità, è costituita da episodi isolabili, a partire dall’Andante molto dove si manifesta il tema principale, di
grande lirismo, affidato al violino. Dopo
l’Allegretto, si presenta il Tema con variazioni, costruito sul tema di un Lied di
Schubert, Sei mir gegrüsst D 741. Infine
il Presto ripropone il trema iniziale. La
Fantasia, oggi considerata il suo capolavoro per violino, venne stroncata dalla
stampa viennese. «La Fantasia del Signor
Schubert – riporta un quotidiano dell’epoca – supera il tempo che i viennesi
sono disposti a dedicare ai loro piaceri estetici. La sala si è progressivamente svuotata,
e il nostro corrispondente vi confessa che
anch’egli non saprebbe dirvi come si sia
concluso questo pezzo di musica».
Proprio negli anni in cui il padre di Chausson nella sua elegante dimora parigina
prendeva atto, suo malgrado, che il fragile figlio quindicenne non sarebbe mai
divenuto un importante uomo politico,
nel suo piccolo villaggio, un altro maestro
elementare moravo, Jiří Janáček, scopriva che il talento musicale di suo figlio Leoš
poteva rivelarsi una risorsa per sfamare la
numerosa famiglia. E se per Chausson la
fanciullezza fu una prigione solitaria,
nello scritto autobiografico Senza timpani, Janáček ricorda una vita chiassosa e felice, tra i versi degli animali della fattoria
e la musica che si faceva in casa, col padre organista e il coro dei nove fratelli. Il
padre lo inviò in un convento a Brno af-
DA ASCOLTARE
La discografia di questa strepitosa artista olandese è davvero ricca, e tutta nel
segno della Decca. A partire dal 2003 sono ben oltre la decina i cd pubblicati, che le hanno procurato numerosi premi, e rispecchiano la sua attività sia
nella musica da camera, sia come solista con le più grandi orchestre. Con Chailly nel 2006 ha inciso due Concerti di Bruch e l’op. 64 di Mendelssohn, mentre al 2008 risale la registrazione del Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij con la Mahler Chamber Orchestra diretta da Daniel Harding. Dell’anno
successivo è il cd con la London Symphony Orchestra, diretta da Paavo Järvi, con Britten e Beethoven, terzo disco più venduto in Olanda nell’ambito della classica. Con Jurowski e la London Philharmonic Orchestra ha registrato nel
2012 il Concerto per violino n. 2 di Prokof’ev. Altrettante fatiche riguardano
il versante cameristico, con il Quintetto per archi di Schubert e Verklärte Nacht
di Schoenberg, sempre del 2012. Al fianco di Golan, suo partner nel concerto
per Musica Insieme, ha inciso Beau soir (2010), una raccolta di celebri pagine francesi per violino, da Debussy, a Fauré e Ravel, terzo cd più venduto in
Olanda nel campo della classica.
finché fosse istruito alla musica, che sperava potesse divenire una remunerativa
professione. Egli morì però quando Leoš
aveva appena dodici anni. Janáček vagheggiò quegli anni felici per il resto dei
suoi giorni, e proprio alle voci della sua
gente si ispirò per i suoi importanti studi sul linguaggio. Come Bartók e Kodály, Janáček raccolse canti popolari che però
non riutilizzò nelle sue opere, ma ne apprese e adottò la struttura sintattica, applicandola alla musica colta. Divenne un
compositore di fama europea e, una cinquantina di anni dopo, quando stava per
scoppiare il primo, tragico, conflitto
mondiale era ormai una figura di riferimento. A quest’epoca risale la Sonata per
violino J 7/7. In una Moravia ancora austroungarica, Janáček guarda all’ingresso
della Russia in guerra come unica possibile via alla liberazione del suo popolo.
E come un omaggio a questa nazione è
spesso stato letto quell’occhieggiare della Sonata al folklore russo. Scriverà che
questi pensieri lo avevano ispirato a
comporre: «guizzavano nella mia mente
i bagliori dell’acciaio affilato, la mia
mente eccitata ne percepiva i clangori».
Il movimento iniziale, Con moto, si apre
con un’ampia frase cantabile del violino,
accompagnata dal tremolo del pianoforte, che lascia subito spazio a brevissimi
motivi quasi singhiozzati. Su questa alternanza è costruito tutto il movimento.
