IL DIRITTO Il diritto (inteso come diritto oggettivo, od ordinamento

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IL DIRITTO
Il diritto (inteso come diritto oggettivo, od ordinamento giuridico o sistema giuridico del quale
fanno parte più istituti che regolano determinati fenomeni della vita sociale) è quell'insieme di norme
che si propone di regolare i comportamenti degli individui nella società al fine di assicurare l'ordinato
svolgimento della società tanto nelle attività dei singoli quanto in quelle comunitarie; esso stabilisce
quali comportamenti sono leciti e quali illeciti e determina, inoltre quali siano gli interessi (tensioni
dell'uomo verso un bene che serve a soddisfare un proprio bisogno) che maggiormente hanno
ragione di essere tutelati, fornendo un metro con il quale risolvere (e strumenti con i quali prevenire) i
naturali conflitti che sorgono nella società umana senza il ricorso alla violenza.
IL DIRITTO PUBBLICO
I due rami nei quali si manifesta e concreta l'ordinamento giuridico di uno stato (e dunque le
ripartizioni delle norme che compongono lo stesso ordinamento) sono diritto privato e diritto pubblico.
In prima analisi, si può dire che il diritto pubblico coincide con il complesso delle norme che
attribuiscono ad una pubblica autorità, incaricata di soddisfare interessi generali, poteri che le
consentono di incidere sulle posizioni e sugli interessi delle persone, anche senza o contro la volontà
di queste, con l'obiettivo di tutelare l'interesse della collettività; inoltre il diritto pubblico comprende
tutte le norme che regolano l'organizzazione ed il funzionamento delle autorità e degli appartati
pubblici, nonché i rapporti che intercorrono tra loro.
LE PARTIZIONI DEL DIRITTO PUBBLICO
Nell'ambito del diritto pubblico possono individuarsi alcune partizioni, corrispondenti a sistemi di
norme accomunate dalla presenza di caratteri omogenei e che si riferiscono ad una stessa materia: il
diritto costituzionale comprende le norme fondamentali dell'ordinamento giuridico statale, che
determinano i fini dello stato, nonché i principi di organizzazione e funzionamento dei poteri pubblici;
il diritto amministrativo comprende le norme che disciplinano struttura ed azione della Pubblica
Amministrazione, intesa come apparato che curano la concreta realizzazione dei fini dello Stato; il
diritto penale comprende le norme dettate a tutela degli interessi di maggiore rilievo sociale, la cui
violazione comporta l'applicazione al trasgressore della pena, la più grave tra tutte le sanzioni; il
diritto processuale (diviso a sua volta in processuale civile, processuale penale e processuale
amministrativo, a seconda della natura della controversia da decidere) comprende le norme che
regolano l'attività dei giudici e di coloro che partecipano ai processi; il diritto ecclesiastico
comprende le norme che regolano i rapporti tra Stato e confessioni religiose; il diritto finanziario
comprende le norme che regolano la raccolta e l'erogazione del denaro di cui lo Stato e le altre
organizzazioni pubbliche hanno bisogno per svolgere la loro attività e perseguire i loro fini; il diritto
tributario, che si individua come sotto-partizione del diritto finanziario, comprende le norme relative
ai rapporti che si instaurano fra autorità pubbliche e cittadini in materia di imposizione e riscossione
dei tributi; il diritto internazionale pubblico è quell'insieme di norme, create nell'ambito della
comunità internazionale, che regolano i rapporti tra gli Stati.
LA PERSONA GIURIDICA DI DIRITTO PUBBLICO
La persona giuridica, a differenza di quella fisica, è un soggetto di diritto, creazione
dell’ordinamento costituita da pluralità di persone che si uniscono per perseguire una finalità comune,
a cui l'ordinamento giuridico riconosce la capacità giuridica.
Una persona giuridica si può considerare persona giuridica di diritto pubblico solo se presenta
determinate peculiarità tra cui: il godimento di una potestà di comando assegnata dallo Stato; il fatto
che la sua istituzione è stata operata ad iniziativa dello Stato o di altro ente pubblico; il
perseguimento di interessi generali di utilità pubblica; la sottoposizione allo stato stesso.
Le persone giuridiche di diritto pubblico posso essere “a carattere associativo” (come lo Stato, le
regioni, le province e i comuni) o “a carattere patrimoniale” (come gli enti previdenziali o gli enti
pubblici economici).
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LE FONTI DEL DIRITTO
Fonti di produzione del diritto sono quelle fattispecie o procedimenti che sono idonei a porre valide
norme giuridiche, che si distinguono a loro volta in fonti-atto e fonti-fatto.
Fonti-fatto sono situazioni obiettive (comportamenti, consuetudini, necessità) nelle quali è insita la
volontà di creare diritto, che vengono riconosciute nell'ordinamento nella loro oggettività.
Fonti-atto sono frutto della produzione di un determinato organo di un ordinamento, legittimato a
produrle (e sono tendenzialmente fonti scritte).
ANTINOMIA DELLE FONTI
Nell'ordinamento italiano la presenza di più fonti del diritto può generare problemi di antinomia che
sono risolti secondo il principio di gerarchia (secondo cui la norma posta dall'ordinamento su un
livello gerarchico superiore prevale su quella di ordine gerarchico inferiore), il principio cronologico
(per cui tra le due norme di pari ordine gerarchico prevale quella più recente, in quanto frutto di una
volontà più recente del legislatore) e principio di competenza (che riguarda una distribuzione di
ordine orizzontale delle fonti per cui, secondo l'art. 117, esistono particolari materie di esclusiva
potestà legislativa centrale, altre in cui vi è potestà concorrente delle regioni, salvo il rispetto e la
determinazione di alcuni principi fondamentali dettati dalla legge ordinaria statale, ed alcune di
esclusiva competenza regionale, comunque nei limiti di osservanza delle norme contenute in fonti di
maggiore grado gerarchico).
EFFICACIA DELLE FONTI NEL TEMPO
A quanto affermato dall'art 11 delle preleggi, la “legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha
effetto retroattivo”. Tale principio non ha valore assoluto se non per le leggi penali, come ribadito
nell'art. 25 della costituzione: le altre leggi possono stabilire una propria efficacia retroattiva, con
salvezza dei rapporti già conclusi e così per i rapporti oggetto di sentenza giurisdizionale passata in
giudicato.
La legge dispone per il futuro, con efficacia che ha inizio nella con l'entrata in vigore della stessa e
(se non nel caso di leggi temporanee che esplicitamente circoscrivono la loro efficacia temporale)
non ha limiti nel tempo, per cui si presenta come fonte normativa inesauribile.
GERARCHIA DELLE FONTI
Le fonti del diritto sono poste secondo un ordine gerarchico per cui quelle di grado superiore
prevalgono su quelle di grado inferiore.
Al più alto grado nella gerarchia troviamo la Costituzione e gli atti aventi valore costituzionale (leggi
costituzionali e leggi di revisione costituzionale).
Al di sotto si trovano le fonti primarie: la legge ordinaria e gli atti con forza di legge (decreti legislativi
e decreti legge) e, per alcune materie (in base al principio di competenza), le leggi regionali (o
provinciali per le province di Trento e Bolzano).
Ad un grado ancora inferiore si trovano le fonti secondarie, i regolamenti.
Al più basso grado della gerarchia si trovano le fonti-fatto (usi, necessità... )
La Repubblica Italiana si impegna, con l'art. 11, ad accettare limitazioni della propria sovranità a
favore di organizzazioni rivolte ad assicurare pace e giustizia tra le nazioni: le norme comunitarie
hanno una certa copertura costituzionale in virtù della quale presentano una particolare forza attiva
paragonabile a quella delle norme costituzionali
INTERPRETAZIONE DELLA NORMA GIURIDICA
L'interpretazione è un'attività consistente in un'operazione logico-intellettuale diretta a trarre dalla
fonte la norma, cioè la concreta regola di comportamento, secondo criteri interpretativi dettati
nell'art. 12 delle “Disposizioni sulla Legge in generale”.
Il primo criterio è quello “letterale-grammaticale” per cui “nell'applicare la legge non si può ad essa
attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse”, al quale segue quello dell'“interpretazione teleologica” in base alla quale è
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rilevante l'“intenzione del legislatore” di perseguire la determinata finalità (“ratio legis”) di tutelare
un particolare interesse.
Sempre nell'art. 12 delle “preleggi” sono presentati i criteri di “analogia legis” per cui “se una
controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe” e di “analogia iuris” per cui “se il caso rimane ancora
dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”.
Se nell'interpretazione della norma si considerano esclusivamente le fattispecie strettamente
descritte dal testo nella norma si parla di “interpretazione restrittiva”, mentre quando la norma
viene applicata anche a fattispecie non espressamente descritte dal testo normativo, seppur molto
simili a quelle da esso descritte, si parla di “interpretazione estensiva”.
Secondo quanto espresso nell'art. 14 delle “preleggi”, non si può applicare interpretazione analogica
a leggi penali ed eccezionali: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad
altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
PREFERENZA E RISERVA DI LEGGE
Il criterio della preferenza di legge consiste nel fatto che la legge ordinaria statale può disciplinare
ogni materia che non sia oggetto di disciplina costituzionale o che non sia riservata a fonti particolari:
se non diversamente stabilito, infatti, vi è una supremazia della legge (e delle fonti primarie in
generale) sulle fonti di grado gerarchico inferiore: una materia disciplinata per regolamento può
essere oggetto di un libero intervento normativo del legislatore, la cui disciplina prevale su quella
regolamentare. Per quanto attiene al procedimento legislativo, fanno eccezione i i regolamenti
parlamentari, ai sensi dell'art 72 Cost.
La riserva di legge, prevede che la disciplina di una determinata materia sia regolata soltanto dalla
legge primaria e non da fonti di tipo secondario: la riserva di legge ha una funzione di garanzia in
quanto vuole assicurare che in materie particolarmente delicate, come nel caso dei diritti
fondamentali del cittadino, le decisioni vengano prese dall'organo più rappresentativo del potere
sovrano ovvero dal Parlamento, come previsto dall'art. 70 Cost.
Riserva di legge è ordinaria quando permette che una materia possa essere disciplinata da leggi ed
atti aventi forza di legge; formale se la materia può essere regolata solo da leggi deliberate dal
Parlamento e non altri atti aventi forza di legge; rinforzata se la materia è disciplinata dalla legge
secondo contenuti o procedimenti ben precisi.
Ancora, può essere assoluta se la materia va regolata integralmente dalla legge, mentre è relativa
se questa può essere disciplinata da regolamenti amministrativi (che devono pur sempre attenersi ai
principi generali dettati dalle fonti di grado gerarchico superiore).
Vi sono, inoltre, riserve non a favore della legge ordinaria come la riserva di legge costituzionale,
riserva a favore dei regolamenti parlamentari, riserva di giurisdizione e riserva di regolamento
amministrativo (quest'ultima non è prevista nell'ordinamento italiano).
LA COSTUTUZIONE
La costituzione è la fonte-atto con maggiore rilevanza giuridica, ed è l'unica considerata “costituente”
che dà legittimità a tutte le altre (appunto “costituite”).
Essa rappresenta l'insieme di principi fondamentali che costituiscono lo Stato moderno: la presenza
della Costituzione è co-essenziale all'esistenza dello Stato.
Ogni costituzione risulta classificabile in base alle diverse caratteristiche che presenta.
Costituzioni consuetudinarie sono quelle i cui principi fondamentali sono, almeno
prevalentemente, di natura consuetudinaria; costituzioni scritte sono quelle i cui principi
fondamentali sono espressi in forma scritta.
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Se sono concesse da un sovrano sono dette costituzioni concesse (od ottriate) e rappresentano il
passaggio dallo stato assoluto ad un più moderno stato costituzionale; costituzioni votate sono
quelle formulate da un'assemblea rappresentativa del popolo.
Le costituzioni possono essere classificate anche per il grado di difficoltà nell'abrogazione o modifica
delle norme in esse contenute: si definiscono costituzioni flessibili quelle le cui norme sono
abrogabili o modificabili con la medesima procedura necessaria per le leggi normali; di costituzioni
rigide sono quelle le cui norme sono modificabili od abrogabili soltanto con una particolare procedura
più rigida.
Ancora, le costituzioni si possono classificare in base alla diversa forza formale delle disposizioni e
del loro contenuto: costituzione materiale rappresenta il fatto normativo che si identifica
nell'effettiva esplicazione dell'ordinamento fondamentale dello stato nei suoi principi e nelle sue
strutture, non solo quale risulta dalle norme scritte o non scritte che lo disciplinano, ma quale si pone
nell'effettiva realtà; costituzione formale è l'atto normativo, il documento nel quale sono contenuti i
principi e gli istituti fondamentali dell'organizzazione statale e non sempre coincide con la
costituzione materiale.
LA COSTITUZIONE ITALIANA
La Costituzione vigente ora in Italia è una Costituzione scritta, votata (in vigore dal 1948) e rigida.
Essa è formata da 139 articoli (di cui 5 abrogati nel 2001) che si dividono in tre parti: dal 1 al 12
racchiudono i principi fondamentali della repubblica; dal 13 al 54 i diritti e i doveri fondamentali dei
cittadini; dal 55 al 139 i principi riguardanti l'ordinamento della repubblica.
Nei contenuti della nostra Costituzione sono presenti numerose influenze politiche, in particolar modo
quelle derivanti da correnti del cattolicesimo sociale, dal marxismo, dal socialismo democratico.
LA REVISIONE COSTITUZIONALE
Alcune costituzioni sono protette contro modifiche, nel senso che per la loro modifica è richiesto un
procedimento legislativo gravato da maggiori oneri procedurali rispetto alla leggi ordinarie.
La Costituzione Italiana, la legge fondamentale dell'ordinamento italiano, è una cosiddetta
"Costituzione Rigida" per cui non può essere modificata se non con un procedimento “aggravato”,
particolare e eccezionale: tale procedimento, detto “revisione costituzionale” è disciplinata dagli
artt. 138 e 139 della Costituzione stessa.
Le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali sono adottate con due successive
deliberazioni delle Camere, ad intervallo non inferiore a tre mesi, che devono raggiungere entrambe
la maggioranza assoluta,
Se la legge viene votata nella seconda seduta con maggioranza dei 2/3 dei componenti di entrambe
le camere essa viene immediatamente promulgata; se, invece, la maggioranza di una delle due
camere è inferiore ai 2/3 dei componenti, viene pubblicata a scopo informativo sulla Gazzetta ufficiale
e promulgata dopo il decorso termine di 3 mesi, durante i quali essa può essere sottoposta a
referendum popolare su richiesta di 500.000 elettori, 5 Consigli Regionali, od 1/5 dei componenti di
una camera.
Perché si abbia validità di un referendum popolare costituzionale non è necessario il
raggiungimento di un quorum, e la legge viene promulgata semplicemente se raggiunge la
maggioranza dei voti validi.
La revisione costituzionale incontra limiti nell'impossibilità apportare modifiche che contrastino i
contenuti dei diritti inviolabili affermati nell'art. 2 o, ai sensi dell'art. 139, abbiano come oggetto la
forma repubblicana dello Stato italiano.
LA LEGGE
La legge è la fonte primaria dell'ordinamento giuridico, che da sempre è considerata norma capace
di vincolare al più alto grado la condotta degli uomini, prescrivendone i comportamenti e
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determinando le sanzioni da applicarsi in caso di violazione; negli ordinamenti a costituzione rigida
essa è sottoposta alla Costituzione, della quale deve rispettare i principi.
La legge nelle sue disposizioni ha contenuto valutativo della correttezza (in quanto indica ciò che
è giusto e sbagliato), valore prescrittivo-imperativo (in quanto è imposta l'osservanza delle norme
in essa contenute), ed autocoercitivo (in quanto tutela il rispetto delle proprie norme con la minaccia
di sanzioni). Se in passato essa rappresentava principalmente la volontà del sovrano, in tempi più
recenti, con la crescita di apparati statali democratici, rappresenta la volontà del popolo, che si
manifesta attraverso l'elezione di rappresentanti legittimati a legiferare.
La legge, nell'ordinamento italiano, non può essere abrogata da norme di grado inferiore, che
possono invece da questa essere abrogate.
Sono previsti dalla Costituzione altri “atti aventi forza di legge”, deliberati dal Governo (a differenza
della legge ordinaria che è deliberata dal parlamento): sono decreti legislativi e decreti legge.
DECRETI LEGISLATIVI
La costituzione italiana, nell'art. 76, ammette l'esistenza nell'ordinamento di “decreti legislativi”
(dlgs), ovvero atti con eguale forza della legge ordinaria. Questi atti sono deliberati dal Governo in
seguito ad una delega da parte delle Camere (tramite una “legge-delega”, subordinata a vincoli
rigorosi), e sono emanati con decreto del Presidente della Repubblica.
Le Camere concedono delega (regolata dalla stessa legge-delega) al Governo, per lo più, per
l'adozione di testi normativi molto complessi come codici o testi unici, esclusivamente per determinati
oggetti definiti (escludendo dunque la delega per materie): si verifica “eccesso di delega”, che inficia
direttamente gli atti del governo, quando questo abusa della delega regolando materie non
espressamente indicate. La delega deve inoltre avere un termine temporale, essendo proibita la
delega a tempo indeterminato.
Il processo di delegazione legislativa ha registrato un ampio sviluppo negli ultimi anni, tale da limitare
l'importanza delle Camere riguardo alla legiferazione e richiamare l'attenzione della corte
costituzionale.
DECRETI LEGGE
La necessità è da sempre stata ritenuta fonte di diritto, e non potendo escludersi situazioni di
necessità ed urgenza tali da richiedere interventi del Governo, la costituente non poteva non
contemplare la possibilità di atti con forza di legge, derogati dal parlamento in particolari condizioni
per le quali sono necessari interventi immediati.
I decreti legge (dl), ammessi dall'art. 77, sono dunque “provvedimenti provvisori” deliberati (per
particolari motivi di necessità ed urgenza) dal Consiglio dei Ministri (ed emanati dal Presidente della
Repubblica), la cui efficacia (immediata dal giorno successivo alla data di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale) ha iniziale durata di 60 giorni, entro i quali le Camere (convocate entro 5 giorni
dalla data stessa di adozione) devono decidere se “convertire” il decreto in legge: se il decreto non è
convertito, per “diniego di conversione” o “decorso del termine prescritto”, esso perde di efficacia sin
dalla data di pubblicazione. Le camere possono decidere di regolare con legge i rapporti nati sulla
base dei decreti non convertiti.
Se nelle prime legislature la pratica dei decreti legge era poco frequente, a partire dagli anni '60
diventò sempre più spesso strumento del governo anche in situazioni di non urgenza, ed i decreti
venivano rinnovati allo scadere del 59° giorno dalla pubblicazione, anche senza la conversione da
parte delle Camere, in abusi che la Corte Costituzionale ha largamente censurato negli anni '90 con
una sentenza che ha fortemente limitato l'uso dei decreti legge.
ABROGAZIONE DELLA LEGGE
L'abrogazione della legge è un caso di perdita di efficacia di una legge che consiste, normalmente
nell'introduzione di una nuova norma che toglie, appunto, efficacia ad una norma pre-esistente
mediante il “principio cronologico” di efficacia della legge.
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“Abrogazione espressa” è l'abrogazione più semplice nella quale una norma dispone
espressamente la perdita di efficacia di una norma anteriore; “abrogazione tacita” avviene quando
vi è incompatibilità tra due norme (per cui la precedente perde di efficacia); si ha “abrogazione
implicita” quando una nuova norma regola organicamente una materia già regolata differentemente.
L'abrogazione può avvenire inoltre per “referendum abrogativo”, per cui l'abrogazione deriva
direttamente dalla volontà popolare mediante un'interrogazione della volontà di mantenere od
abrogare una determinata legge.
Altra situazione di perdita di efficacia della legge è il “decorso dal termine”, qualora previsto (come
nel caso degli incentivi statali).
L'annullamento che opera nei confronti delle norme illegittime (ad opera della Corte Costituzionale
per le fonti primarie, o ad opera dei giudici amministrativi per le fonti secondarie), può avvenire a
causa della violazione del principio di gerarchia o del principio di competenza.
REFERENDUM ABROGATIVO
La costituzione, nell'art. 75, descrive la possibilità di indire un referendum popolare per l'abrogazione
totale o parziale di una legge (o di un atto avente forza di legge).
Per la sua forza nel far cessare una legge il referendum abrogativo può essere considerato fra le
fonti del diritto, in particolare come “fonte negativa”.
