ANNO 2007 La Chiesa nell`antichità: età greco

ANNO 2007
La Chiesa nell’antichità: età greco - romana
3°
LA LOTTA CONTRO LE ERESIE
IL CONCILIO DI NICEA
IL CONCILIO DI NICEA (325)
Il primo e forse il più famoso dei concili ecumenici, celebrato a Nicea nel 325, convocato e presieduto
da Costantino, ha conosciuto recentemente un revival di interesse in seguito all’affermazione di Dan
Brown che, a Nicea, Costantino avrebbe inventato la divinità di Cristo, fino a quel momento considerato
dai fedeli semplicemente un uomo. Naturalmente, le affermazioni di Dan Brown non sono prese sul serio
da nessun studioso, ma poiché il Codice da Vinci è divenuto libro cult per una miriade di lettori,
quell’affermazione rimarrà legata per un bel po’ di tempo all’espressione “concilio di Nicea”. Non sarà
facile far ammettere ai lettori di Dan Brown che quel concilio fu radunato proprio perché qualcuno aveva
messo in discussione la divinità di Cristo.
Occorre spendere qualche parola sulle premesse della convocazione del concilio a Nicea. Nel 312,
Costantino aveva vinto la cruciale battaglia del Ponte Milvio a Roma, dove l’avversario Massenzio era
stato sconfitto e ucciso in combattimento. Costantino non amava Roma e appena poté si trasferì a Milano,
dove fu pubblicato il noto editto che, riprendendo un testo pubblicato a Nicomedia nel 311, concedeva ai
cristiani lo statuto di religio licita, ossia la libertà di culto. L’editto di Milano comportava la restituzione
delle proprietà confiscate ai cristiani nel corso dell’ultima persecuzione, peraltro la peggiore di tutte.
Perciò a Roma iniziò l’edificazione, a spese del fisco, del palazzo e della basilica del Laterano su un
terreno donato da Fausta, moglie di Costantino. Poi iniziò la costruzione delle basiliche cimiteriali di San
Pietro sul colle Vaticano e di San Paolo fuori le Mura sulla via Ostiense. Sulla via Tiburtina fu edificata la
basilica di San Lorenzo; sulla via Labicana la chiesa dei santi Pietro e Marcellino e, forse, sulla via
Nomentana la chiesa di sant’Agnese. Elena, madre di Costantino, presiedette a tutte queste costruzioni,
che avevano anche il compito di rilanciare l’economia dopo i disordini della guerra civile.
La questione se Costantino fosse o meno cristiano è di estrema complessità. I cristiani erano convinti
della sua conversione, dato l’epocale cambiamento avvenuto tra Diocleziano e Costantino nella politica
imperiale. Costantino scelse il retore cristiano Lattanzio come istitutore del figlio Crispo; tra il 320 e il
324 la sua legislazione è caratterizzata da grande attenzione per l’equità, per il rispetto della persona
umana. Costantino appartiene alla dinastia degli imperatori illirici, iniziata con Claudio II il Gotico.
Costoro professavano un tendenziale monoteismo (la divinità è unica anche se sono molte le
denominazioni sotto cui si manifesta). L’unicità del sole, come fonte di calore e di luce per l’universo,
suggeriva la presenza di uno spirito divino da cui l’universo è governato. Dopo aver unificato la parte
occidentale dell’Impero ed aver stabilito un’alleanza matrimoniale con Licinio, che a sua volta aveva
unificato la parte orientale dell’Impero romano, occorreva ora garantire la pace interna.
Nella comunità cristiana, appena cessata la persecuzione, comparvero dissensi. Il più grave aveva
avuto luogo a Cartagine dove Donato, vescovo rigorista che negava la possibilità di perdonare la colpa di
apostasia, aveva promosso uno scisma nei confronti del vescovo Ceciliano, dando vita a una Chiesa
scismatica, diffusa in Africa e durata un secolo, fino al 411, quando sant’Agostino riuscì in una disputa
pubblica a confutare le tesi donatiste. Costantino, per evidenti motivi politici, non tollerava che tra
cristiani avvenissero divisioni che in qualche misura potessero configurarsi come una secessione,
temendo che dal dissenso religioso si passasse al dissenso politico. Ad Arelate (Arles) in Gallia,
Costantino fece celebrare un concilio dei vescovi dell’Occidente, ai quali concesse l’uso gratuito del
cursus publicus, ossia della posta, per il loro trasferimento. Come si è detto, l’obiettivo di Costantino ad
Arelate non fu raggiunto.