Segue la Balada, intensa e vibrante, dal
sapore folklorico, probabilmente il primo
nucleo composto da Janáček, ben prima
dello scoppio della guerra. Il brevissimo
Allegretto prelude all’Adagio finale dalla
forma rapsodica: dopo una pensosa introduzione, seguita da passaggi energici,
quasi violenti, termina nella desolazione,
con una forma che rimanda ad un corale, una sorta di compianto. E proprio a
Brno, la città dove fu costretto a trasferirsi ancora bambino, la Sonata fu eseguita
nel 1922. Applaudito come il più grande compositore moravo, Janáček coronava
così le aspettative del padre che lo aveva
mandato in quella città quasi sessant’anni
prima per regalargli un futuro.
Lo sapevate che...
Nel 2003 Janine Jansen ha ricevuto il prestigioso “Premio per la Musica” conferito dal
Ministero della Cultura olandese, la più alta onorificenza per gli artisti dei Paesi Bassi
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MI
MUSICA INSIEME
Lunedì 12 maggio 2014
Il sipario della ventisettesima
stagione di Musica Insieme
si chiude con un recital del
pianista russo, da quasi vent’anni
protagonista indiscusso
dei palcoscenici più prestigiosi
di Mariateresa Storino
Oltre
la forma
«N
oi siamo abituati, dal nome
che porta una cosa, a concludere su questa cosa stessa», scrive Robert Schumann nelle prime
righe della sua visionaria recensione sulla Symphonie fantastique di Berlioz: una
constatazione sulle modalità di organizzazione del nostro mondo percettivo, tanto più vera nell’arte sonora, che ‘perde’ la
sua concretezza in uno svolgersi temporale privo di rewind. «Per una fantasia abbiamo delle esigenze, altre per una sonata», prosegue Schumann. Siamo nel
1835, il compositore sta combattendo con
i problemi della grande forma, con l’ine-
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MUSICA INSIEME
vitabile riferimento all’opera di Beethoven. La produzione strumentale del colosso di Bonn è la pietra di paragone che
tutti i compositori romantici devono affrontare, lo scoglio che può essere approdo
sicuro o divenire luogo di perdizione.
Forte fu l’influsso di Beethoven su
Franz Schubert, la cui contemporaneità fu causa di notevole ‘disagio’, ma, allo
stesso tempo, di impulso alla creazione
di una scrittura idiomatica e foriera dello sviluppo del linguaggio musicale. I
primi tentativi di questo confronto,
particolarmente intenso tra il 1815 e il
1817, sfociano in un gruppo di sonate
per pianoforte, tra cui la Sonata in do
maggiore D 279. Schubert è in cerca del
proprio stile pianistico; sono «anni di
esperimento» di cui resta traccia in manoscritti incompleti e in sonate dall’articolazione ‘singolare’ dal punto di vista
della scelta dei movimenti. Come nella
prima Sonata D 157, Schubert conclude la Sonata D 279 con un Minuetto.
Come spiegare la presenza di un Minuetto
nell’architettura di una sonata? Il suo luogo, da sempre, è quello del penultimo movimento; il pubblico si aspetta un Allegro,
magari in forma-sonata o in forma di rondò, certo non quest’antico ricordo di dan-
LUNEDÌ 12 MAGGIO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
ARCADI VOLODOS
pianoforte
Franz Schubert
Sonata in do maggiore D 279
Allegretto in do maggiore D 346
Johannes Brahms
Sei Pezzi op. 118
Robert Schumann
Kinderszenen op.15
Fantasie in do maggiore op.17
Introduce Fabrizio Festa, compositore,
docente di Conservatorio e saggista
za settecentesca. Lo stato frammentario
del manoscritto della Sonata per lungo
tempo ha lasciato incerti sull’esistenza di
un possibile quarto movimento; nel
1927 Walter Rehberg promosse l’Allegretto D 346 a questa funzione, ma i rilievi filologici successivi gettano ombra
sulla plausibilità di questa scelta.