La richiesta di referendum deve essere sostenuta dal consenso di almeno 500'000 elettori o da 5
consigli regionali (solitamente vengono raccolte le firme degli elettori da comitati o dagli stessi partiti),
e devono essere consegnate alla cancelleria della Corte di Cassazione dal 1 Gennaio al 30
Settembre di ogni anno (eccezion fatta per gli anni antecedenti all'elezione di una camera e per i 6
mesi successivi la convocazione dei comizi per l'elezione di una camera).
L'ammissibilità di un referendum è stabilita dalla Corte Costituzionale entro il 20 Gennaio e
pubblicata entro il 10 Febbraio: se il referendum risulta ammissibile verrà stabilita una data in una
Domenica compresa tra il 15 Aprile ed il 15 Giugno (che verrà posticipata di un anno nel caso di
scioglimento anticipato delle camere).
Perché il referendum sia valido, è necessario il raggiungimento del “quorum”, cioè che abbiano
partecipato alla votazione almeno il 50% più uno degli aventi diritto (coloro che hanno diritto a votare
per l'elezione della camera dei deputati).
Se il referendum risulta valido e la maggioranza dei votanti ha votato a favore dell'abrogazione
(“vittoria del sì”) il Presidente della Repubblica pubblica immediatamente un decreto sulla Gazzetta
Ufficiale che annulla la legge (non oltre 60 giorni dalla pubblicazione); nel caso il referendum sia
valido e la maggioranza abbia votato contro l'abrogazione (“vittoria del no”), ne viene pubblicata
notizia sulla Gazzetta Ufficiale e per 5 anni non sarà possibile riproporre nuovamente la stessa
richiesta di referendum.
Secondo la costituzione non è possibile richiedere un referendum abrogativo riguardo leggi tributarie,
di bilancio, amnistia, indulto ed autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.
POTESTA' LEGISLATIVA DELLE REGIONI
A seguito della riforma costituzionale del 2001, la potestà legislativa appartiene allo Stato ed alle
Regioni che vengono posti sullo stesso piano.
La competenza legislativa è attribuita per materie: l'art. 117 definisce nel suo secondo comma le
materie per le quali lo Stato ha competenza esclusiva, nel terzo le materie per le quali la
competenza tra Stato e Regioni è di tipo concorrente (per cui le leggi regionali devono attenersi ai
principi fondamentali dettati dalla norma statale), mentre il quarto comma stabilisce la competenza
residuale delle Regioni su tutte le altre materie.
Prima di questa legge di riforma costituzionale (l. cost n.3/2001) le Regioni a Statuto ordinario (quelle
speciali avevano già poteri esclusivi) potevano esercitare il potere legislativo solo nelle materie
tassativamente indicate nell'arti 117 e soltanto nei limiti di una legge-cornice (o legge-quadro)
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statale (ovvero dei principi fondamentali della materia): in altre parole la riforma del 2001 ha invertito
l'esclusività della competenza residuale.
La potestà legislativa delle Regioni trova un limite nella Costituzione, nelle leggi-quadro, nel diritto
internazionale, nel diritto comunitario europeo, nel territorio (l'ambito d'applicazione delle leggi
regionali è il territorio regionale), nelle materie in cui esse possono legiferare (indicate nell'art 117).
I REGOLAMENTI GOVERNATIVI
II regolamenti sono una fonte normativa secondaria, sotto forma di atti amministrativi, sottordinati nel
sistema della gerarchia delle fonti rispetto alla legge ordinaria ed agli atti aventi forza di legge.
Essi provengono da varie autorità tra cui il Governo, la Comunità Europea, organi istituzionali,
ministeri, enti pubblici, enti locali. Se gli altri si presentano solo come atti amministrativi, solo i
regolamenti governativi (quei regolamenti provenienti dal Governo), come anche i regolamenti
ministeriali, (deliberati da un ministero riguardo alla propria materia di competenza; che prendono il
nome di interministeriali quando riguardano materie regolate da più ministri) si presentano come atti
normativi veri e propri e rappresentano una facoltà di legiferare riconosciuta dall'ordinamento al
potere esecutivo.
Le materie che possono essere regolate da regolamenti sono quelle che non presentano riserva di
legge assoluta: i regolamenti governativi (così come quelli ministeriali ed interministeriali) sono
deliberati dal Consiglio dei Ministri, previa consultazione del Consiglio di Stato, sono emanati con
D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica), registrati presso la Corte dei Conti e quindi
pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.
I regolamenti governativi si distinguono in regolamenti esecutivi (che sono diretti a dare esecuzione
a leggi, decreti legislativi o regolamenti comunitari per i quali predispongono gli strumenti più
opportuni per la loro effettiva messa in pratica), regolamenti di attuazione (o regolamenti
integrativi, in quanto integrano quelle materie per le quali è prevista una riserva di legge relativa, per
le quali la legge definisce solo norme di principio) frutto del processo di delegificazione (cioè la
tendenza a regolare sempre più materie con regolamenti rispetto alla legge ordinaria), regolamenti
indipendenti (regolamenti adottati autonomamente dal Governo, che disciplinano una determinata
fattispecie non affatto regolata una fonte primaria) e regolamenti di organizzazione (che mirano a
regolare la struttura ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche).
I regolamenti delegati sono previsti al fine di attribuire al Governo il compito di regolamentare
materie già regolate da fonti primarie, anche coperte da riserva di legge (purché non assoluta):
l'autorizzazione del Parlamento avviene mediante una “legge-delega” che dispone l'abrogazione
della normativa vigente con effetto però dall'entrata in vigore del regolamento (abrogazione
differita) .
I regolamenti, a differenza delle norme aventi forza di legge, non sono sottoposti al controllo di
costituzionalità da parte della Corte Costituzionale, ma solo al controllo giurisdizionale da parte
dell'autorità giudiziaria ordinaria.
LE FONTI COMUNITARIE
La definizione di una Unione Europea, dapprima con rilevanza eminentemente economica, poi con
significati politici crescenti, ha reso necessaria la creazione di un diritto europeo capace di regolare e
tutelare i nuovi rapporti affermatisi negli ultimi anni.
Le fonti del diritto comunitario, aventi rilevanza negli ordinamenti interni dei singoli partecipanti, sono
regolamenti (di portata generale, immediatamente obbligatori e direttamente applicabili in ciascuno
degli stati membri), direttive (che vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda i
risultati da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali quanto alla forma ed ai
mezzi da adottare) e decisioni (obbligatorie in tutti i propri elementi per i singoli stati destinatari).
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Le autorità europee possono anche adottare raccomandazioni e pareri che però non sono vincolanti.
L'immediata applicabilità dei regolamenti comunitari nell'ordinamento italiano è giustificata dall'art. 11
che consente limitazioni di sovranità; per le direttive è previsto un atto di recepimento da parte dello
Stato, reso sollecito dalla “legge comunitaria” adottata ogni anno dalle Camere, in base alla Legge
Buttiglione del 2005.
Dopo lunghi contrasti con la Corte di Giustizia, la Corte Costituzionale italiana ha sancito la
necessaria prevalenza delle fonti comunitarie su quelle interne: questa dev'essere assicurata dal
giudice ordinario, che deve dare applicazione alla fonte comunitaria in caso di antinomia con una
fonte interna di diritto (che non potendo essere abrogata, rimane in vigore nell'ordinamento interno).
La Corte Costituzionale ha però elaborato la “dottrina dei contro-limiti”, affermando la necessaria
prevalenza del diritto costituzionale interno, qualora quello comunitario leda i principi fondamentali
dell'ordinamento italiano.
STATUTI REGIONALI
Gli Statuti Regionali, secondo l'art 123, sono documenti sotto forma di “legge regionale speciale”
(così definiti dalla Corte Costituzionale), in cui ogni regione esplica le norme relative
all'organizzazione interna della regione, all'esercizio del referendum, all'iniziativa legislativa ed alla
pubblicazione di leggi e regolamenti regionali.
L'arti 116 individua 5 regioni a “statuto speciale” (Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Val d'Aosta
e Trentino Alto Adige, formato dalle province autonome di Trento e Bolzano) per le quali lo statuto
viene adottato in base ad una legge costituzionale e non ad arbitrio dei singoli consigli regionali:
questa distinzione, che aveva un senso ai tempi dell'adozione della costituzione, oggi non è altro che
un'ingiusta disparità che inquadra le cinque regioni in una posizione più sfavorevole rispetto alle altre,
non avendo la potestà di darsi autonomamente uno statuto.
In generale, lo statuto è deliberato dal Consiglio Regionale con legge approvata a maggioranza
assoluta dei componenti, con 2 deliberazioni conformi adottate ad intervallo non inferiore a 2 mesi:
esso è sottoposto a referendum qualora lo richiedessero un cinquantesimo degli elettori della regione
od un quinto dei componenti del Consiglio Regionale entro 3 mesi dalla pubblicazione.
Nei confronti di tale legge il Governo può solo porre la questione di legittimità dinnanzi alla Corte
Costituzionale entro 30 giorni dalla pubblicazione dello statuto: a seguito delle ultime modifiche
dell'art 123, infatti, lo statuto deve essere in armonia con la Costituzione (rispettandone sia le
disposizioni che lo spirito, come affermato dalla Corte Costituzionale) ma non più con le leggi della
repubblica.
LE FONTI FATTO
La consuetudine è la fonte-fatto di maggiore rilievo: è una fonte del diritto non codificata negli atti
normativi che ha, di fatto, efficacia di norma giuridica.
Essa è determinata da un comportamento ripetuto in un determinato spazio ed in un determinato
tempo che presenta un aspetto soggettivo (cioè che il singolo si attenga al determinato
comportamento nella convinzione di agire nel rispetto di una norma non scritta dell'ordinamento) ed
un aspetto oggettivo (cioè che il convincimento sia comune a tutta la molteplicità di soggetti
appartenenti ad una comunità).
Se nelle società moderne assumo sempre meno valore rispetto al passato, rimangono comunque
una fonte importante del diritto: nell'ordinamento britannico, ad esempio, la stessa Costituzione
assume forma consuetudinaria; nell'ordinamento italiano hanno grande rilevanza gli “usi marittimi”,
come affermato nell'art 1 del Codice della Navigazione (e proprio per la loro importanza sono stati
recentemente trascritti).
Gli usi devono rispettare il principio di gerarchia, per cui non sono ammessi usi “contra-legem”, ma
solo “secundum-legem” (che disciplinano materie regolamentate dalla legge, ma in modo non
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contrastante con essa) o “praeter-legem” (quando riguardano materie non regolamentate da legge).
Spesso la prassi consuetudinaria, più che diritto, rappresenta un “modus”.
La necessità come fonte assume rilevanza anche negli ordinamenti moderni, che talora rinviano ad
essa quale presupposto per l'esercizio di poteri che, mancando una urgente e imprevedibile
necessità, sarebbero contrari all'ordine legale delle competenze: normalmente questa opera come
principio legittimante, e non come fonte del diritto che dà luogo a provvedimenti “extra-ordinem”.
Le norme del diritto internazionale non hanno di per sé efficacia negli ordinamenti interni dei singoli
stati: perché l'efficacia delle norme internazionali si dispieghi anche nell'ordinamento interno, è
necessario che lo stato operi un “rinvio alla fonte” (internazionale): quella che per l'ordinamento di
riferimento (in questo caso, internazionale) è una fonte-atto, per l'ordinamento rinviante rappresenta
un fatto capace di produrre norme, ed assume quindi valore di fonte-atto.
Questa conclusione è ancora più sicura nell'ipotesi di adattamento automatico del diritto interno al
diritto internazionale, previsto dall'art 10 della Costituzione italiana, nel caso che la fonte comunitaria
riguardi quelle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
ELEMENTI COSTITUTIVI DELLO STATO
Gli elementi costitutivi dello Stato sono gli elementi necessari perché si abbia lo Stato che si
costituisce di Popolo, Territorio e Sovranità.
Il concetto di Popolo, a differenza di quello di “popolazione” (concetto demografico degli individui
presenti in un determinato tempo all'interno del territorio statale) e di quello di “nazione” (concetto
sociale che racchiude gli individui di stessa lingua e cultura), rappresenta il concetto giuridico che
identifica i soggetti a cui è attribuita la “cittadinanza”.
Il Territorio si compone a sua volta di vari elementi quali la terraferma (la porzione di superficie
terrestre delimitata da confini naturali o stabiliti mediante accordi internazionali) il mare territoriale
(la fascia di mare situata in corrispondenza delle coste, che corrisponde alle esigenze di vita e di
difesa della comunità statale, fissata nell'art. 2 del codice della navigazione a 12 miglia dalla costa,
eccezion fatta per golfi e baie), la piattaforma continentale (la parte di sottosuolo marino attiguo alla
terraferma ma fuori dal mare territoriale, il cui limite fissato dalla convenzione di Ginevra è i 200 metri
di profondità), il soprassuolo (la zona aerea al di sopra della terraferma e del mare territoriale) ed il
sottosuolo. Fanno inoltre parte del territorio statale le zone ultraterritoriali (uffici territoriali dello
stato situati all'estero ed imbarcazioni dello stato naviganti nei mari stranieri) mentre sono escluse le
zone extraterritoriali (uffici diplomatici stranieri in territorio statale ed imbarcazioni straniere in acque
territoriali sui quali lo Stato non ha imperio).
La Sovranità si manifesta come supremazia nei confronti di qualsiasi altro ente esterno e si concreta
nell'originarietà dell'ordinamento giuridico statale che, in quanto sovrano, si auto-legittima nella
propria indipendenza (anche se negli ultimi anni questa è stata ridimensionata, sia per la presenza di
organismi ed accordi internazionali che, legittimati dall'art. 11 della Costituzione, limitano la sovranità
statale che non è più assoluta, sia per l'attribuzione di poteri sempre maggiori ad organi interni allo
Stato). Essa, secondo l'art.1 della Costituzione, “appartiene al popolo ed è esercitata nelle forme e
nei limiti della Costituzione” in quella che è una sovranità non popolare diretta, ma sovranità di tipo
elettivo-rappresentativo.
LA CITTADINANZA
La cittadinanza è un peculiare rapporto giuridico con lo stato che identifica un soggetto come
appartenente al Popolo dello Stato (che, in quanto cittadino, è considerato parte integrante dello
Stato stesso).
Essa può essere acquisita alla nascita per “iure sanguinis” (nel caso di nascita da padre o madre
cittadini), “iure soli” (nel caso di nascita da genitori ignoti od apolidi sul suolo italiano da parte) o per
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eventi successivi alla nascita per “iure communicatio” (come può avvenire per adozione,
riconoscimento da parte dei genitori, o matrimonio nel caso che lo straniero, od apolide, abbia
residenza in Italia da almeno sei mesi, o comunque che il matrimonio non cessi o venga sciolto entro
tre anni).
La cittadinanza può essere acquistata inoltre per “beneficio di legge” (o “concessa per
naturalizzazione”), con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, qualora
lo straniero possa vantare di determinati vincoli con lo stato italiano, solo nei casi previsti dalla legge.
Entro sei mesi dalla concessione, lo straniero (od apolide) naturalizzato presti giuramento di fedeltà
alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e dell'ordinamento italiano.
Gli immigrati extracomunitari aventi risieduto dalla nascita al compimento della maggiore età in Italia
possono ottenere la cittadinanza.
La cittadinanza può essere persa sia per volontà del cittadino sia per situazioni di legge: un cittadino
italiano che acquisisce la cittadinanza di un altro paese può rinunciare a quella italiana se trasferisce
la residenza all'estero; perde la cittadinanza il cittadino che svolge servizi pubblici o presta servizio
militare in un altro paese pur essendogli stato mandata intimidazione da parte del governo italiano
(intimidazione non necessaria nel caso che il paese straniero sia in guerra con quello italiano). Chi
perde la cittadinanza, può riacquistarla per il venir meno delle situazioni che ne hanno comportato la
perdita.
I cittadini italiani residenti all'estero sono titolari di diritti (come il voto) che possono essere esercitati e
rivendicati in qualsiasi momento. La repubblica, inoltre, tutela i soggetti di nazionalità italiana di
cittadinanza straniera, consentendo loro la parificazione ai cittadini per quanto riguarda l'ammissione
ai pubblici uffici ed alle cariche elettive.
Con il Trattato di Maastricht (il “Trattato sull'Unione Europea” in vigore dal 1 novembre del 1993), i
dodici stati membri firmatari introdussero il concetto di “cittadinanza dell'Unione Europea” che
completa e non sostituisce la cittadinanza nazionale. Ogni cittadino di uno stato membro è anche
cittadino dell'unione al quale sono riconosciuti all'interno del territorio di ogni altro stato membro
libertà di circolazione e libertà di soggiorno, diritto di voto ed eleggibilità alle elezioni comunali
dello stato in cui egli risiede (alla pari dei cittadini di tale Stato).
LE FORME DI STATO
Per forma di Stato si intende il modo in cui lo Stato (inteso come stato-ordinamento, combinazione
di Popolo, Territorio e Sovranità) risulta strutturato nella sua totalità ed, in particolare, il modo in cui si
atteggiano i rapporti tra gli elementi costitutivi del medesimo
Sulla base di questi tre elementi, le forme di stato possono essere classificate riguardo
all'organizzazione dei rapporti tra popolo e sovranità (cioè rapporto tra governanti e governati) o
riguardo all'organizzazione dei rapporti tra territorio e sovranità (ossia come ripartizione della
sovranità sul territorio, con un maggiore o minore grado di accentramento).
Tralasciando le forme di stato più antiche, ritroviamo diverse forme di stato quali stato patrimoniale
(sviluppato nell'epoca medievale, dove per lo più l'organizzazione del potere era di tipo privatistico e
l'aspetto pubblicistico solamente marginale; il titolare del potere rivendicava come appartenenti al
proprio patrimonio le terre le persone assoggettate al suo potere) che nel Rinascimento lasciò il
passo al modello di stato assoluto (dove ogni aspetto del potere spetta al sovrano e alla sua corte)
che andò in crisi con l'ascesa della classe borghese che favorì il passaggio allo stato di polizia (il
cosiddetto "assolutismo illuminato", nel quale era prevista una subordinazione del sovrano alla legge,
e le cui finalità coincidevano, almeno formalmente, con la cura della comunità).
Un successivo passaggio storico porta allo stato moderno che presenta quattro caratteri
fondamentali: la costituzionalità (cioè il fondamento dello Stato su un testo costituzionale, che
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preveda diritti e libertà dei cittadini e principi fondamentali come la separazione dei poteri), la
giuridicità (cioè che lo stato sia uno stato di diritto, il cui esercizio della sovranità sia sottoposto al
rispetto della legge, che esso stesso produce), la rappresentatività (ovvero che almeno uno degli
organi costituzionali sia rappresentativo della volontà popolare) e la democraticità (che non
rappresenta tanto il banale "governo del popolo", ma piuttosto il fatto che lo stato si attenga a principi
come il principio di maggioranza e la tutela delle minoranze).
Nello stato moderno democratico la democrazia è, per lo più, democrazia rappresentativa (nella
quale i cittadini per cui i cittadini manifestano la propria volontà attraverso l'elezione di
rappresentanti), mentre è eccezione la democrazia diretta (in cui i cittadini partecipano direttamente
all'attività statale).
Le forme di stato attualmente più diffuse sono monarchia (nella quale la carica di capo di stato, il Re,
legittimato dalla legge fondamentale dello stato, è decisa secondo criteri dinastico-ereditari) e
repubblica (nella quale la carica di stato è di tipo elettivo)
In Europa e nel resto del mondo sviluppato, data per scontata la forma di Stato democratica,
oggigiorno la differenza riguardo le forme di Stato rimane quella relativa al grado di accentramento
dell'ordinamento statuale: si distinguono dunque lo stato unitario (nel quale la sovranità, nella sua
interezza, è esercitata da un'autorità centrale su un solo determinato territorio ed un solo determinato
popolo), lo stato confederale (che è unione di più stati autonomi che decidono di cedere, in comune
accordo, alcuni poteri, come quelli riguardo alla difesa, ad un'autorità superiore, lo stato centrale), lo
stato federale (nel quale l'autorità centrale concede agli stati presenti al suo interno autonomia
effettiva, sia sul piano legislativo che amministrativo, ma che è prima di tutto autonomia finanziaria).
Nella situazione italiana non si può parlare di stato federale (anche se le ultime modifiche del titolo V
della Costituzione potrebbero farlo pensare) ma piuttosto di regionalismo, ovvero di decentramento
amministrativo, nel quale il potere centrale, per sua propria volontà, si decentra e viene in parte
ceduto ad istituzioni secondarie territoriali (regioni, province, comuni, nelle quali è ripartito il
territorio, unico ed indivisibile) dotate di poteri amministrativi (anche attuativi della legge centrale) e di
una potestà legislativa più o meno ampia, senza avere però una sostanziale autonomia finanziaria
(che caratterizza lo stato federale rispetto allo stato regionale).