Forse non è superfluo ricordare che il regime politico di Costantino è sulla linea del dominatus, ossia
l’imperatore si presenta come dominus ac deus, non più come supremo magistrato che governa in base a
una elezione da parte dei comizi. L’imperatore è scelto dalla divinità e nulla o nessuno lo può limitare
nell’esercizio del potere. Certamente non il papa Silvestro, informato del concilio di Arelate mediante una
lettera sinodale, che gli notificò le decisioni di quel concilio, non ecumenico, perché Costantino non
aveva ancora conseguito il controllo dell’Oriente avvenuto in seguito alla sconfitta di Licinio del 324.
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Gli inizi dell’arianismo
Nel 323 il presbitero Ario, preposto alla chiesa del quartiere di Baucali, cominciò a sostenere nella sua
predicazione una tesi inusitata nella Chiesa di Alessandria, che vantava una fondazione apostolica
avvenuta con san Marco, discepolo e collaboratore di san Pietro. Con la fondazione del Didaskaleion, la
nota scuola catechetica illustrata da Clemente Alessandrino e da Origene, Alessandria era divenuta
capofila di una scuola teologica di enorme importanza. Può essere importante ricordare che l’accordo
teologico tra Alessandria e Roma fu pressoché completo fino al concilio di Calcedonia del 451.
Ario non si era formato nella scuola teologica di Alessandria. Egli era originario della Cirenaica e si
considerava discepolo di Luciano, un maestro acclamato della scuola teologica di Antiochia, attestata su
posizioni esegetiche maggiormente legate al realismo storico piuttosto che all’allegoria, come avveniva
ad Alessandria o, detto in altri termini, più incline al razionalismo e all’influsso della filosofia. Luciano di
Antiochia era morto martire nell’ultima persecuzione e perciò era circondato anche da un culto riverente.
Ario godeva di notevole prestigio, era colto e sapeva ricorrere a una rete di conoscenze che aveva saputo
allacciare perfino con Costanza, sorella di Costantino. Quando l’eco della sua predicazione non poté più
rimanere nascosta, il vescovo Alessandro lo citò in pubblico contraddittorio. Messo alle strette, Ario
affermò che Cristo è inferiore al Padre e dunque ci fu un tempo in cui non era, e perciò egli non era
generato, bensì fatto dal Padre, come tutte le altre creature. L’obiezione capitale mossa ad Ario fu che se
Cristo non era anche Dio come il Padre, allora il suo sacrificio sulla croce non avrebbe liberato l’umanità
dalla sua colpa e perciò la Redenzione non sarebbe ancora avvenuta.
Il vescovo Alessandro dichiarò eterodossa la tesi di Ario e procedette alla sua scomunica,
comprendente anche due vescovi e sei presbiteri egiziani che si erano dichiarati per Ario. Questi ricorse
alle sue relazioni, chiamando a raccolta i Collucianisti, ossia i discepoli di Luciano di Antiochia. Si recò a
Cesarea di Palestina, trovando sostegno e consensi da parte di Eusebio, il grande storico della Chiesa, che
a sua volta era amico di un altro Eusebio, vescovo di Nicomedia, in quel momento con funzioni ancora di
capitale dell’Impero romano d’Oriente. A Nicomedia, le decisioni del vescovo Alessandro furono
giudicate eccessive, non ben ponderate, frutto di precipitazione. Con tutta probabilità, si scontravano tra
loro due scuole teologiche, due visioni diverse del rapporto da tenere col potere imperiale, ossia due
visioni della Chiesa, con Alessandria disposta a prendere le distanze dal potere politico, mentre
Nicomedia e poi Costantinopoli, quando diverrà la nuova capitale, si dimostreranno pronte a subire ogni
tipo di interferenza de potere politico. Si deve supporre che l’onere finanziario a carico delle diocesi per
far fronte all’assistenza dei cristiani, fosse tanto cresciuto da non poter fare a meno dell’aiuto statale.