L’approdo di Schumann al modello beethoveniano passa attraverso l’esperienza
di Schubert, Mendelssohn e Weber, predecessori che hanno ‘dissodato’ il terreno della tradizione e reso meno pressante
l’eredità ma, certo, non meno incisiva. La
Fantasie in do maggiore op. 17 è un
omaggio a Beethoven, ma è anche un
omaggio a Clara Wieck ed a Franz Liszt,
così come è un riflesso del mondo poetico del romanticismo letterario: un crocevia in cui confluiscono esperienze personali e tipologie formali. La genesi della Fantasie è intricata. Nel 1835, in occasione del 65° anniversario della nascita di Beethoven, un comitato presieduto da August Wilhelm von Schlegel promuove una raccolta fondi per l’edificazione di un monumento alla memoria del
compositore, da erigere a Bonn. L’anno
successivo Schumann pubblicizza l’evento sulla Neue Zeitschrift für Musik con un
saggio in quattro parti dal titolo Monument für Beethoven. Parallelamente, a diversi editori propone il progetto di una
Grosse Sonate dal titolo Obolen auf Beethovens Monument: Ruinen, Trophäen,
Palmen (Oboli per il monumento di Beethoven: rovine, trofei, palme), i cui proventi
saranno in parte destinati alla raccolta
fondi di Schlegel. L’omaggio non è solo
esteriore; nel movimento Palmen il compositore inserirà una citazione dall’Allegretto della Settima Sinfonia. Nel 1837
il brano è ancora in fase di gestazione, ma
ecco affacciarsi un primo cambiamento:
il titolo sarà Phantasie. Completata l’opera nel 1838, il progetto viene ancora una
volta modificato: in una lettera a Clara,
Schumann descrive il primo movimento «come il più appassionato» che abbia
mai scritto, «un profondo lamento che si
leva verso di te». Alla lode a Beethoven
si associa dunque una dichiarazione
d’amore a Clara. Sulla traccia di questa
nuova dedica il compositore riformula il
Arcadi Volodos
Per la sua tecnica prodigiosa,
unita ad una altrettanto rara
espressività, Arcadi Volodos si
è guadagnato fra i tanti titoli anche quello di “genio della tastiera”. Formatosi con Galina Egiazarowa e Dimitri Bashkirov, da
quasi vent’anni calca i palcoscenici più prestigiosi di tutto il mondo, sia in recital pianistici che come solista con compagini quali i
Berliner Philharmoniker, l’Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, la London Philharmonic
Orchestra, o ancora le Filarmoniche di Chicago e New York, o
l’Orchestra del Gewandhaus di
Lipsia. Ha collaborato con i più importantidirettori,comeLorinMaazel,ValeryGergiev,Myung-Whun
Chung, James Levine, Zubin Mehta, Seiji Ozawa e Riccardo Chailly. Autore di funamboliche trascrizioni pianistiche di brani orchestrali, i suoi numerosi cd (tutti
pubblicati da Sony Classical), dal
live del suo debutto alla Carnegie
Hall (1999) all’ultima incisione dedicata ai brani pianistici del catalano Federico Mompou, hanno
ricevuto i principali riconoscimenti
della critica e della stampa specializzata, dal “Preis der Deutschen Schallplattenkritik” al “Gramophone Award”, dall’“Echo
Klassik” al “Diapason d’Or”.