Con l'espressione stato sociale, si vuole intendere che lo stato moderno, oltre a garantire la libertà
ed assicurare il metodo democratico, deve operare incisivamente sui rapporti sociali, per garantire il
raggiungimento di quelle finalità di promozione del progresso civile, di uguaglianza sostanziale e di
solidarietà che si pongono come fini fondamentali dello stato contemporaneo.
LA NOZIONE DI ORGANO STATALE
L'organo è il mezzo mediante il quale le persone giuridiche di diritto pubblico manifestano la propria
volontà. Gli organi dello Stato, ad esempio, sono incaricati di volere ed agire per esso, e per il
conseguimento dei fini cui esso mira: l'azione di organi di tal genere è considerata azione diretta
dello Stato, in quanto questi non hanno esistenza propria distinta da esso, ma sono inseriti come
parte integrante della sua struttura e organizzazione.
RAPPORTO TRA STATO ED ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
I rapporti tra stati, nell'ambito dell'ordinamento internazionale, vengono regolati di norma mediante
accordi internazionali come Trattati e Convenzioni, che obbligano gli stati nei rapporti internazionali,
ma non hanno di per sé alcuna efficacia nell'ordinamento interno.
Tale efficacia si verifica nel momento in cui viene redatto l'“atto di ratifica” che dà esecuzione
all'accordo internazionale o conformando l'ordinamento interno a quello internazionale: tale atto può
avvenire tramite un semplice ordine di esecuzione od adottando le disposizioni normative
necessarie a trasferire nell'ordinamento interno le clausole dell'accordo internazionale.
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Secondo quando espresso nell'art. 10 della Costituzione, non è necessaria la ratifica per "quelle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute" la cui efficacia è diretta ed immediata
sull'ordinamento interno.
Secondo l'art. 11, inoltre, l'Italia si impegna a favorire organizzazioni internazionali rivolte allo scopo
di mantenere la pace e la giustizia fra le Nazioni, subendo limitazioni talvolta alla propria sovranità.
L'organo competente a rappresentare lo Stato Italiano nelle relazioni internazionali è il Presidente
della Repubblica, il quale riceve i rappresentanti diplomatici stranieri, dichiarare lo stato di guerra, e
ratificare gli accordi internazionali (per la ratifica degli accordi di maggior rilievo è necessaria la previa
autorizzazione da parte delle Camere).
L'UNIONE EUROPEA
L'Unione Europea (istituita col Trattato di Maastricht del '92) è un organismo “sui generis”, alle cui
istituzioni gli stati membri (27 dal 1 Gennaio 2007) delegano parte della propria sovranità nazionale,
le cui competenze spaziano dagli affari esteri alla difesa, alle politiche economiche, all'agricoltura, al
commercio e alla protezione ambientale, che superano le iniziali motivazioni economiche della
creazione di un mercato unico (perfezionato attraverso una fitta serie di norme alle quali è stato
riconosciuto il carattere di ordinamento giuridico).
ORGANI FONDAMENTALI DELL'UNIONE EUROPEA
Il Parlamento europeo è l'assemblea parlamentare dell'Unione Europea eletta a suffragio universale
dei cittadini dell'unione: la composizione del parlamento europeo è tale che, nonostante la
tendenziale considerazione per il peso dei singoli Paesi membri, gli Stati più grandi risultano sfavoriti
rispetto a quelli più piccoli. Per quanto questo abbia avuto, fin dalla sua istituzione, un ruolo più
simbolico che reale odiernamente si registra un significativo incremento delle sue competenze.
Il Consiglio dell'Unione Europea, costituito da un rappresentante per ogni stato dell'Unione, è
considerato l'organo supremo dell'Unione dal punto di vista politico, anche se è destinato a perdere
la sua rilevanza a favore del Parlamento e della Commissione: al Consiglio spetta provvedere al
coordinamento delle politiche economiche generali degli Stati membri, adottare decisioni sulle
materie ad esso sottoposte, conferire alla Commissione le competenze per l'esecuzione delle
decisioni adottate.
La Commissione Europea, istituita nel 1965 con la fusione degli esecutivi di CECA, CEE ed
EURATOM, è l'organo europeo più rilevante (pur essendo subordinato alle decisioni politiche del
Consiglio) per la continuità della sua azione e per le sue competenze decisionali ed esecutive. Il
Presidente della Commissione è nominato dai Governi dei singoli Stati membri, ma tale designazione
dev'essere approvata dal Parlamento Europeo. Gli Stati membri, di comune accordo col Presidente,
scelgono i 20 membri che andranno a comporre la commissione, un cittadino di ogni Stato membro,
con il limite di non più di due cittadini per Stato.
Uno dei punti qualificanti del processo di integrazione europea è considerata la Carta di Nizza (la
“Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo” proclamata solennemente il 7
dicembre 2000), che ribadisce la volontà di rivendicazione e tutela dei diritti e delle libertà
fondamentali dell'uomo della “Convenzione di Roma” del 1950.
Essa ribadisce le libertà fondamentali comuni presenti nelle costituzioni di tutti gli stati membri,
affermando esplicitamente il diritto alla vita di ogni persona, i diritti alla libertà ed alla sicurezza, il
divieto di tortura, schiavitù e lavoro forzato, il diritto ad un equo processo e ad un ricorso effettivo,
libertà di pensiero, di coscienza, di religione, libertà di espressione, di riunione e di associazione;
tutela, inoltre, diritti economici e sociali, ed in particolare quelli riconducibili al diritto del lavoro;
ancora, si occupa di diritti moderni, derivanti dagli sviluppi tecnologici, come la tutela dei dati
personali o il divieto all'eugenetica.
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La Corte Europea dei diritti dell'uomo (Corte di Strasburgo) è il giudice, istituito a seguito delle
disposizioni contenute nella Carta di Nizza, competente a riconoscere le violazioni, nei singoli Stati
membri, delle disposizioni contenute nella Convenzione. Alla Corte di Strasburgo possono ricorrere
sia gli Stati membri, sia ogni persona fisica o giuridica che pretenda di essere vittima di una
violazione da parte di una delle parti contraenti.
Qualora la Corte ritenga fondato il ricorso, accorda un'equa soddisfazione alla parte lesa: le Parti
contraenti si impegnano a conformarsi alla sentenza, ma tale impegno non è alcun modo sanzionato
(per cui in caso di inosservanza, l'attuazione delle sentenze della Corte è rimessa alle giurisdizioni
dei singoli stati, assumendo valore prevalentemente politico e di opinione).
La Corte di Giustizia è l'organo giurisdizionale che deve assicurare l'applicazione dei Trattati (anche
se deve rilevarsi che la decisione ultima spetta ai singoli Stati, nei cui confronti, se inadempienti,
possono essere adottati provvedimenti repressivi di relativa efficacia).
Possono far ricorso alla Corte di Giustizia gli Stati membri, le istituzioni comunitarie, nonché persone
fisiche o giuridiche che pongono ricorso contro decisioni prese nei loro confronti e contro decisioni e
regolamenti che le riguardino in modo individuale e diretto.
Le sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia non hanno immediata efficacia negli ordinamenti
interni degli Stati membri, la cui inadempienza può essere sanzionata, secondo il trattato di
Maastricht (che formalmente istituisce l'Unione Europea, introducendo il concetto di cittadino
europeo, entrato in vigore l'1 novembre 1993), su iniziativa della Commissione, con l'obbligo di
pagamento di una penalità in misura adeguata alle circostanze.
LA POLITICA FINANZIARIA ED ECONOMICA DELL'UNIONE
Il “Patto di Stabilità” persegue la necessaria finalità di coordinare le politiche monetarie e di bilancio
dei singoli Stati dell'Unione: esso comporta un forte potere di indirizzo dell'Unione nei confronti dei
singoli Stati, la cui sovranità risulta fortemente limitata, dato l'obbligo di rispettare direttive riguardo al
contenimento dell'indebitamento pubblico e di eccessivi disavanzi.
L'Euro, la moneta unica europea (ad ora utilizzata da 13 dei 27 stati membri) è solo uno dei risultati
dell'unificazione dei mercati finanziari, nei quali la politica monetaria è affidata ad un'unica autorità di
nuova istituzione, la Banca Centrale Europea (BCE) che determina i tassi di interesse del mercato
monetario europeo
RAPPORTI TRA STATO E CHIESA
I problemi dei rapporti fra Stato e Religione sono sempre stati fra i problemi più rilevanti della storia.
In Italia, in particolare, il problema si pone in quanto i cittadini, prevalentemente cattolici, sottostanno
sia al diritto statale (subditi legum) che, in quanto credenti, alle leggi della Chiesa Cattolica (subditi
canonum): ciò può portare a situazioni di conflitto fra i 2 ordinamenti.
Storicamente, i rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica, in Italia, hanno toccato quattro fasi: con lo
Statuto Albertino l'Italia adottava il confessionalismo (nel quale lo stato riconosce la posizione
preminente della Chiesa, anche rispetto al proprio ordinamento giuridico); con la “Legge delle
Guarantigie” del 1871, viene attuato un giurisdizionalismo (nel quale lo Stato si pone di grado
superiore rispetto all'ordinamento ecclesiastica); con l'intervento di Cavour, che esprimeva il concetto
di “libera chiesa in libero stato”, si passa alla fase del laicismo (nel quale si realizza una netta
separazione fra disciplina canonica e disciplina civile); dal 1929 con i Patti Lateranensi il rapporto è
stato regolato da un sistema concordatario (nel quale i rapporti sono regolati medianti concordati).
Oggi, come espresso dall'art. 7 della Costituzione, i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti
Lateranensi (trattato nel quali si riconosce alla Chiesa la sovranità delle aree vaticane, si stabilisce
una convenzione finanziaria per far fronte alla pendenza finanziarie della Chiesa derivanti dalla
perdita del patrimonio di San Pietro e dei beni degli enti ecclesiastici, si stabilisce che un
"concordato" regola i rapporti fra Stato e Chiesa).
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Sempre secondo l'art. 7 le modifiche dei Patti, accettate dalle 2 parti, non prevedono un
procedimento di revisione costituzionale: il concordato del 29 è stato revisionato nel 1984 con
l'Accordo di Villa Madama, nel quale sono stati aggiornati numerosi punti riguardo alle esigenze più
moderne nelle relazioni fra Stato, al quale è consentito un netto carattere di aconfessionalità, e
Chiesa, liberata da vincoli e privilegi non più conformi né alle esigenze della stessa Chiesa né ai
principi del nostro ordinamento costituzionale.
RAPPORTI TRA STATO E RELIGIONI NON CATTOLICHE
Se nella nostra Costituzione vi è tutela della religione cattolica, le altre religioni risultano altrettanto
tutelate (a differenza di come avveniva finché era in vigore lo Statuto Albertino che sovraordinava la
religione cattolica, in quanto religione di stato, rispetto alle altre) dall'art. 8, che dispone inoltre che
anche i rapporti tra stato e religioni differenti da quella cattolica siano regolati con sistema
concordatario “sulla base di intese con le relative rappresentanze” (se lo Stato volesse disciplinare i
rapporti con una confessione religiosa senza aver raggiunto con questa un'“intesa”, per riserva
rinforzata di legge, dovrebbe regolare suddetti rapporti tramite l'uso di leggi costituzionali).
Tutti gli accordi con le confessioni religiose, oltre a dover rispettare ovviamente tutte le norme
costituzionali, in particolare non devono essere in contrasto con l'art. 19 (che riguarda la libertà di
culto, limitata solo dal doversi attenere al buon costume delle manifestazioni religiose) e l'art. 20 (che
riguarda il trattamento delle associazioni a carattere religioso, che non devono essere in alcun modo
oggetto di discriminazioni o privilegi).
Fino a oggi vi sono accordi e regolazioni, oltre ovviamente che con la religione cattolica, con la
Chiesa Valdese, le comunità ebraiche italiane, la Chiesa evangelica, le Chiese avveniste del 7°
giorno, le Assemblee di Dio in Italia, l'unione unitaria evangelica battista.
Nel 2000 sono stati siglati gli accordi preliminari di intesa con l'Unione Buddista e i Testimoni di
Geova. Più di recente è stata manifestata dal Governo la volontà a voler concludere accordi anche
con la confessione islamica, anche se per ora non sono stati ottenuti risultati.
DIRITTI SOGGETTIVI ED INTERESSI LEGITTIMI
Diritti soggettivi sono quelle posizioni giuridiche soggettive di vantaggio che l'ordinamento giuridico
riconosce e garantisce al soggetto per soddisfare un suo interesse sostanziale (accordandogli una
serie di facoltà e poteri per consentire in via immediata e diretta la realizzazione dell'interesse
medesimo e per reagire nel caso della sua lesione ad opera di terzi)
Diritti soggettivi privati sono quelle situazioni di vantaggio che si verificano nei rapporti privatistici,
mentre diritti soggettivi pubblici sono quelle situazioni di vantaggio e di potere nell'ambito pubblico
che corrispondono essenzialmente alle alle forme di libertà previste dalla Costituzione.
Gli interessi legittimi (la cui posizione, seppur diversa dal diritto soggettivo, assume notevole
rilevanza nel nostro ordinamento, come sottolineato in modo chiaro ed inequivocabile dall'art. 24
Cost) sono posizioni giuridiche di vantaggio che consistono nella pretesa da parte di un soggetto che
l'operatore pubblico agisca nei suoi confronti secondo legittimità (è dunque l'interesse al corretto uso
del potere discrezionale da parte della P.A.) protette dall'ordinamento nei casi in cui l'azione della
pubblica amministrazione è viziata da incompetenza, violazione di legge od eccesso di potere.
Secondo la teoria dell'“interesse occasionalmente protetto”, l'interesse legittimo è un interesse che
il diritto tutela indipendentemente dal soggetto che ne è titolare, in quanto intende proteggere un
interesse generale, dalla cui tutela, di riflesso, deriva quella dell'interesse facente capo al singolo:
rappresenta dunque "un interesse individuale strettamente connesso con un interesse pubblico e
protetto dall'ordinamento soltanto attraverso la tutela giuridica di quest'ultimo".
Una delle obiezioni principali mosse a questa tesi è che la rimozione di un provvedimento contrario
alla legge non sempre è un risultato conforme al pubblico interesse, potendo esistere provvedimenti
illegali ma sommamente utili alla collettività: di conseguenza, la coincidenza tra “interesse legittimo”
ed “interesse occasionalmente protetto” si verifica solo nel caso in cui “interesse personale” ed
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“interesse generale” vadano a coincidere.
Gli interessi legittimi possono essere di pretesa (per i quali è previsto l'annullamento dell'atto
amministrativo illegittimo) o di opposizione (per cui è previsto un risarcimento del danno provocato
dagli atti della P.A.).
L'ordinamento italiano prevede la ripartizione di giurisdizione tra diritti soggettivi (alla cui tutela è
adibito il giudice ordinario) ed interessi legittimi (che rientrano nell'ambito delle materie per le quali ci
si rimette al giudice amministrativo)
I DIRITTI INVIOLABILI DELL'UOMO
Nell'art 2 della Cost, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”
IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA E L'EGUAGLIANZA SOSTANZIALE
Accanto alla libertà, l'uguaglianza, affermata in termini particolarmente dalla Costituzione nell'art. 3, è
uno dei capisaldi della Repubblica: nello stato democratico non è sufficiente la sola eguaglianza
formale, intesa come uguaglianza davanti alla legge, ma deve essere garantita l'eguaglianza
sostanziale, intesa come possibilità di conseguire il pieno sviluppo della personalità e di partecipare,
con pari opportunità, alla vita politica, civile ed economica del paese.
Per quanto l'art. 3 garantisca, sotto il profilo meramente letterale, il principio di uguaglianza dei soli
“cittadini”, esso è da estendersi anche a tutti gli stranieri e gli apolidi che che si trovino nello Stato
italiano, nei confronti dei quali non è possibile stabilire discriminazione o privilegi in relazione ai diritti
fondamentali dichiarati inviolabili dall'art. 2.
L'art. 3, inoltre, asserisce che non sono ammissibili discriminazioni legate a “distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, che rappresentano
le principali cause di disuguaglianza del passato più o meno recente, ripudiando la possibilità di
trattamenti differenziati fondati sulle differenze indicate e non adeguatamente giustificati: ciò non
esclude la possibilità di trattamenti differenziati (anche in tali ipotesi) nei casi in cui parità di
trattamento andrebbe a ledere il principio di eguaglianza (parità di trattamento va riservata a parità di
situazione).
Il secondo comma dell'art. 3 sottolinea la necessità di una tutele di uguaglianza sostanziale: “È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
LA LIBERTA' PERSONALE
La libertà personale è uno dei valori fondamentali dello stato moderno, nel quale nessuna
condizione giuridica è ammissibile se incompatibile con la libertà personale dei soggetti: essa è il
requisito fondamentale per tutte le altre forme di libertà, intesa come libertà fisica (del proprio corpo)
nonché libertà da un punto di vista morale e psicologico: essa consiste nella libera disponibilità
della propria persona, sia attivamente (cioè nel “poter fare”) che passivamente (cioè nell'escludere
interferenze nella propria sfera personale).
Tutte le altre libertà specifiche si manifestano come “rami” della libertà personale.
Oggi lo stato moderno è promotore e si pone a tutela della libertà personale: l'art. 13 Costituzione
italiana afferma che la libertà personale non è limitabile in alcun modo se non nei casi previsti dalla
legge. Le possibili limitazioni della libertà personale sono previste nell'ordine di garantire la
prevenzione e la sicurezza e di tutelare i diritti fondamentali dell'uomo.
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In caso di necessità e urgenza, sempre secondo l'art. 13, l'autorità di pubblica sicurezza (ognuno
dei corpi della forza pubblica) può apporre limitazioni temporanee alla libertà personale (che devono
seguire le modalità indicate dalla legge, secondo una riserva di legge assoluta, ed essere disposte
con un atto motivato, secondo riserva di giurisdizione), che vanno comunicate all'autorità giudiziaria
entro 48 ore: se nelle successive 48 ore dalla comunicazione il provvedimento non viene convalidato
dall'autorità giudiziaria, le limitazioni si intendono revocate e prive di ogni effetto.
Sempre nell'art. 13 è disposto che venga previsto dalla legge un limite temporale massimo delle
misure di sicurezza preventive, onde evitare abusi in materia di custodia cautelare.
LIBERTA' DI DOMICILIO
Strettamente connessa con la libertà personale, la Costituzione garantisce nell'art. 14 la libertà di
domicilio (tutelata dall'ordinamento in modo simile alla libertà personale): il domicilio è dichiarato
inviolabile e, come per la libertà personale, sono previste limitazioni ad essa solo nei casi previsti
dalla legge (per riserva di legge) e mediante la disposizione di un atto motivato (per riserva
giurisdizionale).
In casi di necessità e di urgenza, indicati dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può procedere a
ispezioni, perquisizioni o sequestri, (da comunicare entro 48 ore all'autorità giudiziaria, che deve
convalidare il provvedimento entro le 48 ore successive): il caso più comune di necessità ed urgenza
è quello della flagranza di reato.
Per domicilio, non si intende né la concezione civilistica del termine (espressa nell'art 44 del Cod.
Civile per cui domicilio è il luogo in cui una persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed
interessi”) quanto piuttosto l'“ambito spaziale privato nel quale si realizza la stessa libertà personale”,
che risulta ancora diversa dalla concezione penalistica di domicilio (definita dall'art. 614 del Cod.
Penale come “abitazione altrui od altro luogo di privata dimora, o le appartenenze di essi”), che non
ne coglie pienamente il valore strumentale rispetto alla libertà personale (che risulta compromessa
dalla lesione della libertà di domicilio)
L'art. 14 della Costituzione, nell'ultimo comma, consente la regolamentazione da parte di leggi
speciali di limitazioni della libertà di domicilio per motivi di sanità, incolumità pubblica, o per fini
economici o fiscali, anche senza atto motivato dell'autorità giudiziara od in assenza di situazione di
necessità ed urgenza.
LIBERTA' DI RIUNIONE
Nell'art. 2, “la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità”. La costituzione, nell'art. 17, tutela tali formazioni sociali
garantendo la libertà di riunione (intesa come organizzato di convenire di più persone per uno scopo
prefissato) a tutti i cittadini (per disposizione che non vale per gli stranieri): queste devono essere
pacifiche e i partecipanti ad esse non possono portare armi.
Le riunioni possono essere in luogo privato, non tutelate esplicitamente dalla Costituzione, ma
indirettamente attraverso tutela della libertà di domicilio; in luogo pubblico (zone di libero accesso)
che devono essere preavvisate alle autorità di competenza (il Comune), in particolar modo per
permettere un'organizzazione adeguata a garantire l'ordine pubblico, che possono essere vietare per
comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica; od in luogo aperto al pubblico (cioè luogo
al quale l'accesso può essere disciplinato mediante particolari prescrizioni), per cui non è previsto
preavviso all'autorità pubblica.
