Il melodramma ‘verista’
Per quasi tre secoli le scene dell’opera seria erano state calcate da personaggi di
nobile lignaggio (re e regine, principi e principesse), intimamente combattuti tra Ragion
di Stato, senso del dovere e passione d’amore. Contadini e servitori avevano trovato
posto solo all’interno dell’opera buffa, con esiti sempre esilaranti: se - in un teatro lirico
del ‘700 - un carrettiere siciliano di nome Alfio, geloso di sua moglie Lola, avesse
sfidato a duello il popolano Turiddu, il pubblico avrebbe pensato ad una ‘gag’ comica e
si sarebbe sbellicato dal ridere.
Qualcosa cominciò a cambiare nel 1853, quando - con grande scalpore - Giuseppe
Verdi portò al centro della scena lirica il dramma di Violetta Valery: una donna del
popolo la quale, per quanto nobilitata e riscattata dal sacrificio e dalla morte, di mestiere
faceva pur sempre la prostituta. La svolta decisiva si sarebbe avuta nel 1875 a Parigi,
dove George Bizet innalzò al rango di protagonista una zingara, sigaraia e
contrabbandiera, che predicava e praticava il libero amore, pronta a sfidare anche la
morte pur di restare coerente e fedele al proprio, discutibilissimo stile di vita. La
Carmen di Bizet inizialmente diede scandalo, ma assai presto fece scuola.
Di lì a non molto, in Italia, con l’etichetta di scuola ‘verista’ o di Giovane Scuola si
cominciò ad indicare un gruppo di compositori - Mascagni, Leoncavallo, Giordano,
Cilea, Puccini… - assai diversi tra loro per formazione, personalità e stile, ma
accomunati dalla ferma volontà di rinnovare in senso ‘realistico’ l’opera italiana, pur
nell’irrinunciabile continuità con la grande tradizione lirica ottocentesca, specialmente
verdiana.
La ‘realtà’ - nuda e cruda - da mettere in scena e in musica, fu inizialmente la stessa
descritta dalle novelle e dai romanzi di Giovanni Verga, come nel caso di Cavalleria
rusticana di Mascagni. Ma già due anni dopo, con Pagliacci, Leoncavallo - rifacendosi
al modello ‘naturalistico’ di Zola e Capuana - optava per un comunissimo caso di
cronaca nera. Quanto a Puccini, non esitò ad ambientare le sue storie in epoche remote
(come quella napoleonica, in cui si svolge Tosca) o in località esotiche (come il
Giappone, patria di Madama Butterfly), nella convinzione che, in fondo, le passioni
umane siano sempre e dovunque le stesse.
Insieme ai soggetti, inevitabilmente, cambia anche la musica: l’orchestra aumenta il
proprio organico, alza il volume e si prende sempre più spazio, irrompendo di
prepotenza nel vivo dell’azione; la vocalità, pur regalando momenti lirici di
straordinaria bellezza, tende ad avvicinarsi alle inflessioni della lingua parlata;
scompaiono i pezzi d'assieme (non essendo verosimile che tre o quattro persone parlino
contemporaneamente senza curarsi l'una dell'altra); i duetti (d’amore o di gelosia) sono
tollerati a patto che le due voci si alternino educatamente, senza sovrapporsi; abbondano
i pezzi di colore (processioni, stornelli, serenate, cori di chiesa ....), un po’ per dare il
giusto sfondo ambientale alla vicenda, un po’ per allentare, di tanto in tanto, una
tensione drammatica altrimenti insostenibile.
La critica del tempo snobbò l’opera verista e, per bocca di Fausto Torrefranca,
azzardò la previsione che di Puccini e compagni, tempo una decina d'anni, si sarebbero
perse le tracce. Mai scommessa fu più clamorosamente perduta: a distanza di un secolo
e passa, le opere ‘veriste’ sono quelle che il pubblico - italiano e non solo - ascolta,
applaude ed ama di più.
Daniela Rota