titolo in Dichtungen. Ruinen, Siegesbogen
und Sternbild (Poema. Rovine, arco di
trionfo e costellazione). Nel 1839 la casa
editrice Breitkopf & Härtel pubblica la
partitura con il titolo Fantasie, la dedica a Franz Liszt e un motto posto in epigrafe tratto dalla poesia Die Gebüsche (I
cespugli) di Friedrich Schlegel: «Attraverso
tutti i suoni, nel variopinto sogno della
terra, se ne leva uno sommesso per colui
che ascolta in segreto». Quel “suono sommesso” è sì destinato a Clara, ma è riconoscibile da tutti, o meglio doveva esserlo:
è una citazione dall’ultimo Lied del ciclo
di Beethoven An die ferne Geliebte (All’amata lontana). Questo messaggio inMI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 12 maggio 2014
timo riporta i due innamorati, ormai prossimi al coronamento del loro sogno
d’amore, ai tempi della prima stesura della Fantasie, a quel 1836 in cui il padre di
Clara si opponeva all’amore dei due giovani. Sembra plausibile che all’annuncio
della sottoscrizione promossa da Schlegel,
Schumann decida di completare la Fantasie (inizialmente quindi composta per
Clara) aggiungendo due movimenti; a lavoro ultimato, il compositore non può
certo far passare inosservato il grande contributo dato da Liszt alla causa di Beethoven (senza la generosità del virtuoso
non ci sarebbe stato alcun monumento),
così gli tributa un doveroso segno di gratitudine dedicandogli l’opera. Il messaggio intimo alla sua amata Clara s’intreccia con un omaggio pubblico in un’opera che Charles Rosen valuta come «la prova più riuscita e originale delle grandi forme» di Schumann. Nel primo movimento, «da eseguirsi in modo assolutamente fantastico e appassionato», annota il compositore, in alternanza al «tono
di leggenda» dell’episodio centrale, colpisce la forza del rinvio al Lied beethoveniano; come scrive con limpidezza
adamantina Rosen: «la frase si presenta
come una scheggia della memoria anche
a coloro che non hanno mai udito il ciclo di Beethoven: essa è suonata nella sua
forma originaria solo alla fine, ma richiama, ora sciolte e stabilizzate, tutta l’eccitazione e la tensione precedenti». È il
trionfo del frammento musicale, forma romantica per eccellenza, di cui Schumann è un fulgido seguace.
La poetica del frammento, forma compiuta dalle infinite interpretazioni, si incarna in ambito musicale in miniature,
pezzi brevi, quadri di genere, per lo più
destinati al pianoforte. Il frammento
musicale può essere autonomo, o divenire
elemento tematico di grandi forme,
come nella Fantasie op. 17, o ancora nucleo originario di cicli, come nelle Kinderszenen (Scene infantili) op. 15 di
Schumann. Inevitabile è l’accostamento
DA ASCOLTARE
Che Volodos si sia voluto imporre fin dai suoi esordi come brillante virtuoso
della tastiera ce lo dimostrano proprio le sue incisioni discografiche di quegli
anni. Siamo alla fine del XX secolo, decennio Novanta. Volodos è un ventenne che ha incontrato sulla sua strada Thomas Frost, già produttore discografico al fianco di Vladimir Horowitz. Sarà Frost, che lavora per la Sony, a portarlo in cima alle classifiche discografiche, tant’è che nel 1999 vince il “Grammy Award” per la miglior registrazione strumentale con un live: quello registrato
alla Carnegie Hall. Risultato che si ripeterà nel 2010, e ancora con un live: Volodos in Vienna. Che poi in questa discografia trionfino i compositori russi non
è certo motivo di sorpresa. Abbonda Rachmaninov (piano solo e concerti), non
manca Čajkovskij, e poi Liszt e Schubert. Non mancano neppure le antologie,
come appunto il recital viennese dove accanto ad una scelta di brani di Skrjabin troviamo i Valse nobles et sentimentales di Ravel e poi Bach e Liszt.
delle Kinderszenen all’Album für die Jugend (Album per la gioventù) dello stesso
autore, ma si tratta di composizioni con
diversa destinazione. Le Kinderszenen
sono «immagini retrospettive di un vecchio, per i vecchi», precisa Schumann;
sono reminiscenze del mondo dell’infanzia, immagini che l’età adulta elegge
a simbolo di una felicità perduta. Articolato in tredici quadri, ciascuno introdotto da un titolo evocativo di un momento particolare dello scenario domestico del bambino, la funzione di ricordo del ciclo si comprende solo con l’ultimo brano Der Dichter spricht (Il poeta
parla), quando ormai il bambino si è addormentato, stanco della mosca cieca, del
cavallo a dondolo, di sognare. Un motivo si cela in tutte le scene, quel motivo
che il poeta – non ancora svelatosi – intona malinconicamente con una sesta minore nel primo quadro Von fremden
Ländern und Menschen (Da paesi ed uomini stranieri). La poetica del frammento suggella altresì il catalogo delle opere
per pianoforte solo di Brahms con le quattro raccolte opp. 116-119, composte tra
il 1892 e il 1893. I sei Klavierstücke op.