Riunioni in luogo pubblico per le quali non sia stato dato preavviso alle autorità, possono essere
impedite o sciolte dall'autorità di pubblica sicurezza solo quando questa presenti, anche solo
parzialmente, caratteristiche che avrebbero giustificato il divieto ove fosse stato dato il preavviso. in
ogni caso, comunque, i promotori della riunione saranno responsabili, ai sensi di legge, dell'omesso
preavviso.
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Due tra i più rilevanti tipi di riunione sono cortei (considerati semplici riunioni in movimento, tutelate
dall'art. 17, per le quali è richiesto preavviso alle autorità competenti) e le processioni (che sono
manifestazioni religiose e quindi tutelate sia dall'art. 17 che dall'art. 19 che prevede che queste
possano essere esercitate anche in pubblico senza preavviso)
La Costituzione non impedisce la possibilità di assembramenti (incontro casuale non organizzato in
un medesimo luogo, attratte da qualche circostanza improvvisa) ma d'altra parte non prevede la
tutela destinata alle riunioni: queste, per il loro carattere di non-preorganizzazione non necessitano la
comunicazione all'autorità competente.
LIBERTA' DI ASSOCIAZIONE
La libertà di associazione, garantita nell'ordinamento italiano dall'art. 18 della Costituzione
esclusivamente per i cittadini, rappresenta la libertà per più persone di cooperare nel tempo per il
raggiungimento di un determinato scopo che non sia vietato ai singoli dalla legge penale.
Sono proibite le associazioni segrete (quelle associazioni che occultano la propria esistenza, i
propri soci, e le proprie finalità ed attività sociali, od anche solo le dissimulano) in quanto contrarie ad
un principio di lealtà dei cittadini, i quali non avrebbero alcun motivo di ricorrervi se lo scopo da esse
perseguito non fosse illecito;
Affiancata alla libertà di associazione intesa in senso positivo come "possibilità di associarsi", l'art.
18 garantisce anche la libertà intesa in senso negativo come "non costrizione ad associarsi", che
la Corte Costituzionale (a causa della difficile applicabilità rigida di tale principio di fronte ad enti
associativi di diritto pubblico ad appartenenza necessaria) ha definito violata se nel costringere gli
appartenenti ad un gruppo o ad una categoria ad associarsi viene leso un diritto, una libertà od un
principio costituzionalmente garantito (od ogniqualvolta il fine pubblico che si dichiara di perseguire
sia palesemente arbitrario, presuntuoso od artificioso).
LIBERTA' RELIGIOSA
La Costituzione italiana tutela, nell'art. 19, tutela la libertà religiosa (e libertà di coscienza) in tutte
le sue manifestazioni, sia positive che negative (per cui anche l'ateismo è garantito in quanto
considerato “libertà di areligiosità”), che rappresentano libertà fondamentali di uno stato moderno.
La costituzione tutela nell'art. 19, in particolare, la libertà di propaganda di determinate idee e modelli
religiosi, come tutela l'esercizio del culto sia in pubblico sia in privato il culto (purché non si tratti di riti
contrari al buon costume).
L'art. 20 vieta di fatto ogni discriminazione fra associazioni ed istituzioni in relazione al loro fine
religioso: tale articolo svela la volontà della costituente di evitare il ripetersi delle ghettizzazioni
fasciste e naziste, sancendo in sostanza l'impossibilità da parte dello stato di limitare arbitrariamente
i diritti delle associazioni religiose e di tassarle più del dovuto senza giustificato motivo.
LIBERTA' DI STAMPA
La libertà di pensiero è tutelata dall'ordinamento italiano, non solo in quanto libertà di pensare, ma in
quanto libertà di “manifestare liberamente il proprio pensiero”, come asserisce l'art. 21.
La stampa riceve particolare attenzione (a causa della storica preminenza mediatica ai tempi della
Costituente) dall'art. 21 rispetto ad altri mezzi di comunicazione e manifestazione del pensiero di
rilevanza oggigiorno sempre crescente: questa non può essere soggetta ad autorizzazioni o a
censura da parte del potere pubblico che non può intervenire mediante provvedimenti autorizzatori o
controlli sui contenuti.
Questo ampio riconoscimento della libertà di stampa, tuttavia, implica un'assunzione di responsabilità
da parte di coloro che ne usufruiscono: la Costituzione detta disposizioni precise per reprimerne gli
abusi, consentendo il sequestro degli stampati nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa
espressamente lo autorizzi o nel caso di violazione di norme che la legge stessa prescrive per
l'indicazione dei responsabili.
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Tale sequestro preventivo (in quanto diretto a prevenire la diffusione degli stampati) deve essere
disposto con atto motivato dell'autorità giudiziaria o, in caso di assoluta urgenza (per quanto riguarda
esclusivamente la stampa periodica), direttamente dalla polizia giudiziaria che deve fare denuncia
entro 24 ore all'autorità giudiziaria che nelle successive 24 ore deve convalida il sequestro (che
altrimenti perde di validità e viene revocato.).
L'art. 21 vieta manifestazioni o stampe contrarie al buon costume, e demanda alla legge adeguati
provvedimenti per le relative violazioni. Il concetto di buon costume non è definibile concretamente
ma si può considerare solo generalmente come "comune sentimento morale".
Secondo la legge sulla stampa ogni stampato deve contenere il luogo, l'anno di pubblicazione, il
nome e il domicilio dello stampatore e, se esiste, dell'editore; inoltre, in caso di stampa periodica,
deve anche contenere il nome del proprietario e del direttore o del vicedirettore responsabile.
Sempre per la sola stampa periodica è necessaria la registrazione presso la cancelleria del tribunale
di competenza (nella circoscrizione dove il periodico è pubblicato).
Per tutelare gli interessati degli stampati dagli abusi della libertà di stampa, in caso in cui vengano
diffuse notizie-opinioni false o lesive dell'identità o dell'onore di una persona, lo stampato ha l'obbligo
di pubblicare entro brevissimi termini previsti dalla legge, la rettifica delle persone interessate.
RADIO E TELEVISIONE
Pur nel silenzio della costituzione, la radio e la televisione hanno acquisito, con il passare degli anni e
con il progresso tecnologico del settore, una rilevanza assolutamente preminente sul piano
dell'informazione.
Ai sensi della legge 103 del 1975, lo Stato di installazione e l'esercizio tecnico degli impianti di
diffusione circolare radiofonica e televisiva (trattandosi di un servizio pubblico essenziale a carattere
di preminente interesse generale) spettano allo Stato il quale vi provvede tramite concessione alla
R.A.I. (che è una società per azioni a totale partecipazione pubblica). La legge consente inoltre
l'installazione e l'esercizio di impianti di radio-diffusione sonora e televisiva privata, che devono
essere subordinati a concessioni statali nei limiti e con le condizioni che la stessa legge prevede.
Il T.U. approvato con il d.lgs. 177 del 2005, il legislatore ha cercato di delineare discipline accettabili
soprattuto dello strumento televisivo.
Nel sistema radiotelevisivo, a garanzia del pluralismo dei mezzi di comunicazione, è vietata la
costituzione e il mantenimento di posizioni dominanti, assicurando la massima trasparenza degli
assetti delle società proprietarie delle reti.
In particolare sono considerati principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della
libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di
espressione di ogni individuo, l'obbiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione,
l'apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e la salvaguardia delle
diversità etniche e del patrimonio culturale, artistico ed ambientale a livello nazionale e locale.
I telegiornali ed i giornali radio sono equiparati a giornali e periodici su carta stampata, e debbono
essere registrati in conformità alle disposizioni della legge sulla stampa, ed i loro direttori sono
considerati responsabili.
Se il controllo sugli adempimenti delle televisioni nazionali spetta all'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (istituita con la legge 249 del 1997), a livello locale è prevista la costituzione dei
CORECOM (Comitati regionali per le comunicazioni) istituiti con leggi regionali, la cui disciplina è
demandata ad apposito regolamento emanato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
I DIRITTI DI PRESTAZIONE
Il titolo II della costituzione è dedicato ai rapporti etico-sociali (disciplinando la famiglia, la salute, le
libertà di insegnamento e di istruzione) e tutela i diritti di prestazione (o diritti civici) cioè quei diritti
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per i quali non è sufficiente la protezione giuridica dell'ordinamento, ma che necessitano di un
intervento attivo della pubblica autorità per assicurare “prestazioni idonee” ad assicurare l'effettivo
godimento delle libertà sostanziali del cittadino, con la finalità di conseguire quei fini di interesse
generale che corrispondono alla progressiva evoluzione dello Stato moderno.
LA TUTELA DELLA FAMIGLIA NELLA COSTITUZIONE
La costituzione negli articoli 29, 30 e 31 detta i principi fondamentali del diritto familiare del nostro
ordinamento.
La famiglia tutelata e riconosciuta dalla costituzione è quella “società naturale fondata sul
matrimonio” che è “ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, principio che garantisce
la posizione della donna nell'unità familiare, abrogando gli istituti che ponevano la donna maritata in
una condizione di inferiorità.
La legge 898 del 1970 introduce nell'ordinamento l'istituto del divorzio, confermato da referendum
popolare tenutosi nel maggio del 1974.
La legge 151 del 1975 dispone una effettiva posizione di uguaglianza di entrambi i genitori, ad
esempio nel rapporto con i figli, dove la “patria potestà” è stata sostituita dalla “potestà dei genitori”
intesa come parità dei diritti e dei doveri nei confronti dei figli, che devono essere istruiti ed educati,
tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.
I figli illegittimi, definiti dalla costituzione come quei figli “nati fuori del matrimonio”, sono tutelati dalla
costituzione che afferma, nell'art. 30, l'ordinamento assicura loro “ogni tutela giuridica e sociale,
compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima” ed impone ai genitori il dovere di
“mantenere, istruire ed educare” i figli illegittimi così come quelli appartenenti alla famiglia.
La Repubblica, inoltre, si fa carico dei compiti attivi di prestazione nei confronti della famiglia,
secondo l'art. 31, per cui essa “agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione
della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.”
L'art. 31, oltre a tutelare la famiglia, mira a proteggere la maternità e, di conseguenza, il concepito la
cui situazione giuridica, per quanto con caratteristiche sue proprie, riceve la tutela dei diritti inviolabili
dell'uomo nell'art. 2: ciò nonostante il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina
dell'aborto (con la l. 194 del 1978) molto permissiva che lascia pressoché assoluta libertà di abortire
concessa anche alla donna minorenne entro i primi 90 giorni di gestazione, senza tutela dell'opinione
del padre o di chi indicato come tale. Sempre la legge 194 introduce la possibilità dell'obiezione di
coscienza per la quale il personale sanitario non è tenuto a prendere parte, contro la propria volontà,
agli interventi abortivi ed alle relative procedure.
TUTELA DELLA SALUTE
La tutela della salute è compito essenziale dello Stato e l'art. 32 Cost. lo afferma sia come un diritto
dell'individuo, sia come interesse della collettività, che la Repubblica tutela garantendo “cure gratuite
agli indigenti”.
L'art 117, inoltre, stabilisce che la materia di tutela della salute sia di competenza concorrente delle
Regioni, le quali potranno regolare la materia nel quadro dei principi delle leggi statali.
Il secondo comma dell'art. 32 stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
TUTELA DELL'AMBIENTE
Se inizialmente, nel nostro ordinamento, il concetto di ambiente si identificava con quello di
paesaggio, tutelato dall'art. 9, la giurisprudenza ha affermato l'esistenza di un diritto soggettivo ad un
ambiente salubre, tutelabile anche nei confronti della p.A. .
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Recentemente il d.lgs. 112 del 1998 ha riordinato la materia ripartendo competenze in materia di
protezione della natura e dell'ambiente, di tutela dell'ambiente dall'inquinamento e di gestione dei
rifiuti tra Stato e Regioni ed enti locali.
IL DIRITTO ALLO STUDIO
Il libertà di istruzione (o diritto allo studio) è un diritto di prestazione, disciplinato nella
Costituzione negli articoli 33 e 34, assieme alle libertà dell'arte e della scienza (protette nel ricordo
dell'esperienza del regime autoritario fascista che le costringeva ad adeguarsi alle esigenze del
partito) di cui è libero l'insegnamento.
La libertà di istruzione è strettamente legata alla libertà di insegnamento che è sia libertà
nell'insegnamento (che garantisce ad ogni docente la possibilità di esercitare le proprie funzioni di
insegnante in conformità alle proprie convinzioni in ordine alla disciplina che insegna senza essere
condizionato o costretto da una verità ufficiale alla quale adeguarsi, a patto che tale libertà non
risponda ad arbitrarie alterazioni dei programmi o dei contenuti delle materie da insegnare, o si
ponga in contrasto con i principi essenziali dell'ordinamento) che libertà dell'insegnamento (sulla
possibilità di istituire scuole, cioè organizzazioni fornite di elementi personali, tecnici e materiali diretti
allo scopo di insegnare).
Spetta alla Repubblica, secondo l'art. 33, il compito di istituire scuole proprie di ogni ordine e grado
che sono regolate da norme generali sull'istruzione la cui legiferazione, per l'art. 117, è di
competenza esclusiva dello Stato.
Il diritto ad istituire scuole ed istituti di istruzione (senza oneri per lo Stato), è inoltre esteso ad enti e
privati: se tali istituti chiedono la parificazione alle scuole statali (e quindi la possibilità di lasciare titoli
aventi valore legale) essi devono, innanzitutto, rispettare le norme generali sull'istruzione emanate
dallo Stato: la legge, d'altra parte, deve assicurare a tali istituti piena libertà, ed ai loro alunni un
trattamento scolastico equivalente a quello impartito nelle scuole statali e la possibilità di conseguire
esami di Stato.
Le istituzioni di alta cultura (come università ed accademie), hanno il diritto di darsi ordinamenti
propri nei limiti stabiliti dalle leggi dello stato.
Il sistema di educazione, disegnato dalle attuali leggi in materia di istruzione, è composto dalla scuola
materna di durata triennale (iniziando all'età di 3 anni), dal primo ciclo del sistema di istruzione
costituito dalla scuola primari (della durata di 5 anni), e dalla scuola secondaria di primo grado (della
durata di 3 anni), seguita dal secondo ciclo di istruzione (di durata quinquennale), articolata nel
sistema dei licei e della formazione professionale.
Il superamento dell'esame di stato di liceo, dà accesso all'Università. Con decreto legislativo del 2005
viene introdotta nell'ordinamento scolastico l'alternanza scuola lavoro che permette agli studenti dai
15 ai 18 anni di poter accedere per un periodo limitato di tempo ad un'attività lavorativa in base a
convenzioni con imprese, enti pubblici e privati, camere di commercio e mondo non-profit.
L'art. 34, inoltre, sottolinea che la scuola è aperta a tutti, che l'istruzione inferiore, compiuta per
almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita, e che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno
diritto di raggiungere i più alti livelli di studi (mediante l'assegnazione tramite concorso pubblico, di
borse di studio, assegni ed altre provvidenze).
LA TUTELA DEL LAVORO NELLA COSTITUZIONE
L'art. 1 afferma che “l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, che è uno dei principi
fondamentali dell'ordinamento, diritto tutelato innanzitutto dall'art. 4 che lo riconosce a tutti i cittadini,
promuovendo le condizioni che lo rendono effettivo. Il lavoro, che deve concorrere “al progresso
materiale o spirituale della società”, è anche un dovere, a patto che l'individuo sia libero di scegliere
l'attività che preferisce, e che non glie ne si possa imporre una contro la sua propria volontà.
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L'art. 35 ribadisce che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”, “promuove e
favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del
lavoro”, “riconosce l'emigrazione” e “tutela il lavoro italiano all'estero”.
L'art. 36 si sofferma sulla garanzia di una giusta retribuzioni salariale, proporzionate a quantità e
qualità di lavoro, adeguata ad assicurare a sé e alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa;
in tale articolo, viene anche precisato che la legge determina la massima durata della giornata
lavorativa e che il lavoratore ha diritto a riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite (alle quali non
può rinunziare).
L'art. 37 si concentra sulla tutela della donna lavoratrice, che deve essere trattata paritariamente al
lavoratore-uomo (anche in tema di retribuzioni) ed alla quale “le condizioni di lavoro devono
consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare”. L'articolo tratta anche l'età minima
di lavoro (stabilita dalla legge a 15 anni salvo deroghe particolari), e la tutela dei minori lavoratori,
garantendo loro parità di retribuzione rispetto ai normali lavoratori.
l'art. 38 si riferisce alle tutele assistenziali previste per i lavoratori e non. In particolare è previsto il
mantenimento e l'assistenza sociale dei cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per
vivere. Inoltre “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro
esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Con lo “Statuto dei lavoratori” (legge n.300 del 1970), i lavoratori subordinati ricevono tutela, tanto sul
piano sostanziale quanto su quello processuale, a favore della libertà e della dignità del lavoratore e
della libertà sindacale: vengono, infatti, garantiti i diritti del lavoratore nelle procedure di
licenziamento, nel riconoscimento della libertà di opinione, nella tutela delle norme di salute ed
integrità fisica; inoltre viene prevista, sotto il profilo processuale, una speciale procedura per la
repressione della condotta antisindacale.
Più di recente, pronunce della giurisprudenza hanno riaffermato la tutela dell'integrità morale del
lavoratore secondo il principio del divieto di trattamenti vessatori da parte dei datori di lavoro
(mobbing).
I SINDACATI
I sindacati, la cui esistenza è disciplinata dall'art. 39 della Costituzione, sono lo strumento
storicamente più efficace e diffuso per la tutela del lavoratore (previsti e largamente usati anche per
la tutela del datore di lavoro): la Costituzione prevede che l'organizzazione sindacale sia libera
(pertanto non è ammissibile, che vi sia l'imposizione di un sindacato unico come durante il regime
fascista). L'adesione o meno al sindacato è libera anch'essa.
Dopo aver sancito un ordinamento interno a base democratica, i sindacati devono registrarsi presso
uffici locali o centrali (secondo le norme di legge), che ne sanciscono la personalità giuridica.
I sindacati possono, rappresentando unitariamente i propri iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro
con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce:
questi hanno rilevanza normativa a patto che la contrattazione avvenga secondo le garanzie e i modi
dichiarati nella Costituzione
La costituzione nell'art. 49, riconosce rappresentanza politica ai partiti politici, alle camere, agli organi
rappresentativi della volontà popolare, ma non ai sindacati, il cui unico scopo riconosciuto dalla
Costituzione (per quanto spesso si sia voluta dar loro anche valenza politica) è quello di avere
efficacia nei rapporti economici di lavoro.
IL DIRITTO DI SCIOPERO E I SUOI LIMITI
Lo sciopero è un fondamentale strumento di autotutela dei lavoratori, dichiarato diritto dall'art. 40
Cost. che rimanda la sua regolamentazione alla legge: la Corte Costituzionale ne ha dichiarato
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legittimità solo se con fini di carattere economico-salariale e riguardo al complesso degli interessi dei
lavoratori, anche quando questi possono essere soddisfatti solo da atti di governo od atti legislativi
(riconoscendone anche un valore politico).
L'uso corretto dello sciopero, che non può causare al cittadino disagi superiori ai risultati di categoria
conseguiti, è regolato dalla legge n.146 del 1990, che stabilisce modalità e procedure per la
proclamazione dello sciopero (che non si applicano per astensione dal lavoro in difesa dell'ordine
costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell'incolumità e della sicurezza dei lavoratori) e
garantisce le prestazioni indispensabili per il godimenti dei diritti della persona costituzionalmente
tutelati, integrata dalla legge n.83 del 2000 che prevede la possibilità che il Presidente del Consiglio,
dei ministri o del prefetto (a seconda dell'estensione del conflitto), dopo un infruttuoso tentativo di
conciliazione, possano adottare un'ordinanza motivata, diretta a garantire le prestazioni
indispensabili, contemperando l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della
persona.
LA LIBERTA' ECONOMICA PRIVATA
La libertà economica privata è una delle libertà previste dalla Costituzione nell'art. 41, che ne
stabilisce i limiti in quanto questa non può porsi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da poter
recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
E' necessario per la tutela di questo "diritto" l'intervento dello Stato (contrariamente a quanto
avveniva nel periodo del liberismo classico dove non era previsto nessun intervento pubblico
nell'economia) che deve garantire le condizioni perché l'attività pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali: assume, perciò, particolare importanza la programmazione
economica da parte dello Stato, che non può essere programmazione totalitaria (od integrale), in
quanto ciò violerebbe il principio di libertà dell'attività economica privata.