Costantino non mancò di assegnare fondi cospicui anche al papa, ma per avere una contropartita, ossia la
costante adesione dei vescovi agli ordini imperiali.
L’intervento di Costantino
Il vescovo di Cordova Osio fungeva in quel momento da consigliere imperiale per gli affari
ecclesiastici. Di fronte all’ingiunzione inviata al vescovo Alessandro di riaccogliere i vescovi, e i
presbiteri scomunicati insieme con Ario, nella sua diocesi rimettendoli nei posti occupati in precedenza,
Osio fece intervenire l’imperatore Costantino.
Dal punto di vista politico, il dissenso tra i due patriarcati di Alessandria e di Antiochia era grave,
perché quelle due province erano le più importanti dell’Impero. In Egitto la produzione di frumento
eccedente i consumi locali rendeva possibile il mantenimento semigratuito della plebe di Roma e poi di
Costantinopoli. In Siria era concentrata la produzione industriale al servizio degli eserciti romani.
Tuttavia, in Siria e in Egitto il superstrato ellenistico comprendeva solamente i ceti elevati della
popolazione, che negli strati bassi aveva conservato la lingua copta e aramaica. Nel corso delle crisi
economiche e politiche, la parte meno abbiente della popolazione rivelava tendenze centrifughe rispetto
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all’impero. I vescovi, nel corso di carestie o guerre, prendevano le parti dei loro fedeli, vessati fino a esser
ridotti all’indigenza da un sistema fiscale, divenuto sempre più intollerabile specialmente da parte dei ceti
popolari.
Di fronte all’agitazione di vescovi di Siria ed Egitto, Costantino prese la decisione di convocare, a
spese del fisco, tutti i vescovi di Oriente e di Occidente, ora che aveva il controllo dell’intero Impero
romano. Nella lettera di convocazione, Costantino dimostra di non aver capito l’importanza del dissenso
tra ariani e antiariani, affermando che si trattava di una questione di parole, che nessuno voleva attentare
all’unione esistente nella Chiesa. Il successo del concilio di Nicea si deve probabilmente al fatto che nel
dicembre 324 morì il vescovo di Antiochia, Filogono, sostituito dal vescovo Eustazio di Berea trasferito
ad Antiochia. Eustazio era un deciso sostenitore dell’ortodossia come Alessandro.
I partecipanti al concilio
Le varie fonti danno un numero di vescovi partecipanti ai lavori del concilio abbastanza variabile.
Eustazio accenna a 270 vescovi; Eusebio di Cesarea parla di 250 partecipanti; Atanasio di Alessandria li
fa ascendere a 300. Più tardi invalse l’uso del numero 318, un poco sospetto perché è il numero dei
servitori di Abramo condotti all’inseguimento dei cinque re che avevano saccheggiato i beni di Lot.
In un primo tempo era stata scelta la sede di Ancira (Ankara) come luogo di raduno dei vescovi.
Costantino scelse Nicea, sul Mar di Marmara in Bitinia, perché più accessibile a chi giungesse
dall’Occidente. In realtà, quasi tutti i vescovi venivano dall’Oriente, perché solamente in quell’area era
comparso il problema. Il papa Silvestro inviò due presbiteri in sua rappresentanza. Dall’Occidente in tutto
arrivarono sei vescovi. Tra i presenti c’erano alcuni confessori, ossia testimoni della fede, che avevano
subito torture nell’ultima persecuzione, terminata vent’anni prima. Tra costoro c’era il vescovo di Cipro
Spiridione.
Lo svolgimento dei lavori conciliari
I lavori iniziarono il 20 maggio 325 e ufficialmente durarono fino al 19 giugno, quando fu sottoscritta
la professione di fede, anche se in realtà le riunioni proseguirono fino al 28 luglio dello stesso anno. Nicea
era molto vicina alla residenza estiva di Costantino, che volle essere presente nel corso delle sessioni
solenni del concilio.