118, quattro Intermezzi intrecciati a una
Ballata (n. 3) e a una Romanza (n. 5), vagano nel ‘paesaggio’ formale della miniatura pianistica: dalla breve forma-sonata
(n. 1), alla forma ternaria (n. 2, 3, 6), al
tema con variazioni (n. 5). La varietà armonica, quanto quella espressiva, è sorprendente: al delicato lirismo del secondo Intermezzo in la maggiore e alla Romanza in fa maggiore dal sapore arcaico
(quasi empfindsam, rievocando lo stile di
Carl Philipp Emanuel Bach) fanno da
contraltare il luminoso e appassionato Intermezzo n. 1 in la minore e la Ballata in
sol minore. In questo ventaglio di forme,
armonie e caratteri si nasconde però un
elemento connettivo: alla base di ciascun
brano risiede uno stesso nucleo di tre suoni, ripreso dalla Sonata op. 5. L’Intermezzo
che chiude la raccolta è «la pagina pianistica forse più dolorosa di tutta l’opera»
di Brahms, scrive il musicologo Maurizio
Giani: «il primo tema è un lamento di chi
non ha più voce per esprimere la propria
sofferenza». La sezione centrale in sol bemolle maggiore imperversa con una scrittura a mo’ di fanfara, dal tono fiero e deciso, che smorza l’opprimente desolazione della prima parte, ma è solo un’illusione, l’eroismo del Brahms giovane si è
ormai affievolito. La visione del mondo
in età matura perde lo slancio verso il futuro: malinconicamente l’anima si ripiega, e quel vago sentore di un mondo altro riprende la forma del nostalgico canto in tonalità minore.
Lo sapevate che...
Volodos, seguendo le orme dei genitori, inizia da bambino a studiare canto. Si dedica
allo studio del pianoforte solo quindicenne, presso il Conservatorio di San Pietroburgo
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MUSICA INSIEME
PER LEGGERE
Luciano Berio
Scritti sulla musica
(a cura di Angela Ida De
Benedictis, Einaudi, 2013)
A dieci anni dalla morte di
Luciano Berio vede la luce la
raccolta pressoché completa
dei suoi scritti editi ed inediti (Einaudi, pagine 569). Inquadrati in un ambito cronologico compreso tra il 1952 e il
2003, questi testi accompagnano il lettore nella vastità degli interessi umani e artistici che abitavano le riflessioni del compositore. Il volume
si divide in quattro sezioni: conferenze e relazioni
tenute a convegni o in prestigiose istituzioni internazionali (tra queste due lezioni a Harvard, del
1967, finora inedite), saggi e articoli inerenti la
musica propria e altrui, il lavoro nello Studio elettronico, il teatro, il rock, la musica popolare e tanto altro. Inoltre: note di sala, voci enciclopediche, ricordi e omaggi a compagni di strada, profili non solo di musicisti, ma anche di pittori e
scrittori da festeggiare o da commemorare.
Conclude la raccolta il capitolo “Discutere”, con
reazioni alimentate da letture o dibattiti. Il volume degli Scritti sulla musica, a cura di Angela
Ida De Benedictis, introduzione di Giorgio Pestelli, offre idee, dati, testimonianze indispensabili per conoscere Berio, compositore che si rivela anche nella pagina scritta, e la sua opera.
Murakami Haruki
Ritratti in jazz
(Einaudi, 2013)
Il catalogo di Murakami Haruki, scrittore nato a Kyoto
nel 1949 e cresciuto a Kobe,
si arricchisce di un altro titolo, pubblicato in Italia da
Einaudi. Ritratti in jazz è la storia di una passione sconfinata per il jazz, come già testimoniato in altri libri dello stesso autore. In cinquantacinque racconti si snoda la storia di un
rapporto intimo, profondo con questa musica
e di una crescita, in cui il gusto cambia, si affina, seguendo le stagioni della vita. Da Chet Baker a Fats Waller, da Ella Fitzgerald a Eric Dolphy, da Miles Davis a Stan Getz, ci sono i protagonisti di un genere che trova innumerevoli
appassionati anche in Giappone. Il tono è
confidenziale, caldo, privo di specialismi e ricco d’informazioni, curiosità, aneddoti. Ad ogni
cantante o musicista sono dedicate appena tre
pagine, che certo non esauriscono la carriera di
tanti grandi artisti, eppure, da frasi brevi, con
un tono lieve, dai ricordi (Murakami ha gestito per diversi anni un jazz club prima di dedicarsi alla scrittura) nascono ritratti illuminanti. Il testo, che fa sempre riferimento ad un disco storico, è accompagnato dalle illustrazioni
di Wada Makoto.