Un altro "limite" all'iniziativa economica privata riguarda la possibilità da parte dello Stato (secondo
l'art. 43 della Costituzione), di espropriare e statalizzare le imprese private (sotto pagamento di un
adeguato indennizzo), esclusivamente secondo la legge (per riserva di legge assoluta) con il fine di
perseguire l'utilità generale: la statalizzazione può avvenire solo riguardo ad imprese o categorie di
imprese con “carattere di preminente interesse generale”, “che si riferiscano a servizi pubblici
essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio”.
Il meccanismo di statalizzazione delle imprese, di largo uso in passato, è oggigiorno invertito con le
più recenti tendenze alla privatizzazione degli enti statali.
LA PROPRIETA'
La proprietà è un diritto reale (cioè diritto sulla cosa) che ha per contenuto (secondo l'art. 832 del
codice civile) la facoltà “di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e
con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico.”.
La Costituzione, nell'art. 42, riconosce e garantisce la proprietà privata (oggetto del diritto privato,
distinta dalla proprietà pubblica, appartenente allo Stato ed agli enti statali) determinandone inoltre,
per legge, “i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti.”.
Particolare limitazione alla proprietà privata è rappresentata dall'espropriazione che può avvenire
(secondo riserva assoluta di legge) “nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo” per particolari
“motivi d'interesse generale”: l'indennizzo, come ribadito più volte dalla Corte Costituzionale, deve
essere congruo e deve garantire ristoro al proprietario a cui viene attuata la pratica di espropriazione.
La legge, inoltre, “stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti
dello Stato sulle eredità.”.
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La proprietà pubblica (regolata nel Codice Civile dall'art 822 all'art 831), è attuata su beni demaniali,
beni patrimoniali indisponibili e beni patrimoniali disponibili: beni demaniali (inalienabili, intangibili,
imprescrittibili, non-usucapibili, a condizione che persista la demanialità, che può essere annullata
solo mediante provvedimento di legge) sono elementi territoriali che assorbono l'esigenza di difesa e
di vita, e che appartengono agli enti autarchici (Stato, Regioni, Province e Comuni) e non possono
essere ceduti a nessuno, ma "concessi" a privati o altri enti mediante una concessione demaniale,
che può essere richiesta solo in presenza di capacità morale, tecnica ed economica (nel caso di più
soggetti interessati, la concessione viene messa “in gara"); beni patrimoniali indisponibili sono
beni pubblici che costituiscono il patrimonio dello stato e degli altri enti pubblici territoriali che non
devono necessariamente appartenere ad enti autarchici, ma anche a altri enti pubblici (come enti
ospedalieri, universitari ecc... ), e non possono essere sottratti alla loro destinazione di pubblico
interesse se non nei modi stabiliti dalla legge (per cui un bene patrimoniale indisponibile che non
viene più usato nel suo uso di interesse pubblico diventa disponibile); beni patrimoniali disponibili
sono quei beni di cui lo Stato può disporre come se fosse un privato, e quindi soggetto (riguardo a tali
beni) alle stesse regole a cui sono soggetti i privati.
I DIRITTI POLITICI
I diritti politici corrispondono al momento di più intenso collegamento dei cittadini con lo Stato: il
diritto politico per eccellenza è quello di contribuire alle scelte della comunità nazionale in via diretta
(come avviene nelle democrazie dirette), od in via indiretta mediante referendum ed elezione dei
propri rappresentanti nelle scelte politiche.
Il diritto di voto che esplica concreta la possibilità di contribuire alle scelte dello Stato è disciplinato
nella nostra Costituzione nell'art. 48.
Altri diritti politici protetti dalla costituzione sono il diritto di associarsi in partiti (art. 49), diritto di
petizione (art. 50, secondo il quale “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per
chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.”) e diritto di accesso ai pubblici
uffici ed alle cariche elettive (tutelato dall'art. 51, per cui “tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso
possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i
requisiti stabiliti dalla legge”).
I PARTITI POLITICI
I partiti politici svolgono un importante e continua azione attraverso canali molteplici, e con una
organizzazione tanto più efficace quanto più capillare, per l'aggregazione del consenso attorno alle
tesi che essi sostengono, con inevitabili conseguenze sull'azione del Governo e del Parlamento.
La Costituzione, nell'art. 49, conferisce ai partiti rilevanza pubblicistica formale ed afferma che “tutti i
cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale.”: i partiti devono dunque conformarsi al metodo democratico, che è
carattere fondamentale della Repubblica, per cui è da escludersi (anche in conformità con l'art. 18
che fissa i limiti delle associazioni in generale) l'ammissibilità di partiti che, negando il metodo
democratico, pratichino la sopraffazione, la violenza od incitino alla sovversione violenta delle
istituzioni democratiche.
I DOVERI DEL CITTADINO
La costituzione nell'art. 2, se da una parte tutela i diritti inviolabili dell'uomo, dall'altra richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
I più rilevanti doveri del cittadino (oltre a quelli di solidarietà, nell'art. 2, e di doverosità del voto
politico, nell'art. 48) sono elencati nella costituzione negli artt. 52, 53 e 54 che disciplinano
specificatamente il dovere di difesa della patria, il dovere fiscale, il dovere di fedeltà alla
Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi.
LE FORME DI GOVERNO
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La forma di governo indica il modo con cui le varie funzioni dello Stato (inteso come statoapparato, cioè apparato di governo e complesso degli organi centrali) sono distribuite ed organizzate
tra i diversi organi costituzionali: rappresenta dunque il il diverso assetto che si instaura fra gli organi
titolari della potestà suprema ed in particolare fra capo dello Stato, governo, parlamento e autorità
giudiziaria.
Nello stato moderno contemporaneo (caratterizzato, perlopiù, dalla “separazione dei poteri”,
requisito di garanzia delle libertà, concetto già elaborato da Montesquieu) sono essenzialmente
quattro le forme di governo che hanno avuto maggiore rilevanza: governo costituzionale puro,
governo convenzionale, governo presidenziale e governo parlamentare.
Nel governo costituzionale puro, caratterizzato da una rigida distinzione tra potere legislativo
(potere di formazione delle leggi) e potere esecutivo (potere dell'attività amministrativa di poter dare
esecuzione alle leggi), il sovrano è il punto di equilibrio nei rapporti fra i due poteri: perché i progetti
di legge si trasformino in legge è necessario il regio consenso. Il sovrano è capo dell'esecutivo, pur
non partecipando direttamente dell'organo di governo (cui spetta l'esercizio del potere esecutivo),
che egli forma, nominando ministri direttamente responsabili nei suoi confronti). Nella variante del
"cancellierato", i ministri devono rispondere direttamente alla figura del “cancelliere”, che a sua volta
assume ogni responsabilità nei confronti del sovrano.
Il governo convenzionale (o assembleare) è caratterizzato dalla concentrazione del potere nelle
mani della assemblea elettiva (in omaggio ad un criterio astratto di una più ampia attuazione della
democrazia): distaccandosi dal principio di separazione dei poteri, che si “confondono”, invece,
nell'assemblea, tale forma di governo risulta, perlopiù, storicamente irrealizzabile.
Il governo presidenziale è caratterizzato anch'esso dalla distinzione fra potere legislativo ed
esecutivo: negli Stati Uniti (maggior esempio internazionale di governo presidenziale), il legislativo
spetta ad un congresso, formato dalla camera dei rappresentanti e dal senato, mentre l'esecutivo
spetta al presidente. Entrambi questi organi (eletti dal popolo, dal quale traggono direttamente
investitura e legittimazione) per quanto siano, nella teoria, rigidamente separati, nella pratica sono
intensi e sistematici, per quanto non sempre formalizzati, i necessari contatti tra presidenza (che non
riuscirà ad attuare i propri programmi senza il consenso congressuale) e congresso (i cui componenti
hanno scarse probabilità di ottenere la concreta attuazione di provvedimenti osteggiati dal
presidente).
Una variante di tale modello è quello del "governo semi-presidenziale", nel quale il presidente è
eletto a suffragio universale e dispone di particolari investiture previste dalla Costituzione.
Il governo parlamentare è la forma di governo in cui legislativo e esecutivo sono attribuiti a due
diversi corpi legati da numerosi rapporti formali (tra cui il rapporto di fiducia di cui deve godere
l'esecutivo nei confronti del legislativo, ed il potere dell'esecutivo di poter sciogliere il parlamento):
tale forma di governo è fondata non sulla contrapposizione ma sulla collaborazione dei poteri
tradizionali, della quale il Capo dello Stato si pone come garante.
FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE
La forma parlamentare di governo è una forma di governo che, pur fondandosi sul principio della
separazione dei poteri, ne adotta un'interpretazione elastica, fondata più sulla collaborazione che non
sulla contrapposizione dei poteri: il potere legislativo e quello esecutivo sono attribuiti a corpi diversi,
legati da numerosi rapporti formali per i quali questi si condizionano reciprocamente: innanzitutto,
l'esecutivo deve godere della fiducia del legislativo e, d'altra parte, all'esecutivo è dato il potere di
sciogliere il parlamento (potere che viene spesso affidato, in vece dell'esecutivo, al Capo di Stato).
Nella forma di governo parlamentare, il capo dello Stato non si pone come titolare del potere
esecutivo, ma assume una posizione di garante, al di sopra dei poteri tradizionalmente riconosciuti.
Il parlamentarismo è ora la forma più diffusa in Europa, seppure con adeguate varianti e sfumature
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nei singoli casi: se il sistema parlamentare inglese si basa essenzialmente su “convenzioni” (che ne
permettono un inarrestabile evoluzione storica), nel resto d'Europa il sistema è stato cristallizzato in
formule positive (in quel processo di “razionalizzazione del sistema parlamentare”, cioè di
trascrizione delle convenzioni) che hanno conferito maggiore stabilità ai meccanismi adottati,
snaturando però il sistema a scapito di quella duttilità che ne era principale caratteristica:
storicamente, la razionalizzazione è stata, talvolta, orientata ad uno squilibrio della bilancia tra i due
poteri, il cui equilibrio era originario fondamento del parlamentarismo stesso.
IL BICAMERALISMO E LA COMPOSIZIONE DEL PARLAMENTO
La Costituente, optato per una organizzazione bicamerale del parlamento (l'organo titolare della
funzione legislativa), si trovò a scegliere tra un'ipotesi di bicameralismo perfetto (nel quale le
camere sono in una condizione paritaria, talvolta col rischio di risultare “doppioni” una dell'altra) o
bicameralismo imperfetto (nel quale la camera bassa, rappresentante degli interessi generali del
paese, è dotata di maggiori poteri rispetto alla camera alta, camera di riflessione, che assume perciò
una funzione di garante della costituzionalità dell'operato della prima).
La Commissione propense per un bicameralismo quasi-perfetto, cioè parificando le due camere,
attribuendo loro pari funzioni, ed al contempo cercando di attuare correttivi al Senato, per evitare che
la seconda camera fosse un semplice “doppione della prima”.
Le caratteristiche che distinguono le due camere sono la diversa composizione (se la Camera dei
Deputati è eletta su base nazionale, il Senato è eletto su base regionale), la diversa età prescritta
tanto per l'elettorato attivo (tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età per la Camera dei
Deputati, tutti i cittadini che abbiano raggiunto il 25esimo anno di età per il Senato) che per
l'elettorato passivo (tutti i cittadini che abbiano raggiunto il 25 esimo anno di età per la Camera dei
Deputati, tutti i cittadini che abbiano raggiunto il 40esimo anno di età per il Senato), ed il diverso
numero dei senatori.
In seguito alla l. cost. 2 del 1963, entrambe le camere sono elette per legislatura di cinque anni
(salvo scioglimento anticipato, e non possono essere prorogate che in caso di guerra): la prima
camera è formata da 630 deputati (eletti a “suffragio universale diretto”, 12 dei quali sono eletti nella
“circoscrizione estero”), mentre la seconda camera da 315 senatori (eletti su base regionale, ed
almeno 7 per ogni regione, con l'eccezione dei 2 per il Molise ed 1 per la Valle d'Aosta, e 6 eletti nella
“circoscrizione estero”) cui vanno aggiunti i senatori di diritto a vita (gli ex-Presidenti della
Repubblica) ed i senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica (che può eleggerne
durante la sua carica, secondo l'art. 59 Cost, “cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per
altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”) che, in totale, non possono essere
più di 7 (secondo un decreto della Corte Costituzionale).
Le camere restano in carica fino alla prima riunione delle nuove Camere per evitare un possibile
vuoto legislativo (istituto della prorogatio). La prima riunione delle nuove Camere deve avvenire
entro i 20 giorni successivi alle elezioni, che, a loro volta, devono svolgersi entro 70 giorni (e non
prima di 45) dalla fine della legislatura.
IL SISTEMA ELETTORALE
La legge 270 del 2005 mirava sostanzialmente a reintrodurre nel nostro sistema elettorale il metodo
dell'assegnazione proporzionale dei leggi parlamentari, introducendo correttivi diretti per semplificare
gli schieramenti politici con l'introduzione di soglie di sbarramento, ed a garantire stabilità di
maggioranza mediante l'attribuzione di un “premio di maggioranza” alla lista od alla coalizione con il
maggior numero di voti.
I seggi alla Camera dei Deputati sono assegnati proporzionalmente alla somma dei voti nelle varie
circoscrizioni (sempre tenendo conto delle soglie di sbarramento), con l'eventuale attribuzione di un
premio di maggioranza assegnato su base nazionale.
I seggi in Senato sono assegnati in ragione proporzionale su base Regionale, con l'eventuale
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attribuzione di un premio di maggioranza per ogni singola circoscrizione regionale.
Caratteristica più contestata della legge 270 è il fatto che le liste siano bloccate, ossia che in sede di
voto non sia possibile esprimere una preferenza, ma soltanto un voto di lista, attribuendo di fatto alle
direzioni o segreterie del partito la scelta dei candidati che dovranno essere eletti.
INELEGIBILITA' ED INCOMPATIBILITA'
L'ineleggibilità è quella situazione (diretta tendenzialmente ad impedire i conflitti di interesse e la
possibilità di usare i pubblici uffici per indirizzare ed influenzare l'elettorato) prevista dalla legge
(secondo l'art. 65 Cost.) per la quale esista una causa ostativa all'elezione di un candidato ad una
delle due Camere del Parlamento: qualora vi sia egualmente la candidatura dell'ineleggibile e questi
venga eletto, tale elezione non è valida
L'incompatibiltà è la situazione (sempre prevista dalla legge per l'art. 65 Cost.) per cui un membro
della Camera (all'inizio o durante l'esercizio del mandato) si trova nella condizione di dover rinunciare
ad un'altra carica, incompatibile con quella parlamentare, per mantenere quella (validamente
assunta) di senatore o deputato: la situazione di incompatibilità è diretta a far si che il parlamentare
non possa essere distratto dall'esercizio della sua funzione parlamentare a causa di altri incarichi;
altra importante considerazione sull'incompatibilità, affermata nel secondo comma dell'art. 65, è
l'impossibilità per un soggetto di appartenere contemporaneamente ad entrambe le Camere.
Secondo l'art. 66 della Costituzione, “ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi
componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”.
LO STATUS PARLAMENTARE
Non appena proclamato eletto, il parlamentare acquista una peculiare posizione giuridica, che si
concreta in particolari prerogative ed immunità disciplinate direttamente dalla Costituzione negli
articoli 67 e 68. Il motivo storico di tali prerogative ed immunità era di garantire l'indipendenza dei
singoli parlamentari e la piena capacità di funzionare delle Assemblee rappresentative; tuttavia col
passare del tempo, queste sono diventate fonte di privilegi ingiustificati.
L'art. 67 dispone che “ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato”, ossia riceve un mandato generale (sindacabile solo in termini
politici nelle forme e nei modi previsti dalla Costituzione, quindi principalmente con le consultazioni
elettorali) da parte del corpo elettorale, il quale non è suscettibile di iniziative di revoca né da parte
del collegio che l'ha eletto (per slegare l'elettorato passivo dagli interessi particolari dei suoi elettori),
né da parte del partito di affiliazione.
Nell'art. 68 trovano espressione, invece, gli istituti dell'insindacabilità e dell'inviolabilità, laddove si
prescrive, rispettivamente, che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni» e che «senza autorizzazione
della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a
perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà
personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di
condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto
obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del
Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza”.
Sia l'insindacabilità sia l'inviolabilità non rappresentano prerogative del singolo parlamentare, ma
sistemi di tutela della libera esplicazione delle funzioni del Parlamento, contro indebite ingerenze da
parte della magistratura.
L'insindacabilità consiste, in particolare, nell'irresponsabilità penale, civile, amministrativa e
disciplinare per le opinioni espresse dai membri delle Camere nell'esercizio delle loro funzioni: la
Corte Costituzionale ha voluto che tale immunità riguarda solo gli atti compiuti nell'esercizio delle
funzioni strettamente parlamentari, distinguendo attività politica da attività istituzionale e, anche
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con riguardo a quest'ultima, attività insindacabile da attività sindacabile in quanto lesiva di principi
o diritti costituzionali.
L'inviolabilità, invece, rappresenta il residuo derivante dalla riforma operata con legge costituzionale
n. 3 del 1993, che ha modificato il precedente istituto dell'autorizzazione a procedere (necessaria
per rimuovere l'immunità in caso di procedimenti penali, da parte della Camera di appartenenza
dell'imputato), abolendo, nella pratica, l'immunità piena per i parlamentari: tale autorizzazione è
diventata necessaria solo per una serie residuale di determinate ipotesi.
ORGANI DELLE CAMERE
L'art. 63 della Cost. stabilisce che ogni Camera deve eleggere il proprio Presidente (che per la
Camera dei Deputati è eletto con maggioranza dei 2/3 dei componenti nei primi due scrutini, 2/3 dei
votanti nel terzo scrutini e maggioranza assoluta dei votanti nel quarto scrutinio; mentre per il Senato
della Repubblica è eletto con maggioranza assoluta dei componenti nei primi due scrutini,
maggioranza assoluta dei votanti nel terzo scrutinio, dopo il quale si procede al ballottaggio tra i due
candidati più votati ed eletto colui che consegue la maggioranza, anche solo relativa) e l'ufficio di
presidenza (composto da 4 vice-presidenti, 3 questori ed 8 segretari).
Il Presidente del Senato (ai sensi dell'art. 86) esercita le funzioni del Presidente della Repubblica
quando questi è impedito od assente, mentre il Presidente della Camera ha il potere-dovere di
convocare il Parlamento per l'elezione del nuovo Capo dello Stato (art. 85) e negli altri casi previsti
dalla legge.
Ogni parlamentare deve appartenere necessariamente, per evidenti ragioni di funzionalità delle due
Assemblee, ad un gruppo parlamentare (che deve essere formato da almeno 20 deputati e 10
senatori), o viene automaticamente iscritto al “gruppo misto”.
Tra le Giunte (nominate dal presidente dell'assemblea secondo criteri di proporzionalità fra i diversi
gruppi) hanno grande rilievo quelle per le elezioni, per il regolamento e per le immunità parlamentari.
Le commissioni permanenti (14 previste per la Camera e 13 per il Senato), composte su
indicazione dei gruppi parlamentari (onde rispettare una tendenziale proporzionalità con la
consistenza numerica dei singoli gruppi), hanno fondamentali compiti in materia legislativa, di
controllo sull'esecutivo ed anche di indirizzo.
Sono, inoltre, previste commissioni speciali permanenti bicamerali (come la commissione per le
questioni regionali, la commissione per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi ed il comitato bicamerale per la messa in atto di stato di accusa del presidente della
Repubblica) alle quali partecipano componenti provenienti da entrambe le camere.
SEDUTA DELLA CAMERA E MODALITA' DI VOTAZIONE
Ai sensi dell'art. 62 della Cost, sono sedute ordinarie il primo giorno non festivo di ottobre e febbraio
(disposizione che ha perso oggi valore in quanto oggigiorno le camere si riuniscono praticamente
continuamente). Le sedute straordinarie, convocate su iniziativa del Presidente della Repubblica,
del Presidente o di un terzo dei componenti di una delle due camere.
Come affermato nel secondo comma dell'art. 62, quando viene convocata straordinariamente una
Camera, di diritto, deve essere convocata anche l'altra.
Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento, secondo l'art. 64, non sono valide se non
sono adottate dalla maggioranza dei presenti e se i partecipanti al voto non raggiungono almeno la
maggioranza degli aventi diritto (ciò salvo che la Costituzione stessa non prescriva una maggioranza
speciale, o che la Camera non sia riunita per deliberazione, ma per semplici votazioni manifestanti la
volontà dell'assemblea).