I vescovi si divisero a seconda dei loro convincimenti. I filoariani formavano un gruppo piccolo, ma
piuttosto influente a corte. Essi avevano come portavoce Eusebio vescovo di Nicomedia, capitale
dell’impero ancora per pochi anni. In seguito si fece trasferire a Costantinopoli, la città che Costantino
fece erigere sopra l’antica Bisanzio. Dal puinto di vista ecclesiastico, quest’ultima città era del tutto
secondaria, perché non vantava fondazione apostolica e il suo vescovo era suffraganeo della metropoli di
Eraclea. Era chiaro che la presenza dell’imperatore avrebbe innalzato il livello di importanza ecclesiastica
della nuova capitale. Esisteva un secondo gruppo di vescovi desiderosi di professare la fede dei padri
senza nulla innovare, diffidenti nei confronti della filosofia e quindi ostili all’impiego di termini che non
avevano una chiara origine biblica. Con difficoltà ora comprendiamo la passione per le dispute pubbliche
condotte da retori e filosofi che argomentavano facendo acrobazie sillogistiche ( i tolk show attuali sono
una pallida immagine di quelle dispute). I vescovi di questo gruppo temevano la riduzione della fede a
filosofia, evidentemente una possibilità non auspicata. Il terzo gruppo, che si rivelò maggioritario, era
deciso a utilizzare anche la filosofia pur di arrivare a una formulazione della fede trinitaria da considerare
in qualche modo definitiva.
Pur non essendo vescovo, Ario fu ammesso ad esporre le sue tesi. Quando Ario, incapace di
ammettere che in Dio c’è unità di natura e trinità di persone tra loro uguali e distinte, affermò che ci fu un
tempo in cui il Logos non era, l’assemblea rumoreggiò inorridita. Atanasio, allora perito conciliare e
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futuro vescovo di Alessandria, prese la parola dimostrando che se Cristo non fosse stato anche vero Dio,
la Redenzione non sarebbe avvenuta e l’umanità si troverebbe ancora sotto le catene dell’antico peccato.
Eusebio di Nicomedia presentò allora una formula estremamente vaga che poteva essere sottoscritta da
tutti, perché evitava di affrontare il problema (il tipico compromesso per cui le proprie opinioni non
vengono rettificate, anche a costo di affermare che nelle professioni di fede c’è quello che
soggettivamente ciascuno vi mette).
Poiché era chiaro che Costantino esigeva una soluzione in grado di soddisfare le attese di tutti, fu
accettata la proposta di Eusebio di Cesarea di Palestina, il primo grande storico della Chiesa, che presentò
la professione di fede in uso nella sua diocesi. Essa fu approvata dopo aver apportato alcune modifiche:
“crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente, Creatore di tutte le cose, visibili e invisibili. E in un solo
Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito del Padre; Dio da Dio, luce da luce, vero Dio dal vero
Dio, generato e non creato, consustanziale al Padre”. Da notare l’espressione “Figlio di Dio” in luogo di
Logos, e il termine “Unigenito” che rafforza la divinità di Cristo e, infine, “della stessa sostanza”
(omousios), un termine filosofico, non biblico, ma che aveva il compito di risultare inequivocabile per
coloro che, sulla scorta del neoplatonismo dominante in quell’epoca, immaginavano il Logos come un
eone discendente dall’Uno, insomma una sua degradazione, come accade in ogni emanatismo. Anche le
ripetizioni “luce da luce”, “Dio vero dal Dio vero” confermano la volontà di evitare ogni possibile
equivoco circa la natura divina di Cristo, evidentemente non inventata a Nicea, bensì ribadita dopo la
confutazione di Ario.
