Aspettando Godot

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Recensioni teatrali | Teatro.Persinsala.it
Alessandro
Alfieri
maggio 3, 2016
Il Teatro Ghione offre al suo pubblico una bella versione
di Aspettando Godot, opera monumentale della modernità,
che mette in luce la nostra triste condizione di esseri umani.
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Quando nel 1953, al Théȃtre de Babylone, andò in scena la prima assoluta
di Aspettando Godot, il pubblico e i critici restarono interdetti, per
quanto in molti riuscirono a intuire già all’epoca la portata rivoluzionaria di
quella pièce, destinata a diventare un punto di riferimento paradigmatico
per tutto il teatro della seconda metà del Novecento. Infatti, l’interrogativo
che assillò molti all’epoca, e che continua ancora oggi a ronzare nel
pensiero e nell’immaginario collettivi in occasione di una nuova messa in
scena del capolavoro di Beckett, è ovviamente: ma chi è Godot? Si dice
che in occasione della prima, molti giornalisti e spettatori si affrettarono a
recarsi dal drammaturgo irlandese per domandare direttamente a lui chi
fosse Godot: Dio? La morte? La rivoluzione? La risposta di Beckett è
divenuta celebre, anche perché carica di significato proprio ai fini
interpretativi dell’opera: «Io chi sia Godot veramente non l’ho mai saputo,
so però che ciò che conta nel titolo non è Godot, bensì Aspettando».
In questa battuta, è contenuto il valore etico e spirituale di un’opera
apparentemente inconcludente e nichilista, claustrofobica e per questo, a
primo acchito, intrisa di disperazione; eppure, in quella circolarità senza
tempo, dove gesti e parole si susseguono e si ripetono in un luogo astratto
abbandonato nell’insignificanza più cupa, riluce il significato morale
dell’attesa indefinita come unica opportunità di relazionarsi a un’esistenza
completamente abbandonata dal senso. Il significato filosofico, morale,
artistico nel senso più ampio di Aspettando Godot è attestato dalla sua
presenza costante nei cartelloni dei teatri di mezzo mondo ancora oggi;
così è per il Teatro Ghione e per la versione diretta da Claudio Boccaccini,
firma autorevole del teatro italiano degli ultimi decenni, che si relaziona al
testo abissale di Beckett con doverosa e autentica devozione. La messa in
scena appare “scolastica” nel senso buono del termine: nessun guizzo
stravagante, nessuno stravolgimento, lo spettacolo restituisce la
quintessenza beckettiana specie nella scenografia, caratterizzata da
quell’ammasso di spazzatura che è l’ambiente statico “abitato” da
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Vladimiro ed Estragone, così come l’albero che come un ragno morto
esprime al meglio la desolazione dell’anima tanto dei protagonisti quanto
di chiunque vive su questa terra, costretto all’attesa e che solo nell’attesa
può trovare un barlume di senso.
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Ma torniamo alla versione del Ghione: ottimo il disegno luci, che più di una
volta ammicca allo stile manierista ed espressionista di un Bob Wilson,
come quando il blu del cielo notturno si staglia sui profili completamente
anneriti dei personaggi, ridotti a sagome; oppure quando il colore rosso
taglia la scena, illuminata solo in parte, o ancora quando i lancinanti
monologhi di Pozzo e Vladimiro magnetizzano la luce testimoniando come
ciò che stiamo vedendo non è una parodia clownesca o un mero
divertissment da cabaret. Questo è il rischio a cui incorre ogni messa in
scena di Beckett e Boccaccini tocca questo rischio ma riesce a salvarsi per
un pelo: Beckett non deve far ridere, al massimo concede un sorriso
smorzato molto più vicino alla malinconia che all’allegrezza. I dialoghi
sconclusionati dei protagonisti si presterebbero alla deriva cabarettistica e
il rischio è accentuato dalla scelta (infelice) di far recitare i due interpreti
in dialetto (napoletano Estragone, ciociaro-romanesco Vladimiro); e lo
stesso Pozzo, un magnifico Riccardo Barbera, forse fa più ridere di quanto
dovrebbe. Però, il rischio di snaturare il testo per condurlo al gusto del
pubblico, come detto, viene scongiurato da come il regista costruisce la
scena attorno ai fulminanti monologhi, di Pozzo come di Estragone; questi
monologhi sono l’autentico contenuto di verità di tutta l’opera ed
evidenziano il significato autentico del riso che eventualmente abbiamo
accennato in precedenza. Diventa evidente in quelle parole, infatti, come
ciò a cui stiamo assistendo sia una tragedia, la tragedia dell’esistenza
umana e se ne abbiamo riso è perché in fondo la nostra permanenza su
questo mondo è a suo modo ridicola proprio perché senza speranza. Ciò
che resta è “attendere”.
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Ghione
Via delle Fornaci, 37 – Roma
dal 19 al 30 aprile
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di Samuel Beckett
regia Claudio Boccaccini
con Pietro De Silva, Felice Della Corte, Roberto Della Casa, Riccardo
Barbera, Francesca Cannizzo
musiche originali Massimiliano Pace
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