Le votazioni possono avvenire a scrutinio palese (per alzata di mano, divisione od appello
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nominale) o a scrutinio segreto (mediante la deposizione di una pallina bianca o nera nelle urne, o
con scheda in caso di elezioni, per la Camera dei deputati; mediante votazione elettronica al Senato)
Tuttavia, oggigiorno, lo strumento elettronico sta prendendo il sopravvento sia alla Camera che al
Senato, rispetto alle già citate modalità di votazione.
Regole analoghe valgono per le elezioni rimesse al Parlamento in seduta comune.
IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE
Ai sensi del secondo comma dell'art. 55, nei casi eccezionali, previsti dalla Costituzione (o al più
dalle leggi costituzionali), è possibile la riunione delle camere in "seduta comune": tale organo
collegiale presieduto dal Presidente della Camera dei Deputati (con il proprio ufficio di presidenza,
secondo l'art. 63, e della cui camera si applica anche il regolamento) unisce i rappresentanti di
entrambe le camere a Palazzo Montecitorio.
Il Parlamento in seduta comune assume diversa natura a seconda del motivo per cui viene
convocato: assume natura elettorale quando si riunisce per l'elezione del Presidente della
Repubblica (per la quale, ai parlamentari si aggiungono i rappresentanti delle Regioni, onde
rappresentare anche le minoranze, secondo l'art. 83 Cost. che ne stabilisce anche il numero di 3 per
regione, eccezion fatta per la Valle d'Aosta che si presenta con un solo delegato); per l'elezione dei
cinque membri della Corte Costituzionale di nomina parlamentare (art. 135 Cost.); per l'elezione di un
terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104 Cost.); per l'elezione di 45
cittadini fra i quali estrarre (eventualmente) i 16 giudici aggregati ai fini del giudizio d'accusa contro il
presidente della Repubblica (art. 135); natura di accertamento per assistere al giuramento di
fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica
(art. 91 Cost.); natura processuale penale per la messa in stato di accusa dello stesso Presidente
della Repubblica, nei casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.).
L'ITER LEGIS
La funzione primaria del Parlamento è quella legislativa: l'iter legis (il processo che porta alla
formazione di una legge) prevede vari passaggi tra cui iniziativa, discussione e votazione,
promulgazione e pubblicazione.
L'INIZIATIVA LEGISLATIVA
L'iniziativa (o “proposta di legge”), spetta (ai sensi dell'art. 71) a ciascun membro delle camere, al
Governo, al CNEL (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro), ai Consigli Regionali, ai
Comuni (nella sola ipotesi di richiesta di mutamento di circoscrizioni provinciali o all'istituzione di
nuove provincie;), ed, in ultima analisi, anche al popolo stesso.
La presentazione di legge da parte di un membro di una delle Camere non è di particolarmente
difficile prassi, e relativamente semplice è anche quella da parte del CNEL o dei Consigli Regionali,
mentre è più articolata se da parte del Governo, e prende il nome di disegno di legge: quest'ultimo
si articola in più fasi che comprendono la presentazione di uno schema di disegno di legge da
parte di uno o più ministri, la deliberazione del disegno di legge da parte del consiglio dei ministri,
l'autorizzazione da parte alla presentazione di tale disegno del Presidente della Repubblica
(tramite decreto presidenziale), ed infine la presentazione del disegno ad una delle due camere.
L'iniziativa popolare dev'essere sottoscritta da almeno 50000 elettori della camera dei deputati, ed
accompagnata da una relazione che ne illustri finalità e norme.
L'APPROVAZIONE DELLA LEGGE
Ai sensi dell'art. 70 della Costituzione, la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere e, per l'art. 72, ogni disegno di legge è esaminato in ciascuna Camera da una Commissione
e poi dell'Assemblea plenaria che lo approva articolo per articolo e poi con votazione finale.
Sempre per l'art. 72, “il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei
quali è dichiarata l'urgenza.”.
I regolamenti parlamentari, delegati dalle disposizioni costituzionali, hanno disegnato tre diversi
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percorsi (diversi “modi operandi”) per l'approvazione dei disegni di legge che, una volta presentati
all'Ufficio di Presidenza della Camera, vengono inoltrati alla Commissione di competenza: nel
procedimento ordinario, (indicato prioritariamente in Costituzione, obbligatorio nel caso di disegni
di legge in materia costituzionale, elettorale, di delega legislativa, di autorizzazione alla ratifica di
trattati, all'approvazione di bilanci e consuntivi), il disegno di legge viene esaminato dalla
Commissione “in sede referente”, che cioè si limita a licenziare un testo (accompagnato da una o
più relazioni) che verrà trasmesso all'Aula (che si riserva la possibilità di modificare la proposta) per
l'esame e l'eventuale approvazione o reiezione; un primo procedimento alternativo e più rapido
(ma sospendibile su richiesta di un un decimo dei componenti della Camera, un quinto della
Commissione, o dal Governo) è il caso in cui viene il progetto di legge alla Commissione in “sede
legislativa” (o “deliberante”), che cioè, oltre ad articolare il disegno di legge, lo approva senza che
questo debba passare dall'Aula per l'approvazione; un secondo procedimento alternativo, anche
se scarsamente utilizzato, che è quello che affida alla Commissione, in “sede redigente”,
l'articolazione del disegno di legge e l'inoltramento all'Aula, la quale però non può modificare il testo
proposto ma solo approvare o meno l'intero testo.
Nel caso di procedimento con sede referente, il testo deve essere approvato da entrambe le Camere,
per cui, una volta che questo è stato approvato da una Camera, viene inoltrato alla seconda che,
esaminatolo, può: approvarlo; decidere di non approvarlo ed “insabbiarlo”; respingerlo votando il non
passaggio di alcuni articoli o bocciandolo nella votazione finale; modificarlo, introducendo
emendamenti al testo approvato dalla prima camera, alla quale ritorna per approvare le modifiche,
respingerle od introdurre nuovi emendamenti e re-inoltrare il progetto all'altra camera.
Un'importante notazione riguarda la presenza della "Commissione Affari Costituzionali", che ha il
compito, in sede di formulazione della legge, di controllare la compatibilità costituzionale della legge
PROMULGAZIONE DELLA LEGGE
La promulgazione, l'atto per cui il progetto di legge approvato dalle camere viene convertito in testo
di legge, spetta (secondo l'art. 73) al Presidente della Repubblica in quanto garante della
Costituzione e dell'ordinamento: il Capo dello Stato deve promulgare la legge entro un mese
dall'approvazione (tranne nel caso in cui le camere, ciascuna a maggioranza assoluta, abbiano
dichiarato l'urgenza della legge che viene promulgata entro il termine che essa stessa fissa).
Le leggi, una volta promulgate, devono essere pubblicate sulla "Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana", ed entrano in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione (durata della "vacatio legis", se non
diversamente stabilito dalla legge stessa).
Il Presidente della Repubblica ha (per l'art. 74) la facoltà di rinviare alle Camere il progetto di legge
(accompagnato da un messaggio riguardo alla motivazione, che può essere di supposta
incostituzionalità della legge o del fatto che, ad opinione del Capo dello Stato, essa non persegua
interessi generali) per una nuova deliberazione: il rinvio presidenziale fa sì che la legge rinviata
passi al riesame da parte delle Camere (e quindi sottoposta a votazione articolo per articolo ed a
votazione finale) e, qualora approvino nuovamente il progetto, il Presidente della Repubblica è
obbligato a promulgare la legge in questione.
IL POTERE DI CONTROLLO DEL PARLAMENTO
Il parlamento nel nostro ordinamento, accanto alla funzione legislativa, ha notevoli poteri di controllo
nei confronti dell'esecutivo (sia inteso come Governo in senso stretto, sia come Pubblica
Amministrazione), che si manifestano in una serie di strumenti ispettivi.
L'interrogazione parlamentare (che più che una forma di controllo si presenta come una forma
conoscitiva, ed è per questo largamente usata anche da membri della maggioranza con il semplice
scopo di conoscere o di chiedere spiegazioni) è una “domanda” per iscritto che uno o più
parlamentari rivolgono al Governo nel suo complesso (obbligato a rispondere per iscritto od
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oralmente), o ad un singolo Ministro, per essere informati sulla veridicità di un fatto o di una notizia, e
sui provvedimenti che il Governo intende adottare od ha già adottato.
L'interpellanza (che presenta un carattere inquisitorio, di uso spesso politicizzato, presentandosi
spesso come strumentale alle forze di minoranza per apportare critiche all'operato dell'esecutivo)
consiste in una domanda scritta per conoscere motivi od intendimenti, riguardo a determinati aspetti
della propria politica, della condotta del Governo, che è costretto quindi ad una presa di posizione
mediante un proprio rappresentante che discuta in aula l'argomento in modo accurato ed
approfondito, a rischio che a risposta ritenuta insoddisfacente dal “relatore dell'interpellanza”,
venga presentata una mozione.
Alle Camere spetta anche il potere di inchiesta (riconosciuto dall'art. 82) che può essere di
carattere conoscitivo o ispettivo: una delle camere (od entrambe) nomina una commissione di
inchiesta (la cui composizione è proporzionale a quella dei gruppi parlamentari) su un determinato
argomento di pubblico interesse, riguardo al quale dovranno poi (svolte ricerche ed indagini, secondo
gli stessi limiti dell'autorità giudiziaria) riferire, anche tramite la stesura di relazioni; le commissioni
di indagine servono, invece, a fornire alle Camere indicazioni su fatti o situazioni, e sono puramente
a scopo conoscitivo.
IL POTERE DI INDIRIZZO
Il parlamento, oltre alla funzione legislativa e di controllo, può esercitare funzione di indirizzo
politico, che si concreta nel rapporto fiduciario che deve sussistere tra Parlamento e Governo,
oggettivato nelle mozioni
La mozione la più esplicita forma di indirizzo ed è un testo (presentabile da un presidente di
gruppo, da 10 deputati o da 8 senatori) che mira a promuovere una deliberazione dell'Assemblea su
un determinato argomento, indirizzando dunque l'operato del governo: particolare tipo di mozione è
la mozione di sfiducia (che dev'essere richiesta da 1/10 dei componenti di una Camera), con cui
ognuna delle due Camere ha potere di far cadere il Governo, che in caso di approvazione della
mozione dovrà dimettersi dall'incarico.
Con la risoluzione, proposta o in Aula o in Commissione, vengono manifestati orientamenti e definiti
indirizzi specifici su determinati argomenti, a cui il Governo è invitato ad attenersi.
Una profonda integrazione tra funzione legislativa, funzione di controllo e funzione di indirizzo si
registra, infine, negli atti che vengono svolti nella così detta sessione di bilancio, che vanno
dall'approvazione del DPEF (“documento di programmazione economica e finanziaria”),
dell'approvazione della legge finanziaria e dei bilanci.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Al vertice dell'ordinamento costituzionale l'organo al quale si attribuisce rappresentanza formale dello
Stato è il Presidente della Repubblica, figura al di sopra delle parti, garante della costituzionalità
dell'ordinamento, “grande consigliere, magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di
attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica” (Ruini)
L'ufficio di Presidente della Repubblica (per l'art. 84) è incompatibile con qualsiasi altra carica o
professione. Una volta eletto, il presidente della Repubblica deve prestare giuramento (per l'art. 91)
alla Repubblica e fedeltà alla Costituzione.
La cessazione della carica può essere determinata da varie casistiche: innanzi tutto la scadenza del
mandato (della durata di 7 anni, onde slegare tale carica dalla maggioranza che l'ha eletto); poi,
possono essere altre cause della cessazione le dimissioni volontarie, la morte, impedimento
permanente dovuto a gravi malattie, destituzione nel caso di giudizio sulla messa in stato d'accusa
per reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione, decadenza per il venir meno di uno dei
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requisiti di eleggibilità.
In caso di impedimento temporaneo, dovuto a motivi transitori di salute o a viaggi all'Estero, le
funzioni vengono assunte temporaneamente (supplenza) dal Presidente del Senato.
Gli ex presidenti della Repubblica prendono il nome di “Presidenti emeriti della Repubblica” e
assumono di diritto la carica di Senatore a Vita.
ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
ll Presidente della Repubblica è eletto da uno speciale collegio formato dal Parlamento in seduta
comune, al quale aggiungono, secondo l'art. 83, rappresentanti per ogni Regione in numero di 3
(scelti dal Consiglio Regionale, 2 tra la maggioranza ed 1 tra le minoranze), eccezion fatta per la
Valle d'Aosta che si presenta con un solo delegato.
La convocazione del collegio (come stabilito nell'art. 85) spetta al presidente della Camera dei
Deputati, a 30 giorni dalla scadenza del mandato del presidente in carica, e comunque entro 15
giorni dalle eventuali dimissioni o dalla morte del presidente in carica, salvo il caso in cui le Camere
sono sciolte o manchi meno di tre mesi alla loro cessazione, per cui la convocazione dovrà avvenire
entro il quindicesimo giorno dopo la riunione delle nuove Camere.
L'elezione del Presidente della Repubblica è svolta (secondo l'art. 83) mediante scrutinio segreto ed
è necessaria la maggioranza dei 2/3 dell'assemblea nelle prime tre votazioni, o la maggioranza
assoluta degli aventi diritto al voto dalla quarta votazione.
Può essere eletto Presidente della Repubblica qualsiasi cittadino che abbia 50 anni d'età.
RESPONSABILITA' DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Come stabilisce l'art. 90 della Costituzione, il presidente non è responsabile per gli atti compiuti
nell'esercizio delle sue funzioni, tranne per alto tradimento o per attentato alla Costituzione, per cui
può essere messo sotto accusa dal Parlamento: l'assenza di responsabilità, principio che discende
dall'irresponsabilità regia nata con le monarchie costituzionali, gli consente di poter adempiere alle
sue funzioni di garante delle istituzioni stando al di sopra delle parti. La controfirma del ministro evita
che si crei una situazioni in cui un potere non sia soggetto a responsabilità: il ministro che partecipa
firmando all'atto del Presidente potrebbe essere chiamato a risponderne davanti al Parlamento o
davanti ai giudici se l'atto costituisce un illecito.
Al fine di garantire la sua autonomia e libertà, è riconosciuta al Presidente della Repubblica
l'irresponsabilità per qualsiasi atto compiuto nell'esercizio delle sue funzioni. Le uniche eccezioni a
questo principio si configurano nel caso che abbia commesso uno dei due reati esplicitamente
stabiliti dalla Costituzione di alto tradimento (cioè la collusione con Stati esteri) e attentato alla
Costituzione (cioè una violazione delle norme costituzionali tale da stravolgere i caratteri essenziali
dell'ordinamento al fine di sovvertirlo con metodi non consentiti dalla Costituzione).
In tali casi il Presidente viene messo in stato di accusa dal Parlamento riunito in seduta comune con
deliberazione adottata a maggioranza assoluta e viene giudicato dalla Corte Costituzionale (integrata
da 16 membri esterni) che nel frattempo ha la facoltà di sospenderlo in via cautelare.
Per i reati commessi al di fuori dello svolgimento delle sue funzioni istituzionali il Presidente è
responsabile come qualsiasi cittadino. In concreto, però, la dottrina dominante ritiene esista
improcedibilità in ambito penale nei confronti del Presidente durante il suo mandato (nel caso del
presidente Oscar Luigi Scalfaro, sotto accusa per peculato, di fronte al suo rifiuto di dimettersi e alla
mancanza di iniziative da parte del parlamento, il processo fu dichiarato improcedibile).
Il Presidente della Repubblica può dar vita ad illeciti compiuti al di fuori dell'esercizio delle sue
funzioni, ed in questi casi varrà l'ordinaria responsabilità giuridica. In particolare, se è difficile
immaginare un vero e proprio illecito amministrativo (coincidente con un reato funzionale), non si può
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invece escludere che il Presidente sia chiamato, sul piano civile, a risarcire un danno (ad esempio
per un incidente stradale).
COMPITI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
La Costituzione esplicita tutti i compiti e i poteri del Presidente della Repubblica, che in dettaglio
sono: in relazione alla rappresentanza esterna, accreditare e ricevere funzionari diplomatici,
ratificare i trattati internazionali su autorizzazione delle Camere, effettuare visite ufficiali all'estero
accompagnato da un esponente del Governo, dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere;
in relazione all'esercizio delle funzioni parlamentari, nominare fino a cinque Senatori a Vita,
inviare messaggi alle Camere, convocarle in via straordinaria, scioglierle (salvo che negli ultimi sei
mesi di mandato, semestre bianco, a meno che non coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei
mesi di legislatura), indire le elezioni e fissare la prima riunione delle nuove Camere; in relazione
alla funzione legislativa, autorizzare la presentazione in Parlamento dei disegni di legge
governativi, promulgare le leggi approvate in Parlamento, rinviare alle Camere con messaggio
motivato le leggi approvate e chiedere una nuova deliberazione (essendo obbligato a promulgare se
questa viene effettuata senza modifiche del testo); in relazione all'esercizio della sovranità
popolare, indire i referendum e in caso di esito favorevole dichiarare l'abrogazione della legge ad
esso sottoposta; in relazione alla funzione esecutiva e di indirizzo politico, nominare (dopo
opportune consultazioni) il Presidente del Consiglio dei Ministri e (su sua proposta) i ministri,
accogliere il giuramento del Governo e le eventuali dimissioni, emanare i decreti-legge, gli atti
amministrativi e i regolamenti del Governo, nominare alcuni funzionari statali di alto grado, presiedere
il “Consiglio Supremo della Difesa” e detenere il comando delle forze armate, decretare lo
scioglimento di consigli regionali e la rimozione di presidenti di Regione; in relazione all'esercizio
della giurisdizione, presiedere il “Consiglio Superiore della Magistratura”, nominare un terzo dei
componenti della Corte Costituzionale (attualmente 5), concedere la grazia e commutare le pene;
conferisce, inoltre, tramite decreto presidenziale le onorificenze della Repubblica Italiana.
Egli nomina, inoltre, 8 membri del C.N.E.L. ed il Segretario Generale della Presidenza della
Repubblica.
L'art. 89 della Costituzione, prevede che ogni atto presidenziale, per essere valido, necessiti
controfirma dei ministri proponenti (che ne assumono la responsabilità) e, per atti a valore legislativo
o per cui è espressamente previsto dalla legge, anche del Presidente del Consiglio dei Ministri.
La Corte Costituzionale nel maggio 2006 ha stabilito che il potere di concedere la Grazia è di
prerogativa presidenziale e che il ministro della Giustizia è tenuto a controfirmare il decreto di
concessione, pur mantenendo questi un controllo sul requisito delle "ragioni umanitarie" per la
concessione della grazia.
Gli unici "atti" che il presidente può compiere senza l'obbligo di controfirma sono gli atti che il
Presidente compie nell'esercizio delle funzioni di presidenza del CSM e del CSD, e le dichiarazioni
informali (esternazioni): egli, in momenti di particolare necessità, può prendere iniziativa per
richiamare l'attenzione su questioni che meritino discussione inviando messaggi alle Camere, che
vanno intesi come atti di indirizzo presidenziale, ed in quanto tali non avrebbe senso la controfirma di
un ministro.
SCIOGLIMENTO ANTICIPATO DELLE CAMERE
E' facoltà del Presidente della Repubblica, ai sensi dell'art. 88 della Costituzione, sciogliere
anticipatamente (salvo che negli ultimi sei mesi di mandato, semestre bianco, a meno che non
coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi di legislatura) le Camere (o solo una di esse)
prima della scadenza della legislatura, previa consultazione obbligatoria ma non vincolante con i
Presidenti della Camera in questione.
Motivo di scioglimento anticipato delle camere coincide una situazione di instabilità politica del
Paese: in seguito all'impossibilità (od alla notevole difficoltà) di individuare una maggioranza nelle
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Camere, con la conseguenza che il Parlamento non è in grado di appoggiare il Governo; per un
frequente e radicale contrasto fra le due Camere, che rende impossibile (od eccessivamente
rallentata) la funzione legislativa; per perdita di fiducia da parte dei cittadini nei confronti dei
Parlamentari (come accaduto per lo scioglimento anticipato del '94).
Talvolta si è disposto dello scioglimento anticipato per motivazioni di carattere tecnico, come l’evitare
di procedere a elezioni durante il periodo estivo; nelle prime legislature è accaduto che venisse
sciolto anticipatamente il Senato (la cui durata era inizialmente di 6 anni, mentre quella Camera di 5),
per far sì che il periodo di elezioni di quest’ultimo coincidesse con quello della Camera dei Deputati.
PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DEL GOVERNO
La formazione del Governo è un procedimento complesso di varie fasi, in parte regolate da
disposizioni costituzionali, in parte affermatesi per via consuetudinaria.