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MUSICA INSIEME
di Chiara Sirk
MUSICA
IN CATALOGO
Una primavera di letture
con la prima raccolta
completa degli scritti di
Luciano Berio, una storia
della musica in 144 opere,
e una serie di ritratti in cui
protagonista è il jazz
Signori, “il catalogo è questo”: lo ha deciso e compilato Enzo Beacco nel volume Offerta musicale. La musica dalle
origini ai nostri giorni (Il Saggiatore, 953
pagine). L’impressionante lavoro dell’autore, saggista, giornalista e critico, ha
comportato, come primo passo, l’individuazione di un corpus di 144 opere.
Beacco le ha scelte dalla storia della musica occidentale, dalle origini (Epitaffio
di Seikilos, il primo brano musicale che
ci resta, di datazione incerta, 100 d.C.,
pare) ai giorni nostri, con un brano emblematico, Tierkreis di Karlheinz Stockhausen, di cui a pagina 866 si dice:
«Scrivere musica per carillon è come inciderla su pietra». Qui il cerchio si chiude, perché anche l’antichissima melodia greca era fissata su pietra e Tierkreis,
lo zodiaco in tedesco, rimanda alle
stelle, le stelle al cosmo, di cui la musica per i filosofi, come bene spiega nel
primo capitolo il volume, era metafora. Non finisce qui: nel 2006 l’Accademia Filarmonica di Bologna commissiona a Stockhausen una nuova
composizione. Lui decide di completare
la versione orchestrale di Tierkreis, ma
non riesce ad arrivare alla fine, mancando il 5 dicembre 2007. Forse sono
coincidenze, forse. L’autore ci spiega
come ha scelto le 144 opere: «Ognuna
è scelta non solo perché vive nella sua
epoca e contribuisce a modificarla, ma
perché supera l’esame del tempo ed è
tuttora in repertorio, disponibile ad un
ascolto libero e immediato, a casa, in
rete. È parte di un sistema di stelle fisse e segna una tappa in un percorso per
definizione vago e confuso». E ancora:
«Le composizioni sono autonome, per
consentire letture discontinue. Sono da
immaginare come tessere squadrate di
un antico mosaico bizantino e macchie
diffuse di una modesta tela di Jackson
Pollock o di Robert Rauschenberg.
Suggeriscono connessioni con ciò che
sta intorno, ma non impongono mappe definitive». Nel catalogo troviamo i
grandi che tutti conoscono (Bach, Mozart, Liszt, Brahms), gli “operisti” (Verdi, Bellini, Wagner), e i grandi che purtroppo non sono ancora patrimonio di
un pubblico esteso (Frescobaldi, Cavalli,
Lully, Purcell, per esempio). Un catalogo
tanto include e altrettanto esclude,
non potrebbe essere altrimenti, eppure quello di Beacco riesce più a soddisfare la voglia di conoscenza e a far nascere ulteriori curiosità, piuttosto che a
creare malumori per le inevitabili assenze. I riferimenti ad incisioni discografiche, oculate indicazioni bibliografiche e minuziosi indici sono un’ulteriore
prova di quanto questo lavoro si metta a disposizione del potenziale lettore.
Enzo Beacco
Offerta musicale. La musica
dalle origini ai nostri giorni
(Il Saggiatore, 2013)
DA ASCOLTARE
di Lucio Mazzi
INTELLETTUALE LEGGEREZZA
Alla nuova edizione bachiana che vede
protagonista Janine Jansen fanno da
corteggio le splendide rarità tastieristiche
di Lupu, Volodos e Romanovsky
Arcadi Volodos
Volodos plays Mompou
(Sony, 2013)
“Il nuovo Horowitz”, “il nuovo Michelangeli”, “il nuovo Richter”…
c’è questo malvezzo di affibbiare etichette e paragoni a qualsiasi astro
nascente (non solo della musica). È successo anche a Volodos, al suo
apparire ormai vent’anni fa, e di queste etichette (che lui giustamente respinge: «A cosa
servirebbe mai un nuovo Horovitz?») non si è ancora liberato. E dire che il suo genio assoluto, il suo talento straordinario non merita di essere paragonato, ma di essere apprezzato
per quello che è, ossequiando lo stile incredibile che miscela immenso virtuosismo e immensa musicalità. Questo album dedicato a un compositore atipico, perché lontano da
ogni scuola (seppure profondamente iberico), come il catalano Federico Mompou, ne
è solo l’ennesima conferma: il naso fuori da un repertorio eseguito, inciso e ascoltato migliaia di volte, alla ricerca di qualcosa di sconosciuto ai più, ma che egli ritiene «di qualità eccezionale e in grado di aprire nuovi mondi». Ma non si pensi a un estemporaneo
ghiribizzo: sono alcuni anni che il pianista esplora il repertorio di Mompou, del quale,
per questo cd, ha scelto alcuni pezzi dai cicli Scènes d’enfants (1915-18), Charmes (192021) e Música Callada (1959-67), che erano tra i favoriti dello stesso compositore.