Ellenismo e messaggio biblico
L’affermazione di Gesù Cristo, definito come Figlio di Dio, si opponeva al monoteismo giudaico, al
politeismo pagano e in particolare al monoteismo filosofico della cultura greca. Infatti, l’ellenismo era il
substrato culturale dominante in quell’epoca e il concetto base della lotta contro le eresie fu che i Padri
difesero la fede facendo “prevalere la novità e l’originalità del kerygma neotestamentario sulla visione
filosofico-religiosa della cultura del tempo”. Eppure seppero trovare proprio in questa cultura un modo
ottimale di espressione e di approfondimento della fede cristiana. A Nicea si effettuò il passaggio dal
kerygma al dogma (dalla narrazione alla spiegazione) per poter ribadire alcuni punti fermi teologici. Tutto
ciò fu necessario perché, anche per gli ariani, la base delle loro teorie era, o meglio pretendeva di essere,
la Sacra Scrittura, che perciò rischiava di risultare potenzialmente ambigua. Fu scelto perciò un nuovo
atteggiamento di difesa, quello di fissare la spiegazione teologica di un contenuto, di un kerygma,
mediante linguaggio e contenuti ben precisi (le citazioni sono desunte dal testo di F. MAZZOTTA, Il
mistero del Dio creatore uno e trino. Dispense ad uso degli studenti, Pontificia Università della Santa
Croce, Roma 2003). Con ciò non è avvenuta una ellenizzazione del cristianesimo, come sostenuto da
alcuni, bensì la felice utilizzazione di un linguaggio filosofico per opporsi a chi intorbidava il senso del
messaggio cristiano ricorrendo in modo subdolo al linguaggio filosofico.
Le radici lontane dell’arianismo
Ario era stato discepolo di Luciano di Antiochia, a sua volta allievo di Paolo di Samosata, vescovo di
Antiochia. La vicenda di quest’ultimo va riconsiderata perché illumina certi contorni dell’arianismo.
Paolo di Samosata fu destituito dalla carica da un concilio di vescovi della sua provincia ecclesiastica
perché accusato di non ribadire, nel suo insegnamento, che Cristo è vero Figlio di Dio. Questi fatti
accadevano nel 268. La situazione politica della Siria e dell’Egitto in quell’epoca era peculiare. Dal 260,
anno della sconfitta e prigionia dell’imperatore Valeriano, fino al 272, quando Aureliano le recuperò, le
province di Siria ed Egitto rimasero sotto il controllo di Odenato e Zenobia, regina di Palmira. Rimasta
vedova, Zenobia esercitò il potere in nome del figlio Vaballato. C’è un particolare importante, Zenobia
era ebrea e, in quanto tale, a lei andava benissimo un cristianesimo secondo cui Cristo fosse solamente un
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uomo. Si è già accennato al fatto che l’assistenza cristiana esigeva un impegno finanziario, che poteva
essere affrontato solamente se le relazioni del vescovo di Antiochia con Zenobia erano buone.
Se ci chiediamo perché Costantino e poi il figlio Costanzo II e infine l’imperatore Valente si siano
dichiarati per l’arianismo, occorre ammettere che quell’eresia apparisse più funzionale al potere politico
rispetto all’ortodossia. Infatti, se Cristo è solamente un uomo, allora i papi e i vescovi sono semplici
rappresentanti di un uomo e l’imperatore in terra non ha alcuno che gli sia pari. L’arianismo ebbe
successo tra le popolazioni germaniche, che così poterono avvalersi di una specie di Chiesa nazionale,
dipendente unicamente dal re.
Il concilio si concluse di fatto colla proclamazione del Credo, al quale mancava, rispetto all’attuale,
solamente l’ultimo versetto relativo allo Spirito Santo, l’acquisizione del concilio di Costantinopoli del
381.
A Nicea furono dibattuti anche altri problemi, per esempio fu stabilita definitivamente la data per la
celebrazione della Pasqua (la prima domenica che cade dopo il plenilunio di primavera), passando sopra
la tenace resistenza di coloro che mantenevano l’uso di celebrare la Pasqua il quattordicesimo giorno del
mese di nisan, secondo una tradizione che risaliva a san Giovanni. Attaccate a quell’uso erano soprattutto
le città dell’Asia Minore, tenendo vivo un contenzioso che durava fin dalla metà del II secolo.
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