Al Presidente della Repubblica, come affermato nell'art. 92, è dato il compito di eleggere il Presidente
del Consiglio dei Ministri, che non è scelto a proprio totale arbitrio ma deve corrispondere alla volontà
popolare manifestata attraverso la procedura elettorale: nel vigente sistema elettorale, la scelta del
Presidente è pressoché una formalità in quanto liste e coalizioni fanno già capo ad un leader (scelto
internamento od attraverso “elezioni primarie”), per cui la fase istruttoria (nella quale il Capo di Stato
avvia le consultazioni per ascoltare le indicazioni sui possibili candidati) ha perso la sua rilevanza.
Altra fase superata è quella in cui il Presidente della Repubblica, dopo le consultazioni, conferisce
pre-incarichi per meglio chiarire una situazione già definita.
Scelto il possibile candidato, il Presidente della Repubblica gli da l'incarico di formare il nuovo
governo: questi deve preparare una lista dei ministri da presentare e il programma di governo da
sottoporre al voto di fiducia delle Camere.
Il Presidente del Consiglio viene dunque incaricato dal Capo di Stato che nomina, su sua
indicazione, i vari Ministri: per l'art. 93, “il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di
assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”.
L'art. 94 stabilisce che il Governo debba presentarsi, entro 10 giorni, alle Camere per ottenere ed
instaurare il rapporto fiduciario nei loro confronti: se il Governo non ottiene la fiducia delle Camere, o
la perde in un secondo tempo, è obbligato a dimettersi.
COMPOSIZIONE DEL GOVERNO
Secondo l'art. 92, “il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei
ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”: fanno dunque parte del Governo gli
organi individuali che, riuniti assieme, strutturano un organo collegiale, presieduto dal Presidente del
Consiglio dei Ministri, che può essere coadiuvato da un Consiglio di Gabinetto, costituibile dal
1988, per quanto privo di rilevanza costituzionale.
I Ministri si dividono in “ministri con portafoglio” che hanno sia rilevanza politica che
amministrativa, in quanto sono posti al vertice di un Ministero (che è una consolidata istituzione a
rilevanza amministrativa), e “senza portafoglio”, quando la loro è puramente una figura politica
influente sulle scelte del Governo (ma senza competenze amministrative in quanto non sono al
vertice di nessuna istituzione a rilevanza amministrativa).
Il numero dei Ministeri varia da legislatura a legislatura (anche se alcuni esistono necessariamente
per legge) e ad ognuno corrisponde una determinata competenza.
La legge 400 del 1988 disciplina l'istituzione del sottosegretario di stato (non previsto dalla
Costituzione): i suoi componenti (che non prendono parte al Consiglio dei Ministri, ad eccezione del
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), nominati dal Presidente della Repubblica su
indicazione del Presidente del Consiglio, esercitano le funzioni amministrative delegategli mediante
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decreto ministeriale ed hanno ruolo di rappresentanza (inferiore a quella del vice-ministro) in
entrambe le Camere, potendo rispondere in vece del Governo o dei ministri da cui dipendono alle
eventuali interrogazioni.
La legge 81 del 2001 ha introdotto la nuova figura di vice-Ministro: a non oltre 10 sottosegretari può
essere attribuito il titolo di vice-Ministro, figura di maggiore rappresentanza rispetto al semplice
sottosegretario, al quale sono conferite deleghe riguardo ad una o più strutture dipartimentali o
direzioni generali.
Sempre la legge 400 del 1988 disciplina la possibilità di nominare commissari straordinari al
governo al fine di realizzare specifici obiettivi determinati in relazione ai programmi; ulteriore organo
di governo è rappresentato dai comitati interministeriali volti a regolare eventuali dissidi tra i diversi
ministeri ed a coordinare le attività che coinvolgano più ministeri.
LA CADUTA DEL GOVERNO: LO STATO DI CRISI
La fiducia riconosciuta al Governo dalle Camere è condizione essenziale per la possibilità di
governare in quanto, nel nostro ordinamento, una mancanza della fiducia deve corrispondere ad
immediate dimissioni da parte del governo.
La fiducia, se riconosciuta all'inizio del mandato, una volta che il governo ha giurato fedeltà al
Presidente della Repubblica, può essere messa in discussione tramite apposito voto di una Camera
sia per mozione di sfiducia che per questione di fiducia posta dallo stesso Governo: la mozione di
sfiducia, ai sensi dell'art. 94, deve essere sottoscritta da almeno 1/10 dei componenti della Camera
dove viene presentata, deve essere motivata, non può essere posta in discussione prima di 3 giorni
dalla sua presentazione e deve essere votata per appello nominale.
Qualora la mozione venga respinta non si verifica alcuna conseguenza; al contrario, se approvata,
questa dà luogo alla situazione di “crisi parlamentare” ed il Governo è obbligato alle dimissioni,
La mozione di sfiducia può essere mossa anche nei confronti di un singolo ministro (con le stesse
modalità previste dall'art. 94).
La permanenza di fiducia fra Governo e Parlamento può anche essere messa in discussione dallo
stesso Governo tramite una questione di fiducia ossia la richiesta che una Camera si appresti a
votare sulla fiducia: anche in questo caso, se il governo non ottiene la fiducia, sarà costretto a
dimettersi.
Con le dimissioni, accettate dal Capo dello Stato, il Governo non cessa di esistere immediatamente
ma la sua funzione si riduce a quella ordinaria, legata al regolare svolgimento dell'attività
amministrativa, finché non venga formato un nuovo Governo.
POTERE AMMINISTRATIVO
Il potere amministrativo è, appunto il potere di "amministrare" lo Stato, che si manifesta attraverso
le azioni della pubblica amministrazione: è definibile in senso oggettivo come l'attività svolta dagli
organi predisposti a provvedere alla cura degli interessi concreti ad essi affidati o, in senso
soggettivo, come l'insieme di enti ed organi che svolgono tale attività. La pubblica amministrazione
non può considerarsi come corpo indipendente poiché è attraverso di essa che si concretano le
finalità dello Stato.
L'ORGANIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Ai sensi dell'art. 5 della Costituzione, “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le
autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del
decentramento.”.
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La Costituzione (negli artt. 97 e 118) disciplina l'organizzazione e la ripartizione del potere
amministrativo, seguendo i principi fondamentali, dettati nell'art. 97, quali: il principio di legalità, per
cui è disposto che la pubblica amministrazione venga organizzata secondo quanto disposto dalla
legge (secondo riserva di legge relativa, per cui sono i regolamenti a provvedere in dettaglio
all'organizzazione ed al funzionamento dei pubblici uffici) e che questa operi nelle modalità direttive
espresse dalla legge; il principio di buon andamento, per cui l'organizzazione dei pubblici uffici deve
essere finalizzata ad assicurare il buon andamento dell'amministrazione, in termini di efficienza,
rapidità, correttezza e congruità dell'azione amministrativa, in riferimento ai fini di interesse pubblico
che essa deve perseguire; il principio di imparzialità, per cui la pubblica amministrazione deve
operare senza influenze di politiche di alcuna provenienza, così da poter perseguire efficacemente
l'interesse generale e non creare sfiducia da parte dei cittadini.
La pubblica amministrazione, inoltre, deve anche attenersi a nuovi principi costituzionali quali
principio di sussidiarietà, di differenziazione ed di adeguatezza per cui, secondo il nuovo art. 118
Cost, “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio
unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.”, “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e
Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività
di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA'
Con la l. cost. 3/2001 il principio di sussidiarietà è entrato a far parte della costituzione: in base ad
esso la realizzazione dei fini di interesse pubblico va perseguita in primo luogo basandosi sulle
iniziative libere ed autonome dei soggetti (individui e gruppi) e solo in seconda battuta puntando sul
diritto pubblico, cioè sugli interventi dell'autorità pubblica in posizione di supremazia sui privati.
In altri termini l'autorità pubblica, per realizzare fini sociali, deve ricorrere agli interventi del diritto
pubblico solo quando tali fini non sono raggiungibili con altrettanta efficacia mediante strumenti del
diritto privato.
Inoltre, il principio di sussidiarietà stabilisce che le attività amministrative dovrebbero essere svolte
dall'entità territoriale amministrativa più vicina ai cittadini (i comuni), e che può essere delegata ai
livelli amministrativi territoriali superiori (province, città metropolitane, regioni, stato) solo se questi
possono rendere il servizio in maniera più efficace ed efficiente.
PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO ED I SUOI ELEMENTI ESSENZIALI
Il potere amministrativo si manifesta quasi esclusivamente medianti atti, detti atti amministrativi
classificati in meri atti (ovvero semplici opinioni, pareri od apprezzamenti) ed atti negoziali (atti nei
quali è sottolineato l'aspetto autoritativo della amministrazione pubblica).
Elementi essenziali dell'atto amministrativo sono: il soggetto, ovvero l'organo della pubblica
amministrazione competente ad adottare l'atto; l'oggetto, che rappresenta il termine passivo al quale
si rivolge il determinato atto; il contenuto, quanto l'atto dispone; la causa ovvero la funzione
istituzionale che si persegue; la forma ovvero il modo in cui è esplicitato l'atto, che non ha efficacia
probatoria come la "forma" dei contratti di diritto civile, ma piuttosto è espressione dell'esternazione
della volontà della pubblica amministrazione.
Solitamente la forma prescritta è la forma scritta, anche se in alcuni casi eccezionali sono previste
forme differenti (come quella orale o quella meccanica, come un semaforo rosso).
Elementi eventuali dell'atto sono: la condizione, ovvero il verificarsi di un avvenimento futuro ed
incerto al cui verificarsi è subordinato l'inizio (condizione sospensiva) od il termine (condizione
risolutiva) dell'efficacia dell'atto; il termine, ovvero il momento dal quale o fino al quale l'atto ha
efficacia; il modo, ovvero l'onere a cui è assoggettato il destinatario dell'atto.
LE FASI DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
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Nel procedimento amministrativo la dottrina identifica, per lo più, quattro fasi che, pur essendo tutte
finalizzate all'atto conclusivo, godono di relativa autonomia e sono spesso attribuite ad organi diversi:
nella fase di avvio del procedimento si raccolgono richieste, proposte od istanze per la creazione
dell'atto; nella fase preparatoria vengono chiesti i pareri e fatte opportune verifiche sulle decisioni
riguardanti l'atto; nella fase costitutiva viene effettivamente emanato l'atto (che assume il carattere
di “perfetto” se completo di ogni suo elemento essenziale); nella fase integrativa dell'efficacia,
l'atto emanato diventa effettivamente “efficace”. L'atto diventa obbligatorio quando portato a
conoscenza degli interessati attraverso specifiche forme di pubblicità.
I PRINCIPI DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
La legge sul procedimento amministrativo stabilisce che questo deve garantire il rispetto delle
esigenze di economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza (avendo il “diritto d'accesso” inciso
sensibilmente sul principio del segreto d'ufficio, che spesso serviva a nascondere disfunzioni della
p.A); inoltre è stabilito che la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa,
agisce secondo le norme di diritto privato, salvo diverse disposizioni previste dalla legge.
E' stata recentemente introdotta la figura del "responsabile" di una pubblica amministrazione, onde
far sì che il rapporto col privato sia meno anonimo e che gli venga garantita maggior tutela nelle
relazioni con la pubblica amministrazione.
L'ESECUTORIETA' DELL'ATTO AMMINISTRATIVO
L'esecutorietà consiste nella possibilità per la p.A. , in forza del suo potere autoritativo, di portare
coattivamente ad esecuzione l'atto amministrativo da essa adottato, utilizzando, quando necessario e
previa diffida, gli strumenti ordinari permessi dal Codice di Procedura Civile.
L'esecutorietà si attua mediante strumenti di coercizione diretta (che consiste nell'effettiva
realizzazione del contenuto dell'atto) o di coercizione indiretta (che consiste nell'irrogazione di una
sanzione amministrativa che tiene luogo dell'esecuzione dell'atto).
Naturalmente, per essere esecutorio, l'atto dev'essere perfetto, efficace (deve perciò aver superato
positivamente gli eventuali controlli previsti dalla legge), eseguibile, ed esecutorio per legge.
L'atto invalido può essere esecutorio finché tale invalidità non sia stata accertata nei modi di legge;
l'atto nullo non può essere esecutorio in quanto la sua condizione di inesistenza giuridica fa venir
meno i presupposti per un esecuzione coattiva.
POSSIBILI VIZI DELL'ATTO AMMINISTRATIVO
Un atto amministrativo viene invalidato in caso di vizi di legittimità (nel caso di difformità rispetto a
una norma) che comportano nullità od annullabilità dell'atto, o vizi di merito (nel caso di difformità da
una regola di buona amministrazione o di imparzialità), che ne comportano (e solo nei casi previsti
dalla legge) l'annullabilità.
L'atto amministrativo è nullo (e non produce effetti, per cui, naturalmente, se ne può far constatare,
con provvedimento giurisdizionale a carattere puramente dichiarativo, solo la nullità) quando manca
uno degli elementi essenziali quali il soggetto (per atto non posto in essere da un organo della p.A, o
per incompetenza assoluta, in quanto viziato di “straripamento di potere”), l'oggetto, la forma o il
contenuto; l'atto amministrativo è invalido e annullabile (per cui produce effetti che hanno da essere
annullati da provvedimento giurisdizionale) quando viziato da incompetenza, violazione di legge od
eccesso di potere.
L'incompetenza è quel vizio per cui l'autorità che ha emanato l'atto non ne aveva la legittima
potestà, per motivi di “incompetenza di territorio”, di “incompetenza di materia”, di
“incompetenza di grado”. L'incompetenza può essere relativa o assoluta (nel cui caso l'atto è nullo,
e non ha effetti come se fosse inesistente).
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La violazione di legge è un vizio che si manifesta ogniqualvolta, nella formazione dell'atto
amministrativo, l'amministrazione non si è attenuta ad una legge o ad un regolamento al quale
avrebbe dovuto, invece, attenersi.
L'eccesso di potere è definito in via residuale come il vizio di un atto amministrativo che non
corrisponde né ad incompetenza né a violazione di legge, ed è definibile positivamente come il vizio
che si verifica ogniqualvolta la p.A. non agisce per il pubblico interesse, per quanto i propri atti siano
formalmente corretti (per cui la dottrina ha talvolta definito l'eccesso di potere come vizio
sostanziale, in opposizione ai vizi formali di incompetenza e violazione di legge).
L'eccesso di potere si manifesta in figure sintomatiche che rappresentano, in via di prima
approssimazione, le casistiche per cui si verifica eccesso di potere: accanto allo “sviamento del
potere” (che è spesso confuso direttamente con l'eccesso di potere, in quanto figura più comune),
che si verifica ogniqualvolta la p.A. indica nell'atto amministrativo una causa (la funzione istituzionale
che con esso si persegue) diversa dal reale motivo per cui esso è posto in essere, vi sono “falsità del
presupposto”, “travisamento dei fatti”, “erronea valutazione dei fatti”, “illogicità della motivazione”,
“contraddittorietà della motivazione”, “insufficienza della motivazione”, “contraddittorietà tra più atti
successivi”, “inosservanza di circolari”, “disparità di trattamento”, “ingiustizia manifesta”, “violazione
del procedimento”.
LA SANATORIA DELL'ATTO AMMINISTRATIVO INVALIDO
Gli atti amministrativi viziati tanto nella legittimità quanto nel merito possono essere sanati con
l'eliminazione dei vizi (solo dei vizi di legittimità) che li invalidano mediante interventi correttivi della
stessa Amministrazione. Tra gli strumenti di autotutela della p.A. troviamo: la “sanatoria in senso
stretto”, per cui l'amministrazione rimuove i vizi dall'atto quali ad esempio la mancanza di elementi in
fase preparatoria, provvedendo all'acquisizione di tali elementi; la “ratifica dell'atto”, per cui l'autorità
competente all'adozione dell'atto faccia proprio un atto emesso “a titolo provvisorio” da altra
autorità; la “convalida”, per cui la stessa autorità adotta un nuovo atto, purgato dai vizi che
rendevano illegittimo un atto precedente; la “conferma”, per cui la stessa autorità rinnova l'atto
viziato, depurato dai vizi che lo invalidavano.
Il decorso del periodo di “convalescenza” dell'atto viziato (durante il quale può essere impugnato) lo
rende “inoppugnabile”, cioè come se fosse privo di vizi, salva la possibilità la p.A. di rimuovere, in
sede di autotutela, i vizi riscontrati nell'atto.
RICORSI AMMINISTRATIVI
Affinché venga tutelato il privato nelle relazioni con la Pubblica amministrazione, oltre alle possibilità
di "correzione" di vizi dell'atto amministrativo da parte dell'amministrazione stessa, è possibile che la
richiesta di "correzione" avvenga per opera del privato interessato dall'atto viziato.
L'opposizione può essere fatta direttamente verso alla pubblica amministrazione che ha emesso
l'atto viziato o una ad essa collegata (in via amministrativa), o attraverso il giudice amministrativo (in
via giurisdizionale).
In via amministrativa l'atto viziato può essere impugnato con opposizione (che rappresenta uno
“strumento di collaborazione” tra privato e p.A) alla stessa autorità che l'ha emanato (ammessa solo
nei casi previsti dalla legge); con ricorso gerarchico rivolto (entro 30 giorni dalla notificazione
dell'atto) contro atti amministrativi non definitivi all'autorità gerarchicamente superiore che deve dare
risposta entro 90 giorni, decorsi i quali il ricorso si considera respinto; la decisione sul ricorso
gerarchico determina la definitività dell'atto, che non è più discutibile se non con ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica (proposto entro 120 giorni dalla comunicazione
dell'atto), retaggio dell'antichità in cui si attribuiva al sovrano il potere di rendere giustizia contro gli
atti dell'Amministrazione: la decisione sul ricorso è adottata con D.P.R. su proposta del ministro
competente, previo parere obbligatorio del Consiglio di Stato che è relativamente vincolante (nel
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senso che decisione del Ministro difforme da tale parere deve essere assunta dal Consiglio dei
Ministri).
RICORSO GIURISDIZIONALE
L'art. 125 della Costituzione stabilisce che in ogni Regione devono essere istituiti organi di giustizia
amministrativa di primo grado, che la legge 1034 del 1971 ha istituito nei T.A.R. (Tribunali
Amministrativi Regionali che andavano a sostituire le dichiarate incostituzionali “Giunte Provinciali
Amministrative”) che giudicano su qualunque atto della p.A. (ivi compresa quella statale).
Il ricorso (entro 60 giorni dalla data della comunicazione, salvo termini più brevi per riti speciali) al
T.A.R. territorialmente competente riguarda l'impugnazione di atti amministrativi che si pretendono
viziati (sia in termini di legittimità che di merito) e lesivi di interessi legittimi (od eccezionalmente di
diritti soggettivi).
Per quanto la proposizione del ricorso non sospenda in genere gli effetti del provvedimento, qualora
l'esecuzione sia idonea a causare danni gravi ed irrecuperabili (ossia non risarcibili) il TAR, su
istanza del ricorrente, può disporne sollecitamente la sospensione.
Le sentenze dei giudici amministrativi di primo grado del T.A.R. sono immediatamente esecutive, e
sono appellabili dinnanzi al Consiglio di Stato.
GLI ORGANI AUSILIARI DELLA REPUBBLICA
Gli organi ausiliari della Repubblica sono organi “costituzionalmente rilevanti” e
“costituzionalmente garantiti” che svolgono un'azione funzionalmente correlata a quella degli organi
primari, ed in particolare un'azione consultiva o di controllo: essi sono il C.N.E.L. , il Consiglio di Stato
e Corte dei Conti.
IL CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ECONOMIA E DEL LAVORO
Secondo l'art. 99, il C.N.E.L. (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) è “composto, nei modi
stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto
della loro importanza numerica e qualitativa”: tale indicazione è stata concretata nella legge 936 del
1986 per cui il Consiglio è composto di 112 membri (compreso il Presidente, nominato con D.P.R. su
proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri) di esperti (qualificati esponenti della cultura
economica, sociale e giuridica; 8 nominati dal Capo di Stato e 4 dal Presidente del Consiglio, con
D.P.R.) e rappresentanti delle categorie produttive.
Le funzioni del C.N.E.L. , secondo l'art. 99, sono di ordine consultivo (di propria iniziativa o su
richiesta del governo) e di iniziativa legislativa (che la dottrina suppone, pur nel silenzio della legge,
possa riguardare progetti di legge solo in materie di economia e lavoro).
IL CONSIGLIO DI STATO
Al Consiglio di Stato (uno degli organi ausiliari della Repubblica, assieme al CNEL ed alla Corte dei
Conti), come stabilito nell'art. 100, è data funzione “di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela
della giustizia nell'amministrazione”.