Radu Lupu
Grieg, Schumann: Piano Concertos
(Decca, 1973)
Edizione Blu-Ray Audio di questo album pubblicato come lp nel
1973 e come cd nel 2000. In effetti sono 40 anni che questa incredibile interpretazione di Lupu dei Concerti in la minore di Grieg
e Schumann (assistito splendidamente dalla London Symphony
Orchestra, diretta da André Previn) fa scuola. Ma grazie al progresso tecnico, ogni nuova release rivela cose nuove. È successo con l’edizione in cd rispetto al vinile, e succede col Blue-Ray rispetto al cd. Merito di un’ottima registrazione originale, ma, ovviamente,
soprattutto di un’interpretazione rimasta nei decenni quasi insuperata.
Alexander Romanovsky
Rachmaninov: Russian Faust
(Decca, 2014)
L’idea di Rachmaninov era di realizzare una grande opera ispirata al Faust di Goethe. Rinunciò quasi subito, ma intanto la Prima Sonata op. 28 era composta. Al suo apparire non fu un trionfo, anzi, e da allora è stata decisamente trascurata, pur entrando nel repertorio, anche
discografico, di grandi come Ashkenazy, Weissenberg o Lugansky. E ora di Romanovsky,
che la propone con la consueta brillantezza ed espressività, accanto alla n. 2 op. 36,
per la quale adotta la lezione di Horowitz, combinando elementi della versione originale (secondo e terzo movimento) e di quella riveduta (primo movimento).
Se lavori con chi conosci bene, nella musica le cose funzionano molto meglio.
Questo deve aver pensato Janine Jansen
convocando per queste registrazioni alcuni
eccezionali musicisti che, appunto, sono
anche suoi amici. Così nel Doppio Concerto per violino e oboe, BWV 1060, troviamo il pluripremiato Ramon Ortega
Quero all’oboe, nelle due Sonate n. 3 e
n. 4 addirittura il padre, il clavicembalista Jan, e nel piccolo, ma vigoroso ensemble che l’accompagna nei Concerti per
violino n. 1 e n. 2, il fratello violoncellista Maarten. E che le cose funzionino benissimo lo sentiamo fin da subito percependo come la violinista cerchi un’assoluta consonanza con l’ensemble, piuttosto che imporsi come solista. Un buon servizio alla musica, ma una cosa che ti viene di fare se senti di avere un intento, un
animo e un sentore comune con chi ti
suona accanto. Ma se anche il violino della Jansen non si impone mai, è impossibile non apprezzare la sensibilità con cui
l’artista riesce a donare a questo repertorio una meravigliosa leggerezza senza
tradirne in nulla il suo peso intellettuale. A ciò si unisce una tecnica perfetta che
fa sembrare semplice anche il passaggio
più complesso, ma questo è proprio dei
grandi strumentisti, un po’ meno comune,
se vogliamo, è coniugare correttezza tecnica e grande espressività. E questo è proprio dei musicisti eccezionali. Quale è Janine Jansen, 300.000 copie vendute dal
suo esordio discografico nel 2004 per la
Decca, e il domicilio stabile nei primi posti delle classifiche specializzate mondiali. Ottima la registrazione e quindi il suono. Facilmente avrete già incisioni di questi brani, ma l’ascolto di questo disco potrebbe riservarvi qualche sorpresa.
Janine Jansen
Bach Concertos
(Decca, 2013)
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MUSICA INSIEME
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