Esso è tradizionalmente diviso in tre sezioni consultive (Prima, Seconda e Terza Sezione), e tre
sezioni di competenza giurisdizionale (Quarta, Quinta e Sesta Sezione) alle quali è stata
recentemente introdotta una sezione consultiva 3-bis (istituita con la legge 127 del 1997) con
funzione di controllo per quegli atti in cui il Governo opera in sede normativa e che, su richiesta del
Presidente del Consiglio dei Ministri, si occupa anche di esaminare atti normativi comunitari.
I Consiglieri di Stato sono nominati per metà direttamente dal Governo, per un quarto (a seguito delle
progressioni di carriera per anzianità) dei magistrati T.A.R. e per un quarto a seguito di concorso per
titoli ed esami bandito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: il personale del Consiglio concorre
a formare le sette sezioni in cui è organizzato.
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Le attribuzioni consultive del Consiglio di Stato forniscono pareri preventivi circa la regolarità e la
legittimità, il merito e la convenienza degli atti amministrativi dei singoli Ministeri, del Governo o delle
Regioni.
Esse sono facoltative od obbligatorie per legge, ma non sono mai vincolanti (eccezion fatta per il
parere “relativamente vincolante” riguardo ai ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica,
disattendibile da una deliberazione del Consiglio dei Ministri).
Sempre nel campo delle sue attività consultive, il Consiglio può formulare i progetti di legge e i
regolamenti commissionati dal Governo (pratica oggigiorno molto frequente, anche a prova di
un'evidente inferiorità tecnica del Governo rispetto al Consiglio di Stato)
Le deliberazioni delle sezioni consultive del Consiglio sono valide se sono state adottate con la
presenza di almeno quattro consiglieri della sezione, mentre quelle delle sezioni giurisdizionali sono
valide se oltre ad essere presenti almeno quattro consiglieri è presente anche uno dei due Presidenti
di sezione.
In campo giurisdizionale, il Consiglio di Stato rappresenta il Giudice in secondo grado della
giustizia amministrativa (di giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione di
interessi legittimi ed, in eccezionali casi previsti dalla legge, anche di diritti soggettivi.)
La decisione del Consiglio di Stato sul ricorso contro una sentenza del TAR è definitiva e può porsi
ricorso in Cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione.
LA CORTE DEI CONTI
La Corte dei Conti, come stabilito dall'art. 100, è un organo ausiliare della Repubblica che esercita il
controllo sull'Amministrazione dello Stato: “esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del
Governo” (che diventano efficaci se la Corte non ne dichiara l'illegittimità entro 30 giorni) quando
questi opera in sede normativa, e “sulla gestione del bilancio dello stato”. Inoltre, ancora per l'art.
100, la Corte dei Conti “partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla
gestione finanziaria degli enti a cui lo stato contribuisce in via ordinaria” e “riferisce direttamente alle
Camere sul risultato del riscontro eseguito”
Con le leggi 19 e 20 del '94 sono state estese le funzioni di controllo anche in ogni Regione,
attraverso l'istituzione di sezioni giurisdizionali di controllo, che esercitano sia “controllo di legittimità”
degli atti normativi regionali che “controllo di gestione” degli enti locali.
Ai sensi dell'art. 123 inoltre le regioni o gli enti locali possono chiedere collaborazione e consulenza a
queste sezioni in tema di gestione finanziaria e problematiche relative alla contabilità. Quale organo
giurisdizionale la Corte dei Conti ha competenze in materia di responsabilità contabile e in materia
pensionistica. E' possibile fare ricorso alla sezione nazionale alle sentenze delle sezioni regionali
entro 60 giorni dall'attuazione della sentenza stessa. E' ammissibile un ricorso in Cassazione contro
le decisioni della Corte dei Conti per i soli motivi inerenti la giurisdizione.
In quanto organo giurisdizionale la Corte dei Conti ha giurisdizione (da quanto stabilito dall'art 103) in
materia di contabilità pubblica (riguardo a responsabilità contabile ed materia pensionistica) ed altre
materie specificate dalla legge: la Corte dei Conti ha competenza nei giudizi di responsabilità
amministrativa dei pubblici funzionari i quali vengono chiamati a rispondere del loro operato in caso
di danni patrimoniali all'amministrazione per comportamento doloso o colposo.
E' possibile fare ricorso alla sezione nazionale alle sentenze delle sezioni regionali entro 60 giorni
dall'attuazione della sentenza stessa. E' ammissibile un ricorso in Cassazione contro le decisioni
della Corte dei Conti solo per motivi inerenti la giurisdizione.
L'INDIPENDENZA DEL POTERE GIUDIZIARIO
La magistratura, che rappresenta il terzo potere nello Stato costituzionale moderno, è costituita dal
complesso dei giudici a cui spetta la giudicare sui reati e decidere sulle controversie dei privati.
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Uno dei principi fondamentali dello stato moderno è, come asseriva Montesquieu, la separazione dei
poteri legislativo, esecutivo e giudiziario: nella storia si è spesso posto il problema dell'ingerenza
della politica o di altri “poteri forti” nell'attività giurisdizionale, come d'altra parte si è spesso verificata
la tendenza dei giudici di interpretare la legge in termini politici o soggettivi, cedendo alla tentazione
di trasformarsi da giudici in legislatori.
L'indipendenza della magistratura e dei singoli giudici non si ferma in proclamazioni astratte o di
principio, ma si concreta in strumenti e procedure atte a tale scopo. La Costituzione afferma in modo
inequivocabile che la dipendenza del giudice dalla legge è senza riserve, ma è anche l'unica.
IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Il C.S.M. (Consiglio superiore della Magistratura) è un organo al quale compete la tutela
dell'indipendenza organizzativa dei magistrati.
“Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica” che ne fa
parte di diritto, assieme al Primo Presidente ed al Procuratore Generale della Corte di Cassazione; la
legge 44 del 2002, stabilisce che oltre ai facenti parte di diritto il C.S.M. è composto da 24 membri
(che rimangono in carica, incompatibile con quella di parlamentare o consigliere regionale , per 4
anni, dopo i quali non sono immediatamente rieleggibili), dei quali (ai sensi dell'art. 104 Cost.) 8 sono
membri laici eletti dal parlamento in seduta comune tra “professori ordinari di università in materie
giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”, e 16 sono membri togati eletti da tutti i
magistrati ordinari tra “appartenenti alle varie categorie” della magistratura (più precisamente, 2
giudici di Cassazione, 4 giudici requirenti e 10 giudici di merito).
Il CSM elegge, sempre secondo l'art. 104, “un vice presidente fra i componenti designati dal
Parlamento”, che presiede il comitato di presidenza del quale fanno parte Presidente e Procuratore
della Corte di Cassazione.
Ai sensi dell'art. 105, “spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme
dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i
provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”; per l'art. 106 “le nomine dei magistrati hanno
luogo per concorso. La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva,
di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Su designazione del Consiglio
superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti
insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni
d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.”.
Molto importante è la funzione disciplinare, di competenza della sezione disciplinare del CSM,
composta da 6 membri elettivi e 4 supplenti, la cui azione può essere promossa oltre che dal CSM
stesso anche dal Ministro della Giustizia.
Perché le adunanze del CSM siano valide è necessaria la presenza di almeno 10 magistrati e 5
componenti eletti dal Parlamento.
LA MAGISTRATURA ORDINARIA ED IL PUBBLICO MINISTERO
La funzione giurisdizionale è esercitata innanzitutto da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle
norme sull'ordinamento giudiziario, con riserva assoluta di legge statale.
Le sentenze pronunciate dai tribunali di primo grado (che in sede civile sono il giudice di pace ed il
tribunale ordinario, mentre in sede penale sono tribunale di primo grado, tribunale per i minorenni,
Corte d'assise) possono essere impugnate in sede d'appello alla Corte d'appello (od alla corte
d'assise d'appello).
D'innanzi alla Corte di Cassazione possono essere impugnate le sentenze d'appello emesse dalla
Corte d'appello, le sentenze pronunciate in unico grado dal giudice di pace in sede civile, od i
provvedimenti penali non soggetti di per se stessi ad appello.
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Il Pubblico Ministero è un ufficio “neutrale” indipendente dall'apparato amministrativo che non ha
una vera e propria carica giurisdizionale (in quanto non è chiamato a giudicare): al P.M. spetta
assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale, ed il rispetto delle norme su
giusto processo da parte del suo ufficio. L'ordinamento conferisce al Pubblico Ministero una serie di
attribuzioni dirette ad assicurare l'osservanza delle leggi, la pronta e regolare amministrazione della
giustizia, la repressione dei reati, l'esecuzione dei giudicati. In materia civile egli esercita l'azione
civile ed interviene nei processi nei casi stabiliti dalla legge; in materia penale egli esercita azione
penale ed interviene alle udienze penali di qualsiasi ordine giudiziario.
GARANZIE COSTITUZIONALI DEL PROCESSO
Una delle maggiori garanzie dettate dalla Costituzione affinché il processo avvenga in modo legale e
corretto è quello sancito nel primo comma dell'art. 25 per cui “nessuno può essere distolto dal giudice
naturale precostituito per legge”, principio che garantisce imparzialità ed oggettività del giudizio.
Secondo l'art. 24, inoltre, è riconosciuto il diritto di azione per cui “tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, ed il diritto di difesa (cioè a far valere le proprie ragioni
contro azioni ed impugnazioni mossegli) che è “diritto inviolabile in ogni stato e grado del
procedimento.”.
La difesa avviene per mezzo di avvocato abilitati all'esercizio di tale professione e “sono assicurati ai
non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”; inoltre,
sempre a norma dell'art. 24, “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori
giudiziari.”.
Inoltre, in conformità ai trattati internazionali in materia giurisdizionale, è necessario che il processo
avvenga secondo regole ben precise, ed in particolare la sua conclusione deve avvenire in tempi
ragionevoli: l'Italia, violando anche le disposizioni affermate dalla Carta di Nizza dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea in materia giurisdizionali, è spesso stata ripresa e sanzionata per
l'eccessiva e ingiustificata lentezza dei processi.
Particolari garanzie sono previste per i processi penali: in primo luogo l'irretroattività della legge
penale; in secondo luogo la riserva di legge assoluta in materia penale; in terzo luogo, ai sensi
dell'art. 27 Cost., la responsabilità penale è personale e fino alla condanna definitiva il condannato
non può essere dichiarato colpevole
IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO REGIONALE
Le Regioni hanno potestà legislative disciplinate dalla stessa Costituzione: possono formulare i propri
statuti regionali (ovvero documenti con valore di “legge regionale speciale” riguardanti i principi
fondamentali della Regione), le leggi ed i regolamenti regionali.
Sia le procedure riguardanti l'iniziativa, sia quelle riguardanti l'approvazione sono regolati dagli Statuti
(e spesso coincidenti con le metodologie previste dai regolamenti parlamentari).
Le leggi regionali vengono deliberate dal Consiglio Regionale (e non più anche dal Governo, al quale
è comunque necessario pubblicizzare la legge sulla quale questi può porre entro 30 giorni questione
di legittimità costituzionale di fronte alla corte costituzionale). Una volta che la legge regionale è
approvata dal Presidente della Giunta, viene pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione.
I regolamenti regionali (un tempo deliberati dal consiglio) possono oggi essere emanati dalla Giunta.
POTESTA' AMMINISTRATIVA REGIONALE
La Regione esercita importanti funzioni amministrative: il nuovo testo dell'art. 118, modificato dalla l.
cost. 3 del 2001, stabilisce che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per
assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla
base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”, inoltre i “Comuni, le Province e le
Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
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Secondo il testo originario dell'art. 125 della Costituzione, il controllo statale sugli atti amministrativi
della regione era attribuito ad un apposito organo che doveva controllarne la legittimità nei modi
stabiliti dalla legge: l'assoggettamento degli atti amministrativi al controllo statale è decaduto con
l'abrogazione del primo comma dell'art. 125 stesso con la l. cost. del 2001.
Ancora, per l'art. 118, “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono
l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
GLI ORGANI DELLA REGIONE
La stessa Costituzione, nell'art. 121, afferma che “sono organi della Regione: il Consiglio regionale,
la Giunta e il suo Presidente” e, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 123 Cost. (aggiunto dalla l. cost. 3
del 2001), “il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti
locali”.
Il Consiglio Regionale è l'organo rappresentativo in via diretta della volontà popolare ed è titolare
della potestà statuaria e della potestà legislativa.
La Giunta Regionale rappresenta l'organo esecutivo delle Regioni: ai sensi dell'art. 121 “il
Presidente della Giunta rappresenta la Regione; dirige la politica della Giunta e ne è responsabile;
promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo
Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica”.
ENTI LOCALI INFRAREGIONALI
In base alle modifiche del titolo V della parte seconda operate con la l. cost. 3/2001, secondo l'art.
114 della Costituzione “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni
sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
Il Comune è l'istituzione più antica del nostro Stato (risale infatti all'epoca medievale) e di più estese
funzioni nei più diversi settori (disciplinate dal Testo Unico approvato con d.lgs. 267 del 2000).
La più recente legislazione ha rafforzato sensibilmente la funzione direzionale e decisionali del
Sindaco ed aumentato le funzioni amministrative delle giunte, lasciando al Consiglio Comunale la
decisione sugli “atti fondamentali” della legislazione.
Il Consiglio Comunale (organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo) è presieduto dal
sindaco e costituito da un numero di consiglieri (il cui numero varia dai 12 ai 60): Sindaco e
Consiglieri (eletti con sistema maggioritario) sono eletti dai residenti nel territorio comunale.
Per i comuni con più di 15000 abitanti, il sindaco viene eletto in un primo turno di elezioni per
maggioranza assoluta, e questa se non venisse raggiunta si andrebbe al ballottaggio tra i due
candidati più votati nel primo turno.
Il Sindaco ha responsabilità dell'amministrazione del Comune che rappresenta, convoca e presiede
la Giunta, sovrintende al funzionamento degli uffici e dei servizi e all'esecuzione degli atti.
La Giunta Comunale (che collabora con il Sindaco nell'amministrazione comunale) è formata da più
assessori (nominati dal sindaco, anche al di fuori del Consiglio Comunale), il cui numero (stabilito
dallo statuto) non può superare 1/3 di quello dei consiglieri, che comunque non possono essere più
di 16.
La Provincia è l'ente locale territoriale intermedio tra Comuni e Regione, ma la sua rilevanza
operativa è inferiore ad entrambi. Essa è costituita dal Presidente della Provincia, dalla Giunta
Provinciale e dal Consiglio Provinciale. Le elezioni del Presidente e del Consiglio avvengono nello
stesso modo previsto per il comune e la loro carica ha durata di 5 anni. Le funzioni della provincia
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riguardano la programmazione e l'amministrazione di servizi di interesse territoriale provinciale.
ORGANIZZAZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte Costituzionale, come affermato nell'art. 134 della Costituzione, è una magistratura
speciale con competenza esclusiva sulle questioni riguardanti la costituzionalità delle leggi e degli atti
con forza di legge, i conflitti sull'attribuzione di poteri fra Stato e Regioni o fra Regioni,
sull'ammissibilità delle richieste di referendum, ed è anche competente a giudicare le accuse mosse
contro il Capo dello Stato.
La Corte Costituzionale, come espresso nell'art. 135 della Costituzione, è formata da 15 giudici
membri (scelti tra i magistrati delle giurisdizioni superiori, sia ordinari che amministrativi, professori
universitari in materie giuridiche di prima fascia, avvocati di esercizio ultraventennale), di cui 5
nominati dal Presidente della Repubblica, 5 dal Parlamento in seduta comune, e 5 dalle supreme
magistrature ordinaria e amministrativa: tale composizione è dovuta al principio di democraticità, in
quanto tende ad evitare che la Corte Costituzionale possa diventare una “terza camera” a
rappresentanza anch'essa della maggioranza.
L'ufficio di giudice della Corte Costituzionale, non rieleggibile, ha durata di 9 anni, contati dal giorno
del giuramento, ed è incompatibile con le cariche di membro del Parlamento, di un Consiglio
Regionale, con l'esercizio della professione di avvocato, e con ogni altra carica od ufficio indicati
dalla legge.
Secondo le norme stabilite dalla legge, la Corte elegge tra i suoi componenti il Presidente della
Corte Costituzionale la cui carica ha durata triennale ed è rinnovabile (salvo scadenza dei 9 anni): il
Presidente, oltre ad avere un ruolo di rappresentanza esterna, nomina il relatore della corte
costituzionale (colui che prepara l'istruttoria nei giudizi), ed il suo parere risulta vincolante nello
stesso giudizio quando, nelle decisioni della Corte, si verifica parità nelle votazioni.
Nei giudizi contro il Presidente della Repubblica intervengono, oltre i giudici ordinari della Corte, 16
membri tratti a sorte da un elenco di cittadini elettori del Senato, che il Parlamento compila ogni 9
anni con le stesse modalità previste per la nomina dei giudici ordinari.
RICORSO IN VIA INCIDENTALE ED IN VIA PRINCIPALE ALLA CORTE COSTITUZIONALE
Il procedimento di ricorso alla Corte Costituzionale è quel ricorso il cui oggetto è la non
costituzionalità di una legge od di atto avente forza di legge.
Esso può essere svolto “in via di eccezione” (o “incidentale”) nel caso di ricorso durante un
processo, o “in via diretta” (o “di azione” o “principale”) nel caso dei rapporti fra Stato e Regione.
Il procedimento di ricorso alla Corte Costituzionale in via incidentale avviene quando, durante un
giudizio principale dinnanzi ad un'autorità giurisdizionale, avvenga la necessità di applicare una
disposizione legislativa che una parte, o il pubblico ministero, o lo stesso giudice ritenga sospetta di
incostituzionalità: in questo caso la questione di incostituzionalità si configura come incidente
processuale, come attestato dalla preliminare delibazione del giudice che accerta che la disposizione
in questione sia rilevante (nel senso che è necessario che venga risolta la questione di
costituzionalità ai fini della risoluzione del processo), e che non sia manifestamente infondata, così
da garantire che tale strumento di ricorso sia utilizzato per il suo vero scopo e non per rallentare il
processo. Il Giudice emette un'ordinanza con la quale si sospende temporaneamente il processo, in
attesa della sentenza della Corte Costituzionale, a cui sono trasmessi immediatamente gli atti.
Il procedimento di ricorso alla Corte Costituzionale in via di azione può essere iniziato dallo Stato (per
competenze riguardanti leggi regionali, o provinciali nel caso delle Provincie di Trento e Bolzano) o
dalle Regioni (e dalle Provincie di Trento e Bolzano per competenze riguardanti leggi statali) ad
esempio per invasione di competenza, qualora lo Stato abbia esercitato potestà legislativa nelle
materie di competenza regionale, od eccessi di competenza, qualora la Regione abbia violato i
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limiti di sua competenza affermati nella Costituzione.
LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Il giudizio costituzionale si conclude di regola con una sentenza che può essere: di accoglimento,
per cui la disposizione o parte di essa è dichiarata incostituzionale, o di rigetto, quando cioè la Corte
non riconosce presenza di incostituzionalità e il ricorso viene respinto.
La competenza della pronuncia della corte, oltre a riguardare la questione sollevata nel ricorso, può
essere ampliata, quando la Corte giudica contro se stessa, a questioni riguardanti l'incostituzionalità
di una disposizione da applicarsi nel proprio giudizio; o ad altre disposizioni normative, in seguito alla
dichiarata incostituzionalità di una disposizione, evitando ulteriori questioni di costituzionalità su
disposizioni consequenziali.
Le sentenze di accoglimento devono essere pubblicate immediatamente (o comunque non oltre 10
giorni), oltre che nel Deposito di Cancelleria (come le sentenze delle altre magistrature), anche
sulla Gazzetta Ufficiale (ed eventualmente sul Bollettino Regionale): ai sensi dell'art. 136 la
disposizione perde efficacia dal giorno successivo la pubblicazione della sentenza.
In caso di sentenza di rigetto, che deve peraltro essere egualmente pubblicata, l'efficacia della
sentenza ha valore esclusivo per il processo che ha sollevato la questione, per cui la questione di
incostituzionalità può essere sollevata nuovamente in altre occasioni (o addirittura nello stesso
processo, sotto però nuovi profili).
Le sentenze, oltre che di rigetto e di accoglimento, possono essere interpretative, quando
suggeriscono la corretta interpretazione della disposizione su cui è stata sollevata la questione,
additive, quando aggiungono elementi a un testo normativo (la dottrina suggerisce l'uso limitato di
tali sentenze, che consente al giudice costituzionale poteri para-normativi), e sentenze monitorie,
quando la Corte respinge il ricorso, avvertendo il Parlamento che la mancata modificazione di una
certa disciplina vigente costringerà la Corte a dichiararla incostituzionale.
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